Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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LA MAFIA

 

DELL’ANTIMAFIA

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

PRESENTAZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA MAFIA FIGLIA DEL PROIBIZIONISMO E DELLA BUROCRAZIA.

LA MAFIA DEL COPYRIGHT.

IL METODO MAFIOSO.

IL DIO DEI MAFIOSI E DEGLI ANTIMAFIOSI.

L'ANTIMAFIA DELLE POLTRONE.

LA CONFISCA DI PREVENZIONE “ANTIMAFIA” ALLARGATA O PER SPROPORZIONE: PER PERICOLOSITA' SOCIALE.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

L'OBLIO MAFIOSO DEI DEPOSITI GIUDIZIARI: SPRECO E SPECULAZIONE.

LA MAFIA DELLE MAFIE.

ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

SCATENATI CONTRO CATENO...

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

IL PAESE DELLA MAFIA SECONDO ME O DELLA MAFIA FAI DA TE.

MAFIOSI? NOI NO!!!

DA MAFIA CAPITALE A MAZZETTA CAPITALE.

CODICE ANTIMAFIA E MISURE DI PREVENZIONE. PADRI E PADRINI.

NEL LABIRINTO DELLE STRAGI. TALPE, SPIE, TRADITORI.

LA MAFIA DENTRO LO STATO.

COMMEMORAZIONI ANTIMAFIA. RETORICA ED IPOCRISIA.

ANTIMAFIA CONNECTION. L'IPOCRISIA DELLE RICORRENZE.

MAFIA ONLUS.

PIOGGIA DI MILIONI SULL’ANTIMAFIA (FAI E LIBERA). PON SICUREZZA, GESTIONE DEI BENI CONFISCATI, FINANZIAMENTI ALLE COOP.

IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE.

IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE.

ANTIMAFIA. COME SPENDE I SOLDI E COME CERCA DI FARE AFFARI...

LE TRATTATIVE DEGLI ANTIMAFIOSI.

LA MAFIA, LE SCORTE ED I DIFFAMATORI.

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

LEONARDO SCIASCIA E LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

I GENDARMI DELL’ANTIMAFIA.

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA.

GLI EDITTI MEDIATICI DELL’ANTIMAFIA.

LE LISTE DI PROSCRIZIONE.

LA SOCIETA’ FOGGIANA. LA MAFIA INNOMINABILE.

LE MAFIE SCONOSCIUTE: LA STIDDA SICILIANA ED I BASILISCHI LUCANI.

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

IL TERRORISMO ISLAMICO E LE MAFIE ITALIANE SONO IN AFFARI?

IL CIRCO DELL’ANTIMAFIA. RETORICA E ILLEGALITA’.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

TUTTE LE MAFIE CHE SPECULANO SULLA SALUTE.

LA CRICCA DEI GIORNALISTI ANTIMAFIA.

ALTRO CHE STATO-MAFIA. MAFIA-APPALTI. QUELL'INCHIESTA NON S'HA DA FARE.

VOTO DI SCAMBIO E LE IMPUNITA’ DELLE PROMESSE ELETTORALI.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

IL SUD TARTASSATO.  

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

LA MAFIA SIAMO NOI!

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

COMMISSIONE BICAMERALE ANTIMAFIA? MA MI SI FACCIA IL PIACERE…..

LA COMMISSIONE ANTIMAFIA LOTTIZZATA DAI PARTITI.

ALL'ESTERO. LA MAFIA C'E', MA SI TACE.

COME PARLANO LE MAFIE.

GLI SPADA AD OSTIA. NON MAFIA CAPITALE, MA MAFIA LITORALE.

LA MAFIA CINESE.

LA MAFIA DELLE ASTE GIUDIZIARIE.

MAI DIRE ANTIMAFIA. QUELLI CHE SONO ANTIMAFIOSI. QUELLI CHE SONO PER LA LEGALITA'.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

IL RACKET DEGLI APPALTI.

L'ANTIMAFIA E' MORTA. VIVA L'OLTREMAFIA.

LA MAFIA, L’ANTIMAFIA, L’OLTREMAFIA: CHI POTREGGE MATTEO MESSINA DENARO?

NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

PINO MANIACI E LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

QUALE VERITA' SU SALVATORE GIULIANO?

MAFIA. PRESTANOMI E RICICLAGGIO. L'ONESTA' DELLA SOCIETA' CIVILE.

LA VERA MAFIA: LO STATO ESTORTORE E CORROTTO.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

SONO PROCURE O NIDI DI VIPERE?

IL CAPITANO ULTIMO AVVERTE: STATE ATTENTI DA UNA CERTA ANTIMAFIA.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

PARLANO ANTONIO IOVINE E CARMINE SCHIAVONE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.

COSE NOSTRE. C'era una volta l'antimafia.

CIANCIMINO ED IL TESORO RUMENO: QUELLO CHE LA STAMPA ITALIANA NON DICE.

I BENI CONFISCATI? “ROBA NOSTRA”.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

LE OMBRE DEL CASO SAGUTO: “CHE FINE HANNO FATTO LIBERA, ADDIOPIZZO E TUTTI QUELLI CHE PER MOLTO MENO SCENDONO IN PIAZZA?”

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

LIBERA DI DON CIOTTI: “PARTITO MAFIOSO, CRIMINALE E PERICOLOSO”.

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. DON CIOTTI. IL FUSTIGATORE ANTIMAFIA.

E POI…ROBERTO SAVIANO.

GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.

LE CAROVANE ANTIMAFIA.

LOTTA ALLA MAFIA: IPOCRISIA E DISINFORMAZIONE, OSSIA LOTTA DI PARTE O DI FACCIATA.

A PROPOSITO DI ANTIMAFIA MILITANTE.

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

TUTTE LE MAFIE CHE SPECULANO SULLA SALUTE.

Le mafie in farmacia: così i clan si arricchiscono con furto e spaccio di medicine. Sostanze per milioni di euro destinate ai pazienti italiani vengono rapinate dalla criminalità organizzata e rivendute in Germania: è la nuova frontiera del crimine. Mentre i nostri ospedali rischiano di restare senza antitumorali e ai malati tedeschi arrivano sostanze contraffatte o scadute, scrive Elena Testi il 27 agosto 2018 su "L'Espresso". Lungo la A16, in direzione Cerignola Ovest, non passa un’auto. Attendono nascosti dietro il guard rail. L’assalto è stato organizzato da tempo. Conoscono tragitto e targa del tir, ma soprattutto hanno tra le mani la lista del carico che trasporta: farmaci antitumorali e - in minima parte - medicinali da banco. Sono le 4.30 del mattino del 4 luglio. Il volto coperto. Tra le mani fucili e pistole. Gli autisti riescono a percepire solo qualcosa di anomalo prima che l’assalto paramilitare venga messo in atto. I conducenti scendono con le mani alzate. Gli assalitori sequestrano l’autotreno e percorrono dieci chilometri esatti. Si fermano in una strada di campagna, utilizzano cesoie idrauliche per smembrare il cassone e lasciarlo vuoto. Un bottino da un milione di euro. Ad agire è un commando assoldato da un’organizzazione criminale che sa dove piazzare i farmaci e come reimmetterli nel mercato europeo del “parallel trade” farmaceutico. In sé legale, ma facile da infiltrare grazie a meccanismi di falsa fatturazione e operatori disinvolti. Parte così dall’Italia la catena criminale dei farmaci rubati e mette a rischio vite umane sia in nel nostro Paese sia all’estero.

Il mercato parallelo. Per “parallel trade” s’intende la libera circolazione, all’interno del mercato europeo, di un medicinale autorizzato. Ciò significa che uno stato membro Ue può vendere un farmaco a prezzi vantaggiosi a un altro paese. E il naturale acquirente è la Germania, dove i prezzi degli antitumorali sono molto più costosi che in Italia e in Grecia. Ad esempio, a Berlino a comprare sono ospedali e cliniche che per problemi di budget preferiscono la convenienza alla sicurezza. E proprio in questi giorni nella regione del Brandeburgo è scoppiato lo scandalo: un giro di arresti e un grossista, LunaPharm, che dal 2015 ad oggi, ha introdotto farmaci salvavita all’inizio sottratti ad Atene e più recentemente al Sistema Sanitario italiano, togliendo le cure ai nostri pazienti malati di cancro. Il rischio adesso è per la salute dei pazienti che ne hanno fatto uso, visto che i medicinali venduti dalle organizzazioni criminali potrebbero essere, come già successo in passato, contaminati, diluiti o trasportati a temperature che ne eliminano il principio attivo, rendendo le cure completamente inutili. Come denuncia Aifa in un suo libro bianco: «Introducono rischi di indisponibilità delle cure per i cittadini italiani e - dove riutilizzati - diventano pericolosi a causa dell’uscita dal controllo della corretta conservazione». Tradotto: i farmaci anti-tumorali vengono tolti ai pazienti malati di cancro in Italia e rivenduti inefficaci a quelli tedeschi.

Gruppi criminali specializzati. È dunque lungo l’autostrada dei due mari, quella che taglia l’Italia a metà e collega il Tirreno all’Adriatico, che si è consumato l’ultimo assalto a un tir che trasportava medicinali salva-vita. Le rapine sembravano essersi fermate dopo la prima crisi, quella esplosa tra il 2012 e il 2014, grazie all’operazione internazionale, soprannominata Volcano e coordinata dall’Agenzia italiana del farmaco. Non solo assalti ben studiati agli autotrasportatori, ma anche furti mirati agli ospedali. Secondo lo studio pubblicato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dall’Università degli Studi di Trento, in Italia tra il 2006 e il maggio del 2014, un ospedale su 10 ha registrato furti di farmaci con una perdita media di circa 330 mila euro per ogni colpo andato a segno, soldi e medicinali sottratti al sistema sanitario nazionale. Il 55 per cento erano antitumorali. La pausa è durata tre anni, il tempo - per i criminali - di rigenerarsi e studiare nuovi meccanismi per superare i controlli. Da pochi mesi le bande hanno ripreso gli assalti ai tir e le razzie nelle farmacie ospedaliere in Italia. Dall’inizio del 2018 sono stati già rubati milioni di euro in salvavita, gli ultimi ritrovati grazie all’indagine coordinata dal sostituto procuratore di Foggia Francesco Diliso. Su un documento pubblicato da Sifo (Società italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende ospedaliere) si legge: «Gli investigatori sono sempre più convinti che una parte non trascurabile dei furti commessi ai danni di ospedali e farmacie sia opera di gruppi criminali specializzati». E ancora: «Le ipotesi investigative sono confermate da dati incontrovertibili che fanno presumere la presenza delle organizzazioni criminali mafiose». A confermare queste parole c’è un’indagine della Dda di Bologna, coordinata dal pubblico ministero Enrico Cieri. Nell’inchiesta, partita nel 2014 collegata ai 14 filoni della operazione Volcano, è emerso un legame tra le organizzazione criminali dei farmaci e il clan Licciardi, potente e spietata famiglia della camorra napoletana. Nelle intercettazioni telefoniche si parlava di soldi: cifre su cifre per poter operare nel loro territorio. Secondo la difesa si trattava “solo” di pizzo, per l’accusa di un legame tra i grossisti e il clan camorristico.

‘Ndrangheta protagonista. Ma gli investigatori tedeschi ipotizzano che anche la ‘ndrangheta possa avere addirittura una parte da protagonista nei traffici. A realizzare i furti ai danni dei pazienti italiani, con fiale che possono costare da 1.500 euro fino a 15mila, sono infatti bande specializzate assoldate da organizzazioni criminali che conoscono bene i sistemi tedeschi. Dalle inchieste si è scoperto che sono circa 200 i cognomi in odor di mafia residenti in Germania. Le autorità tedesche hanno detto apertamente di «temere la presenza della mafia» dietro ai traffici di medicinali. Ed è uno dei motivi che ha spinto gli investigatori di Berlino, i primi di agosto, a contattare l’Agenzia del farmaco italiana, che già da tempo ha apertamente messo in guardia su questi rischi, spiegando che in teoria nessun antitumorale potrebbe uscire dal nostro sistema sanitario nazionale, perché sono tutti ceduti in via esclusiva alle farmacie ospedaliere. I clan calabresi, strutturati e ben organizzati, sono da tempo presenti sul territorio tedesco. Un porto sicuro, visto che lì non esiste il reato di associazione mafiosa. Sono loro, insieme alla camorra campana, ad agire sotto traccia. E non è un caso che in Calabria i megafurti di farmaci nell’ultimo periodo siano aumentati: cinque accertati solo negli ultimi due mesi. Più in generale, rapine e stoccaggi avvengono soprattutto nel sud Italia: tra Campania, Calabria, Sicilia, la provincia di Foggia e quella di Bari. Il meccanismo è studiato ad hoc: si infiltrano tra il personale delle strutture sanitarie o corrompono quello già in servizio. Per gli assalti ai tir si appoggiano alle bande specializzate locali. Come quello alla farmacia dell’ospedale Gravina di Caltagirone (Catania), dove il 21 aprile scorso sono state rubate centinaia di confezioni di farmaci chemioterapici. Sono entrati nei locali a notte fonda e hanno svaligiato solo uno dei tre frigoriferi presenti, quello contenente - appunto - i chemioterapici. Nel distretto socio-sanitario di Bitonto (provincia di Bari), il 9 luglio scorso sono state portati via 470 mila euro di anti-tumorali. Anche in questo caso sapevano dove andare a cercare. Un altro colpo a San Marco Argentano (Cosenza) e questa volta la cifra è più bassa: 90 mila euro. Ma il centro Italia non rimane immune alla razzia: è il 19 maggio scorso quando gli operatori sanitari spalancano le porte del mega deposito dell’Estar in via Genova a Grosseto e si accorgono che mancano tre milioni di medicinali, quasi tutti destinati ai malati di cancro. Un furto studiato in ogni dettaglio, dai sistemi di sicurezza fino alle abitudini di chi vive vicino al deposito. Hanno agito nell’unica zona d’ombra dei sensori antifurto.

Le scatole cinesi nell’Est Europa. I medicinali rubati in Italia di solito vengono portati in Grecia e in Turchia, passando per un sistema di fatturazione “a scatole cinesi” tramite filiali fittizie aperte nei paesi dell’Est Europa. In alcuni casi i farmaci vengono etichettati nuovamente per mascherare la loro provenienza, in altri ceduti senza riconfezionarli. L’ultimo passaggio è la vendita agli importatori in Germania, dove la legge impone alle farmacie di comprare dal “parallel trade” almeno il 5 per cento dei medicinali. Il caso LunaPharm tuttavia ha costretto il ministero della salute del Brandeburgo a diramare un allarme pubblico d’emergenza. Diana Golze, a capo del dicastero, è a rischio dimissioni: è ormai certo infatti che dal 2015 ad oggi sono stati somministrati farmaci ai pazienti oncologici tedeschi senza un controllo serrato, nonostante l’Italia avesse informato le autorità competenti in Germania, specificando il rischio che i salvavita provenienti illegalmente dal nostro paese fossero inefficaci o addirittura contaminati. La ministra tedesca ha dichiarato: «Voglio scusarmi personalmente con i pazienti e i loro parenti. Per me è importante fare chiarezza e, soprattutto, prendere tutte le misure necessarie per evitare che accada di nuovo». A LunaPharm, il grossista tedesco, è stata subito sospesa la licenza. Ora una linea telefonica assiste i pazienti, ma nell’allerta del ministero si legge: «Una raccomandazione chiave per tutti è rivolgersi al medico curante, solo quest’ultimo può fare una dichiarazione su quali farmaci sono stati effettivamente somministrati». Dice Lidio Brasola, responsabile della supply chain di Roche: «Due sono le priorità: da un lato è necessario che la Germania renda più efficaci i controlli per evitare infiltrazioni illegali; dall’altro è estremamente importante che le strutture ospedaliere Italiane rinforzino sempre di più la loro sicurezza interna altrimenti i furti continueranno senza sosta. L’Aifa dopo la crisi del 2014 ha fatto un buon lavoro, creando un network tra ospedali, forze dell’ordine, procure e case farmaceutiche. Un modo per avere costantemente la situazione sotto controllo. È su questa strada che bisogna proseguire».

Grossisti compiacenti. Come si diceva, il business è recrudescente ma ha origini meno recenti. È il 31 marzo del 2014 quando un lotto di Herceptin 150 finisce nelle mani di un grossista inglese. Le fiale sembrano essere state aperte e richiuse, all’esterno dell’involucro c’è della sostanza. Il venditore decide di chiamare l’azienda farmaceutica italiana che produce l’antitumorale. Una manciata di ore dopo si scopre che l’Herceptin 150 proviene da un assalto a un tir italiano. Contaminato e comunque rivenduto, senza nessuno scrupolo. La procura di Napoli apre un fascicolo e, insieme ad altre 13 indagini, sgretola, pezzo dopo pezzo, l’organizzazione criminale con base in Campania ma attiva in tutta Italia.

Normativa Ue da rifare. Inchieste come quella coordinata dal pubblico ministero Diana Russo risalgono alle filiali aperte all’estero dall’organizzazione, e identificate da Aifa e dalle altre agenzie del farmaco europee come illegali: Cipro, Ungheria, Lettonia, Romania. Slovacchia e Slovenia. Qui venivano emesse le fatture false, i medicinali da rubati venivano trasformati in perfettamente legali, senza lasciare i capannoni di stoccaggio con sede in Campania e il nullaosta operativo della famiglia Licciardi. Le farmacie di collegamento erano quasi tutte di Napoli o Nola. I salvavita venivano poi rivenduti al mercato tedesco da grossisti compiacenti, come LunaPharm, togliendo così ai pazienti italiani le cure necessarie e rivendendo invece a quelli tedesche medicinali inefficaci o persino letali. L’inchiesta finisce davanti all’Ema (Agenzia Europea per i medicinali) con Aifa che mette in allerta e la Germania con un libro bianco sul caso. Poco però, dopo questo caso, viene fatto a Berlino. I farmaci anti-tumorali illegali continuano a essere distribuiti senza controllo, fino a far scoppiare il caso degli ultimi giorni, con la ministra Golze che ammette: «Sono state chiaramente violate le regole esistenti, regole che hanno portato a questo fallimento». Dice Domenico Di Giorgio, Dirigente Area Ispezioni e Certificazioni Aifa: «Nel 2014 coordinammo l’operazione europea Volcano contro furti e riciclaggio dei farmaci, emergenza fino ad allora contrastata senza percezione strategica dell’organizzazione dietro quei traffici. Amministrazioni e aziende si mossero insieme contro le distorsioni nella rete distributiva, mettendo in atto strumenti come la piattaforma Fakeshare e riuscendo così a bloccare i furti per oltre 2 anni». Oggi il maggior problema per Di Giorgio è che «mancano sanzioni specifiche: gli 80 arresti italiani hanno portato a condanne solo per reati comuni come rapina e semplici furti. Gli operatori che compravano farmaci da canali chiaramente sospetti, all’estero sono stati trattati addirittura come vittime». Aifa ora chiede non solo reati specifici, ma anche un ripensamento della normativa europea contro le distorsioni del mercato tedesco: «I prezzi alti e il vincolo normativo al “parallel trade” fanno sì che lì operino molti trader, tra i quali una minoranza che acquista senza controllare le fonti. Bastano loro a rendere il paese un magnete per prodotti illegali, mettendo a rischio sia i pazienti italiani sia quelli tedeschi, e diventando sponsor di reti criminali che generano ovunque furti e rastrellamenti, danneggiando i sistemi sanitari di tutta Europa».

C'è un mercato parallelo dei farmaci che ci danneggia tutti. Ma è legale (e vale miliardi). In Italia vengono considerate carenti circa 1.500 medicine e la loro mancanza ritarda o rinvia la possibilità di curarsi. Il motivo? Rivenderle ai paesi del Nord Europa è più remunerativo, scrive Fabrizio Gatti il 12 luglio 2018 su "L'Espresso". Se non trovate la medicina che il medico vi ha prescritto, prendetevela con le regole del libero mercato o con le autorità che non sono in grado di domarle: perché probabilmente le vostre confezioni di pillole e di iniezioni sono state esportate in Germania o in Inghilterra o in Olanda dove valgono molto di più. Sono 1.556 i farmaci carenti in Italia, secondo l’elenco settimanale pubblicato il 28 giugno scorso da Aifa, l’agenzia di autorizzazione e controllo del ministero della Salute: di questi, 410 non hanno alternative equivalenti. Significa che la cura necessaria rischia di essere ritardata o rinviata. Mancano perfino alcuni preparati importanti per la sopravvivenza destinati alle unità di pronto soccorso degli ospedali. Nella lista dei vuoti di magazzino appaiono anche trentacinque vaccini. Alcuni sono tra quelli previsti dalla campagna in corso che, secondo la tabella, non possono contare su formule equivalenti: gli anti-Haemophilus influenzae di tipo B diventati rari per problemi produttivi, l’Infanrix contro difterite-tetano-pertosse per cessata commercializzazione temporanea, l’Engerix contro l’epatite B per problemi produttivi, l’Imovax polio contro la poliomielite per problemi commerciali, l’Imovax tetano contro il tetano per problemi commerciali e il Varilrix contro la varicella per problemi produttivi. Si tratta di preparati delle multinazionali Sanofi-Pasteur-Europe e Glaxosmithkline. La denuncia di Francesca Mannocchi “Io, la mia malattia e il patto spezzato”, pubblicata su L’Espresso la scorsa settimana, non riguarda soltanto le terapie a lungo termine. Ne siamo tutti coinvolti. E giugno si conclude con un ulteriore record. Soltanto una settimana prima, il 20 del mese, i farmaci carenti (tra i quali sono comunque incluse le cessate produzioni) erano 1.527, ventinove di meno. E quelli senza alternative equivalenti 398. L’esportazione di medicinali dai magazzini italiani verso il Nord Europa è una distorsione del mercato in corso da qualche anno. Tanto che all’inizio del 2018 la Federazione delle associazioni degli informatori scientifici del farmaco e del parafarmaco ha rilanciato l’allarme sul suo sito: “Carenza e speculazione sui farmaci: quando la salute vale meno di una mazzetta”. Sotto accusa è il mercato parallelo, considerato il principale responsabile della scarsità di medicinali in circolazione: cioè la possibilità legale per grossisti, grandi farmacie e a volte perfino ospedali di rivendere in altri Paesi dell’Unione europea, dove pagano di più, i farmaci destinati a noi. La convenienza, per gli esportatori paralleli, è data dal prezzo stabilito dagli accordi tra Aifa e le case farmaceutiche sulle medicine rimborsabili: prezzo che per Italia, Spagna e Grecia, tutti Paesi afflitti dalla carenza, è tra i più bassi in Europa. Questo mercato fantasma, i cui effetti però si vedono benissimo, riguarda soltanto i farmaci dispensati interamente o parzialmente dal servizio sanitario nazionale: sia quelli di fascia A, disponibili in farmacia su presentazione della ricetta del medico, sia quelli di fascia H il cui impiego, tranne casi particolari, è riservato a ospedali, ambulatori o strutture assimilabili. L’esportazione non riguarda ovviamente le medicine in libera vendita il cui prezzo, anche nei Paesi del Nord Europa, è determinato dal rapporto diretto tra produttore o grossista e venditori. Se la farmacia, anche ospedaliera, non è in grado di fornire i farmaci prescritti dal medico, il cittadino può impugnare i commi 3 e 4 dell’articolo 105 contenuto nel Decreto legislativo 219 del 24 aprile 2006. È uno strumento legale fondamentale che di fronte ai rischi per la salute non va dimenticato. Stabilisce il comma 3: «La fornitura alle farmacie, anche ospedaliere, o agli altri soggetti autorizzati... dei medicinali di cui il distributore è provvisto deve avvenire con la massima sollecitudine e, comunque, entro le dodici ore lavorative successive alla richiesta...». E il comma 4: «Il titolare dell’Aic (Autorizzazione all’immissione in commercio, cioè la casa farmaceutica) è obbligato a fornire entro le 48 ore, su richiesta delle farmacie, anche ospedaliere, un medicinale che non è reperibile nella rete di distribuzione regionale». Davanti alle distorsioni e allo strapotere del mercato, noi pazienti siamo completamente soli. E anche quando le autorità nazionali di controllo hanno provato a intervenire, l’Unione europea ha difeso sia il mercato, sia le sue distorsioni. L’ha fatto nel 2003, con questa comunicazione della Commissione di Bruxelles: «L’importazione parallela di medicinali è una legittima forma di scambio in seno al mercato interno, fondata sull’articolo 28 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (libera circolazione delle merci) e soggetta a deroghe relative alla tutela della salute e della vita...». Il business è cresciuto, le deroghe sono svanite. Tanto che Polonia, Romania e Slovacchia, quando hanno tentato di limitare l’esportazione parallela di farmaci dai loro magazzini, sono state denunciate proprio da Bruxelles. Le procedure di infrazione sono state archiviate il 17 maggio scorso, finalmente con un nuovo convincimento: «La Commissione», è scritto nel provvedimento di archiviazione, «riconosce che il commercio parallelo dei medicinali può essere uno dei motivi per cui si verificano carenze di una serie di medicinali per uso umano. Conciliare il rispetto della libera circolazione delle merci con il diritto dei pazienti di accedere all’assistenza sanitaria è un compito particolarmente delicato. Dopo un’attenta valutazione, la Commissione ha riconosciuto la necessità di esaminare altre vie diverse dalle procedure di infrazione...». Sembra incredibile: ma per Bruxelles il libero mercato e migliaia di cittadini che rischiano la vita per mancanza di medicine in Europa hanno lo stesso peso. Tanto che è necessaria una “conciliazione”. L’obiettivo della Commissione ora è quello di «raccogliere maggiori informazioni dagli Stati membri e dalle altre parti interessate per discutere l’attuazione dell’obbligo di servizio pubblico e le restrizioni all’esportazione nell’ambito del gruppo di lavoro...». Proprio così: basterebbe attribuire a tutta la filiera gli obblighi del pubblico servizio. Con le associazioni di produttori, distributori e farmacisti, tra cui Farmindustria, Adf e Federfarma, il ministero della Salute, Regione Lazio, Regione Lombardia e Aifa avevano firmato un patto già nel settembre 2016. «La sottoscrizione di questo documento testimonia l’impegno capillare e profuso di tutte le istituzioni coinvolte nella filiera farmaceutica», diceva in quei giorni Mario Melazzini, allora presidente e oggi direttore generale di Aifa: «Non posso non sottolineare e apprezzare il grande senso di responsabilità dimostrato da tutti i soggetti intervenuti oggi a firmare questo accordo». Tanto ottimismo aveva spinto il Sole24Ore a titolare: «Mai più carenza di farmaci». I tempi cordiali delle trattative ovviamente sono molto diversi da quelli che separano vita e morte nelle unità di pronto soccorso. Prendiamo il Flebocortid Richter prodotto dalla Sanofi: «È indicato nelle situazioni di emergenza che richiedono rapidamente un’elevata disponibilità nel sangue di idrocortisone... importante ai fini della sopravvivenza», spiega il foglietto illustrativo. Viene impiegato per gli stati anafilattici che non rispondono alla terapia tradizionale o per gli shock gravi, chirurgici, traumatici, emorragici, cardiogeni, da ustioni, resistenti alla terapia standard. Il farmaco risulta carente dal 22 maggio 2018 al 30 giugno 2018: «Problemi produttivi - Si rilascia autorizzazione all’importazione alle strutture sanitarie per analogo autorizzato all’estero», prescrive l’elenco delle carenze di Aifa. All’estero il prezzo del Flebocortid sarà quello di solito ben maggiore, dettato dalla situazione di emergenza. Clexane, nel comune dosaggio iniettabile di 4.000 UI (unità internazionali) da sei siringhe preriempite, è invece un farmaco diventato raro dal 26 aprile 2018, sempre per problemi produttivi. Blocca la formazione di coaguli nel sangue e serve a prevenire la trombosi venosa profonda in chirurgia generale, in chirurgia ortopedica e nei pazienti a rischio trombosi costretti a letto per lunghi periodi. Il prezzo concordato da Aifa con il produttore Sanofi e pagato dal servizio sanitario nazionale è di 32,70 euro a confezione: 5,45 euro a dose. In Germania il prezzo rimborsato dallo Stato sale fino a 11,65 euro a dose, a seconda del tipo di confezione. L’elenco delle carenze contiene anche l’Igantet, farmaco importante per la terapia contro il tetano, antiemorragici efficaci e antireumatici. «L’importazione parallela di farmaci, consentendo l’acquisto di medicinali a prezzi inferiori», spiega Fabrizio Gianfrate nella ricerca “Il Parallel Trade dei farmaci in Europa”, «rappresenta in potenza un vantaggio per i pagatori, pubblici e privati, ovvero i sistemi sanitari e le famiglie». Si stima un giro d’affari di circa quattordici miliardi di euro, il sette per cento di tutto il mercato farmaceutico europeo. Per alcuni medicinali specifici, in Germania, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia, l’importazione parallela rifornisce tra il 55 e il 63 per cento dei consumi. Mentre si calcola che il 16 per cento dei farmaci venduti in Grecia sia dirottato verso Paesi europei più ricchi. Anche in Italia qualunque grossista o distributore, che paga la merce al prezzo nazionale concordato, può trovare più redditizio vendere un certo farmaco sui canali dell’esportazione parallela piuttosto che distribuirlo ai farmacisti suoi clienti: ai quali basta dichiarare che il farmaco è mancante senza spiegarne la ragione. A questo punto la rete delle farmacie segnala la carenza alla Regione. E alla fine il farmaco finisce nell’elenco di Aifa. Anche se alle case farmaceutiche spesso risulta regolarmente distribuito. Il meccanismo permette così un risparmio sulla spesa sanitaria agli Stati del Nord Europa, che in base al loro Pil (Prodotto interno lordo) hanno contrattato prezzi ufficiali più alti con i produttori. Una scorciatoia che lo studio di Gianfrate mette a nudo. In Germania il farmacista deve vendere almeno il 7 per cento di farmaci importati parallelamente e il medicinale parallelo ha un prezzo di almeno il quindici per cento inferiore al listino nazionale. In Olanda i farmacisti sono incentivati a vendere farmaci importati parallelamente poiché vengono rimborsati al 94 per cento dell’intero prezzo nazionale e possono trattenere tutta la differenza tra il valore rimborsato e quello di acquisto dal grossista, mentre il governo olandese recupera circa il 7 per cento dei ricavi del farmacista. In Danimarca il farmacista deve informare il paziente di tutte le alternative inclusi i medicinali di importazione parallela e in Norvegia i medici sono incoraggiati a prescriverli. In Svezia le farmacie sono statali, i farmacisti devono fornire il farmaco più economico tra le alternative equivalenti e i medicinali paralleli sono i meno tassati. Nel Regno Unito a guadagnarci sono soprattutto i farmacisti: possono trattenere la differenza tra il prezzo rimborsato dallo Stato e il prezzo scontato di acquisto del farmaco parallelo, mentre il governo recupera una parte dei ricavi dei grossisti in base alla quota nazionale di importazione. Per la Gran Bretagna sottrarre legalmente farmaci da altri Paesi europei permette un risparmio di un miliardo di sterline all’anno: un miliardo e centotrenta milioni di euro. Il processo prevede che i medicinali siano riconfezionati per tradurre scatole e fogli illustrativi nella lingua di destinazione, senza però la supervisione delle case farmaceutiche. «Questo introduce rischi di sicurezza e qualità per il riconfezionamento, se viene effettuato inadeguatamente», avverte la ricerca di Fabrizio Gianfrate, «e favorisce il crescente fenomeno della contraffazione». Lo scorso anno Aifa ha annunciato che i furti di farmaci in Italia sono crollati dalle ottocentomila confezioni rubate nel 2013 alle ottantamila del 2016. Senza nulla togliere all’azione di contrasto messa in campo dall’agenzia e dal Nucleo antisofisticazioni dei carabinieri, potrebbe non essere una buona notizia: significa che il mercato parallelo è ormai perfino più redditizio e facile di quello illegale.

PARLIAMO DI COMPARAGGIO: LA MAFIA DELLE AZIENDE FARMACEUTICHE.

O, ancora, la farmatruffa esplosa nel 2003 a Verona con viaggi, regali, cene, consulenze per un totale di cento milioni di euro per comprare circa tremila medici che avevano prescritto prodotti farmaceutici in cambio di denaro. Oppure c’è l’inchiesta nata a Torino nel 2005 e approdata a Roma che coinvolge addirittura l’Aifa, l’Agenzia italiana per il farmaco, che classifica e cataloga i medicinali da immettere sul mercato. Due dirigenti dell’Agenzia vengono accusati di intrattenere rapporti privilegiati con gruppi multinazionali di società farmaceutiche nella sperimentazione di sperimentazione di due prodotti bio-equivalenti." Questa è la rappresentazione di una realtà, spesso, sottaciuta ed ignorata.

Mezzo milione di euro a 67 medici, così azienda favoriva i propri farmaci, scrive “La Repubblica” il 17 ottobre 2012. I dottori, sia di strutture pubbliche che private, somministravano dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche anche ai bambini per aumentare i profitti della Sandoz. In cambio ricevevano denaro, regali o viaggi. E' un'operazione "medici puliti": 67 dottori in 15 diverse regioni sono indagati per aver ricevuto dall'azienda farmaceutica Sandoz somme di denaro, viaggi all'estero e oggetti di valore con l'obiettivo di incrementare le vendite di alcune tipologie di farmaci. L'inchiesta riguarda in special modo i pazienti pediatrici: i medici prescrivevano dosaggi ben al di sopra delle indicazioni terapeutiche per aumentare gli incassi. Tra i farmaci prescritti illegalmente ci sarebbero anche ormoni della crescita. I carabinieri del Nas hanno eseguito 77 perquisizioni a carico degli indagati. L'inchiesta coordinata dalle Procure della Repubblica di Rimini e Busto Arsizio (VA) è stata condotta dal Nas di Bologna e dai Comandi provinciali di Ancona, Ascoli Piceno, Bari, Brescia, Cagliari, Caserta, Chieti, Ferrara, Firenze, Frosinone, Genova, Lucca, Mantova, Messina, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Pavia, Perugia, Pescara, Roma, Terni, Torino, Trento, Trieste, Verona e Viterbo. Nel corso delle indagini è stata scoperta l'esistenza di una rete formata da dodici informatori scientifici e dirigenti della casa farmaceutica Sandoz incaricata di prendere accordi con i camici bianchi. Gli informatori avrebbero sollecitato i medici indagati (tra cui anche specialisti in nefrologia e endocrinologia) ad aumentare le prescrizioni di alcuni farmaci, con l'inserimento in terapia di nuovi pazienti. "In alcune circostanze - sottolineano gli investigatori - i medici non esitavano ad aumentare le somme pretese" e "alti dirigenti dell'industria farmaceutica incontravano personalmente i medici". Per giustificare lo scambio di denaro gli informatori scientifici producevano false documentazioni che attestavano le somme per attività di consulenza o di studio, di contributi a congressi o seminari e viaggi per partecipare a meeting internazionali. Tra gli indagati infatti c'è anche il titolare di una agenzia di viaggi. I reati contestati vanno dall'associazione a delinquere, alla corruzione, all'istigazione, alla corruzione, alla truffa in danno del Servizio Sanitario Nazionale, dal falso al comparaggio. Ormoni ai bambini in cambio di denaro.

Avrebbero prescritto farmaci ormonali, anche ai bambini, con dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche per ricevere denaro e regali dall'azienda farmaceutica Sandoz, che li avrebbe corrotti tramite gli informatori scientifici. Scrive “Il Corriere della Sera” il 17 ottobre 2012. Sono 67 i medici di ospedali pubblici e privati di Roma e tutta Italia indagati nell'operazione dei Nas "Do ut des" che ha fatto emergere un sistema di corruzione. Indagati anche dodici dirigenti e informatori farmaceutici della Sandoz, che si occupa della produzione di farmaci ormonali e per la crescita, e il titolare di un'azienda che organizza eventi. Tra i sanitari indagati, diversi pediatri ed endocrinologi che in molti casi, dietro la sollecitazione degli informatori, avrebbero aumentato le prescrizioni delle medicine con l'inserimento in terapia di nuovi pazienti. Per incrementare le vendite di alcune medicine, secondo le accuse, gli informatori scientifici avrebbero promesso somme di denaro, viaggi all'estero e diversi oggetti come iPad. Il tutto sarebbe stato giustificato con false fatture che attestavano l'elargizione di denaro per attività di consulenza o di studio, contributi a congressi o seminari e viaggi per partecipazioni a meeting internazionali. I medici avrebbero ricevuto circa 500mila euro tra regali e denaro. In totale sono ottanta gli indagati, le accuse a vario titolo sono di associazione a delinquere, corruzione, istigazione alla corruzione, truffa ai danni del servizio sanitario nazionale, falso. In alcune circostanze i medici non avrebbero esitato ad aumentare le pretese al punto che alti dirigenti della Sandoz avrebbero incontrato personalmente i medici. Le 77 perquisizioni eseguite dai carabinieri del Nas di comandi provinciali in tutta Italia punteranno a verificare se le prescrizioni siano state appropriate per le patologie dei pazienti curati, proprio perché è emerso che ad alcuni bambini venivano prescritti dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche. «La speranza è che l'accusa sia infondata. Ma se è vero, sono sgomento e non posso che esprimere una forte condanna per una pratica che è fuori dalla legge e dall'etica - commenta Alberto Ugazio, presidente della Società italiana di pediatria -. Rilevo con preoccupazione il continuo aumento del consumo degli ormoni della crescita, la cui unica indicazione terapeutica appropriata è per il trattamento del nanismo ipofisario, malattia rara». Invece l'uso di questi ormoni è piuttosto elevato «perché vengono adoperati dagli sportivi amatoriali per aumentare le loro prestazioni, e sono venduti anche su internet». Questi farmaci possono essere venduti solo dietro prescrizione medica e «in molte regioni, come Lazio e Lombardia, sono pochi i centri autorizzati che possono prescriverli. Quindi dovrebbe anche essere facile risalire a chi ne prescrive in eccesso». «Comportamenti di questo tipo vanno condannati e meritano il massimo grado di pena: questi presunti medici infatti andrebbero radiati dall'Ordine professionale e, in attesa della sentenza definitiva, almeno sospesi dall'esercizio della professione - chiede Antonio Longo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino -. Somministrare ormoni ai bambini in cambio di denaro è la negazione assoluta del compito che un medico dovrebbe svolgere, i danni per la salute sono incalcolabili, per questo - conclude - riteniamo che atteggiamenti di questo tipo non siano giustificabili e anzi vadano segnalati e puniti». Anche il Codacons chiede per i medici indagati la radiazione a vita. La Sandoz fa sapere di non essere stata contattata dalle autorità inquirenti e di non disporre di ulteriori informazioni rispetto a quelle riportate dalla stampa. «L'azienda non può escludere che tali attività siano riconducibili all'indagine avviata nel giugno 2011 dalla procura di Busto Arsizio - si legge in una nota -. Sandoz ha sempre collaborato pienamente con le autorità inquirenti nell'ambito dell'indagine di Busto Arsizio e ha adottato le più severe misure disciplinari nei confronti dei dipendenti coinvolti. L'azienda ha inoltre avviato nuovi ed ancora più stringenti controlli interni. L'indagine di Busto Arsizio è ancora pendente; pertanto per policy, Sandoz non rilascia commenti sui procedimenti ancora in corso».

Kankropoli - la mafia del cancro. Il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella di Alberto R. Mondini - A.R.P.C. Associazione per la Ricerca e la Prevenzione del Cancro. Meraviglioso! Non ho altre parole per descrivere questo capolavoro. Sull'argomento salute ho letto diversi libri, tutti, chi più chi meno scorrevoli e/o interessanti ma questo libro di Mondini mi ha colpito particolarmente sia per la semplicità, priva delle solite nomenclatura tecnico-scientifiche, ma soprattutto per l'immensa mole di informazioni che raccoglie. Documentazioni, testimonianze, interviste, ricerche che dimostrano senza ombra di dubbio e con prove inconfutabili l'esistenza di un establishment sanitario radicato e molto potente. Il dizionario definisce establishment come: "alta gerarchia di persone che difende la struttura tradizionale". Niente di più esatto. Una gerarchia, visto che stiamo parlando di cancro, composta dalle vette più alte della ricerca medica, delle multinazionali chimicofarmaceutiche che difende con tutti i mezzi leciti e non la ricerca ufficiale da qualsiasi "altra" ricerca pur se comprovata da risultati eccezionali e testimonianze ineccepibili. Questa voglia di proteggere gli interessi di pochi e le cattedre di altri, si scontra però con un grossissimo problema sociale: le persone continuano come non mai a morire di cancro! Dopo tutti questi anni di promesse, false illusioni, nuovi medicinali, ecc. qual è la situazione attuale? "I nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea". Non sono le parole di un medico eretico come Di Bella ma di un certo John C.Balair, professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei massimi esperti di oncologia del mondo. Ma allora ci hanno preso in giro per anni e anni? Perché quelle lusinghiere dichiarazioni attraverso i media da parte dei luminari della scienza? Che sia per tutti quei centinaia di milioni di euro che ogni anno ricevono per la ricerca? Mentre loro pensano come investire tutti questi soldi, abbiamo da una parte tantissime persone che muoiono, dall'altro una folta schiera di ricercatori indipendenti che a proprie spese e molto spesso rischiando la galera e la carriera se non addirittura la vita propongono metodi alternativi, economici e molto semplici dai risultati eccezionali. Perché quasi nessuno conosce Ricercatori, con la erre maiuscola, come Alessiani, Bonifacio, Zora, Hamer, Pantellini, Gorgun, e molti altri? Medici che propongono ognuno una cura diversa, ma che avevano in comune l'amore per la ricerca, quella vera, e centinaia se non migliaia di testimonianze positive, di guarigioni incredibili, di casi senza speranza per la medicina ufficiale che "miracolosamente" regrediscono. Per tutto questo come sono stati trattati dalla "scienza"? Be', i più "fortunati" come per esempio Di Bella sono stati boicottati, messi alla gogna, derisi pubblicamente, altri come Alessiani sono stati minacciati di morte, oppure radiati dall'albo dei medici come è successo ad Hamer. Potrei continuare a lungo in questa carrellata, ma concludo battendo le mani a Mondini e ringraziandolo per essere riuscito a condensare in un libro tutte le ricerche e le disavventure di questi grandissimi scienziati, colpevoli di aver scoperto metodi semplici, indolori, naturali, e purtroppo economici che mettevano e mettono tuttora a repentaglio gli enormi interessi che si nascondono dietro le malattie "cosiddette incurabili".

"Kankropoli" - La mafia del cancro. Alcuni anni fa la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell’immensità delle sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai, inoltre, l’inutilità e l’atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell’umanità di fronte al cancro non era disperazione, era sceso ancora più in basso, fino a una specie di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l’ARPC (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e, con questo strumento, di percorrere fino in fondo e a ogni costo la strada che avrebbe dovuto mettere fine alla malattia cancro. Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto, fantasia. Pertanto, in piena coscienza di tutti i pericoli e di tutte le responsabilità che tale atto comporta, ho deciso di rendere pubblico il materiale che ho raccolto. Queste sono le sconvolgenti conclusioni a cui portano i documenti contenuti in questo dossier (Kankropoli, la mafia del cancro, ARPC, Torino, 1997): Attualmente nella pratica corrente non viene usata alcuna terapia valida per i tumori. Esistono da anni efficaci ed economiche terapie e tecniche di diagnosi precoce ideate da geniali ricercatori spesso con scarsi mezzi economici. Esiste una precisa volontà intesa a impedire che esse vengano usate. Questa volontà viene attuata, contro questi ricercatori, con tutti i mezzi possibili, siano essi legali o illegali, quali indifferenza, privazione di fondi, calunnie, diffamazione, persecuzioni (queste sono le più usuali) professionali e giudiziarie, minacce di morte, omicidio. In queste azioni criminali sono coinvolte molte persone e organizzazioni che spesso ricoprono posti di potere, quali: uomini politici, magistrati, funzionari di forze di polizia, dirigenti di case farmaceutiche, alti funzionari statali della sanita`, medici, professori universitari, ricercatori, associazioni e tanti altri. Ovviamente la responsabilità di questi individui per questa situazione è ampiamente diversificata nei ruoli e nel grado. Alcuni di essi si prodigano attivamente con qualsiasi mezzo per mantenere l’attuale situazione di inguaribilità dei tumori perchè essa permette loro di usufruire di innumerevoli fonti di guadagno, tangenti comprese, che derivano dai vari aspetti con cui oggi si presenta quel colossale affare che è il cancro: la ricerca, la diagnosi, la terapia, le associazioni per la raccolta fondi, la produzione e la vendita di farmaci e di apparecchiature, gli ospedali, le università, il Servizio Sanitario Nazionale, ecc. Essi formano di fatto un’associazione a delinquere di dimensioni internazionali. Altri conoscono bene la situazione, ma tacciono per paura di perdere i loro privilegi. Infine altri ancora, (i più) credono che si stia facendo il massimo e il miglior sforzo per debellare questa malattia; pertanto assecondano e aiutano in completa fiducia ciò che viene imposto con segreta violenza.  Da L’Immensa Balla della Ricerca sul Cancro 

Alberto Mondini, Kankropoli, Recensione scritta da Mirror's Chest per DeBaser il 17 ottobre 2010. Umberto Veronesi una manciata d'anni fa dichiarò, dall'alto della sua incomparabile esperienza, che la via per sconfiggere il cancro si trova nella genetica. Niente "fattore ambientale", nessun fattore psicologico, l'inquinamento poi, un'invenzione bella e buona, sono soprattutto il basilico e la patata ad avere la maggior incidenza sulla salute delle persone: non ci vuole un genio per capire che in questo discorso c'è qualcosa di assolutamente perverso. Trovai quest'informazione per caso in uno spettacolo di Grillo (2005, beppegrillo.it, proiettato nella più casinara assemblea d'istituto di sempre), dove poi si spiega, neanche troppo velatamente, che i "timidi" riferimenti a quella che ormai è una realtà bella e buona erano stati taciuti per via di un lauto compenso fornitogli dalla FIAT, e quindi, citando American Beauty, "vendiamoci tutti l'anima e lavoriamo per Satana perché è più conveniente". Da lì in poi l'interesse per l'argomento scemò col tempo, sarà per la mia allora tenera età, sarà per la naturale inclinazione dell'uomo (naturale=indotta) alla pigrizia, fino a tempi relativamente recenti, in cui il tema della "malattia del secolo" è ritornato presente nella mia playlist quotidiana per un solo ed unico motivo: osservare come parenti, amici, conoscenti alla lontana e perfino vicini di casa da un giorno all'altro finiscono beatamente sotto terra. E se la pura esperienza personale può metterti seriamente alle strette per quanto riguarda dubbi, considerazioni e conflitti interiori, un libro del genere vi potrebbe letteralmente spolpare vivo dalla portata di informazioni che contiene. Citando l'incipit: "Cinque anni fa (1993) la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell'immensa quantità di sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai l'inutilità e l'atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell'umanità di fronte al cancro non era di disperazione, era sceso ancora più in basso, fino ad una sorta di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l'A.R.P.C. e, con questo strumento, di intervenire in prima persona per portare un contributo alla lotta contro i tumori. Non avendo legami con le case farmaceutiche, né con alcuna lobby o corporazione, avrei potuto agire liberamente e raccontare i fatti senza alcuna limitazione. Costi cancro nel 1998 in Italia (stimati per difetto): -Farmaci chemioterapici L. 40 mila miliardi - Tutto il resto (operazioni, esami, radioterapia, ricerca, ecc...) L. 40 mila miliardi - Totale L. 80 mila miliardi Moltiplicate queste cifre per il resto del mondo e otterrete somme paragonabili a quelle di una guerra planetaria. In questo tremendo affare sono coinvolte centinaia di migliaia di persone e potentissime organizzazioni internazionali. Pensate che rinuncerebbero facilmente ai loro lauti guadagni?" A buon intenditore poche parole, per tutti gli altri, dico solo che "Kancropoli" è un libro-inchiesta come pochi se ne sono visti negli ultimi anni sull'argomento, uno spietato resoconto su come morte, malattia, e di conseguenza cure medico-ospedaliere, trattamenti e investimenti rappresentino un business al pari di scarpe, macchine, frigoriferi, soltanto dal piccolo particolare di avere guadagni molto più lauti con entrate che raggiungono cifre da capogiro. Insomma, un business che va salvaguardato, preservato, tenuto sotto chiave e lontano da tutti quegli scienziati "cattivi" e le loro scoperte rivoluzionarie (e a basso costo) in grado di rivoluzionare in un baleno lo stesso concetto di malattia e salute. Esempi? Il semisconosciuto Alessiani, che riuscì a curare la moglie malata terminale attraverso una cura da lui stesso brevettata a costo pari allo zero, utilizzando humus e erbe particolari: su di lui ci sta una sentenza di morte da parte della procura Italiana. Il famosissimo Di Bella, radiato dall'albo, avvelenato diverse volte, che ha dovuto subire ritorsioni professionali, attentati, congiure belle e buone per aver scoperto una cura miracolosa contro tumori ed altre malattie attraverso la melanina. Per non parlare poi di S. Seçkiner Görgün, geniale medico Turco inventore tra l'altro di un cuore artificiale perfettamente funzionante da tipo 40 anni, o di "Albert", l'inventore del tanto miracoloso quanto sconosciuto BIOTRON, fino a tantissimi altri geni della medicina e della scienza consegnati all'anonimato più totale da un'elite invisibile che mangia sulla morte dei nostri cari e su milioni di altre persone in tutto il mondo. Non mi interessa se potrete pensarla come me o avere un'idea totalmente differente, le idee qui non c'entrano assolutamente niente, qui si parla di fatti, di dati, di interviste, di articoli, informazioni di un'importanza a dir poco vitale. Spegnete la televisione, fatevi un thé (stando attenti a che ci mettete dentro...) e dedicate una serata a questo libro, facilmente scaricabile in file .pdf a questo indirizzo.

La favola della ricerca sul cancro, scrive “Napoleta”. Sono ormai anni che siamo abituati al ripetersi di eventi gestiti da organizzazioni di ogni tipo per sostenere la tanta decantata ricerca sul cancro, la quale dovrebbe consentire di sconfiggere definitivamente in un futuro sempre più prossimo malattie come il cancro e il tumore. Ogni volta che sento di questi eventi, mi sembra di vivere nel mondo delle favole, alle quali tutti o quasi tutti credono senza un minimo di giudizio critico. Sarebbe sufficiente dare un'occhiata alle statistiche per vedere che da quando si fa ricerca sul cancro, non solo le malattie di questo tipo non sono diminuite affatto, ma sono aumentate in modo spaventoso quelle che già esistevano prima e ne sono venute fuori altre, anche queste in continuo aumento. Tali statistiche ovviamente non vengono mai mostrate, vengono tenute ben nascoste dalla mafia della Sanità italiana e internazionale, e quando si è costretti a tirarle fuori vengono alterate per fare in modo che la gente possa continuare a credere alla favola che un giorno il cancro sarà eliminato dalla lista delle malattie inguaribili che ci colpiscono. La favola non può che essere tale per ovvie ragioni. Il cancro e il tumore sono malattie che non vengono fuori per puro caso, ma sono causate principalmente dal modo in cui viviamo, mangiamo, respiriamo, pensiamo, ecc. In pratica, non si potrà mai eliminare tali malattie se continuiamo a inquinare l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, il cibo che mangiamo, se continuiamo a nutrirci di alimenti tossici come la carne, i latticini e gli zuccheri, se continuiamo a vivere in modo esclusivamente materialistico, pensando solo ad accaparrare quanto più denaro possibile anche a costo di danneggiare il prossimo, se continuiamo a non capire che l'uomo vive in base al principio di semina e raccolta e che se continua a seminare male non può che raccogliere male, se continuiamo ad avere una fede cieca (ovvero non basata sull'esperienza personale) in un Essere Divino, alimentata semplicemente da religioni piene di regole e dogmi privi di ogni fondamento e utilità che servono solo a creare fedeli schiavi di istituzione di potere lontanissime dall'Essere Divino che dicono di rappresentare, se continuiamo a credere che l'uomo sia composto solo dal corpo fisico e ignoriamo gli altri corpi che lo compongono (il corpo astrale, quello eterico e l'ego), anch'essi fondamentali nel sorgere delle malattie, allora la favola della lotta al cancro resterà sempre una favola. Sostenere il business della ricerca sul cancro serve solo a far arricchire medici e scienziati ignoranti e senza scrupoli. Più mi rende conto di ciò con la mia esperienza personale, è più noto come viviamo davvero in un mondo della favole, per la creazione del quale i mezzi di informazione hanno un ruolo fondamentale. Tutto ciò che viene fuori da essi viene ingerito ormai acriticamente, si crede ormai davvero a tutto!! In occasione di questi eventi, ecco una serie di personaggi famosi della scienza, dello sport, dello spettacolo, e anche della cosiddetta cultura, che si impegnano come matti per sponsorizzarli, con quei visi contenti e allegri, che lasciano trasparire l'ignoramento della verità e l'illusione di aver fatto una buona azione per cui essere considerati grandi. L'evento che più mi viene alla mente è quello delle 30 ore per la vita, in cui una marea di personaggi dello spettacolo e della "cultura" si alternano raccontando in pratica 30 ore di favole. Ecco quindi una valanga di miliardi regalati alla mafia sanitaria, che può così continuare a fare i propri interessi anziché quelli di chi la sostiene. Mi chiedo perché tutti questi personaggi prima di fare una cosa del genere non si informano un po' su cosa stanno sostenendo, perché non danno un'occhiata alle statistiche, perché non vanno nei laboratori dove si fa ricerca per vedere le inutili atrocità alle quali sono sottoposti gli animali su cui vengono fatti gli esperimenti. È ovvio che se non lo fanno loro, che in teoria dovrebbero essere quelli più informati, figuriamoci se possono farlo coloro che in occasione di tali eventi fanno di tutto per acquistare una piantina, un sacco di arance, o un qualsiasi oggetto sfruttato per far soldi da destinare alla ricerca del nulla. Anche loro con le belle faccine allegre e contente, dopo averlo fatto se ne tornano nelle loro case mostrando a tutti il loro acquisto, raccontando la "grande" azione appena compiuta al primo che incontrano, magari spingendo anche lui a farlo, spesso regalandolo a qualche persona cara, e credendo con l'acquisto di aver contribuito ad un mondo migliore, che ovviamente non ci sarà mai. La vita non è una favola, è una gran cosa in cui niente avviene per caso e che noi non comprendiamo ormai più e comprenderemo sempre meno con il passare del tempo. Nell'articolo riportato di seguito, si può notare come le cose che ho detto non sono frutto di strane idee che vengono fuori dalla mia testa. Se è un medico di fama internazionale ad affermare che la ricerca sul cancro è stata fino ad oggi un completo fallimento, credo proprio che non possa che essere così. La mia unica speranza, e purtroppo credo resterà solo una speranza, è che sempre più gente si renda conto della verità, si svegli dal mondo dei sogni in cui vive, e smetta di sostenere una cosa meschina come la ricerca sul cancro.

La ricerca ufficiale sul cancro. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini. Iniziamo a vedere cosa realmente viene fatto a chi OGGI si ammala di cancro. Nella stragrande maggioranza dei casi si usano, dove è possibile, unicamente tre metodi: l'asportazione chirurgica, la chemioterapia e l'irradiazione. Il primo rimedio è del tutto inutile, perché il tumore non è che lo stadio finale e più visibile di una situazione patologica che coinvolge tutto l'organismo. Per tanto, dopo l'asportazione, la recidiva è quasi la regola, in quanto le difese immunitarie del paziente saranno ulteriormente indebolite dal trauma delle ferite, dall'intossicazione dell'anestesia, dagli antibiotici e dagli altri medicinali. Gli altri due metodi si basano sul fatto che le cellule cancerose sono più deboli di quelle sane, pertanto, sotto l'azione di veleni o di radiazioni ionizzanti, sono le prime a morire. Questa constatazione porta però a una delle pratiche più insensate della storia della medicina: avvelenare ed irradiare il paziente per guarirlo! Anche la persona meno informata, riesce a comprendere che guarigione significa miglioramento della salute. Nessuno pensa che l'inquinamento, gli esperimenti atomici o l'incidente di Chernobyl siano i provvidenziali vantaggi dei nostri tempi per mantenerci sani. Nei fatti, anche con la chemioterapia e l'irradiazione, dopo un iniziale, apparente successo, il malato, con il sistema immunitario massacrato, indebolito nel corpo e nella mente, svilupperà generalmente in breve tempo un nuovo tumore, questa volta ancor più difficile da curare. Eppure, specialmente negli ultimi mesi, in occasione dei vari dibattiti sulla cura Di Bella, avrete sentito fior di luminari, illustri primari, grandi ricercatori, sostenere che le critiche alle attuali terapie oncologiche non hanno ragione di esistere, che la medicina ha fatto enormi passi in avanti, che le percentuali di guarigione sono già nell'ordine del 50% e che tale percentuale è in fase di crescita. In conclusione, la medicina sta facendo il proprio dovere ed i soldi assegnati alla ricerca hanno dato i frutti sperati. Vediamo ora quali sono, in realtà, i grandi progressi che da alcuni anni la scienza sta compiendo nel campo della lotta ai tumori. Riunione del settembre 1994 del President's Cancer Panel: "Tutto sommato, i resoconti sui grandi successi contro il cancro, devono essere messi a confronto con questi dati" aveva detto Balair, indicando un semplice grafico che mostrava un netto e continuo aumento della mortalità per cancro negli Stati Uniti dal 1950 al 1990. "Torno a concludere, come feci sette anni fa, che i nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea. Grazie". Chi è questo personaggio che esprime idee così eretiche, un medico alternativo? Un ciarlatano come è stato definito Di Bella? Un guaritore che approfitta dei poveri malati? Uno che non conosce le percentuali di guarigione? Purtroppo per loro, niente di tutto questo. Risulta difficile definire ciarlatano o incompetente, John C. Balair III, insigne professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei più famosi esperti di oncologia degli Stati Uniti e dell'intero pianeta. Non parlava del resto ad una platea di sprovveduti; il President's Cancer Panel è nato in conseguenza del National Cancer Act, un programma di lotta contro il cancro, firmato dal presidente americano Richard Nixon il 23 dicembre 1971 e per cui si sono spesi fino al 1994 ben 25 miliardi di dollari. I dati relativi alla situazione delle lotta al cancro vengono forniti direttamente al Presidente degli Stati Uniti. La conclusione principale di Balair, con cui l'NCI (National Cancer Institute) concorda, è che la mortalità per cancro negli Stati Uniti è aumentata del 7% dal 1975 al 1990. Come tutte quelle citate da Balair, questa cifra è stata corretta per compensare il cambiamento nelle dimensioni e nella composizione della popolazione rispetto all'età, cosicché l'aumento non può essere attribuito al fatto che si muore meno frequentemente per altre malattie. La mortalità è diminuita per tumori quali quelli del colon e del retto, dello stomaco, dell'utero, della vescia, delle ossa, della cistifellea e dei testicoli. La mortalità per cancro nei bambini si è quasi dimezzata fra il 1973 e il 1989, in gran parte grazie alle migliori terapie. Tuttavia, dato che i tumori infantili erano comunque rari, questo miglioramento - e quello più lieve registrato nei giovani adulti - ha avuto solo un effetto assai ridotto sul quadro generale. In totale, gli incrementi della mortalità per cancro sono circa il doppio delle riduzioni. Edward J. Sondik, esperto di statistica dell'National Cancer Institute, sostiene che vi sarebbe un aumento di oltre il 100% dei casi di cancro al polmone nelle donne fra il 1973 e il 1990. Anche il melanoma e il cancro alla prostata hanno avuto incrementi considerevoli, di oltre l'80%, in quel periodo. Sondig ha concluso che l'incidenza totale del cancro è aumentata del 18% fra il 1973 e il 1990. "Nessun esperto del settore può continuare a credere che dietro l'angolo vi sia necessariamente tutta una serie di magnifiche terapie contro il cancro in attesa di essere scoperte" asserisce Balair ribadendo di averne abbastanza della continua sfilata di notizie sensazionali che fanno credere che una cura risolutiva stia per essere messa a punto. Le chemioterapie esistenti, nonostante i progressi, sono ancora armi a doppio taglio. Alcuni dei trattamenti per il linfoma e la leucemia inducono altri tumori, dopo il completamento della terapia per la malattia originaria....Non notate una leggera disparità tra i dati che avete letto ora e le statistiche trionfalistiche che avete sentito dai famosi clinici italiani? Forse può dipendere dal lasso di tempo intercorso, in fondo questi dati risalgono al 1993, magari la situazione è notevolmente migliorata. Vediamo allora cosa afferma Balair nel 1997 su New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste mediche a livello mondiale. "La guerra contro il cancro è lontana dall'essere vinta. L'efficacia dei nuovi trattamenti contro sulla mortalità è molto deludente". Il Giornale – Inchiesta sul cancro n°1

Se non siete ancora convinti, o semplicemente desiderate ulteriori dati, eccone altri due. Il primo è la vasta indagine condotta per 23 anni dal Prof. Hardin B. Jones, fisiologo presso l'Università della California, e presentata nel 1975 al Congresso di Cancerologia, presso l'Università di Barkeley. Oltre a denunciare l'uso di statistiche falsificate, egli prova che i cancerosi che non si sottopongono alle tre terapie canoniche sopravvivono più a lungo o almeno quanto chi riceve queste terapie. Come dimostra Jones, le malate di cancro al seno che hanno rifiutato le terapie tradizionali, mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da colore che si sono invece sottoposte alle cure complete. Il secondo caso riguarda uno studio condotto da quattro ricercatori inglesi, pubblicato su una delle più importanti riviste mediche al mondo: The Lancet del 13/12/1975 e che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi. La vita media di quelli trattati con chemioterapia completa fu di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 220 giorni. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini.

DOVE FINISCONO LE VOSTRE OFFERTE. Scrive “La Leva”. Un episodio molto interessante è la situazione che emerge da un articolo pubblicato su La Stampa nel 1994 (Ombre sulla Lega Tumori. "Fa affari, non prevenzione" p. 13). Il soggetto in questione, in questo caso, è la Lega Tumori, una di quelle associazioni che non incontrano difficoltà a reperire fondi pubblici e privati, disponibilità di personale medico e non, sponsor e benefattori, con la motivazione della necessità di sostenere la ricerca contro il cancro. Ebbene il sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, bocciò il bilancio di previsione '93 della Lega Tumori, sostenendo una grave accusa: più del 90% delle spese non veniva destinato alla ricerca o alla cura dei tumori, ma all'investimento immobiliare e mobiliare. L'accusa dell'onorevole Fiori, veniva supportata da cifre di per sé eloquenti: la sede centrale aveva destinato una minima parte dei mezzi finanziari di cui disponeva, al raggiungimento degli obiettivi istituzionali, equivalenti a 810 milioni (nemmeno un miliardo!), mentre ben 9.360 milioni (quasi 10 miliardi!) sarebbero stati spesi per investimenti patrimoniali. Fiori sottolineava che la Lega Tumori "tiene in piedi un'organizzazione che assorbe costi amministrativi ammontanti a circa 2 mila milioni, dedita per la maggior parte ad investire in operazioni finanziarie, consistenti in prevalenza in acquisto o rinnovo di titoli di Stato". Una terapia veramente innovativa per la cura del cancro, la speculazione in titoli! Bocciati come benefattori, non sembrano abili neppure come amministratori, poiché, da un cospicuo patrimonio immobiliare, riuscivano ad ottenere un rendimento annuo di soli 3 milioni. L'onorevole Fiori ha evidenziato nell'analisi che erano ben 745 i milioni di interessi attivi che la Lega Tumori era riuscita a raggiungere in un anno. Gli altri dati, come per esempio i 2,3 miliardi di immobilizzazioni tecniche ed i 10,1 miliardi di partecipazioni e valori mobiliari, comprovano la validità delle accuse mosse dal parlamentare. E dimostrano in quali amorevoli mani sia, in realtà, affidata la cura dei malati di cancro! Se dopo tutto questi fatti, che purtroppo riguardano anche altri Paesi, ci soffermiamo a confrontare i dati forniti dall'americano N.C.I. ed i finanziamenti investiti inutilmente in tutti questi anni, ne segue una valutazione immediata: non hanno ragione d'essere le lamentele di Garattini sugli scarsi finanziamenti, perché meglio sarebbe per lo Stato italiano, non solo non stanziare più di quanto non abbia già fatto finora, ma anzi esigere un reale, quanto dettagliato e costante resoconto pubblico del procedere delle ricerche e dei risultati conseguiti. Sembra però alquanto difficile pensare che possa prendere una simile decisione uno Stato succube delle multinazionali farmaceutiche. Non pare azzardata l'ipotesi di chi sospetta che, in tutta questa attività di millantata pubblica (?) utilità, ci sia quanto meno una parvenza di interesse privato. Soprattutto alla luce di alcune affermazioni che sono state fatte dalla Guardia di Finanza di Roma, quando ha scoperto persino un'intensa attività di sperimentazione clinica negli ospedali della capitale su pazienti ricoverati. Il Coordinamento per i Diritti dei Cittadini ha infatti rimarcato come "uno degli aspetti più inquietanti sarebbe quello che riguarda i finanziamenti da parte delle case farmaceutiche alle strutture pubbliche che, come prevede la legge, pagano le spese delle sperimentazioni cliniche, oltre al fatto che la ricerca è sostanzialmente orientata solo su quei prodotti che possono garantire un vasto mercato" (L'Indipendente, 19 marzo 1996). Che dire della Francia, dove la Lega nazionale contro il cancro è stata accusata di manipolazioni finanziarie, vedendo coinvolti il presidente ed alcuni ricercatori? I finanziamenti della Campagna nazionale, vanno dai 60 ai 500 franchi francesi per persona, fino alle centinaia di milioni di franchi che pervengono dai suoi tre milioni di aderenti, cittadini in buona fede, ma evidentemente male informati, che credono davvero di contribuire alla vittoria sul cancro con un'offerta, oltre tutto deducibile dalle tasse. Il presidente incriminato è Jacques Crozemarie, dottore honoris causa di una sconosciuta facoltà americana di Charleston, per giunta consigliere della Direzione generale del CNRS per la Ricerca sul cancro. Questa persona ha incassato in tre anni, dal '90 al '93, dai 600 ai 700 mila franchi annui, a titolo di onorario, da una società americana di New York, la Andara, la cui presidente è socia del presidente di un'altra società, che fornisce la carta all'ARC per le sue pubblicazioni, ora sotto inchiesta della Corte dei Conti francese. Ancora più interessante risulterebbe il fatto che il sovvenzionatore di Crozemarie, risulti essere un recapito postale, senza alcuna attività alle spalle (Orizzonti della Medicina, n. 67, giugno 1996, p. 8). Ed ecco le dichiarazioni di Ivan Cavicchi, a quel tempo coordinatore del settore Sanità della Cgil, apparse su Panorama del 14 novembre 1993 e riferite dalla pubblicazione Flash-News n° 41, in cui afferma quanto segue: "Un sistema marcio e corrotto, di cui Poggiolini era solo il guardaportone. Qui c'è la complicità dei ministri De Lorenzo in testa, ma anche del Consiglio Superiore della Sanità, dei luminari del Comitato bioetico, dei professori foraggiati dall'industria farmaceutica: un'intera organizzazione finalizzata a fare soldi sulla pelle dei cittadini". Parole pesanti come macigni; ci aspettavamo delle smentite o delle querele. In effetti Cavicchi non è più responsabile del settore: è stato promosso, è passato alla Farmindustria!

Il business delle malattie. Quando il denaro governa la coscienza, scrive il 28/11/2013 "Mediatime”. Vi siete mai chiesti come mai, dopo molti anni di investimenti dedicati alla ricerca scientifica, siamo ancora lontani dall’eliminazione di molte malattie? Il nostro modello sanitario è davvero affidabile oppure è maggiormente interessato ad incrementare i malati lucrando sulla vendita dei medicinali? Sicuramente molte vite umane sono state salvate dalla medicina ufficiale, anche se sappiamo che purtroppo, nella maggior parte delle patologie più gravi, i farmaci imposti dalle grandi industrie farmaceutiche servono a ben poco e in diversi casi danneggiano il nostro organismo. Come tutti sanno i medicinali non eliminano il problema, ma ne riducono i sintomi, spesso in maniera troppo aggressiva. Quante volte entrando in una farmacia vediamo persone in fila, come se fossero alla cassa di un supermercato, intenti a fare acquisti anche per malesseri banali… Non a caso il potere dell’industria farmaceutica fa leva proprio sulla produzione e la vendita di medicinali per curare malattie a volte persino inventate, come alcune particolari epidemie cosiddette “di tendenza”. Purtroppo non sono state del tutto smentite le voci che riguardano l’introduzione di sostanze cancerogene contenute in alcuni vaccini. Non è difficile pensare che le società farmaceutiche si arricchiscano anche inventando epidemie per vendere vaccini. Tutto questo sembrerebbe fantascienza, non è vero? Magari lo fosse. Il dominio sulla politica. Oggi si evidenzia sempre più l’influenza delle industrie farmaceutiche sulla politica, al fine di bloccare l’accesso ai rimedi naturali, caratterizzati da una letalità nulla e dal merito di aver salvato diverse persone, a differenza dei famaci ufficiali, spesso nocivi. Si potrebbero citare vari esempi, come quello di una nota azienda che, negli anni Ottanta, attraverso un altrettanto conosciuto e diffusissimo farmaco (purtroppo non possiamo fare il nome per ovvi motivi), provocò molti morti vendendo medicinali con un elevato potenziale di contagio dell’AIDS”, poiché sviluppati utilizzando il plasma di donatori portatori di HIV. Alcune di queste testimonianze sono state riportate in varie autorevoli testate giornalistiche, tra cui il Sydney Morning Herald, nel 203 e la CBS, nel 2009. Riguardo a questo, la nota emittente televisiva MSNBC ha trasmesso un video che accusa la stessa casa farmaceutica senza mezzi termini. Controllo nei mass media. Queste lobby agiscono anche influenzando i mezzi di informazione. I cittadini indifesi ogni giorno vengono bombardati da notizie terribili, sapientemente filtrate: disgrazie, attentati terroristici, calamità naturali, truffe, ecc. Nel mondo accadono anche molti episodi lieti, positivi; ma purtroppo non fanno notizia. Lo scopo principale è quello di creare, nel tempo, ansie e preoccupazioni tali da indurre i fruitori dell’informazione ad ammalarsi. Una sorta di suggestione collettiva, che colpisce prevalentemente persino quelle persone convinte di essere sveglie e vigili, ma in realtà facilmente influenzabili dai media e dall’opinione pubblica. Le malattie di origine psicosomatiche sono all’ordine del giorno e spesso diventano persino letali. Il vero guadagno dell’industria farmaceutica sta essenzialmente sulle cure contro il cancro. Se da un lato la chemioterapia risulta, senza ogni minimo dubbio, nociva per l’intero organismo umano, dall’altro rappresenta inequivocabilmente il più potente business. Al di là dei costi dei medicinali chemioterapici, in alcuni casi gratuiti grazie al Servizio Sanitario Nazionale, il costo per lo Stato è altissimo, decine di migliaia di euro a ciclo, da ripetere più volte. Vanno anche considerati i farmaci e i trattamenti addizionali per combattere gli imponenti effetti collaterali. Inoltre un paziente che ha subito una chemioterapia nella maggior parte dei casi avrà bisogno per tutta la vita di farmaci di mantenimento. Un’altra forma di manipolazione si verifica attraverso il controllo dell’alimentazione, anch’essa causa di molte malattie. Una cattiva informazione sulle reali proprietà di alcuni alimenti possono, nel tempo, indurre ad abitudini alimentari nocive. Oggi si parla molto di alimenti biologici. Ma chi certifica queste qualità sui cibi che troviamo nei negozi e supermercati? Non tutti sanno che dietro queste istituzioni-commissioni, si cela sempre il monopolio delle società farmaceutiche. Non stupiamoci allora se poi veniamo a scoprire che molti dei cibi in apparenza biologici siano stati trattati, nelle varie fasi del processo di produzione, con diversi additivi nocivi, non naturali. Sembrerebbe inoltre che la politica dalle industria farmaceutica sia costretta a ridicolizzare le varie cure alternative: non sempre risolutive ma in alcuni casi efficaci e sicuramente prive di effetti collaterali, tipici invece dei farmaci convenzionali. Aleggia sempre un aspro paradosso che fa riflettere: molti per curarsi dal cancro, vengono uccisi dai devastanti effetti della chemioterapia. Possibile che la medicina ufficiale non investa anche in ricerche orientate sulle cure alternative? Evidentemente, in caso di successo, il business verrebbe a mancare. L’ambiguità nei confronti dei farmaci naturali. Anche in virtù del fallimento riguardo l’efficacia della medicina ufficiale e alla preoccupante crescita delle patologie cronico-degenerative, sempre più persone nel mondo si sono avvicinate ai farmaci naturali. L’Italia è uno dei principali mercati europeo per i medicinali omeopatici. Una curiosa contraddizione è quella di considerare, da parte della medicina ufficiale, i prodotti omeopatici come NON farmaci, addirittura paragonandoli all’acqua fresca. Allora perché L’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, pretende tutte le analisi, come se fossero veri e propri farmaci, tra l’altro costosissime e tutte a carico dei produttori, molti dei quali costretti, di conseguenza, a chiudere? E’ ovvio che questo sistema industriale, pur di ottenere i risultati necessari, è costretto a ostacolare lo sviluppo della scienza sperimentale e clinica. Non approfondiamo inoltre gli svariati episodi di corruzione nei confronti di medici onesti ed istituzioni sanitarie. Un Premio Nobel dimenticato. Forse seconde questa filosofia industriale della medicina ufficiale dovremmo persino dimenticarci della storia: nel 1931 un prestigioso Premio Nobel per la medicina venne assegnato a Otto Heinrich Warburg, per la prevenzione del cancro. Il “difetto”, se così possiamo chiamarlo, di questa sorprendente tesi, avvalorata da un riconoscimento ufficiale, sta forse nel fatto che ai giorni d’oggi all’industria del settore la prevenzione del cancro a costo zero non porta fatturati interessanti? Fanno discutere persino alcune affermazioni della cosiddetta comunità scientifica quando ribadiscono l’assenza di prove riguardo alcune metodologie alternative: in realtà le prove ci sarebbero, ma non vengono ufficializzate sempre per il solito motivo. Purtroppo il denaro governa anche la coscienza. Alla luce dei milioni di decessi avvenuti negli anni, utilizzando diversi farmaci nocivi, sarebbe inevitabile rivalutare con più serietà e meno ipocrisia, nelle cure mediche, l’uso di rimedi naturali rispetto a quelli sintetici: la posta in gioco è la vita o la morte dell’umanità.

Intervista a Linus Pauling del 2/10/2016 di Marcello Pamio su "disinformazione.it": “la ricerca sul cancro non esiste. E’ una truffa”.

D: Dottor Pauling, lei è l’unico scienziato al mondo ad aver ricevuto ben due Premi Nobel per categorie diverse: quali sono queste categorie?

R: Ho ricevuto il Premio Nobel per la Chimica nel 1954, e per la Pace nel 1962.

D: Nonostante i numerosi studi, pubblicazioni e ricerche, ha avuto persino il tempo per codificare la cosiddetta «medicina ortomolecolare». Ci può spiegare cos’è?

R: Ho coniato il termine «medicina ortomolecolare» per indicare il mantenimento della buona salute e il trattamento delle malattie attraverso la variazione della concentrazione di sostanze che sono generalmente presenti nel corpo umano e sono necessarie per la salute. Per la Vitamina C, credo che il trattamento di una malattia attraverso il ricorso a sostanze che, come, l’acido ascorbico, sono normalmente presenti nel corpo umano e necessarie alla vita, sia da preferirsi a un trattamento che comporti il ricorso a potenti sostanze sintetiche o a estratti delle piante che possono avere, e generalmente hanno, effetti collaterali indesiderabili. L’uso terapeutico di grandi quantità di vitamine, che viene chiamato «terapia megavitaminica», è un procedimento molto importante nella medicina ortomolecolare.

D: Quindi lei sostiene l’importanza delle vitamine nella terapia di moltissime malattie: cosa ci può dire a proposito della Vitamina C?

R: La Vitamina C rafforza i naturali meccanismi di difesa, in particolar modo del sistema immunitario e aumenta l’efficacia degli enzimi nel catalizzare le reazioni biochimiche. E’ necessaria per le reazioni vitali di idrossilazione, in particolare nell’ormone adrenalina e nella sintesi della molecola del collagene. Il collagene è una delle più abbondanti proteine presenti nel corpo che va a costituire il tessuto connettivo (la materia plastica naturale del corpo: cartilagini, tendini, vasi sanguigni, ecc.). Un’elevata assunzione di Vitamina C aiuta a controllare molte malattie: non solo il comune raffreddore, ma anche altre, virali e batteriche, come l’epatite, e altre ancora, assolutamente non correlate fra loro, come la schizofrenia, i disturbi cardiovascolari e il cancro. Il dott. Claus W. Jungerblut, dell’Università della Columbia, nel 1935 riferì che la Vitamina C ad alte dosi rende inattivo il virus della poliomielite, dell’herpes, del vaiolo bovino e quello dell’epatite. Non solo, la Vitamina C rende inattivi pure i batteri e le loro tossine (difterite, stafilococco, dissenteria, ecc.)

D: Uno dei problemi più seri della nostra società sono le malattie cardiovascolari. Nonostante l’immenso bagaglio farmaceutico messo a disposizione dalle corporazioni della chimica, ogni anno muoiono moltissime persone nel mondo. In questo caso la Vitamina C può essere d’aiuto, oppure no?

R: Le patologie cardiache costituiscono la principale causa di morte nei paesi industrializzati. Sono convinto che il tasso di mortalità relativo a queste patologie a ogni età potrebbe essere diminuito in maniera notevole, probabilmente ridotto a metà, attraverso un uso appropriato della Vitamina C.

D: Viste le proprietà eccezionali di questa vitamina, non capisco perché le case farmaceutiche non s’interessano della Vitamina C! O meglio, so bene qual è il motivo, ma vorrei sentire la sua opinione!

R: La mancanza d’interesse delle multinazionali risiede nel fatto che la Vitamina C è una sostanza naturale che è disponibile a bassi costi e che non può essere brevettata! Proprio come pensavo. Sempre la solita minestra: una sostanza, nonostante le proprietà terapeutiche, non viene presa in considerazione dalle corporazioni della chimica se non produce ritorni economici enormi.

D: Dottor Pauling, la RGR della Vitamina C (Razione Giornaliera Raccomandata) consigliata dal ministero dell’Alimentazione e della Nutrizione è di 60 milligrammi al giorno. Lei invece parla di svariati grammi al giorno…

R: Le RGR relative alle vitamine, sono le dosi che hanno la probabilità di prevenire nelle persone «di salute normalmente buona» la morte per scorbuto, beri-beri, pellagra, o altre malattie da carenza vitaminica, ma non sono le dosi che fanno acquistare alla gente uno stato ottimale di salute. Per un essere umano, 2300 milligrammi (2,3 grammi) al giorno di acido ascorbico sono inferiori al tasso ottimale di assunzione di questa vitamina. Da numerosi studi risulta che l’assunzione ottimale di Vitamina C per un essere umano adulto varia da 2,3 grammi a 10 grammi al giorno. Le differenze biochimiche individuali sono tali che, su una vasta popolazione, il tasso di assunzione può essere incluso tra i 250 milligrammi e i 20 grammi, o anche più, al giorno.

D: Ma dosi così elevate non sono pericolose per la salute?

R: L’acido ascorbico nella letteratura medica è descritto come «virtualmente non tossico». Alcune persone hanno ingerito dai 10 a 20 grammi di Vitamina C al giorno per 25 anni senza che si producessero calcoli renali o altri effetti collaterali. Un ammalato di cancro ne ha presi 130 grammi al giorno per 9 anni, ricavandone beneficio. Non è mai stato segnalato alcun caso di morte per una ingestione massiccia di acido ascorbico e neppure alcuna malattia seria.

D: Ma non basta la Vitamina C contenuta negli alimenti?

R: Il ricercatore Irwin Stone, nel 1965, rilevò che gli esseri umani e altri primati come la scimmia rheus, non sanno sintetizzare la Vitamina C e la richiedono come vitamina integrativa. Una volta che una specie ha perso tale capacità di produrla autonomamente, essa dipende, per la sua esistenza, dalla possibilità di trovarla nel cibo a disposizione. Però, visto che la maggior parte delle specie animali non hanno perso questa capacità (ad esclusione dell’uomo), significa che la quantità di acido ascorbico generalmente presente nel cibo non è sufficiente a fornire la dose ottimale.

D: Quindi se ho capito bene: l’uomo, avendo perso la capacità di sintetizzare la Vitamina C autonomamente, necessità di un apporto esterno attraverso il cibo. Ma il cibo non è ricco a sufficienza per soddisfare questo fabbisogno! Come possiamo allora integrare l’acido ascorbico?

R: La Vitamina C, o acido ascorbico, è una polvere bianca cristallina che si scioglie in acqua. La sua soluzione ha un sapore acido, che ricorda quello dell’arancia. Essa può essere assunta oralmente, anche sotto forma di sali dell’acido ascorbico, in particolare come ascorbato di sodio e ascorbato di calcio. Tuttavia solo questi ultimi due, che sono sali, possono essere iniettati per via endovenosa, poiché diversamente la soluzione acida danneggia le vene e i tessuti.

D: Lei ha criticato molto lo zucchero, come mai? Ci sono evidenze scientifiche della sua pericolosità per la salute?

R: Da numerosi studi siamo portati a concludere che gli uomini che ingeriscono molto zucchero corrono rischi di gran lunga maggiori di ammalarsi di cuore, in un’età variante fra i 45 e i 65 anni, rispetto a quelli che ne ingeriscono quantità inferiori. L’incidenza di malattie coronariche, inclusa l’angina pectoris, va di pari passo con l’aumentato consumo di zucchero, e non è affatto correlata con il consumo di grassi animali o dei grassi in genere. Il metabolismo del saccarosio (zucchero) produce al primo stadio uguali quantità di glucosio e di fruttosio. Il glucosio entra direttamente nei processi metabolici che forniscono l’energia alle cellule del corpo, il metabolismo del fruttosio invece procede in parte per una direzione diversa, che prevede la produzione di acetato, precursore del colesterolo che sintetizziamo nelle cellule del fegato. In uno studio clinico della massima serietà, è stato dimostrato che l’ingestione del saccarosio porta a un aumento della concentrazione di colesterolo nel sangue.

D: Per concludere, qual è la sua ricetta, se ne ha una, per stare bene e vivere a lungo?

R: Ecco i punti fondamentali del regime:

1) INTEGRARE L’ALIMENTAZIONE CON NOTEVOLI QUANTITÀ DI VITAMINA C (DA 6 A 18 GRAMMI), VITAMINA A, E, B.

2) ASSUMERE MINERALI (CALCIO, FERRO, RAME, MAGNESIO, ZINCO, CROMO, SELENIO, ECC.)

3) RIDURRE L’ASSUNZIONE DI ZUCCHERO

4) MANGIARE CIÒ CHE PIACE, MA IN MANIERA MODERATA

5) BERE MOLTA ACQUA E POCHI ALCOLICI

6) FARE ATTIVITÀ FISICA

7) NON FUMARE

8) EVITARE OGNI FORMA DI STRESS

La caratteristica principale rimane comunque l’apporto di vitamine, soprattutto di Vitamina C!

Cancro “incurabile”, il business infinito della chemioterapia, scrive il 22/10/15 "Libreidee". Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistemagli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari». Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistema gli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari».

Beneficenza, fondi Airc: alla ricerca solo la metà. Più di 90 milioni di entrate nel 2008, ai laboratori destinati 45 milioni e mezzo L’anno scorso quasi 23 milioni dirottati verso fondi di investimento e obbligazioni. Viaggio nel lato oscuro della beneficenza, scrive Stefano Filippi, Giovedì 13/08/2009, su "Il Giornale". La sigla è una delle più conosciute dalle famiglie italiane: Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro. È il male del secolo, ed è una malattia ancora oscura. I fondi da investire negli studi non sono mai abbastanza. E la macchina per raccogliere denaro è enorme. L’associazione ha una lunga storia alle spalle: nacque nel 1965 da una costola dell’Istituto dei tumori di Milano. Conta su un milione 700mila soci in tutta Italia che ne confermano la vastissima fiducia. Ha l’appoggio di testimonial famosi (attori, campioni dello sport, intellettuali) che invitano a fare testamento a favore della ricerca. Un nome di spicco della medicina italiana, quello dell’oncologo Umberto Veronesi, senatore ed ex ministro, è garanzia di serietà. Lo staff è composto da un comitato tecnico-scientifico che vigila sull’impiego dei fondi e un gruppo di 250 scienziati stranieri che valuta i progetti di ricerca. Numerosi imprenditori di successo arricchiscono la composizione dei 17 comitati regionali. Un parterre consolidato di grandi aziende (Rai e Mediaset, Intesa e Unicredit, Tim e Vodafone, Starwood ed Esselunga) assicurano stabilità nel tempo. Gli ultimi due spot istituzionali sono firmati dal regista Ferzan Ozpetek e hanno come protagoniste Isabella Ferrari e Valeria Golino. Le iniziative promozionali entrano in tutte le case italiane: l’Azalea della ricerca, le Arance della salute, la Giornata nazionale. E ancora feste, mercatini, concerti, pubblicazioni scientifiche. E soprattutto l’Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare), fondato nel 1998 dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, un centro di studio e ricerca non profit ad alta tecnologia. Dare soldi all’Airc è come metterli nel salvadanaio regalato dai nonni: sono al sicuro. Un nome, una garanzia. Infatti l’associazione raccoglie una montagna di denaro: nel 2008, informa il bilancio appena pubblicato, sono arrivati 90.542.066 euro dall’attività di raccolta fondi. Arance e azalee, quote associative e bollettini postali, auguri e donazioni hanno fruttato 58 milioni e rotti di euro cui si aggiungono oltre 32 milioni dal 5 per mille. Per avere dei paragoni, Actionaid ha proventi per 44 milioni di euro, Telethon 30 milioni, Emergency 22 milioni, Telefono azzurro 7 e mezzo. Ma quanti di questi denari raccolti finiscono effettivamente ai ricercatori che devono sconfiggere il cancro? La risposta, contenuta nel medesimo bilancio, è sorprendente: poco più della metà. Nel 2008 l’Airc ha destinato 43.892.390 euro (il 48,5 per cento) a «progetti di ricerca, borse di studio e interventi vari», altri 1.146.497 euro (1,3 per cento) ad «attività istituzionale d'informazione scientifica “Notiziario fondamentale” e sito internet», infine 577.339 euro (0,6 per cento) ad altre attività istituzionali. In totale, l’«attività istituzionale di sviluppo della ricerca oncologica e informazione scientifica» è costata all’Airc 45.616.226 euro: il 50,4 per cento delle somme raccolte presso gli italiani. Percentuale che scenderebbe al 49,4 se, invece che limitarsi ai fondi donati, considerassimo il totale dei mezzi disponibili (raccolta fondi più proventi finanziari). E l’altra metà della mietitura, dove finisce? È una ricostruzione complessa. Raccogliere soldi costa, e costa caro. Per comprare e distribuire le arance della salute si spendono un milione 373mila euro (ricavo netto due milioni409mila), i 700mila cestini delle azalee della ricerca assorbono quattro milioni 774mila (per un guadagno di cinque milioni 638mila). E poi la spedizione dei bollettini postali, l’attività dei comitati, le campagne pubblicitarie e di sensibilizzazione. Complessivamente, gli oneri direttamente legati al «fundraising» ammontano a 16.333.434 euro: come dire che per ogni euro raccolto, 18 centesimi sfumano in spese vive. A questo calcolo vanno aggiunti i costi generali, cioè quelli sostenuti per tenere in piedi la complessa macchina dell’associazione: stipendi (cinque dirigenti, 72 impiegati, 5 collaboratori), gestione soci, attrezzature, computer, telefoni, comitati regionali. Questa voce si porta via 5.864.642 euro. E fanno 22 milioni 200mila euro di spese: un quarto delle entrate. Sono cifre paragonabili al bilancio di una media azienda italiana. Ricapitoliamo. Nel 2008 l’Associazione per la ricerca sul cancro ha avuto a disposizione 92.285.542 euro, di cui 90.542.066 donati direttamente dagli italiani in varie forme. Una quantità di soldi strabiliante. I vertici dell’Airc ne hanno destinato soltanto metà alla ricerca oncologica, scopo istituzionale dell’organismo. Per pareggiare i conti, manca l’ultimo quarto: 24 milioni e mezzo di euro. Che sono stati iscritti in bilancio come «risultato gestionale dell’esercizio». Un utile accantonato e non utilizzato. Un ottimo risultato, se paragonato alla perdita di quasi quattro milioni di euro registrata nel 2007. Secondo l’articolo 20 dello statuto dell’Airc, gli avanzi di gestione «saranno destinati, negli esercizi successivi, agli scopi istituzionali»: in ogni caso non viene distribuito nessun utile. Ma nel frattempo, come vengono impiegati? Vengono investiti in titoli e fondi comuni di investimento. In attesa di tempi migliori nei quali aprire nuovi fronti di lotta al cancro, l’Airc mette in banca i soldi versati con tanta generosità dagli italiani. Il dettaglio è contenuto nella nota integrativa al bilancio. Al 31 dicembre 2008 risultavano titoli di stato italiani (20.220.000 euro contro i 698mila del 2007), fondi comuni monetari (573mila, un anno prima erano 5.802.000), obbligazioni di società italiane (20mila), titoli di Stato estero denominati in euro (5.054.000 euro). Le disponibilità liquide ammontavano a 22.965.000 euro. Tra interessi e cedole, questa serie di investimenti ha reso un milione scarso. L’Airc spiega che un avanzo di gestione di tali dimensioni è dovuto al 5 per mille sui redditi 2005, solo parzialmente utilizzato. «Il consiglio direttivo ha dato mandato alla Commissione consultiva scientifica di predisporre il piano strategico per l’utilizzo delle eccezionali risorse pervenute e che perverranno negli esercizi futuri. Possibile che l’associazione non avesse idea di quanto avrebbe incassato? E che non abbia progetti, borse di studio o iniziative pronte per essere lanciate? Il Giornale avrebbe voluto porre queste e altre domande a Piero Sierra, presidente dell’Airc, il quale però era già partito per le vacanze lontano dall’Italia dove non è stato possibile telefonargli.

La grande truffa del Telethon il professor Testard denuncia una "mistificazione". Il Telethon 2008 in Francia è terminato il 7 dicembre, dopo 30 ore di appello ai donatori. Più di 95 milioni di euro sono stati raccolti per la ricerca sulle malattie genetiche. Sono 20 anni che questa "grande fiera" televisiva continua... Ecco cosa ne pensa un ricercatore, uno specialista in biologia della riproduzione. (La grande escroquerie du Téléthon Le professeur Testard dénonce une "mystification". Traduzione di Giuditta). "E 'scandaloso. Il Telethon raccoglie annualmente tanti euro quanto il bilancio di funzionamento di tutto l'Inserm. La gente pensa di donare soldi per la cura. Ma la terapia genica non è efficace. Se i donatori sapessero che il loro denaro, prima di tutto è utilizzato per finanziare le pubblicazioni scientifiche, ma anche i brevetti di poche imprese, o per eliminare gli embrioni dai geni deficienti, cambierebbero di parere. Il professor Marc Peschanski, uno dei architetti di questa terapia genica, ha dichiarato che abbiamo intrapreso un strada sbagliata. Si stanno facendo progressi nella diagnosi, ma non per guarire. Inoltre, anche se progrediamo tecnicamente, noi non comprendiamo molto di più la complessità della vita. Poichè non possiamo guarire le malattie, sarebbe preferibile cercare di scoprirne l'origine, prima che si verifichino. Ciò consentirebbe l'assoluta comprensione dell'uomo, di una certa definizione di uomo".  In un'intervista con Medicina-Douces.com. Jacques Testard, è direttore di ricerca presso l'Istituto Nazionale della Sanità e della Ricerca Medica (Inserm), specialista in biologia della riproduzione, "padre scientifico" del primo bebè-provetta francese, e autore di numerose pubblicazioni scientifiche che dimostrano il suo impegno per una "scienza contenuta entro i limiti della dignità umana". Testard scrive sul suo blog, fra l'altro: "Gli OGM (organismi geneticamente modificati) sono disseminati inutilmente, perché non hanno dimostrato il loro potenziale, e presentano un reale rischio per l'ambiente, la salute e l'economia. Essi non sono che degli avatar dell'agricoltura intensiva che consentono ai produttori di fare fruttificare i brevetti sulla Natura e la Vita. Al contrario, i test terapeutici sugli esseri umani sono giustificati quando sono l'unica possibilità, anche piccola, per salvare una vita. Ma è assolutamente contraria all'etica scientifica (e medica) far credere a dei successi imminenti di uno o di un altro farmaco. Nonostante i numerosi errori, i fautori della terapia genica (spesso gli stessi fra quelli degli OGM) sostengono che "finiremo per arrivarci", e hanno creato un tale aspettativa sociale che il "misticismo del gene" si impone ovunque, sino nell'immaginario collettivo. Il successo costante del Telethon dimostra questo effetto, poiché a forza di ripetute promesse, e grazie alla complicità di personalità mediatiche e scientifiche, questa operazione raccoglie donazioni per un importo vicino al bilancio di funzionamento di qualsiasi ricerca medica in Francia. Questa manna influisce drammaticamente sulla ricerca biologica in quanto la lobby del DNA dispone del quasi monopolio dei mezzi finanziari (finanziamenti pubblici, dell'industria e della beneficenza) e intellettuali (riviste mediche, convenzioni, contratti, man bassa sugli studenti ...). Quindi, la maggior parte delle altre ricerche sono gravemente impoverite - un risultato che sembra sfuggire ai generosi donatori di questa enorme operazione caritativa... " Per completare, ultima citazione estratta dal libro di Testard "La bicicletta, il muro e il cittadino": Tecno science e mistificazione: il Telethon. "Da due decenni, ogni anno, due giorni di programmazione della televisione pubblica sono esclusivamente riservati ad un'operazione orchestrata, alla quale contribuiscono tutti gli altri mezzi di comunicazione: il Telethon. Col risultato che, delle patologie, certamente drammatiche ma che, per fortuna, interessano relativamente poche persone (due o tre volte inferiore alla sola trisomia 21, per esempio), mobilitano molto di più la popolazione e raccolgono molti più soldi rispetto ad altrettante terribili malattie, un centinaio o un migliaio di volte più frequenti. Possiamo solo constatare un meritato successo di una efficace attività di lobbying e consigliare a tutte le vittime, di tutte le malattie, di organizzarsi per fare altrettanto. Ma si dimenticherebbe, per esempio, che:

-il potenziale caritativo non è illimitato. Quello che ci donano oggi contro la distrofia muscolare, non lo doneranno domani contro la malaria (2 milioni di decessi ogni anno, quasi tutti in Africa);

-quasi la metà dei fondi raccolti (che sono equivalenti al bilancio annuale di funzionamento di tutta la ricerca medica francese) alimentano innumerevoli laboratori che influenzano fortemente le linee guida. Contribuendo in tal modo alla supremazia finanziaria dell'Associazione francese contro la distrofia muscolare (l'AFM che raccoglie e ridistribuisce a suo piacimento i fondi raccolti), sarebbe anche e soprattutto impedire ai ricercatori (statutari per la maggior parte, e quindi pagati dallo Stato, ma anche laureati e, soprattutto, studenti, sicuramente raccomandati, post-dottorato che vivono sul finanziamento della AFM) di contribuire alla lotta contro altre malattie, e/o di aprire nuove strade; 

-non è sufficiente disporre di mezzi finanziari per guarire tutte le patologie. Lasciar credere a questo strapotere della medicina, come lo fa il Telethon è indurre in errore i pazienti e le loro famiglie;

-dopo venti anni di promesse, la terapia genica, non sembra essere la buona strategia per curare la maggior parte delle malattie genetiche;

-quando delle somme così importanti sono raccolte, e portano a tali conseguenze, il loro utilizzo dovrebbe essere deciso da un comitato scientifico e sociale che non sia sottomesso all'organismo che le colletta.

Ma anche, come non domandarsi sul contenuto di una "magica" operazione in cui le persone, illuminate dalla fede scientifica, corrono fino ad esaurimento o fanno nuotare i loro cani nella piscina comunale ... per "vincere la miopatia"? Alla fine della tecnoscienza, spuntano gli oracoli e i sacrifici di un tempo che credevamo finito ... " In conclusione: non fate dei doni al Telethon! Di Olivier Bonnet

Intervista a Alberto Mondini, autore de "Kankropoli" di Marcello Pamio su “Disinformazione”.

D: Gentile Alberto Mondini racconti brevemente a tutti i lettori la sua disavventura legale, partendo però dalla sua Associazione per la Ricerca e Prevenzione dal Cancro. Cos'è, e soprattutto qual è il fine dell'ARPC?

R: L'ARPC è un'associazione no-profit fondata e regolarmente registrata il 20-2-1992. Nel suo statuto gli scopi sono così enunciati: "Effettuare la ricerca, la diffusione, la promozione e la pratica di conoscenze e tecniche non-mediche atte alla conservazione o ripristino della salute fisica e mentale, cioè di quelle conoscenze e tecniche che attualmente non vengono insegnate nei corsi di laurea in medicina e nei corsi di specializzazione universitari. Occuparsi principalmente della prevenzione e guarigione dei tumori". In quanto alla mia ultima disavventura giudiziaria, il racconto può essere molto breve. Il 7 marzo 2002, a causa di alcuni energumeni che erano entrati negli uffici dell'ARPC (io non ero presente), viene chiesto l'intervento dei carabinieri. Due agenti arrivano dopo pochi minuti e, invece di identificare ed allontanare i violenti, mettono i sigilli alla porta dei locali per sequestro e mandano la pratica alla magistratura, che convalida il provvedimento. Accusa: associazione a delinquere finalizzata alla truffa. A questo punto io mi son trovato a dover pagare migliaia di euro al mese senza poter procedere alla consueta raccolta fondi; in caso contrario avrei potuto subire un arresto cautelativo per reiterazione del reato. A fine gennaio scorso (dopo 11 mesi!) le accuse vengono archiviate, in quanto non è stato trovato alcun elemento che possa sostenerle.

D: Il suo libro "Kankropoli", che personalmente trovo eccezionale, ha praticamente scatenato e lanciato all'opinione pubblica il caso Di Bella. Oggi sappiamo come il professore modenese e il suo "pericoloso Metodo" sono stati boicottati in tutte le maniere: farmaci scaduti, pazienti allo stadio terminale, protocolli bloccati dopo pochi mesi, ecc. Lei pensa che il problema giuridico che ha avuto lei e l'Associazione ARPC sia in qualche maniera riconducibile al libro?

O più precisamente riconducibile a Di Bella?

R: Sono e sono sempre stato un "tipo scomodo", come mi ha definito un giornalista della Stampa. Purtroppo ho sempre cercato di ragionare con la mia testa e di sentire cosa suggeriva la mia coscienza, e non mi sono mai fatto inquadrare; questo non piace alle istituzioni e alle varie lobbies. L'ARPC e Kankropoli sono state due prese di posizione, forse le mie più forti, che non sono "piaciute" in particolar modo e che, quindi, hanno attirato gli attacchi. Il ruolo che Kankropoli ha avuto nel far scoppiare il caso Di Bella è certo un'aggravante. Io sono classificato tra gli "amici di Di Bella" (v. il libro su Di Bella degli Editori Riuniti).

D: Se non è così quali sarebbero le vere motivazioni, se ce ne sono naturalmente, che hanno fatto partire l'azione giudiziaria con tutto quello che ne consegue? Dava fastidio a qualcuno, a qualche organizzazione medica?

R: Certo che dò fastidio alla lobby medico-farmaceutica! So che nell'ambiente del potere medico Kankropoli è ben conosciuto e viene sussurrato in segreto. In pubblico non ammetterebbero mai di conoscerlo. La loro prima regola su questi argomenti è: "Non parliamone, ignoriamolo e facciamo in modo che tutti lo ignorino".

D: Il cancro è una malattia molto, molto redditizia. Questa cinica affermazione è inconfutabile: dietro i tumori si nascondono interessi economici enormi. Secondo lei, perché la medicina ufficiale non vuole, e fa di tutto per impedire che vengano alla luce, questi rimedi alternativi? Semplicemente perché sarebbero controproducenti per le casse, oppure perché la salute delle persone viene prima di tutto, e pertanto vogliono garantire la sicurezza nella cura?

R: Perché sarebbero controproducenti per le casse. Questa affermazione è assolutamente vera, ma non è completa. Ci sono anche fortissimi interessi personali di potere e di prestigio, oltre che economici, nel campo universitario e della ricerca. Ci sono delle persone, in questi ambienti, la cui cialtroneria sconfina spesso con un comportamento criminale. Spesso possiedono un quoziente d'intelligenza mediocre e una competenza dilettantistica. La ricerca è un pozzo senza fondo in cui vengono gettati milioni di euro in quantità senza che, per legge, sia minimamente richiesto alcun risultato concreto. Questa è una logica da manicomio, dal mio punto di vista; ma da parte dei ricercatori è una pacchia, è l'albero della cuccagna, è il paese dei balocchi! Pensate un po': "ti dò dei soldi, ma se non produci niente, non ti preoccupare: il prossimo anno te ne darò ancora". Anzi, meno si "scopre", più fondi vengono assegnati; perché ciò vuol dire che il problema è molto difficile, ci vogliono più mezzi, ecc, ecc, ecc.....

D: E' d'accordo con quei ricercatori sempre più numerosi che propongono alla medicina allopatica di cambiare totalmente strada nella cura del cancro, comprendendo che il cancro non è un virus e neppure un agente eziologico esterno, ma un qualcosa che nasce e cresce dentro, qualcosa di nostro?

R: Sono d'accordo che la medicina deve cambiare totalmente strada. Se però si intende "qualcosa di nostro" come qualcosa che ha a che fare con le ricerche sul genoma, direi che siamo ancora fuori strada. Il grande tradimento della medicina è cominciato quando i medici hanno iniziato a considerare l'uomo come un corpo, invece che uno spirito che abita un corpo. Da lì gli errori sono venuti a valanga.

D: Non è assolutamente vero che il cancro è stato sconfitto! Eppure i "luminari" della scienza medica durante le interviste si accaparrano arrogantemente il diritto di affermare ciò. La verità è che moltissime persone muoiono e stanno morendo di questo male, tantissime di loro seguiranno fiduciose le pratiche terapeutiche chimicamente devastanti della medicina ufficiale, altri imboccheranno strade alternative. Vi saranno risultati positivi e nefasti da entrambe le parti, come lo spiega? Destino, fatalità o forse non è importante in sé quale rimedio si scelga, ma semmai come lo si fa: in una parola l'atteggiamento?

R: Direi che la cosa più importante è trovare un naturopata competente.

D: Adesso Mondini, cosa ha intenzione di fare, ora che la giustizia ha fatto il suo corso? Continuerà a portare avanti l'associazione o mollerà tutto?

R: Ora devo rimettere a posto la mia vita dopo la bufera. Dato che devo ancora pagare 25.000 euro di debiti dell'ARPC, causati delle indagini giudiziarie, e dato che non vivo di rendita, dovrò darmi da fare. Per il momento continuo a dare assistenza ai pazienti che si rivolgono a me; cercherò poi (a piè pagina trovate già una prima iniziativa) di ricostruire l'ARPC con una struttura più "leggera"; inoltre sto cercando di riunire molte associazioni italiane in unico movimento anti farmaceutico e anti psichiatrico e, forse, in un partito politico: l'inizio è già piuttosto promettente.

L'eretico che lanciò il caso Di Bella "Ecco tutti i segreti di Kankropoli". Alberto Mondini è un naturopata. Si batte da anni contro la mafia del cancro; andando in cerca di medici che la pensano come lui. È stato indagato, ma poi lo stesso Pm ha chiesto l’archiviazione per insussistenza dei reati, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 05/10/2008, su "Il Giornale". Alberto Mondini sa di essere un eretico e non fa nulla per nasconderlo. «Se lei chiede in giro informazioni sul mio conto, i medici le diranno che da giovane ero dedito alla meditazione yoga, che ho fatto il croupier, che ho avuto tre mogli, che una di loro era una cantante di musica leggera. Tutto vero, o quasi. Solo che al Casinò di Venezia, un posto orribile, ho lavorato dal ’71 all’81 e quella attuale è la mia seconda moglie. Ma a loro torna comodo farmi passare per un personaggio losco o ridicolo, che adesso gioca alla roulette con le vite degli altri. Le diranno anche che a Torino sono stato indagato per truffa aggravata e associazione a delinquere. Vero anche questo. La mia colpa? Ero entrato in competizione con le varie leghe e associazioni contro i tumori, una delle quali in un anno raccoglieva offerte per 10 miliardi di lire e destinava alla ricerca appena 810 milioni, tanto che l’allora sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, si rifiutò di firmarne il bilancio. Però ometteranno di aggiungere che fu lo stesso pubblico ministero a chiedere e ottenere l’archiviazione per insussistenza dei reati». Da quel giorno gira col certificato penale in tasca; sopra c’è scritto che al casellario giudiziale risulta questo a suo carico: «Nulla». Mondini, 61 anni, naturopata veneziano, è diventato un eretico da quando ha fondato l’Arpc (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e ha pubblicato il libro Kankropoli, sottotitolo La mafia del cancro, presentato in copertina come «il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella». Nel capoluogo piemontese aveva aperto un ambulatorio gratuito con un medico che consigliava ai pazienti come curarsi secondo natura, «si trovava allo 0 di via Vespucci». Un numero civico vero, esistente, eppure talmente assurdo da sembrare immaginario, proprio come le teorie scientifiche propugnate da Mondini, che richiederebbero alla medicina di ripartire da zero per poter essere accolte: «L’origine del cancro non è genetica. La cellula non ha niente a che vedere con i tumori. Il cancro è provocato dalla candida, un fungo. Dieci milioni di morti per tumore all’anno nel mondo dimostrano il totale fallimento dell’oncologia. Gli errori medici, sommati ai farmaci somministrati correttamente, rappresentano col 7,58% la terza causa di decesso negli Usa e più o meno in tutti i Paesi occidentali, subito dopo le malattie cardiovascolari (47%) e il cancro (22,11%) e prima di fumo, alcolismo, incidenti stradali, suicidi, assassini. La chemioterapia non guarisce, anzi è un genocidio. Idem la radioterapia. I medici hanno piegato la conoscenza al servizio di un business colossale controllato da grandi multinazionali che dipendono dai Rockefeller negli Stati Uniti e dai Rothschild in Europa. Dieci anni fa il cancro nella sola Italia era un affare da 80.000 miliardi di lire, calcolati per difetto, di cui la metà, 40.000 miliardi, per farmaci chemioterapici». Sono teorie che Mondini non ha formulato in proprio bensì andando a trovare uno per uno una dozzina di eretici come lui. Ha soppesato le ricerche, ha vagliato i risultati, ha acquisito le cartelle cliniche, s’è mantenuto in contatto con loro per anni. Ne è uscito un altro libro, Il tradimento della medicina. Il primo medico che avvicinò fu il dottor Aldo Alessiani, ex primario plurispecialista di Roma, oggi defunto. «Era partito da un’intuizione: visto che l’incidenza dei tumori andava di pari passo con l’aumento della statura media della popolazione, poteva trattarsi di una malattia da carenza. Immagini l’uomo come un fiore: tolto dal suo habitat naturale, cresce più forte e più alto ma perde il suo profumo. Bisognava cercare il rimedio nel terreno, in profondità. L’occasione di sperimentare si presentò quando la moglie fu colpita da un cancro all’utero, che aveva presto invaso il retto, l’intestino e il peritoneo. L’addome era aumentato a dismisura, la signora sembrava incinta di otto mesi. Il professor Ercole Brunetti tentò di operarla nel luglio 1991 presso la clinica Santa Rita da Cascia: come si suol dire, la aprì e la richiuse. Niente da fare. Ma Alessiani non si arrese e di nascosto preparò una soluzione, disciogliendo in acqua dei particolari terricci, e la somministrò alla moglie. In 21 giorni la signora Alessiani lasciò la clinica, anziché nella bara, sulle sue gambe e partì per una vacanza. Guarita. Il marito fu convocato da un magistrato che gli disse: “Mi creda, ho avuto questo incarico da molto in alto. Si ricordi che l’Italia è piena di falsi incidenti d’auto”. Nell’estate 1993 il dottor Alessiani subì un incidente stradale molto strano, che aveva tutte le caratteristiche dell’avvertimento criminale».

Lei è un esperto di medicina naturale, non un medico. Che titolo ha per parlare di tumori?

«Caspita! Sono un potenziale paziente».

Che cosa le fa credere che all’origine del cancro vi sia la candida?

«Dieci anni di ricerche. Dove non c’è il fungo, non c’è tumore. L’errore di base dell’oncologia è stato attribuire un’origine genetica al cancro. Quella della cellula che a un certo punto impazzisce e si riproduce all’infinito è un’ipotesi finora indimostrata. In realtà le cellule cancerose non sono altro che l’estrema difesa dell’organismo contro il fungo: il corpo le crea affinché il fungo attecchisca solo lì e non vada a intaccare gli organi vitali. Quindi non ha senso accanirsi contro di esse. È solo eradicando la candida che scompare il tumore».

Chi lo afferma?

«Il dottor Tullio Simoncini, oncologo e diabetologo romano, secondo il quale la candida albicans è sempre presente nei malati neoplastici, può produrre metastasi, ha un patrimonio genetico sovrapponibile a quello dei tumori, riesce a invadere tessuti e organi d’ogni tipo, dimostra un’aggressività e un’adattabilità illimitate».

Ma Simoncini non è lo studioso che cura il cancro col bicarbonato di sodio?

«Esatto. L’antifungino più attivo. È con quello che le mamme hanno sempre eliminato il mughetto dalla bocca dei figli. Simoncini lo provò su una zia e la guarì da un tumore allo stomaco con un cucchiaino di bicarbonato mattina e sera. Ma il sale dell’acido carbonico deve arrivare a contatto diretto col tumore, quindi è necessario posizionare nel paziente piccoli cateteri endocavitari o endoarteriosi. Ed è il motivo per cui contro i tumori delle ossa può fare ben poco, essendo irrorati da minuscole arterie che non consentono una sufficiente diffusione del bicarbonato».

Simoncini è stato radiato dall’Albo dei medici o ricordo male?

«Ricorda bene. Però dovrebbe anche ricordare che l’Ordine non ha tenuto in alcun conto la legge numero 94 dell’8 aprile 1998. La quale stabilisce che il medico, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente, può impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di utilizzazione diverse da quelle autorizzate, purché “tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”. Il dottor Simoncini ha dalla sua 31 studi internazionali relativi al potere antiacido del bicarbonato di sodio nei tumori».

Lei ha visto debellare il cancro col bicarbonato?

«La mia regola è questa: mostratemi tre casi di tumori guariti, documentati da Tac eseguite prima e dopo una cura, e io divento paladino di quella cura. Nel caso di Simoncini ho esaminato dieci cartelle cliniche. E ho constatato che i tumori sotto i 3 centimetri spariscono in dieci giorni. Nel cancro al seno non infiltrato la probabilità di guarigione è del 99%, al fegato dell’80%, al polmone del 60%». 

Simoncini guarisce la maggior parte dei pazienti? Un po’ dura da credere.

«Sicuramente nei malati già trattati con la chemio la percentuale di successo è meno alta. Ma se venisse un tumore a me, andrei subito da lui. Prima di farsi devastare il corpo dalla chemio, perché non provare una terapia che non ha effetti collaterali negativi? All’oncologo romano non perdonano d’aver individuato un principio attivo che nei supermercati costa 80 centesimi di euro al chilo. Per un paziente trattato con i chemioterapici lo Stato spende mediamente 100.000 euro. Moltiplichi per i 250.000 nuovi casi di tumore che si registrano ogni anno in Italia e capirà il vero motivo per cui la cura Simoncini viene osteggiata».

Lei scrive: «Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto o fantasia». Sa di cospirazione planetaria.

«Cospirazione? No, è marketing. Per l’industria farmaceutica si tratta solo di vendere di più. Il fatto è che la chemioterapia non funziona. Quando proclamano che 50 malati di cancro su 100 guariscono, significa che 50 muoiono entro 5 anni dalla scoperta del male e gli altri poco dopo. Se un malato muore dopo 5 anni e un giorno, per loro è un morto guarito».

Non può negare che già nel 2002 la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi per tutti i tipi di tumore, esclusi quelli della cute, era del 45,7% per gli uomini e del 57,5% per le donne, con una punta dell’83% per il cancro al seno.

«Come lei dice, in oncologia non esistono statistiche di guarigione, solo di sopravvivenza a 5 anni. Una volta fornivano anche quelle a 10 e 15 anni. Ora non le presentano più, si vergognano. Lei provi a cercarle: non le troverà. La sopravvivenza media calcolata a 5 anni su tutti i tumori certi e maligni è del 7%».

Come fa a dirlo?

«Sono gli stessi oncologi a dirlo, ma solo sui manuali destinati agli studenti universitari. Ci sono tumori a lungo decorso o addirittura semibenigni, tipo quelli delle ghiandole, i baseliomi, i liposarcomi, che vengono inseriti nelle statistiche per edulcorarle. Anche le esasperate campagne di diagnosi precoce del tumore al seno servono allo scopo: dimostrare la sopravvivenza oltre i fatidici 5 anni. Ma per i tumori maligni basti un solo esempio: su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con chemioterapia completa è stata di 75 giorni, mentre quelli che non hanno ricevuto alcun trattamento sono sopravvissuti in media per 220 giorni. Cinque mesi di più. Non lo dico io: lo ha scritto The Lancet, il vangelo dei medici, nel dicembre 1975. E da allora non è che sia cambiato molto».

Il metodo Di Bella fu sperimentato dieci anni fa negli ospedali italiani sotto la supervisione del ministero della Sanità. Non pare che abbia dato gli esiti sperati. Nel maggio scorso lo ha bocciato persino la Cassazione.

«Quando seppi che il professor Luigi Di Bella aveva accettato la sperimentazione offertagli dal ministro Rosy Bindi, pensai: ecco, s’è fatto fregare. Le pare serio che il test sia stato affidato a oncologi che si erano pubblicamente dichiarati contrari alla multiterapia? Per onestà avrebbero dovuto astenersi».

L’oncologo Umberto Tirelli sollevò un interrogativo non da poco: «Se le cure convenzionali non sono valide, allora perché anche Di Bella le usa?». Il professor Tirelli era entrato in possesso di fotocopie di prescrizioni del medico siculo-modenese nelle quali figurava la ciclofosfamide, che viene utilizzata abitualmente in chemioterapia contro alcuni linfomi.

«Rimproverai il professor Di Bella, per questo. Mi rispose mogio mogio: “Non sarebbe necessaria, ma in piccole dosi serve per accelerare la cura...”. Assurdo. Com’è possibile avvelenare un paziente con la pretesa di guarirlo? L’Istituto superiore di sanità è stato costretto a pubblicare uno studio sui pericoli mortali cui sono esposti medici e infermieri che maneggiano i chemioterapici antiblastici. S’intitola Rischi per la riproduzione e strategie per la prevenzione. Esso documenta come tutti i 42 principi attivi più usati negli ospedali italiani contro il cancro siano cancerogeni riconosciuti o possibili cancerogeni o probabili cancerogeni. Bella contraddizione, no? Non basta: la maggior parte sono anche teratogeni, mutageni, abortivi, vescicanti, irritanti. Tant’è vero che alle infermiere in stato interessante è vietato somministrarli e in Portogallo fin dal 1990 i residui dei farmaci antiblastici vengono inceneriti a 1.000 gradi, insieme con sacche, aghi, cannule, camici, guanti e visiere».

D’accordo, però io stento a immaginare un paziente con un tumore al pancreas che decide di affidarsi al frullato di aloe vera, miele e whisky messo a punto da padre Romano Zago, frate francescano, e consigliato da Alberto Mondini.

«Sempre meno rischioso che sottoporsi a una chemio».

In Kankropoli lei descrive addirittura una «macchina per guarire i tumori solidi, il Gemm», inventata dal turco Seçkiner Görgün.

«Il professor Görgün era un mio caro amico. Purtroppo è morto d’infarto qualche settimana fa in Kosovo. Con le radiofrequenze emesse dal Gemm aveva conseguito risultati strabilianti su un paziente con metastasi ricoverato all’ospedale San Luigi di Orbassano. Ma poi un pretore sequestrò il macchinario, salvo archiviare l’inchiesta con un non luogo a procedere due anni più tardi. Io stesso non avrei accettato le teorie di questo scienziato se non mi avesse esibito una documentazione inoppugnabile. Non era un ciarlatano: aveva lavorato in cliniche, università e istituti di ricerca di varie nazioni, compresa la Galileo Avionica, società di Finmeccanica che opera nel campo della difesa».

Ma lei ha mai fatto curare qualche suo congiunto con queste terapie alternative?

«Mio cognato è in cura in questi giorni col metodo Görgün a Pristina. Invece il mio unico fratello, Luigino, non ha mai voluto saperne. Da buon iscritto al Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, fondato fra gli altri da Piero Angela, s’è fatto operare e irradiare per un tumore al retto. Dopo 90 giorni aveva le metastasi al fegato. Altri 90 giorni ed era morto. Se n’è andato in otto mesi dalla diagnosi».

Non la sfiora l’atroce dubbio d’aver dirottato parecchi pazienti verso una terapia sbagliata?

«Assolutamente no».

Non s’è mai posto la domanda: ma chi me lo fa fare?

«Qualche volta sì».

E che risposta s’è dato?

«Quando conosci la verità, aumenta la responsabilità. Non puoi tenere la verità per te».

BUSINESS NON SOLO SUI TUMORATI. Scandalo 118, le Iene ricevono centinaia di segnalazioni su finte Onlus in tutta Italia. Il ministro della salute Beatrice Lorenzin chiede alla trasmissione di Italia1 tutta la documentazione per avviare una ispezione su tutto il territorio nazionale. L'ombra della Mafia dietro gli appalti dell'emergenza/urgenza, scrive Angelo Riky Del Vecchio su “Nurse 24” del 17 aprile 2016. Le Iene, la trasmissione d’inchiesta di Italia1, torna a parlare di finte Onlus e dei volontari pagati in nero (Infermieri, autisti e soccorritori a vario titolo), senza contributi, senza ferie e senza malattia. Nella puntata andata in onda poco fa sulla rete Mediaset è stata presa di petto anche il ministro della salute Beatrice Lorenzin che si è detta stupita di quanto scoperto dalle Iene e di essere pronta ad avviare in tutta Italia una indagine conoscitiva per scovare i finti volontari e chi li gestisce. La trasmissione di Italia1, che nei giorni scorsi aveva fatto emergere lo scandalo del 118 nel Lazio, ora torna sull’argomenti parlando di centinaia di segnalazioni piombate in redazione da tutta la nazione e avente come unico filo conduttore lo sfruttamento e il lavoro nero. Denunce alle Iene sono pervenute da tutta Italia: è uno sfruttamento diffuso e le finte Onlus del 118 sono tantissime in tutta la nazione. In pratica, con due servizi televisivi le Iene hanno dimostrato che vi è un sommerso (che poi tanto sommerso non è) dietro al servizio dell’emergenza/urgenza affidato al volontariato: lavoratori pagati con rimborsi spese fino a 1.500 euro al mese e operanti nella completa clandestinità indossando divise e firmando documenti in qualità di volontari. Volontari non lo sono e dietro il loro utilizzo si pensa che ci siano anche organizzazioni malavitose. In tutto lo Stivale è sempre la stessa melma: segnalazioni di sfruttamento sono pervenute dal Lazio, dalla Toscana, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Puglia, dall’Umbria e dal resto delle regioni italiane. Infermieri, autisti e soccorritori vengono pagati in Calabria addirittura 1 euro all’ora per 12 ore continue di attività. Nei casi più fortunati si arriva a 3,5/4,5 euro. Per questo le Iene hanno contattato ed incontrato la Lorenzin per chiederle di intervenire e mettere fine a queste situazioni scandalose che stanno distruggendo il volontariato e mortificando tantissimi neo-laureati in Infermieristica (va ricordato che lo sfruttamento continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti e con fondi dello Stato Italiano).

Le Iene denunciano casi di lavoro nero nel 118, legati a finte Onlus, scrive il 18 aprile 2016 Michele Calabrese su “Nurse Times”. Il servizio lungo nove minuti, quello proposto dal programma televisivo in onda su Italia 1 in cui la “Iena” Gaetano Pecoraro parla dei volontari del servizio di soccorso territoriale 118. Una mera logica lucrativa da un lato ed una sinistra assenza di controlli dall’altro. Succede nel Sistema del 118 qualora il servizio venga “consegnato” nelle mani delle associazioni di volontariato: minorenni sulle ambulanze, professionisti sottopagati e/o costretti a turni massacranti, senza sorveglianza tanto garantista della propria incolumità quanto previdenziale. È quanto si evince dal servizio proposto dalle “Iene”. Può suonar strana l’equazione volontariato=contributi per fondo pensionistico. Ma non è così! In talune realtà, in barba ai turni estenuanti e alle logiche di corretta allocazione di personale idoneo al servizio, i “volontari” percepiscono gettoni di presenza, rigorosamente NON TASSSATI, mediante buoni pasto, buoni benzina e quant’altro… Ragionevole il pensiero secondo il quale il volontario che impiega il suo tempo per una associazione non deve rimetterci di spese, ma rimborsare forfettariamente di 5, 10, 30 o addirittura 40, 50 € a turno diviene tutto ampiamente distante dalla logica di una attività filantropica. Welcome nella forma legalizzata di lavoro nero! Al workshop dello scorso Febbraio 2015 sui servizi di Emergenza Territoriale 118 tenutosi presso il Ministero della salute si sosteneva di “garantire il riconoscimento del valore sociale del volontariato. Soprattutto in questa fase di riflessione sul ddl del terzo settore, bisogna dare segnali di garanzia sul sistema di accreditamento, certificazione e controllo del volontariato, per evitare le zone grigie in cui i nuovi soggetti del profit (o peggio ancora di qualche onlus), sfruttino il lavoro nero, abbassando gli standard qualitativi di un servizio “. La stima dei costi per sostenere il sistema del soccorso extra-ospedaliero è stata quantizzata, segnalando che il personale incide dal 75 all’89% sul totale dei costi. A ben vedere l’elevata spesa tenderebbe a lievitare per la mancanza del turnover del personale. Lo studio promosso dalla FIASO e con la collaborazione scientifica dell’Università di Trento, ha avuto come pionieri della ricerca i servizi di emergenza di quattro Regioni: Lazio, Lombardia, Basilicata (il cui sistema non è affidato ad Associazioni di Volontariato) ed Emilia-Romagna, per un totale di oltre 20 milioni di potenziali utenti. Ecco brevemente come funziona il sistema di pagamento del 118: si basa sulla remunerazione dei costi mediante una erogazione prospettica di denaro pubblico (Per gli altri insiemi di prestazioni le modalità di remunerazione attualmente adottate non corrispondono alla regola già definita nel D.Lgs 502/92, riconfermata nel successivo D.Lgs 229/99.). Per intenderci gli elementi caratterizzanti del sistema di pagamento prospettico sono: complessità assistenziale e costo standard. Delegare una associazione no profit alla gestione di mezzi e uomini da dedicare alla assistenza sanitaria extra-ospedaliera 118 non ha nulla di illegale, tant’è vero che la normativa quadro di istituzione del 118 avvenuta con il DPR 27 marzo 1992 prevede che “Le Regioni possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, […] sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza Stato-Regioni, su proposta del Ministro della Sanità”. Ciò che non quadra è che se la “Legge n. 266/1991 prevede che le Organizzazioni di Volontariato si avvalgano in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti ai quali possono essere soltanto rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata. Tale requisito è correlato al mantenimento dell’iscrizione ai registri del volontariato”, come mai chi fornisce la propria attività filantropica percepisce rimborsi esorbitanti (RIGOROSAMENTE NON TASSATI), non ha tutele previdenziali (alcuni operatori lavorano oltre le 8 ore per turno) pur chiare e palesi le molteplicità di scenari ai quali i suddetti vanno incontro? Quanto di etico, morale e giuridicamente rilevante vi è assegnando una risorsa umana su un mezzo di soccorso sanitario senza tutelarne l’incolumità a 360 gradi e speculando sulle prestazioni di chi offre il suo tempo e le sue energie (vuoi per propensione al volontariato, vuoi per un tornaconto economico: disoccupato, cassaintegrato, depositario di salario insufficiente ecc. ecc.)? Nella mappa delle segnalazioni del “sommerso”, due arrivano dalla provincia di Arezzo, una particolarmente specifica. Una persona, finta volontaria, spiega di prestare servizio per 320 ore mensili con una paga da 2,77 euro all’ora. Il servizio delle Iene si chiude con l’inviato Pecoraro che informa delle presunte irregolarità il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Quanti sono gli infermieri vittime di questa forma di sfruttamento professionale e che vista la contingenza del momento si trovano loro malgrado ad accettare proposte lavorative che hanno superato abbondantemente il limite della legge? Nurse Times si è occupata della problematica denunciando la situazione degli infermieri in partita Iva impiegati dalle cooperative anche nel servizio emergenziale 118 nella regione Lazio, producendo anche una interrogazione regionale che purtroppo non ha avuto un seguito. 

LA CRICCA DEI GIORNALISTI ANTIMAFIA.

La Caporetto di Gratteri. Crolla l’inchiesta Stige. Gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, scrive Simona Musco il 29 giugno 2018 su "Il Dubbio". La più grande operazione degli ultimi 23 anni», come fu definita dal procuratore Nicola Gratteri subito dopo gli arresti, subisce i colpi dei giudici del Riesame e della Cassazione. Gli ultimi sono quelli assestati con l’annullamento con rinvio dell’ordinanza di custodia cautelare di Giuseppe Farao, 34enne, figlio di Silvio, uno dei capi della cosca, accusato di associazione mafiosa; nonché di quella a carico di Rosario Placido, attualmente ai domiciliari, accusato di associazione finalizzata all’emissione di false fatturazioni con l’aggravante mafiosa. Decisioni che sono solo le ultime di una serie che interessa, in particolar modo, la posizione di politici ed imprenditori, punto di contatto, secondo l’accusa, tra le cosche del crotonese e la società civile. L’operazione “Stige” servì infatti a spiegare una tesi ribadita anche ieri dall’inchiesta “Hermes”, che ha portato in carcere 15 persone: l’economia, nel crotonese, è tutt’altro che libera e in mano, per buona parte, ai clan. Una tesi raccontata associando la Calabria all’inferno, quello rappresentato da uno dei cinque fiumi degli inferi, un «baratro» dove, oltre tutto, «è a rischio la libertà di voto», aveva assicurato l’aggiunto Vincenzo Luberto. All’alba del 9 gennaio 2018, mille carabinieri svegliarono la provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone, tra i quali dieci amministratori pubblici, come il presidente della provincia di Crotone, nonché sindaco di Cirò Marina, Nicodemo Parrilla, eletto, secondo l’accusa, coi voti delle cosche, per le quali si sarebbe messo a disposizione. Ma il Riesame, un mese dopo, lo spedì ai domiciliari, ritenendo non sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per l’accusa di associazione mafiosa. Ma assieme a lui furono decine gli imprenditori arrestati e portati in carcere, con sequestri di beni e di decine di aziende per 50 milioni di euro. Un’indagine, dunque, che sanciva l’incapacità del territorio di avviare forme di economia legale. «Le cosche – aveva spiegato Gratteri controllavano il respiro, il battito cardiaco di tutte le attività commerciali». La sua, ha chiarito, è una «guerra» per «liberare la Calabria», irrimediabilmente infettata dal morbo della ‘ ndrangheta. Ed è partito da quell’inchiesta, «da portare nelle scuole di magistratura per spiegare come si fa un’indagine per 416 bis». La bontà delle accuse, ovviamente, sarà provata dal processo. Ma oggi gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, che sta accogliendo – in alcuni casi con rinvio – quasi tutti i ricorsi degli imprenditori e dei politici, circa una trentina. Non solo: il Riesame, in funzione di giudice dell’appello, ha accolto le istanze di revoca dei difensori basate su fatti nuovi, rivedendo la sua posizione per altri imprenditori. È il caso, ad esempio, di Franco Gigliotti, per il quale il Tdl ha riqualificato l’accusa di partecipazione all’associazione mafiosa in concorso esterno, decidendone la liberazione. Per la Dda dietro la sua azienda G- Plast, a Torretta di Crucoli, in realtà ci sarebbe stato Giuseppe Spagnolo, esponente del clan Farao-Marincola. Ma l’imprenditore, hanno dimostrato gli avvocati, delle cosche era in realtà una vittima. Altro caso quello di Pasquale Malena, accusato di associazione mafiosa, illecita concorrenza con violenza o minaccia e intestazione fittizia aggravata dalla finalità di agevolare i clan, per il quale il Riesame ha revocato la misura per «assenza di gravi indizi». Ma i casi sono molteplici: come quello di Nicola Flotta, accusato di concorso esterno ma rimesso in libertà, titolare del “Castello Flotta”, location per matrimoni sfarzosi – che lo aveva portato fino al programma “Il boss delle cerimonie” – nella quale avrebbe organizzato banchetti gratis per sodali e familiari del clan Farao-Marincola. Per Valentino Zito, socio amministratore dell’omonima casa vinicola, la Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del Riesame, che gli aveva concesso i domiciliari confermato l’accusa di concorso esterno. È tornato libero, invece, Amodio Caputo, per il quale il Tdl aveva riqualificato l’accusa in intestazione fittizia di beni aggravata dalla finalità di agevolare il clan, in quanto ritenuto gestore, assieme al padre, per conto della cosca, di imprese che monopolizzano con metodi mafiosi il mercato dei prodotti semilavorati per pizza in Calabria ed in Germania. Ma i legali hanno dimostrato che quelle aziende erano state realizzate con l’impiego di denaro e mezzi provenienti dalla famiglia. C’è poi l’imprenditore, Domenico Alessio, residente negli Stati Uniti da decenni, ma che aveva deciso di avviare un’attività imprenditoriale in Italia. Impresa, in realtà, non ancora attivata e per la quale non risulterebbe da nessuna parte, dunque, l’assunzione di personale, né il pagamento di «un monte stipendiale elevato per gli accoscati, per come riportato nell’ordinanza custodiale e posto a fondamento della stessa». E per scoprirlo, dicono gli avvocati, sarebbe bastato «acquisire la documentazione della società italiana, peraltro pubblica».

AAA cercasi giornalista che mi chieda della mafia, scrive il 3 luglio 2018 su "La Repubblica" Walter Bonanno - Insegnante e mediatore linguistico Cidma. A Corleone, a casa nostra, non c’è nessuno che non sappia come è fatto un giornalista. Il microfono non ha un odore, ma noi lo sentiamo nell’aria quando c’è una telecamera dietro le spalle. Arrestano un mafioso. Giornalisti. Poi muore. Giornalisti. La moglie del mafioso non paga le tasse perché dal Comune hanno dimenticato a mandargliele, però poi le paga, magari richiedendo delle comode rate, ancora giornalisti. Una processione si ferma in prossimità della casa di un mafioso (il che non è difficile dato che siamo il paese più mafioso d’Italia). Giornalisti, giornalisti, giornalisti. “Che ne pensi della Mafia?” è una domanda che ogni corleonese si è sentito fare almeno una volta. Io la ricordo ancora la mia prima volta. Ero al parco con una ragazzina e ci provavo. Ad un certo punto vedo tutti scappare, ragazzina compresa; prima di capire cosa stesse succedendo mi ritrovai un omone grande e grosso con una telecamerona ancora più grossa. “Che ne pensi della Mafia?” mi chiese. Risposi qualcosa. “La mafia si combatte con le parole?”. Dissi di sì. “E non con i fatti?”. Opsss…bhe, sì anche con quelli. Mentre realizzavo di avere messo la crocetta sulla risposta sbagliata, vedevo la ragazzina andarsene via. Con un altro. Trauma. Avevo 7 anni ed era l’estate del 1992. Oggi che sono vecchio di 33 anni, al mio paese il giornalista fa ancora lo stesso effetto che fa il cacciatore ricco quando arriva nella savana per il suo safari. Scappano tutti, alcuni si nascondono e i pochi che rimangono a tiro non fanno in tempo ad imprecare che hanno già il microfono sotto al naso e la telecamerina che li fissa di malocchio. Adesso però, come nella savana, ci sono leoni che non si fanno intimorire dal tizio col fucile e gli si parano contro impettiti e pronti alla lotta. Io non so come funziona nella savana, ma ultimamente qui i giornalisti a quello che non scappa non se lo filano proprio; a quello giovane, magari ben vestito e che parla bene l’italiano non si sognano nemmeno di chiedergli lui che ne pensa. So di ragazzi che hanno passato la mattinata a farsi notare dal tizio col taccuino, vogliosi di prendersi i quindici minuti di ribalta e, perché no?, dare un’immagine un po’ meno stereotipata dei corleonesi, ma niente… quello col microfono si dirigeva sempre verso il vecchietto incoppolato seduto accanto al bar, immobile che sembra nato lì, con lo sguardo fisso che non sai se è ancora vivo o è morto, magari di caldo visto che ha giacca, camicia, gilet e cravatta anche quando ci sono 40 gradi all’ombra. E il vecchietto che fa? Di solito adotta tattiche camaleontiche di dubbia efficacia tipo dire che si è di passaggio in un paese in cui non passa nessuno o che non si conosce le uniche persone del paese che tutti, pure a Domodossola, conoscono. Può semplicemente rifiutare la sfida e nascondersi dietro un più o meno gentile “non comment” che nemmeno i calciatori in conference press. Poi ci sono quelli che soccombono per la gioia del giornalista cacciatore. Il campionario di interviste da attaccare alle pareti delle redazioni di sadici collezionisti va da chi se la prende “con la Mafia vera che è a Roma” o con i neri “che invece di darli a loro i 30 euro li dessero ai disoccupati” a chi confessa che in fondo a lui “non hanno fatto niente”. E’ ormai condannato all’estinzione il pur sempre ricercato esemplare che la mafia, per lui, “non esiste”. Prede. Al mio paese siamo prede di cacciatori di frasi fatte. E i giovani? Dei giovani non frega nulla a nessuno. Di ciò che pensano né di ciò che fanno. Se avessi la fortuna di parlare con un giornalista al mio paese, gli direi che se viene in piazza alle 10 del mattino di giovani non ne trova, ma ne trova un sacco se va davanti al liceo all’intervallo o la sera al pub. Troverebbe risposte meno scontate, ma forse più arrabbiate contro un Paese che si ricorda di noi solo per Riina e Provenzano e che si disinteressa dei nostri bisogni (e dei nostri sogni). La narrazione che si fa dei corleonesi è tutta improntata al clichè del siciliano omertoso. E’ un prodotto che vende bene. E forse se fossi di Domodossola anch’io, mi piacerebbe sapere che almeno su una cosa si può stare sicuri. In Sicilia sono così. E magari in Brianza tutti ricchi, in Sardegna tutti pastori, a Genova tutti tirchi e a Napoli tutti ladri. A volte ho la sensazione che fuori da Corleone la gente pensi che sia nostro preciso dovere prendere parte alla giornaliera manifestazione antimafia in cui si è trasformata casa nostra. Lo pensavo anch’io. Invece adesso siamo sempre più convinti che il nemico della Mafia, non sia l’Antimafia, ma la normalità. Che fare il proprio lavoro onestamente o partecipare onestamente ad una gara d’appalto sia peggio che partecipare a una sfilata. Che amministrare secondo le regole e chiedere il voto in cambio di impegni sia più rivoluzionario che promettere favori. Fatti non parole. Oggi saprei cosa rispondere al giornalista. Ma il giornalista non c’è. È al circolo degli anziani.

Benvenuti a “casa nostra”, scrive l'1 luglio 2018 su "La Repubblica". Massimiliana Fontana - Segreteria organizzativa C.I.D.M.A. (Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia). A Corleone, a casa nostra, abbiamo deciso di raccontare chi siamo a chi per la prima volta ce lo ha chiesto per davvero. Casa nostra. Beh, sì...ammettiamo che col nome abbiamo giocato un po' su quel "cosa nostra" ma alzi la mano chi di voi, sentendo il nome del mio paese, non pensi immediatamente a quelli là con la coppola, rigorosamente storta, e ad offerte che, no, proprio non si possono rifiutare. Un paese che se lo googlate ottenete 11.000.000 di risultati, più di Agrigento e Cefalù (ma messe assieme), più di San Gimignano, più di Riccione, più di Alberobello coi trulli compresi. Che saranno anche belle, anche famose, ma non hanno nemmeno un mafioso, nemmeno uno famoso intendo e, soprattutto, nemmeno un film con Marlon Brando (e forse nemmeno senza). "A Corleone, a casa nostra" nasce dalla precisa volontà di un gruppo di corleonesi di parlare a voi, lettori e lettrici di San Gimignano, di Riccione e di Alberobello, a voi in Italia, della normalità di un paese che normale non è e che a volte ci sembra appartenere a tutti tranne che a noi. Sapete tutto dei figli di Riina, perfino se hanno pagato o no le tasse, e i giornalisti, le iene, gli inviati con l'impermeabile ed il bassotto, in Via Scorsone sono ormai di casa. Eppure sapete poco o nulla di chi a Corleone ci vive per davvero, anche quando la telecamera è spenta. Ci troverete gente vera, con problemi e sogni veri. C’è la maestra, c’è quello che "pensa in verde" convinto che la bellezza aiuti perfino ad essere onesti, ci sono sindacalisti-contadini seduti lì dove erano seduti Rizzotto e La Torre prima che l'ammazzassero. E poi c’è il professore, c’è la studentessa, il medico, l’architetto, l'avvocato che porta in giro il nome di casa nostra per i palcoscenici d'Italia con la sua compagnia teatrale. C’è la nordamericana che a Corleone è venuta a vivere e c’è la fuori-sede che ci torna solo tre volte l'anno e ogni volta che se ne va si ricorda che quella è ancora, per sempre, casa sua. C’è il prete che sa che dietro a ogni processione può essere nascosta una trappola. C’è lei che di lavoro fa “quella che parla di Mafia” e le sembra ancora strano dover spiegare ai turisti che in realtà per lei è normale, che non c’è da aver paura, che questa, in fondo, è “casa nostra”. Badate bene, niente aneddoti di mafia qui, niente cronaca né testimonianze di prima mano. Noi non viviamo di Mafia. Però la respiriamo. Sappiamo cosa sia. Ce ne accorgiamo quando diciamo da dove veniamo alla gente che incontriamo. Ce ne rendiamo conto quando perfino le operatrici dei call center la smettono di volervi vendere qualcosa se sui loro monitor vedono che viviamo qui. Che Corleone è casa nostra. Questo blog vi vuole accogliere a casa nostra, vi vuole invitare da Gino per uno Spritz (che sì, si beve anche qui) e parlarvi di noi, di casa nostra, di come può essere bella, di come si possa amarla nonostante tutto, nonostante “a casa nostra” sia nato anche Totò Riina. Mentre scrivo fuori è ancora tutto verde.  È la primavera siciliana che qui, a casa nostra, è meravigliosa e allora si rimane ai bordi delle nostre strade sgangherate a chiedersi da dove cavolo viene fuori tutto quel verde e si rimarrebbe fino a che il sole tramonta e dall’altra parte di questa Valle del Belìce compaiono le luci arancioni dei paesi. Sembrano isole. Sembrano un arcipelago e ci piace. E ce ne freghiamo se del posto in cui viviamo, forse, non riusciremo mai cambiare nulla. Ma la primavera siciliana da noi dura quindici giorni. Poi è tutto di nuovo giallo, secco, insopportabile. Insopportabile come chi ci chiude dentro alle virgolette, "I corleonesi", che hanno perfino una voce sulla Wikipedia. E invece noi siamo una comunità di individui responsabili delle proprie azioni, non una comunità responsabile delle azioni di alcuni individui. Noi sappiamo parlare e parliamo. Lo diceva anche un tizio dentro ad un altro film che "i corleonesi non sono tutti uguali". Eccoveli. Benvenuti "a casa nostra".

Sistema-Montante: l’antimafia siciliana convoca tutti i cronisti (tranne Lirio Abbate). I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2018 su "Il Dubbio". I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione giudiziaria del tribunale di Caltanissetta “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana. Ma, per ora, è il giornalista Lirio Abbate il grande assente nell’elenco dei nomi dei cronisti che, secondo l’agenzia Ansa, sfileranno davanti alla Commissione sul “sistema Montante”. Aspetto controverso di una vicenda giudiziaria che diventa di ora in ora più delicata al punto che da lunedì scorso Maria Carmela Giannazzo, presidente della sezione Gip e Gup del Tribunale di Caltanissetta firmataria delle ordinanze dell’inchiesta è sotto scorta. La decisione è stata adottata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi nei giorni scorsi alla prefettura di Caltanissetta. Al magistrato che ha anche firmato i provvedimenti dell’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è stata assegnata un’auto blindata con una scorta di terzo livello. Intanto la Commissione antimafia siciliana ha fornito un lungo elenco di politici e dirigenti dell’amministrazione regionale. Ma in particolare saranno anche ascoltati diversi giornalisti per capire l’eventuale ruolo che avrebbero avuto per agevolare il “sistema Montante” e gli eventuali benefici che avrebbero ricevuto. Il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha fornito in conferenza stampa, a Palazzo dei Normanni, un elenco di nomi, alcuni dei quali compaiono nella informativa ( riportata ieri dal Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta e acquisita dalla commissione, mentre altri come i giornalisti Attilio Bolzoni, Giampiero Casagni, Antonio Fraschilla, Accursio Sabella, Mario Barresi – risultano tra coloro che venivano osteggiati dal “sistema” dell’ex presidente della Confindustria siciliana, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. La Commissione antimafia si avvarrà del supporto come consulente a titolo gratuito dell’ex magistrato Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. «Non ci sovrapporremo all’inchiesta giudiziaria che si concentra sull’esistenza di fattispecie penali – ha detto Fava nella conferenza stampa -. Noi intendiamo indagare sulle distorsioni dei processi politici e di spesa, per noi è urgente e indifferibile. Pensiamo che questo “sistema Montante” di un governo parallelo abbia ancora i suoi addentellati all’interno dell’amministrazione regionale». Nell’elenco dei convocati dalla Commissione appaiono alcuni cronisti citati nell’informativa e che avrebbero avuto legami con il “sistema Montante”: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Sottile de Il Foglio, l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè e Roberto Galullo de Il Sole 24 ore. A chi ha chiesto il motivo per cui nella lista dei cronisti che saranno auditi non figurano i nomi di altri giornalisti citati nell’informativa della polizia giudiziaria, su cui considerati gli omissis forse ci sono indagini in corso, Fava ha risposto: «È probabile che l’elenco si allargherà in corso d’opera». All’appello infatti manca il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Dall’informativa il suo nome viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. Elencati per data, compaiono meticolosamente raccolti gli appuntamenti delle singole occasioni di incontro, specificati uno per uno sotto la voce “descrizione”. Gli inquirenti inseriscono cosi nell’informativa l’estratto della tabella che dal 2008 al 2014 con cadenze diverse, elenca le occasioni, e le descrive come cene, colazioni, appuntamenti, gite in barca; anche gli orari sono specificati nei dettagli cosi come le persone eventualmente presenti nelle circostanze. A giudicare dall’agenda Excel che raccoglie gli appuntamenti, se fosse stato chiamato dalla Commissione, Abbate avrebbe potuto chiarire agli inquirenti con chi fosse in barca nel giorno 15.8.2012 assieme a Montante, Venturi e tale Antonio I. di cui il Montante non indicò il cognome, a differenza di ogni altra indicazione sull’agenda, sempre molto dettagliata sulle identità dei presenti. A parte l’elencazione delle occasioni e la loro descrizione, nell’informativa la posizione di Abbate rispetto all’inchiesta degli inquirenti nei rapporti di Montante con la stampa, si concentra sulla vicenda in cui il giornalista era intervenuto personalmente a muovere gli animi nella direzione della fusione che il Montante auspicava: si tratta, come già descritto, della fusione tra la Ats e una sua partecipata; fusione tanto voluta dal Montante, che deteneva il 49% della partecipata, quanto osteggiata dal revisore contabile di Ats e dal Presidente avvocato Giulio Cusumano. Accadeva che in momenti diversi e con modalità distinte, l’Abbate risultava entrato in contatto con la vicenda, quando aveva riferito alla Vizzini – come disse la stessa sentita a testimone dagli inquirenti – di «usare il fioretto» sulla proposta della fusione; mentre sulla posizione dell’avvocato Cusumano si era preoccupato, a detta della stessa testimone, di contattarla telefonicamente per sapere se fosse a conoscenza di qualche informazione sulla vita privata di quest’ultimo o su situazioni giudiziarie che avessero riguardato i familiari. La particolarità segnalata dalla teste Vizzini fu che il Cusumano aveva rappresentato qualche tempo prima alla stessa – come si legge nella testimonianza contenuta nell’informativa agli atti – che due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, lo avevano avvicinato, minacciandolo che se avesse osteggiato la fusione, avrebbero reso note personali vicende della sua vita sfera privata e vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato.

Giornalisti antimafia nella cricca-Montante? Secondo l’accusa l’ex presidente di Confindustria Montante avrebbe creato un sistema parallelo per spiare e fare del dossieraggio, scrive Damiano Aliprandi il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". “Double Face” è l’operazione giudiziaria nei confronti dell’ex presidente di Confindustria in Sicilia Antonello Montante, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Non a caso l’operazione parla della doppia faccia: da un lato il richiamo costante al concetto di “legalità”, dall’altra l’attribuzione di etichette di “mafiosità” agli avversari. L’accusa è gravissima ed emblematica nello stesso tempo. Parliamo dell’antimafia come strumento di Potere, tanto da creare un sistema parallelo per spiare, fare del dossieraggio e, non da ultimo, avvicinare i giornalisti per adoperarsi a far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate, affinché non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicini. Esattamente al tredicesimo capitolo dell’informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta dalla Procura –, si parla proprio dei rapporti di Montante con i giornalisti. Molti sono di rilievo. Va precisato che si tratta di un’informativa e quindi di un atto d’indagine unilaterale degli inquirenti, a cui dovrà fare seguito il contraddittorio con la difesa e le verifiche da parte delle autorità giudiziarie. Al momento non c’è niente di concreto, solo le accuse della polizia. Per dovere di cronaca e rispetto del lavoro altrui, per chi volesse leggere l’intera l’informativa, può scaricarla dalla testata abruzzese giornalistica on line Site. it. Emerge dall’indagine che proprio il fastidio nei confronti dei giornalisti troppo critici verso il suo operato fu il filo conduttore del rapporto che Montante avrebbe scelto di instaurare con certi esponenti della stampa, con alcuni dei quali aveva cercato anche di intessere rapporti per carpirne la benevolenza nelle cronache. Ne sarebbero la prova, agli atti d’indagine degli inquirenti che hanno condotto all’arresto di Montante, la raccolta di intercettazioni ma anche gli appunti riversati meticolosamente su un’agenda Excel, che completano le fonti di prova indicando orari, luoghi, fatti, temi, persone in merito agli incontri con alcuni giornalisti. Sono gli stessi inquirenti che a questo riguardo citano la viola- zione deontologica della Carta dei Doveri del Giornalista che impone il divieto di ricevere favori o denaro o regalie per evitare che ne venga condizionata l’attività di redazione o lesa la dignità della professione e la credibilità. Un operato che ha creato diversi problemi anche nei confronti di quei giornalisti che si adoperavano per il diritto e il dovere di cronaca. Come il caso di Giampiero Casagni, giornalista siciliano del settimanale “Centonove”, che, dopo avere raccolto del materiale inerente presunti rapporti tra Montante e l’imprenditore Arnone Vincenzo (che sarebbe un personaggio vicino a Cosa Nostra), aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso la rivista Panorama: la notizia non fu mai pubblicata e dall’informativa emerge la frequentazione che il direttore avrebbe avuto con lo stesso Montante. Tra i rapporti con la stampa emergono quelli intessuti con due giornalisti de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che firmarono un articolo in tema di “professionisti dell’antimafia”, attirando così il fastidio di Montante sul contenuto che ritenne troppo critico nei suoi confronti. Uscito con il titolo ‘ Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della legalità”, l’articolo fu per Montante anche motivo di discordia con il magistrato Niccolò Marino che, nel corso di un procedimento, dovette persino raccontare alla Procura di Catania di aver incontrato Montante in un hotel della città, essendo quest’ultimo molto arrabbiato per il contenuto dell’articolo e credendone il magistrato come l’artefice occulto. Successivamente, fu nell’occasione di una riunione a Caltanissetta in Confindustria Sicilia che, a dire del testimone sentito nel corso delle indagini, ritornarono i nomi dei due giornalisti. Montante chiese a «chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria» di «erogare contributi economici», specificando che era necessario sponsorizzare un sito on line, L’Ora Quotidiano, e un mensile cartaceo. Fu quella l’occasione in cui si seppe che l’iniziativa del sito era stata proposta proprio da quei due giornalisti, che un anno prima avevano pubblicato l’articolo su Il Fatto Quotidiano. Era nella stessa riunione che Montante avrebbe riferito, sempre a detta del testimone sentito, che i giornalisti erano bravi «ed occorreva perciò renderli più morbidi onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona». A detta del testimone, lui versò il denaro. Il sito on line "L’Ora Quotidiano" dal canto suo ebbe vita breve: fu aperto il 18.10.2014 ma già il 22.2.2015 chiudeva. Sempre sulla vicenda riguardante la creazione del giornale on line e l’insofferenza del Montante a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, l’informativa fa un richiamo anche alle dichiarazioni rese dal giornalista de Il Sole 24 ore Giuseppe Oddo, il quale riferiva agli inquirenti che quando era stato pubblicato il fatidico articolo de Il Fatto Quotidiano, il Montante lo aveva chiamato perché, avendo mal digerito l’attacco a lui, voleva che Oddo intervenisse parlando con il direttore del giornale che all’epoca era Padellaro. Oddo rispedì al mittente l’invito: «Ovviamente rifiutai l’invito del Montante–dichiarazione riportata nell’informativa , dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere ». Un’altra vicenda di analogo spessore che interessò le indagini nei rapporti di Montante con la stampa alla ricerca della benevolenza dei giornalisti, fu quella che riguardò la circostanza della fusione da lui fortemente voluta tra Ats e la sua partecipata Jonica Trasporti, ma osteggiata dal revisore contabile Maria Sole Vizzini così come dall’allora Presidente avvocato Giulio Cusumano. È in questa vicenda che affiorano i legami di Montante con il giornalista Lirio Abbate, i cui rapporti e incontri sono rassegnati nell’agenda excel del primo, raccolta agli atti d’indagine. L’ostilità nei riguardi della fusione da parte della Vizzini, revisore contabile, era già stata oggetto di una chiacchierata informale della stessa con il giornalista Abbate: i due si conoscevano per motivi professionali e in quella circostanza lui la invitò a non usare la spada, come al suo solito, «ma il fioretto» a proposito delle perplessità sulla fusione. La vicenda doveva essere di interesse decisivo, perché sempre a proposito della fusione e di chi ne era perplesso, un giorno l’avvocato Cusumano chiese un incontro a Palermo proprio al revisore contabile, la Vizzini, che chiamata a testimoniare, raccontò agli inquirenti che in quell’incontro il Cusumano le disse di essere «molto spaventato perché due soggetti con il volto semi coperto da sciarpe l’avevano avvicinato, dicendogli che se avesse continuato a rompere avrebbero reso pubbliche le vicende giudiziarie, che riguardavano la sua famiglia» oltre che alcuni dettagli della sua vita privata. Non trascorsero molti giorni, che, raccontò la Vizzini agli inquirenti, Abbate la chiamò al telefono e le chiese informazioni sull’avvocato Cusumano e cioè «se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se questi avesse partecipato a qualche festa particolare». La Vizzini fu sentita come testimone sulla vicenda, ma del rapporto tra Montante e Abbate vi è traccia nei numerosi atti d’indagine. Sempre sui rapporti della stampa con Montante, è emersa nell’indagine anche la sua frequentazione con l’autore Roberto Galullo de il Sole 24 Ore. L’occasione di scontro fu una collaborazione in un’inchiesta sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, inizialmente scomoda, ma dalla quale poi sarebbe nato «un rapporto molto stretto», come lo definiscono gli inquirenti, tanto che in occasione del sequestro, al Montante fu rinvenuta anche la ricevuta dell’acquisto di 500 copie di un libro sulla legalità scritto dal medesimo giornalista, oltre che quelle di vacanze pagate a Cefalù. Sul rapporto intrattenuto tra i due, esaustiva per gli inquirenti è stata ritenuta l’intercettazione del febbraio 2016, in cui Montante, parlando con Galullo e raccontandogli di «un’accesa discussione» con il direttore de Il Sole 24 Ore, gli riferì di un articolo che lo riguardava «e che non gli era andato a genio». Fu questa l’occasione in cui Montante raccontò al giornalista di aver convinto il direttore, anche ricordandogli di essere un azionista, a scegliere sempre lui, il Galullo appunto, come firma degli articoli che lo riguardavano. Il direttore – sostiene Montante – acconsentì. Così, come quando – era il 13 febbraio 2015 – solo dopo qualche giorno dalla notizia su Repubblica delle indagini in corso a suo carico, che compariva sul blog del giornalista l’articolo "Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti".

Sistema Montante, ma una informativa non è oro colato, scrive Piero Sansonetti il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Probabilmente sono tutti innocenti, anche Montante forse è innocente. Chissà però che questa inchiesta non ci possa aiutare a riportare sulla terra l’informazione sulla mafia. L’ informativa della polizia sul «sistema Montante», della quale parla l’articolo di Damiano Aliprandi, è abbastanza clamorosa. Se la metà delle notizie che contiene fosse verificata e confermata, vorrebbe dire che un pezzo importante del giornalismo antimafia è assai meno trasparente di quel che vuole far credere. Il problema è che attualmente esiste solo questa informativa. Riscontri zero, non ci sono prove. E le informative della polizia e dei carabinieri, se le cose funzionassero bene nel nostro sistema giudiziario- informativo, sarebbero materiale di lavoro esclusivamente per la magistratura e non per i giornalisti. Invece succede sempre che c’è una manina – tra i poliziotti, o i giudici che diffonde queste informative, e scoppia il putiferio. È stato sulla base delle informative di alcuni carabinieri (poi risultate addirittura contraffatte) che un anno e mezzo fa scoppiò il caso Consip che portò danni irreparabili – e ingiusti – alla figura dell’ex premier Renzi e del partito democratico. Almeno in parte la attuale situazione politica – con i partiti populisti in grande vantaggio su quelli liberali e socialdemocratici – è figlia di quello scandalo, montato in modo sofisticato e sapiente. Allora fu soprattutto il Fatto Quotidiano a condurre la campagna, con l’appoggio dei 5Stelle, ma fu ben spalleggiato da altri grandi giornali, che si contesero informative della polizia, testi segreti di intercettazioni, e persino di intercettazioni illegali, come quelle tra un imputato e il suo avvocato. Cerchiamo ora di evitare che si ripeta quel copione a parti invertite. Stavolta i giornalisti del Fatto invece che dalla parte dei fustigatori di costumi sono dalla parte dei sospettati. Ecco, evitiamo il gioco delle ritorsioni. E consideriamo tutti innocenti fino a prova contraria. Gli amici del Fatto conoscono benissimo quella vecchia e celebre frase di Pietro Nenni: «Se fai a gara a fare il più puro, troverai sempre uno più puro di te che ti epura…». Devo dire che ho l’impressione che il rischio di una campagna di stampa contro Il Fatto, o contro l’Espresso, per i sospetti avanzati dalla polizia di Caltanissetta, non sia un rischio altissimo. Dentro l’informativa della polizia ci sono nomi e fatti che riguardano una decina di giornalisti e di giornali importanti. Qualcosa mi dice che i giornali e i giornalisti, se scoppia qualche scandaletto che li riguarda, diventano molto indulgenti. Immagino che se questa informativa riguardasse qualche ministro del Pd, o qualche donna o uomo del cerchio magico di Berlusconi, per esempio, avrebbe già conquistato i titoli di apertura di tutti i giornali, avrebbe riempito i talk show (anche della “7”) e magari avrebbe provocato una raffica di dimissioni. Coi giornalisti, si capisce, è diverso. Fatta questa premessa, e ribadita la mia convinzione sull’innocenza dei colleghi accusati, occorrerà anche qualche riflessione sul rapporto del giornalismo italiano con l’antimafia. Riflessioni che non hanno niente a che fare con questa inchiesta: l’inchiesta è solo lo spunto. Esiste un problema, ed esiste da tempo. Il giornalismo che si occupa di mafia, e che quindi fornisce le informazioni sulla mafia e sulla lotta alla mafia, è esclusivamente quello accreditato dalla famosa compagnia dell’antimafia. Cioè da quel gruppo di magistrati e di intellettuali e di sacerdoti e di rappresentanti politici che si sono conquistati non si sa bene come l’esclusiva del marchio antimafia, e lo usano a loro piacimento. Se un giornalista non ha il benestare della compagnia è bene che non si occupi di mafia. Questo è un problema, perché l’assoluta assenza di pluralismo, su questo terreno, ha prodotto fenomeni macroscopici di disinformazione. L’assenza di pluralismo, e quindi di punti di vista, sempre produce una distorsione dell’informazione. E trasforma le ipotesi (o, peggio, le tesi) in verità rivelata. Basta guardare a come i giornali e le televisioni hanno riferito del processo “Trattativa”. Tutti allineati sulle posizioni dei Pm, e in particolare del Pm Di Matteo. Dov’è l’anomalia del processo “Trattativa”? Non tanto nella linea accusatoria (che io considero debolissima, inconsistente, ma che è legittima) quanto nella copertura giornalistica, colpevolista, che è stata così massiccia e così acritica da determinare un condizionamento evidente della giuria. Basta dire che qualche giorno fa un consigliere di amministrazione della Rai, di gran nome (parlo di Carlo Freccero) ha chiesto la trasmissione di un documentario colpevolista sulle reti Rai, quando il processo è ancora al primo grado. E siccome il presidente della Rai, logicamente, gli ha detto di no, si è indignato, ha mobilitato il Fatto e addirittura ha parlato di censura. Senza che nessuno si scandalizzasse per le sue prese di posizione. Sarebbe una novità importante se invece adesso potessimo ricominciare a parlare di antimafia facendo piazza pulita dei pregiudizi e del potere “feudale” della “compagnia antimafia”. In questo, l’inchiesta- Montante ci può aiutare. Io sono abbastanza convinto non solo dell’innocenza dei colleghi, ma anche della probabile innocenza di Montante. Spero che saranno tutti completamente scagionati. E spero che poi, anche con loro, si potrà finalmente iniziare a discutere, e a ragionare, senza che nessuno accampi un complesso e un diritto di superiorità.

ESCLUSIVO – «Sistema Montante»: ecco il capitolo sui giornalisti, con tutti i nomi, scrive "Site.it" il 25 maggio 2018. Ad essere coinvolto nel «Sistema Montante» è anche il mondo dell’informazione. Nessuno dei nomi dei giornalisti, anche illustri, è stato finora pubblicato dalla stampa: su questo punto si registra un misto di pudore, prudenza, garantismo e autocensura che ha improvvisamente contagiato quasi tutte le redazioni italiane: un silenzio imbarazzante che per certi versi sfiora quasi l’omertà. SITe.it – per dovere di cronaca – ha deciso di pubblicare l’intero capitolo dell’Informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta su Montante dalla Procura – con tutti i nomi delle testate e dei colleghi coinvolti, anche per dare l’opportunità a chi si sente chiamato in causa ingiustamente di potersi difendere. Buona lettura.

CAPITOLO XIII RAPPORTI DEL MONTANTE ANTONIO CALOGERO CON I GIORNALISTI. Le dichiarazioni del VENTURI Marco hanno riguardato anche i rapporti “distorti” che il MONTANTE ha intrattenuto con alcuni giornalisti per carpirne la benevolenza nelle cronache.

Ancora una volta le propalazioni del VENTURI trovavano riscontro in materiale rinvenuto nel corso delle perquisizioni ed anche nelle attività di intercettazione a suo carico nonchè in altre dichiarazioni rese da altri soggetti escussi nell’ambito del presente procedimento.

Filo conduttore della condotta del MONTANTE è il fastidio di quest’ultimo nei confronti di giornalisti che si mostravano critici nei suoi confronti o in quelli di soggetti a lui vicini, nonché nei confronti dell’operato di Confindustria.

Prima di entrare nel merito della trattazione di questo capitolo, appare importante premettere che alcune delle condotte dei giornalisti di cui si riferirà contravvengono anzitutto, essendo tutti iscritti all’Ordine dei Giornalisti, agli obblighi sanciti dalla “Carta dei doveri del giornalista” dell’8 luglio 1993. La Carta, infatti, prevede l’incompatibilità per il giornalista di ricevere pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, vacanze gratuite, trasferte, inviti a viaggi, facilitazioni o prebende, da privati o da enti pubblici, che possano condizionare il suo lavoro e l’attività redazionale o ledere la sua credibilità e dignità professionale.

Appare anche importante segnalare che a seguito della rimozione di un articolo pubblicato su “Il Fatto Nisseno” – di cui si dirà più avanti nella parte riguardante il giornalista Michele SPENA - il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Riccardo ARENA apriva un’indagine per verificare l’esistenza di finanziamenti ai giornalisti da parte del MONTANTE: notizia riportata in un articolo de “La Repubblica” datato 17.2.2015.

Si richiama, anzitutto, emblematicamente, un’intercettazione dal cui contenuto si desume come il MONTANTE sia solito adoperarsi per far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate affinchè non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicino.

Nel prosieguo di detto capitolo saranno riportate anche intercettazioni in cui il MONTANTE “bacchettava” direttamente qualche giornalista per il contenuto a lui non gradito di alcuni articoli.

Nella conversazione nr. 2888 delle ore 14.44 del 20.10.2016, il MONTANTE accusava ONTARIO Silvio, esponente di Confindustria Catania, di non riuscire a intervenire per far sì che non venissero pubblicati articoli che potessero essere lesivi delle loro persone o del loro operato.

In particolare, nel corso del dialogo, il MONTANTE raccomandava all’ONTARIO di stare attento nel portare avanti una manovra occulta ai danni di qualcuno e per questo non si potevano permettere la pubblicazione di articoli che, in un certo senso, andavano a scoprire nervi scoperti, “ora non sanno dunni ci arriva il fulmine capito?... (balbetta)… non possiamo sbagliare, quindi non sa esattamente dunni ci arriva”.

Immediatamente dopo, infatti, il MONTANTE si lamentava di qualcuno che aveva fornito dei dati sbagliati al giornale, confluiti evidentemente in un articolo che non gli era piaciuto affatto, e rimproverava all’ONTARIO di non riuscire a gestire la situazione col giornale. Il MONTANTE, quindi, gli spiegava che bisogna frequentare i giornalisti e, quando serve, fargli notare che scrivono cose “false”, “nessuno di voi sta, sta, sta… ma non per colpa vostra… sta riuscendo a gestire! Bisogna andare a parlare spesso con quelli là… dirgli scusa ma perché date queste cose oh, queste cosa false”.

L’ONTARIO riteneva che dietro quell’articolo ci fosse la mano di tale VINCI e si faceva subito avanti per andare a parlare con qualcuno della redazione, non appena rientrava a Catania e si proponeva anche per andare a parlare di persona, il successivo lunedì (24.10.2016), con GALULLO che avrebbe potuto pure rintracciare telefonicamente, lasciando al MONTANTE la scelta di cosa sarebbe stato meglio fare.

Il MONTANTE rispondeva che, secondo lui, era meglio andarci a parlare per capire perché erano state scritte certe cose, non meglio specificate.

L’ONTARIO si mostrava accondiscendente e lo pregava di dargli informazioni cosicchè lui avrebbe potuto agire come lui desiderava. Conversazione telefonica nr. 2888:

ONTARIO: ..pronto!..

MONTANTE: ..eih, Silvio ciao.. ONTARIO: ..eih!.. avevo visto ora, non sono riuscito a prenderlo.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..allora, si!.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..stavo parlando.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..no, no io così ti ho chiamato!.. senti ho visto la nota fatta bene, ora iooo.. (inc)..

ONTARIO: ..eh!..

MONTANTE: ..domani mattina lo vedo

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..per fare tutta sta, staaa.. tutta sta riflessione e decisioni da prendere.. (inc)..

ONTARIO: ..perfetto!.. quella Casucci mi ha scritto un’altri due messaggi.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..e tu.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..e poi.. e gli mandava anche i messaggi a Giorgio mentre era con me, voleva parlare con Giorgio.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ma, ma l’ha mandato Giorgio.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..ma questa è pazza comunque eh!.. ma è fusa completamente..

MONTANTE: ..si, si con questo proprio.. cioè non e che sono pazzo, ora non sanno dunni ci arriva il fulmine, capito?.. (balbetta).. non possiamo sbagliare, quindi non sa esattamente dunni ci arriva!..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..questa è la verità..

ONTARIO: ..certo, certo..

MONTANTE: ..ma poi ho visto i dati che hanno dato sbagliato al giornale, hanno comunicato al giornale..

ONTARIO: ..ma di nuovo quello.. (inc).. quello è scritto da Vinci!.. di nuovo è scritto da Vinci!..

MONTANTE: ..ma si.. (inc).. il problema lo sai qual è?..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..te lo dico.. quello che avevamo anticipato io, che nessuno di voi sta, sta, sta.. ma non per colpa vostra.. sta riuscendo a gestire!.. bisogna andare a parlare spesso con quelli la!.. dirgli ma scusa, ma perché date queste oh, queste cose false!.. ha capito che..

ONTARIO: ..certo..

MONTANTE: ..bisogna parlare con quei.. bisogna fare un po’, un minimo diii no!.. diii, di presenza ..(inc).. chi ha più rapporti, chi ha meglio di rapporti, andarci eh.. poi a scusa, ma perché scrivete sti cazzate!..

ONTARIO: ..io ci posso parlare, però quando torno.. ora sono nel traghetto.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..no.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..lunedì mattina posso essere da Galullo o gli chiamo telefonicamente dimmelo!.. (si accavallano le voci)

MONTANTE: ..va bene, okkei.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..e li avviso io.. (si accavallano le voci).. MONTANTE: ..no, no, tu secondo me..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..secondo me ci devi parlare.. ci dici, guarda ma perché fa, fate scrivere questa cosa eeeh.. ci la diri chiaru!..

ONTARIO: ..va bene.. si, si, si.. MONTANTE: ..va bene.. ONTARIO: ..okkei, okkei..

MONTANTE: ..va bene?..

ONTARIO: ..ti prego dammi informazioni, in modo che.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ceeerto, tranquillo!.. stai tranquillo.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..va bene, va bene.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ciao.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..(inc) essere immediate, ciao..

MONTANTE: ..ciao..

ONTARIO: ..ciao, ciao..

Non si esclude che l’articolo a cui il MONTANTE si stava riferendo fosse quello pubblicato su “La Sicilia” in data 18.10.2016, intitolato “Confindustria Etnea. Il no è consistente. Catania è autonoma – Da Confindustria un secco “no” all’accorpamento”. Ciò anche alla luce del fatto che l’ONTARIO nominava tale VINCI, che si ritiene essere VINCI Francesco Alfio, ex Presidente di Confindustria Catania, il quale, già escusso da codesta A.G. in data 1.10.2015, illustrava in termini negativi la riforma fortemente voluta dal MONTANTE e relativa all’accorpamento delle Camere di Commercio Siciliane.

13.1 Le dichiarazioni del VENTURI Marco, ed i relativi riscontri, sui rapporti del MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione.

In data 14.11.2015, il VENTURI, con riguardo ai rapporti con esponenti del mondo dell’informazione, dichiarava che, dopo circa un anno dalla pubblicazione di un articolo critico nei confronti di Confindustria su “Il fatto Quotidiano” a firma dei giornalisti Giuseppe LO BIANCO e Sandra RIZZA, il MONTANTE, nel corso di una riunione di Confindustria Sicilia, aveva preteso che sia il VENTURI che altri presenti alla riunione (ALBANESE Alessandro, CATANZARO Giuseppe, LO BELLO Ivanhoe, AMARU’ Rosario, TURCO Carmelo e forse NAVARRA Salvatore e CAPPELLO Giorgio) versassero un contributo per finanziare un giornale on – line denominato “L’Ora Quotidiano” che doveva essere curato proprio dai summenzionati giornalisti.

Nello spiegare la ragione di tale richiesta, il MONTANTE aveva detto espressamente che “bisognava ammorbidire”, il LO BIANCO e la RIZZA per evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare personalmente lui e il LO BELLO Ivanhoe e Confindustria Sicilia in generale.

Il VENTURI riferiva di avere versato un contributo di ventimila euro mentre il MONTANTE aveva versato delle somme di denaro “in nero” perché non voleva figurare tra i finanziatori, per far sì che all’esterno non potesse trasparire il tentativo di captatio benevolentiae che stava ponendo in essere.

Il VENTURI aggiungeva che il CATANZARO ebbe a lamentarsi con il MONTANTE per la pubblicazione, nel novembre del 2014, di un articolo critico nei suoi confronti proprio sul giornale on – line che avevano finanziato.

Così riferiva il VENTURI in data 14.11.2015: …omissis…

A.D.R.: Con riguardo ai rapporti di MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione, ricordo, innanzitutto, una riunione informale del direttivo regionale di Confindustria Sicilia che si tenne a Caltanissetta dopo altra riunione che vi era stata in Prefettura ad Agrigento per la firma di un protocollo di legalità. Alla riunione in questione di Confindustria, oltre a me, parteciparono ALBANESE Alessandro, CATANZARO Giuseppe, LO BELLO Ivanhoe, AMARU’ Rosario, TURCO Carmelo, e, forse, Salvatore NAVARRA e Giorgio CAPPELLO. Ricordo che, in quella occasione, prese la parola MONTANTE e disse, in premessa, che chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria avrebbe dovuto erogare contributi economici. Subito dopo ci fece presente che occorreva sponsorizzare una nuova iniziativa editoriale che si riprometteva di impiantare un sito on line “L’Ora Quotidiano” e di pubblicare un mensile cartaceo, iniziativa proposta da due giornalisti LO BIANCO Giuseppe e RIZZA Sandra, che circa un anno prima avevano pubblicato un articolo su “Il fatto quotidiano” critico nei confronti di Confindustria. In particolare il MONTANTE disse che CATANZARO si sarebbe occupato di fornire le nostre mail al responsabile della pubblicità di tale iniziativa editoriale, tale Ferdinando CALACIURA, il cui nome, così come quello della società da questi gestita, ricavo dalla mail – che ho prodotto alla S.V. – con la quale, poi, costui mi inviò “la proposta di pianificazione”. Sempre il MONTANTE fece presente che il LO BIANCO e la RIZZA erano bravi giornalisti ed occorreva, perciò, renderli “più morbidi”, onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona e quella del LO BELLO oltre che CONFINDUSTRIA SICILIA in generale. Anche il LO BELLO intervenne nella discussione nella sostanza trovandosi concorde con ciò che diceva il MONTANTE, anche perché, in quel periodo, era in ballo la sua nomina a presidente di Unioncamere ed aveva perciò interesse a che non uscissero notizie pregiudizievoli nei suoi confronti. Inoltre, ritengo che il MONTANTE avesse già iniziato a percepire di possibili iniziative giudiziarie nei suoi confronti e che quindi potessero uscire notizie sulla stampa che lo potessero danneggiare. Io aderii alla proposta di MONTANTE e LO BELLO ed effettivamente versai, tramite bonifici bancari, la somma di 20.000 euro in due tranche, una a settembre e l’altra a dicembre del 2014. So che TURCO ha versato la somma di 10.000 euro. MONTANTE, forse nel settembre di quell’anno, mi disse poi che aveva versato somme di danaro “in nero” per tale iniziativa imprenditoriale, anche se non me ne specificò l’importo, poiché preferiva non comparire personalmente. Non ho poi più saputo alcunché di tale vicenda; alla scadenza del rapporto non rinnovai la sponsorizzazione della iniziativa editoriale e non so perché la stessa sia poi fallita, anche perché i miei rapporti col MONTANTE si sono successivamente allentati. Ricordo anche che a novembre del 2014 “L’Ora Quotidiano” pubblicò un articolo critico nei confronti di CATANZARO e questi mi disse di essersene lamentato con lo stesso MONTANTE, chiedendogli spiegazioni visto che li avevamo finanziati. Non mi risulta che siano stati pubblicati articoli critici nei confronti di MONTANTE e LO BELLO. Mi risulta, invece, che quando già il sito de “L’ora quotidiano” aveva chiuso, i giornalisti RIZZA e LO BIANCO, nel settembre del 2015, pubblicarono articoli nei confronti del MONTANTE e del LO BELLO. In sede di rilettura del verbale il dott. VENTURI precisa: forse gli articoli di cui sto parlando riguardavano solo MONTANTE e non LO BELLO. …omissis.. Effettivamente il giornale on – line “L’Ora Quotidiano” apriva i battenti il 18.10.2014 ma, pochissimo tempo dopo, il 22.2.2015 veniva chiuso. Tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE in occasione delle perquisizioni esperite in data 22.1.2016, veniva rinvenuta, presso la sua abitazione, proprio una bozza relativa a questo progetto editoriale. Che l’articolo del LO BIANCO e della RIZZO non fosse passato inosservato per il MONTANTE, è assodato anche dal fatto che non manca di annotarselo. Poi cerca l’abboccamento con i due giornalisti. Così si legge nel file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”:

02/10/2013 Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco scrivono articolo Il Fatto Quotidiano, contro Lo Bello e Montante, con il titolo Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della Legalità

23/04/2014 ore 18,30/19,30 Sandra Rizza, Lo Bianco e Corradino in Unioncamere

24/04/2014 ore 20,05 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza@62gmail.com - Oggetto: ecco tutto = Ecco il materiale che oggi ho elaborato con Peppino e Vittorio. Buona festa della liberazione. Sandra

13/05/2014 ore 14/15 app. Rizza e Lo Bianco

13/05/2014 ore 17,30/18,30 app. Rizza e Lo Bianco ore 17,57 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza62@gmail.com - Oggetto: ecco tutto = Elenco di arredi per la sede dell' Ora Quotidiana (Albanese il 18/15/2015 alle 16,52 mi invia piantina sezione uffici)

27/05/2014 ore 15/16m Rizza Sandra in via Segesta,9

08/07/2014 ore 19/20 Rizza, Lo Bianco e Corradino in Unioncamere

29/07/2014 ore 11,30/12,30 app. Lo Bianco e Rizza

03/09/2014 ore 12/13 app. Sandra Rizza in redazione

09/09/2014 ore 16,56 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza62@gmail.com - Oggetto: ecco il pezzo = E' un pezzo scritto molti anni fa, non ricordo nemmeno se sia uscito. Sandra

30/09/2014 ore 20/21 app. Sandra Rizza, Lo Bianco, Corradino con Albanese

20/10/2014 ore 17,30/18,30 app. Sandra Rizza e Lo Bianco con Catanzaro

12/11/2014 ore 08,30/09,30 Rizza Sandra e Corradino a Porta Felicia

02/12/2014 ore 18,30/19,30 app. Sandra Rizza e Corradino in Unioncamere

23/12/2014 ore 20,30/21,30 moglie Corradino Vittorio Unioncamere

16/12/2014 ore 12/13 Sandra Rizza, Corradino e moglie in Unioncamere

13/01/2015 ore 15,30/16,30 Sandra Rizza e Corradino Vittorio in Sicindustria 27/01/2015 ore 18,30/19,30 app. Sandra Rizza Sicindustria

27/01/2015 ore 21,30/22,30 Lo Bianco Vineria via Dante

Il più volte sopra menzionato CORRADINO Vittorio, nel 2010 è un altro giornalista che, nel 2010, è stato anche eletto Presidente dell’Ordine regionale dei giornalisti siciliani; è stato anche vice caporedattore de “L’Ora”. Sulla vicenda riguardante la creazione di tale giornale on – line e l’insofferenza del MONTANTE a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, si richiamano anche le dichiarazioni rese dal giornalista de “Il Sole 24 ore” Giuseppe ODDO, escusso in data 27.11.2015, il quale dichiarava che quando era stato pubblicato l’articolo del LO BIANCO e della RIZZA su “Il Fatto Quotidiano”, il MONTANTE lo aveva chiamato perché avendo mal digerito l’attacco a lui ed al LO BELLO Ivanhoe, voleva che l’ODDO intervenisse con il direttore del giornale romano, PADELLARO.

Così riferiva l’ODDO: …omissis… A.D.R.: Ricordo anche che, quando nel luglio del 2013 uscì su “Il Fatto Quotidiano” un articolo dei giornalisti LO BIANCO e RIZZA sui “professionisti dell’antimafia”, il MONTANTE mi chiamò chiedendomi di intervenire con il direttore Padellaro per comprendere le ragioni per le quali era apparso un articolo così critico nei confronti suoi e di LO BELLO. Ovviamente rifiutai l’invito del MONTANTE, dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere. …omissis…

A proposito dell’articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, a firma del Giuseppe LO BIANCO e della Sandra RIZZA, critico nei riguardi del MONTANTE, e a conferma del forte fastidio provato da quest’ultimo, si rappresenta che esso è stato anche uno dei “pomi della discordia” con il magistrato Niccolò MARINO, il quale riferiva alla Procura di Catania – nell’ambito di un procedimento lì instaurato – che, nel corso di un incontro all’hotel Excelsior di Catania, si ebbe a scontrare fortemente con il MONTANTE, il quale lo riteneva artefice occulto di quell’articolo.

Sempre in relazione ai rapporti del MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione, il VENTURI riferiva di altre circostanze relative ai giornalisti MARTORANA Giuseppe de “Il Giornale di Sicilia”; PEPI Giovanni de “Il Giornale di Sicilia”; SPENA Michele de “Il Fatto Nisseno”; SOTTILE Giuseppe de “Il Foglio”.

Con riguardo allo SPENA, il VENTURI riferiva che il MONTANTE gli disse che bisognava “dargli una mano” e, pochi giorni dopo, lo SPENA si era recato dal VENTURI per chiedergli una sponsorizzazione dell’importo di 2500,00 euro, visto che il MONTANTE gli aveva assicurato questo finanziamento.

Con riguardo al MARTORANA Giuseppe, il VENTURI riferiva che Confindustria Centro Sicilia gli aveva conferito un incarico.

Con riguardo al PEPI Giovanni, il VENTURI riferiva che il MONTANTE in più occasioni aveva finanziato mostre fotografiche di quest’ultimo.

Infine, con riguardo al SOTTILE Giuseppe, il VENTURI riferiva che, al tempo in cui era assessore, il MONTANTE gli aveva chiesto di assegnare una consulenza alla figlia del giornalista ed effettivamente le aveva affidato tale incarico.

Così riferiva il VENTURI nel verbale del 14.11.2015: A.D.R Sempre in relazione ai rapporti con la stampa, devo anche dire che nel settembre del 2014 il MONTANTE mi preannunciò telefonicamente che sarebbe venuto a trovarmi Michele SPENA, che credo essere l’editore de “Il Fatto Nisseno”, al quale “occorreva dare una mano”. In effetti, dopo aver concordato telefonicamente un appuntamento, venne nei miei uffici lo SPENA, il quale mi fece presente che il MONTANTE gli aveva assicurato la sponsorizzazione degli imprenditori nisseni; si riservò di mandarmi una mail con una proposta, che effettivamente mi giunse e con la quale mi si chiedeva un contributo di 2.500 euro. Non versai poiché alcunché allo PSENA non giudicando valida l’iniziativa. Non so se qualcuno abbia poi versato somme di danaro per sponsorizzare la testa giornalistica dello SPENA. …omissis…

A.D.R. La S.V. mi chiede se mi risultano altri rapporti con giornalisti ed a tal proposito evidenzio che CONFINDUSTRIA Centro Sicilia ha conferito un incarico a Giuseppe MARTORANA, capo redattore del Giornale di Sicilia; mi risulta che il MONTANTE, peraltro, avesse già ottimi rapporti con Giovanni PEPI, al quale peraltro, per come mi disse lo stesso MONTANTE, questi aveva in più occasioni finanziato mostre fotografiche.

Così aggiungeva il VENTURI nel verbale del 4.8.2016: …omissis… A.D.R.: il MONTANTE mi chiese anche di affidare un incarico di consulenza, sempre quando ero Assessore, alla figlia del giornalista Giuseppe SOTTILE, incarico che effettivamente le affidai. …omissis…

Effettivamente il capo redattore de “Il Giornale di Sicilia” in Caltanissetta, MARTORANA Giuseppe, in data 8.7.2013, ha stipulato con Confindustria Centro Sicilia un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (avente inizio il 15.7.2013 e fine il 31.3.2015), per un importo di euro 1038,62 mensili, come si desume dal “riepilogo netti in busta paga relativi al mese di marzo”. Ciò veniva già comunicato con nota nr. 98/2017 cat. II Mob. SCO3 dell’11.1.2017, in cui veniva compendiata l’attività di acquisizione, presso la sede Confindustria Centro Sicilia di Caltanissetta, della documentazione in ordine ad incarichi conferiti in favore di giornalisti, ossia:

• Antonino AMADORE, giornalista della sede “ il sole 24 “ di Palermo”;

• PANTALEONE Salvatore Wladimir;

• MARTORANA Giuseppe, responsabile della sede del Giornale di Sicilia di Caltanissetta.

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE in occasione delle perquisizioni effettuate presso la sua abitazione in data 22.1.2016, veniva rinvenuta una mail con cui il MARTORANA inviava al MONTANTE una lettera inviata al giornale di Sicilia dal TORNATORE Pasquale, che ne chiedeva la pubblicazione.

Si rammenta brevemente che – come noto a codesta A.G. – il TORNATORE Pasquale è un soggetto che è stato pubblicamente critico nei confronti del MONTANTE, che lo ha, pertanto, tacciato di essere un poco di buono. Si ricorda altresì che il GIAMMUSSO Emilio, presidente del Consorzio Universitario di Caltanissetta, soggetto molto vicino al MONTANTE, faceva una denuncia contro il TORNATORE Pasquale per estorsione: veniva acceso così il p.p. nr. 3146/13 R.G.N.R. Mod. 21 che si chiudeva, dopo indagini svolte da questa Squadra Mobile, con un’archiviazione.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MARTORANA Giuseppe:

05/05/2014 ore 15/16 app. Barresi e Martorana CCIAA

05/05/2015 ore 11,00 Martorana casa (Aud)

22/06/2015 ore 15,00 app. Martorana a casa 21/09/2015 ore 10,30 Altarello Diego / Martorana (Aud)

28/09/2015 ore 08,30 Martorana Altarello

Anche i rapporti col PEPI Giovanni sono riscontrati dalla documentazione rinvenuta in sede di perquisizioni a carico del MONTANTE. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al PEPI:

17/11/2007 ore 18,30 consegna bici Kalos a Giovanni Pepi

31/03/2008 PEPI GIOVANNI MU018 KALOS UOMO

11/02/2009 ore 08,45 app. Pepi con Emma via Veneto

12/05/2009 pranzo Pepi da Charme

15/06/2009 ore 15,00 app. Pepi Astoria 13/08/2009 pranzo Pepi da Charme

18/09/2009 cena Pepi al Montecristo

19/09/2009 EICMA Pepi e Sunzeri

05/11/2009 ore 18,00 app. Emma e Pepi

24/11/2009 pranzo Pepi da Charme

29/12/2009 pranzo Pepi alla Scuderia

01/02/2012 ore 11,30 Pepi al Bernini

27/04/2012 ore 21,00 cena con Pepi da Regine (segnalato suo amico Fabrizio Gerardi) (Senn)

05/06/2012 ore 13,30 pranzo con Giovanni Pepi al ristorante Regine

17/07/2012 ore 13,30 pranzo con Giovanni Pepi

03/06/2013 cena Ribisi, Pepi, Linares squadra mobile Trapani da Charm

16/07/2013 cena Pepi da Charme

18/03/2014 ore 21/22 cena Natale Giunta con Pepi e Agnese

09/09/2014 ore 14/15 pranzo Pepi e poi Ester da Charme

03/02/2015 ore 21,30/22,30 cena Pepi da Charme

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE PEPI GIOVANNI: FABRIZIO GERARDI PA

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) PEPI GIOVANNI

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE nel corso delle perquisizioni esperite a suo carico, presso la sua abitazione, veniva rinvenuta una delibera di Giunta della camera di Commercio di Caltanissetta del 23.6.2015 con cui venivano stanziati 9000,00 euro per “CL PRESS di Michele Maria Spena”.

Altra documentazione veniva sequestrata, sempre nel corso delle perquisizioni esperite a carico del MONTANTE, presso gli uffici di Unioncamere Palermo ove veniva rinvenuta documentazione inerente proprio finanziamenti da destinare allo SPENA.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi allo SPENA Michele:

26/06/2014 ore 10,30/11,30 app. Michele Spena al bar Crem

27/10/2014 ore 13,15/14,15 app. Spena al Caffè Crem

30/11/2014 richiesta spazi pubblicitari Il FATTO NISSENO a Unioncamere Sicilia richiesta di !.10.000,00 protocollata 04/12/2014

04/03/2015 ore 11,00 Spena Michele bar Sicilia CL (Aud)

21/04/2015 ore 17,30/18,30 Spena in CCIAA (Aud)

23/06/2015 ore 15,00 app. Spena CCIAA (Aud)

08/09/2015 ore 15,00 app. Spena Michele al bar Crem

28/09/2015 ore 18,00 app. Spena Michele e Catanzaro in CCIAA CL

12/10/2015 ore 15,25 app. Michele Spena in CCIAA (Aud)

Inoltre, riguardo allo SPENA Michele occorre segnalare che egli, in passato, ha anche curato, unitamente a MAIORCA Corrado, una pubblicazione free press denominata “Sicilia Oggi”.

Proprio a proposito di tale free press, il TORNATORE Pasquale, in data 4.12.2015, riferiva che tra gli inserzionisti vi erano ROMANO Massimo e VENTURI Marco e vi lavorava ARDIZZONE Giuliana, la figlia del colonnello ARDIZZONE Gianfranco, la quale lo aveva contattato per fargli un’intervista.

Perciò il TORNATORE chiamava lo SPENA per avere conferma che la ARDIZZONE fosse una sua collaboratrice e lo SPENA, oltre a confermarglielo, gli diceva anche che lavorava per lui, nonostante risultasse assunta in Confidi, impiego per cui si era rivelata inadatta.

Così riferiva il TORNATORE: …omissis… A.D.R.: Posso anche dire di aver conosciuto la figlia di ARDIZZONE, Giuliana, poiché la stessa mi contattò qualificandosi come una giornalista di “Sicilia Oggi”, una pubblicazione free press all’epoca curata da Michele SPENA e da Corrado MAIORCA. La ARDIZZONE mi propose, al telefono, di realizzare un’intervista, sicché contatati poi lo SPENA per capire se la ragazza fosse la figlia del comandante della Guardia di Finanza del tempo. Lo SPENA mi confermò che era lei e che collaborava con il suo giornale, poiché, pur essendo stata assunta al CONFIDI, gli erta stato chiesto di impiegarla in qualche modo essendosi rivelata inadatta a svolgere le mansioni per le quali era stata assunta al CONFIDI. L’intervista effettivamente ebbe luogo e l’articolo venne poi pubblicato; non so se ne sono ancora in possesso e se così dovesse essere mi riservo di farne avere una copia alla S.V.. Posso anche dire che tra gli inserzionisti pubblicitari di Sicilia Oggi vi furono sicuramente il ROMANO ed il VENTURI. …omissis…

Escusso il ROMANO Massimo in data 18.7.2016, confermava sia di essere inserzionista del free press “Sicilia Oggi” - anche se non ricordava se lo fossero anche il VENTURI Marco ed il MONTANTE Antonio Calogero - sia che la ARDIZZONE Giuliana collaborasse con tale giornale, sebbene fosse assunta in Confidi.

Riferiva però di non conoscere le ragioni per le quali la ARDIZZONE assunse questo incarico, nonostante lavorasse per Confidi.

Così riferiva il ROMANO: …omissis… A D.R.: La S.V. mi chiede se la sig.ra Giovanna ARDIZZONE, all’epoca della sua occupazione presso il CONFIDI, collaborasse anche con una testata giornalistica free press denominata “SICILIA-OGGI” e me ne chiede le ragioni. A tal proposito posso dire di sapere tale circostanza, ma di non conoscere le motivazioni di tale collaborazione. La S.V. mi chiede se io sia stato inserzionista di tale pubblicazione free press ed al riguardo rispondo positivamente, ma non so se oltre a me lo fossero anche MONTANTE e VENTURI. …omissis…

Infine, per quanto riguarda lo SPENA, appare opportuno segnalare anche che il 16.2.2015 su “Il Fatto Nisseno” veniva pubblicato un articolo intitolato: “L’intervista. Legalità? Una parola da abolire. Parla Michele Costa, figlio del procuratore ucciso dalla mafia”. Chiestogli un parere sulla vicenda Montante - esplosa qualche giorno prima con la pubblicazione dell’articolo di Bolzoni il 9.2.2015 – l’avv. COSTA esprimeva un parere sull’opportunità che il MONTANTE si mettesse da parte in attesa della definizione della vicenda giudiziaria che lo aveva colpito. Ebbene, tale articolo veniva rimosso poco dopo la pubblicazione. A seguito di tale increscioso avvenimento, come anticipato all’inizio del presente capitolo, il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Riccardo ARENA apriva un’indagine per verificare l’esistenza di finanziamenti ai giornalisti da parte del MONTANTE: notizia riportata in un articolo de “La Repubblica” datato 17.2.2015. Per quanto riguarda la figlia del giornalista SOTTILE Giuseppe, nato a Gangi il 15.3.1946, si segnala che effettivamente egli ha una figlia a nome Alessia, nata a Palermo il 30.11.1974. Come evinto dal suo profilo in LinkedIn, la SOTTILE Alessia di professione fa la consulente. Inoltre a SOTTILE Alessia il MONTANTE ha anche regalato una bicicletta, come ricavato dai numerosi elenchi che sono stati rinvenuti presso l’abitazione del MONTANTE in relazione a regali che egli ha fatto urbi et orbi. In questo elenco figurano altri due giornalisti: GIACOMOTTI Fabiana de “Il Foglio” e BARTOLETTI Marino. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi alla SOTTILE Alessia:

28/08/2009 ALESSIA SOTTILE 001-001 TREKKING CARBON DISK

Il MONTANTE manteneva ottimi rapporti con il giornalista SOTTILE Giuseppe - attualmente responsabile dell'inserto del sabato del quotidiano Il Foglio, del quale è stato anche condirettore - come si desumeva sia dalla documentazione sequestrata al MONTANTE sia dalle intercettazioni dalle quali emergeva che il giornalista era accondiscendente alle richieste del MONTANTE.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al SOTTILE Giuseppe:

21/07/2009 ore 14,00 pranzo Peppino Sottile e Marco Venturi al ristorante piazza C…………..

04/08/2009 ore 21,00 cena con Sottile, Piritore, Di Simone al Bernini

04/11/2009 ore 13,00 pranzo Sottile e Ivan

04/12/2009 pranzo Sottile

16/12/2009 ore 21,00 cena con Sottile e Marco Venturi al Bernini

01/09/2010 ore 21,00 cena con Ivan Lo Bello e Sottile

14/12/2011 ore 13,30 pranzo Cirillo / La Licata Ciccio / Dispenza / Sottile da Tullio

01/02/2012 ore 13,30 pranzo P.Sottile e Ivan

07/04/2012 ore 16,00 a casa Peppino Sottile

17/05/2012 ore 14,00 pranzo Peppino Sottile

07/06/2012 pranzo Peppino Sottile in Confindustria Roma

21/07/2012 cena Peppino Sottile

20/12/2012 ore 20,00 cena con Peppino Sottile da Tullio

27/11/2013 ore 09,30/10,30 colazione Alfano e Sottile al Bernini

02/04/2014 ore 13/14 pranzo Sottile Peppino

02/04/2014 ore 13/14 pranzo Sottile Peppino da Marco Piazza Caprinica

18/12/2014 ore 21/22 cena Bevilacqua, Pitruzzella, Sottile e Morgante

03/01/2015 ore 15/16 app. Sottile da Foresta

27/01/2015 ore 21/22 cena con Peppino Sottile

27/01/2015 ore 21/22 cena Peppino Sottile

17/02/2015 ore 13,30/14,30 pranzo Sottile Via XII Gennaio,8 Politeama

25/02/2015 ore 09,15/10,15 Sottile in aeroporto

06/03/2015 ore 08,30/09,30 colazione Sottile via Del Gesù,85 (Aud)

22/04/2015 09,15/10,15 Sottile in aeroporto Roma

10/06/2015 ore 17,00 con Sottile + Venturi Bar sotto la redazione IL FOGLIO Roma

30/06/2015 ore 20,00 cena con Peppino Sottile, Chiara Mancini + Lo Bello da Tullio

21/07/2015 ore 17,00 Palermo / Roma incontrato in aereo Lo Voi - Sottile - Prof. Pignatone Roberto

22/07/2015 ore 10,00 colazione Chiara Mancini + Sottile al Bernini

05/08/2015 ore 09,30 app. Nello Musumeci in SICINDUSTRIA per suo progetto + sponsor gazzebo Catania per figlio indeciso + per sua intervista + Mulè + Sottile 2 15/09/2015 ore 10,00 app. Sottile Peppino sotto casa sua

21/10/2015 ore 20,00 cena con Peppino Sottile da Tullio

Nel corso della conversazione nr. 694603 delle ore 18.54 del 9.6.2016, il MONTANTE chiamava il giornalista SOTTILE Giuseppe per lamentarsi di un articolo pubblicato quel giorno, a firma del giornalista SABELLA Accursio, riguardante la polemica sulla questione “rifiuti” in Sicilia e, nel fare riferimento al CATANZARO Giuseppe, era stato evidenziato il legame di quest’ultimo con il MONTANTE. Utilizzando anche un linguaggio scurrile, il MONTANTE ripeteva, più volte, adirato, al SOTTILE che non si dovevano fare questi parallelismi con lui.

Chiestogli se aveva capito cosa intendesse, il SOTTILE rispondeva che era “chiarissimo” e che avrebbe “provveduto”, rimarcando il fatto che il MONTANTE aveva perfettamente ragione.

Conversazione telefonica nr. 694: All’inizio la conversazione ha un carattere amichevole e non inerente alle indagini. Poi a minuti 01.06 la conversazione per il suo particolare contenuto viene trascritta integralmente.

MONTANTE: ..si!.. ti volevo dire solo per.. lo sai che io non, non.. sono cose molto, sono molto rispettoso di quello che si scrive.. eh, eh, oggi ci è stata na, c’è na polemica, naturalmente ..(balbetta).. su a munnizza, rifiuti..

SOTTILE: ..si, si..

MONTANTE: ..csi ca a mia, ca nuatri un ni, ni futti un cazzu come Confindustria..

SOTTILE: ..(inc)..

MONTANTE: ..però c’è il vice Presidente di Confindustria che è Catanzaro, che, a fa questo mestiere no!.. (inc).. quindi viene..

SOTTILE: ..vabbè, si, si.. (inc)..

MONTANTE: ..però se tu vedi, vedi.. nooo, se tu vedi il tuo pezzo, il vostro pezzo di poco fa dii.. eh, accumencia a parlari di Catanzaru vice presidente, vicino a Montante.. Montante eh, per cui.. ogni volta Accurso eh, direttamnte.. la notizia ci sta va beni.. cose loro.. ma chi c’entra, nun c’entra ne Confindustria ne Montante che.. tutti sono vicini a Montante perché Confindustria..

SOTTILE: ..si..

MONTANTE: ..è un Presidente.. quindi ogni vota se tu, se tu lo leggi lo vedi.. non ne che siamo bambini diciamo, oooh.. ogni vota se tu lo vedi è veramenti da distu, da azione di disturbo, piccole cose, stiamo parlando di niente.. è per solo per farti notare..

SOTTILE: ..(inc)..

MONTANTE: ..Accurso ..(inc).. è bravo una vostra punta, però ogni vota eh, avi questa cosa!.. un c’intru, chi cazzu c’entra Confindustria?.. parla della Marcegaglia che, che tratta a Marcegaglia con l’Ilva, non c’entra mai Confindustria o vici presidenti!.. chi c’entra.. Catanzaru ha un problema ..(balbetta).. ca avi a Siculiana..

SOTTILE: ..si..

MONTANTE: ..quannu pua ci etta un Sinnacu, cafuddra!..

SOTTILE: ..nella, nella, nella sua, certo!..

MONTANTE: ..eh!.. e pua, Montanti amicu, vicinu a Montanti.. ma tutti sono vicini a Mo, se Montante vuol vedere.. sennò mi dimetto, accussì un c’è nuddru chiù vicinu a Montanti..

SOTTILE: ..eh..

MONTANTE: ..e siamu a pustu!.. su questo e il, eeh capisci?.. eeeh..

SOTTILE: ..pronto!..

MONTANTE: ..fin quando scrivi fin.. pronto!..

SOTTILE: ..si ti sento..

MONTANTE: ..no fin quando scri.. nooo scusa, fin quando scrivi.. ì sacciu, giornali faziosi, quel che è.. perché vogliono fo, fottere politico.. però chi c’entra su una polemica che tra Crocetta e un problema di munnizza, che poi ci putissi stari Catanzaru..

SOTTILE: ..cioè, l’unica cosa e che li lui la tira strumentalmente questo Crocetta, perché ovviamente ha scritto.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ma a Crocetta ci putiti.. a Crocetta ci putiti diri che, coglioni cretinu, fallutu eh, eh, sceccu, tutti cosi ma un c’entra.. chi c’entra Mo, Mo, eh.. ne (si accavallano le voci)..

SOTTILE: ..chiarissimo..

MONTANTE: ..ci putiti mettiri ca puru.. (inc).. co Catanzaru!.. ma nun c’entra nè Confindustria e mancu Montanti in questa cosa no?..

SOTTILE: ..assolutamenti..

MONTANTE: ..ci ana fari trasiri, ci ana fari trasiri a Montanti a tutti i costi, questo è il concetto!.. la notizia va beni.. (inc).. (si accavallano le voci)..

SOTTILE: ..facciamo finta che è un gesto d’amore, provvederemo!..

MONTANTE: ..no, no, no, era solo era.. t’imamgini anchi sempri accussì può scriviri.. era solo per diri.. (balbetta).. e un, un.. non, non mi pare u, u, un taglio di un giornale come quello che, che possa avere la tua vita, questo ..(balbetta).. c’è qualcosa che.. minchia.. a parte che..

SOTTILE: ..hai perfettamente ragione.. ma non che sempre ad un amico puo chiedere (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..eh, però è sempre.. nooo è sempre, è sempre Sabe, sempri Sabella però, sempri..

SOTTILE: ..chiarissimo!..

MONTANTE: ..sempri iddru, va beni?.. okkey!..

SOTTILE: ..un baciuzzu.. MONTANTE: ..auguri in bocca al lupo per te, poi ci sentiamo la prossima settimana.. SOTTILE: ..ciao.. MONTANTE: ..ciao..

Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dal CICERO Alfonso.

Il CICERO Alfonso, nel documento che allegava alle sommarie informazioni rese a codesta A.G. in data 2.11.2015, annotava delle circostanze riguardanti delle testate giornalistiche. In particolare riferiva della intermediazione del MONTANTE affinchè il CICERO rilasciasse un’intervista a “Il Fatto Quotidiano”; vicenda che aveva visto l’interessamento anche del LO BELLO Ivanhoe. D’altronde nel corpo dell’articolo veniva dato ampio risalto sia all’imprenditore nisseno che a quello catanese. Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 2.11.2015 – pag. 14 …omissis…

24 DICEMBRE 2013: Proprio su “Il Fatto Quotidiano” che appena due mesi prima aveva parlato di dossier contro gli industriali siciliani, veniva pubblicato l’articolo “In Sicilia l’impresa delle ASI: ripulire il sistema industriale”. L’occhiello, sopra il titolo dell’articolo, riportava “Mafia & attentati la trincea degli industriali siciliani” (all. nr. 32) E’ importante evidenziare la genesi di tale articolo. Montante, infatti, mi informava che , per tramite di LO BELLO, sarei stato contattato dal giornalista della citata testata di stampa per fornire informazioni precise sulla mia azione di contrasto ai sistemi mafiosi e mi sottolineava, inoltre, che tale iniziativa poteva concorrere a fare conoscere, opportunamente, diversi aspetti del mio impegno. Nell’articolo, infatti, vengono evidenziati il rischio della mia vita e l’azione contro i sistemi affaristico-mafiosi che da tempo conducevo nelle aree industriali, sebbene grande risalto veniva dato anche a Montante e Lo Bello di cui venivano pubblicate le foto e dato atto del loro sostegno alla mia azione. …omisis…

Il giornalista firmatario dell’articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 24.12.2013 era LILLO Marco, nato a Roma il 21.2.1969, ed effettivamente nell’articolo veniva dato grande risalto all’azione antimafia del MONTANTE e del LO BELLO. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, veniva rinvenuto il seguente appunto relativo al LILLO Marco: 15/03/2015 ore 20,00 app. Lillo da Pinuccio (Aud)

Nel documento consegnato dal CICERO in sede di escussione del 20.10.2016, egli annotava anche una circostanza riguardante il direttore di “Panorama”, Giorgio MULE’. Un parente di quest’ultimo, VITALE Vincenzo, era stato nominato dalla VANCHERI nell’Assessorato alle Attività produttive da lei all’epoca diretto, su richiesta del MONTANTE. Sempre su richiesta si quest’ultimo, la VANCHERI affidava al VITALE anche il settore della internazionalizzazione delle imprese, a cui era già stata assegnata la gestione dei fondi riguardanti l’EXPO di Milano.

Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 8.10.2016 – pag. 14 …omissis… MONTANTE – VANCHERI – VITALE VINCENZO – MULE’ GIORGIO – STASSI MARIA – FERRARA (2013/2015) Nell’ufficio di gabinetto della VANCHERI, fin dal primo periodo del suo insediamento all’Assessorato Regionale della Attività Produttive, la stessa aveva nominato, quale componente, tale VITALE Vincenzo, funzionario della Regione Siciliana. La VANCHERI; nei primi mesi del 2013, ebbe a confidarmi che tale nomina le fu indicata dal MONTANTE in quanto il VITALE sarebbe un parente dell’attuale Direttore del periodico PANORAMA, MULE’ GIORGIO, soggetto, a detta della VANCHERI, legato da profonda amicizia con il MONTANTE. LA VANCHERI mi riferì che il MULE’ godeva di rapporti di un certo “peso” negli ambiti del potere politico, istituzionale e della comunicazione e, per tali ragioni, rappresentava per il MONTANTE un legame più che prezioso. Era questo il motivo per cui il MONTANTE teneva moltissimo alla nomina del VITALE ed all’attribuzione allo stesso di un ruolo “centrale” nello staff della stessa VANCHERI e, altresì, nelle attività correlate ad Expo 2015, le cui rilevanti competenze economiche ed organizzative erano state assegnate, dal Governo regionale, anche al citato Assessorato. La VANCHERI, in alcune occasioni, mi riferì che il VITALE l’aveva messa più volte in fortissimo imbarazzo per le costanti pretese di volersi recare in missione fuori dalla Sicilia e dall’Italia, a spese della Regione Siciliana, per partecipare a svariati eventi, incontri istituzionali e manifestazioni fieristiche molte delle quali inutili e/o non indispensabili. Inoltre la VANCHERI mi confidò che, sempre su input del MONTANTE, aveva affidato al VITALE il compèito di seguire operativamente il settore dell’internazionalizzazione delle imprese, delegandolo, di fatto, anche ad un ruolo preminente e condizionante nelle scelte di competenza del servizio del citato dipartimento a cui, formalmente, spettava la gestione. Il VITALE, altresì, accompagnava, spesso, la VANCHERI insieme alla STRACUZZI Chiara (capo di gabinetto vicario, moglie di LA ROTONDA CARLO, Direttore di Confindustria “Centro Sicilia”, soggetti a cui ho accennato per altri fatti nel documento consegnato alla S.V. il 02.11.2015), soprattutto nel periodo 2013/2014; invece, nel 2015, il VITALE, si recava costantemente a Milano per curare personalmente le attività per Expo, insieme a tale BALSAMO ALESSANDRO, anch’egli componente dell’ufficio di gabinetto della VANCHERI, soggetto legato al CROCETTA. …omissis…

Il VITALE Vincenzo effettivamente aveva ricevuto l’incarico dalla VANCHERI di occuparsi, unitamente ad altri colleghi dell’Assessorato alle Attività Produttive, dei fondi Expo, come si legge anche in articoli di stampa di cui uno viene allegato. (All. nr. 498 - articolo di stampa su Vitale/Expo) Tra il materiale sequestrato al MONTANTE, presso la sua abitazione, veniva rinvenuta una lettera inviata dal giornalista MULE’ Giorgio, nato a Caltanissetta il 25.4.1968, direttore del settimanale “Panorama” dal settembre 2009.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MULE’ Giorgio:

03/02/2012 ore 13,00 con Giorgio Mulè alla Montadori (dopo un' intervista) Iovino D'Amiano

01/03/2012 cena con Giorgio Mulè con Nino Bevilacqua al Montecristo (non si conoscevano)

03/03/2012 sms 12,37 da Giorgio Mulè: la mamma gli dice che siamo mezzi parenti con Antonello, la madre di tuo nonno Lillu si chiamava Pietra Montante

11/04/2012 ore 21,00 cena Giorgio Mulè al Bernini

30/04/2012 GIORGIO MULE' MD-021 FLORENCE DONNA

30/04/2012 GIORGIO MULE' V-075 VINTAGE FATTORINO UOMO

31/05/2012 cena al Montecristo con Giorgio Mulè

05/06/2012 app. regista Moschella e moglie Mulè in Confindustria Sicilia

25/06/2012 ore 15,30 Moschello regista moglie Mulè in Sicindustria

27/06/2012 ore 21,00 cena con Giorgio Mulè a Brera

31/08/2012 cena al Montecristo con Giorgio Mulè e moglie

05/12/2012 sms 13,01 Giorgio Mulè: dove ci sarò io, ovunque sarà casa tua. Grazie a te un abbraccio Giorgio

14/12/2012 ore 20,30 cena Giorgio Mulè e moglie da Giacomo

27/11/2013 ore 09/10 app. Mulè Giorgio

06/12/2013 ore 20,30/21,30 cena Mulè e Chiara al Porto Parlato

20/12/2013 ore 15,30/16,30 app. Mulè Giorgio EICMA

21/12/2013 ore 09/10 casa Mulè Giorgio

17/01/2014 ore 13,30/14,30 pranzo Mulè Giorgio e Brumotti da Cavallini

13/03/2014 ore 20,30/21,30 cena Squinzi, Mulè, Fiori e Minoli a Milano La Risacca Blu viale Tunisia

10/07/2014 ore 09/10 app. Giorgio Mulè al Bernini

08/08/2014 ore 13/14 pranzo Giorgio Mulè in via De Amicis di fronte Cioccolati con Agnese

15/10/2014 ore 13/14 pranzo Mulè Peppino da Tullio

22/10/2014 ore 13/14 pranzo Mulè Granata al Bernini Roma

13/11/2014 ore 15/16 app. Giorgio Mulè, Arcuri e Linda al Bernini

13/11/2014 ore 22/22 cena Mulè Agnese da Tullio

14/01/2015 ore 19/20 app. Giorgio Mulè al Bernini

24/01/2015 ore 13/14 Mulè Giorgio da Cioccolati

06/02/2015 ore 13/14 pranzo Mulè Giorgio

14/02/2015 ore 10,30/11,30 Mulè Giorgio da Cioccolati

26/02/2015 ore 18/19 app. Mulè al Bernini

13/03/2015 ore 18,30/19,30 app. Giorgio Mulè e Savini

17/03/2015 Panorama: informazione a Montante da parte di Mulè Giorgio, ha ricevuto da un suo amico d'infanzia, che oggi ricopre ruolo di garanzia

24/04/2015 ore 13,30/14,30 pranzo Mulè Cavallino, Anto e Crippa

22/05/2015 ore 20,00 Mulè fatto vedere esposto 05/08/2015 ore 09,30 app. Nello Musumeci in SICINDUSTRIA per suo progetto + sponsor gazzebo Catania per figlio indeciso + per sua intervista + Mulè + Sottile

06/08/2015 ore 19,30 app. Giorgio Mulè da La Mantia Piazza Risorgimento Milano (ex Gold)

04/09/2015 ore 19,00 aperitivo da La Mantia Filippo con Giorgio Mulè

17/09/2015 ore 17,00 Giorgio Mulè e Roberto Galullo, poi Francesco Fiori

15/10/2015 ore 19,00 app. Giorgio Mulè ristorante Filippo La Mantia con Grippa

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) MULE' GIORGIO T

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE MULE' NOTA 17/03/2015

A proposito del giornalista MULE’ Giorgio, si richiama anche la denuncia presentata a codesta A.G. in data 26.3.2015 dal CASAGNI Giampiero, giornalista del settimanale “Centonove”, nel corpo della quale il CASAGNI riferiva che, dopo avere raccolto del materiale inerente i rapporti tra MONTANTE ed ARNONE Vincenzo, aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso un quotidiano nazionale, in particolare “Panorama”. Non essendo riuscito a mettersi in contatto con il direttore del giornale, aveva chiesto ad un amico comune di Caltanissetta, ZAMMUTO Stefano, ex compagno di banco del MULE’ Giorgio, se poteva metterlo in contatto con quest’ultimo, il quale, appreso l’argomento dello scoop gli diceva di inviargli il tutto via mail e che, poi, gli avrebbe fatto sapere. Il CASAGNI inviò la mail il 2.5.2014 ma il MULE’ non gli fece sapere più nulla.

Frattanto, dopo la pubblicazione di un articolo intitolato “La volata di Montante” del 26.2.2015, in cui si dava notizia anche di una consulenza data dall’Irsap alla figlia del Procuratore DI NATALE, oggi in pensione, lo ZAMMUTO gli aveva raccontato di avere ricevuto la visita del citato magistrato, il quale gli aveva riferito che il MONTANTE era in collera con lui e che intendeva denunciarlo perché reputava che fosse in combutta con il CASAGNI, fornendogli persino materiale giudiziario contro di lui, specificandogli che il MULE’ era un grande amico del MONTANTE.

Che sia stato il MULE’ a riferire al MONTANTE del contatto CASAGNI/ZAMMUTO, lo si evince con certezza dal materiale rinvenuto in corso di perquisizione effettuata a carico del MONTANTE.

Infatti, nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, veniva rinvenuta anche la seguente annotazione: 17/03/2015 Panorama: informazione a Montante da parte di Mulè Giorgio, ha ricevuto da un suo amico d'infanzia, che oggi ricopre ruolo di garanzia.

Inoltre, anche nel memoriale depositato dal MONTANTE al Tribunale del Riesame dopo le perquisizioni effettuate a suo carico, egli allega una lettera del 17.3.2015 (quindi dopo la pubblicazione dell’articolo del BOLZONI in data 9.2.2015) in cui il MULE’ riferiva delle vicende sopra indicate.

Sempre nel documento consegnato dal CICERO in sede di escussione del 20.10.2016, si leggeva anche del giornalista CASTALDO Franco, editore del giornale on-line “Grandangolo”.

Il CICERO incontrava quest’ultimo in occasione di un appuntamento con il FIUMEFREDDO e aveva avuto modo di constatare i buoni rapporti di amicizia intercorrenti tra i due. Inoltre, il FIUMEFREDDO stesso gli confidava, dopo che il giornalista si era allontanato, che quest’ultimo era molto legato al CATANZARO Giuseppe, che aveva in cantiere il progetto di finanziare la creazione di una nuova testata giornalistica che sostenesse mediaticamente l’azione di Confindustria Sicilia, di cui CATANZARO – si rammenta – è stato da poco eletto Presidente.

Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 8.10.2016 – pag. 37 …omissis… FIUMEFREDDO – CASTALDO – CATANZARO (2014) Se mal non ricordo, nel 2014, un giorno festivo, in orario pomeridiano, nello studio del FIUMEFREDDO, incontrai CASTALDO FRANCO, di Agrigento, editore del giornale on line GRANDANGOLO, che aveva già concluso il suo incontro con il FIUMEFREDDO e con il quale, per qualche minuto, scambiammo dei convenevoli prima che lo stesso andasse via. Notai che tra il FIUMEFREDDO ed il CASTALDO vi era una stretta amicizia e che il CASTALDO tenesse in evidente considerazione il FIUMEFREDDO. Il FIUMEFREDDO, prima di iniziare la nostra discussione, mi confidò che il CASTALDO da diverso tempo era legato al CATANZARO e che, proprio su input e sostegno economico del CATANZARO, stavano elaborando un’iniziativa comune con SUDPRESS.IT per lanciare una nuova testata giornalistica di diffusione regionale al fine precipuo di sostenere mediaticamente l’azione di Confindustria Sicilia. …omissis…

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al CASTALDO Franco: 29/09/2015 ore 13,00 app. Franco Castaldo al Bar Grandangolo viale Della Vittoria AG.

In data 6.8.2016, veniva intercettata la conversazione nr. 1537 delle ore 15.55, in cui il MONTANTE chiedeva al CASTALDO Francesco di occuparsi - quando glielo avrebbe detto lui - della stesura di uno o più articoli contro PETROTTO, DENI, VENTURI e CICERO, rappresentandogli che aveva presentato una denuncia molto corposa nei loro confronti alla Procura di Agrigento e alla Polizia Postale.

Il MONTANTE gli preannunciava che gli avrebbe fornito le carte e gli anticipava che doveva parlare di una vera e propria “associazione” composta da “fuoriusciti da Confindustria” che avevano dovuto fare tutto ciò che avevano fatto contro di lui perché avevano dovuto cedere alle pressioni della mafia agrigentina.

Il CASTALDO lo rassicurava dicendogli che “aveva capito alla perfezione”.

Conversazione telefonica nr. 1537:

CASTALDO: ..pronto!..

MONTANTE: ..chi fa durmivatu, durmivatu?..

CASTALDO: ..pronto!..

MONTANTE: ..durmivatu?..

CASTALDO: ..capita!.. ma poi dici ca un durmu mai!..

MONTANTE: ..minchia!.. (ride).. minchia!.. cumu si?..

CASTALDO: ..bonu, bonu!.. eeeh, ..(inc).. tutto oggi, domani mattina alle ore otto già..

MONTANTE: ..vabbè, vabbè okkey..

CASTALDO: ..cioè siamo..

MONTANTE: ..si, ti volevo dire una cosa, ti sto informando.. nooo, ti sto informando solo ca, che ieri Confindustria Sicilia, no!..

CASTALDO: ..si!..

MONTANTE: ..però questo non lo dare, non lo dare..

CASTALDO: ..ti ascolto.. !

MONTANTE: ..no, lo so!.. perché m’interessa dopo.. unni c’è un succu, cioè molto formaggio.. ha fatto una denuncia corposa presentata alla Procura di Agrigento e alla Polizia Postale molto corposa..

CASTALDO: ..si..

MONTANTE: ..eh, controoo, contro Petrotto, Deni, Ventu..

CASTALDO: ..si..

MONTANTE: ..Venturi, Cicero.. cose va, na cosa molto corposa!..

CASTALDO: ..si, si, si, si!..

MONTANTE: ..vabbeni?.. però già sappi.. (si accavallano le voci)..

CASTALDO: ..anch’io mi occupo per adesso di questa vicenda di, di Mariella di cui abbiamo.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..(inc).. tu sai che non la seguo questa, no sooo, vabbè!..

CASTALDO: ..no!.. io, io, io sono.. io sono il ..(inc).. ho le cose.. ah, ah, appena siamo pronti di, di quest’altra vicenda ora me, me ne occupo pure io..

MONTANTE: ..nooo, ti voglio dire poi ti do, poi ti do le car.. però cunveni ..(balbetta).. ci sono varie puntate no!.. in generali!..

CASTALDO: ..certu, certu!.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ti, ti, ti volevo dire chee, ieri è stata consegnata alla Procura di Agrigento..

CASTALDO: ..si, si..

MONTANTE: ..e alla Polizia Postale un corposo, una corposa denuncia, diciamo.. proprio no!.. propria denuncia..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..diii, contro un’organizzazione, va bene?..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..e pirchì l’abbiamo..

CASTALDO: ..organizzazione!..

MONTANTE: ..l’abbiamo chiamata organizzazione, va beni?..

CASTALDO: ..vedi effettivamente, effettivamente parteru ca eranu Lanzichenecchi, maaa ora ehh, c’è troppa cointeressi di tutti.. de, denoto pure io che vico, come si dice, dall’esterno!.. (inc)..

MONTANTE: ..si, si, si!.. no ma poi, appena la leggi ti rendi conto perché mhm, fra gli avvocati eccetera eccetera, eh, hanno capito che c’era pro.. è proprio una, una vera organizzazione eeeh, e una delle scelte di quello che è successo.. (si accavallano le voci)..

CASTALDO: ..si, si.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..(inc).. fuorusciti dal sistema Confindustria..

CASTALDO: ..si, si..

MONTANTE: ..eh, è rimasto nelle tele della mafia loca, eeh, agrigentina!..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..perchè, pur di ottenere i suoi risultati si è ve.. si è, ha ceduto a questa guerra praticamente no!..

CASTALDO: ..ah, si, si, si.. eh, eh, a queste pressioni.. ho capito, ho capito!..

MONTANTE: ..questa, no questa.. questa è la denuncia no?.. perché alla fine ora solo per.. vabbè molto, molto forte, capito?..

CASTALDO: ..si, si!.. ho capito alla perfezione.. tu, tutto a posto tu?.. ..

Dopo di ciò la conversazione assume un carattere amichevole e non inerente alle indagini.

In data 20.10.2016, progr. 2880605 delle ore 12.25, il MONTANTE diceva alla VACCARO Santa, segretario generale di Unioncamere Sicilia, in ordine a delle assunzioni o a delle consulenze da affidare, di considerare il figlio di CASTALDO e gli chiedeva se aveva un curriculum del figlio. La VACCARO rispondeva negativamente ed il MONTANTE, quindi, le diceva di chiamare il CASTALDO per farsi mandare il curriculum del figlio.

Conversazione telefonica nr. 2880:

VACCARO: Pronto

MONTANTE: Santa?

VACCARO: Ehi Antonello

MONTANTE: ciao Santa VACCARO: (inc)

MONTANTE: senti, ieri mi hai dato…

VACCARO: si

MONTANTE: un cu…, quel curriculum che è arrivato da un certo ingegnere Vella

VACCARO: si

MONTANTE: ora è ... datato quattordici undici, quindi c'è una erra.. un errore (inc)… te lo devi fare dare nuova, invece, dico, c'è scritto quattordici novembre, ancora deve venire il quattordici novembre

VACCARO: Ah, questo io manco infatti l'ho stampato direttamente, vabbè ora lo chiamo e poi mi faccio fare. Si

MONTANTE: va bene? okay?

VACCARO: si, si,si, si. Va bene, Okay.

MONTANTE: Perfetto

VACCARO: Poi stanno arrivando poi i curriculum quelli però... quelli per quanto riguarda le... gli immobili per la valutazione degli immobili… Poi martedì quando ci vediamo...

MONTANTE: (inc)… invece va... va... valutiamo… valutiamo la presenza del... sai di Castaldo

VACCARO: valutiamo?

MONTANTE: quel ragazzo, il figlio di Castaldo che... hai un curriculum o sbaglio.

VACCARO: Eh... no io di questo non ne ho. Io ...

MONTANTE: chiama a Cas ... chiama a Castaldo

VACCARO: ho qualche cosa di (inc) non ho altre cose

MONTANTE: fatti mandare il curriculum

VACCARO: eh, magari lo chiamo, lo chiamo

MONTANTE: il curriculum del figlio, si, si... va bene che è bravo (inc)

VACCARO: si, si perfetto

MONTANTE: okay va bene?

VACCARO: okay lo chiamo e me lo faccio mandare

MONTANTE: chiamalo

VACCARO: va bene!

MONTANTE: Ti abbraccio, a dopo

VACCARO: okay, anche a te

MONTANTE: ciao

VACCARO: ciao ciao

Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dal TORNATORE Pasquale. In data 4.12.2015, il TORNATORE Pasquale riferiva che il padre del giornalista MARTINES Valerio - già giornalista de “La Sicilia” e già direttore del giornale on-line “Seguo News”, attualmente addetto stampa all’ordine dei medici - gli aveva confidato che, dopo che il figlio aveva pubblicato un articolo su “La Sicilia” critico nei confronti del MONTANTE, era stato contattato dal ROMANO Massimo e dal MONTANTE che gli avevano fatto capire che non avevano gradito quanto pubblicato. Addirittura il MONTANTE, poi, intervenne sulla redazione catanese facendo pressioni per far sì che non venissero più pubblicati articoli di giornale di quel tenore. Il TORNATORE produceva, in sede di escussione, l’articolo di giornale in argomento.

Così riferiva il TORNATORE Pasquale: …omissis… A.D.R. Posso anche dire di aver saputo dal padre del giornalista Valerio MARTINES che, dopo la pubblicazione da parte del figlio di un articolo su “La Sicilia” di una indagine nei confronti del MONTANTE per il reato di falso in bilancio – articolo di cui ho con me oggi una copia e che produco alla S.V. – aveva ricevuto una telefonata a casa da parte di ROMANO e MONTANTE, i quali gli avevano espressamente chiesto “chi ce lo portava il figlio a scrivere ‘ste cose”. Sempre il padre del MARTINES mi disse che MONTANTE successivamente aveva fatto pressioni sulla redazione catanese del giornale affinché si evitasse la pubblicazione di altri articoli sull’argomento. …omissis…

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE, veniva rinvenuta una mail con cui il MARTINES Valerio gli inviava il suo curriculum vitae, dal cui tenore si desume in maniera evidente che i due avevano chiarito ed avevano anche allacciato un rapporto di amicizia.

Altra documentazione veniva sequestrata, sempre nel corso delle perquisizioni esperite a carico del MONTANTE, presso gli uffici di Unioncamere Palermo ove veniva rinvenuta documentazione inerente proprio finanziamenti da destinare al MARTINES.

Dalle intercettazioni si evinceva che il MARTINES aveva chiesto dei favori al MONTANTE che si era reso disponibile. Nella conversazione nr. 655606 delle ore 08.19 del 4.5.2016, il MONTANTE richiamava il MARTINES, dopo avere visto che lui lo aveva cercato in precedenza e gli chiedeva se poteva fare qualcosa per lui anche se si trovava fuori Caltanissetta. Il MARTINES gli rispondeva che voleva solo chiedergli se c’erano novità per un favore che evidentemente gli aveva chiesto in precedenza ed il MONTANTE rispondeva che “ci stava lavorando”, anche se gli spiegava che, per ovvi motivi, non usava i telefoni e, perciò, lasciava intendere che si adoperava incontrando di persona i soggetti con cui avrebbe dovuto parlare anche della sua situazione. Il MARTINES lo ringraziava e gli proponeva di incontrarsi, magari, una sera a cena e lo avrebbero detto anche a Michele, da identificarsi verosimilmente nello SPENA Michele.

Conversazione telefonica nr. 655: All'inizio della registrazione e prima della risposta dell'interlocutore, si sente MONTANTE Antonio Calogero dire testualmente: "...venti...il tuo numero della stanza all'Hotel...(inc)...di Napoli". Immediatamente dopo:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Valerio, Antonello...Valerio!

MARTINES: Antò...buongiorno! Come stai?

MONTANTE: Bene, che fà dormi la mattina ah!

MARTINES: No, no, ero nell'altra stanza che stava facinnu colazione...buongiorno!

MONTANTE: No scusami, lo sò...l'ho visto che mi hai chiamato...ho visto i messaggi ma non sono rientrato...quindi...ho avuto un casino...

MARTINES: Chiaro, no no anzi...figurati! Scusa me se ti ho...

MONTANTE: Sono ancora fuori, quindi rientro la prossima settimana...

MARTINES: Ho capito...

MONTANTE: Dimmi se posso fare qualcosa anche a distanza...

MARTINES: No no, così era...solo per...se c'era qualche cosa di novità...

MONTANTE: Ci sto lavorando, nel senso che ci sono...

MARTINES: Perfetto!

MONTANTE: Però volevo capire se c'è...no pensavo che c'era qualcosa...(inc)...

MARTINES: No no no...così era...no no no...solo...

MONTANTE: Se ti viene qualche idea...idea...non ti preoccupare...(inc)...

MARTINES: No no assolutamente...mezza parola...no no...solo...non ci sono problemi allora...a maggior ragione...(inc)...

MONTANTE: Và bene...siccome ho visto...no ho visto...per ora...per ovvi motivi uso poco...anche perchè sono sempre in riunione...

MARTINES: Ovviamente...no no...

MONTANTE: ...non uso i telefoni...quindi diciamo capito...

MARTINES: ...anzi ti ringrazio...

MONTANTE: ...volevo capire se c'era qualche...(inc)...

MARTINES: No assolutamente...poi magari qualche sera andiamo a cena assimi...si ti capita di...con Michele anche e stamu assimi un pocu...và...

MONTANTE: Si si...con piacere...il problema è...il problema è che gli ultimi periodi un c'aiu statu chiù...questo è il problema...

MARTINES: Ovviamente...no no no...l'ho capito...

MONTANTE: Perchè vengo un giorno...spesso e volentieri non vengo perchè mi fermo a Palermo perchè i miei...tu ù sà...tra...le mie figlie sono fuori...

MARTINES: ...sull'asse Londra Milano...è chiaro...no no...và bene Antonellì...ti ringrazio sempre ah?

MONTANTE: Un bacio...

MARTINES: Grazie...obbligato...

MONTANTE: Ciao, un abbraccio...ciao...

MARTINES: Ciao...un bacio...buona giornata...

MONTANTE: ...ciao...

MARTINES: ...ciao.

Qualche mese dopo, progr. nr. 360607 delle ore 19.58 del 12.7.2016, il MARTINES tornava alla carica con il MONTANTE, che chiamava “compà”, chiedendogli se aveva novità che lo riguardavano, visto che era da un po’ di tempo che non si vedevano e non era riuscito ad incontrarlo nemmeno al matrimonio della figlia del MISTRETTA Vincenzo, Graziella. Il MONTANTE lo rassicurava dicendogli che si sarebbero incontrati la settimana prossima a Caltanissetta ed il MARTINES lo ringraziava.

Conversazione telefonica nr. 360:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Valerio, Antonello...Valerio!

MARTINES: Antonè! Come stai?

MONTANTE: Bene tu? Tutto a posto?

MARTINES: Bene! Tutto a posto! Chi si dici?

MONTANTE: Bene, tutto a posto...cummattimmu Valè...(inc)...

MARTINES: Và bè...eh!

ONTANTE: Tu?...(inc)...

MARTINES: T'ho rotto le palle nì stì giorni...ora infatti dissi...(inc)...

MONTANTE: No e infatti io...(inc)...se non sono reperibile può succedere la fine del mondo purtroppo...

MARTINES: Chiaro! No...e l'altra sera ho chiesto di te a tua moglie, c'era Chiara...Alessandra...al matrimonio di Graziella...

MONTANTE: ...(inc)...avevo un problema mio personale e quindi ero...

MARTINES: ...chiaro...l'ho capito...

MONTANTE: ...ero fuori...si...quindi...

MARTINES: ...ho capito...

MONTANTE: ...mi sono perso questo bel matrimonio...(inc)...

MARTINES: E infatti...e infatti...

MONTANTE: ...(inc)...tutto a posto tu?

MARTINES: Bene, bene compà...niente accussì era...ti chiamavo per finire un pò...ero un poco in tridici và! MONTANTE: Non ti sento bene...come?

MARTINES: No, ti avevo chiamato così per sapere se c'erano novità...qualche cosa...che ero un poco...

MONTANTE: No...si spera la prossima settimana...io torno...torno domenica quindi la prossima settimana ci sarò e...ci vediamo a Caltanissetta!

MARTINES: Và bene và!

MONTANTE: Và bene?

MARTINES: Perchè ero un poco...ero un poco in tridici và!

MONTANTE: U capivu!

MARTINES: Và bene...

MONTANTE: ...(inc)...

MARTINES: Và bene và...anzi grazie sempre ah!

MONTANTE: ciao Valerio ciao...

MARTINES: Grazie...ciao arripigliati...un bacio...ciao.

Una settimana dopo, progr. nr. 656 delle ore 09.38 del 19.7.2016, il MONTANTE richiamava il MARTINES che lo aveva provato a rintracciare, invano, inviandogli svariati messaggi. Il MARTINES gli chiedeva nuovamente se avesse novità relativi, chiaramente, a qualcosa che il MONTANTE doveva fare per lui e quest’ultimo gli rispondeva che non avevano emesso delibere alla Camera di Commercio, poiché si era in una fase di stand-by scaturente dal progetto di unificazione di detti enti, ma che presto avrebbe provveduto. Il MARTINES lo ringraziava, ribadendogli che era a disposizione per qualunque cosa.

Conversazione telefonica nr. 656:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Eh...Valerio...Antonello...Valerio!

MARTINES: Hei...buongiorno! Cumu simmu! Tutto a posto?

MONTANTE: Bene bene...si ma scusami...ho visto che mi hai mandato parecchi messaggi...

MARTINES: No...non ti preoccupare...ti ho solcherizzato...ah ah ah...(ride)...

MONTANTE: Non sono stato be...non sono stato bene e ho fatto delle cose...degli esami...

MARTINES: Ah...questo mi dispiace...ah...questo mi dispiace gioia...scusami allora...scusami davvero...

MONTANTE: Ieri ero a Caltanissetta ma ho fatto toccata e fuga...

MARTINES: Chiaro...ho capito, và bene!

MONTANTE: ...(inc)...dimmi...(inc)...

MARTINES: Niente tutto a posto...no era per sentirci accussì...era per capire un poco se avevamo novità...qualche cosa di MONTANTE: ...(inc)...per quella là...(inc)...non ho fatto...non abbiamo fatto delibere di nessun genere perchè per i motivi dell'accorpamento...a giorni la faremo...

MARTINES: Chiaro...và bene...

MONTANTE: Poi non sò...se tu hai novità...per Caltanissetta...

MARTINES: No...quella cosa di...no và bè...poi magari nì vidimmu con calma...dai ...un ci 'nè prescia...non ti preoccupare...no và bè...quella cosa là di Milano, per capire...

MONTANTE: Si si si...ma questa qua è...

MARTINES: Ah perfetto...no no, avevo sentito male...scusami...và bene...

MONTANTE: Okay...và bene? Okay?

MARTINES: Và bene...và bò! Antonè...per qualsiasi cosa a disposizione ah?

MONTANTE: Và bene...ciao grazie...

MARTINES: Và bene? Un bacio grande! Ciao...in gamba! Ciao gioia!

13.4 Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dalla VIZZINI Maria Sole.

In data 1.4.2016, la VIZZINI Maria Sole riferiva, ex ceteris, di una vicenda dalla quale si evinceva anche altro legame che il MONTANTE aveva anche con il giornalista ABBATE Lirio. Occorre anzitutto premettere, per meglio inquadrare il narrato che sarà di seguito riportato, che la VIZZINI ha rivestito l’incarico di revisore contabile dell’A.S.T. dal 2007 circa sino al marzo 2016 e che aveva espresso sempre forti perplessità sul progetto di fusione tra A.S.T. e Jonica Trasporti, fortemente voluta dal MONTANTE. La Jonica Trasporti è una società partecipata di A.S.T. s.p.a. che detiene il capitale al 51% mentre la restante parte del 49% è della ditta Mediterr Shock Absorbers s.p.a del MONTANTE Antonio Calogero; amministratore unico della Jonica Trasporti è CANONICO Carmine, generale della Guardia di Finanza in pensione che aveva già prestato servizio a Caltanissetta come responsabile della Sezione di p.g. – aliquota G.d.F., soggetto legato al MONTANTE, per come emerge dalle intercettazioni. La VIZZINI dichiarava che, in riferimento alla fusione di A.S.T. con Jonica Trasporti, l’allora vice presidente con funzioni di Presidente dell’A.S.T., avv. CUSUMANO Giulio, si era opposto a tale operazione di fusione ed un giorno le chiese di incontrarla.

Nel corso di tale incontro, il CUSUMANO le confidava di essere stato avvicinato da due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, che lo avevano minacciato dicendogli che, se avesse continuato ad opporsi a tale fusione, avrebbero diffuso delle notizie che riguardavano la sua sfera privata, con particolare riferimento a festini omosessuali da lui frequentati e a vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato. Qualche tempo dopo, il giornalista ABBATE Lirio - che la VIZZINI conosceva e al quale aveva già espresso le sue perplessità circa l’operazione di fusione in argomento - contattava la VIZZINI e le chiedeva informazioni proprio in merito all’avv. CUSUMANO, specificandole che voleva sapere notizie attinenti proprio i due stessi argomenti alla base delle minacce dei due loschi figuri che avevano avvicinato il CUSUMANO e cioè parentele di quest’ultimo con soggetti che avevano avuto problemi giudiziari e frequentazioni di locali omossessuali.

Così riferiva la VIZZINI: …omissis… A.D.R.: Per quanto riguarda l’A.S.T., posso riferire su svariati tentativi che ho potuto riscontrare nel corso del tempo finalizzati a mettere in difficoltà la società, ritengo per poi svenderla. In tale contesto si inserisce, a mio parere, la vicenda relativa alla fusione di Jonica Trasporti ed A.S.T.; in particolare, su tale specifica vicenda, posso riferire che una volta, l’Avv. Giulio CUSUMANO, in quel momento Vice Presidente con funzione di Presidente a seguito delle dimissioni di GIAMBRONE per problemi giudiziari, durante più sedute manifestò con assoluta decisione che era contrario all’operazione di fusione. Accadde che il CUSUMANO mi volle incontrare di persona, incontro che avvenne in Palermo nei pressi del mio studio; in quella occasione chiese il mio supporto e di non lasciarlo solo nella sua battaglia contro la fusione, dicendomi altresì che era molto spaventato perché due soggetti, con il volto semi coperto da sciarpe, l’avevano avvicinato, dicendogli che “se avesse continuato a rompere” avrebbero reso pubbliche notizie riguardanti vecchie vicende giudiziarie che riguardavano la sua famiglia nonché la sua partecipazione a festini omosessuali. Se mal non ricordo, successivamente, qualche notizia sul coinvolgimento di CUSUMANO in festini e/o bische clandestine, fu pubblicato. Per far comprendere cosa risposi nell’occasione al CUSUMANO devo premettere che sono solita redigere perizie, a titolo personale, per inchieste giornalistiche ed in tale contesto ho avuto modo di conoscere il giornalista Lirio ABBATE, al quale in più di qualche occasione avevo espresso le mie perplessità sul progetto di fusione. Lo stesso Lirio ABBATE mi consigliò di affrontare la situazione non come mio solito, di spada, bensì di fioretto. Risposi, pertanto, al CUSUMANO in occasione dell’incontro di cui ho parlato che era consigliabile, rifacendomi al consiglio che mi aveva detto tempo prima Lirio ABBATE, che era consigliabile, appunto, agire di fioretto. Successivamente all’incontro che ebbi col CUSUMANO lo stesso ABBATE mi chiamò chiedendomi cosa gli potessi dire del CUSUMANO medesimo e cioè se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se effettivamente questi aveva partecipato a festini. Compresi, pertanto, che la vicenda raccontatami dal CUSUMANO avesse un suo serio e concreto fondamento. Non ho però mai riferito al CUSUMANO della telefonata ricevuta da Lirio ABBATE. …omissis…

I legami dell’ABBATE Lirio con il MONTANTE sono cristallizzati agli atti d’indagine.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi all’ABBATE Lirio:

02/09/2008 ore 13,00 app. Lirio Abbate pranzo Palermo

07/12/2009 ore 15,30 Lirio Abbate al Bernini

17/12/2009 ore 21,00 cena con Lirio Abbate, Cicero e La Licata da Tullio

22/01/2010 ore 13,00 pranzio Lirio Abbate

16/09/2010 ore 09,00 app. Monica Ceravolo moglie Lirio Abbate al Bernini

22/09/2010 ore 09,00 app.Monica x Tamburini / Cerasolo (Lirio Abbate) Bernini

07/10/2010 ore 09,00 app. Bernini con Monica Ceravolo (Lirio Abbate)

09/10/2010 ore 13,30 pranzo con Lirio Abbate al Porticello

27/10/2010 ore 09,00 colazione Lirio Abbate al Bernini

14/12/2010 ore 16,00 app. Lirio Abbate

19/10/2011 ore 09,00 Lirio Abbate Bernini

17/11/2011 ore 10,00 app. Lirio Abbate al Bernini

17/05/2012 ore 11,00 app. Lirio Abbate al Bernini

17/05/2012 ore 19,00 app. Lirio Abbate + Liviadotti e Ivan al Bernini

15/08/2012 ore 15,00 con Antonio I., Lirio Abbate, Venturi in barca

05/09/2012 ore 21,00 cena da Tullio con Lirio Abbate e Dispenza

13/12/2012 ore 09,00 colazione con Lirio Abbate

27/02/2013 ore 16,00 Lirio Abbate

21/03/2013 colazione Pitruzzella poi Lirio Abbate

03/04/2013 ore 16,00 Lirio Abbate Sicindustria

23/04/2013 cena Lirio Abbate Bernini

02/07/2013 Venturi, Lirio Abbate Confindustria Sicilia

26/07/2013 Lirio Abbate e Panucci

20/11/2013 ore 16/17 app. Lirio Abbate e Lo Bello al Bernini

16/07/2014 ore 09,30/10,30 app. Lirio Abbate a Villa Igea

20/11/2014 ore 11,30/12,30Lirio Abbate e Monica

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE ABATE LIRIO(MONICA CERAVOLO)

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) ABATE LIRIO T 13.5

Altre risultanze investigative relative ai rapporti del MONTANTE con altri giornalisti. A parte le dichiarazioni sopra dette, dalla complessiva attività di indagine emergevano altri elementi inerenti i rapporti del MONTANTE con giornalisti. 1405 Anzitutto si segnala il rapporto che aveva instaurato con il giornalista de “Il Sole 24 ore” ODDO Giuseppe - di cui si è riferito ampiamente nei paragrafi 4.2.3 e 4.2.4 - che già in re ipsa dà contezza del tentativo del MONTANTE di strumentalizzare l’informazione a suo vantaggio. Al riguardo si richiama quanto veniva rinvenuto, tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE, attinente al giornalista ODDO Giuseppe.

A proposito si richiama una parte delle dichiarazioni dell’ODDO Giuseppe in cui il giornalista ricordava che il MONTANTE gli aveva chiesto di “attaccare” il giornale on-line “Live Sicilia”, diffondendo notizie a discredito del direttore e di uno degli azionisti di questa testata, rispettivamente FORESTA e AMATO o D’AMATO, sui quali il MONTANTE disse che avevano legami familiari con la mafia. Per questo, qualche tempo dopo, il MONTANTE forniva all’ODDO dei documenti da cui si poteva risalire a queste notizie ma l’ODDO ritenne le carte fornitegli insufficienti per tacciare di mafiosità i suddetti giornalisti.

Così riferiva l’ODDO in data 27.11.2015: …omissis… A.D.R.: Lavoro come giornalista presso la testata “Il Sole24Ore” dal 1997 e sin dal 1973 ho lavorato all’interno del gruppo di cui fa parte la testata. Sto, comunque, per andare in pensione. A.D.R.: A partire dal 2008 ed anche al fine di poter conciliare esigenze familiari legate alle condizioni di salute di mia mamma, chiesi ed ottenni dal direttore dell’epoca dott. DE BORTOLI di potermi occupare delle vicende siciliane; ricordo infatti che pubblicai, assieme al collega GALULLO, un’inchiesta giornalistica in due puntate sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia. …omissis… Mi torna, tuttavia, alla mente che, in epoca antecedente al luglio del 2013, il MONTANTE “mi parlò male” di “Livesicilia” e mi esortò “ad attaccarla”, dicendomi che FORESTA ed AMATO o D’AMATO, rispettivamente direttore ed uno degli azionisti della testata, avessero familiari legati alla mafia. Successivamente MONTANTE mi consegnò delle carte e documenti – che ricordo essere visure camerali ed atti dei quali forse sono ancora in possesso – da cui si evincevano elementi a mio giudizio irrilevanti e che al più potevano riguardare il padre del FORESTA per vicissitudini giudiziarie non legate alla mafia. Ricordo anche che MONTANTE mi disse che un parente di AMATO o D’AMATO era stato ucciso in un agguato di mafia. …omissis…

Effettivamente il direttore di Live Sicilia era Francesco FORESTA, mentre uno degli editori, nonchè giornalista, è AMATO Giuseppe. Singolare, poi, la notoria circostanza dello stretto legame che il MONTANTE ha invece poi intessuto con il FORESTA Francesco, tanto che quest’ultimo, addirittura in punto di morte609, ha lasciato scritto una lettera in cui ringraziava sentitamente il MONTANTE per tutto quello che aveva fatto per lui. Copia di tale lettera veniva rinvenuta anche tra le carte sequestrate al MONTANTE in occasione delle perquisizioni effettuate a suo carico.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al FORESTA Francesco:  02/02/2013 ore 10,30 con Foresta a Tusa.  Francesco FORESTA è morto il 3.3.2015.

15/09/2014 ore 21/22 cena Foresta, Donata, Eliana e Chiara a Milano

16/09/2014 ore 13,30/14,30 pranzo Foresta, Donata, Eliana e Chiara a Drogheria Milanese

30/09/2014 ore 20/21 cena casa Foresta

07/10/2014 ore 12/13 Ismet da Foresta

20/10/2014 ore 21/22 cena Foresta a casa

27/10/2014 ore 20,40/21,40 app. Donata Foresta da Charme

11/11/2014 ore 14,15/15,15 app. Foresta Francesco

02/12/2014 ore 19,30/20,30 app. Foresta per compleanno Villa Sperlinga

07/12/2014 ore 16,30/17,30 da Foresta in ospedale la Maddalena via Resuttana

09/12/2014 ore 09/10 operato Foresta

09/12/2014 ore 20/21 da Foresta in ospedale La Maddalena via Resuttana

26/12/2014 ore 13,30/14,30 pranzo casa Foresta con Salvo Cincimino

20/01/2015 ore 12/13 app. Francesco Foresta e Salvo Cincimino

23/01/2015 ore 21,30/22,30 cena Foresta con Cincimino

28/01/2015 ore 20/21 andato da Foresta con Eliana

05/02/2015 ore 11/12 a casa Foresta

07/02/2015 ore 17/18 spp. Foresta

23/02/2015 ore 13/14 pranzo con Foresta

24/02/2015 ore 15/16 app. Sottile da Foresta

03/03/2015 ore 17/18 morto Francesco Foresta

05/03/2015 ore 22,50/23,50 andato lutto Francesco Foresta

06/03/2015 ore 11/12 funerale Francesco Foresta alla Villa Filippina (con video sbobinato)

Il MONTANTE aveva anche chiesto all’ODDO di scrivere, per lui, un libro che poi venne, invece, redatto dal giornalista ASTONE Filippo. Così riferiva l’ODDO sempre in data 27.11.2015: …omissis… A.D.R. Effettivamente, come mi chiede la S.V., il MONTANTE mi chiese di scrivere un libro, proposta che, però, declinai, avendo compreso quale potesse esserne l’oggetto e non essendomi io mai occupato in maniera assidua di cronaca giudiziaria. Seppi, poi, che il libro era stato redatto da Filippo ASTONE. …omissis… Sul contenuto del libro, intitolato “Senza Padrini” ed incentrato essenzialmente in un panegirico dell’attività legalitaria del MONTANTE ed anche di Confindustria siciliana, nulla si ritiene necessario aggiungere. Senza padrini: resistere alle mafie fa guadagnare Libro di Filippo Astone.  Dei buoni rapporti intercorrenti tra il MONTANTE Antonio Calogero e l’ASTONE Filippo, si ha contezza dal materiale sequestrato nell’abitazione del primo.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi all’ASTONE Filippo:

14/02/2015 ore 13,30/17,30 Astone da Savini

09/05/2015 ore 14,00 pranzo con Astone e Agnese

10/09/2015 ore 21,00 cena con Astone + Anto a Milano

In data 12.10.2016, progr. nr. 3848610 delle ore 18.46, l’ASTONE Filippo chiamava la VANCHERI Linda e parlavano della vicenda giudiziaria che riguardava il MONTANTE che il giornalista non incontrava da un po’ di tempo, avendolo appunto incontrato nei giorni in cui detta vicenda era esplosa. L’ASTONE chiedeva se ci fossero novità in merito ma la VANCHERI rispondeva che per lei era una vicenda “morta e sepolta”. L’ASTONE ragionava sul fatto che oramai i tempi erano maturi affinchè la magistratura chiedesse o un’archiviazione o rinviasse a giudizio il MONTANTE ma la VANCHERI rispondeva che preferiva non pensarci poiché si definiva “schifata” per quello che era stato fatto. Infine, dopo avere brevemente discusso dell’esperienza politica della VANCHERI in un periodo che la stessa definiva metaforicamente “l’autunno dell’autunno siciliano” anziché la “primavera siciliana” che si era preannunciata con l’avvento del nuovo governo Crocetta in Sicilia, i due riprendevano il discorso della vicenda giudiziaria del MONTANTE con specifico riferimento alla posizione del VENTURI Marco, malvista dall’ASTONE, “un disastro è stata la questione di Venturi”.

La VANCHERI incalzava sull’argomento esprimendo pesanti improperi all’indirizzo del VENTURI ed anche di tutti quei soggetti che si erano schierati contro il MONTANTE, definendoli “inutili, squalificati come categoria umana non rientrando nel mondo animale tanto meno in quello vegetale, inesistenti”.

Conversazione telefonica 3848: ...All’inizio della conversazione, parlano del nuovo libro che ASTONE Filippo ah scritto e che doveva mandare a VANCHERI Linda. A minuti 01.17 per il suo particolare contenuto la conversazione viene trascritta integralmente.

ASTONE: ..e si e si, Antonello è da una vita che non lo sento più ah.. con tutto quello che è successo!..

VANCHERI: ..mamma mia!.. ti immagini!.. eeeh, e vabbè va, mhm mhm, cioè ti riferisci a questa situazione attuale?.. questa qua della Confindustria?..

ASTONE: ..no!.. mi riferisco alle sue cose cioè!..

VANCHERI: ..aaah, vabbè..

ASTONE: ..ci siamo visti, dopo due giorni è venuta fuori quella di Venturi!..

VANCHERI: ..ah, si si si.. è vero è vero.. ah però, ma noi non ci vediamo daa, vabbè siii.. ma ma, ma io già lo so.. morta e sepolta per me quella cosa, infatti dicevo ma aspè va.. (inc).. quant’è che non ci vediamo?..

ASTONE: ..un anno!..

VANCHERI: ..aaah, ho capito!.. si si si, no vabbè ma.. (balbetta).. noi cioè siamo andati oltre, capito?..

ASTONE: ..vabbè d’altronde la vita va avanti..

VANCHERI: ..si no vabbè va, ma siamo andati anche oltre perché poi quando si superano certi livelli di max minchiate, tu vai proprio oltre, sei costretto ad andare oltre capito, per fortuna.. per fortuna comunque poi lo spirito della sopravvivenza ti porta a stare sempre.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..(inc).. l’inchiesta è un anno e mezzo che attesta senza.. (inc).. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..questo qua.. su questo io purtroppo non.. perché non avere nessun tipo di aggiornamento non, non, non avrei la ben che minima idea, ovviamente..

ASTONE: ..vabbè ma tra poco oh, o fanno un rinvio a giudizio che secondo me no ci.. o chiedono il rinvio a giudizio o archiviano!..

VANCHERI: ..eh, cioè praticamente una delle due, o uno o l’altra..

ASTONE: ..veramente chiederanno il rinvio al giudizio perché, mi sa che dopo.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. perché purtroppo anche li non che sonooo, non sono.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..(inc).. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..no, non conosco bene.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..poi magari il rinvio a giudizio non viene concesso, io mi aspetto che lo chiedano ..(inc)..

VANCHERI: ..buh!.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..eeeh.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. io di questa cosa qua, siccome sono abbastanza già, tra virgolette schifata che tutto il resto, no?..

ASTONE: ..mhm..

VANCHERI: ..quindi proprio mi sono staccata completamente, proprio come idea.. e vabbè, pazienza.. chi vivà, vedrà si dice.. (inc).. come voglio eh, Filì!..

...Dopo di ciò parlano del libro che deve arrivare a VANCHERI Linda. Poi parlano delle proprie vite a livello sentimentale. Dopo VANCHERI Linda parla della suo passato in politica e per il suo particolare contenuto la conversazione a minuti 09.13 viene trascritta integralmente.

ASTONE: ..eh ma quando eriii.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..ho fatto sempre ridere..

ASTONE: ..quando eri in politica era più diversa.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..l’importante che facevo ridere.. come?..

ASTONE: ..quando eri in politica eri più, mhm, più dura, adesso più rilassata.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..io ero più ..(inc).. pensieri, ero piùuu.. ed, io ero sempre tesa perché veramente.. perché veramente quella cosa io l’ho fatta seriamente cioè ciò messa tu tutta l’anima, tu tutta la testa..

ASTONE: ..eh, però ..(inc).. tutto perché si.. quello che doveva essere.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. tutto.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..quello che doveva essere la grande primavera siciliana, poi alla fine.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..no no no, è stato.. è stato invece l’autunno della, dell’autunno.. vabbè pazienza, iooo, cioè ho solamente, non ho rammarichi perché comunque tutto quello che ho fatto l’ho fatto con, con veramente voglia diii..

ASTONE: ..ah!..

VANCHERI: ..di lavorare e sempre comportata spero bene anche con i tutti i miei collaboratori, e ho creduto in tu.. tutto quello che ho fatto, l’ho fatto perché ci credevo.. buh, poi alla fine laa, contano le soddisfazioni personali, quelle che magari non sono neanche riconosciute daa, dalle persone più vicine però lo sai che quanto vali o non vali, cosa hai fatto e cosa non hai fatto, no?..

ASTONE: ..si ma li comunque in quel casino ha lasciato.. (balbetta).., un disastro è stata la questione di Venturi..

VANCHERI: ..ah vabbè poi questa cosa qui.. vabbè ..(balbetta).. a me fa.. purtroppo no, perché semplicemente io mi sono sentita uno stupida, cioè io non mi ero accorto di essere circondata da persone così cretine, proprio inutili!.. cioè quindi alla fine ho detto vabbè è successo..

ASTONE: ..mah io, tu sei cretina non so!.. avrà perso la testa, gli avrà dato..

VANCHERI: ..no, io inutili non li faccio perché inutili, ma proprio squalificati secondo me come categoria umana, uh, e ma non rientrando neanche nel mondo animale tanto meno in quello vegetale e quindi secondo me proprio sono inesistenti, sono come si dice in siciliano, nuddru amiscati cu nenti.. proprio il niente con nessuno, uguale vuoto, buco nero.. non esistono, io io li vedo così perché proprio non, non c’è nessunaaa, nessun altro modo e siccome tra l’altro per fortuna sono ben lontana da questi modelli..

ASTONE: ..eh..

VANCHERI: ..e per fortuna continua ad avere rapporti meravigliosi con persone meravigliose, che invece non ci vedo tanto, sono felice di essere lontana, distanze cosmiche da queste persone.. vabbè!..

ASTONE: ..beh, che tu sia lontana nessuno ne dubita, liii buh!.. è una roba ..(inc)..

VANCHERI: ..buh!.. guarda, da non crederci..

ASTONE: ..eh, la vita è ..(inc).. anche questa..

VANCHERI: ..si.. ...

Dopo di ciò parlano del libro che deve arrivare a VANCHERI Linda e del fatto che qualche volta si dovrebbero vedere a Milano.

Per quanto riguarda il GALULLO Roberto, che già aveva collaborato con l’ODDO Giuseppe in un’inchiesta giornalistica sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, si rappresenta che è un giornalista de “Il Sole 24 Ore” che cura anche il blog denominato “Guardie o ladri”; ha un rapporto molto stretto con il MONTANTE e, come risulta anche da attività tecniche, è a quest’ultimo asservito nell’informazione che attiene tutto ciò che riguarda il MONTANTE. A riscontro del rapporto MONTANTE/GALULLO, si comunica che il giornalista ha anche usufruito di vacanze pagate a Cefalù ed, inoltre, il MONTANTE ha fatto acquistare, a Unioncamere Sicilia, 500 copie del libro del GALULLO intitolato “L’Ora Legale”. Infatti, tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE, veniva rinvenuta la ricevuta fiscale, conservata da quest’ultimo, inerente il soggiorno del giornalista in Sicilia.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al GALULLO Roberto:

14/02/2015 ore 11,30/12,30 app. Galullo da Cioccolati

21/02/2015 ore 10/11 app. Galullo via Hoeple

27/02/2015 ore 18/19 Galullo Ariston piazza Carrobbio

27/03/2015 ore 09,30/10,30 app. Galullo

31/03/2015 ore 17/18 app. Galullo in Confindustria

10/04/2015 ore 15/16 app. Galullo in EICMA

16/04/2015 ore 19/20 app. Galullo EICMA memoriale

24/04/2015 ore 15,30/16,30 app. Galullo in EICMA

30/04/2015 ore 15,00 Galullo EICMA

08/05/2015 ore 15,00 app. Galullo per memoriale

14/05/2015 accettazione di Santa Vaccaro UNIONCAMERE per l'acquisto di n°500 copie libro "Ora Legale" Finanza Criminale di Roberto Galullo Il SOLE 24 Ore !.8,90 totale !.4.450

15/05/2015 ore 16,00 Galullo in EICMA

22/05/2015 ore 18,00 app. Galullo De La Ville

04/06/2015 ore 17,00 app. Galullo EICMA Milano

11/06/2015 ore 18,00 app. Galullo EICMA

19/06/2015 ore 15,00 Galullo EICMA

03/07/2015 ore 16,00 app. Galullo in EICMA

17/07/2015 ore 12,00 Galullo in MSA ed IDEM poi pranzato alla Grotta Asti, con Anto

23/07/2015 app. Galullo in EICMA

17/08/2015 ore 17,00 arriva Roberto Galullo con moglie Claudia a Cefalù, cenato al Porto alla Tavernetta. Lui ha pernottato al Cefalù Sea Palace lungomare 

18/08/2015 ore 13,30 pranzato a casa Altarello con Roberto Galullo e mogli, poi fatto giro Serradifalco e Caltanissetta, poi andati a cenare al Porto alla Tavernetta Cefalù

19/08/2015 ore 10,00 app. Roberto Galullo a Mazzaforno, lavorato, poi lui parte alle ore 13,00 per Vibo V. Calabria dove incontrerà Marcella Panucci

05/09/2015 ore 10,00 app. Galullo in MSA Asti

11/09/2015 ore 13,00 app. Galullo in EICMA poi pranzato

17/09/2015 ore 15,00 Galullo in EICMA

17/09/2015 ore 17,00 Giorgio Mulè e Roberto Galullo, poi Francesco Fiori

25/09/2015 ore 11,00 app. Galullo in EICMA

02/10/2015 ore 15,30 app. Galullo in EICMA

09/10/2015 ore 08,45 app. Galullo in EICMA 1

6/10/2015 ore 15,00 app. Galullo in EICMA 24/10/2015 ore 13,00 pranzo in MSA con Galullo

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE GALULLO (P…………)

Dalle annotazioni sopra riportate si evince, quindi, che il GALULLO ha collaborato il MONTANTE nella redazione di un memoriale che poi ha depositato in sede di riesame, dopo le perquisizioni effettuate a suo carico il 22.1.2016. Il legame esistente tra il GALULLO ed il MONTANTEemergeva anche dalle intercettazioni esperite nell’ambito del presente procedimento penale. Nella conversazione nr. 323611 delle ore 12.34 del giorno 20.2.2016, il MONTANTE raccontava, in maniera concitata, al GALULLO di un’accesa discussione avuta con il direttore de “Il Sole 24 ore”, NAPOLETANO Roberto, il giorno prima, mentre si trovavano in ospedale da SQUINZI Giorgio. Il MONTANTE aveva rinfacciato pesantemente al NAPOLETANO che aveva fatto scrivere un articolo che lo riguardava al giornalista AMADORE Nino, sempre de “Il Sole 24 ore”, “tu fai scrivere i coglioni”. Il MONTANTE specificava che lo aveva mortificato dicendogli che gli stava parlando da azionista per indurlo a fare ciò che lui voleva ed aggiungeva che il NAPOLETANO; recepito il messaggio, gli aveva detto che avrebbe potuto fare scrivere MANCINI Lionello, altro giornalista della testata in argomento, ma il MONTANTE gli aveva detto che, per le cose che lo riguardavano, doveva fare scrivere il GALULLO ed il NAPOLETANO acconsentiva.

Il GALULLO, che già aveva espresso compiacimento per il modo di fare del MONTANTE all’indirizzo del suo direttore affermando addirittura che “al momento debito” il MONTANTE poteva rivalersi contro quest’ultimo, raccontava all’interlocutore la sua versione dei fatti spiegandogli che il NAPOLETANO gli aveva rappresentato l’esigenza che lui scrivesse gli articoli riguardanti il MONTANTE, narrando in modo distorto le circostanze che lo avevano fatto determinare ad assumere questa decisione.

Il GALULLO diceva che il NAPOLETANO gli aveva detto che non voleva avere niente a che fare con il MONTANTE con il quale i rapporti si erano incrinati alla luce della vicenda giudiziaria che lo aveva colpito anche perché non poteva escludere qualunque sviluppo della vicenda; Il NAPOLETANO aveva aggiunto che lo aveva chiamato l’avv. CALECA che voleva rappresentare le determinazioni del Tribunale del Riesame di Caltanissetta avverso le perquisizioni subìte dal MONTANTE il mese precedente e, per questo, aveva invitato il GALULLO a chiamare detto legale per affrontare la questione giornalisticamente.

Il MONTANTE spiegava al GALULLO che le cose non erano andate in questo modo e che era stato lui a dire al NAPOLETANO che doveva chiamare l’avv. CALECA e gli aveva scritto il numero di telefono di quest’ultimo, di suo pugno, in un bigliettino.

Il GALULLO gli rispondeva che il NAPOLETANO gli aveva consegnato tale bigliettino e si riprometteva di ridarlo al MONTANTE alla prima occasione in cui lo avrebbe incontrato; quindi esprimeva pesanti considerazioni sul suo Direttore, non solo definendolo un “verme” ma affermando persino che non aveva alcuna deontologia professionale.

Il MONTANTE condivideva questi pesanti commenti all’indirizzo del NAPOLETANO e, galvanizzato, rimarcava come avesse umiliato il direttore del giornale dandogli “disposizioni” precise davanti a SQUINZI e a FIORI, che gli davano ragione, sottolineando che gli aveva rinfacciato anche la sua ingratitudine perché l’incarico che ricopriva lo doveva a lui, “io l’ho massacrato allora, e noi, lui era sotto, inquisito in quel momento, zitto come un verme… lui con le corna abbassate… ci dissi tu sei sempre il solito perché sei ingrato… ti ricordi quando hai fatto il direttore, ti ricordi quello che ho fatto”. Il MONTANTE continuava ancora a narrare quanto rinfacciato al NAPOLETANO che, secondo lui, doveva schierarsi incondizionatamente dalla sua parte perché “glielo doveva” e aveva anche rimarcato il fatto che il Corriere della Sera, invece, lo aveva “appoggiato”.

Il GALULLO, dal canto suo, continuava a denigrare il NAPOLETANO e raccontava al MONTANTE che, durante la presentazione del nuovo sito, aveva relegato i blog in fondo alla pagina web e aveva anche elogiato solo il giornalista GATTI nell’ambito del “giornalismo investigativo” mentre lui rischiava la vita ogni giorno per gli articoli che scriveva, concetto che anche il MONTANTE aveva espresso nel corso del dialogo.

Il GALULLO raccomandava al MONTANTE di salutargli tutta la famiglia e quest’ultimo si auspicava di incontrarlo a Milano a breve, anche con i suoi familiari che la settimana successiva lo avrebbero raggiunto nel capoluogo meneghino. Infine, dopo che il GALULLO rinnovava al MONTANTE la sua “disponibilità”, quest’ultimo gli chiedeva se avesse ancora il file relativo ad un pezzo scritto sulla MARCEGAGLIA e a cui il MONTANTE stesso aveva apportato delle modifiche; il GALULLO lo rassicurava sul fatto che lo avrebbe cercato.

Conversazione telefonica nr. 323:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: Roberto, Antonello Roberto...

GALULLO: uè ciao...adesso ti stavo ricercando...

MONTANTE: si non ti...da casa ti sto chiamando da Milano...

GALULLO: ah ho capito...

MONTANTE: tutto a posto? Tutto bene?

GALULLO: si si si si tutto bene...tutto bene...

MONTANTE: no ti volevo raccontare...poco fà non potevo parlare...allora...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: ieri sono stato da Giorgio no...da Giorgio in ospedale...poi...

GALULLO: si si...

MONTANTE: si parlava...sai stiamo lavorando sul rinnovo...Confindustria non Confindustria...Sole 24 Ore eccetera eccetera...e abbiamo parlato...è andata a finire su Roberto...mi sono incazzato nero...ho detto guarda...deve andare via...allora faccio no lo chiamiamo un attimo...e l'ha chiamato...io sono stato due ore e mezzo ed è arrivato Roberto dopo quaranta minuti è arrivato...è arrivato...vabbè sai lui è ruffiano mi ha abbracciato...a più non posso...(inc.)...io in maniera sempre a ridere gli ho sparato due bombe tom tom tom...da destra a sinistra...poi parliamo di Presidenza e Presidente...e gli ho detto guarda questo...tu fai scrivere i coglioni...gli ho detto per Amadore...gli ho detto le mie cose fai scrivere e...dico destra e sinistra...stai tranquillo che ti fidi delle persone sbagliate...e poi è uscita la discussione di questa sentenza del del...considera che erano le sei e mezza erano le sei e mezza...

GALULLO: si si...

MONTANTE: mi fa minchia e non me l'avevi detto perchè non me lo dicevi perchè non mi mandavi il messaggio...Robè...io non mando messaggi a nessuno Robè...non abbiamo fatto nè comunicati...non abbiamo fatto niente...è uscita la notizia perchè forse l'avvocato uhm...io noi non abbiamo fatto nessun comunicato...nessun comunicato nè Confindustria nè io personalmente...allora facciamo scrivere chiamo Amadore...no Amadore non voglio che scriva su mie cose...se tu tu ti assumi la responsabilità io ti parlo davanti a Giorgio...ti giuro sui miei figli...io ti parlo da azionista in questo momento...non ti parlo da associato...da azionista...e siccome sono nel comitato di presidenza io sono il tuo azionista...proprio chiaro ah...ti giuro davanti a Giò davanti a...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: davanti a...a Francesco che era arrivato Francesco e cosa...quindi e…la libertà del giornale c'è il problema…però un pò i coglioni gonfi ce li ho...ma non te li dirò ora Roberto te li dirò perchè ora...

GALULLO: al momento debito...

MONTANTE: no gli ho detto per me è un fatto di delicatezza mia riguarda una cosa mia non te ne parlo ora...saprò aspettare su quest'argomento gli ho detto...saprò aspettare...proprio così...gli ho detto e se io ti devo chiedere una cosa gli ho detto...se io devo chiedere una cosa come mi ha detto Emma e come mi ha detto Giorgio...ti giuro davanti a Giorgio che quello mi ama...tu non sei mai stato con Giorgio...quello mi ama...quello mi abbraccia mi tiene abbracciato come un figlio così no...

GALULLO: si si si si...

MONTANTE: ho detto...io chiederò una cosa chiederò il Sole 24 Ore...no perchè non voglio fare il (inc.) chiederò il Sole 24 Ore...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: però...speriamo che il Signore mi aiuti e mi aiuti...così a botta a botta...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: e allò e allora mi fa...allora mi fa la facciamo scrivere a Mancini no...facciamola scrivere a Mancini...dissi guarda...ho detto Lionello è una brava persona...gli ho detto ci sono due persone che hanno...sono brave di queste...siccome so che il pupillo è Mancini no è il suo pupillo...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: gli ho detto...due persone...a perchè lui mi hai detto...ma visto che ho fatto scrivere a Mancini su quelle cose tue no...visto che ha scritto bene...Mancini è bravo ho detto però è sempre...non entra nel merito...rimane sempre no...politico rimane sempre no…cita non cita...no…

GALULLO: si si si...

MONTANTE: io ho detto...ho parlato bene di Mancini naturalmente...ho detto sai Lionello è bravo...però sai cita non cita...è sempre...invece siccome ne hai due..hai Mancini e Galullo...Mancini è in pensione...davanti a Giorgio...e Galullo...

GALULLO: certo...

MONTANTE: e Galullo è quello che entra nel merito che rischia che prima o poi l'ammazzano...gli ho detto così...prima o poi lo fanno fuori...e lui era in silenzio...Giorgio sai questo chi è...e io ho detto...e Fiori mi appoggiava...questo è entra nel merito...questo lo fanno fuori...sul serio lo fanno fuori...sulla massoneria sulle cose...gli ho detto tutta una serie di cose...e lui fa no effettivamente bè...allora lo facciamo scrivere a Galullo...facciamo scrivere a Galullo...no a me non me nè fotte chi lo scrive...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: sappi che noi abbiamo questi personaggi...questi personaggi...che se perdiamo questi personaggi su questi temi...siamo fottuti...ora lo facciamo scrivere a Galullo...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: e io ho ripetuto...non me nè fotte che lo scrive Galullo forse non ci siamo capiti...

GALULLO: certo certo hai fatto non bene di più...hai fatto benissimo a raccontarmi sta cosa...perchè io invece te la racconto di come me l'ha raccontata lui...

MONTANTE: punto va bene?...mah...incazzato nero proprio...sono stato incazzaato nero...non vabbè...andiamo avanti...

GALULLO: adesso io ti dico quello che lui mi ha raccontato...allora alle sei e mezzo lui presenta il sito...il nuovo sito...stiamo guadagnando milioni di euro...

MONTANTE: ma lui fino alle sei e mezzo era là però ah...

GALULLO: si si...

MONTANTE: da me con me era fino alle sei e mezzo...

GALULLO: si si si alle sei e mezzo infatti ha cominciato alle sei e mezza sei e quaranta insomma è arrivato..

MONTANTE: alle sei e mezza era da me...

GALULLO: esatto...ha cominciato a presentare il sito...eccetera eccetera...ma questo qui te lo lascio perchè non ti interessa...te lo racconterò poi ma è una questione interna...

MONTANTE: ma questo non me ne frega (inc.)...

GALULLO: com'è?

MONTANTE: no sono cose che non me ne frega dico è una cosa vostra di giornale...diciamo...

GALULLO: no no no ma poi te la racconto (inc.) tutto il sito nuovo...stiamo guadagnando milioni di euro...(inc.)...esattamente...

MONTANTE: abbiamo risolto i problemi...

GALULLO: perfetto...mi chiama alle nove di sera...alle nove di sera appena finita la riunione ero lì al giornale mi fa...Roberto io ti avevo cercato in realtà per un'altra cosa non per la presentazione del sito...ma perchè sai dice...mi fa...tu sai che io ho rotto con Montante no?...gli ho detto francamente no dico...perchè a me certamente per la delicatezza dei rapporti che intercorrono tra le persone nessuno si permette di raccontarmi quello che succede tra te ed altri quindi non lo so lo apprendo in questo momento da te...dice si si si lui mi ha...lui mi evita non mi vuole parlare...io del resto lo evito non gli voglio parlare perchè lui mi ha detto...mi ha fatto sapere da terze persone...dal suo entourage...

MONTANTE: (ride)

GALULLO: no no senti...dal suo entourage che il Corriere l'ha trattato benissimo e io invece l'ho trattato malissimo ma a me non mi interessa niente...

MONTANTE: io io...io gliel'ho detto...io gliel'ho detto...

GALULLO: si si no ma io ti dico quello che lui mi ha raccontato...

MONTANTE: io gliel'ho detto io...effettivamente...

GALULLO: invece lui non mi ha assolutamente detto adesso ti continuo e ti dico...

MONTANTE: si si si...

GALULLO: e mi fa dice...io invece non ne voglio sapere...non ne voglio sapere niente perchè lui sostiene determinate tesi che lui non c'entra niente con la mafia poi alla fine verrà fuori questo...ma io l'ho ripetuto anche a Squinzi e ai vertici di Confindustria io voglio restare fuori da questa storia e non mi interessa...e mi fa dice però...mi ha telefonato...io ti dico quello che lui mi ha detto...tant'è che io sono rimasto francamente perplesso dopo che tu mi stai dicendo questa cosa...figurati come rimango...e mi fa dice mi ha telefonato l'avvocato Caleca il quale mi ha detto...dice sa c'è stato oggi questo riesame...io non sapevo niente...

MONTANTE: ti ti ti fermo...io gli ho dà...gli ho scritto su...gli ho detto mi dai il telefono dell'avvocato Caleca gliel'ho scritto su un bigliettino...

GALULLO: e ma infatti me l'ha dato...me l'ha dato...il bigliettino...

MONTANTE: no no...e gliel'ho scritto con la mia calligrafia (inc..)

GALULLO: ce l'ho ancora ce l'ho ancora...

MONTANTE: è mio...è mio il biglietto...

GALULLO: ce l'ho ancora...

MONTANTE: guarda la calligrafia che è quella mia...

GALULLO: si si si si...mi fa mi ha telefonato l'avvocato Caleca che mi ha detto dice...noi apprezziamo quello che voi state facendo....abbiamo visto che sull'argomento ha scritto Galullo e Mancini...sono due ottimi personaggi...sappiamo che tra i due si odiano...io non ho mai manifestato alcun odio di nessuno...figurati anche nei confronti dei carnefici...figurati nei confronti di una persona che sicuramente è lontano non anni luce...più degli anni luce dalla mia idea di deontologia professionale e umana è la stessa distanza che separa te dagli Arnone e da Piddu Madonia tanto per essere chiari...quindi siamo proprio a due persone...

MONTANTE: (ride)

GALULLO: dice...dice però io gli ho detto a Caleca...no non no facciamo scrivere Galullo...allora mi raccomando adesso chiami Caleca...fai questa cosa...gli dici che te l'ho detto io di chiamare Caleca ed infatti Caleca può essere buon testimone...io l'ho chiamato alle nove e venti più o meno...lui può raccontarti...

MONTANTE: io a Cale...io a Caleca...

GALULLO: esattamente (si accavallano le voci)...concludo no...

MONTANTE: no non no io...ti faccio le intercalate così almeno non riprendiamo...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: io a Caleca l'ho chiamato in sua presenza e gli ho detto...Nino ti chiameranno dal Sole punto e in sua presenza...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: poi lui ha preso il biglietto e gli ho scritto il numero con la mia penna...e gliel'ho dato...davanti a Giorgio...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: vedi guarda che è subdolo con te...

GALULLO: ma guarda guarda che è una cosa pazzesca…

MONTANTE: si vergogna si vergogna a dirti che ha preso la disposizione...siccome gli ho dato una disposizione...

GALULLO: certo...

MONTANTE: siccome gli ho dato una disposizione...e gliel'ho data da Editore...in presenza del Presidente dell'editoria in persona e quindi praticamente era morto...ha fatto tutta sta moina...ma perchè è un vi...è un pezzo di merda...

GALULLO: si...ma va figuriamoci...io infatti chiamo Caleca ed esordisco con queste testuali parole...piacere di conoscerla avvocato...la chiamo su indicazione del Direttore Roberto Napoletano che mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla decisione del Tribunale del Riesame...mi ha chiesto di farlo attraverso gli atti e sue dichiarazioni ed è quello che faccio...ed ecco lì il risultato che tu hai visto nel pezzo di oggi...che credo che sia di una chiarezza cristallina...e limpida...

MONTANTE: no è chiaro...è molto tecnico in effetti...

GALULLO: esattamente...così come mi ha chiesto il Direttore...Caleca mi ha scritto un messaggio mi ha fatto molto piacere...mi ha detto un esempio di...di limpidezza giornalistica...quindi a me questo ha fatto molto piacere...la cosa poi è che io alle undici sono andato da lui di nuovo...pezzo scritto tutto letto riga per riga mi ha detto qui cambia questo ed io l'ho cambiato...quindi praticamente lui è intervenuto dove ha voluto...e ma sciocchezze e...(inc.) questo...niente...

MONTANTE: cazzate...

GALULLO: e mi fa...dice cosa ne pensi del sito...la parte invece che ti interessa perchè te la dà lunga...sul fatto che...

MONTANTE: ah...

GALULLO: che a voi dice una cosa che a me né dice ovviamente sempre un'altra...mi fà cosa ne pensi del sito...dico no...il sito mi pare molto bello dico però trovo umiliante per la mia professione...umiliante per la mia figura che tu abbia tolto i blog...perchè lui dalla homepage li ha tolti i blog...li ha messi in fondo come se fossero quasi una cazzata gli dico perchè tu non hai idea...di quel sangue che butto sul mio blog...delle migliaia di accessi giornalieri che ho e di quanto io rischi con quello che scrivo...e di quanti giornali mi riprendono quotidianamente...

MONTANTE: gliel'ho detto davanti a Giorgio...

GALULLO: si...esatto...c'era davanti il vice Direttore Vicario De Biasi...gli ho fatto fate il cazzo che volete...perchè Napoletano che con me non si permette di dire nè B nè DA...perchè io lo mado a stendere in un nano secondo perchè io ho una sola faccia da difendere di fronte ai miei figli...gli ho detto dico...Direttore e il Vice Direttore mi fà dice...Roberto dice...hai fatto bene a dire queste cose...Napoletano fà no hai fatto benissimo...guarda caro Direttore io dico sempre quello che penso...è un'umiliazione per chi come me...mette quello che mette...

MONTANTE: aspetta aspetta aspetta...aspetta un attimo...scusa un attimo...aspè che rispondo a Marcella...(Montante parla con Marcella con un altro cellulare)...

GALULLO: come no...

MONTANTE: scusa eh...pronto...

GALULLO: figurati...questo ecco...questo quindi per dirti è il personaggio...ma ti rendi conto...

MONTANTE: si si...si si...e...allora ad un certo punto...quando io ho attaccato lui te lo giuro...seria...tu conosci mio nipote no...Antonio...

GALULLO: certo...

MONTANTE: ti sto giurando sulla testa di mio nipote che io mi ammazzerei per mio nipote e per i miei figli...non ti cambio una virgola...io l'ho massacrato allora...e noi lui era sotto...inquisito in quel momento...zitto come un verme...(inc.)...come un verme...ti giuro sai come un verme...non mi alza la parola...io a capo...capo significa nella qualità di Editore...con Giorgio sul letto...ho fatto la foto...ti faccio vedere la foto...ho fatto la foto per fartela vedere...lui con le corna abbassate...praticamente e gli (inc.)...ma che dici Antò io ti ho fatto uscire il libro...la copia della storia te l'ho fatta uscire io...chi dici io così...ci dissi tu sei sempre il solito perchè sei ingrato...tu lo sai dava...te lo dico davanti...ti ricordi quando hai fatto il Direttore...ti ricordi quello che ho fatto...nella vita bisogna avere i coglioni così...bisogna avere i coglioni...capito!

GALULLO: eh figurati...hai parlato con la persona giusta hai parlato...-

MONTANTE: bisogna avere i coglioni...Fiori mi appoggiava in pieno...bisogna avere i coglioni...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: quindi caro caro...tu...il Corriere della Sera a me mi ha appoggiato...sempre...

GALULLO: certo...

MONTANTE: fin dal primo momento...e ti dico una cosa che continua a chiamarmi fino all'altro giorno per l'intervista...e lui fa ma noi la possiamo fare noi l'intervista...io non ho...io ho deciso di no...l'hai vista...ho parlato o non ho parlato...io io potevo anche obbligare in quanto su una posizione di correttezza...e di amicizia...

GALULLO: chiaro chiaro...chiaro chiaro chiaro...

MONTANTE: chiaro...meno...io sfuggo...giornali nazionali...settimanali...io non parlo...perchè strategicamente ho deciso di non parlare...chiaro...

GALULLO: certo!

MONTANTE: dico e...e infatti poi fa...fa cioè...al massimo ora siccome ora dopo questa cosa io io semmai faccio intervistare l'avvocato...

GALULLO: certo...certo...

MONTANTE: allora lui come un ruffiano...come un ruffiano...sempre sotto il giuramento di mia figlia e di mio nipote...come un ruffiano fa no...facciamo il pezzo facciamo chiamare questo il tuo...come si chiama questo avvocato...gli ho de...Caleca si chiama...e mi dai il numero...scrivimi qua...e gliel'ho scritto con la mia penna...scrivimi il numero gli ho dato il numero...e lo facciamo scrivere a Amadore...no Amadore non lo facciamo scrivere perchè tu a Amadore gli hai detto delle cose dici gli hai detto delle cose...e non ti posso dire quello che gli hai detto va bene...punto...allora fà...ma Mancini lo hai visto che l'ho fatto scrivere a Mancini...si Mancini è bravo Lionello bravissimo...però sappi che Mancini è molto politico rimane no...qua ci vuole uno che dice le cose come stanno...che si legge le carte eccetera eccetera...e sono andato a finire a te...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: (inc.)

GALULLO: e lui in tutto questo non ha fatto...non solo...

MONTANTE: siamo rimasti dopo questo pezzo (inc.)...li facciamo fare un'intervista a Caleca...chiaro....ora per dirti e tanto lo dico io...è un verme veramente gliel'ho detto...tanto gliel'ho detto davanti....

GALULLO: si lo so lo so...(inc.)

MONTANTE: perchè lui replicano...non ha replicato perchè non pote...non può replicare...quindi…

GALULLO: ma lui assorbe tutto e non gliene frega un cazzo...

MONTANTE: ti posso dire una cosa...bravo hai detto bene ass...è una s...è un muro di gomma...è una spugna...che io...posso dirti...con il dieci per cento di quello che gli ho detto ieri il dieci per certo di quello che gli ho detto lui doveva alzarsi e andarsene dalla stanza...in maniera violenta e se ne doveva andare...

GALULLO: il dieci per cento...ma io mi sentirei mi butterei dal ponte...per l'un per mille non per l'un per cento... MONTANTE: quando io gli ho detto ti ho fatto assumere di ho fatto...lui doveva dire Giorgio mi dispiace mi sento offeso da Antonello me ne vado...io io...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: se era uomo...quindi ho capito che è un verme e peg...e sono pericolosi...che quello che si offende e se ne va non è pericoloso...quello che...lui è pericoloso è verme...c'è poco da fare...

GALULLO: ma infatti è così...tu pensa che poi...quando lui ha presentato il sito aveva già parlato con te aveva già parlato dei rischi che io corro...

MONTANTE: eee...a voglia...

GALULLO: e tu pensa che durante la presentazione del sito...ha fatto un solo nome di giornalismo investigativo...un solo nome che io mi sono sentito guarda...

MONTANTE: chi è chi è...

GALULLO: ho detto dico...te lo dico come un fratello sai che non parlo con nessun parlo solo con te...ho detto io me ne devo andare ma...ma subito da questo giornale appena trovo l'occasione...fa dice perchè qui abbiamo delle firme del giornalismo investigativo come Gatti...

MONTANTE: aspetta…anche a me l'ha detto...anche a me l'ha detto...

GALULLO: un tripudio di Gatti...ho detto ma guarda sto testa di cazzo...assurdo...

MONTANTE: ma posso dirti una cosa anche a me l'ha detto...davanti a Giò...ora sto andando in America...lui parte per gli Stati Uniti va a vedere eh...

GALULLO: va a presentare alla British Community...il sito…

MONTANTE: che incontra per la prima volta che sta andando in questo uff...che sta andando in questo ufficio...e incontra pure Gatti...lo sai cosa gli ho detto io...davanti a Giorgio...perchè lui ha parlato male...è bravo Gatti ma è uno al tuo servizio totalmente al tuo servizio...per dire...quello che scrive Gatti è su comando tuo...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: gliel'ho detto chiaro...

GALULLO: certo...

MONTANTE: quindi...e gliel'ho detto è al tuo servizio...ma gliel'ho detto in maniera pesante...siccome lui tramite Gatti ha fatto litigare i grandi inserzionisti i grandi i grandi no...

GALULLO: si si...

MONTANTE: azionisti di Confindustria....io gli ho detto davanti a Giorgio...certo perchè tu...quello lavora al tuo comando è al tuo comando...

GALULLO: certo invece lui l'ha presentato non potete capire il tripudio...che ha nella Community internazionale Gatti è un esempio rarissimo di giornalismo investigativo...io gli volevo dire ma brutto stronzo ma vatti a leggere quello che scrivo io è quello giornalismo investigativo è quello rischiare la pelle non andare a leccare il culo come fa su comando come killer...

MONTANTE: aspè che rispondo a Chiara...(Montante parla al telefono con la figlia con un altro cellulare)...scusami ah...

GALULLO: no ma figurati...scherzi...salutami tutta la famiglia non appena hai occasione Chiara Alessandra salutami tutti...

MONTANTE: la prossima settimana a Milano viene...vediamo di incrociarci...viene Antonella viene Alessandra da Londra pure...e il nipotino (inc.)...arrivano tutti la prossima settimana...

GALULLO: comunque questo qui ti dà proprio l'idea di che personaggio guarda...

MONTANTE: ti ho detto...ti ho fatto il quadro...di quello che è successo ieri...guarda che non ha avuto il coraggio e la serietà di dirti...

GALULLO: no non no...lui (inc.) ma totalmente zero...

MONTANTE: perchè perchè doveva giustificarsi in mezzo alla scorsa volta che ha preso una disposizione e siccome è un verme...siccome ha preso come dipendente e Direttore una disposizione dall'Editore...su una notizia vera no su una marchetta...

GALULLO: è chiaro...è chiaro...

MONTANTE: attenzione no su una marchetta...perchè non l'avrei fatto io...perchè lui non gliela chiedo come marchetta...e tu lo sai come sono io...

GALULLO: certo...

MONTANTE: sono una persona seria non ne chiedo marchette alle persone...

GALULLO: certo ma io infatti io la stessa cosa ho detto a Caleca mi ha fatto veramente piacere ho detto dico...perchè lui mi fa dice...so la serietà che la contraddistingue...io gli ho detto avvocato io sono qui per scrivere quello che è successo una cronaca inappuntabile di quello che è successo...quindi ma lui ma la cosa bella che (inc.)...mi ha chiamato Caleca...ma tu ti rendi conto...

MONTANTE: ma ce l'hai il bigliettino? (Si accavallano le voci)...

GALULLO: quando ci incontriamo te lo dò...

MONTANTE: no guarda la calligrafia...guarda la calligrafia...

GALULLO: ce l’ho sotto in una giacca a proposito di quando ci incontriamo...ricordati che quando vuoi basta che suoni il citofono...

MONTANTE: si tesoro mio lo so...

GALULLO: (ride)...

MONTANTE: ti volevo dire ricordati quella nota...la nota di Emma che l'ho persa...la mia copia l'ho persa...

GALULLO: si si si per trovarla...

MONTANTE: no ma lo sai che io te lo ridata no...quella modificata...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: vedi se trovi questa che l'ho strappata buttana da miseria...

GALULLO: e quella lì non lo so...

MONTANTE: se non la trovi va bene quella vecchia...con il pennino vecchio quella tua...

GALULLO: va bene va bene...

MONTANTE: da quello tuo io ho fatto una piccola modifica e poi ti ho dato le modifiche...ti ricordi no...

GALULLO: si me le hai date cartacee non so se ce l’ho ancora...

MONTANTE: no se non ce l’hai va bene la tua vecchia...che me la ricostruire...(inc.)

GALULLO: va bene va bene...va bene...

MONTANTE: la minuta...va bene...senti...saluta a tutti ah...

GALULLO: d'accordo d'accordo...o mi raccomando se oggi o domani ci sei passa…

MONTANTE: si...(inc.)

GALULLO: qualunque cosa...se vuoi parlare sfogarti...mi trovi sempre...

MONTANTE: no ti ho raccontato questa cosa che era simpatica...quando la gente veramente non ci sono parole per...(inc.)

GALULLO: Antonè o le palle si hanno o si è persone oneste con le palle oppure si è disonesti senza palle...

MONTANTE: bravo…bravo...

GALULLO: punto...questa è gente che prima o poi dovrà guardarsi allo specchio ma lo farà davanti al cospetto di Nostro Signore purtroppo...(inc.)...

MONTANTE: bravo al cospetto di Dio questa è la cosa più...

GALULLO: esatto...

MONTANTE: questa è la cosa più...

GALULLO: esatto…esatto...un abbraccione salutami tutti...

MONTANTE: un abbraccio a te ciao…ciao...

Nella conversazione nr. 704612 delle ore 19.49 del 9.6.2016, il MONTANTE dava precise indicazioni al GALULLO Roberto di cosa scrivere in un articolo di cui gli avrebbe fatto avere anche il materiale necessario da cui attingere le informazioni; gli diceva espressamente di non parlare di LO BELLO né di ciò che aveva detto BOCCIA ma di enfatizzare l’attività di SQUINZI. IL GALULLO non batteva ciglio e ripeteva ciò che avrebbe dovuto scrivere, ricalcando gli “ordini” del MONTANTE. Poiché il GALULLO non sentiva bene, il MONTANTE si riservava di richiamarlo utilizzando altro apparecchio telefonico, dicendogli, falsamente, che lo stava chiamando con un cordless da casa.

Conversazione telefonica nr. 704:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: Galullo!

GALULLO: eh Antonellone…

MONTANTE: Robertone…come stai? Tutto bene…?

GALULLO: tutto bene e tu?…

MONTANTE: bene sono a Roma…e tutto bene…anzi bellissimo…non ce l’ho fatta stasera a venire a Ro…a Milano…parto domani mattina…presto…quindi se tu domani…ci ci ci vogliamo vedere domani…stiamo un po’…

GALULLO: si si si…dimmi tu a che ora ci vediamo…

MONTANTE: si avevo…aspetta un attimo…domani è venerdì…(inc.) ho prenotato…per me se puoi possiamo fare anche a pranzo…e domani non c’è Squinzi perché domani Squinzi…

GALULLO: ho capito…

MONTANTE: (inc)…io la vedo sabato alle dieci e trenta…va bene…

GALULLO: ah okay okay…

MONTANTE: fatti inviare il documento che o la cosa (inc.) politica…di ordine politico di opportunità non di merito è perfetto…non c’è nulla da…è spettacolare…(inc.) è spettacolare…

GALULLO: okay…

MONTANTE: però sono cose di (inc.) te lo anticipo…così almeno se hai tempo…per esempio…la voce Lo Bello falla sparire…

GALULLO: chi scusami?…

MONTANTE: la voce Lo Bello falla sparire…

GALULLO: Lo Bello?…ah okay okay okay…

MONTANTE: (inc.) tutto quello che ha detto Boccia fallo sparire pure nel senso parla (inc.)…

GALULLO: però ti sento malissimo Antonello…ti sento malissimo…

MONTANTE: ti sto chiamando dal telefono fisso di casa di Roma…ti volevo dire…

GALULLO: quindi…devo fare…tolgo…

MONTANTE: con un cordless…sono con un cordless ah…

GALULLO: quindi tolgo Lo Bello e poi un’altra cosa ma non ho capito cosa mi hai detto…

MONTANTE: Squinzi…enfatizza Squinzi…no nell’attività di Squinzi…

GALULLO: non ti sento Antonello non sento nulla guarda…non sento niente…

MONTANTE: mi senti mi senti…mi senti…

GALULLO: male malissimo…

MONTANTE: aspetto che ti chiamo…poso il cordless e ti chiamo dal telefono fisso aspetta un attimo…

GALULLO: okay okay okay okay…

Nella successiva conversazione nr. 706613 delle ore 19.52 del 9.6.2016, il MONTANTE ripeteva al GALULLO come doveva impostare l’articolo, la cui bozza gli aveva già inviato, ed il GALULLO lo assecondava, dicendogli che avrebbe provveduto nei termini da lui voluti. Il MONTANTE gli dava indicazioni precise sul fatto che non doveva parlare di LO BELLO, che doveva enfatizzare anche l’attività della MARCEGAGLIA e puntare il focus su una continuità in Confindustria, dando però risalto a SQUINZI, che era il Presidente uscente, e non a BOCCIA né doveva riportare quanto detto da quest’ultimo. Il MONTANTE diceva espressamente che lo SQUINZI non voleva che si diffondesse la notizia nei termini che il successore potesse essere migliore di lui e, perciò, diceva al GALULLO di cancellare tutto ciò che dava adito a tale impressione dalla lettura dell’articolo. Il GALULLO rispondeva che avrebbe provveduto, con un imbarazzante “si, si, si, si, si …. va bene, va bene, va bene”, aggiungendo che quello che diceva il MONTANTE era “correttissimo” e che ancora si trattava di una bozza passibile di ogni cambiamento, sebbene, nel complesso, il MONTANTE avesse gradito lo scritto. Il MONTANTE aggiungeva che, a lavoro ultimato, avrebbero fatto leggere l’articolo anche a SQUINZI e, alla fine del dialogo, si raccomandava con il GALULLO che tutto sarebbe dovuto essere come deciso.

Conversazione telefonica nr. 706:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: ero con un cordless quindi...

GALULLO: ah ecco adesso ti sento bene...

MONTANTE: si...allora ti volevo dire...

GALULLO: quindi Lo Bello lo tolgo tutto quanto ok...

MONTANTE: allora (inc.) perchè...perchè loro ce l'hanno sulle palle...

GALULLO: e certo e certo...

MONTANTE: allora...invece il disco...enfatizza l'attvità...oltre quella della Marcegaglia la continuità...

GALULLO: giusto...giusto...

 MONTANTE: e l'attività di Squinzi...quindi Squinzi Squinzi Squinzi...Squinzi...sulla parte l'ultima di Boccia non la...se la citi la citi come...no come l'ha detto Boccia...perchè tu devi immedesimarti di un Presidente che esce no?...Qual'è (inc.)...

GALULLO: ok...ok...ok...

MONTANTE: di qualsiasi Presidente...che sia Emma che sia Squinzi...cosa vuole...

GALULLO: certo... MONTANTE: vuole che si lasci la faccia più importante...e che quello che viene comunque non sia più bravo di lui questo è il concetto no...(inc.) GALULLO: certo certo certo certo...

MONTANTE: quindi cancella tutto...come se quello di Boccia fosse del Sole 24 Ore...non lo so come se fosse...no...

GALULLO: si si si si si...va bene va bene va bene...

MONTANTE: senza modifica ah...proprio...oppure ne parli astrattamente non come ha detto Boccia non lo dire...capito perchè...

GALULLO: va bene, va bene...

MONTANTE: (inc.) la cosa più brutta...per un Presidente che...è in uscita...è non vedere più la sua faccia e vedere di quello prima e di quello dopo...

GALULLO: è giusto...è giusto...

MONTANTE: ti trasferisco un messaggio che...conosco il mio mondo capito...che conosco molto bene...

GALULLO: certo...è corretto...è correttissimo quello che mi dici...

MONTANTE: e questo non te lo fatto spedire no perchè...

GALULLO: no no..no ma io infatti...(inc.)...

MONTANTE: non era la fine del mondo...però conoscendo i tipi...i tipi...

GALULLO: e certo e certo...certo...

MONTANTE: uhm...

GALULLO: allora a questo punto io domani poi quando ci vediamo...

MONTANTE: il contenu...il contenuto non deve cambiare capito, deve...

GALULLO: si si...

MONTANTE: deve essere tolta qualche parola...non lo devi cambiare il contenuto...

GALULLO: si...ma ti è piaciuto ti piace come cosa?

MONTANTE: è spettacolare...è spetta...

GALULLO: certo...

MONTANTE: poi lavoriamo su questo lavoro spettacolare...

GALULLO: esatto questa è una bozza...

MONTANTE: era era solo per l'opportunità politica di non fare danni diplomatici...capito?

GALULLO: giusto...giusto giusto...senti io domani ne porto quattro copie a questo punto...poi porto anche...e lo metto su internet...

MONTANTE: poi glielo mandi tu...no no...

GALULLO: certo...

MONTANTE: poi glielo mandi...

GALULLO: certo...

MONTANTE: lui mi la lascia una copia...mi lascia una copia domani per noi...

GALULLO: esatto poi io glielo mando per poste elettronica...

MONTANTE: poi glielo mandi via email si...

GALULLO: si...

MONTANTE: poi ci vediamo a metà settimana...e ne parliamo hai capito...quindi...la prossima settimana bene...ho già...

GALULLO: quindi domani non vediamo Fiori comunque e...

MONTANTE: no no perchè Fiori...è con è con...(inc.) a Roma...

GALULLO: ok ok...

MONTANTE: a Roma...(inc.) io torno domani sera e incontro Squinzi e Squinzi alle dieci e mezza è da lui...va bene?

GALULLO: quindi praticamente glielo dai tu dopo a Squnzi?

MONTANTE: a Squinzi tu...se lo mandi a Fiori...Fiori ce l'ha subito da Squinzi è uguale no...è la stessa cosa...

GALULLO: a quindi io lo mando...vabbè faccio una cosa domani me lo porto su chiavetta e poi lo mando domani insomma...non è un problema...

MONTANTE: lo mandi domani...Squinzi glielo girà a Fiori e poi la prossima settimana incontriamo tutti e due...va bene?

GALULLO: si...io la prossima settimana però...Antonello...sono da mercoledì a sabato a Roma...

MONTANTE: e va bene...magari ci vediamo a Roma...(inc.)...

GALULLO: oppure oppure ci vediamo quella ancora dopo insomma tanto voglio dire...cambia poco nel senso che in ogni caso l'importante e che loro abbiano il progetto...

MONTANTE: perfetto...bravo...bravo...ecco va bene...

GALULLO: benissimo...alllora domani a che ora ci vediamo?

MONTANTE: io domani se tu sei d'accordo...sarei ad ora di pranzo...

GALULLO: mi dici tu all'una...dimmi tu a che ora...

MONTANTE: oppure possiamo fare...anche all...stavo guardando poco fà che mi sono distratto...allora domani è venerdì...secondo me io farei domani...alle dodici e mezzo così...poi continuiamo se tu sei libero...

GALULLO: si si si dodici e mezzo...va bene...allora ti raggiungo io domani alle dodici e mezzo...

MONTANTE: va bene ok ci vediamo lì alle dodici e mezzo...ok va bene...

GALULLO: d'accordo un abbraccione...ciao buana serata...

MONTANTE: ciao ciao ciao, Robertone mi raccomando eh… GALULLO: ciao ciao…

Anche alla luce del contenuto delle sopra richiamate intercettazioni, si commenta da solo l’articolo che il GALULLO scrive, sul suo blog, qualche giorno dopo la pubblicazione sul quotidiano “La Repubblica” della notizia delle indagini a carico del MONTANTE (articolo del 9.2.2015). L’articolo del GALULLO, datato 13 febbraio 2015, si intitola “Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti” e, rimandando alla lettura integrale dell’articolo che si allega, pare comunque opportuno evidenziare che il giornalista utilizza toni offensivi nei confronti di “ambienti investigativi e giudiziari”.

Tra il materiale sequestrato al MONTANTE veniva rinvenuta altra documentazione che cristallizza i favori resi dall’imprenditore nisseno ad altri giornalisti, ossia CAVALLARO Felice, inviato del Corriere della Sera, e MORGANTE Vincenzo, giornalista RAI. Il CAVALLARO veniva sostenuto dal MONTANTE per la sua candidatura a sindaco di Racalmuto dopo lo scioglimento del consiglio comunale di quel centro per infiltrazione mafiosa con l’allora sindaco PETROTTO (soggetto che si ricorda essere stato tra quelli oggetto di interrogazione SDI da parte del GRACEFFA Salvatore).

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al CAVALLARO Felice:

13/01/2011 da Mimì La Cavera con Felice Cavallaro

19/06/2012 ore 14,00 app. Felice Cavallaro con Vice Prefetto oggi Pref. AG in aeroporto

21/12/2012 ore 17,30 app. Felice Cavallaro e Luigi La Rosa in Sicindustria

22/03/2013 ore 16,10 Luigi La Rosa e Felicae Cavallaro in Confindustria Sicilia

17/04/2013 ore 13,30 app. F.Cavallaro per Cutuli

07/05/2013 cena con Adriana Manganelli dopo la presentazione del libro di Antonio con Questore Zito, Morvillo e Cavallaro alla Cuccagna

21/10/2014 ore 09/10 app. Felice Cavallaro e sindaco di Racalmuto a Villa Igiea

09/02/2015 ore 18/19 app. Felice Cavallaro e Lo Bello Altarello

25/06/2015 ore 13,00 pranzo Bernini con Felice Cavallaro + Eliana + Lo Storto e Patrizia Ferrante

Il MORGANTE chiedeva espressamente al MONTANTE una segnalazione per l’incarico di vicedirettore del TGR Sicilia.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MORGANTE Vincenzo:

30/01/2008 V. MORGANTE MU-037 KALOS UOMO

16/07/2008 Morgante intervista Emma sulla delega alla legalità

16/07/2008 cena da Saltamacchia con Morgante a Fregene

14/04/2009 pranzo Morgante Vincenzo al Piccolo Napoli

24/07/2012 ore 10,00 Min. Cancellieri e suo gruppo con Morgante a casa Altarello granite poi andati a Racalmuto

28/12/2012 ore 13,30 con Pitruzzella e Morgante da Charme

23/07/2013 app. Morgante e Prof.ssa in Confindustria Sicilia

15/08/2013 Scillia e Morgante a pranzo alla Taverna Presidiana, viene Ferruccio De Bortoli

08/10/2013 ore 21/22 cenato con Morgante e Coccia al Bernini

09/10/2013 ore 08,45/09,45 colazione Pitruzzella, Morgante e Lo Bello al Bernini

30/01/2014 ore 15/16 app. Alfano, Morgante, Blasco e Panucci

06/03/2014 ore 21/22 cena con Morgante, Cirillo e Agnese da Tullio

11/06/2014 ore 21,15/22,15 cena Vincenzo Morgante al Bernini

11/11/2014 Dott. Marino Nicolò rilascia intervista su La Sicilia "la volta che fui convocato da Lumia e Confindustria Sicilia, io e Lari eravamo a CL e sappiamo chi è Montante….. - Il 23/12/2014 Morgante e Lo Bello presentano querela contro Marino per diffamazione aggravata a mezzo stampa

18/12/2014 ore 21/22 cena Bevilacqua, Pitruzzella, Sottile e Morgante

03/01/2015 ore 22/23 cena a casa di Morgante Vincenzo, con Pignatone Giuseppe, Pitruzzella e Lo Bello

28/01/2015 ore 21,30/22,30 cena Morgante, De Felice e Lo Bello al Bernini

19/02/2015 ore 08,30/0,30 Pitruzzella e Morgante al Bernini

26/03/2015 ore 21/22 cena con Vincenzo Morgante, Chiara Mancini e Chiara al Yokoama

13/05/2015 ore 21,00 cena Lo Bello + Catanzaro, poi Fiori + Morgante al Majestic

14/08/2015 ore 20,30 Morgante Vincenzo + moglie Barbera e figlio Giuseppe portato regalo Antonio Junior poi cenato al porto alla Tavernetta

21/08/2015 ore 10,00 funerali papà di Morgante Vincenzo (non andato) fatto telegramma + cuscino Unioncamere e cesto Sicindustria

24/08/2015 ore 09,00 a casa di Vincenzo Morgante a Palermo per visita della perdita del papà Giuseppe

16/09/2015 ore 21,00 cena con Lucia Borsellino da Tullio poi ci ha raggiunto Linda, Vincenzo Morgante che non la conosceva e Francesco Fiori. Verso le ore 23,00 ho incontrato Giorgio Squinzi e la moglie Adriana

Tra il materiale sequestrato altre cose riguardanti alcuni giornalisti si rinvengono negli appunti contenuti nel file excel di seguito riportati:

18/10/2011 De Cristofaro Enrico mi invia e-mail dall'indirizzo: e.decristofaro@lasicilia.it alle ore 12,42 dove un certo Pilotta scrive alla redazione La Sicilia, per pubblicare un pezzo contro di me, Lo Bello e Agnello, lui mi comunica che non lo pubblica

12/07/2010 nomina addetto stampa del Presidente CCIAA CL Lucilla Rovetto del 09/12/1970 di Caltagirone moglie di Enrico De Cristofaro (La Sicilia) Delibera di Giunta n.73 del 12/07/2010 voto all'unanimità !. 10.000,00 annui oltre iva.

ALTRO CHE STATO-MAFIA. MAFIA-APPALTI. QUELL'INCHIESTA NON S'HA DA FARE.

Mafia & appalti, una verità scomoda. Cosa c'è dietro e cosa c'è stato dopo l'inchiesta condotta dai Ros, scrive Luciano Tirinnanzi il 12 luglio 2013 su "Panorama". Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS. Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico - stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere - si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico. In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: “la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti”. Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come “Mani Pulite” nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.

- Falcone e l’importanza di depositare “Mafia e Appalti”. Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: “la mafia è entrata in borsa” disse due mesi prima di saltare in aria. Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: “Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché - su esplicita richiesta - rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino. - Borsellino e le confidenze a Ingroia. Borsellino, il 25 giugno del ‘92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie. Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano “preoccupati delle indagini sugli appalti”.

- L’archiviazione di “Mafia e Appalti”. Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto. Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.

- Vito Ciancimino e la trattativa. Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche”, Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari. Ma non il famigerato “papello”, bensì il libro “Le Mafie” redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente - ma senza esito - di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante. Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro “Le Mafie” che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti. Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Piero Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.

- Conclusioni. I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafia-politica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni. Davvero, nel 2013, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?

La Trattativa secondo Di Pietro. Un lapsus dell'ex magistrato e il dossier “mafia-appalti” archiviato subito dopo la morte di Borsellino, scrive Massimo Bordin l'1 Maggio 2018 su “Il Foglio”. Dopo Violante, Antonio Di Pietro dice la sua sul processo trattativa, con pieno diritto visto che, con i suoi interventi in Commissione antimafia, a suo tempo ne fu uno degli artefici. Naturalmente Di Pietro proclama in prima battuta la sua solidale consonanza coi pm palermitani, poi parla di un suo colloquio con Paolo Borsellino poco prima della strage di via D’Amelio in cui Borsellino ipotizza un raccordo fra le indagini palermitane e quelle milanesi. Emerge una verità possibile, diversa dalla tesi accusatoria. Borsellino, poco prima di essere ucciso, non si occupava della famosa trattativa ma del più corposo dossier “mafia-appalti” preparato dal Ros di Mori. Singolare un apparente lapsus di Di Pietro, quando, a proposito delle stragi e di quelle indagini sugli appalti ha detto: “Hanno fermato le indagini e armato pistole”. Che c’entrano le pistole con Borsellino? Ben altro fu usato in via D’Amelio, ma l’ex pm sa bene di che parla. Parla di Raul Gardini, che un anno dopo via D’Amelio fu ucciso da un colpo di pistola che molti dubitano sia partito dalla sua mano. Parla dell’indagine mafia-appalti che svelò intrecci fra la Ferruzzi e la “calcestruzzi Palermo spa”. “Hanno fermato le indagini” dice l’ex pm e aggiunge che “chi lo ha fatto va individuato”. E’ facile, non ci vuole Sherlock Holmes. Due giorni dopo la morte di Borsellino, la procura di Palermo chiese di archiviare l’indagine. Nasce da lì la polemica fra procura e Ros, sfociata nei processi a Mori e poi in quello sulla trattativa, nel quale la difesa di Mori aveva chiesto che Di Pietro venisse citato come teste. La corte ha rifiutato di sentirlo.

La svolta di Gratteri: «Basta giornalisti innamorati dei pm Abbiamo bisogno di fatti e verità». Il magistrato calabrese scopre la stampa indipendente, scrive Davide Varì il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I giornalisti non devono fare i piacioni, né tantomeno innamorarsi dei magistrati: abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino con coraggio la verità, i fatti. In quanto a noi magistrati, vogliamo essere valutati e giudicati per quel che facciamo». Parole e musica di Nicola Gratteri. Quel Nicola Gratteri: il magistrato simbolo dell’antimafia; lo stesso Gratteri che avrebbe dovuto prendere la poltrona di guardasigilli e che, di fronte al gran rifiuto dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, si scagliò contro i poteri forti del Palazzo, evidentemente impauriti dalla forza “eversiva” e “antisistema” del magistrato calabrese: «Io sono troppo indipendente e il potere vero vuole che ci sia sempre qualcuno sopra di te, che garantisca per te». Lo stesso Gratteri che non disdegna chiacchierate televisive, un tantino celebrative, con Fabio Fazio e Riccardo Iacona; né premi in giro per il belpaese. Premi meritatissimi, s’intende. Insomma, quel Gratteri lì oggi ci fa sapere che il giornalismo che copia e incolla le ordinanze dei magistrati e cha passa ore nelle di loro sale d’attesa non va (più) bene. E del resto che i giornalisti dovessero fare da “cane da guardia del potere”, di tutti i poteri, magistratura inclusa, era un dubbio che in questi anni aveva attraversato qualche temerario. Ma c’è di più, Il procuratore Gratteri ha criticato anche un altro cavallo di battaglia dell’antimafia militante: il sistema dello scioglimento dei comuni. «I Comuni – ha infatti dichiarato Gratteri – vengono sciolti per mafia nel 99% dei casi quando la procura, a conclusione delle indagini, invia gli atti alla prefettura e quindi, dopo l’istruttoria, si procede e viene nominato un ufficiale prefettizio. Il problema, in alcuni casi, è che il commissario si reca in Comune poche volte a settimana. Quindi sostanzialmente l’amministrazione viene congelata per due anni. La popolazione mediamente pensa che era meglio quando c’era il sindaco, che riuscita almeno a dare risposte» E dunque: «Occorre modificare la norma, il Commissario prefettizio deve stare al Comune sciolto per mafia sette giorni su sette», ha aggiunto Gratteri.

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Qualcuno dovrà rispondere, scrive Piero Sansonetti il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". A scartabellare le carte, e le vecchie sentenze, appare sempre più surreale lo scenario disegnato dal processo di Palermo. Certo, bisognerà aspettare le motivazioni. Però qualcosa, intanto, la si può dire. E la prima cosa che si può dire è che l’ipotesi dell’accusa – e di alcuni giornali – secondo la quale Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva opporsi alla trattativa stato- mafia, appare sempre più fantasiosa. Mentre, purtroppo, non appare per niente fantasiosa l’ipotesi che Paolo Borsellino fu ucciso perché voleva portare avanti le indagini avviate dai Ros di Mori, De Donno e Subranni su mafia e appalti. E se questa ipotesi viene confermata, cambia tutto nella ricostruzione di quello che successe in quegli anni e del ruolo avuto dai vari apparati dello Stato. Perché il processo di Palermo si fonda sull’ipotesi che si fronteggiarono una magistratura “limpida” ed “efficiente” e pezzi dei carabinieri e forse dei servizi segreti che invece erano coinvolti in oscure trattative con la mafia. L’ipotesi invece che emergerebbe dai fatti come li ricostruisce nell’articolo che pubblichiamo in prima pagina (e a pagina 3) Damiano Aliprandi, è opposta. Dice che i Ros erano arrivati a un passo dallo sgominare un gigantesco giro di potere che coinvolgeva mafia, imprenditoria, e politica, e che furono fermati per la negligenza della magistratura. I Ros, lavorando con Falcone, avevano raccolto indizi e prove molto pesanti, e se l’inchiesta fosse andata avanti avrebbe fatto saltare un bel pezzo del sistema di potere mafioso. Paolo Borsellino era ben deciso ad impegnarsi lui in questa inchiesta e stava solo aspettando la delega che doveva venirgli dalla Procura. La Procura di Palermo, e in particolare i sostituti Lo Forte e Scarpinato, invece, sottovalutarono clamorosamente la forza di questa inchiesta dei Ros, proseguita e sostenuta da Flacone, e la affossarono. Oggi Roberto Scarpinato è procuratore generale di Palermo. E’ un magistrato colto, molto preparato, dalle idee forti. Sicuramente è una persona onesta. Ma è giusto chiedere a lui e al suo collega: perché quella inchiesta fu affossata proprio pochissimi giorni prima dell’uccisione di Borsellino, visto che, oltretutto, si sapeva che lo stesso Borsellino era interessato a quella inchiesta e avrebbe voluto occuparsene personalmente? Naturalmente nessuno sa il perché. Si può solo supporlo: per scarsa esperienza. (Così come probabilmente per scarsa esperienza Di Matteo e gli altri Pm che si occuparono dell’inchiesta sull’uccisione di Borsellino presero per buone le dichiarazioni false del pentito Scarantino, che mandò su un binario morto tutte le indagini). La Procura di Palermo in quella tragica estate del ‘ 92 sottovalutò il lavoro dei Ros. E probabilmente, soprattutto dopo la morte di Borsellino, entrò in conflitto coi Ros, e forse anche con pezzi dei servizi segreti (penso all’affare- Contrada) proprio per via del “complesso di colpa”, diciamo così, dovuto all’errore commesso sul dossier mafia- appalti. Ora però bisogna fare un po’ di luce su tutto questo. Anche perché al processo di Palermo non si è tenuto conto in nessun modo di questo scenario. E così il processo ha finito per condannare da una parte proprio i carabinieri che si erano impegnati di più nella battaglia contro Cosa Nostra, dall’altro i “berlusconiani” (mi riferisco a Dell’Utri) forse solo perchè, si sa, se dai addosso ai “berluscones” ti conquisti qualche merito e qualche popolarità, a prescindere. E trovi l’appoggio della stampa. Le questioni da affrontare sono tre. La prima è: sono stati condannati, ingiustamente, proprio quelli che avevano dato di più nella lotta alla mafia? La seconda è: il dossier mafia appalti è stato la vera ragione dell’uccisione di Borsellino? La terza è: insabbiando quel dossier si è impedito di dare alla mafia (dopo il maxiprocesso) il colpo mortale? Sono domande impegnative. Qualcuno dovrebbe rispondere.

Mafia anni 90. I “buoni” erano “cattivi” e viceversa? Scrive Piero Sansonetti il 5 Maggio 2018 su "Il Dubbio". La ricostruzione fornita dal Dubbio rovescia i teoremi: i Ros avevano attaccato frontalmente la mafia, la magistratura, persi Falcone e Borsellino, mollò la presa. Da qualche giorno stiamo pubblicando sul “Dubbio” una ricostruzione dei fatti tragici che all’inizio degli anni 90 insanguinarono la Sicilia. Continueremo la settimana prossima. Damiano Aliprandi sta realizzando questa ricostruzione, lavorando su documenti, sentenze, requisitorie, testimonianze, carte, atti giudiziari. Senza violare nessun segreto, senza fidarsi di nessun “uccellino”, senza fonti riservate e coperte, senza basarsi su supposizioni prive di prove. Generalmente l’informazione giudiziaria funziona in un altro modo: non perde tempo a seguire i processi e a verificare le carte, ma “suppone”; e di solito più che supporre prende per buone le supposizioni delle Procure. Qual è la novità che emerge dalla nostra ricostruzione? E’ abbastanza sconvolgente. Ci fa capire che probabilmente la verità è più o meno l’opposto di quello che sin qui si è fatto credere. Vediamo. Recentemente il processo di Palermo (quello sulla presunta trattativa stato- mafia) ha stabilito che un gruppo di carabinieri dei Ros tradì lo Stato e lavorò, insieme alla mafia, per minacciarlo e ricattarlo. Con l’aiuto di Dell’Utri. Se le cose davvero stessero così, sarebbe una cosa gravissima. Un vero e proprio tradimento da parte di un settore molto prestigioso dei carabinieri. Finora, però, non è stata mostrata una sola prova che avvalori questa ipotesi, tranne la testimonianza di un mafioso pentito (Brusca) che in cambio della sua testimonianza ha ottenuto le attenuanti, e quindi la prescrizione, e quindi l’assoluzione. C’è da fidarsi di Brusca, senza un riscontro, senza una carta, un fatto, un documento? Aspettiamo le motivazioni della sentenza e vediamo se esce fuori qualcosa. Per ora, zero. La nostra ricostruzione però giunge a una conclusione del tutto opposta: i carabinieri “traditori” non erano affatto traditori, ma erano investigatori molto competenti che avevano scoperchiato (tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90) un gigantesco giro di reati, compiuti per assegnare in modo illegittimo a mafiosi e imprenditori una quantità mostruosa di appalti. La descrizione di questi delitti, e le prove, erano contenute in un dossier chiamato “mafia appalti”, che fu consegnato dai Ros alla magistratura. E precisamente al sostituto procuratore Falcone che iniziò le indagini e giudicò clamorose le scoperte dei carabinieri. Poi Falcone fu chiamato a Roma e il dossier passò ad altri sostituti procuratori. Lo stesso Falcone chiese a Borsellino di occuparsi lui personalmente di quel dossier, perché solo di lui si fidava e perché il dossier conteneva verità scioccanti. Ma prima che il Procuratore Giammanco si decidesse a consegnare il dossier a Borsellino, successero tre cose: fu ucciso Falcone, fu ucciso Borsellino e, nel frattempo, i sostituti procuratori che avevano in mano il dossier chiesero ( e rapidissimamente ottennero) che fosse archiviato. In una parola sola: insabbiarono. Questi sostituti procuratori erano Roberto Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo e Guido Lo Forte. E visto che nel frattempo Borsellino e Falcone erano morti, nessuno più mise le mani su quei documenti (che noi abbiamo potuto leggere) i quali contenevano nomi, circostanze, collegamenti, con una tale precisione (e di una tale gravità) che probabilmente avrebbero creato un vero e proprio cataclisma. Sulla mafia, ma anche sulla politica. Non solo su quella siciliana, perché le imprese coinvolte operavano su tutto il territorio nazionale e anche gli appalti non erano solo siciliani ma erano sparsi in ogni regione italiana. Ora le questioni aperte sono tre.

La prima riguarda l’uccisione di Borsellino. In questi anni spesso si è detto che la sua morte è avvenuta perché si opponeva alla trattativa stato mafia. Poi si è detto che stava indagando su Berlusconi. Ora si capisce con una certa sicurezza che non era così. Borsellino non stava indagando su nessuna trattativa né su Berlusconi, ma voleva occuparsi di questo dossier, e negli scandali contenuti in questo dossier non c’era trattativa né c’era ombra di Berlusconi o di Dell’Utri. Dunque tutta la ricostruzione, soprattutto giornalistica (ma presente massicciamente anche nelle requisitorie dei Pm al processo di Palermo) è infondata.

La seconda questione riguarda i Ros. È chiaro che i Ros del generale Mori non solo non trattarono con la mafia, ma avevano una strategia del tutto opposta: quella di andare a scontrarsi frontalmente sia con la mafia sia con quei settori della politica e dell’imprenditoria che con la mafia facevano affari.

La terza questione è la più inquietante. Cosa successe in alcuni settori della magistratura di Palermo? Perché insabbiarono una inchiesta che era una vera bomba atomica e che conteneva i presupposti per annientare Cosa Nostra? C’è un collegamento tra questa decisione di insabbiare e di disinnescare quella inchiesta e il clamoroso depistaggio, seguito dalla magistratura, innescato dal falso pentito Scarantino (primo processo Borsellino)? E ancora: il processo Stato mafia è in qualche modo figlio di questi clamorosi abbagli? Come vedete, la terza questione è formata da domande. Chi può rispondere a queste domande? La magistratura è in grado di fornirci almeno qualche lume?

Perché Scarpinato affossò l’inchiesta mafia- appalti? Era clamorosa e forse Borsellino fu ucciso perché quel fascicolo era finito sulla scrivania, scrive Damiano Aliprandi il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Non esiste nessuna sentenza che collega la morte dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con la presunta trattativa Stato- mafia, mentre in alcune sentenze emerge un movente ben chiaro e che fu anche l’inizio della guerra dei cent’anni tra alcuni magistrati e i carabinieri dei Ros guidata da Mario Mori: l’indagine su mafia appalti condotta da quest’ultimi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, in cui si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio, «la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti». A questa si aggiunge un’altra sentenza, quella della Corte d’Assise di Caltanissetta relativa al processo Borsellino- ter, in cui viene riportata la testimonianza di Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, il quale disse che la mafia era preoccupata circa l’interesse di Falcone e Borsellino per l’indagine mafia- appalti. Un particolare non da poco è stato il suo riferimento a Falcone quando disse che la «mafia era stata quotata in borsa». Sì, perché il magistrato lo disse all’indomani della quotazione di una delle società appaltatrici che erano sotto la lente di ingrandimento dei Ros. La sentenza in questione aveva tratto anche una riflessione. « Appare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto all’epoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Cosa nostra, tuttavia si legge nel dispositivo della sentenza – l’interesse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini unitamente all’incarico che egli ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta ed ancor più la prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone ». Come se non bastasse, si aggiunge la testimonianza di Antonio Di Pietro, all’epoca dei fatti componente del pool Mani Pulite. L’ex magistrato ha dichiarato più volte, sia durante il processo Borsellino- ter e sia recentemente, che Borsellino – lo incontrò poco prima della strage di via D’Amelio – era interessato a mafia- appalti e che avrebbe voluto collegare l’indagine palermitana a quella milanese. Il punto è importante, perché gli elementi di collegamento spuntarono fuori durante l’inchiesta Mani Pulite. Parliamo di attività imprenditoriali sospette relative a imprese del nord come la Calcestruzzi di Gardini, impresa capofila del gruppo Ferruzzi Spa che compariva nell’indagine mafia- appalti dei Ros. L’inchiesta mafia- appalti, quindi, era potenzialmente una bomba potentissima visto che scoperchiava legami tra mafia, personalità politiche di rilievo e società appaltatrici in mano a persone vicine ad alcuni magi- strati. Ma non solo. Parliamo di una bomba che non sarebbe deflagrata solamente in Sicilia, ma anche in tutta la penisola (la testimonianza di Di Pietro docet) e le schegge avrebbero sconfinato oltre le Alpi visto che l’inchiesta avrebbe potuto toccare il sistema di riciclaggio internazionale. In merito a quest’ultimo punto, in realtà, Falcone aveva già fiutato qualcosa qualche anno prima che ricevesse il fascicolo dell’indagine mafia- appalti. Nel giugno 1989, infatti, si era incontrato con la sua collega svizzera Carla Del Ponte nella villa che aveva preso in affitto all’Addaura, vicino Palermo, per discutere di riciclaggio del denaro sporco tramite aziende all’estero e, coincidenza vuole, fu in quel momento che la mafia collocò una bomba sullo scivolo di accesso al mare della villa, dentro un borsone da sub. Per fortuna venne notata da uno degli agenti della scorta di Falcone e disinnescata dagli artificieri. Nel 1991 Falcone prese in mano l’informativa dei Ros e un anno dopo fu ucciso. Sembra ragionevole pensare che Falcone e Borsellino siano stati uccisi per il loro interesse all’inchiesta dei Ros sui grandi appalti pubblici che la Procura di Palermo, però, archiviò appena qualche giorno dopo la morte di Borsellino. La richiesta di archiviazione – esattamente il 13, quando Borsellino era ancora in vita e interessato a prenderla in mano – fu avanzata dagli allora sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, vistata dal procuratore Giammanco tre giorni dopo l’uccisione di Borsellino e archiviata definitivamente il 14 agosto dal gip di Palermo Sergio La Commare. Parliamo dell’archiviazione più breve della storia, avvenuta il giorno prima di ferragosto, quando solitamente gli uffici dei tribunali sono semideserti. Il gip La Commare è lo stesso che, qualche mese dopo – esattamente il 23 dicembre, altra data particolare, antivigilia di Natale – convaliderà l’arresto di Bruno Contrada (ex capo della Mobile di Palermo, ex vicedirettore del Sisde, ex capo della criminalpol di Palermo) richiesto sempre da Lo Forte e Scarpinato. Nello stesso anno, gli stessi magistrati archiviano l’indagine sui mafiosi e arrestano chi per anni è stato in prima linea contro la mafia. A quel punto, mafia- appalti, che doveva essere una bomba che avrebbe fatto tremare l’Italia intera, era stata quindi disinnescata. In realtà, precedentemente, aveva già subito un depotenziamento. Come? Ricordiamo che l’informativa mafia- appalti dei Ros era di 890 pagine ed era stata ricostruita la mappa del malaffare siciliano dove erano elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di quasi tutti i partiti e aziende. Il dossier passò nelle mani di ben otto sostituti procuratori di Palermo. Furono indagate soltanto cinque persone. Ma accadde qualcosa di grave. Tutti i coinvolti nell’informativa dei Ros – gli imprenditori, i politici e i mafiosi -, ricevettero l’elenco degli appalti e dei nomi citati nel dossier. Da chi? Dalle risultanze processuali, risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafiaappalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi. I Ros accusarono i magistrati della procura di Palermo e viceversa. Alla fine tutto fu archiviato. Si legge nell’ordinanza di archiviazione: « Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati ». Qualunque sia la verità, con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino dei Ros e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di mafia- appalti e, ricordiamolo nuovamente, ritenuto dai Ros “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio morì Paolo Borsellino.

Mafia e Appalti: Falcone lavorò su quel dossier sparito. Lo aveva ricevuto nel febbraio del 1991 e lo considerava importantissimo, scrive Damiano Aliprandi il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Nel corso dei processi per le stragi siciliane del 1992, dalle persone informate sui fatti (come l’ex generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno dei Ros, e poi pentiti come Angelo Siino e Giovanni Brusca), era emerso che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia era stato il movente principale dell’attacco mafioso. Cioè era la ragione che aveva indotto “Cosa nostra” a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane che portarono all’uccisione di Falcone, Borsellino e molte altre persone. Emerse, in sostanza, l’interesse che alcuni ambienti politico– imprenditoriali e mafiosi avevano ad evitare l’approfondimento dell’informativa dei Ros mafia- appalti, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici. Le indagini, le quali avevano aperto già nel 1991 scenari inquietanti, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese di “Tangentopoli”. L’interesse della mafia a neutralizzare le indagini eliminando fisicamente i magistrati ai quali venivano notoriamente riconosciute la capacità professionale e la volontà per svolgerle, si era rafforzato quando Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, si era fortemente determinato a sviluppare le indagini in questione, riprendendole e indirizzandole nel solco originariamente tracciato da Giovani Falcone. Tutto ha avuto inizio la mattina del 20 febbraio del 1991 quando il capitano Giuseppe De Donno consegnò, all’allora sostituto procuratore Giovanni Falcone, le conclusioni dell’indagine sulla mafia- appalti sottoscritta dal generale Mori. De Donno, che Falcone chiamava affettuosamente Peppino e che era uno dei pochi investigatori che si permetteva di dare al giudice del ‘ tu’, valendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera (nell’indagine dei Ros ci sono le sue intercettazioni), che lavorava in Sicilia per una grossa azienda del Nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare siciliano, ed aveva elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di rilievo e aziende di primaria importanza. In questo elenco c’erano anche nomi legati a magistrati siciliani. Falcone si interessò molto dell’indagine dei Ros. Infatti, a distanza di un mese dalla consegna dell’informativa, in un importante convegno organizzato a marzo del ’ 91 dall’Alto Commissario Antimafia, dopo avere riconosciuto che il condizionamento mafioso esisteva sia al momento della scelta delle imprese, sia nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti ( senza escludere, quindi, le imprese del Nord), e dopo aver fatto cenno ad alcune intercettazioni telefoniche da cui risultavano varie modalità operative, aveva testualmente affermato: « Ormai emerge l’imprescindibile necessità di impostare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto finora », alludendo non solo a un salto di qualità investigativa, ma all’utilizzazione nelle indagini su mafia- appalti dell’apparato dell’Alto Commissario e, cioè, teorizzando la messa a disposizione delle informazioni raccolte nel circuito dei servizi al pubblico ministero e, comunque, la sinergia tra l’intelligence e le investigazioni sul territorio. In pratica aveva non solo intuito l’importanza di mafia- appalti, ma aveva fatto capire la sua intenzione di creare un nuovo ed efficace metodo di investigazione. Fu un campanello d’allarme per quanti, mafiosi e contigui, noti e non ancora noti, avrebbero potuto essere attratti nel cono di luce di questo programma. C’è una testimonianza che conferma il timore di Cosa nostra. Riportiamo un brano tratto dalla sentenza della Corte di assise di appello di Caltanissetta del 2000: «A dire del Siino (considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) , le indagini promosse dal giudice Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”, avevano portato alla sua eliminazione. Difatti, in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che il dr. Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare”». A distanza di qualche mese dal suo intervento, Giovanni Falcone, dopo essere stato isolato dai suoi colleghi e scansato dal Csm, accetterà dal ministro Martelli la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il ministero della Giustizia. Il dossier dei Ros rimase nelle mani dei sostituti procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, in seguito il Procuratore Giammanco affiancherà altri sostituti, tra i quali Roberto Scarpinato, cioè l’attuale Procuratore generale di Palermo. Nonostante ciò, Falcone non recise i suoi collegamenti con le articolazioni operative delle indagini a Palermo. Si fidava però di uno solo collega, ovvero Paolo Borsellino. In quel frangente si verificò una circostanza molto significativa e che turbò molto Falcone. L’intero rapporto mafia appalti fu consegnato dal procuratore Giammanco al ministro Martelli, che tuttavia lo restituì alla Procura di Palermo, senza aprire il plico, avendo riscontrato in Giovanni Falcone una sorta di lamentela sulla condotta del magistrato, il quale nel consegnare il rapporto aveva inteso delegare alla politica l’intera questione anziché promuovere le dovute indagini di riscontro. E addirittura, la lettera di restituzione fu inviata al Csm per conoscenza, per rimarcare l’anomalo comportamento del procuratore Giammanco. Falcone era interessato a mafiaappalti collegandolo perfino con le indagini milanesi. Di questo si trova riscontro nella testimonianza di Antonio Di Pietro nell’ambito del processo Borsellino ter. Si parla sempre di imprese e casualmente – come raccontò l’ex giudice di Mani Pulite – cominciavano ad emergere nomi che rientravano anche nell’informativa dei Ros. Di Pietro durante il processo nominò ad esempio la Ferruzzi Spa (quella di Gardini) o la De Eccher, tutte imprese del nord coinvolte in mafia- appalti. Di Pietro disse di averne parlato con Falcone. «Quella era l’essenza della mia inchiesta – raccontò Di Pietro durante il processo – cioè la scoperta che le imprese nazionali dovunque andavano si associavano con imprese locali, si realizzavano questi appalti e producevano delle dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali. Ne parlai dapprima con Falcone e poi anche con Borsellino. Ma attenzione – sottolineò Di Pietro-, anche quando Falcone era ancora vivo». Falcone, ribadiamolo, non perdeva di vista quell’indagine, anche se formalmente non era di sua competenza. La conosceva così bene che, durante un convegno pubblico, aveva lanciato un appello esclamando che «la mafia è entrata in borsa», per dire che società quotate in borsa erano state attratte nell’alveo delle relazioni con “Cosa nostra”. Il grumo di interessi che riguarda gli appalti, fa maturare la decisione della mafia di punire i vecchi referenti politici come Salvo Lima, accusati di non essere più in grado di svolgere utili mediazioni. Mancavano solo 11 giorni all’attentato, il tritolo per Capaci era già partito quando in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva che stava arrivando la sua ora. Quel pizzino di morte fu l’ultimo avvertimento prima di quel boato che il 23 maggio 1992 sventrò l’autostrada uccidendo con Giovanni Falcone anche sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Solo Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, voleva risalire a quella inchiesta e a quel dossier dei Ros per scoprire gli assassini di Falcone. Alla prossima puntata parleremo di questo.

Mafia- appalti, quel giorno che Paolo Borsellino fu convocato in Procura…Era la mattina del 19 luglio 1992, il pomeriggio ci fu la strage, scrive Damiano Aliprandi l'8 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  Esattamente quattro giorni prima che venisse brutalmente ucciso, Paolo Borsellino era a casa con la moglie, sconvolto e molto preoccupato. Perché? La spiegazione è in una deposizione della signora Agnese Borsellino rilasciata il 18 agosto 2009 di fronte ai Procuratori di Caltanissetta: «Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992; ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrarono…» «Il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19.00, e, conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu” (affiliato a Cosa nostra, ndr) ». L’italiano non si interpreta, è la nostra lingua madre, eppure i teorici della presunta Trattativa hanno inteso che Borsellino, dicendo di aver visto la “mafia in diretta”, si riferisse all’ex generale dei Ros Subranni. Sappiamo che Borsellino si fidava ciecamente dei carabinieri del Reparto Operativo Speciale e non a caso, come vedremo in seguito, fece un incontro segreto con loro per discutere dell’inchiesta mafia- appalti presso la caserma e non negli uffici della Procura, visto che più di una volta aveva espresso di non fidarsi dei suoi colleghi. Quindi, ritornando alla testimonianza della moglie Agnese, Borsellino era rimasto turbato perché qualcuno gli aveva detto che Subranni era un mafioso. Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino infatti si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Con chi si era visto? Non è dato saperlo. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; a seguire avveniva l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Con chi si era visto in Procura? La “mafia in diretta” era riferito a un suo collega? Non lo sapremo forse mai. Quello che sappiamo, però, è che Borsellino stava seguendo la pista dell’inchiesta mafia- appalti anche per risalire agli assassini di Falcone. Diverse sono le testimonianze di primaria importanza. Una è dei Ros. Paolo Borsellino, subito dopo l’omicidio di Falcone – secondo la testimonianza del generale Mori –, chiese un incontro riservato a Mori stesso e De Donno per parlare di mafia- appalti, dove ribadì la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – racconta sempre Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». L’altra testimonianza è di Antonio Ingroia. Lui stesso, durante l’udienza del 12 novembre 1997 – parliamo del processo Borsellino bis della Procura di Caltanissetta -, ha raccontato che Borsellino era convinto che partendo dagli appunti contenuti nell’agenda elettronica di Falcone su mafia- appalti si potevano individuare i moventi della strage di Capaci. Probabilmente Ingroia ha poi rimosso questo ricordo ed ha imbastito l’inchiesta giudiziaria sulla presunta Trattativa. L’altra testimonianza è quella della dottoressa Liliana Ferraro resa al Tribunale di Palermo nell’udienza del 28 settembre 2010. Disse che si incontrò con Borsellino, che le espresse la necessità di fare di tutto per scoprire gli autori della strage di Capaci. Oltre a riferirle i difficili rapporti che aveva con la Procura di Palermo, Borsellino le chiese informazioni su mafia- appalti, visto che lui non aveva nessuna delega dalla Procura di Palermo. Poi c’è la testimonianza di Antonio Di Pietro. Oltre a Falcone, l’ex pm di Mani pulite disse che Borsellino voleva approfondire lui stesso l’inchiesta mafia- appalti e collegarla all’indagine milanese. Di Pietro racconta che Borsellino lo incontrò al funerale di Falcone e gli disse: «Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo». Ma se fin qui parliamo di intenzioni da parte di Borsellino, c’è un evento che cristallizza i suoi primi passi concreti su mafia- appalti, nonostante non avesse ancora la delega. Poco prima della sua uccisione – esattamente il 29 giugno del 1992Borsellino aveva svolto a casa sua un incontro riservato con il suo collega Fabio Salomone. Non è uno qualunque: parliamo del fratello di Filippo Salomone, l’imprenditore coinvolto nell’informativa mafia- appalti dei Ros. Cosa si dissero? Lo riferisce lo stesso magistrato Salomone in un verbale: «Lo andai a trovare a casa sua. Era un primo pomeriggio. C’erano altre persone, oltre alla moglie, Agnese. C’era Antonio Ingroia. Io e Paolo ci siamo chiusi nello studio con una porta a soffietto. Il colloquio sarà durato un’oretta circa. Ricordo che parlammo ancora una volta del fatto che Martelli e Scotti, avendolo indicato come probabile Procuratore Nazionale Antimafia, avevano sovraesposto la sua posizione. Lui si sentiva più protetto a Palermo. Parlammo ancora della mia situazione, che lui riteneva a rischio e mi invitò a venire a Palermo. Io obiettai che l’attività imprenditoriale di mio fratello rendeva inopportuno questo trasferimento, con Tangentopoli che era scoppiata. Borsellino mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello ed in ogni caso riteneva sufficiente che io non mi occupassi delle tematiche, in cui poteva essere coinvolto lo stesso mio fratello, data la dimensione della Procura di Palermo. Borsellino comunque insistette perché io andassi via da Agrigento. All’epoca della visita a Borsellino, io stesso stavo maturando la decisione di allontanarmi da Agrigento». Il colloquio fin qui riportato dimostra chiaramente che per Borsellino l’inchiesta mafia- appalti era di primaria importanza. Le ragioni sono molteplici: perché si svolge qualche settimana prima dell’esecuzione della strage e dopo soli 4 giorni dall’incontro che Borsellino aveva tenuto con i Ros alla caserma di Piazza Verdi; perché non vi era stata, in precedenza, un’assidua consuetudine di frequentazioni fra i due magistrati e, non per ultimo, perché il fratello del magistrato era tra gli imprenditori implicati nel filone mafia- appalti. Tutto questo fa pensare che Borsellino, se solo avesse preso in mano la delega per Palermo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta su mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Non doveva far altro che farsi dare la delega dal procuratore Giammanco. Giungiamo quindi ai suoi ultimi istanti di vita. Verso le 7 e 30 della mattina di quel maledetto 19 luglio 1992, Borsellino ricevette una telefonata dal procuratore Giammanco. Lo aveva testimoniato la moglie Agnese. A quell’ora i tre figli di Borsellino dormivano e il giudice s’affrettò ad afferrare il telefono al primo squillo. La moglie, turbata dalla chiamata mattutina, sentì cosa rispondeva, freddo, all’interlocutore: «La partita è aperta». Il tono allarmò la signora. E fu il marito, rimettendo giù la cornetta, a spiegarle che era stato Giammanco a chiamarlo per assegnargli la delega sull’inchiesta palermitana. Borsellino però non poteva sapere che qualche giorno prima – esattamente il 13 luglio – c’era stata la richiesta di archiviazione da parte di Lo Forte e Scarpinato. E forse nemmeno Giammanco, visto che l’avrebbe vistata tre giorni dopo il tragico evento. Il pomeriggio stesso una Fiat rubata, piena di tritolo, esplose sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Morì lui e i suoi agenti di scorta.

«Tenete quei dossier lontani da Falcone e Borsellino». L’informativa “Caronte” dei Ros sulle collusioni Mafia-imprese, scrive Damiano Aliprandi il 9 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo tratteggiato l’interesse di Falcone e Borsellino per l’informativa dei Ros dedicata a mafia- appalti. L’interesse era quello di approfondire l’inchiesta, ma sappiamo che non avevano la delega e così l’inchiesta fu dapprima depotenziata, indagando solo cinque persone, poi fu diffuso – non si sa da chi – il contenuto del rapporto che arrivò a tutti i soggetti coinvolti; infine fu tutto archiviato, quando il corpo senza vita di Borsellino era ancora caldo. La richiesta di archiviazione – firmata dai sostituti Lo Forte e Scarpinato – fu avanzata pochissimi giorni prima dell’attentato. In seguito ci sono state diverse inchieste giudiziarie “spezzettate” ma che non portarono a nulla visto che c’è stata una sorta di scompenso tra le intuizioni investigative elaborate da Giovanni Falcone (in qualche modo anticipate al Convegno di Castel Utveggio) puntualmente tracciate dai Ros e le utilizzazioni processuali conseguenti, da parte della procura di Palermo dell’epoca. Il che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di Via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, Cosa nostra avesse raggiunto i suoi obiettivi attraverso le stragi del 1992. Ma perché la mafia aveva paura che quell’indagine venisse approfondita? Perché – secondo la testimonianza di Angelo Siino, considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra -, la mafia riferendosi a Falcone avrebbe detto «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»? L’indagine dei Ros che dettero vita all’informativa mafia- appalti è nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che i Ros lo informavano delle indagini ben prima che redigessero il dossier. Infatti due sono le informative dei Ros consegnate a Falcone (e anche a Lo Forte che era sostituto procuratore a Palermo): una datata il 2 luglio 1990 e l’altra il 5 agosto del 1990. Falcone aveva capito che non bastava arrestare gli esponenti dei clan, ma bisognava colpire la ricchezza di Cosa Nostra, frutto di vere e proprie attività imprenditoriali. Del resto già Leonardo Sciascia aveva tratteggiato la figura dell’imprenditore mafioso, Colasberna, ne Il giorno della Civetta. Tuttavia, fino al momento in cui i Ros non misero il becco nel reimpiego dei capitali mafiosi nella gestione degli appalti, la linea investigativa era concentrata essenzialmente sulle indagini bancarie ai fini dell’individuazione delle somme di denaro e dei molteplici prestanomi che ne favorivano l’occultamento. Il meccanismo della gestione degli appalti in mano alla mafia è ben sintetizzato in un passaggio dell’informativa dei Ros dove si dice che i mafiosi “disponevano di una capacità operativa sorprendente, abbinata, tra l’altro, ad una pressoché illimitata forza condizionante la pubblica amministrazione che permetteva loro di aggirare e superare qualsiasi vincolo legislativo e non”, e che non aveva solo la capacità di indirizzare la volontà degli Enti Pubblici, “ma di coartarla in tutti i suoi aspetti, riuscendo in alcuni casi, a programmare essi stessi l’attività economica d’intervento pubblico”. Come accade spesso nelle indagini investigative, le collusioni vengono scoperchiate quasi per caso. Tutto cominciò quando, a settembre del 1989, avvenne l’omicidio di un imprenditore di Baucina, piccolo comune vicino Palermo. Nel corso delle relative indagini era emerso che l’impresa gestita dalla vittima legata alla mafia si era associata, in relazione ad un pubblico appalto di modesta entità, con la società Tor Di Valle Spa, di ben più imponenti dimensioni ed avente sede in Roma: all’epoca gestiva enormi appalti come la costruzione della nuova Casa circondariale di Civitavecchia, il prolungamento della linea ‘ B’ della metropolitana di Roma e altro ancora. È da quel momento che l’indagine si era concentrata su diverse società importanti della Sicilia che sarebbero entrate nel circuito mafioso. Sono società di modeste dimensioni che però erano collegate con le grandi imprese operanti al livello nazionale. Oltre alla Tor Di Valle, tra le tante, compare anche la società del nord Calcestruzzi s. p. a. del Gruppo Ferruzzi- Gardini che si era accordata con l’imprenditore mafioso Buscemi. Sul progressivo cambiamento del ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti dopo la metà degli anni 80, è necessario prendere in considerazione le conclusioni argomentate dai giudici della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta tratte dalla testimonianza di Siino. I giudici nisseni hanno spiegato che la mafia, da un ruolo prettamente parassitario incentrato sulle “messe a posto”, sui subappalti, sulle gestioni dei lavori per conto terzi, era passata a uno imprenditoriale, nel senso che la mafia aveva cominciato “a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti ad imprese a lei vicine”. Cosa nostra, si era inserita “a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti”, applicando “il pizzo sul pizzo”, cioè decurtando una parte delle tangenti dirette ai politici. Dall’informativa dei Ros mafia e appalti, infatti, si evince che l’obiettivo della mafia era quello di utilizzare il denaro del finanziamento al Mezzogiorno per i lavori da aggiudicare alle imprese dell’organizzazione. E a gestire i soldi del Mezzogiorno era la Sirap. Tale ente verrà poi esaminato dai Ros in un momento successivo tramite l’informativa “Caronte”, solo perché aveva una sua complessità rispetto alle vicende comprese nella informativa del febbraio del 1991 e perché, anche su sollecitazione dello stesso Falcone, si era preferito depositare, prima, una informativa di carattere generale. L’informativa “Caronte” venne tramessa alla Procura di Catania che, al termine delle indagini, formulò una richiesta di misure cautelari verso numerosi esponenti politici. L’allora procuratore Gabriele Alicata, non ritendendo competente il suo ufficio, trasmise le carte alla Procura di Palermo. Tutti gli esponenti politici e amministrativi per i quali la procura di Catania aveva richiesto misure cautelare, non vennero in quella sede perseguiti. La Sirap era incaricata dalla Regione Sicilia – il cui Presidente dell’epoca era l’onorevole Rino Nicolosi – di gestire finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno e dell’allora Comunità europea (la ex Cee) per circa mille miliardi, per la realizzazione di venti aree attrezzate da destinare alle piccole e medie imprese artigianali ed industriali. Si trattava, quindi, della gestione di venti gare di appalto dell’importo di circa cinquanta miliardi ciascuna. Erano tanti soldi, miliardi e miliardi delle vecchie lire, che potevano dare potere alla mafia, quello di condizionare la politica e l’economia legale. La Procura di Palermo aveva, come già detto, la delega per le indagini. Ma poteva farlo serenamente? Alcuni magistrati titolari dell’inchiesta avevano parenti di primo grado e anche padri e fratelli legati a quelle imprese ed enti sotto la lente d’ingrandimento dei Ros: uno dei sostituti procuratori aveva il padre presidente dell’Espi, ente economico che aveva il controllo della Sirap, società coinvolta nelle indagini. Sappiamo che Paolo Borsellino, ad esempio, aveva già chiesto al magistrato Salomone – fratello di uno degli imprenditori coinvolti nell’informativa dei Ros – di operare alla procura di Palermo, ma di non occuparsi di mafia- appalti per questioni di opportunità. Era solo un’informativa e quindi sono tutti innocenti fino a prova contraria, ma per questioni di evidenti “conflitti di interesse” forse sarebbe stato opportuno dare la delega ad altri magistrati, magari proprio a Falcone e Borsellino. Entrambi – come diverse testimonianze e documento lo certificano – informalmente seguivano mafia- appalti, ma furono dilaniati dal tritolo. Il movente che ha concausato la loro morte è stato sepolto con loro, in compenso sono stati condannati, in primo grado, coloro che dettero vita a quello scottante dossier.

Borsellino lavorava sul dossier Mori… Poi fu ammazzato. La corte smonta il luogo comune di uno stato inerme e piegato agli interessi di Cosa nostra nel periodo delle stragi, scrive Damiano Aliprandi il 3 luglio 2018 su "Il Dubbio". Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, depositata sabato a chiusura del processo Borsellino quater e rassegnate nelle 1865 pagine, non vengono dimenticate le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore». Le considerazioni della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonio Balsamo, conducono il collegio a disporre nella sentenza anche la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state, quindi, al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio. Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte»: furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto di tumore il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

L’irritualità della vicenda processuale. Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è quello delle «anomalie» e delle «irritualità» che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Questa è in sintesi la conclusione della motivazione. È la vicenda processuale dell’acquisizione probatoria degli interrogatori di Scarantino, una di quelle più aspramente contestate dalla Corte. Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui che la Corte non tarda a richiamare l’’ attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti. Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero». Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura» ; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo, ma per nulla meno importante, balza all’occhio un richiamo, quello alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio disporrà la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello.

Mafia Appalti, concausa della strage di via D’Amelio? Nelle motivazioni emerge anche un altro elemento non trascurabile. Ovvero il fattore scatenante per il quale la mafia avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché il dottore Borsellino, sì sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanata dal generale Mario Mori e voluta da Giovanni Falcone. Giuffrè, nel confermare le precedenti dichiarazioni secondo cui «il Dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti», ha chiarito che gli esponenti di ‘ Cosa Nostra’ «avevano avuto notizia di un «rapporto che era stato presentato alla Procura di Palermo da parte dei Ros all’allora Procuratore Giammanco». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due Magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso questo Tribunale, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco». Borsellino non si fidava dei suoi colleghi e riferendosi alla Procura di Palermo, parlò di «Covo di vipere». D’altronde, come riportò Il Dubbio, lo stesso Borsellino, dopo la morte di Falcone, si interessò di mafia appalti e ne parlò con i Ros tramite un incontro riservato in caserma, non in Procura. Altro aspetto fondamentale è che la Corte indirettamente sconfessa il teorema giudiziario sulla presunta trattativa Stato Mafia. «Va, altresì, rilevato – viene evidenziato nelle motivazioni – che l’attentato contro Paolo Borsellino costituiva un attacco terroristico diretto a piegare lo Stato. L’obiettivo perseguito con questo e con analoghi delitti era quello di destabilizzare le Istituzioni e favorire nuovi equilibri con il potere politico, strumentali alla tutela degli interessi di Cosa Nostra, ma nulla escludeva che, nella fase successiva, lo Stato avrebbe potuto reagire, come effettivamente avvenne, mediante misure dirette ad assicurare una più forte repressione del fenomeno mafioso». Viene confermato che lo Stato agì duramente per reprimere la mafia. Quindi nessun patto con Cosa Nostra.

La prima versione sulla strage. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone- Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse l’allora Pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni». A questo si aggiunse la requisitoria della Pm Anna Maria Palma: «dietro questa ritrattazione c’è la mafia». Il resto della storia, la conosciamo.

Quando il “Corvo” cominciò a volare su chi combatteva Cosa nostra. La prima lettera anonima del “Corvo” contro le istituzioni spuntò nel 1989 e fu ingiustamente accusato il pm Alberto Di Pisa, scrive Damiano Aliprandi il 16 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Fin qui abbiamo raccontato come l’indagine dei Ros su mafia- appalti è stata seguita fin dall’inizio da Falcone e poi portata avanti da Borsellino. Per completare il quadro, però non si può tener conto delle lettere anonime definite giornalisticamente del “Corvo”. Come un uccello del malaugurio hanno svolazzato sempre quando ci sono stati gli attentati. La prima lettera arrivò a ridosso dell’attentato fallito a Falcone, l’altra invece a cavallo tra la strage di Capaci del 23 maggio 1992 e quella in via D’Amelio del 19 luglio 1992. La prima missiva anonima spunta in un anno spartiacque: il 1989. Il mondo cambia letteralmente volto. La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre, produce conseguenze politiche, economiche e sociali in tutto il pianeta. Mentre le manifestazioni studentesche in Cina vengono represse nel sangue, in Ungheria si apre la frontiera con l’Austria, creando il primo varco della Cortina di ferro e permettendo la fuga dalla Ddr (Repubblica Democratica Tedesca, comunemente chiamata Germania Est) di molti suoi abitanti. A novembre, una escalation di pochi giorni, cominciata con la concessione ai rifugiati nelle ambasciate della Germania Ovest di Praga e Varsavia di trasferirsi nella Repubblica Federale, porta alla caduta del Muro di Berlino, festeggiata l’anno seguente con un grande concerto dei Pink Floyd. Il 1989 è un anno rilevante anche nello scacchiere italiano, sotto il profilo politico, criminale e giudiziario. ll 20 febbraio, a Catanzaro, si conclude il terzo processo per la strage di Piazza Fontana: assolti gli imputati ( Stefano Delle Chiaie e Massimiliano Fachini) per non aver commesso il fatto. La storia si ripete un mese più tardi con l’assoluzione di tutti gli imputati per un’altra strage, quella di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974. I fatti più eclatanti si verificano tra le dimissioni del governo De Mita (19 maggio) e il giuramento del sesto governo Andreotti (23 luglio), pentapartito composto da Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Ma l’anno 1989 è anche quello dove per la prima volta in Parlamento arriva un relazione sulla sicurezza dove viene denunciato che mafia, camorra e ‘ ndrangheta hanno superato il terrorismo nella graduatoria delle minacce nella sicurezza nazionale. Il 12 giugno, Angela Casella, madre di Cesare Casella, ragazzo pavese rapito da diciassette mesi dall’Anonima sequestri calabrese, si incatena nella piazza di Locri per denunciare l’incapacità dello Stato nel combattere la criminalità organizzata. La ‘ ndrangheta, infatti, in quel periodo getta le basi della sua trasformazione e notevole espansione, approfittando soprattutto del cono d’ombra generato dal maxi processo palermitano contro Cosa nostra. Mentre gli esponenti di spicco della mafia siciliana sono ad un passo dall’essere condannati definitivamente dallo Stato italiano, le ‘ndrine calabresi controllano i territori, gestiscono in modo monopolistico il traffico di cocaina e riciclano il denaro acquistando beni immobili e attività commerciali, cominciando progressivamente a scalare le gerarchie criminali nazionali e internazionali. Ma l’anno 1989 è anche quello del fallito attentato a Giovanni Falcone e l’inizio di alcune missive inquietanti sempre ai danni del giudice palermitano. Già da un anno i Ros si stanno interessando di mafia- appalti, in seguito a una “soffiata” ricevuta dai carabinieri che indagano sull’omicidio di un allevatore in un comune delle Madonie. Le successive indagini svelano – come già descritto dettagliatamente nelle puntate precedenti de Il Dubbio ( edizioni del 3, 4, 8 e 9 maggio) – che Cosa nostra non ha più un atteggiamento parassitario ( imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali) ma, come spiega Giovanni Falcone, durante un convegno organizzato dall’Alto commissario antimafia, nella primavera del 1990, «indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici». Ma ritorniamo al 1989. È il 21 giugno quando cinquantotto candelotti di dinamite vengono rinvenuti sulla scogliera ai piedi della villa all’Addaura: assieme a Falcone avrebbero potuto eliminare anche Carla Del Ponte, allora procuratrice a Lugano, e il collega giudice istruttore Claudio Lehmann, che indagavano sul sistema di riciclaggio internazionale di Cosa nostra. Poche settimane prima giunsero continue lettere diffamatorie nei confronti soprattutto di Falcone e inviate a vari rappresentanti delle istituzioni. Verso la fine di maggio del 1989, Salvatore Contorno, noto collaboratore di giustizia, trasferitosi da tempo negli Usa dopo la celebrazione del primo maxiprocesso, veniva arrestato in Sicilia in una operazione finalizzata alla cattura del latitante Gaetano Grado in una villetta di S. Nicola l’Arena. Pochi giorni dopo venivano indirizzate a varie autorità una serie di missive anonime scritte a macchina, note come le lettere del “Corvo”, che contenevano gravissime accuse nei confronti di vari magistrati e appartenenti alla polizia, tra cui innanzitutto Falcone e Giovanni De Gennaro, poi diventato vicedirettore della Dia, accusati di avere ordito un diabolico piano per contrastare la fazione corleonese di Cosa nostra attraverso il ritorno in Sicilia di Salvatore Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano e per guidare la vendetta delle cosche perdenti con una serie di omicidi. Si mette in diretta correlazione il rientro di Contorno con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati nel territorio di Bagheria, tra il marzo ed il maggio del 1989, ai danni di persone legate alle cosche mafiose vincenti dei corleonesi. Le accuse, ovviamente, si sono rivelate assolutamente calunniose anche nel contesto delle indagini svolte per individuare l’autore delle lettere e che le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia successivamente acquisite hanno concordemente attribuito la responsabilità degli omicidi indicati negli anonimi al gruppo corleonese escludendo la responsabilità di Salvatore Contorno. Verrà accusato ingiustamente il magistrato Alberto Di Pisa, all’epoca sostituto procuratore a Palermo, che ha subito un travagliato processo a seguito delle indagini avviate dall’Ufficio dell’Alto Commissario che lo avevano indicato come autore delle lettere e che, comunque, dopo essere stato condannato dal Tribunale di Caltanissetta, è stato poi definitivamente assolto dalla Corte di Appello di Caltanissetta. Dalla sentenza però emerge chiaramente come le calunniose accuse rivolte a Falcone provengano da un ambito istituzionale e come si pongano in strettissima correlazione logica e cronologica con l’attentato fallito dell’Addaura. Al riguardo, lo stesso generale Mario Mori ha riferito nel suo esame dibattimentale ( udienza del 7 febbraio 2000) che aveva concordato con Falcone nel ritenere che le lettere del “Corvo”, rappresentassero un “atto di delegittimazione di personaggi delle Istituzioni particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata” e che nella prassi mafiosa le manovre di isolamento e delegittimazione fossero spesso il primo passo per giungere, “all’annientamento” di chi si contrapponeva ai programmi della organizzazione mafiosa. Tutti questi elementi fanno pensare, a detta di chi scrive, che le lettere del “Corvo” siano state scritte nel consapevole intento di preparare il terreno per l’imminente tentativo di eliminazione fisica di Falcone. Piano poi purtroppo riuscito quel maledetto 23 maggio del 1992. Un altro anno particolare, altro spartiacque della storia del nostro Paese dove spuntò fuori l’ennesima lettera anonima. 

E la lettera del “Corvo 2” spuntò tra le stragi di Capaci e via D’Amelio. Una lettera di otto pagine dattiloscritte fu indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino, scrive Damiano Aliprandi il 17 Maggio 2018, su "Il Dubbio". L’anno 1992, come il 1989, è stato l’ennesimo spartiacque nel mondo intero. Negli Stati Uniti inizia l’era – poi finita tra pepate polemiche – del democratico Bill Clinton. È uno spartiacque in Europa, dove entra tragicamente nel vivo il conflitto che dilanierà la Penisola Balcanica e che si concluderà nel 1995. Perfino il cinema non sarà più lo stesso. Nel 1992 verrà presentato prima al Sundance poi a Cannes, l’opera d’esordio di uno stralunato cinefilo di Knoxville – ex impiegato di una videoteca – chiamato Quentin Tarantino. Reservoir Dogs, nell’ottobre dello stesso anno, viene rilasciato anche da noi col titolo Cani da rapina: non lo vedrà praticamente nessuno. Quando poi la distribuzione opta per il titolo che oggi tutti conosciamo – Le iene – anche il nostro pubblico si desta e comprende che da lì in poi il cinema non sarà più lo stesso. Ma il 1992 è stato l’annus horribilis della Repubblica italiana. Un vero e proprio terremoto si abbatte nel nostro Paese, dove sotto le bombe della mafia esplode Tangentopoli. Crolla l’impero delle luci e del benessere dalle mille contraddizioni della Prima Repubblica, si dimette il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e si apre la strada per la discesa in campo di un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, che due anni dopo sarà eletto. Ma è l’anno, appunto, della mafia corleonese che teme di essere annientata, e cioè teme che sia intaccata la sua potenza economica, che si fonda non solo sul traffico di droga, ma sulla gestione degli appalti con la connivenza di alcuni imprenditori e politici anche di rilievo nazionale. Un mafia che compie le stragi con il tritolo, uccidendo prima Falcone e dopo Borsellino. Ma ci fu anche l’omicidio di Salvo Lima (capo degli andreottiani in Sicilia), e non fu un caso isolato: il giorno prima a Castellammare di Stabia viene ucciso Sebastiano Corrado, un consigliere comunale del Pds e qualche giorno dopo cinque pallottole calibro 45 uccidono Salvatore Gaglio, 50 anni, segretario della Federazione del Psi di Bruxelles. La seconda lettera anonima, giornalisticamente chiamata “Corvo 2” apparve al cavallo tra la strage di Capaci e via D’Amelio. I Ros, in quel convulso periodo, cercavano chi gli consentisse di lavorare efficacemente, mentre l’organismo di punta della magistratura nella lotta contro l’organizzazione mafiosa, la procura della Repubblica di Palermo, era quasi all’impotenza operativa, preda al suo interno di forti contrasti: un “covo di vipere” secondo il parere espresso da Borsellino, nel giugno 1992, ai colleghi Camassa e Russo. Affermazione che non costituiva solo lo sfogo isolato di una persona delusa, visto che in quell’estate, tra i magistrati della Procura di Palermo, si manifestarono aspre polemiche culminate in un documento, reso pubblico e sottoscritto da un numero significativo di sostituti, che evidenziava una forte contestazione nei confronti dell’allora procuratore capo Giammanco in relazione alla gestione dell’Ufficio. Una lettera anonima che spunta in questo periodo particolare, quando Borsellino riteneva che potesse esserci un legame diretto tra l’attentato di Capaci e la più recente attività di Falcone; e pensava che la continuazione dell’indagine mafia- appalti, che i Ros avevano iniziato con Falcone, avrebbe comunque rappresentato un salto di qualità nel contrasto a Cosa nostra. Parliamo di una lettera di otto pagine dattiloscritte indirizzata a trentanove tra personalità di livello nazionale, tra cui lo stesso Borsellino. Otto pagine che ricostruiscono uno scenario siciliano, che indicano piste investigative, che invitano a seguire con più attenzione certi indizi, che gettano ombre su alcuni uomini importanti. Una lettera che fa tremare Palermo e i palazzi romani. Questa volta si firma con un “noi”. L’hanno messa in circuito fra il 22 e il 23 di giugno, per una decina di giorni solo sussurri e bisbigli. Poi, improvvisamente, un giornale, La Sicilia di Catania, decide di pubblicare ampi stralci di quell’anonimo. Le otto pagine sono diventate un ‘ caso’, tanto da far scaturire un’interrogazione parlamentare da parte del senatore Lucio Libertini di Rifondazione Comunista. Gli anonimi del “Corvo 2” riportano il tentativo della Dc di rinnovare il partito liberandosi di Andreotti. In particolare facevano riferimento esplicito all’attività degli onorevoli Sergio Mattarella e Calogero Mannino volta a scalzare il potentato politico detenuto in Sicilia da Giulio Andreotti, attraverso l’onorevole Salvo Lima, in vista delle elezioni politiche del 5 e 6 di aprile di quell’anno. Entrando nei particolari l’anonimo descriveva, tra gli altri, anche di un incontro, facilitato dal professionista palermitano Pietro Di Miceli, che sarebbe avvenuto in una chiesa di San Giuseppe Iato, tra Mannino e Salvatore Riina nel corso del quale gli accordi raggiunti avrebbero anche previsto l’eliminazione fisica dell’onorevole Lima. I conseguenti sviluppi dell’intesa avrebbero poi determinato, in successione di tempo, anche l’assassinio di Falcone. Una lettera, insomma, che – come fu per quella precedente che infangò Falcone e persone dello Stato a lui vicine -, fa accuse pesantissime, a tratti deliranti. Tanto da sostenere che Totò Riina si sarebbe messo d’accordo per farsi arrestare in cambio di alcuni punti da rispettare. Ricorda qualcosa? Sì, sembra il prototipo del teorema giudiziario sulla presunta trattativa stato- mafia che si basa, appunto, su un papello (inattendibile quanto la lettera anonima) con diversi punti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare. Ma come accade in tutte quelle lettere dove dietro c’è la mano di qualcuno che vuole depistare, c’è un mix di qualche notizia vera, di pubblico dominio, insieme ad altre verosimili e ad altre visibilmente surreali. Ad esempio – noti- zia vera – viene citato mafia- appalti, comprese alcune aziende coinvolte, facendo riferimento ai magistrati di Palermo che, di fronte a un informativa di 900 pagine, si sono limitati ad arrestare persone di basso profilo. Ma – c’è da dire – questa era roba nota visto che montò una polemica pubblica su quell’episodio. Chi è stato l’autore della lettera? La serie di considerazioni e notizie di dettaglio riportate nel testo attribuito al “Corvo 2”, vennero esaminate dagli organismi delegati alle indagini che, in data 2 febbraio 1993, trasmisero, a firma del questore Achille Serra e del generale Antonio Subranni, l’informativa n. 123G/ 628271/ 100B protocollo del Servizio centrale operativo e n. 10102/ 14 protocollo Ros. Il documento prendeva in esame dettagliatamente gli sviluppi della vicenda, nel cui ambito anche il generale Mario Mori fece una personale attività d’indagine, ricostruendone gli antefatti e individuando l’estensore dell’anonimo, ma solo come dato probabilistico, in tale Angelo Sciortino, le cui affermazioni avevano trovato “elementi di notevole somiglianza” nel contenuto dell’anonimo stesso, con quello riferito da una fonte informativa del Sisde, denominata “Spada“, e da altre risultanze testimoniali acquisite. Il Sisde però non comunicò mai il nome della sua fonte. Quello che sappiamo è che le inchieste delle procure di Caltanissetta e Palermo non portarono all’accertamento e all’attribuzione di specifiche responsabilità. Le rivelazioni anonime, però, hanno avuto il potere di distogliere per un po’ di tempo le energie giudiziarie e di polizia dalla caccia agli autori della strage di Capaci. Il dato certo, come documentato da questa inchiesta de Il Dubbio, è che negli ultimi giorni di vita, Borsellino era impegnato con tutte le sue forze a individuare mandanti ed esecutori della strage di Capaci e la sua attenzione particolare era rivolta all’inchiesta mafiaappalti, a suo tempo avviata da Giovanni Falcone, che lui riteneva l’indagine da sviluppare prioritariamente. A differenza di quanto sostenuto dai titolari dell’inchiesta sulla trattativa Stato– mafia, l’attività professionale di Borsellino era concentrata su quello, e nessun cenno, anche indiretto, egli aveva fatto a ipotesi di trattative o contatti tra istituzioni dello Stato e “Cosa nostra”.

Un pentito accusa la Procura di Palermo: «Così favorì la mafia». Il pentito Giuseppe Li Pera racconta perché la procura di Palermo non volle ascoltare la sua versione sull’inchiesta mafia-appalti, scrive Damiano Aliprandi il 23 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «I magistrati della Procura di Palermo non mi hanno voluto ascoltare sui fatti». A denunciarlo è Giuseppe Li Pera, allora capo area per la regione Sicilia della società Rizzani de Eccher, anch’essa coinvolta nell’inchiesta mafia- appalti, condotta dai Ros capitanati dal generale Mario Mori e seguita fin dall’inizio dal magistrato Giovanni Falcone, che la coordinò sino al giorno della sua morte. A distanza di 26 anni, ancora rimane un mistero la ragione per cui Giovanni Falcone fu ucciso. Così come il mistero rimane per le sorti di Paolo Borsellino che, prima di essere dilaniato dal tritolo, attendeva di avere in mano la delega per Palermo: in tale modo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Diverse sono le testimonianze che attestano il suo interessamento, a partire da quando, nell’incontro riservato con Mori e De Donno per parlare dell’inchiesta, ribadiva la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – testimoniò Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo». Ma ritorniamo a mafia- appalti. L’indagine dei Ros era nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che veniva informato delle indagini ancora prima che fosse redatto il dossier. Esattamente due furono le informative dei Ros che vennero consegnate a Falcone, ma anche a Lo Forte che era allora Sostituto Procuratore a Palermo: l’una datata 2 luglio 1990 e l’altra 5 agosto del 1990. Informative, soprattutto quella del 2 luglio, nelle quali erano contenuti espliciti riferimenti ad asserite cointeressenze, di natura illecita, di interi gruppi politici oltre che riferimenti a singoli esponenti di rilievo nazionale. Quindi non solo Falcone, ma anche Borsellino e i successivi altri suoi colleghi che si sarebbero occupati delle sorti dell’inchiesta mafia- appalti, erano a conoscenza del contenuto della prima informativa di carattere generale, che fu depositata proprio dietro volere di Falcone, in attesa di altri approfondimenti soprattutto in merito alla posizione dell’ente regionale Sirap che gestiva i soldi per gli appalti. Fu infatti in un momento successivo che i Ros, solo nell’informativa “Caronte”, approfondirono la posizione della Sirap nell’ambito dei fatti dell’inchiesta. In seguito alla prima informativa, vennero emessi solamente cinque mandati di cattura rispetto ai 44 personaggi coinvolti. Ed è in questo momento che si inserisce il geometra Li Pera, uno dei coinvolti nei fatti dell’indagine, che decise di collaborare con la giustizia. Ma, a detta sua, non venne ascoltato dai magistrati di Palermo. In effetti, noi de Il Dubbio abbiamo potuto verificare la circostanza nel provvedimento di archiviazione del Gip Gilda Loforti del Tribunale di Caltanissetta, dove viene confermata la denuncia che Li Pera espose al Sostituto Procuratore Felice Lima. Tra le denunce, anche il fatto che i magistrati di Palermo avrebbero fatto pervenire il rapporto dei carabinieri del Ros su mafia- appalti nelle mani degli avvocati, ancora prima che scattasse il blitz. Accusa che anche lo stesso carabiniere dei Ros De Donno fece nei confronti dei magistrati. Scaturirono querele vicendevoli e nell’ordinanza del Gip Loforti, dove entrambe furono riunite e finirono per essere archiviate, si legge: «Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati». Un’ordinanza che getta ombre, addirittura sull’ipotesi che gli inquirenti possano essere stati coinvolti per denaro o ragioni d’amicizia. Ora Giuseppe Li Pera vuole rinnovare le sue obiezioni e ha scelto di rispondere alle nostre domande: occorre rammentare a questo proposito che egli già altre volte, davanti agli inquirenti, aveva lamentato che la Procura di Palermo avesse usato con lui una mano più pesante rispetto a quella adottata nei confronti del suo titolare e dei suoi dirigenti, seppur a fronte del fatto che la maggior parte dell’impianto accusatorio fosse composto da intercettazioni telefoniche. No, ma solo dopo alcuni mesi, quando ebbi la certezza che la Procura non voleva sentirmi. Dopo il mio arresto avevo studiato le carte in mio possesso ed avevo deciso di mettere alla prova la buona fede dei Pm. Io partivo dall’assunto che era assurdo che i Pm avessero potuto separare la mia posizione da quello del mio titolare e dei miei dirigenti, e al primo interrogatorio di garanzia avevo predisposto una trappola. In quell’interrogatorio avevo citato la parola chiave “PASS”, che è il meccanismo della illecita spartizione degli appalti, e dissi a me stesso, se mi chiedono che cosa vuol dire il sistema dei PASS, chi e perché si usa, vuol dire che non hanno capito di cosa parla il Dossier dei Ros e quindi mi sarei messo a disposizione per chiarire tutto, se invece non mi chiedono cosa vuol dire PASS, significa che hanno fatto una scelta politica di proteggere i potenti sia essi imprenditori che politici e far volare solo gli stracci. Quando poi per due volte si rifiutarono di sentirmi ebbi la certezza che la loro decisione era irrevocabile.

Nel 1992 venne sentito dal Pm Felice Lima di Catania? Perché? Aveva fatto già qualche denuncia in quell’occasione?

«No. Feci mandare un esposto anonimo. Ricordo che di primo acchito il Pm Lima non era convinto della bontà delle mie affermazioni, cosicché io gli dissi “dottor Lima non si preoccupi, se lei non trova le prove di quanto io dico, ed io le dico quali prove cercare e dove cercarle, amici come prima”. Il dottor. Lima, ovviamente trovò tutte le prove necessarie, non solo, chiese anche l’arresto di 22/ 23 persone tra cui, se la memoria non mi inganna, anche di due Pm di Palermo, solo che l’allora Procuratore Capo di Catania gli levò la delega e lo mandò, da brillante Pm antimafia ad occuparsi di divorzi».

Lei fece una denuncia per corruzione in atti giudiziari nei confronti di quattro magistrati, uno tra i quali fu il Procuratore Giammanco. Ne scaturì un’indagine? È a conoscenza di quanto emerse in seguito?

«Certo, io ho sempre sostenuto e ne sono sempre più convinto che i Pm di Palermo decisero a tavolino chi processare e chi salvare. Per me neanche un chirurgo avrebbe potuto separare la mia posizione da quella del mio titolare e dei miei dirigenti. Ovviamente quando si ufficializzò la mia collaborazione con la Procura di Catania, i Pm di Palermo si scatenarono contro. Le potrei fare decine di esempi, ma gliene cito uno solo. I Pm di Palermo avevano chiesto in dodici diversi interrogatori a Leonardo Messina, dell’operazione “LEOPARDO”, se mi conosceva, e lui per ben dodici interrogatori affermò di non avermi mai visto, finchè qualche giorno dopo l’ufficializzazione della mia collaborazione con il dottor Lima, improvvisamente il Messina è folgorato sulla via di Damasco e dice testualmente: “Lo conosco e sono andato con lui a portare una tangente di 100 milioni di lire al capo mafia di Pietraperzia, ( ovviamente morto), per il lotto dell’autostrada per Pietraperzia, vinto dalla Rizzani de Eccher”. Va innanzitutto detto che non esiste un’autostrada per Pietraperzia, ma uno scorrimento veloce Caltanissetta – Gela ed era previsto uno svincolo per Pietraperzia. Ricordo che all’epoca dei fatti io ero il capocommessa più anziano in Sicilia della Rizzani de Eccher. Bene il signor Messina alla domanda del mio legale, il compianto avvocato Pietro Milio, che gli chiese in che anno avvenne questa dazione di denaro rispose a dicembre 1991. “Ma a dicembre 1991 il geometra Li Pera era già arrestato”, ribatté Milio. Rispose che allora è stato nel 1990. Ma quella gara non venne esperita che a giugno/ luglio 1991, quindi a che titolo si andava a pagare una tangente per un lavoro non ancora aggiudicato? Ma la cosa più umoristica è che la Rizzani de Eccher a giugno/ luglio si aggiudicò un lotto della Caltanissetta – Gela a 60 Km dallo svicolo di Pietraperzia. Chiaro che il tutto era stato imboccato al Messina con molta superficialità. Per rispondere, infine, alla sua domanda, sì in effetti ci furono due indagini, la prima fu archiviata e poi fu riaperta a seguito della denuncia dell’allora Capitano De Donno. La Gip dottoressa Gilda Loforti archiviò l’indagine dopo alcuni anni, ma la frase più gentile che usò nei riguardi dei suoi colleghi di Palermo fu “hanno indagato su se stessi e si sono autoassolti”».

In questi giorni ricorre l’anniversario della strage di Capaci. Una ventina di anni fa lei fu ascoltato dagli inquirenti e in un’occasione manifestò delle perplessità sulla dinamica, relativamente alla preparazione della strage, così come era stata riferita da Giovanni Brusca. A che titolo venne sentito dagli inquirenti?

«Volevano sapere se durante il periodo della mia detenzione avevo sentito notizie relative all’attentato, la mia risposta fu negativa».

Cosa non la convinceva nella dinamica della strage di Capaci, al punto da manifestare le sue perplessità pur a fronte alle ricostruzioni di Giovanni Brusca?

«Premetto che sono un discreto esperto di dinamite, avendo lavorato per tanti anni in Italia ed all’estero in cantieri in cui si utilizzava la dinamite per lo scavo di gallerie, di trincee, per l’apertura di cave etc., per cui posso tecnicamente affermare che quanto dichiarato da Brusca Giovanni, circa la preparazione dell’attentato, a mio modesto avviso, non è convincente».

Alla luce del suo coinvolgimento nella vicenda e sulla base delle sue conoscenze dei fatti e dello sviluppo dell’inchiesta mafia- appalti, conosce un qualche legame tra l’uccisione di Giovanni Falcone e la circostanza che stesse conducendo l’inchiesta e che volesse portarla in fondo?

«Io sono convinto che l’indagine su mafia- appalti non sia il vero motivo della strage “Falcone”, ci deve essere qualcosa di più grave e di più devastante per la vita della Repubblica Italiana. Le rivelo un particolare che pochi sanno. Il compianto avvocato. Pietro Milio stava scrivendo un libro, che purtroppo fu pubblicato dopo la sua morte con il titolo “Giustizia Assistita”. Bene, io ebbi l’occasione di visionare le prime bozze ed io collaborai anche alla stesura di un capitolo, quello relativo alla strage di Capaci, dove contestai pezzo per pezzo le affermazioni di Giovanni Brusca, grande fu la mia sorpresa nel vedere che nel libro pubblicato questo capitolo era sparito. Come era sparito il capitolo dove Milio si chiedeva cosa era venuta a fare l’Fbi, le sue testuali parole erano “l’Fbi è venuta a cercare le prove o è venuta a cancellarle?”»

Che lei sappia, con riguardo alla strage di Capaci, qualche potere, politico o giudiziario, poteva sapere o aver agito in favore della Mafia, anche inconsapevolmente, considerati gli interessi economici e politici in gioco?

«Io sono sempre stato convinto, e lo era anche il compianto avvocato Pietro Milio, che il ruolo della mafia in questa strage sia stata solo quella di esecutore, ma i mandanti sono altri. Lui parlava spesso di un collegamento tra la strage di Capaci, l’attentato al giudice Palermo, che trent’anni fa costò la vita ad una mamma ed ai suoi due gemellini, ed al fallito attentato dell’Addaura».

Scarpinato: «Non ci diranno mai cosa c’è dietro le stragi». Le parole del procuratore generale di Palermo, scrive Damiano Aliprandi il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  «È inquietante che ci sono tante, troppe cose, e quello che ancora più inquietante è che ci sono tante persone che sanno e che continuano a tacere. Perché?», ha detto il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato durante un incontro organizzato in occasione delle commemorazioni per ricordare i magistrati uccisi dalla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi fa i nomi. «I Graviano, ad esempio, hanno ancora 50 anni e potrebbero rifarsi una vita, eppure stanno in silenzio. C’è una storia inquietante anche da questo punto di vista». Eppure, non è del tutto vero. Anzi, adesso il silenzio è stato imposto dai pm antimafia. Il caso vuole che lo scorso 12 dicembre, Fiammetta Borsellino – figlia minore del giudice assassinato nell’eccidio di via D’Amelio, il 19 luglio ’ 92 – è andata a fare un colloquio con i fratelli Graviano al 41 bis, nei due penitenziari di massima sicurezza. Qualcosa le hanno detto. Giuseppe Graviano ha fatto un piccolo accenno a Berlusconi è di quando faceva la bella vita a Milano. «Lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi – ha lanciato lì a sorpresa – più che io era mio cugino che lo frequentava». Ma finisce lì, nessun riferimento alle stragi come forse altri ben speravano. Infatti la stessa Fiammetta non era minimamente interessata e ha cambiato discorso, perché quello che le premeva è la verità sull’omicidio di suo padre. A quel punto – grazie a un articolo del Corriere della Sera a firma di Giovanni Bianconi – veniamo a sapere cosa le rispose: «Lei ha fiducia della magistratura attuale? Come mai non hanno scoperto ancora chi ha ucciso la buonanima di suo papà?». Fino a diventare quasi aggressivo: «A nessuno interessa far emergere la verità della morte di suo padre, sono due cose distinte con la morte di Giovanni Falcone… A lei non interessa sapere chi ha ucciso suo papà… se qualcuno non era amico di suo papà… meglio morire e non far emergere la verità». Ma non solo, il fratello più grande, Filippo, dopo averle detto di essere estraneo alle stragi, dopo varie insistenze a dire la verità, le ha detto: «Io una volta ho detto ai magistrati “se dovessi dire la verità sulla mia vita passata… voi mi rimandereste in cella come per dire ci sta facendo perdere tempo”». I Graviano, quindi, hanno cominciato a parlare, dicendo qualcosa di diverso rispetto alla narrazione vigente. Cosa è accaduto? Le Procure antimafia di Palermo, Caltanissetta e Firenze, hanno detto «no» alla possibilità di un nuovo incontro tra Fiammetta Borsellino e Filippo Graviano, perché potrebbero essere possibili depistaggi. Ritornando alle affermazioni di Scarpinato, quindi no, i Graviano si stavano piano piano confidando con la figlia di Borsellino e i magistrati antimafia stessi hanno deciso che si tratta di depistaggio. Eppure, non si spiega come mai sono state usate per il processo sulla presunta trattativa Stato- mafia le intercettazioni ambientali fatte a Graviano, quando sapeva benissimo – anche in quel caso – di essere ascoltato. Fiammetta Borsellino, che ha appreso in via ufficiosa del no delle procure antimafia, ha lasciato questa dichiarazione: «Hanno ignorato la mia richiesta di un altro incontro e questa è la cosa peggiore che si possa fare». Sempre Scarpinato, durante il suo intervento, ripercorre anche altre tappe dolorose della storia d’Italia citando la strage di Portella della Ginestra del 1947 e di quella di Bologna, parlando, appunto, dei vari depistaggi messi in atto. Da lì, cita dei possibili documenti spariti e della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino e di possibili infiltrati nella Polizia. Da notare che, questa volta, non cita i Ros che pure li ha inquisiti, ma soltanto la polizia. Ma non cita nemmeno le preoccupazioni di Borsellino nei confronti di alcuni suoi colleghi e il suo interessamento su mafia- appalti, tanto da discuterne riservatamente con i Ros in una caserma, anziché in procura. Poi Scarpinato parla di Falcone e il fatto che sia stato ostacolato tanto da andarsene via da Palermo – a causa del suo interessamento dell’omicidio dell’allora presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, fratello del Capo dello Stato, Sergio. Vero, era interessato, anche perché Falcone era Procuratore aggiunto. Però Scarpinato si è dimenticato di dire che quelli erano gli stessi anni in cui Falcone seguiva attentamente l’inchiesta dei Ros su mafia- appalti che avrebbe colpito il cuore di Cosa nostra: ovvero i soldi derivati dalla gestione degli appalti, anche di rilievo nazionale, con l’ausilio anche di politici importanti. Inchiesta giudiziaria che come sappiamo fu poi archiviata definitivamente il 14 agosto del 1992, meno di un mese dalla morte di Borsellino. Quando quest’ultimo era ancora in vita, a chiederne l’archiviazione è stato lo stesso Scarpinato assieme al collega Lo Forte.

Lei però dica perché ha archiviato mafia- appalti (Se non è vero, smentisca). Scarpinato ha firmato la richiesta? Scrive Piero Sansonetti il 22 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Il Procuratore generale Scarpinato, come sempre, pone dei problemi molto seri, che sarebbe sbagliato nascondere. Nella storia d’Italia ci sono dei buchi neri che riguardano le stragi rimaste senza colpevoli, e riguardano anche i rapporti che organizzazioni criminali come la mafia hanno avuto con l’economia. Sappiamo poco di questi argomenti. Naturalmente la storia d’Italia non è solo questo. Come spiega molto bene il dottor Peppino Di Lello nel suo intervento che raccontiamo ampiamente su questo numero del giornale, la storia d’Italia è fatta soprattutto di lotte, di movimenti, di conflitti, di battaglie parlamentari, di impegni dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari. Servono nuove indagini per capire cosa c’è dentro i buchi neri? Può darsi. Purché si facciano seriamente e sulla base di fatti reali e accertati, non di fantasie, di ipotesi letterarie e illogiche. Oppure di tesi politiche confezionate a tavolino per colpire qualche avversario. Cosa è successo davvero nel ’ 92 e nel ’ 93 quando furono uccisi Falcone e Borsellino e quando poi la mafia organizzò varie stragi nella Penisola? E perché furono uccisi Falcone e Borsellino? In questi giorni noi abbiamo pubblicato una ricostruzione di ciò che successe in quei mesi insanguinati. E soprattutto ci siamo occupati del dossier “mafia e appalti”, preparato dal generale Mori, sul quale lavorò Falcone e avrebbe poi voluto lavorare Borsellino. Che non fece in tempo. Perché fu ucciso. Quel dossier, fu archiviato pochi giorni dopo la morte di Borsellino. La sua archiviazione era stata chiesta pochi giorni prima della morte di Borsellino dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato. Perché? Fu un errore molto grave. Archiviando quelle indagini, alle quali Falcone teneva moltissimo, fu buttato a mare un pezzo molto importante dell’impegno antimafia dello Stato italiano. Oggi il dottor Scarpinato può dirci perché chiese quella archiviazione? Può spiegarci se ricevette pressioni? E perché il dossier non arrivò mai a Borsellino? Nessuno dubita della buonafede di Scarpinato, neppure lontanamente, ma se lui stesso sollecita trasparenza sarebbe giusto innanzitutto che fosse lui stesso a offrire trasparenza, no? Se invece non è stato lui a firmare la richiesta di archiviazione, allora temo che mi prenderò una querela. Ma a me risulta che fu lui a firmare.

 “Oltre la trattativa” di Vincenzo Zurlo: le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie, scrive Massimo Martini su "Magazine sicurezza" il 23/08/2017. “Quello che leggerete nelle prossime pagine è molto più di un libro: è un’opera di verità. Un’opera coraggiosa perché si incarica di risalire controcorrente un fiume dove sono passati e continuano a scorrere, perché con la forza dei fatti supera le rapide insidiose dell’omologazione, perché con il rigore della ricostruzione storica non teme di infrangersi nelle rocce a pelo d’acqua della delegittimazione”. Così si apre la prefazione di Giorgio Mulè, direttore di Panorama, al libro di Vincenzo Zurlo “Oltre la trattativa -Le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie”. Come un attento timoniere, in rotta verso la verità in un mare di atti giudiziari, Zurlo, come sottolinea Mulè riesce a non essere “risucchiato dai mulinelli più pericolosi intorno ai fatti di mafia e dell’antimafia: la distorsione della realtà”. Sì, perché da quel lontano 1992, che strappò alla vita e alla lotta contro il Male nazionale, la mafia, prima Falcone e poi Borsellino, le acque hanno fatto in tempo a intorbidirsi, la verità a esser contesa tra i venti di una narrazione più necessaria che aderente alla realtà dei fatti. “E’ alla fine degli anni ’80 che bisogna iniziare il viaggio” scrive ancora Mulè “per comprendere quello che accadrà nell’estate del 1992. E’ necessario iniziare da giovedì 21 settembre 1989 quando Giovanni Falcone interroga l’ex sindaco di Baucina, un piccolo paese in provincia di Palermo. Si chiama Giuseppe Giaccone, uno stimato professore universitario di algologia con un passato da sacerdote: è un democristiano e quando si presenta a Falcone è un uomo terrorizzato.” Cosa teme l’ex sindaco Giaccone? Perché si reca risoluto dai carabinieri di Palermo della Caserma Carini, lì dove gestisce le operazioni un “signor” colonnello Mario Mori? Le sue rivelazioni, “l’alpha della tangentopoli italiana”: i meccanismi opachi che costeggiano l’aggiudicazione degli appalti pubblici, daranno vita a uno straordinario lavoro, condotto da Giovanni Falcone con il contributo di Mori e De Donno. Da quel fascicolo ripartirà, dopo la strage di Capaci, Borsellino, trovando a sua volta la morte. Mulè, cronista di “nera” del giornale di Sicilia ai tempi delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ricorda come l’informativa mafia-appalti, redatta da Mori e De Donno, venne colpevolmente tralasciata sin dall’inizio, par far strada alla presunta trattativa stato-mafia, al centro del “processo del secolo”, in corso a Palermo. Il direttore di Panorama non esita a definirlo, con Zurlo: una farsa, concludendo con logica disarmante e fiducia nel futuro: “L’autore non ha la necessità di assumere l’onere della difesa, paradossalmente è l’accusa la sua migliore arma: perché non solo è contraddittoria e illogica, ma surreale. La storia dirà che il processo show e il processo “farsa” si riveleranno per quel che sono: un’impostura. E insieme il più grande affronto agli eroi dell’antimafia, a coloro che sono stati uccisi e a quelli sopravvissuti ai quali però è toccato vivere il tempo lurido dell’infamia”.

"Quell'indagine su mafia e appalti". La strage Borsellino e il movente. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci è stato audito dalla commissione Antimafia, scrive il 3 luglio 2017 "Live Sicilia". "Il discorso mafia-appalti inizia nel 1989 e vede quel famoso rapporto che l'allora colonnello Mori e il capitano De Donno depositano, se non sbaglio nel febbraio del 1991, e che consegnano a Giovanni Falcone. Ma Giovanni Falcone il giorno dopo o qualche giorno dopo migra per Roma. Quel rapporto contiene, nei suoi allegati, elementi molto circostanziati che riguardano non solo la tangentopoli siciliana, che però rispetto alla tangentopoli milanese ha il problema che l'altra gamba del tavolino è rappresentata da Cosa nostra, ma contiene anche degli elementi che riguardano proprio il dottore Giammanco". A parlare della pista del rapporto mafia-appalti come possibile movente della strage in cui morì il giudice Paolo Borsellino è il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, audito dalla commissione Antimafia. Il resoconto è stato depositato nei giorni scorsi. "Allora, di quel rapporto Paolo Borsellino chiederà copia quando si trova ancora a Marsala, quando è ancora procuratore della Repubblica di Marsala. - prosegue Paci - Altro dato che emerge inquietante è che, spesso ci siamo soffermati a pensare a quest'aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest'attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D'Amico, i capi famiglia della famiglia di Marsala. Muoiono perché si dice si oppongano all'eliminazione di Paolo Borsellino a Marsala". "Che cosa ha fatto Paolo Borsellino nel 1991 di particolare? - si chiede il magistrato - Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato i nostri approfondimenti? Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto tra mafia e appalti, di tutto quello che è collegato a mafia e appalti. Non viene a conoscenza del fatto solamente che c'è un'appendice del rapporto tra mafia e appalti a Pantelleria. Evidentemente, viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano la De Eccher, il rapporto con imprenditori del nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l'amministratore della società, comunque legato mani e piedi al potere politico romano". (ANSA).

"Borsellino avrebbe voluto arrestare Giammanco", scrive Martedì 22 Febbraio 2011 "Live Sicilia". I rapporti tra Borsellino e l'allora procuratore Piero Giammanco erano talmente tesi che una volta il giudice poi ucciso in via D'Amelio, arrabbiato, disse in modo provocatorio che se avesse potuto lo avrebbe arrestato. A dirlo è il tenente Carmelo Canale, per anni braccio destro del magistrato assassinato che lo volle con se a Palermo, sentito oggi come testimone della difesa al processo per favoreggiamento aggravato al generale dei carabinieri Mario Mori. "Un giorno vidi Borsellino scrivere convulsamente sulla sua agenda rossa. Non so cosa stesse appuntando, ma mi disse, arrabbiatissimo, che ce n'era per tutti e che era finito il tempo di scherzare, ma bisognava scrivere". Canale ha ricordato l'episodio, avvenuto una settimana prima della strage di via D'Amelio. Il teste, che fino a pochi momenti prima che il giudice scrivesse sulla sua agenda, poi sparita dopo l'attentato, aveva scherzato con Borsellino, ha proseguito: "Non mi disse cosa era accaduto nel frattempo e perché fosse così adirato. So solo che il suo cruccio in quel momento era l'omicidio di Giovanni Falcone e che su quella vicenda c'erano fatti che solo lui conosceva e sui quali non fu mai sentito a Caltanissetta". Canale ha ricordato anche un altro episodio in cui vide il giudice molto arrabbiato. "Fu quando - ha spiegato - seppe che l'allora procuratore Giammanco voleva andare al funerale di Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del '92. Un omicidio che lui riteneva non di mafia, ma che per Falcone era invece un fatto di enorme peso in Cosa nostra''. "Mi disse - ha aggiunto - anche forzando un po' i toni che avrebbe voluto arrestare Giammanco". Canale ha poi dato un giudizio molto negativo sul colonnello dei carabinieri Michele Riccio, grande accusatore di Mori. "Lo incontrai - ha spiegato - perché sosteneva di avere una cassetta registrata con le dichiarazioni di un suo maresciallo sulla morte di mio cognato (il maresciallo Lombardo suicidatosi in caserma in circostanze mai chiarite ndr). Ma quella cassetta non me la diede mai, mi parlò solo di affari suoi e l'unica cosa certa era che ce l'aveva a morte con Mori". Il processo è stato rinviato all'8 marzo per sentire un altro teste della difesa, l'ex capitano del Ros e braccio destro di Mori, Giuseppe De Donno. Nel corso della mattina, Canale aveva parlato invece dei rapporti tra i Ros e il giudice assassinato in via D'Amelio: “Tra il Ros del generale Subranni e del colonnello Mori e il procuratore Borsellino - ha detto Canale - c’erano ottimi rapporti. Mai Borsellino mi riferì giudizi critici su Mori”. Canale, dopo una lunga vicissitudine processuale, è stato assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, che gli ha comportato 5 anni di sospensione dall’Arma, e reintegrato in servizio col grado di tenente colonnello. Per lungo tempo braccio destro del giudice Paolo Borsellino il teste ha ripercorso in aula, davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo, la sua carriera. A riprova della bontà delle relazioni tra l’imputato e Borsellino e più in generale tra il Ros e il magistrato, Canale riferisce di due cene a cui il giudice ed altri magistrati parteciparono insieme ad ufficiali del raggruppamento. “Organizzammo una cena a Terrasini tra ufficiali del Ros, tra i quali c’era anche l’allora Maggiore Obinu (coimputato insieme a Mori ndr) – ha aggiunto – e alcuni magistrati come Borsellino, Lo Voi e Natoli. Al termine della cena Borsellino tenne un discorso che finì con questa frase: “questa è la cena delle persone oneste”. Poi Canale ha raccontato di un altro incontro conviviale tra Mori e Subranni, rispettivamente vice e comandante del Ros, e Borsellino. “Avvenne – ha spiegato – nella sede del comando generale a Roma una settimana prima che Borsellino venisse ucciso. Poi andammo a Salerno in elicottero con Subranni”. (fonte: Ansa) 

Se ti querelano due magistrati antimafia, scrive Piero Sansonetti il 23 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Sono stato denunciato all’autorità giudiziaria, insieme al nostro Damiano Aliprandi, da due magistrati siciliani che ci accusano di diffamazione. Non so perché si sentano diffamati, conosco però gli articoli che Damiano ed io abbiamo scritto e per i quali ci vorrebbero mandare in carcere. Sono articoli che riguardano il famoso dossier chiamato “mafia e appalti” e al quale lavorò per diversi anni Giovanni Falcone insieme ad alcuni ufficiali dei carabinieri. Noi ci siamo limitati a raccontare cosa c’era scritto in questo dossier e a riportare notizie (tutte prese da atti giudiziari ufficiali, o da interviste con testimoni, nessuna ricevuta da fonti riservate) e poi a mettere in fila queste notizie, per cercare di capire se c’è ancora qualcosa da capire sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. I magistrati che si sono sentiti diffamati, e che ci hanno querelato (ora si aspetta che il Pm di Avezzano decida se chiedere o no il rinvio a giudizio) sono Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di Palermo, e Guido Lo Forte, ex Pm ora in pensione. Noi effettivamente avevamo chiesto, nelle pagine del “Dubbio”, a Scarpinato e a Lo Forte, perché nel luglio del 1992, proprio nei giorni di fuoco della morte di Paolo Borsellino, chiesero l’archiviazione di quel dossier, e la ottennero molto rapidamente. In un mio articolo ho usato il termine “insabbiato”, riferendomi a questa archiviazione, ma non penso che questo termine, giornalistico, abbia dato la sensazione che volessi accusare Scarpinato o Lo Forte di errore volontario, anche perché ho scritto più volte, e molto sinceramente e chiaramente, di essere convinto e certo della loro buonafede. Non conosco personalmente Scarpinato e Lo Forte, ma ricordo di averli seguiti, un quarto di secolo fa, proprio negli anni immediatamente precedenti e immediatamente successivi alle stragi mafiose, quando facevo il giornalista all’Unità e il mio giornale fu molto impegnato nelle vicende siciliane. Penso di loro – soprattutto di Scarpinato, che conosco meglio, anche per la sua attività pubblicistica – che spesso tendano a confondere le proprie idee politiche e il proprio impegno civile, lodevolissimo, con le prerogative del magistrato, che non ha il compito di moralizzare la società ma solamente quello di accertare e perseguire i reati. In questa vicenda però c’entrano poco le caratteristiche intellettuali e professionali dei due magistrati, e tantomeno il giudizio che io do su di loro. C’entra invece un problema gigantesco. Che ruota attorno a questa domanda: perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino (e in particolare Borsellino)? Ci sono due sentenze recenti, che danno risposte opposte. Le ha raccontate molto bene Damiano Aliprandi. La sentenza del processo cosiddetto stato- mafia, la quale immagina che Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto che alcuni apparati dello Stato trattavano con la mafia per indurla a sospendere la sua attività militare. Poi c’è la sentenza del processo Borsellino- quater (quello sul depistaggio compiuto da picciotti della mafia e uomini dello Stato che indagavano sull’uccisione di Borsellino), la quale invece avanza l’ipotesi che Borsellino fu ucciso perché voleva indagare ancora sul dossier mafia e appalti. Ciò che rende ancora più clamorosamente in urto tra loro le due sentenze è il fatto che il dossier mafia e appalti fu curato da due alti ufficiali dei Ros che si chiamano Mario Mori e Giuseppe De Donno, e che erano collaboratori stretti di Falcone. I quali, dunque, se si dà retta alla sentenza del Borsellino- quater, sono vittime. Se si dà retta invece alla sentenza di stato- mafia sono colpevoli, perché partecipi della trattativa. Trattativa con chi? Con Totò Riina, che curiosamente è il capomafia che poi fu arrestato proprio da Mori e De Donno, i quali, di conseguenza, avrebbero messo nel sacco la primula rossa con la quale trattavano. Circostanza abbastanza curiosa. Non è una questione di lana caprina, quella della quale ci occupiamo. Se è vero che Falcone teneva particolarmente a questo dossier, se è vero che Borsellino avrebbe voluto prenderlo in mano e svilupparlo, se è vero che questo dossier scoperchiava la realtà di un rapporto “intimo” tra la mafia e un pezzo assai consistente dell’imprenditoria italiana, beh, capite bene che c’è la possibilità di avere una idea su cosa successe tra gli anni ottanta e novanta in Sicilia (e ovviamente non solo in Sicilia) molto diversa da quella corrente. Per questo abbiamo chiesto ai due magistrati che ora ci querelano di spiegarci come mai quel dossier fu archiviato. Non era una domanda polemica: era una domanda domanda. Ho sempre pensato che il nostro lavoro, di noi giornalisti, consista essenzialmente in questa attività: vedere le cose, metterle in ordine, cercare di capire come sono connesse le une alle altre, e raccontarle ben bene ai lettori. Senza fermarsi davanti all’autorità. Né all’autorità politica né all’autorità giudiziaria. Probabilmente non tutti la pensano così. Forse ci sono alcuni magistrati che invece sono convinti che chi critica la loro opera si mette di fatto contro la legge. Ostacola la giustizia. E se è così, capite bene, anche per noi non è facile lavorare. Anche perché i magistrati sono potenti, molto più potenti dei politici… 

Hai ragione, Scarpinato, ma…, scrive Piero Sansonetti il 30 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Lettera al pg: Ho letto il discorso pronunciato dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, all’apertura dell’anno giudiziario. Scarpinato è un magistrato con una lunga storia, anche gloriosa, ha mosso i primi passi in magistratura come allievo di Falcone, nel pool antimafia. È una persona preparata, colta, non un improvvisatore. Il suo discorso era molto interessante e da me condiviso quasi al 100 per cento, salvo un particolare piccolo piccolo che ora dirò. Scarpinato ha denunciato con asprezza la crisi sociale ed economica che attanaglia la Sicilia e che la sta rovinando. La povertà è sempre più grande e profonda. Caro Scarpinato, hai ragione. La povertà è sempre più grande e profonda. I ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi. La Sicilia – dice Scarpinato – è la regione con le differenze sociali più forti di tutt’Italia e di tutt’Europa. Naturalmente è difficile in queste condizioni combattere la mafia. Perché la mafia prospera dove c’è più povertà, meno diritti, maggiori differenze di classe. Io, personalmente, non ho mai nascosto le mie simpatie per le idee della sinistra. Di conseguenza trovo giusta l’analisi di Scarpinato ( è una analisi di sinistra che spesso la sinistra politica non riesce a fare). Anche se poi non mi convince la seconda parte del suo discorso, quella nella quale snocciola tutte le cifre che dimostrano l’aumento della corruzione: provata dall’aumento dei procedimenti penali avviati. Già, ma non dalle condanne. Perché se invece consideriamo le condanne, allora la corruzione, in tutt’Italia, da qualche anno è in netta discesa, tanto che oggi l’Italia è giunta a un livello di corruzione inferiore alla media europea. Il punto è questo: a Scarpinato non interessano le condanne ma le denunce. Almeno, così mi pare di aver capito. Lui ritiene che il fenomeno sociale è testimoniato dalle denunce, e che la diminuzione delle condanne sia solo la spia di un cattivo funzionamento della giustizia e della burocrazia. Ecco, è qui il mio dissenso con la sua relazione. Trovo che seppure molto robusta dal punto di vista sociologico e politico, sia stata una relazione molto povera dal punto di vista del diritto e della giurisprudenza. E penso che invece un Procuratore generale dovrebbe occuparsi della giurisdizione, e non dell’amministrazione politica di una regione. La magistratura, io credo, non è chiamata a governare un paese e a renderlo socialmente e strutturalmente più giusto. E’ chiamata a giudicare i reati, a vedere se ci sono, e dove sono, e a condannare se ci sono e son provati, e sennò ad assolvere. Io capisco perfettamente la sofferenza di un magistrato, chiamato a indagare o a giudicare, e che nel corso del suo lavoro vede in modo nitido la grandiosità delle ingiustizie sociali, e sente di dovere di combatterle, di denunciare, di opporvisi, o di correggerle. Il problema è che non è stato chiamato in magistratura per questo, ma per altro. Se ritiene che il suo compito sia quello di lottare, fare battaglia politica e governare, benissimo: però deve lasciare il suo lavoro di magistrato. Voglio fare un esempio estremo, e forse non perfettamente pertinente, ma che rende l’idea: un chirurgo chiamato a operare al cuore un capo di governo che lui ritiene un pessimo capo di governo, che sta rovinando il paese, deve operare nel modo migliore possibile per salvargli la vita. Poi, la sera, quando non ha più il camice addosso, può organizzare una oceanica manifestazione contro di lui. Ma senza il bisturi. Purtroppo c’è una parte non grandissima ma vistosissima della magistratura che di questo mio ragionamento non vuol sentir parlare. È convinta di avere un compito molto più alto del compito, banale, di indagare, cercare le prove, giudicare con la massima oggettività. Il compito di salvare l’Italia dai malvagi e consegnarla ai giusti. E non è solo un pezzo di magistratura a vedere così le cose. C’è una fetta molto larga di intellettualità e di giornalismo. Domenica è uscito su Repubblica un editoriale di Liana Milella. La quale sosteneva che la legislatura si è conclusa con una netta vittoria della politica sulla magistratura. E si doleva di questa vittoria. Diceva che ormai la magistratura è fuorigioco, e che non ha più nessuna possibilità di condizionare le leggi, e che il parlamento va per conto suo e non rispetta più le esigenze della giustizia. Io penso che purtroppo non sia affatto vero. La legge che allunga la prescrizione è stata imposta dai magistrati ai politici. Le regole sulle intercettazioni restano tali da permettere all’Italia di essere il paese più intercettato del mondo (storicamente secondo solo alla Germania di Honecker) 100 volte più intercettato della Gran Bretagna (pur avendo un indice di criminalità molto inferiore a quello inglese). La legge (incostituzionale) che estende alla corruzione la legislazione antimafia (e i sequestri preventivi dei beni) l’ha voluta l’Anm, e l’ha avuta, così come ha voluto una legge saponetta sulla responsabilità civile dei magistrati e ha impedito che fosse presa in considerazione la separazione delle carriere. Ma quel che mi colpisce non è l’affermazione (discutibilissima) della Milella secondo la quale i magistrati sarebbero stati privati della possibilità di imporre le proprie leggi. Mi colpisce la chiarezza con la quale la Milella ci presenta il suo parere, secondo il quale, i magistrati, in tema di giustizia, dovrebbero disporre del potere legislativo. È questo il grande equivoco che sta provocando un corto circuito nella nostra democrazia fondata sulla divisione dei poteri. E’ l’equivoco secondo il quale i poteri, sì, sono tre, ma uno – quello giudiziario – è sovraordinato agli altri due, e li condiziona, e li dirige, e li punisce. E a questo equivoco la politica non si oppone, o si oppone troppo blandamente. Ed è il motivo per il quale la relazione di Scarpinato per certi versi mi affascina, per altri mi terrorizza.

Il “metodo Falcone”, scrive il 15 maggio 2018 su "La Repubblica" Attilio Bolzoni. Hanno lavorato con lui, fianco a fianco fin da quando ha iniziato ad ideare quel capolavoro d'ingegneria giudiziaria che è stato il maxi processo a Cosa Nostra. Con loro ce n'erano altri che non ci sono più - come Rocco Chinnici e i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà, o come Antonino Caponnetto e Antonio Manganelli - ma quelli che ritroverete qui lo possono raccontare ancora oggi. L'hanno incontrato tutti nel piccolo bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo, hanno visto nascere sulla sua scrivania le prime e più rilevanti indagini antimafia, hanno accompagnato per almeno un decennio la straordinaria avventura di un magistrato italiano. Dopo le celebrazioni fastose del venticinquesimo anniversario del 2017 per commemorare le vittime di Capaci e di via D'Amelio, un anno dopo vogliamo ricordare Giovanni Falcone attraverso voci che portano memoria diretta del giudice, del suo talento investigativo, della sua passione civile, della forza delle sue idee e - per riprendere le parole di Giuseppe D'Avanzo - dell'«eccentricità rivoluzionaria del suo riformismo». In questa pagina annunciamo il contenuto della serie del blog Mafie che ogni mattina è su Repubblica.it e che, da oggi e per quasi due settimane, è riservato a quello che tutti indicano come il "metodo Falcone”. Fuori dalla retorica e fuori da quell'enfasi che ha snervato e a volte anche sfregiato la figura di quello che è stato un "italiano fuori posto in Italia" (come lo sono stati Paolo Borsellino, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri caduti in Sicilia), queste sono testimonianze che ci ripropongono il Giovanni Falcone magistrato e la sua sapienza giuridica. Cosa era quello che poi è stato definito il suo "metodo”? Cosa ha inventato dalla fine degli anni '70 di tanto fondamentale in quella piccola stanzetta del tribunale siciliano? Come è cambiata - grazie a lui - la storia della lotta alla mafia nel nostro Paese nonostante le umiliazioni che ha dovuto subire da vivo e poi anche da morto? Ce lo spiegano una dozzina di personaggi, tutti rappresentanti delle istituzioni che nelle fasi più significative della sua esistenza gli sono stati molto vicini. Giudici, poliziotti, carabinieri, finanzieri, impiegati civili del ministero della Giustizia. Alcuni ci hanno offerto un contributo inedito, altri hanno preferito ripescare nei loro archivi un testo già dedicato al ricordo di Falcone e della sua attività. Ciascuno di loro ha raccontato un "pezzo” di una vicenda siciliana iniziata nei primi mesi del 1980 e in parte chiusa con le stragi del '92. Tante analisi per spiegare la “rivoluzione” avvenuta a Palermo. Nel piccolo bunker hanno avuto anche origine i reparti speciali investigativi italiani come lo Sco della Polizia di Gianni De Gennaro e il Gico della Finanza. E anche il Ros dei carabinieri. Proprio dalla visione ampia degli scenari mafiosi che aveva quel giudice e dalla necessità di oltrepassare con le indagini i confini provinciali, Falcone ha avuto l'idea di creare gruppi super-specializzati che potessero operare con grande libertà di manovra su tutto il territorio nazionale. Suo interlocutore principale nell'Arma, al tempo era il capitano Mario Parente, che poi del Raggruppamento operativo speciale ne è diventato il comandante. Una stanza di Tribunale che è stato un “laboratorio” della lotta alla mafia in Italia e che ha formato funzionari dello Stato che hanno dato grande prova di sé nei decenni successivi. Tra gli autori di queste testimonianze i magistrati del famoso pool (Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli), l'ex presidente del Senato Pietro Grasso che il maxi processo l'ha "visto” come giudice a latere della Corte di Assise, Giuseppe Ayala che ha sostenuto l'accusa. E il capitano della Guardia di Finanza Ignazio Gibilaro, oggi comandante delle Fiamme Gialle in Sicilia, l'ufficiale dei carabinieri Angiolo Pellegrini che insieme a Ninni Cassarà e Beppe Montana firmò il rapporto "Michele Greco+161” che diede origine al maxi processo, il giovane funzionario della Criminalpol Alessandro Pansa che negli anni a seguire sarà nominato prefetto e diventerà il capo della polizia italiana. C'è anche la preziosa testimonianza di Guglielmo Incalza, il dirigente dell'"Investigativa” della squadra mobile di Palermo, il primo poliziotto che ha collaborato con Falcone nell'indagine sugli Spatola e gli Inzerillo. Un articolo è firmato da Vincenzina Massa, giudice palermitana che ha iniziato la sua carriera come uditore proprio nella stanza di Falcone. Un altro ricordo è di Giovanni Paparcuri, il fidato collaboratore informatico del giudice che ha voluto un museo in onore di Falcone e Borsellino nei locali dove i due lavoravano. E' stato Paparcuri, qualche mese fa, a suggerirci di dedicare una puntata del blog al "metodo Falcone”. Una buona idea.

Quella “squadra speciale” nel bunker delle indagini, scrive il 16 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio Gibilaro - Generale della Guardia di Finanza. Nella tarda serata del 9 novembre 1983, il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo fece il suo ingresso in quella che sarebbe stata la sua casa per i successivi quattro anni, la “Caserma Cangialosi” della Guardia di Finanza. La scelta di alloggiare Antonino Caponnetto in un'austera foresteria militare era stata imposta dalla terribile eco dell’autobomba che pochi mesi prima aveva ucciso Rocco Chinnici, suo predecessore al vertice dell’Ufficio giudiziario palermitano. Ebbene, il destino (o forse la Provvidenza) volle che proprio tra le sicure mura dell’ex convento accadesse un episodio determinante per il futuro sviluppo di quello che diverrà “il metodo Falcone”. Infatti, nel dicembre di quell’anno, passeggiando nel chiostro dell’antico complesso domenicano, Caponnetto ed il colonnello Gaetano Nanula concordarono di dare concreta attuazione ad un’idea di Giovanni Falcone: distaccare presso i locali dell’appena costituito “pool antimafia” un piccolo nucleo di investigatori del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria che fossero in grado di procedere all’esame dell’enorme quantità di documenti bancari sequestrati nell’ambito di tutte le principali inchieste su Cosa Nostra. La richiesta di Falcone traeva origine dall’esperienza che il giudice aveva maturato allorchè, sul finire degli anni ’70, Rocco Chinnici gli aveva affidato l’istruttoria contro Rosario Spatola. Lo stesso magistrato ha più volte ricordato che proprio durante tale inchiesta, mentre ricostruiva il traffico di eroina gestito dalle famiglie mafiose tra la Sicilia e gli Usa, si era convinto che nelle banche dovevano pur essere rimaste delle tracce contabili delle ingenti somme scambiate e così, per “seguire il denaro”, diede inizio alle prime indagini bancarie nei confronti dei clan. Ma ben presto Falcone giunse all’ulteriore consapevolezza che gli esiti dell’incrocio dei flussi bancari con le risultanze delle tradizionali indagini di polizia e con le dichiarazioni dei “pentiti”, dovevano essere ulteriormente integrati con delle approfondite investigazioni sui reticoli patrimoniali e societari riconducibili ai criminali ed ai loro insospettabili prestanomi. Da qui la consapevolezza che, per essere efficaci, le attività di acquisizione, analisi e rielaborazione di tali enormi masse di dati dovevano essere condotte in modo sistematico ed organico, avvalendosi di personale altamente qualificato. Fu proprio in tale prospettiva che, nei primi giorni del gennaio 1984, i marescialli Angelo Crispino e Paolo Scimemi si insediarono a pochi metri dall’ufficio di Falcone, nello stanzone in cui era stata accatastata un’impressionante montagna di documenti contabili, verbali di interrogatori e rapporti di polizia. Nel giro di poche settimane i due sottufficiali furono raggiunti da altri finanzieri, finendo con il costituire una vera e propria “squadra speciale” che, da quel momento in poi, lavorò fianco a fianco dei giudici istruttori dello storico pool sino al suo definitivo scioglimento. Questi militari vennero inizialmente selezionati tra gli esperti della “Sezione Economia e Valuta” del Nucleo di Palermo ed operarono sotto la direzione di un vero segugio dell’antiriciclaggio, il capitano Carmine Petrosino. Successivamente la responsabilità della squadra fu attribuita a me, giovane capitano che avevo già collaborato con diversi autorevoli magistrati di Torino, Milano e Palermo in una serie di indagini concernenti un imponente traffico di eroina proveniente dalla Turchia e destinata all’Europa ed agli USA. Ebbene, proprio in concomitanza del cambio di comandante, la squadra del pool divenne parte integrante di quella “Sezione Indagini Economico-Fiscali Criminalità Organizzata” che è stata la prima unità specializzata creata dalla Guardia di Finanza per il contrasto alla criminalità mafiosa, nonché la storica progenitrice degli attuali G.I.C.O. e S.C.I.C.O.. In breve tempo il team investigativo assunse il ruolo di propulsore delle attività di polizia svolte sul campo dagli altri componenti della Sezione, trasformandosi anche in una sorta di cinghia di trasmissione tra i giudici istruttori palermitani e tutti i reparti del Corpo progressivamente lanciati sulle tracce del black money, in Italia ed all’estero. Fu così realizzato un immane lavoro di ricostruzione della multiforme ragnatela di rapporti patrimoniali e societari che avviluppava coloro che venivano progressivamente individuati come “soldati” o “capi militari” dell’organizzazione mafiosa; i magistrati furono pertanto in grado di “cementare” con immodificabili prove documentali le ben più volubili dichiarazioni testimoniali, giungendo anche all’individuazione di nuove filiere di soggetti (talora del tutto insospettabili) legati agli “uomini d’onore” da non più negabili interessi affaristici. Un mero dato numerico può forse esemplificare la straordinaria rilevanza delle indagini economico-finanziarie svolte: ben 4 dei 40 volumi dell’ordinanza di rinvio a giudizio del “I° Maxi processo” sono costituiti dagli esiti delle indagini bancarie e 19 degli ulteriori 22 volumi di allegati sono composti dalla relativa documentazione. Concludendo questo personale ricordo della “squadra silenziosa” di giovani Fiamme Gialle che ho avuto il privilegio di comandare, mi permetto di riportare alcune frasi tratte da una lettera scritta da Giovanni Falcone il 6 novembre 1989: “Nel lasciare il mio incarico di Giudice Istruttore sento di esprimere il mio più vivo apprezzamento per la preziosa collaborazione svolta in questi anni dai militari del Nucleo Regionale P.T. di Palermo distaccati presso questo Ufficio. Senza l’apporto della Guardia di Finanza non sarebbe stato possibile effettuare complesse e numerose indagini bancarie e patrimoniali che hanno contribuito a far ottenere notevoli risultati giudiziari. Tali indagini, svolte nell’ambito di importanti procedimenti contro la criminalità organizzata, hanno posto in evidenza l’elevata professionalità dei militari operanti e, tenuto conto della notevole pericolosità sociale dei soggetti nei confronti dei quali sono state effettuate, il loro alto senso del dovere e spirito di sacrificio”.

Un uomo e un cambiamento epocale, scrive il 17 maggio 2018 su "La Repubblica" Alessandro Pansa - Prefetto della Repubblica. L’arricchimento del mio bagaglio professionale grazie all’esperienza che mi ha visto collaborare con Giovanni Falcone in molte inchieste di particolare rilievo, specie sul piano internazionale, è stato enorme. L’esperienza umana forse lo è stata anche di più, ma questa resta nella sfera personale che conservo come mio ricordo. Le inchieste del giudice Falcone, pur avendo come campo di analisi il mondo del crimine, coinvolgevano direttamente anche quello della criminalità economica. In tale contesto venivano alla luce costantemente intrecci, sovrapposizioni o identificazioni di interessi occulti, che facevano capo a centrali d’intermediazione tra realtà politica o economica con quella criminale. Appariva evidente come la presenza della criminalità organizzata in settori economici ed in ambienti politico-istituzionali determinasse, come conseguenza indotta, un inquinamento progressivo non solo del tessuto economico locale, ma anche del contesto sociale e della vita pubblica. In quegli scenari tre erano gli attori principali che comparivano: personaggi della politica locale e non, esponenti del mondo economico e di quello criminale. Alcune volte i tre insiemi cooperavano tra loro, altre volte solo alcuni di essi agivano congiuntamente. La storia della criminalità di questo Paese, in aggiunta a quella di alcune vicende del mondo dell’imprenditoria nazionale, ha portato alla luce una realtà che consente di individuare il collegamento tra mondi diversi nella presenza di agenti che facilitano o rendono possibile l’incontro tra le parti. Come già dalle prime inchieste degli anni '80 sul mercato della droga, che vedeva Palermo al centro del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti, il ruolo di quegli agenti emergeva nella duplice veste sia di supplenza alla carenza di quella professionalità di cui Cosa Nostra aveva bisogno per muoversi nei mercati internazionali, sia di riduzione dell’asimmetria informativa che grava sulla criminalità organizzata. Complessi e profondi, e per certi versi sorprendenti, emersero gli intrecci che in quegli anni il crimine organizzato era riuscito a tessere nell’ambito del sistema economico e finanziario, rendendo la distinzione tra il legale e l’illegale sempre più difficile e sfumata. Tutto questo Giovanni Falcone lo aveva prima intuito, attraverso l’attenta lettura di fascicoli processuali, e poi lo aveva dedotto dagli eventi ricostruiti nel corso delle indagini. Lo aveva documentato in diverse occasioni con atti processuali ed alla fine il tutto era stato cristallizzato in giudicati, a cui si era giunti partendo proprie dalle sue istruttorie. Oggi si discute con facilità di indagini patrimoniali, del sequestro dei beni, delle misure antiriciclaggio. Bene: credo che tutto questo insieme di strumenti, fondamentali nella lotta alla mafia e basilari per gran parte dei successi più importanti conseguiti sino ad oggi in questo campo, sono frutto dell’esperienza operativa di Giovanni Falcone e di coloro che hanno da lui appreso e con lui sperimentato quelle vie dell’investigazione. Seguiva le piste dell’inchieste passo passo, anche all’estero, studiando prima di partire gli ordinamenti penali e civili di quei paesi per poter nel modo giusto chiedere informazioni, dati e documenti utili alle istruttorie italiane. Nel lavoro d’indagine di Giovanni Falcone, l’esigenza di confrontarsi di continuo con una realtà multiforme e sommersa, insieme all’esigenza di preservare l’attitudine a comprendere le dinamiche criminali ed a seguirle, anche per tempi lunghi, nel loro evolversi, ha portato a sviluppare competenze che sono divenute parte integrante delle metodologie investigative più moderne. L’insegnamento che è venuto dal lavoro svolto da Giovanni Falcone e l’esperienza maturata nell’averlo affiancato in diverse inchieste rappresentano quello che viene definito il “metodo Falcone”. Seguire le tracce, specie quelle dei soldi, collegarle tra loro attraverso documenti, testimonianze, accertamenti bancari o altre acquisizioni probatorie. Ma questo non bastava, bisognava interpretare ognuno dei passaggi individuati: attraverso le regole comportamentali che caratterizzavano l’ambiente in cui si collocavano, attraverso la mentalità ed il codice non scritto dei mafiosi quando essi operavano direttamente oppure attraverso la prassi che caratterizzava le operazioni e gli operatori che la mafia utilizzava consapevolmente e non. Anche quando l’accertamento o quanto accertato diventavano ripetitivi nel tempo non bisognava mai dimenticare che tutto ciò consentiva di affrontare, per analogia o per esclusione, quegli scenari criminali che stavano cambiando e che facevano riferimento a regole comportamentali nuove e mai prima individuate. I confini tradizionali delle indagini sulla criminalità, in tempi rapidi, si dissolsero, aprendosi ad orizzonti nuovi in varie parti del mondo ed a livelli impensati. Da un lato, la criminalità italiana estendeva i propri tradizionali confini di attività utilizzando strategie eterogenee, stringendo alleanze nuove e cimentandosi in ambiti operativi di norma non di loro interesse. Dall’altro le organizzazioni criminali di altri paesi ampliavano il loro raggio d’azione e soprattutto intrecciavano i loro interessi con quelli delle cosche dell’Italia meridionale. I fenomeni emergenti potevano spiazzare l’investigatore tradizionale, ma non Giovanni Falcone e chi seguiva le sue metodologie di lavoro. L’analisi economica del crimine, sulla scorta dell’esperienza di Giovanni Falcone, produceva, infatti, una serie di risultati che permetteva di comprendere la natura e la meccanica delle relazioni pericolose che possono instaurarsi tra crimine organizzato, da un lato, e dinamiche della produzione e degli scambi, reali e finanziari, dall’altro lato. Grazie a questo metodo, che non va confuso con la mera indagine di tipo finanziario, si poteva scoprire che il crimine organizzato non inquina solo il versante bancario e finanziario, ma anche il versante reale del sistema economico, e forse con danni ancora più gravi, misurabili non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi: impoverimento e imbarbarimento del sistema. Con grande agilità e pervasività, i membri delle organizzazioni criminali si muovevano nell’ambito dell’economica legale, reale e finanziaria, proponendosi non solo per la loro capacità di violare l’ordine costituito, ma come fonte autonoma di norme e regole alternative a quelle democratiche. Il mafioso non si accontentava di infrangere la legge, ma provava sempre a proporsi come soggetto regolatore, che produce fiducia in alternativa a quella legale che assicura il sistema attraverso gli strumenti democratici. Forse una riflessione tardiva, quando ormai non mi occupo più di attività investigativa, mi consente meglio che in passato di comprendere quando quel periodo di collaborazione sia stato fecondo. Si è trattato di un periodo di grandi cambiamenti nell’approccio alle inchieste contro le associazioni mafiose che, a seguito della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e grazie a loro è divenuto un vero e proprio cambiamento epocale. Sintesi tratta da Il profumo della libertà Edizione 2011 Ministero della Gioventù

Le geniali intuizioni di un giudice, scrive il 18 maggio 2018 su "La Repubblica" Giuseppe Ayala - Magistrato, negli anni '80 sostituto procuratore della Repubblica di Palermo e pm al maxi processo a Cosa Nostra. Per comprendere meglio il significato e l’importanza del cosiddetto “metodo Falcone” è opportuno riflettere brevemente sui significativi mutamenti intervenuti, a partire della seconda metà degli Anni Settanta, nell’universo del crimine mafioso. I principali sono tre: l’ingresso massiccio dell’organizzazione nel traffico, anche internazionale, di stupefacenti; l’inedito attacco diretto alle Istituzioni, concretizzato dalle uccisioni di suoi esponenti vittime dell’adempimento del dovere in contrasto con gli interessi mafiosi e lo scoppio della cosiddetta “guerra di mafia” nel 1981. Cosa nostra, rompendo una lunga tradizione, usciva dalla clandestinità e accendeva i riflettori rendendosi drammaticamente visibile. A nessuno era più consentito riproporre il vecchio interrogativo: “Ma siamo sicuri che la Mafia esiste?”. A quel tempo, peraltro, neanche nel codice penale italiano era rinvenibile la parola “mafia” Per trovarla bisognerà attendere il 29 settembre 1982, data dell’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre con il suo inedito art. 416-bis (associazione di tipo mafioso). Incredibile, ma vero, si dice in questi casi. Giovanni Falcone prese servizio all’ Ufficio Istruzione di Palermo sul finire degli Anni Settanta. Nel 1980 il capo di quell’ Ufficio, Rocco Chinnici, gli affidò un processo che riguardava un traffico di stupefacenti gestito da esponenti dell’organizzazione mafiosa. Nell’istruirlo Falcone maturò il primo pezzo della sua visione innovativa. Inutile inseguire la droga che spesso non lascia tracce. Quello che, invece, le lascia di sicuro è il denaro collegato a quel traffico. Così nacque il famosissimo “follow the money,” destinato ad assicurare successi giudiziari sino ad allora impensabili. Ne offro una testimonianza. Lavorammo assieme alla cosiddetta “Pizza connection”, un enorme traffico di eroina tra la Sicilia e gli USA che coinvolgeva esponenti mafiosi di entrambe le sponde dell’Atlantico. Sostenni l’accusa e ottenni pesantissime condanne senza che nemmeno un grammo di eroina fosse mai stato sequestrato. La documentazione bancaria certosinamente raccolta da Falcone si risolse in un impianto probatorio inespugnabile per la difesa. Come ho già accennato, l’aumento assai significativo dei delitti di matrice mafiosa comportò un pari incremento dei fascicoli processuali che li riguardavano. La loro “veicolazione” all’ interno dei vari uffici giudiziari continuava, però, a seguire l’ordinaria prassi, per cui, per esempio, era del tutto normale che un giudice istruttore lavorasse ad uno di questi senza sapere nulla di quanto stesse facendo il collega della porta accanto impegnato nella trattazione di un fascicolo riguardante un altro delitto di analoga matrice. Falcone si rese conto che, così stando le cose, non si andava da nessuna parte per la semplice ragione che ciascuno dei delitti mafiosi altro non rappresentava che la manifestazione criminale di una logica associativa. C’era, insomma, qualcosa che, pur nella loro diversità, li accomunava. Una sorta di “fil rouge” che li legava e che, di conseguenza, li rendeva diversi da tutti gli altri, ma tra loro omogenei. Ritenne, insomma, necessario compiere un salto di qualità verso quella che definì la necessità di procedere verso una “visione unitaria del fenomeno mafioso”. L’unico modo possibile per realizzarla fu quello di procedere alla riunione di tutti i fascicoli processuali che riguardavano i delitti di mafia. Un accentramento delle conoscenze orientato verso l’individuazione dell’immanente “fil rouge.” Col senno di poi può sembrare una svolta ovvia e scontata. Col senno di prima, però, nessuno ci aveva mai pensato. Fu una vera e propria rivoluzione destinata ad assicurare successi giudiziari sino ad allora inimmaginabili. La riunione di tutti i fascicoli processuali concernenti i delitti mafiosi comportò la nascita di una sorta di enorme monolite giudiziario che nessun giudice istruttore da solo avrebbe mai potuto portare avanti. Neanche se possedeva la straordinaria capacità di lavoro di Falcone. Solo una squadra capace e ben affiatata poteva farcela. Nacque così il mitico “pool antimafia.” Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello, con la sapiente guida di Antonino Caponnetto, successore di Rocco Chinnici, ne furono i primi protagonisti. L’ ultimo “tocco” voluto da Falcone, per rendere ancora più efficace il suo “metodo,” fu quello di coinvolgere, sin dalla fase istruttoria, almeno un pubblico ministero per metterlo, così, nelle migliori condizioni di sostenere l’accusa davanti ai Giudici del dibattimento. Il fatto che la scelta sia caduta sul sottoscritto poco importa. La circolazione informativa di ogni risultato acquisito divenne la regola. Si scoprì, così, per esempio, che ciò che appariva non rilevante nell’ambito di un determinato fascicolo, lo era invece in relazione ad altra e diversa, ma pur sempre collegata, vicenda processuale. I risultati delle indagini di un’eccellente polizia giudiziaria e gli ulteriori approfondimenti istruttori possiamo paragonarli alle tessere di un mosaico. Il problema era che, sino ad allora, mancando la configurazione dei contorni di ciò che nel loro complesso quelle tessere avrebbero dovuto rappresentare, non si capiva dove e come collocarle. La “visione unitaria” voluta da Falcone, e il successivo inedito contributo dei collaboratori di giustizia, consenti di superare quel limite. Ogni tessera trovò la sua precisa collocazione. Il “quadro” che ne conseguì risultò, finalmente, chiaro e completo. Così nacque una grandiosa opera d’arte giudiziaria: il maxiprocesso. La prima vera vittoria dello Stato e la prima vera sconfitta di Cosa Nostra. Per quella definitiva restiamo, purtroppo, ancora in attesa.

Le prime indagini sui grandi misteri di Palermo, scrive il 19 maggio 2018 su "La Repubblica" Guglielmo Incalza - Dirigente della sezione "Investigativa” della Squadra Mobile di Palermo nel 1980 e nel 1981. Il 7 gennaio 1980, il giorno successivo al brutale assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella – si erano già evidenziati nel corso dell'anno precedente segnali di una forte e violenta recrudescenza mafiosa con gli omicidi del giornalista Mario Francese, del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina, del vice questore di polizia e capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, del Consigliere Istruttore del Tribunale Cesare Terranova e del maresciallo di pubblica sicurezza. Lenin Mancuso –, sono stato designato a capo della Sezione Investigativa ed Antimafia della Squadra Mobile palermitana. Ebbi così modo non solo di conoscere, ma di frequentare con assiduità il compianto Giovanni Falcone al quale, nel maggio dello stesso anno, era stato assegnato dal Conigliere Istruttore del Tribunale Rocco Chinnici, il procedimento penale sulla prima grande inchiesta degli anni '80, più nota come processo su “Mafia e Droga”, originata dal rapporto di denunzia della Squadra Mobile di Palermo contro Spatola Rosario + 54, tutti ritenuti essere responsabili di associazione per delinquere mafiosa e dedita al traffico internazionale di stupefacenti. Su tale rapporto giudiziario molto è stato già scritto ed è ampiamente noto, in particolare sulla ferma e decisa determinazione del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, barbaramente poi ucciso dalla vile mano mafiosa nell'agosto dello stesso anno 1980, a pochissimi mesi dall'essersi assunto, in perfetta solitudine ed in evidente e plateale disaccordo dei suoi sostituti, la responsabilità di firmare “da solo" i relativi provvedimenti di cattura nei confronti di tutti i denunziati, noti esponenti di una delle più influenti “famiglie “ mafiose italo-americane, quella dei Gambino, Spatola ed Inzerillo, la maggior parte dei quali  legati tra loro da stretti vincoli di parentela ed implicata, tra le altre svariate attività delittuose, principalmente in un imponente traffico di eroina che, partendo dalla Sicilia, aveva gli Stati Uniti d'America come destinazione finale. All'incirca alla fine del maggio dell'80 dunque, fui convocato dal questore pro-tempore ed invitato, mi si disse, su specifica richiesta del dottor Chinnici, a mettermi a disposizione, con tutti i componenti della mia sezione investigativa, del dottor Falcone, che da poco tempo ricopriva l'incarico di giudice istruttore della VI Sezione penale e cui intanto era stato assegnato il fascicolo del processo “Spatola” dopo che la Procura della Repubblica ne aveva richiesto la formalizzazione. E' opportuno evidenziare che il rapporto giudiziario all'origine di tale inchiesta, costituiva la risultanza di due filoni investigativi, quello come sopra detto del traffico di droga, individuato attraverso alcune mirate intercettazioni telefoniche sui componenti della consorteria mafiosa dei succitati Spatola/Inzerillo/Gambino con le sue diramazioni americane (ma anche di  appartenenti ad altre “famiglie” palermitane come ad esempio Vittorio Mangano della “famiglia di Porta Nuova”, più noto poi come lo “stalliere” di Arcore ) e quello messo in luce dalle indagini svolte dal Centro Criminalpol di Palermo sul rapimento simulato del finanziere siculo-americano Michele Sindona, gestito e condotto sin dalla sua prima fase in territorio americano, fino alla sua permanenza in clandestinità a Palermo e la sua successiva riapparizione sul suolo americano, ad opera di componenti dello stesso clan mafioso che contava negli USA sugli strettissimi collegamenti con una delle più potenti ed agguerrite tra le 5 “famiglie” americane, quella capeggiata per l'appunto dal Capo dei Capi Charles Gambino. Imponente ed arduo apparve certamente il compito di portare avanti una istruttoria così vasta e frammentata tant'è che lo stesso Falcone, successivamente alla emissione della sua sentenza-ordinanza del 25 gennaio 1982 di rinvio a giudizio di Spatola Rosario +119 per associazione aggravata di tipo mafioso e per traffico internazionale di stupefacenti, ebbe a dichiarare ad alcuni giornalisti della carta stampata: “... La mafia, vista attraverso il processo Spatola, mi apparve un mondo enorme , smisurato , inesplorato...”. Ed anche per questo, ritengo, che il Consigliere Chinnici, nell'assegnare a suo tempo a Falcone il relativo fascicolo processuale, avesse formulato al Questore una cortese ma ferma richiesta di fornire una collaborazione investigativa più corposa del solito, per la complessità dell'istruttoria stessa. Quest'ultima, dunque, portata avanti con la ferma, caparbia ed assai innovativa guida di Giovanni Falcone, non solo confermò le responsabilità dei soggetti denunziati, ma mise in luce numerose altre complicità, sia nel traffico della droga, ma anche nella partecipazione e nella conduzione del finto sequestro di Michele Sindona, oltre che a porre le basi di successive grandi operazioni di polizia sul territorio nazionale, come quella nota col nome di “ San Valentino”, condotta a  Milano sul riciclaggio dei narcodollari ad opera di noti imprenditori locali (immobiliaristi, ma anche finanzieri e liberi professionisti ) e personaggi mafiosi collegati al gruppo Spatola. La frequentazione di  tutti costoro ( tra i quali anche un noto latitante mafioso palermitano come poi verrà accertato) in un  ufficio milanese di via Larga 13, cui facevano capo numerose società ombra riconducibili ai predetti personaggi, era  stata evidenziata dal traffico telefonico delle intercettazioni condotte dal mio ufficio ( in specie alcune conversazioni del Mangano Vittorio con uno tra gli Spatola inquisiti ), e lasciato chiaramente sottintendere alla consumazione di losche attività. A seguito dell'emissione di un decreto di perquisizione di Falcone e dell'esito della relativa operazione di polizia giudiziaria effettuata da personale della mia sezione investigativa, vennero quindi acquisiti importanti indizi di un imponente riciclaggio dei proventi criminali del traffico di narcotici che, confermati da una breve ma intensa rogatoria dello stesso Falcone a Milano,  divennero la base per la prosecuzione delle indagini  meneghine poi  culminate per l'appunto col blitz di San Valentino del 14 febbraio 1983. Relativamente al cosiddetto “metodo Falcone”, cui spesso si fa riferimento, per il modo di condurre le sue attività istruttorie sulle organizzazioni mafiose, ritengo che quel metodo si sostanzi semplicisticamente nel suo essere perseverante e dotato di una grande ed infaticabile capacità lavorativa oltre che di un eccezionale intuito. Tali sue doti lo portavano a considerare che solo assumendo la effettiva direzione delle indagini, cosa inconsueta al tempo della vigenza del vecchio codice di procedura penale, ed a confrontarsi direttamente con i responsabili degli uffici e comandi operativi delle tre principali forze di polizia (delegando di volta in volta le attività di indagine in un rapporto di effettiva e costruttiva sinergia), si potessero raggiungere risultati apprezzabili. Il giudice Falcone era, ancora, convinto, proprio tenuto conto degli scarsi risultati giudiziari sin allora raggiunti nell'individuazione degli autori dei singoli delitti di mafia, soprattutto a causa del senso diffuso di una persistente omertà, che bisognasse capovolgere il metodo d'indagine sin allora seguito, cercando prima di mettere in luce e far emergere il vincolo associativo con le sue varie sinapsi, per poi ricollegarvi i singoli e specifici delitti  che sarebbero altrimenti apparsi scollegati. La percezione, poi, dell'esistenza in Sicilia di laboratori per la raffinazione della morfina base in eroina (peraltro poi avvalorata dall'individuazione di uno di essi nell'agosto dello stesso anno in una villa di Villagrazia di Carini), lo portò ad una grande intuizione e, cioè, che all'enorme flusso della droga verso gli Stati Uniti dovesse necessariamente corrispondere un altrettanto enorme flusso di valuta americana a compensazione. In pratica ...la scoperta dell'uovo di Colombo, solo che nessuno ci aveva pensato prima. La sua precedente esperienza di giudice fallimentare gli venne certamente d'aiuto e pertanto dispose una serie di accertamenti bancari mediante ordinanze di esibizioni di distinte di versamento per cambio di valuta USA, libretti di risparmio, documentazione di conti correnti e di assegni con la individuazione del nominativo dei firmatari e beneficiari degli stessi. Alle iniziali reticenze nella esecuzione dei provvedimenti da parte di alcuni istituti bancari, come nel caso di una Cassa Rurale ed Artigiana dell'hinterland palermitano, fu necessario procedere direttamente, facendovi irruzione, Falcone stesso in testa, allo scopo di costringere alla collaborazione ed alla esibizione immediata della documentazione richiesta. Come dimenticare la sua incessante e meticolosa ricostruzione dei collegamenti che riusciva ad individuare attraverso la visione della gran mole delle distinte di cambio di dollari e degli assegni che, numerosi, inondavano la sua scrivania? Armato di santa pazienza, registrava a penna all'epoca i computer erano oggetti pressocchè sconosciuti) singole schede dei personaggi coinvolti, su cui annotava sia gli estremi dell'operazione effettuata che il nominativo dei soggetti comunque implicati nel rapporto bancario, per poter poi procedere alle verbalizzazioni delle dichiarazioni ed alle contestazioni di quanto riscontrato. Ricordo al riguardo un episodio altamente significativo della pericolosità di tale consorteria criminale. Una mattina, regolarmente convocato in Tribunale, si presentò nell'ufficio di Falcone il noto Michele Greco detto il “Papa” per rendere conto, me presente, della natura dei suoi rapporti con il capo mafia Stefano Bontate, il “principe” del quartiere palermitano d Villagrazia, rapporti rilevati dallo scambio tra di loro di alcuni assegni per rilevanti importi. Alle domande sempre più incalzanti del giudice, il Greco (indicato poi dal noto collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta come il capo della “Cupola” mafiosa siciliana, anche se sottomesso ai diktat del sanguinario boss corleonese Totò Riina) ebbe improvvisamente ad inalberarsi e, con fare oltremodo stizzito ebbe a fare un vero e proprio sermone, quasi pontificando con fare ieratico e lanciando velate minacce. Alla fine dell'interrogatorio, licenziato il teste, con Falcone ci guardammo sgomenti negli occhi, concordando sul fatto che l'atteggiamento e le parole del Greco sottintendevano un vero e proprio classico avvertimento mafioso. Il giudice, tuttavia, alla mia osservazione sul perchè mai non avesse provveduto a richiedere nell'immediatezza l'intervento del Pubblico Ministero per la contestazione di reato, mi fece rilevare l'inutilità di tale iniziativa, giacchè non si sarebbe mai potuto riscontrare in giudizio alcun chiaro elemento di colpevolezza, essendo state le minacce mai palesemente esplicitate. Gli feci comunque presente che di quanto accaduto avrei immediatamente riferito al Questore con relazione scritta per le opportune valutazioni della vicenda e, provveduto in tal senso, fui incaricato di assicurare temporaneamente la sua sicurezza, in attesa della costituzione di un ufficio scorte, all'epoca inesistente, con gli stessi uomini della mia Sezione investigativa, che già si occupavano a tempo pieno dell'attività di supporto alla indagine istruttoria. E come non porre in risalto la sua capacità di dialogare con i suoi colleghi di altre sedi giudiziarie, interessate anch'esse da attività delittuose di tipo mafioso, nel tentativo di convincerli a riconoscere la unicità di tale fenomeno criminale e la centralità di Palermo come sede dei vertici mafiosi, al fine di concentrare nel capoluogo siciliano anche le indagini che avevano riferimento alle sue propaggini al di fuori della Sicilia? Non sempre fu ascoltato ed anzi, fu anche da taluni aspramente criticato. Molti di loro, però, credo che nel tempo si siano ravveduti. La sua passione ed il suo impegno personale, non disgiunto dalla sua ferrea determinazione a portare avanti la sua attività di qualificato contrasto al crimine organizzato, lo portò anche a richiedere ( ed ottenere ) non solo la collaborazione degli organismi centrali operativi delle tre principale forze di Polizia, ma anche quella preziosissima della Drug Enforcement Administration e del Federal Bureau of Investigation, rispettivamente l'agenzia federale antidroga e  la polizia federale investigativa, entrambe americane. L'aver mantenuto con i suoi rappresentanti di vertice un'attiva e duratura collaborazione in costanza di rapporti di vera stima e considerazione, gli valsero, post mortem, un tributo di riconoscenza e di onore al suo valore senza eguali, costituito dal collocamento di una statua col suo busto nel cortile principale del quartier generale della F.B.I. a Washington. Concludo questo ricordo di Giovanni Falcone, della sua figura di grande magistrato e dell'uomo da me conosciuto e frequentato nel corso del mio affiancamento alla sua attività istruttoria nel primo grande processo contro Cosa Nostra, affermando di aver tanto imparato da lui e non solo dal punto di vista professionale. Abbiamo via via, approfondito la nostra conoscenza, particolarmente in occasione delle poche ore lasciate libere dagli impegni delle varie rogatorie effettuate insieme, anche al di fuori della Sicilia, quando talvolta, prima o poco dopo cena, ci si lasciava andare a liberi pensieri ed egli appariva nello splendore del suo gran sorriso, a volte anche canzonatorio e di gradevole sarcasmo con le sue battute al fulmicotone. La continua frequentazione tra di noi, soprattutto in ambito lavorativo, mi valse persino l'epiteto di “Falconetto” con cui all'epoca mi indicava a mo' di sfottò l'amico e collega Ninni Cassarà, che era a capo della sezione Omicidi della squadra mobile e poi succedutomi all'Investigativa a seguito del mio trasferimento da Palermo. Non potrò mai dimenticare di una sera dell'inverno 1980/81. Insieme ad un mio collega della Criminalpol e ad alcuni Ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza - lo avevamo accompagnato a Milano per procedere ad una importante rogatoria con l'assunzione a verbale delle dichiarazioni testimoniali di alcuni noti personaggi, tra i quali il noto banchiere Enrico Cuccia, ognuno di essi legato per alcuni versi alla vicenda del rapimento simulato del faccendiere Sindona. A sera, eravamo in un albergo di Milano e, mentre dopo cena e prima di ritirarci nelle rispettive camere eravamo sprofondati in alcune poltrone della hall, Falcone, sorseggiando un whisky, a conclusione di alcune valutazioni sull'andamento della istruttoria del processo, ebbe a dire chiaramente di essere cosciente del fatto che la mafia lo avrebbe ucciso, ma che bisognava comunque andare avanti continuando a fare il proprio dovere. Che dire di più? Dico solo che sento ancora i brividi al ricordo di queste sue parole che manifestavano chiaramente la sua consapevolezza del grande rischio cui andava incontro. E' inutile dire che il pomeriggio del 23 maggio 1992 la drammatica notizia, appresa a Roma telefonicamente, mi provocò una intensa emozione e non riuscii a frenare le mie lacrime e la mia disperazione.

Io, uditore nella stanza del dottor Falcone, scrive il 20 maggio 2018 su "La Repubblica" Vincenzina Massa - Magistrato di Palermo, nel 1980 uditore nell'ufficio del giudice istruttore Giovanni Falcone. Accompagno mia nipote di dieci anni a visitare il Museo Falcone e incontro Giovanni Paparcuri (che si occupa con grande passione della gestione del Museo e di organizzarne le visite guidate), il quale nel percepire una mia conversazione con la bambina apprende che ero stata uditore del giudice Giovanni Falcone e mi chiede di entrare in contatto con Attilio Bolzoni, che cura un blog, nel quale a breve si dibatterà sul “metodo Falcone”, per offrire un mio contributo conoscitivo. Perplessa, tentenno non avendo mai dismesso in tanti anni quell’atteggiamento di assoluto e quasi religioso riserbo col quale ho ritenuto di dover custodire le mie preziose memorie del periodo nel quale ebbi il privilegio di incontrare il Giudice Giovanni Falcone, ma alla fine, trovandomi in un momento particolare della mia vita professionale, sulla soglia del pensionamento anticipato (compirò a breve 63 anni), mi lascio tentare dal bisogno di rivisitarle proprio nel momento conclusivo della mia carriera. Già prima di giurare (sono stata nominata con Decreto Ministeriale del 13. 5.1980), ero stata presentata fuori dal Palazzo, e gli avevo fatto poi una visita deferente in ufficio, al Procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, che nell’agosto di quello stesso anno sarebbe stato vittima di un vile agguato mafioso. Lo “zio Tano”, com’era affettuosamente chiamato dai parenti di un mio ex fidanzato dell’epoca, che gli erano particolarmente vicini e che me lo avevano fatto incontrare, era un gentiluomo di vecchio stampo, piccoletto, ma dalla personalità forte e dal ferreo credo nelle istituzioni del quale non aveva mancato di rendermi partecipe. Il Procuratore, proprio nei giorni a seguire, avrebbe dato prova di quella fermezza e del suo grande coraggio, così segnando irreparabilmente il proprio destino, coll’assumersi a titolo quasi esclusivo (perché isolato da quasi tutti gli altri suoi sostituti dissenzienti, eccettuato il sostituto procuratore Vincenzo Geraci) la responsabilità di firmare la convalida di oltre 50 ordini di arresto di pericolosissimi mafiosi, fra i quali i noti Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo. Questo il mio primo contatto con la realtà giudiziaria palermitana. Era la calda estate del 1980 ed a Palermo si erano già perpetrati numerosi e gravissimi fatti di sangue (il 4 maggio precedente l’omicidio del Capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile) che preconizzavano quella che sarebbe stata un lunga e sanguinosa vera e propria guerra di mafia. Nell’allora Ufficio Istruzione di Palermo, diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, compagno di scuola del fratello di mia madre, in ragione del privilegiato familiare rapporto di conoscenza col capo dell’Ufficio venni accolta personalmente da lui che ci affidò - me e l’altro mio collega uditore giudiziario – al magistrato affidatario “prescelto”: il Giudice Giovanni Falcone. Appena entrata in magistratura, avevo ottenuto, infatti, dal mio magistrato coordinatore del piano di tirocinio, rinunziando appositamente al godimento delle ferie estive (condicio sine qua non perché non era possibile in alcun altro periodo - adesso non ricordo per quale ragione), di essere affidata al collega Dott. Giovanni Falcone, giudice istruttore, per svolgere sotto la sua direzione il mio periodo di uditorato. Quell’assegnazione (senza precedenti che io sappia) era stata il frutto di mie vivaci pressioni presso il magistrato coordinatore, previo un contatto e l’assenso del giudice Falcone, che avevano vinto ogni resistenza del primo. Già allora, infatti, fra i giovani magistrati si era diffusa la fama di Giovanni Falcone, come quella di un magistrato non soltanto competente e tecnicamente ben attrezzato, ma soprattutto era già ampiamente conosciuta la forte motivazione e una spinta ideale senza precedenti nella lotta al fenomeno mafioso. Come ho accennato, la mia richiesta di essere assegnata al dottor Falcone non era stata accolta con grande favore dal magistrato coordinatore. A quell’epoca non me ne era stato subito evidente il motivo, ma oggi so bene - ed anche allora mi fu più chiaro in breve torno di tempo - che fra i magistrati dell’epoca (la maggior parte degli anziani, comunque) si era già diffuso un grande pregiudizio circa le così decantate capacità e professionalità di Giovanni Falcone. Tuttavia, alla fine, l’insistenza della postulante e l’entusiasmo con cui la richiesta era stata caldeggiata, avevano avuto la meglio su quelle evidenti remore ascrivibili a non troppo sotterranea malevolente invidia nei confronti di quel collega che, così giovane, riscuoteva già tanta ammirazione fra i giovanissimi che guardavano a lui come un faro. Fu, dunque, lo stesso consigliere istruttore Rocco Chinnici che ci affidò (me e il mio collega Filippo Gullotta) al Giudice Falcone. Io già avevo avuto il privilegio di farne la conoscenza perché la moglie, Dottoressa Francesca Morvillo, aveva frequentato in precedenza la casa dei miei genitori, essendone anche gradita commensale e perché un professore di università comune amico, molto vicino al vice questore Ninni Cassarà, mi aveva procurato un informale abboccamento con il Giudice Giovanni Falcone perché potessi chiedergli la sua generica disponibilità ad accogliere uditori giudiziari. Allora, le cose si facevano più alla buona rispetto ad oggi, molta meno burocrazia; non esistevano rigidi criteri per la formazione dei piani di tirocinio e questo aveva giocato un punto a mio favore, rendendo possibile il soddisfacimento della mia aspirazione.

E la fortuna volle che quando si concretizzò la mia assegnazione (insieme al collega Filippo Gullotta) al Dottor Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo erano appena (all’incirca nel maggio precedente) transitati dalla procura per essere istruiti, con la formale, i famosi processi a carico di “Spatola Rosario + 120” e a carico di “Mafara Francesco ed altri”, che erano stati per l’appunto assegnati entrambi dal consigliere istruttore Chinnici al Giudice Falcone. Fu proprio istruendo questi processi che Falcone prese a testare il suo nuovo metodo di indagine, ricusando il ruolo attendista della vecchia figura di giudice istruttore disegnata dall’allora vigente codice di rito (che in sostanza aspettava il rapporto redatto dalla Polizia giudiziaria per esaminarlo) ed assumendo in prima persona il controllo e la direzione delle investigazioni, compiendo anche personalmente alcuni atti, o delegandone singoli altri, ma non mai più genericamente, come per il passato, tutta l’attività di investigazione. Quelle indagini vennero portate avanti con criteri del tutto innovativi. Giovanni Falcone, infatti, facendo tesoro delle sue competenze nel ramo civile e del diritto bancario, essendo stato giudice fallimentare, aveva sviluppato una tecnica di investigazione che partiva dal presupposto che per colpire la mafia ed i suoi affari illeciti, occorreva seguire i flussi di denaro, nella consapevolezza che in qualunque attività lucrosa sul territorio controllato l’organizzazione criminale si insinuava con sapienza, con i suoi metodi, ora violenti, ora sotterranei, a seconda della bisogna. Fu così che noi uditori trovammo la scrivania del Giudice Falcone (che allora naturalmente chiamavo, come si fa fra colleghi, familiarmente, Giovanni, dandogli del tu, ed oggi mi guardo bene, come ritengo doveroso, dal continuare a chiamare così) diuturnamente “affollata” - quel che colpiva particolarmente - da numerosissimi assegni, vere e proprie mazzette di assegni, lì pronti per essere meticolosamente passati al setaccio ed esaminati nelle loro girate per individuare i destinatari finali dei crediti portati da quei titoli. E fu quindi proprio in quei giorni per l’innalzarsi della soglia di rischio dei magistrati in dipendenza della qualità degli imputati, e, quindi, dei processi da istruire che venivano fatti i sopralluoghi tecnici per il montaggio dei vetri blindati nell’Ufficio d’Istruzione e Processi Penali (così si chiamava). Fino ad allora, nessuna sofisticata misura di protezione era stata ancora adottata a tutela di quelli che sarebbero diventati i paladini della lotta a Cosa Nostra (e recentissimi erano l’uso da parte del Giudice Falcone e dei suoi colleghi di auto blindate e l’assegnazione di scorte). Ricorderò solo per inciso che quei vetri ben presto si sarebbero rivelati non sufficienti a fermare le armi letali di Cosa Nostra, che aveva utilizzato, con soddisfacenti risultati, proprio i vetri blindati della gioielleria Contino di via Libertà per provare i suoi kalashnikov poi serviti nell’agguato in cui trovò la morte nel maggio 1981 Salvatore Inzerillo. Tornando agli assegni, il giudice Falcone ci mise al corrente della necessità di una verifica capillare dei diversi passaggi di mano dei titoli di credito e ci insegnò a porre attenzione alla lettura delle “girate”. Al di là di quelle indicazioni di metodo del tutto anodine (nessun riferimento all’identità dei primi prenditori e dei giratari e all’eventuale loro inserimento nell’organizzazione mafiosa) necessarie ad illustrarci nelle linee generali la sua nuova metodologia di indagine, però, con mia grande incosciente delusione, Falcone ci tenne sempre ben lontani dalle notizie e dai fatti potenzialmente pericolosi, quelli cioè emergenti dalle indagini su Cosa Nostra, spiegandoci con grande delicatezza che non era certo per mancanza di fiducia sulla nostra serietà e riservatezza, ma che si trattava di tutelare la nostra sicurezza. A noi venne affidata, quindi, la stesura di ordinanze o di ordinanze-sentenze riguardanti i fascicoli “ordinari”. Ma Giovanni Falcone, nonostante oberato da una mole di lavoro veramente spaventosa (la quantità di fascicoli che affollavano la sua stanza e i diversi armadi la diceva lunga al riguardo) che lo costringeva ad orari veramente stressanti, trovava, comunque, il tempo di indirizzarci nella lettura delle carte processuali e nella redazione dei provvedimenti a noi assegnati; le minute che gli sottoponevamo venivano da lui attentamente corrette e le correzioni antecedentemente discusse e concordate con noi. Anche nello svolgere il compito di “magistrato affidatario”, quindi, il giudice Falcone non mancava di essere, come sempre nello svolgimento della sua attività professionale, attento, infaticabile, preciso, puntuale; ma il suo essere in tutto eccellente non gli faceva perdere di vista l’indulgenza. Potrei dire, con quasi assoluta certezza (anche se, estremamente riservato nell’esternazione dei suoi sentimenti, nulla avrebbe mai verbalizzato al riguardo) che dietro alcuni dei suoi indimenticabili sorrisi sornioni, che non ci faceva mancare mai, si nascondesse anche una tenera benevolenza e comprensione per i nostri primi incerti passi. Sono ancora in possesso - e le custodisco gelosamente - di quelle bozze di provvedimenti che recano le correzioni vergate a mano da Giovanni Falcone. Una di queste mi è particolarmente cara, perché rammento ancora l’interesse e l’impegno che prodigò per aiutarmi ad addivenire alla decisione più giusta di quella vicenda giudiziaria così delicata, riguardante un caso umano veramente pietoso. Si trattava di un processo penale per tentato omicidio plurimo e pluriaggravato a carico di tale C. F., della quale non ho mai potuto dimenticare il nome. Il 29 novembre 1979, a Palermo, la donna, madre di due figli adolescenti (di 17 e 14 anni), entrambi portatori di handicap, perchè gravemente cerebrospatici, dopo aver messo a letto i ragazzi nel letto matrimoniale della propria stanza nella quale aveva collocato una bombola di gas liquido da 15 Kg, aprendone la valvola, si era distesa, a sua volta su un lettino vicino. L’odore di gas proveniente dalla casa aveva allarmato una vicina che aveva chiamato il 113 e provocato l’intervento di un altro vicino che entrato nella casa aveva tratto in salvo i ragazzi e la mamma ancora vivi e coscienti, apprestando loro i primi soccorsi in attesa dell’intervento dell’autoambulanza. Si era, dunque, proceduto con la formale istruzione, nel corso della quale era stata disposta perizia tecnica “per accertare la possibilità di esito letale dell’avvelenamento da gas” (sic la correzione del dottor Falcone riportata nella mia minuta, come sempre rigorosamente con la sua inseparabile stilografica). Il PM aveva concluso chiedendo il proscioglimento dell’imputata con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ho molto apprezzato il fatto che il Giudice Falcone mi avesse assegnato proprio quel processo così delicato e spinoso, per lo studio degli atti e la stesura del provvedimento conclusivo, perché avevo avuto modo di comprendere come Egli avesse preso molto a cuore quel caso umano veramente straziante; infatti, dimentico delle migliaia di carte sul suo tavolo (assegni e quant’altro) in attesa di essere studiate meticolosamente, posponendo anche i mille abboccamenti quotidiani con la PG (i cui dirigenti – alcuni dei quali oggi tristemente noti, vuoi perché caduti per mano mafiosa, vuoi perché condannati per collusioni con Cosa Nostra - quotidianamente facevano la fila nel corridoio antistante la sua stanza per relazionargli gli ultimi esiti delle attività di indagine), si era messo a spiegarmi qual’era la via migliore per giungere alla “giusta” conclusione della vicenda processuale, facendo ricorso all’istituto, ben poco usato, del reato impossibile. Ricordo bene che infervorandosi, a dispetto dell’ostentata sempiterna imperturbabilità, si era raccomandato di redigere una motivazione molto accurata perché la sentenza di proscioglimento non fosse passibile di impugnazione. Quella sfortunata donna andava prosciolta e messa al riparo da conseguenze giudiziarie negative del suo gesto disperato. Il mio "Affidatario", noncurante e dimentico degli altri impegni, si era prodigato, quindi, in ogni possibile chiarimento soffermandosi a rammentarmi quali fossero i criteri per ritenere applicabile l’istituto, sostanzialmente facendomi una dotta disquisizione sul reato impossibile, argomento che mostrava di avere “fresco” nella memoria come lo avesse studiato il giorno prima. Questi era il giudice istruttore Falcone, una persona profonda con doti umane non comuni e grande sensibilità come deve essere un Giudice, prima ancora che un raffinatissimo giurista, un eccellente investigatore ed un tecnico espertissimo dotato di una memoria degna di Pico della Mirandola. Da quest’uomo di dirittura morale inimitabile, di mentalità moderna, dallo straordinario coraggio e dalla prorompente personalità, dalle doti umane superiori, dall’intelligenza poliedrica (o piuttosto genio) ed eclettica, all’humor pungente e salace, che faceva capolino in battutine buttate lì a fare da contrappunto ed alleggerire le non dissimulate, né dissimulabili atmosfere pesanti e spesso grevi di quell’Ufficio, e dalla volontà ferrea nel perseguire la sua missione, con energia inconsumabile, ho appreso il fortissimo senso delle istituzioni e del dovere ed è questo “metodo Falcone” (l’unico che ho potuto apprendere) che ha guidato ogni passo della mia carriera, nella quale con i miei limiti e nel mio piccolo, ho cercato di non dimenticare mai gli insegnamenti ricevuti, con l’opera, ed in ogni gesto quotidiano, da un uomo dalla statura morale superiore quale era il giudice istruttore dottor Giovanni Falcone.

Uno “scienziato” dell'investigazione, scrive il 21 maggio 2018 su "La Repubblica" Angiolo Pellegrini - Generale dell'Arma in pensione, nei primi anni '80 capitano della “sezione Anticrimine” dei carabinieri di Palermo. Il 23 maggio 1992 si verificava l’attentato più grave nella storia della giovane Repubblica italiana: l’esplosione di 500 chilogrammi di tritolo, posti all’altezza di Capaci e, di conseguenza, la morte del magistrato Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta. Perdeva la vita quel “giudice” che mi piace definire ”lo scienziato dell’attività istruttoria ed investigativa” mente e coordinatore del pool antimafia che, in soli 4 anni (1980 – 1984), era riuscito a dimostrare che la mafia esisteva come organizzazione unitaria e gerarchicamente strutturata, e, nello spazio di poco più di dieci anni, al termine del più grande processo mai celebrato al mondo, ad ottenere la condanna per i capi a 19 ergastoli e per gli appartenenti all’organizzazione a 2665 anni di reclusione. La mafia, nata come associazione segreta, radicata in una subcultura ben definita era riuscita per lungo tempo a far pesare sulla società la sua forza intimidatrice e, nel contempo, a fare sorgere nei suoi confronti il consenso, adattandosi apparentemente ai canoni di giustizia propri della società delle aree meridionali. Ma, come si sarebbe potuto e dovuto prevedere, i settori d’intervento della mafia all’inizio degli anni 70 non erano più limitati a quelli tradizionali della Sicilia agricola: in pochi anni si sarebbe assistito a sempre più stretti collegamenti delle organizzazioni mafiose siciliane con quelle della Calabria e della Campania, prima nel settore del contrabbando dei T.L.E. e, poi, nel traffico degli stupefacenti, gradualmente esteso in tutto il mondo. La mafia, con l’aumento vorticoso del consumo delle droghe, ha sentito la necessità di disporre di grossi capitali con conseguenti enormi utili che attrassero nel “gioco” anche coloro che potremo definire di “terzo livello”. Quando la mafia – divenuta ricchissima - tanto da ritenersi più forte dello “Stato legale” – esce allo scoperto, la lotta si radicalizza ed, in conseguenza, della più decisa azione di contrasto degli organi investigativi dello Stato, si assiste ad una reazione quanto mai violenta, sfociata negli omicidi del T.C. Russo, dei Capitani Basile D’Aleo, del Maresciallo Ievolella, del V. Questore Boris Giuliano, dell’agente Zucchetto, dei Magistrati Terranova, Costa, Chinnici e del Prefetto dalla Chiesa. Ma, nello stesso tempo si verificano alcuni fatti importanti: la perdita progressiva del consenso da parte della popolazione, l’affermarsi di nuovi metodi d’indagine, la convergenza degli sforzi della magistratura e delle forze di Polizia, l’approvazione della c. d. “legge Antimafia”. E’ vero che il traffico internazionale di stupefacenti coinvolge una vera e propria multinazionale del crimine: i produttori di oppio del Medio Oriente, i contrabbandieri italiani, francesi e greci, addetti al trasporto della morfina, i gestori dei laboratori di produzione dell’eroina in Sicilia, i corrieri siciliani e italo – americani per la distribuzione degli stupefacenti in USA ed in Canada e per il ritorno in Sicilia di ingentissime quantità di dollari e le collusioni politiche per il riciclaggio del denaro. Ma, se è vero che la complessità degli accertamenti comporta grandi difficoltà per gli investigatori e per i magistrati, sono proprio tali difficoltà ad introdurre metodi d’indagine nuovi: in particolare si prende coscienza che il punto debole del fronte della mafia è costituito dalle tracce che lasciano i grandi movimenti di denaro. Falcone, proseguendo su questa strada, riesce a dimostrare dopo ben 18 secoli la mancata attualità dell’assunto, tramandatoci dallo storico latino Svetonio, “Pecunia non olet”. E’ nato quello che sarebbe divenuto il famoso “metodo Falcone”. Falcone, infatti, capovolse il metodo d’indagine: il Giudice Istruttore anziché lavorare, come era stato sempre fatto, su quanto riferito dalle forze di Polizia, assunse in prima persona lo svolgimento delle indagini, compiendo direttamente atti istruttori e delegando una serie impressionante di accertamenti, approfondimenti, indagini, riuscendo così a pervenire ad una visione unitaria del fenomeno mafioso. Riunì vari processi, pur se sembravano non riconducibili a gruppi criminali tra loro collegati (Spatola  più 119, Gerlando Alberti, Mafara Francesco, sequestro Sindona, arresto del belga Gillet e poi Greco Michele  più 161, Riccobono Rosario più 39, Provenzano Bernardo più 29 ), evidenziando che avevano tutti numerosi dati in comune e, soprattutto, il coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e nel riciclaggio del denaro. In sostanza, la capacità di sintesi, la memoria eccezionale, la visione strategica del problema consentì a Falcone di realizzare una sorta di enorme mosaico, sul quale riuscì a porre, ciascuno al posto giusto, migliaia di tessere, fornendo così una rappresentazione attuale ed aggiornata di “Cosa Nostra”, un’organizzazione unitaria, verticistica, con i propri organi di comando a livello provinciale e regionale, con collegamenti in tutta Italia e nel mondo intero. Lo stesso Falcone in un suo intervento alla tavola rotonda, organizzata a Palermo nel 1984 da Unicost, ha affermato: “Negli ultimi anni, uno sparuto drappello di magistrati e di appartenenti alle FF.PP. ha cominciato in più parti d’Italia ad impostare le indagini in modo finalmente adeguato alla complessità del fenomeno ed i risultati non si sono fatti attendere. E’ cominciata ad emergere una realtà di enormi dimensioni ed inquietante, solo intuita nel passato”……… “Non ci si è lasciati scoraggiare dalle difficoltà e, fra l’indifferenza e lo scetticismo generale, si è proseguita la via intrapresa cominciandosi ad ottenere i primi risultati: la positiva verifica dibattimentale di istruttorie particolarmente complesse riguardanti organizzazioni mafiosi ed efferati delitti di stampo mafioso”……. “Dall’iniziale separatezza fra i diversi organismi preposti alla repressione del fenomeno mafioso, si è passati in pochissimi anni, superando ostacoli ed incomprensioni di ogni genere, ad un clima di collaborazione di reciproca fiducia, impensabile fino a poco tempo addietro”.

La mossa vincente di seguire il denaro, scrive il 22 maggio 2018 su "La Repubblica" Leonardo Guarnotta - Già Presidente del Tribunale di Palermo, nei primi anni '80 componente del pool antimafia dell'ufficio istruzione. La lotta dello Stato alla mafia ha origini che risalgono, quanto meno, agli ultimi anni dell'800 e, verosimilmente, al 1° febbraio 1893, giorno in cui venne assassinato per mano mafiosa il marchese Emanuele Notarbartolo, persona incline all'etica e al rispetto della legge, già sindaco di Palermo per alcuni anni e direttore del Banco di Sicilia, storico istituto di credito dell'isola. E' stato considerato il primo eccellente delitto di mafia che, all'epoca, accese un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, anche se inizialmente nessuno osò fare nomi. Da allora e, per moltissimi anni, la lotta alla mafia è stata quasi sempre emergenziale consistendo in provvedimenti susseguenti a singoli fatti delittuosi, come la commissione antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Poi gli anni settanta con la Palermo dei delitti eccellenti ad opera dei corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano quando, in proditori agguati mafiosi, vennero uccisi, tra gli altri, il Procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice questore Boris Giuliano, il giornalista di inchiesta Mario Francese, il dottore Paolo Giaccone, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il Procuratore Gaetano Costa, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era questo il fosco, nebuloso contesto temporale in cui approdarono all'Ufficio di Istruzione del Tribunale di Palermo, alla fine degli Anni Settanta, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e, dopo l'uccisione di Rocco Chinnici per mano mafiosa, il dottor Antonino Caponnetto che gli subentrò nelle funzioni di consigliere istruttore. Con il loro avvento e con la creazione del pool antimafia, nel quale era stato nel frattempo cooptato il giudice Leonardo Guarnotta - io - i rapporti di forza tra Stato e mafia cambiarono e venne sferrato un attacco senza precedenti a “cosa nostra” grazie  all'impegno quotidiano profuso da quei magistrati, alla inaspettata collaborazione di Tommaso Buscetta il cui “esempio” venne seguito da Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Marino Mannoia, passati dalla parte dello Stato, le cui propalazioni, accuratamente riscontrate, hanno consentito di infrangere il  muro dell' omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri sui si basa la stessa esistenza di Cosa nostra, ma grazie anche e soprattutto alla professionalità, alla competenza, alla preparazione ed all'intuito investigativo di Giovanni Falcone. In una stagione giudiziaria in cui le conoscenze dell'apparato strutturale e funzionale di Cosa Nostra erano frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l'azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni '60 e '70 si erano chiusi i processi di Catanzaro e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), Giovanni Falcone seppe cogliere la struttura unitaria, verticistica, piramidale di Cosa Nostra, intuì che il fenomeno mafioso andava affrontato con una strategia diversa da quella posta in essere sino ad allora (e che si era dimostrata inefficace) ed elaborò un metodo investigativo del tutto innovativo e straordinariamente incisivo che, a ragione, è stato definito “rivoluzionario”. Nei primissimi mesi del 1980, il consigliere Rocco Chinnici aveva incaricato Giovanni Falcone di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano su cui gravava l'accusa di gestire un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano ben cinque “famiglie” mafiose dedite al commercio di armi e allo spaccio della droga. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a cosa nostra, consentì a Falcone di comprendere che la potenza economica della mafia aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Perchè, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di colore i quali l'assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l'acquista.

Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all'estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni. Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro. Venivano svolte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed ora anche all'estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all'altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni bancari e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto e mirabilmente guidato dal consigliere Antonino Caponnetto,  un organo giudiziario non previsto dall'allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo ( era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile uno scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi. Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della polizia, dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con la intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell'incipit dell'ordinanza-sentenza depositata l'8 novembre 1985. Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all'estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Il “metodo Falcone” era lui stesso, uomo e giudice, scrive il 23 maggio 2018 su "La Repubblica" Pietro Grasso - Giudice a latere della Corte di Assise del maxi processo, Procuratore nazionale antimafia, ex Presidente del Senato della Repubblica. Le mie conoscenze ed esperienze personali, professionali ed istituzionali mi inducono ad affermare che l’espressione “metodo Falcone” è una approssimazione generica e superficiale, usata spesso per riferirsi ad ambiti diversi e che riesce a dare l’immagine, di volta in volta parziale, solo di talune peculiarità dell'azione di Falcone, senza riuscire a coglierne per intero la complessità e l’importanza. Ricordo che lui stesso non amava quell'espressione, ritenendola quasi alla stregua di quell’altra dispregiativa qualificazione dei risultati delle sue indagini come “teorema Falcone”. In realtà il “metodo Falcone” era Falcone medesimo, la sua stessa personalità, il suo modo di essere e di concepire in maniera rivoluzionaria la funzione del giudice istruttore del vecchio codice di procedura penale. Anziché, come in passato, limitarsi a verificare gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria nei rapporti presentati, Falcone iniziò a dirigere direttamente le indagini, compiendo personalmente tanti atti, come interrogatori di imputati e assunzioni di testimoni, o delegandone altri specificatamente volti a trovare riscontri obiettivi. Io stesso potei rendermi conto personalmente di questa sua nuova concezione del ruolo di giudice istruttore.

ERA DIVERSO, ERA UN FUORICLASSE. Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera in magistratura dapprima come Pretore a Lentini, poi come giudice a Trapani, finché nell’estate del 1978 chiese e ottenne il trasferimento presso il Tribunale di Palermo. Dopo una prima esperienza alla sezione fallimentare, nell’autunno del 1979 e dopo l’omicidio del giudice Terranova e la nomina a capo dell’ufficio istruzione di Rocco Chimici, venne accolta la sua domanda di essere assegnato a quest’ultimo ufficio. Io in quel periodo, giovane sostituto procuratore presso la Procura di Palermo, mi trovai a seguire da P.M. il caso di rinvenimento di una carcassa di un ciclomotore rubato, con numero di matricola abraso. Un fatto assolutamente insignificante destinato a concludersi, come tanti altri, con una richiesta di archiviazione contro gli ignoti autori del furto. Grande fu la mia sorpresa quando mi resi conto che Falcone, nel restituirmi il fascicolo per le mie ulteriori richieste, trattò questa istruttoria con lo steso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Affidò una perizia al medico legale Paolo Giaccone (ucciso da Cosa Nostra l’11 agosto 1982), che aveva frattanto sperimentato un sistema per ricostruire il numero di matricola; attraverso questo risalì al derubato, cui restituì il motorino; trovò dei testimoni e fece arrestare i ladri, individuandoli in ragazzi del quartiere. Scoprii così che Falcone era un magistrato che non trascurava nulla, neanche le cose minime, che prendeva a cura i diritti delle vittime, che manifestava una tenacia investigativa ed un impegno eccezionali. Mi resi subito conto che era diverso da tutti noi: era un fuoriclasse. Anche Rocco Chimici intuì subito le sue qualità e gli affidò sin dal maggio 1980 alcuni rilevanti indagini sulla mafia e sul fiorente traffico di stupefacenti fra Italia e USA, come quelle contro Spatola Rosario + 120 imputati e contro Mafara Francesco ed altri. Il primo processo riguardava i rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense nel traffico di eroina fra i due continenti, l’affare Sindona e il reinvestimento dei profitti; il secondo aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto di Roma Fiumicino di un belga con 8 kg di eroina destinata ad una famiglia mafiosa palermitana. Frattanto al quadro generale investigativo Falcone collegò altri fatti: il sequestro da parte del Capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 19 luglio 1979) di 4 kg di eroina nel covo di via Pecori Giraldi, frequentato da Leoluca Bagarella; il sequestro di una valigia all’aeroporto di Palermo contenente 500.000 dollari e magliette di pizzerie di New York (da qui nasce il nome dell’indagine “Pizza Connection”), cui seguì dopo pochi giorni il sequestro a New York di valigie piene di eroina purissima. Infine la scoperta presso una villetta di Trabia (nei pressi di Palermo) di un laboratorio per la produzione di eroina gestito da Gerlando Alberti, a cui si arrivò seguendo tre chimici francesi inviati a Palermo dal “clan dei marsigliesi” per far apprendere ai mafiosi il procedimento di raffinazione e trasformazione della morfina base in eroina purissima.

LA SCOPERTA DELLE RAFFINERIE DI EROINA. Nel prosieguo dell’indagine sul sequestro all’aeroporto di Roma di 8kg di eroina, Falcone ottenne dal belga arrestato (Gillet) e da altri due corrieri (un altro belga, Barbé, e uno svizzero, Charlier) delle sensazionali dichiarazioni che aprirono degli scenari assolutamente inaspettati. Rivelarono infatti di essere stati, tra l’altro, incaricati di reperire in Medio Oriente, ed in particolare in Turchia e in Libano, morfina base da portare a Palermo, che, una volta trasformata in eroina con alto grado di purezza, provvedevano essi stessi a consegnare in Usa da dove, di ritorno, portavano a Palermo e in Svizzera ingenti quantità di dollari, provento della droga. Si ebbe così l’importante riscontro che la mafia non importava più l’eroina, ma la produceva direttamente. E sull’onda di tale svolta investigativa si accertò che per il traffico di stupefacenti si era riproposta una struttura analoga a quella del contrabbando di tabacchi, con partecipazione per quote e con utilizzazione, da parte dei mafiosi Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e Giuseppe Savona, dei canali del “Triangolo d’oro” del sud est asiatico (Thailandia, Laos, Birmania), per l’approvvigionamento della morfina. Falcone si trovava proprio a Bangkok a seguire le tracce di tali traffici in collaborazione con la polizia thailandese il 29 luglio 1983, giorno della strage del suo capo, Rocco Chinnici. Aveva compreso che la mafia siciliana operava non solo in Sicilia, ma anche in altre zone d’Italia e all’estero, per cui attraverso la cooperazione internazionale, basata soprattutto sui rapporti personali, bisognava viaggiare e cercare contatti e prove al di fuori degli uffici. I primi contatti furono stabiliti con i magistrati di Milano nell’ambito del processo Spatola, perché in quella città era stato sequestrato il più grosso quantitativo di eroina (40kg), che, provenendo da Palermo, avrebbe dovuto raggiungere gli U.S.A., eludendo i pervasivi controlli agli aeroporti di Palermo e di Roma. Falcone convinse il collega milanese a trasmettere per competenza l’indagine a Palermo, istaurando un clima di fiducia e di collaborazione, che si rivelò particolarmente fruttuoso, anche coi magistrati della Procura milanese Colombo e Turone nel corso delle indagini sul caso Sindona, riuscendo a ricostruire tutti i suoi movimenti ed il ferimento compiacente da parte del medico Miceli Crimi.

I SUOI RAPPORTI CON L'FBI E CON RUDOLPH GIULIANI. Identica e feconda attività di cooperazione internazionale venne svolta da Falcone con l’ufficio del Procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani e coi suoi collaboratori Louis Free e Richard Martin. Al di là dei trattati internazionali e di precedenti significativi, gli strettissimi e amichevoli rapporti personali instaurati gli consentirono di muoversi con concretezza e speditezza, al di fuori delle formalità delle rogatorie internazionali, nello scambio di informazioni sui rapporti tra le famiglie mafiose siciliane ed i componenti di cosa nostra americana. Falcone fece tesoro anche degli strumenti investigativi usati in maniera pragmatica dai colleghi statunitensi, come i collaboratori di giustizia e gli infiltrati, figure che sarebbero state dopo molti anni (1991), introdotte anche nel nostro ordinamento. Si gettarono anche le basi per un accordo Italia-Usa su collaborazione giudiziaria ed estradizioni che venne sottoscritto nel 1984. Poiché molti indagati nelle intercettazioni telefoniche disposte sia dalla DEA e poi dall’FBI parlavano in dialetto siciliano stretto, per accorciare i tempi delle trascrizioni in inglese e in italiano, di comune accordo, squadre della polizia italiana si trasferirono da Palermo in Usa, per procedere direttamente all’ascolto delle conversazioni. L’idea di squadre investigative comuni era per quei tempi assolutamente innovativa, realizzabile soltanto per la fiducia e il rispetto dei ruoli e delle regole che Falcone aveva il pregio di saper infondere. Frattanto erano stati scoperti, a Palermo, altri laboratori per la raffinazione dell’eroina. Un’altra importante indagine, che poi confluì formalmente nella “pizza connection” e nel Maxiprocesso, venne generata dall’attività di un infiltrato dagli agenti americani, tale Amendolito, reclutato dalla mafia siculo-americana per trasferire valigie piene di dollari in piccolo taglio dapprima a Nassau, nelle Bahamas, e poi in Svizzera in banche di Lugano e Zurigo. Parte di quei soldi venivano reinvestiti nel traffico, una parte tornava a Palermo e veniva depositata in banche con false attestazioni di vendita di prodotti agroalimentari e parte ancora finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola. Falcone, per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia. Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Falcone non tralasciava nulla e si precipitava ovunque in Italia e all’estero avesse notizia dell’arresto di un trafficante di droga, di esperti in materie specialistiche, avulse dalla diretta competenza dell’organizzazione, come chimici, riciclatori, professionisti o imprenditori, per cercare connessioni con cosa nostra. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso. Inoltre, aveva inaugurato la prassi di essere presente con attenti sopralluoghi dove erano stati commessi omicidi o stragi. Tutti questi comportamenti innovativi per il ruolo del giudice istruttore gli avevano fatto affibbiare la denigrante nomea di “giudice sceriffo” e “giudice planetario”. A tutti i soggetti con cui veniva in contatto, Falcone garantiva rispetto delle loro funzioni, reciprocità nello scambio delle informazioni, rigorosa difesa del segreto istruttorio: ciò gli conferiva un patrimonio di credibilità, di imparzialità e di fiducia che convincerà anche tanti mafiosi a collaborare, e solo con lui. Tutto ciò faceva parte del suo “metodo “? Certamente sì, ma non si può liquidare solo con questo. Falcone credeva anche nell’importanza del lavoro di gruppo, del coordinamento delle indagini, e nella necessità di non disperdere, attraverso nuove tecnologie, la memoria dei singoli fatti d’indagine.

UNA NUOVA STRADA FINO AL MAXI PROCESSO. Ad aprire questa strada giuridico-organizzativa fu Chinnici. Quando, dopo l’omicidio del collega Cesare Terranova divenne capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, del quale già faceva parte come giudice anziano, diede nuovo impulso all’ufficio, dirigendo personalmente tutte le indagini più importanti come quelle sui cosiddetti omicidi eccellenti (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa) e affidando a magistrati di indubbio valore, come Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, le altre inchieste più rilevanti come quelle sul costruttore Rosario Spatola, sull’omicidio del Capitano dei carabinieri Emanuele Basile, e su Michele Greco + 161, così creando i presupposti per quel pool antimafia, che avrebbe sviluppato al massimo la sua potenzialità con il successore, Antonino Caponnetto. Questi, infatti, col pieno accordo dei citati magistrati, validissimi sotto il profilo delle tecniche investigative e dotati di ineguagliabile tensione morale, formò attraverso la co-assegnazione di tutte le istruttorie pendenti, un gruppo coeso, capace di una particolare efficienza e laboriosità, l’unico idoneo a indagare sui mille rivoli dell’attività della mafia. Superando i problemi procedurali e sostanziali del vecchio codice, che prevedeva la monocraticità del giudice istruttore, e adottando soluzioni già sperimentate, anche per la condivisione dei rischi, dai giudici di altri uffici del nord nel contrasto al terrorismo, fu possibile coordinare e ricondurre ad un’unica centrale investigativa, diretta nel quotidiano da Giovanni Falcone, una massa innumerevole di episodi delittuosi, di documenti e di pregresse indagini. Così inaugurando un nuovo metodo di indagine, che collegava i tanti filoni legati unicamente, più che da connessioni soggettive o oggettive, dalla riferibilità dei reati all’organizzazione mafiosa cosa nostra, di cui era intuita quella struttura unitaria, verticistica, che sarà svelata successivamente da Buscetta e avallata da altri collaboratori di giustizia. Per la prima volta, attraverso le risultanze degli ultimi dieci anni di indagine, si potè tracciare un’immagine più aderente alla realtà criminale di Cosa Nostra, già tracciata, in passato, ed in ultimo col rapporto Michele Greco +161, dalla polizia giudiziaria attraverso fonti confidenziali, che, in mancanza di riscontri documentali e testimoniali, avevano portato sempre all’assoluzione dei mafiosi. Fu un lavoro di gruppo, ma che si fondava sulla capacità strategica di Giovanni Falcone, sulla capacità di trovare rimedi e soluzioni a problemi che apparivano insuperabili, che andavano dall’ottenere dal Ministero risorse materiali e addirittura di costruire un’aula bunker ad hoc per il Maxiprocesso sino all’interpretazione inedita di una norma. L’enorme quantità di lavoro, la sua singolare abilità nel prevedere gli sviluppi delle indagini e nell’organizzare il lavoro degli altri componenti del pool, il necessario coordinamento di tutto il materiale raccolto, anche tramite precise e puntuali deleghe alla polizia giudiziaria, trovarono poi, il prezioso, determinante e valido contributo di Buscetta che, a partire dal luglio del 1984, svelò regole, strutture e storie delle famiglie di cosa nostra, avallate da una miriade impressionante di riscontri. A questo apporto, seguì quello di numerosi altri collaboratori, che mostrarono anche il volto violento della mafia, descrivendo nei minimi dettagli decine e decine di omicidi, strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido. E si deve allo scrupolo investigativo di Giovanni Falcone, se, seppur, dopo tanti anni dai fatti, a seguito di ispezioni, sequestri, rilievi e perizie anche su una vecchia corda, rinvenuta nella cosiddetta “camera della morte”, vennero trovate tracce di sangue e di cellule umane, inequivocabile riscontri che resero credibili i racconti dei pentiti e rafforzarono l’impianto probatorio del maxiprocesso. Così come fatti apparentemente non conducenti, come le minacce epistolari ad una famiglia non gradita sul territorio per costringerla a sloggiare, furono utilizzati per dimostrare in maniera inequivocabile la condizione di assoggettamento, intimidazione e di omertà in cui vivevano i cittadini, a riprova dell’elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso. L’arresto poi di Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani, il rinvio a giudizio di questi ultimi tra gli imputati del maxiprocesso (fu processato solo il secondo, essendo Nino deceduto in Svizzera prima della fase processuale), furono utilizzati da Falcone per dimostrare che cosa nostra, come dichiarato da Buscetta, non era una comune organizzazione criminale, da contrastare soltanto con operazioni di polizia, ma un potere con ramificazioni nascoste nell’imprenditoria, nella pubblica amministrazione, nella politica, tra i professionisti e nella società, dato che i cugini Salvo, appartenenti a cosa nostra ed in particolare alla famiglia di Salemi (Trapani), erano stati per anni il fulcro tra affari, mafia e politica regionale e nazionale. Infine, a maggiori riprova dei rapporti di cosa nostra con entità eversive esterne, di notevole interesse si rivelò il coinvolgimento, riferito da Buscetta in istruttoria e confermato in aula dallo stesso Luciano Liggio, dell’organizzazione, attraverso i suoi vertici del tempo, nella fase preparatoria del Golpe Borghese del 1970. Liggio voleva delegittimare il pentito, attribuendogli delle interessate omissioni e si ritrovò in aula come un boomerang le puntuali dichiarazioni di Buscetta nei verbali precedentemente rese a Falcone, trattenute per approfondimenti istruttori. Anche in questo consisteva il “metodo Falcone”: saper prevedere e disinnescare preventivamente le trappole. Sapeva perfettamente che un processo poteva essere distrutto da un solo errore, bastava un nonnulla per poter incrinare irrimediabilmente la credibilità di un pentito o di un perfetto impianto accusatorio. Per questo era maniacale nella revisione e nel controllo di ogni singola carta, di ogni atto, di ogni riscontro. Cercava di evitare al massimo gli incidenti di percorso provocati da leggerezza, superficialità e sciatteria.

LA "GESTIONE” DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA. Con questo metodo, con queste qualità, potè impostare una istruttoria, prima ed un processo, poi, come il maxiprocesso di Palermo, con 475 imputati, 438 capi di imputazione che comprendevano non solo l'associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti o a criminali collegati a cosa nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e 120 omicidi, che comprovassero le attività anche a livello internazionale dell'organizzazione. E questa fu una ben precisa scelta di Giovanni Falcone, dato che qualcuno aveva prospettato la possibilità di portare a giudizio solo gli imputati detenuti, proprio per accelerare i tempi ed evitarne la scarcerazione, ma Falcone giustamente ritenne che solo una visione complessiva di tutti i fatti ed i soggetti collegati a cosa nostra potesse fornire ai giudici di una corte di assise, composta anche da cittadini non togati, l'inequivocabile contesto probatorio sull'esistenza dell’organizzazione, fino ad allora sempre negata. Sarebbero, peraltro, rimasti fuori dal processo tanti capi allora latitanti, come Riina e Provenzano e difficile da comprendere il loro contributo alla commissione provinciale di Palermo, organo propulsivo dell'associazione che ne testimoniava la struttura unitaria e verticistica. Il metodo Falcone, avuto riguardo al maxiprocesso, fu quindi quello di ripercorrere i fatti e i delitti di mafia a partire dalla prima fase successiva alla strage Ciaculli e di viale Lazio, cui partecipò anche Provenzano, sino alla cosiddetta seconda guerra di mafia, caratterizzata dalla supremazia delle famiglie appartenenti alla fazione dei “corleonesi”, che si impadronirono di tutti traffici, anche quello lucroso degli stupefacenti, mettendo insieme tutte le pregresse indagini bancarie, cementate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, nonchè le relazioni esterne di cosa nostra con le realtà imprenditoriali e politiche, rappresentate dei cugini Salvo e da Ciancimino. Cioè con quell'area che riusciva a far realizzare investimenti produttivi e grandi profitti, a persone che allora non avevano la competenza e la professionalità per farlo. Il “metodo” comprendeva anche magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, che mettessero insieme tutti quegli indizi provenienti dalla captazione delle intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e soprattutto dai collaboratori di giustizia. La gestione di questo piccolo esercito di coloro che via via uscivano dall'organizzazione fu estremamente difficile per il pool antimafia, per l'assenza di norme che ne regolassero i rapporti con i requirenti e con gli addetti alla loro tutela. Per tanti anni la loro protezione fu affidata al volontarismo, all'improvvisazione e alla genialità dei singoli uffici investigativi. Falcone per Buscetta, prima, e per Contorno e Marino Mannoia, in un secondo momento, si dovette “inventare” un accordo con le autorità statunitensi, che prevedesse “il prestito” temporaneo dei pentiti per farli testimoniare nel processo americano della “Pizza connection”, in cambio di un'adeguata protezione. Si dovettero attendere ben sette lunghi anni dalle prime dichiarazioni di Buscetta (luglio 1984) per ottenere nel 1991 la prima legge che stabilisse i requisiti della collaborazione, i diritti e i doveri dello status di collaboratore, oltre che misure di protezione e di copertura dell'identità, compatibili con il nuovo processo penale, anche sotto il profilo dei benefici. A Falcone non mancò mai la piena consapevolezza (tant'è che ne incriminò qualcuno per calunnia come il catanese Pellegriti) delle insidie che, in una procedura assolutamente garantista dei diritti della difesa, comportasse l'uso di tale strumento di indagine. Il suo metodo, che era solito suggerire ai giovani magistrati, era quello che, in senso figurato, si doveva sempre mettere un tavolo tra l'inquirente e il pentito, senza confidenziali incontri al caminetto, per rendere manifestamente visibile all'interlocutore che davanti aveva un rappresentante di quello Stato, che fino a poco prima aveva considerato un nemico da battere, e a cui doveva dare contezza della sua assoluta credibilità. Il metodo Falcone applicato ai pentiti suggeriva di acquisire il maggior numero possibile di dettagli, particolari, circostanze, anche apparentemente insignificanti, circa i fatti caduti sotto la loro diretta percezione, per potere trovare più agevolmente i relativi riscontri. Per dare il giusto rilievo alle motivazioni che avevano portato alla determinazione di rompere il vincolo di sangue acquisito col giuramento di appartenenza a cosa nostra, bisognava approfondire ed esemplificare con fatti concreti quelle espressioni gergali spesso usate dai dichiaranti, come, ad esempio, “Tizio è nelle mani di…”, “Caio è un uomo di…”, “Sempronio è collegato con..., Mevio è coinvolto in…”, così come valutazioni e opinioni assertive e spesso immotivate. Naturalmente, in applicazione del rigore metodologico di Falcone, bisognava evitare di mostrare particolare interesse per un argomento o per taluno degli indagati; accertare se il pentito avesse eventuali ragioni personali di vendetta o di ritorsioni nei confronti degli accusati; impedire qualsiasi possibilità di incontro dei collaboratori, in modo da poterli utilizzare, senza sospetti di preventivi accordi, come riscontri reciproci; ed, infine, mantenere un atteggiamento critico, non supinamente acquiescente, attento ad approfondire ogni elemento utile per un giudizio di piena attendibilità, come, ad esempio, la spontanea ammissione di responsabilità per reati non contestati. Il rigore metodologico di Falcone era un giusto equilibrio tra l'estrema cautela nel raccogliere dichiarazioni da soggetti che si erano macchiati di gravissimi delitti e l’ovvia considerazione che in una organizzazione criminale, che aveva fatto del segreto e dell'omertà uno dei suoi fattori di sopravvivenza, solo dalla viva voce dei protagonisti era possibile trarre elementi di conoscenza, altrimenti non acquisibili, di gravissimi episodi delittuosi.

SEMPRE ALLA RICERCA DI VERITA'. Sono queste le ragioni per cui il maxiprocesso di Palermo riuscì a resistere a 1000 eccezioni di nullità, impugnazioni, critiche anche da parte della politica, dell'informazione e soprattutto di una folta schiera di grandi avvocati di tutta Italia. Fu così che il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente (cui aveva ceduto il posto il collega Carnevale per ragioni di opportunità, stante l'infuriare di aspre polemiche per la mancata rotazione nelle cariche) pronunciò la sentenza definitiva che sanciva l'esistenza di cosa nostra e della sua struttura unitaria e verticistica, accogliendo in pieno l'impianto accusatorio della sentenza di primo grado. Un colpo durissimo per un’organizzazione che per la prima volta, dalla sua ultracentenaria esistenza, vide i suoi vertici condannati all'ergastolo, col vantaggio, per gli altri giudici che si sarebbero occupati di cosa nostra, di potersi limitare a provarne l'appartenenza. Si infranse così il mito dell'invincibilità e dell'impunità della mafia e si realizzò la concreta azione di uno Stato che in tutte le sue componenti, magistratura, forze di polizia, governo e Parlamento, si mostrò finalmente deciso a interrompere il rapporto di connivenza, di sudditanza e di indifferenza di cittadini e istituzioni. Del “metodo Falcone” non bisognerebbe trascurare un particolare e cioè che Falcone, nonostante tutte le accuse rivoltegli in vita: di essere dapprima comunista, poi andreottiano, infine socialista (quando fu chiamato al ministero della giustizia da Martelli), non si fece mai influenzare da idee o motivazioni che non rientrassero nella sua strategia di politica giudiziaria. Seguendo la sua visione della lotta alla mafia, cercava di volta in volta di ottenere l'aiuto e la collaborazione di chi poteva dargli l'opportunità di realizzare il suo obiettivo: l’ostinata ricerca di verità e di giustizia nel solo interesse di liberare i cittadini e le istituzioni dalla pesante oppressione della mafia.

IL "METODO FALCONE” COME MATERIA DI STUDIO. In conclusione, tutti i successi ed i risultati ottenuti sino ad oggi nel contrasto a cosa nostra e alle altre organizzazioni di tipo mafioso, non ho remore ad affermarlo con convinzione, costituiscono il frutto diretto del “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, o meglio della estrema capacità personale e professionale di Giovanni Falcone. Infatti, le fondamenta della legislazione antimafia furono edificate proprio da lui, quando, dopo gli ostacoli che lo avevano convinto a lasciare la procura di Palermo, si trasferì, come direttore generale degli affari penali presso il ministero della giustizia. In quell’anno (era il 1991), oltre la già citata legge sui pentiti e sui sequestri di persona, videro la luce norme per obbligare le banche e gli istituti finanziari a segnalare le operazioni sospette ai fini di riciclaggio di proventi illeciti; furono istituiti i servizi centrali (ROS, SCO, GICO) e interprovinciali di polizia giudiziaria, costituiti rispettivamente da carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza, per assicurare il collegamento investigativo. Fu creata, per accentrare tutte le indagini sulla mafia, la direzione investigativa antimafia, organo interforze accostato dei giornali ad una sorta di FBI italiana, la procura nazionale antimafia (DNA) e le direzioni distrettuali antimafia DDA), strutture indispensabili per coordinare tutte le indagini svolte dalle procure distrettuali sulla criminalità organizzata nazionale e transnazionale e sui traffici collegati. Questo modello, questo metodo di lavoro condiviso era, per Giovanni Falcone, null’altro che la trasposizione sul piano nazionale dell'esperienza del pool antimafia maturata negli anni del suo eccezionale impegno a Palermo. È difficile oggi spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni eroici, quali forze, quale coraggio, quale capacità di resistenza siano state necessarie per superare migliaia di ostacoli personali, materiali e giuridici. È difficile oggi raccontare come Falcone portasse avanti il suo lavoro nonostante le invidie, le calunnie, i veleni e gli schizzi di fango lanciati contro di lui. Così come far comprendere con quale spirito di servizio e rispetto dei ruoli istituzionali, dopo il trasferimento di Caponnetto e la nomina di Antonino Meli come nuovo capo dell'ufficio istruzione, pur preferito dal consiglio superiore della magistratura a lui, che più di tutti la meritava, collaborò, suo malgrado, a smantellare e a smembrare tutte le indagini, trasferendole ad altri uffici giudiziari, dal suo capo ritenuti, con ottuso formalismo, competenti per territorio, secondo una logica e una strategia giudiziaria completamente opposta rispetto a quella da lui precedentemente seguita. Ritengo che oggi sia giusto che tutti gli operatori di giustizia e tutti i cittadini sappiano quanto dobbiamo a Falcone e a quello che, genericamente, è stato più volte definito come il “metodo Falcone”. Se proprio vogliamo accettare questa definizione con tutto quello però che la contraddistingue, ritengo che il miglior riconoscimento a tutta la sua vita fatta di dedizione, di sacrifici e di professionalità sia quello di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura, per meglio formare i giovani magistrati, che si apprestano a svolgere funzioni così importanti per i cittadini e per la società, una nuova materia: il “metodo Falcone”.

Quello che ha rappresentato per lo Stato, scrive il 24 maggio 2018 su "La Repubblica" Ignazio De Francisci - Giudice del pool antimafia dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo nei primi anni '80, oggi è procuratore generale della Repubblica di Bologna. Dopo ventisei anni dall’assassinio di Giovanni Falcone mi viene chiesto di raccontare cosa fosse il “metodo Falcone”. Ho esitato a lungo prima di accogliere la richiesta di Attilio Bolzoni perché mi sembrava di dire sempre le stesse cose e quindi essere poco utile o, peggio, inutilmente ripetitivo. Poi ci ho ripensato, e ciò sia per la cortese insistenza di Bolzoni sia perché sempre più spesso, incontrando giovani colleghi o studenti, specie qui in Emilia Romagna, mi rendo conto quanto la figura e le opere di Giovanni Falcone siano poco conosciute e quindi non siano diventate memoria collettiva. Troppo poco si sa di lui e quindi torno a parlare di lui, di quello che ha rappresentato per l'azione dello Stato italiano contro la mafia. Troppe volte, quando dico che il 23 maggio devo essere a Palermo, mi si chiede il perché; questa data non è entrata nella comune memoria e invece dovrebbe essere scolpita nella coscienza di ogni italiano. Il segreto del metodo Falcone non aveva nulla di segreto; era tutto nella persona di Falcone, nelle sue qualità umane prima ancora che professionali. La sua assoluta serietà nel lavoro, impegno totalizzante di tutta la sua vita. Lavorare con lui, che per me fu un grande privilegio, significava adottare i suoi ritmi di lavoro o almeno cercare di avvicinarsi a quelli. Falcone non aveva hobby, passatempi, non giocava a calcetto, non scalava montagne, lui stava in ufficio. Le trasferte di lavoro, anche all'estero, con Falcone sono state per me una scuola di elevato livello, con esami continui, con lui sempre in prima fila e tu dietro a seguire, a imparare, a stare zitto, a fare domande dopo, nelle pause. Si imparava a interrogare i detenuti, con calma, a volte col sorriso, sempre con serenità e rispetto. Mi tornano in mente mille episodi, alcuni anche divertenti, che per me hanno significato apprendimento di tecniche, di stile, di vita professionale. La prima trasferta a Milano con lui, interrogatori nella sede della Criminalpol. Gli chiedo il permesso, a fine pomeriggio, di andare in piazza Duomo, non ci andavo dagli anni dell'infanzia. Gli chiedo di andare insieme, mi risponde di no: vai tu, io devo finire di leggere qualche carta. Lui non mollava mai. E poi ancora a Marsiglia, seconda metà degli Anni Ottanta, indagine per un traffico di stupefacenti tra Italia, Francia e Stati Uniti. La polizia francese ci invita a pranzo prima degli interrogatori fissati nel pomeriggio; era una splendida giornata di sole, ristorante sul mare, mi ricordo ancora quasi tutto il menu. Lui mangia come tutti, ma finito il pranzo è pronto per iniziare a lavorare, io molto meno, cerco di stare al passo, ma con esiti molto modesti. Quel giorno ho imparato che quando si lavora, meno si mangia e meglio è. Lui capì la mia difficoltà, non mi disse nulla, ma io sapevo che aveva capito e, almeno quella volta, perdonato. E poi la sua lealtà nei confronti di tutti i colleghi, specie quelli giovani, che trattava con rispetto e con grande umanità. Mi correggeva qualche mio scritto sempre in punta di piedi, senza commenti sgradevoli, con brevi tratti di penna stilografica. Non sopportava i superficiali, gli spregiudicati, gli arruffoni. Era coraggioso come sanno esserlo le persone serie che hanno consapevolezza dei rischi che corrono, ma credono di avere gli strumenti per superarli. Ricordo perfettamente, durante un interrogatorio di alcuni mafiosi americani negli Stati Uniti, le minacce che uno di questi gli rivolse; in tono untuoso e con la faccia che dice più delle parole, in perfetto stile mafioso. Io percepii la serietà della situazione, ma non lo vidi particolarmente preoccupato, ma conscio che quella inchiesta aveva smosso acque stagnanti. Aveva una fiducia illimitata nel rapporto con gli organi investigativi degli Stati Uniti, preparava con precisione ogni viaggio oltre Atlantico tutte le carte, le domande pronte, l’elenco degli atti da chiedere ai colleghi americani. Si entusiasmava financo del caffè americano che ci veniva offerto ovunque con generosità. Apprezzava quel sistema giudiziario, ma senza le approssimazioni utilizzate da chi vuole importarlo da noi solo nei limiti della convenienza del momento. Sognava un pubblico ministero nuovo, non poliziotto ma che guidava la polizia giudiziaria, che partecipava attivamente alle indagini, delegando solo l’indispensabile, interrogando imputati e testi, e soprattutto conoscendo ogni carta del processo. Sono passati 26 anni. Che ne è dell'insegnamento di Falcone? Quanto è stato realizzato della sua visione del mondo giudiziario? Non sono il più indicato per rispondere a queste domande. Certamente il Ministero della Giustizia (dove egli dette il meglio di sé), negli anni, ha portato avanti molte delle sue idee e i metodi di indagine da lui inventati e sperimentati sono stati diffusi in tutte le Direzioni Distrettuali Antimafia, organismo che lui ideò e che ha consentito di accentrare in sede distrettuale le indagini di mafia, obiettivo che oggi sembra facile aver raggiunto, ma che, allora, fu una rivoluzione e che ha impiegato anni per funzionare a regime. La Direzione Nazionale Antimafia, altro frutto delle sue idee, anche se diversa da quella da lui pensata, si muove comunque nel solco del metodo Falcone e del suo esempio. E non è poco.

Mafia: Fico, meglio mano in tasca che su cuore di traditori Stato, scrive Adnkronos riportato il 23 Maggio 2018 da "Il Dubbio". “Il rispetto per il Paese - scrive Fico - passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle […] “Il rispetto per il Paese -scrive Fico- passa da qui, da quello che noi facciamo ogni giorno, dalla dignità che con le nostre azioni diamo alle istituzioni. Ma capisco che faccia più notizia una mano tenuta in tasca per sei secondi mentre ero assorto da tutta quella energia e da quelle emozioni, piuttosto che tutto quanto detto e fatto in questa meravigliosa giornata. Preferisco una mano in tasca per qualche secondo alla mano sul cuore di chi poi tradisce lo Stato”. Poi il presidente della Camera prosegue sulla strage di Capaci: “Ciò che avvenne quel 23 maggio del 1992 ha smosso l’anima del nostro Paese, come ha smosso la mia. Ricordo perfettamente quel pomeriggio, quando si diffuse la notizia della strage di Capaci e della morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta”. “Il percorso che ho intrapreso in questi anni deriva anche da quella giornata, da quella sensazione e da quella presa di coscienza che non avrei più dimenticato: bisogna decidere da che parte stare, ogni giorno. Perché ogni giorno possiamo lottare contro la mafia attraverso il nostro lavoro e le nostre azioni”.

Memoria d'accusa: quando Giovanni Falcone denunciava il caso Palermo. Ecco l'intervento del giudice ucciso che L'Espresso ha pubblicato in esclusiva il 18 settembre 1988. «C'è un senso di scoraggiamento. Ci hanno messo nella condizione di non muoverci», scrive Pietro Calderoni il 23 maggio 2018 su "L'Espresso". Ecco l'atto d'accusa che il giudice palermitano Giovanni Falcone ha fatto domenica 31 luglio (1988 ndr) davanti al Comitato antimafia del Consiglio superiore della magistratura. È una testimonianza eccezionale (l'audizione era segreta) e sconvolgente con la quale il magistrato più esposto nella guerra contro “Cosa nostra”, per la prima volta, ha parlato esplicitamente degli intralci nel suo lavoro, dei contrasti insanabili col suo capo, il consigliere istruttore Antonino Meli, del tentativo di smembrare e di fatto disinnescare il “pool” antimafia, dell'impossibilità - visto il clima che tira nell'Ufficio istruzione di Palermo - di continuare a istruire i processi. Insomma, dice Falcone, qualcosa si è inceppato nella lotta alla mafia. E spiega il perché. Falcone denuncia che, al Palazzo di giustizia di Palermo, è in corso uno scontro, decisivo, tra due modi d'intendere la lotta alla mafia. Da una parte, il consigliere Meli, reo di voler gestire il delicatissimo momento giudiziario in forma esclusivamente burocratica, rallentando l'iter dei processi più importanti e svilendo il lavoro del pool; dall'altra parte, appunto, i giudici del pool antimafia, con Falcone in testa, preoccupati per questo calo di tensione negli uffici giudiziari palermitani. È una polemica che nasce, in realtà, il 20 luglio dopo una intervista, a “Repubblica”, del giudice Paolo Borsellino, fino a qualche tempo prima nel gruppo dei giudici antimafia di Palermo e poi passato a dirigere la procura della Repubblica di Marsala. Borsellino fa pesanti accuse: «Stiamo tornando indietro come vent'anni fa», dice. E aggiunge: «Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata come prima, più di prima». Non solo: Borsellino sostiene che Meli ha cominciato a smantellare, con i pretesti più diversi, il pool anti mafia. Meli replica stizzito che non è vero. Le gravi parole del giudice Borsellino, però, non cadono nel vuoto. Nemmeno 24 ore dopo l'intervista, infatti, è addirittura il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, a intervenire chiedendo che sia fatta piena luce su quello che sta accadendo all'interno del Palazzo di giustizia di Palermo. Lo scontro fra Meli e Falcone, fino a quel momento covato sotto la brace, emerge in tutta la sua crudezza. Uno scontro che, il 19 di gennaio (1988 ndr), aveva avuto il suo prologo, quando il Consiglio superiore, premiando l'anzianità rispetto alla professionalità e alla competenza specifica, aveva deciso di nominare, a strettissima maggioranza, dopo lunghe discussioni e spaccature, consigliere istruttore di Palermo proprio Meli invece di Falcone. Alla fine di luglio, dunque, in una Roma oppressa da un caldo africano, le porte del palazzo dei Marescialli, dove ha sede il Csm, si aprono per ascoltare le ragioni dei protagonisti. È un'indagine il cui epilogo è destinato a emergere dalla riunione del Consiglio fissata a partire da martedì 13 settembre. A luglio, il giudice Borsellino conferma le sue parole. Subito dopo, davanti agli 11 membri del Comitato antimafia del Csm, si siede Giovanni Falcone. Ha appena consegnato una lettera in cui chiede di essere trasferito in un altro ufficio; lui, l'uomo che ha istruito il maxiprocesso, che per primo ha raccolto le confessioni di Tommaso Buscetta, che ha incriminato il sindaco democristiano Vito Ciancimino, che ha indagato per scoprire gli assassini dei grandi delitti eccellenti, da quello di Piersanti Mattarella a quello di Pio La Torre, dice che così non ha più senso andare avanti. E ricorda, accusa, elenca, davanti agli altri giudici del Consiglio superiore della magistratura, portando esempi, rievocando fatti, rivelando episodi rimasti fino a quel momento segreti. Il lungo intervento di Falcone è introdotto dal consigliere Carlo Smuraglia: «Falcone, la ringraziamo per essere qui. Lei conosce le ragioni... la preghiamo di parlare». E il giudice parla.

Parole di Falcone. «Si è verificata purtroppo una situazione di stallo che ci sta portando verso quella gestione burocratica dei processi di mafia che è stata la causa non secondaria dei fallimenti degli anni, dei decenni trascorsi. Cosi vengono a confronto due filosofie del fare il giudice: quella che prevede una gestione burocratica-amministrativa-verticistica dell'Ufficio e quella che tende ad ottenere i risultati dell'istruttoria. Il consigliere Meli spesso, molto spesso, mi sollecita a chiudere le istruttorie, ma certi processi hanno bisogno del loro sfogo, certi processi politici, come l'omicidio Mattarella [era il presidente democristiano della Regione, dc, ndr.], quello La Torre [era il segretario regionale del Pci siciliano, ndr.] o quello Parisi [Roberto Parisi, presidente del Palermo calcio, ndr.] non si possono chiudere, a meno che non si voglia fare il solito fonogramma al Commissariato chiedendo l'esito di ulteriori indagini e, alla risposta che l'esito è negativo, chiudere la solita bellissima sentenza contro ignoti. «Il problema è cominciato a diventare più pressante con l'insediamento del consigliere Meli. Ci saremmo aspettati quanto meno di essere convocati per uno scambio di idee, per discutere dei problemi enormi, materiali e di gestione di tutti questi processi, ma nulla di tutto questo è avvenuto... Se c'è una filosofia del pool, del lavorare insieme in materie così intimamente connesse come quelle che riguardano le attività mafìose, era proprio quella di cercare di seguire sempre l'evolversi delle varie indagini per vedere attraverso un esame globale del fenomeno di poter incidere in maniera più efficace; senonché ci siamo accorti che mano mano le cose cambiavano. I processi venivano assegnati con un criterio da noi non conoscibile e in contrasto coi criteri predisposti e approvati dal Consiglio superiore della magistratura, criteri che prevedevano che a quel gruppo di sezioni dovessero essere affidati tutti i processi di mafia... Tutto questo invece non veniva osservato: non soltanto non veniva osservato, ma noi non ne conoscevamo il perché».

IL SEQUESTRO MISTERIOSO. «Faccio un esempio, il processo per l'omicidio di Tommaso Marsala [industriale, ucciso nel 1987, titolare dell'appartamento-base dei killer del vicequestore Ninni Cassarà, ndr.]: Marsala era imputato dell'omicidio Cassarà, era stato scarcerato per mancanza d'indizi ma permanevano sul suo conto pesanti sospetti. A un certo punto Marsala viene ammazzato: dopo l'inchiesta sommaria il processo contro ignoti viene formalizzato e assegnato al giudice Lacommare. Egli prospetta dci motivi di opportunità [poiché evidentemente non fa parte del pool antimafia, ndr.], ma gli viene risposto che un po' tutti si devono occupare d'indagini di mafia. «Lo stesso avviene col processo per il sequestro di Claudio Fiorentino [il maggior gioielliere palermitano, rapito il 10 ottobre 1985, ndr.], che è uno dei fatti più gravi e più significativi su cui occorre, a mio avviso, approfondire le indagini. I Fiorentino erano già venuti fuori nel 1980, ai tempi del processo Spatola [il clan mafioso in contatto anche con Michele Sindona, ndr.] per una sorta di attività di riciclaggio di denaro, dollari statunitensi di provenienza illecita, Il sequestro appariva abbastanza anomalo e soprattutto in contrasto con un divieto di compiere sequestri di persona stabilito da Cosa Nostra in Sicilia. Quindi delle due l'una: o il sequestro era finto o erano cambiate le regole di Cosa Nostra; fra l'altro il sequestro era avvenuto in territorio Partanna-Mandello, cioè in una zona molto vicina ai Corleonesi e quindi si trattava di cercare di fare luce sull'episodio. Bene, questo processo il Consigliere istruttore se lo assegna a se stesso senza dare nessuna spiegazione in merito. A questo punto prendiamo atto di questa realtà e gli chiediamo copia degli atti, una richiesta che ci consentiva di vedere se e quali agganci potessero esserci con altri processi in corso. Tra l'altro segnaliamo al Consigliere, nella nostra richiesta, l'esigenza indifferibile del potenziamento del pool; gli abbiamo detto, nei modi più garbati, che in questa maniera si smembra tutto, gli abbiamo spiegato i motivi per cui noi ritenevamo che quei processi avessero attinenza al gruppo antimafia; infine gli abbiamo ricordato che all'Ufficio istruzione esiste uno strumento informatico molto importante, creato da noi giorno dopo giorno, per cui la conoscenza di quel processo ci serviva anche per inserire gli atti nell'elaboratore elettronico...«Succede che, di fronte a queste nostre richieste, il consigliere avoca la titolarità del processo contro Cosa Nostra... E poi si rifiuta di trasmetterei copia degli atti richiesti affermando che dovevamo chiedere atti determinati e non tutti gli atti. Io mi chiedo com'é che potevamo chiedere atti determinati se non li conoscevamo! «Poi sono cominciati ulteriori problemi, da ultimo questo processo per l'omicidio di Antonio Casella (grosso imputato, chi si occupa di queste indagini sa bene che significa questo nome: Edilferro eccetera), fatto di gravità inaudita, perché significa una spaccatura all'interno della maggioranza egemone [di Cosa Nostra, ndr.]. Naturalmente chiedo ai colleghi della Procura: "Quando lo formalizzate, me lo fate sapere". Il processo viene assegnato al collega Grillo, il quale, appena lo legge, va da Meli e gli dice: "Ma guardi, cosa c'entro io?". Risponde Meli: "Ah, non me ne ero accorto''. Allora io dico, come si fa a non accorgersi di un fatto del genere, significa non aver letto nemmeno il rapporto, cioè fare l'assegnazione solo sulla copertina. Allora, per rimediare, è un po' maligna la cosa, il Consigliere Meli assegna il processo per l'istruttoria di questo omicidio a otto persone! Ora io chiedo, come si fa a istruire così, un processo del genere? La risposta la lascio alla vostra intelligenza. «E poi in queste assegnazioni, stranamente, alcuni colleghi del gruppo antimafia non vengono presi in considerazione, nel senso che non vengono loro assegnati questi processi, ma processi ordinari, processi per rapine... Tutta una serie di processi del carico ordinario li abbiamo istruiti sempre; ma, se si aumenta indiscriminatamente il carico ordinario, ci fermiamo tutti e difatti quando io parlo di situazione di stalla, intendo dire che adesso le indagini, gli interrogatori, gli esami testimoniali, li posso fare soltanto io perché gli altri sono occupati a gestirsi l'ordinario. E a questo punto ci blocchiamo tutti. «Ecco io non lamento altro; però una cosa è molto seria, questa mancanza di comprensione dei problemi. Il Consigliere non ha letto ancora una pagina del processo di cui è formalmente assegnatario, ma ha determinato tutta questa serie di reazioni a catena per cui ci siamo inevitabilmente fermati tutti. E io personalmente non intendo avallare una gestione di processi di questa gravità in una visione burocratico amministrativa».

IL BLOCCO TOTALE. «Io non intendo assolutamente sovraccaricare nulla e ho sempre ispirato la mia condotta alla volontà di sdrammatizzare tutti i problemi, ma le condizioni obiettive sono queste: noi ci troviamo bloccati da fatti che, presi uno per uno, sembrano delle miserie, ma presi globalmente bloccano tutto. Tutta questa situazione all'interno dell'Ufficio in realtà ha prodotto il blocco totale. Ci trastulliamo con vicende che non meriterebbero nessuna attenzione, mentre sui nostri problemi non riusciamo a concentrarci».

Domanda il consigliere Guido Ziccone, del Sindacato magistrati: «Da come lei ha riferito i fatti, mi sembra di aver capito che c'è una serie di difficoltà che mano a mano sono emerse, evidenziate dal modo in cui questo pool ha ragionato e operato. È un modo che il Consigliere istruttore avrebbe voluto o vorrebbe modificare?»

Falcone: «Io non so nemmeno se vuole che ci sia un pool, e con quali persone, perché non ce ne ha informato ancora!».

Ziccone: «La cosa che mi colpisce, che colpisce tutto il Paese... è come si arrivi a questa diagnosi d'impossibilità di andare avanti... ».

Falcone: «C'è un senso di scoraggiamento da parte dei colleghi... Le faccio un altro esempio (ma ne potrei fare centinaia di questo esempi): processo per truffa di miliardi alla Sicilsud Leasing, processo molto importante sorto fra l'altro da indagini che avevamo fatto noi (io in particolare) e che poi sono state sviluppate dalla Procura della Repubblica e dalla Guardia di finanza; processo in cui ancora una volta viene a trovarsi coinvolto, come perno, Tommaso Marsala.

IL PROCESSO NEGATO. «Essendo un processo molto importante, aspettiamo che arrivi all'ufficio istruzione; finalmente un giorno telefono alla cancelleria c mi dicono che è arrivato da una decina di giorni; chiedo a chi è assegnato c mi rispondono che è assegnato anche a me. Pensando di dover lavorare anch'io, chiamo il collega assegnatario e gli chiedo quando ci riuniamo per parlarne. Risponde di no, che è inutile riunirsi, che io posso richiedere la sola copia degli atti. Pensando che ci fosse l'assegnazione congiunta, vado a vedere e l'assegnazione è in questi termini: il processo è assegnato al giudice istruttore Barrile e, limitatamente agli atti che potrebbero essere importanti nelle indagini su Marsala, anche ai giudici Falcone e Lacommare; s'inserisce una terza persona ed ecco che siamo in quattro. Ora io vi chiedo: sulla base di questa delega, come ci possiamo muovere noi?... Cosi mi si mette in condizioni di non muovermi, non posso fare nulla. Giorno dopo giorno c'è un problema, poi quando cerchiamo di far capire queste cose, ti spunta sul “Giornale di Sicilia” un comunicato: basta coi miti, queste beghe fra magistrati, queste sono beghe fra cordate di magistrati, tutti sono in grado di fare tutto. Voglio dire che è tutta una serie di colpi di spillo che ti mette in condizione di non muoverti. Certo, se scomponiamo e rianalizziamo queste vicende, sono tutte risolvibili, però, poi, in concreto ti accerchiano c non ti muovi. Tutto questo ti delegittima, tutto questo t'impedisce di andare avanti; diceva Dalla Chiesa che Palermo era una città dove il “prestigio” conta...».

Domanda il consigliere Smuraglia: «Rispetto a quando è venuto a Palermo il Comitato antimafia del Consiglio, cioè a fine gennaio, la situazione complessiva è migliorata, è rimasta uguale o è peggiorata?».

Falcone: «io direi che al peggio non c'è mai fine, ma certo migliorata non è... Recentemente mi è capilato di dover rivivere quegli stessi errori che abbiamo censurato per il passato. Agli inizi degli anni '60 certe frasi come “rappresentante”, “famiglia mafiosa”, “reggente” (tutto un insieme di notizie che poi ci sarebbero state dette anche da Tommaso Buscctta) c'erano già scritte nei rapporti. Poi, dagli anni '70 in poi, tutto questo sparisce, perché? Per la mancanza di memoria storica, per la mancanza di professionalità specifiche per questi problemi. Cosi noi ci troviamo adesso in una situazione identica a quella di prima che iniziassimo le indagini istruttorie... Adesso constatiamo scarsezza di collaborazione e di entusiasmo, io non vedo funzionari di Polizia nel mio ufficio da mesi, mesi e mesi...».

L'AUTISTA AL COMPUTER. Smuraglia: «Il Procuratore Borsellino ci ha detto che adesso dei computer, dell'impiego degli elaboratori elettronici si occupa il collega De Francisci».

Falcone: «Se ne occupava! Perché Dc Francisci, occupato anche lui nell'ordinario, è costretto a diradare il suo impegno nell'informatica ed il laboratorio viene gestito da un commesso, l'ex autista di Chinnici...»

Smuraglia: «Non è arrivato un tecnico?»

Falcone: «No, no, no. Queste elaborazioni vengono affidate a questa persona dotata di sensibilità, che però può omettere dei dati che per noi sono significativi e per lui non lo sono».

Domanda il consigliere Pietro Calogero: «Il ricorso al carteggio che si è dispiegato in questi mesi fra i componenti del pool e il consigliere Meli a cosa è dovuto? Qual è la ragione del ricorso allo scritto tra componenti dello stesso ufficio?».

Falcone: «Noi abbiamo fatto ricorso allo scritto solo dopo che ci siamo resi conto che non c'era alcun dialogo. Io stesso più d'una volta l'ho detto al Consigliere: incontrati con noi, non vogliamo altro che lavorare in piena armonia. Non è stato possibile».

Calogero: «Quindi anche la richiesta di copia degli atti in ordine al sequestro Fiorentino, era stata preceduta da richieste verbali di conoscere gli atti del processo?».

Falcone: «Erano andati a parlare con Meli sia Natoli che Trizzino... Insomma nel concreto: ci siamo resi conto che se l'è assegnato lui, ritenendo che fosse un qualcosa di ordinario e credo che forse tuttora non sia convinto che sia importante questo processo, ma in realtà è molto importante».

Calogero: «In relazione ai processi che si è autoassegnato, processi di mafia s'intende, risulta che Meli abbia svolto atti istruttori?».

Falcone: «No...».

Il consigliere Massimo Brutti: «Vorrei che Falcone ci desse tutte le indicazioni possibili sulla base della buona volontà per uscire dall'impasse, perché si possa risolvere tutto questo problema nella chiarezza».

Falcone: «La buona volontà da parte nostra c'è tutta. Io penso che il punto focale è che il Consigliere Meli dovrebbe comprendere che non c'è nessun complotto di nessun genere. Meli, a mio avviso, è stato male informato. Io credo che non abbia compreso un fatto fondamentale: che noi non abbiamo altri interessi che non siano quelli istituzionali. Ma, vivaddio, tutte le responsabilità, tutte le colpe saranno perseguite, a qualsiasi partito appartengano coloro che abbiano commesso determinati reati. Solo a queste condizioni io sono disponibile per continuare. Ripeto, purché tutti quanti ci si renda conto che bisogna lavorare serenamente, in buona fede e senza fini di altro genere».

"Ho tollerato le accuse in silenzio". Le parole di Giovanni Falcone, tratte da lettere e libri del giudice ucciso, scrive il 23 maggio 2012 "L'Espresso".

Lettera di Giovanni Falcone al CSM, Palermo, 30 luglio 1988, ora in G. Monti, Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia, Editori Riuniti/L’Unità, Roma, 2007, pp. 88-90. Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto, ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità dell’ufficio. È certo però che esulava completamente dalla mia mente l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo svolgimento della mia attività. Il ben noto esito di questa vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale. Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere. Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti. Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia. […] Mi auguro che queste mie istanze, profondamente sentite, non vengano interpretate come gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio di chi è costretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio pensiero senza condizionamenti di sorta. 

Da "Cose di Cosa nostra", in collaborazione con Marcelle Padovani, 1991, edizione del maggio 2004, p.8'2-83 e p.170-171. Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. […] Sono uomini come noi. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia […] Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcuni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente innocue, certi comportamenti, che nel resto d’Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito […] Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. 

Da "Interventi e proposte" (1982-1992), Sansoni editore, pp.304-305. Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di "emergenza", in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali […].

Dopo le inchieste della magistratura, ora la politica ritrovi le responsabilità di quegli anni. La nuova Commissione antimafia deve continuare il lavoro interrotto. E svolgere nuovi approfondimenti per fare luce sui lati oscuri di quel periodo, scrive Lirio Abbate il 22 maggio 2018 su "L'Espresso". Le indagini su gravi episodi di omissione e depistaggio hanno portato negli ultimi anni a nuovi processi per le stragi del 1992, aperti a Caltanissetta. Processi rifatti e nuovi imputati alla sbarra. E nuove sentenze di condanna sono arrivate. Per l'attentato di Capaci si sta ancora processando il latitante Matteo Messina Denaro, considerato uno dei mandanti. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, alla partenza della nave della Legalità che porta gli studenti di tutta Italia a Palermo ha detto: «Il 23 maggio è una data che non si può dimenticare, viene ricordata ogni anno la data del vile attentato di Capaci. Da allora si è sviluppato un movimento di reazione civile prezioso e importante, contro la mafia che ha ottenuto risultati importanti ma che richiede ulteriori impegni». Del periodo stragista di ventisei anni fa e si è occupata la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi che ha affrontato il carattere politico-mafioso di quelle stragi. Sono stati sentiti i magistrati di Palermo e Caltanissetta, i componenti della famiglia Borsellino, dalla sorella Rita, al fratello Salvatore, alle figlie Fiammetta e Lucia. È stato audito anche il magistrato Gianfranco Donadio, per il suo ruolo di procuratore aggiunto della direzione nazionale antimafia, e per i peculiari compiti che gli erano stati affidati, per il quale è stato un protagonista delle indagini sulle stragi «con un inevitabile strascico di polemiche e di ulteriori vicende anche giudiziarie». I commissari hanno svolto un grande lavoro che però non si è potuto allargare, per mancanza di tempo, e di fine legislatura. È adesso compito della prossima Commissione antimafia a svolgere ulteriori approfondimenti, tentando – sempre che ci sarà la volontà politica - di far luce su alcuni aspetti di queste oscure vicende. Le inchieste giudiziarie faranno il loro corso, ma è opportuno dare maggiore spazio all’inchiesta politica e all’analisi storica sulle responsabilità – politiche? - di quegli anni.

Perché Giovanni Falcone vive ancora oggi. Dal giorno dell'attentato il giudice ha cominciato a rinascere, a diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Sino a essere, con Paolo Borsellino, punto di riferimento di chi crede in una giustizia capace di schiacciare la sopraffazione e la mentalità mafiosa. Per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2016. Giovanni Falcone ha iniziato a rinascere proprio su quel cratere dell'autostrada squarciata 24 anni fa da cinquecento chili di tritolo fatti esplodere dai mafiosi. C'è voluta questa strage, con il pesante sacrificio umano che si è trascinata, per scuotere le coscienze. E far cambiare idea non tanto ai mafiosi ma a quella pletora di nemici, pubblici e privati, che il dottor Falcone ha avuto durante la sua carriera. E a quei siciliani che continuavano a ripetere fino a quel momento: tanto si uccidono fra di loro i mafiosi. Magistrati e professionisti, politici e borghesi, che hanno attaccato il dottor Falcone in vita, dopo la sua morte come per un incantesimo hanno iniziato a dire che erano tutti amici di "Giovanni", che stimavano "Giovanni" e che gran magistrato era "Giovanni". Dopo la sua uccisione il dottor Falcone sembrava di colpo aver conquistato più amici. Anche e soprattutto fra i nemici. Che strana è la vita di questo uomo-magistrato che durante la sua carriera si è dovuto confrontare prima contro i mafiosi, che hanno cercato in più occasioni di ucciderlo, poi contro una maggioranza di suoi colleghi che proprio perché erano maggioranza lo mettevano in minoranza quando Falcone chiedeva di poter andare a ricoprire altri incarichi dove avrebbe potuto mettere a frutto l'esperienza nella lotta alla criminalità organizzata. Poi contro i politici che difendevano gli interessi dei mafiosi. E poi contro i veleni di "palazzo". Non si è fatto mancare nulla. La gente, che però non era una maggioranza, lo sosteneva. Ma i corvi avevano sempre la meglio. Ma una giustizia arriva sempre. Per tutti. Sono però tutte storie dimenticate. La strage ha fatto dimenticare - non a tutti - queste cose. Ma il dottor Falcone proprio da quell'attentato di Capaci ha iniziato a rinascere. A diventare immortale per i giovani, per gli onesti, per le persone perbene. Oggi Giovanni Falcone è il punto di riferimento, come lo è anche Paolo Borsellino, di chi crede in una giustizia che può schiacciare la sopraffazione mafiosa con i loro clan e i loro affiliati. Ma anche la mentalità. Per questo Giovanni Falcone ancora oggi vive. E per questo occorre ricordarlo. Facendo memoria di tutto quello che ha fatto e subìto. I magistrati di Caltanissetta dopo aver istruito diversi processi ai mandanti ed esecutori della strage, ancora oggi si trovano a puntare il dito su altri responsabili che fino adesso erano rimasti fuori dalle indagini e grazie alle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia è stato possibile individuare. Come pure il latitante Matteo Messina Denaro che per 24 anni è rimasto lontano dalle indagini e adesso i pm nisseni hanno provato il suo coinvolgimento, insieme a Totò Riina, come mandante dell'attentato. Il lavoro di Falcone dava fastidio a Cosa nostra, e per questo è stato ucciso. I pm di Caltanissetta escludono l'intervento di soggetti esterni alla mafia nell'esecuzione della strage di Capaci. Lo ha voluto ribadire poche settimane fa il pm Stefano Luciani durante la requisitoria del nuovo processo per la strage. "Abbiamo diverse dichiarazioni generiche sull'intervento di soggetti esterni, in particolare componenti dei servizi. Dichiarazioni che arrivano da persone estranee a Cosa nostra o da chi era ai piani bassi dell'organizzazione, ma nessuno di coloro che stava ai piani alti della mafia e che poi ha deciso di collaborare con la giustizia, come ad esempio Giovanni Brusca, ha mai parlato dell'intervento di esterni nell'esecuzione della strage. E allora cosa dovremmo fare? Teorizzare un enorme complotto che mirava a tappare la bocca a questi collaboratori?", ha detto il magistrato Luciani. "Ci stiamo occupando di un fatto che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese, a livello di ipotesi si può dire tutto, ma quando dobbiamo andare sul concreto dobbiamo agire sulla base degli elementi raccolti. Sono stufo di sentire dire che questo ufficio tiene la polvere nascosta sotto il tappeto. Si è parlato anche del coinvolgimento di Giovanni Aiello (ex agente di polizia reclutato dai Servizi indicato come "faccia di mostro" ndr). Abbiamo sentito molti testi, ma riscontri sicuri non ne sono arrivati. I suoi familiari hanno detto di non sapere che collaborasse con i servizi e quando ad alcuni testi è stato chiesto di descriverlo sono stati commessi errori". La Procura di Caltanissetta, che dal 2008, dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza, sta cercando di riscrivere la verità sui due attentati di Capaci e di via D'Amelio, ha messo insieme gli elementi raccolti individuando mandanti ed esecutori materiali rimasti per lungo tempo impuniti. Falcone intanto risorge.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti: "Quel giorno ho visto l'asfalto salire in cielo". Il racconto dell'attentato costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta nelle parole degli agenti sopravvissuti al tritolo, scrive Lirio Abbate il 23 maggio 2017 su "L'Espresso". Una delle tappe della strategia attuata dai mafiosi di Cosa nostra nel 1992 - attaccare frontalmente lo Stato - è l’attentato di Capaci al magistrato Giovanni Falcone. È una strategia funzionale alla ricerca di nuovi referenti politici. E anche per questo l’attentato viene eseguito in fretta. Totò Riina aveva premura di portare a termine il progetto di uccidere il magistrato che era il principale nemico di Cosa nostra. Perché aveva premura? Perché aveva perso il potere, non era più credibile agli occhi di alcuni boss e quindi doveva essere un attentato eclatante. Riina si era impegnato con i suoi picciotti affinché la sentenza della Cassazione ribaltasse le condanne all’ergastolo per gli imputati del maxi processo a Cosa nostra. Ma questo non era successo. Accanto all’azione dei mafiosi gli inquirenti oggi cercano di capire se possono esserci delle mani esterne ad aver agito insieme a Cosa nostra. Ciò che è avvenuto il 23 maggio 1992 lo spiegano i sismografi siciliani che registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Un’esplosione che è come una scossa di terremoto. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell’autostrada in direzione di Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. L’esplosione prende in pieno la prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggiano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Nella prima auto ci sono i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani mentre in quella che segue ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede nel sedile posteriore. Il magistrato aveva preferito mettersi alla guida con accanto la moglie. La deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l’auto del magistrato. Appena dietro c’è la terza blindata del corteo, con gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono. I tre poliziotti scendono dall’auto e cercano di dare aiuto al giudice, alla moglie e all’autista. Nonostante le lesioni riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere. Per lui è necessario aspettare i Vigili del Fuoco. Come raccontano agli inquirenti Corbo, Capuzza e Cervello, il giudice Falcone, sua moglie Francesca e l’autista Costanza dopo l’esplosione sono ancora vivi. La donna respira ma è priva di conoscenza, mentre Falcone mostra con gli occhi di recepire le sollecitazioni dei soccorritori. La corsa in ospedale in ambulanza e gli sforzi dei medici non riescono però a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione. L’autista Costanza invece, ricoverato in prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apre il corteo, nell’immediatezza dell’arrivo dei soccorsi non c’è traccia. Le prime persone arrivate sul posto pensano in un primo momento che sia riuscita a sfuggire alla deflagrazione. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma verrà ritrovata accartocciata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri di distanza, con i corpi dei tre poliziotti dentro. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l’attentato vengono ricostruiti dai tre agenti sopravvissuti alla strage. E sono loro che offrono agli inquirenti le “immagini” dell’attentato attraverso la loro descrizione di ciò che hanno visto.

Macerie dappertutto. «C’è stato un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione. Mi sono sentito catapultare in avanti», racconta Angelo Corbo. «Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dall’auto, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Uscendo si è capito della gravità della situazione, la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare nessuno. L’auto era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante. Non riuscivamo a estrarre né Falcone né la dottoressa Morvillo, altre persone sono venute in aiuto. Ricordo che non riuscivamo ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era il vetro sradicato, e con l’aiuto di volontari l’abbiamo tirata fuori dall’abitacolo. Intanto l’auto di Falcone stava prendendo fuoco, allora ci siamo attivati per spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, non so dire se era cosciente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva nulla, comunque era vivo. Si era pure rivolto verso di noi guardandoci. L’autista Costanza era sul sedile posteriore ed era sdraiato su un fianco».

Uno sguardo ormai chiuso. «Nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, ho sentito una grande deflagrazione, un’esplosione. Non ho visto più niente e non so che cosa ha fatto in quel momento l’auto», racconta Gaspare Cervello. «Non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Ho ripreso i sensi dentro l’auto, lo sportello era bloccato e solo con forza riesco ad aprirlo. Non ho fatto caso ai colleghi, se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa che mi ha dettato l’istinto è stata di uscire dall’auto e andare direttamente verso quella del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla blindata ho visto una scena straziante. L’auto era coperta da terriccio e asfalto, e c’era ancora il vetro, ma non riuscivamo a dare aiuto. Nulla. L’unica cosa che ho fatto è stata quella di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni...”, e lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti che lo schiacciava. Aveva soltanto la testa libera di muoversi. Ha mosso la testa solo per quegli attimi in cui l’ho chiamato. La dottoressa Morvillo era chinata in avanti come l’autista Giuseppe Costanza, e la prima sensazione è stata: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”. Mentre la macchina degli altri colleghi che stava davanti, non l’ho vista... Ho pensato che ce l’avevano fatta, che fossero andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo fare più niente perché la nostra auto era distrutta».

L’ultima parola: “Scusi”. «L’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è quando gli ho chiesto quando dovevo riprenderlo. Mi ha detto: “Lunedì mattina”. Io gli ho risposto: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi dia le chiavi dell’auto in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina», racconta Giuseppe Costanza. «Probabilmente era sovrappensiero perché lui allora sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendo: “Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. E lui allora mi disse: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c’è più nulla. Potevamo andare a una media di 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità».

Le mani che tremavano. «Guardavo a destra dell’auto e ho sentito un’esplosione, seguita subito da un’ondata di caldo. Mi sono girato verso la parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva», ricorda Paolo Capuzza. «Ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato e siamo andati a finire sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’auto del dottor Falcone. Sul tettuccio sentivamo ricadere tutti i massi e una nube nera. Non vedevamo niente, polvere e nube nera. Poi siamo usciti dall’auto con le armi in pugno, ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prendere il mitra, perché la mano non riusciva a tenerlo, non riuscivo a stringerlo. Ho preso la mia pistola e siamo usciti dalla blindata e ci guardavamo intorno, perché ci aspettavamo che arrivasse il colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’auto del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore. C’era un principio di incendio ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra auto, abbiamo spento le fiamme. L’incendio era proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era sul limite del precipizio, dove si era creata la voragine. Ci siamo guardati intorno per proteggere ancora il magistrato mentre il collega Gaspare Cervello chiamava per nome il dottor Falcone, che non ha risposto. Però si è girato con la testa... Abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». Era il 23 maggio 1992, 25 anni fa.

Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti. La drammatica testimonianza di Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, i tre agenti che si trovavano sulla terza auto blindata che seguiva quella del giudice Falcone e della scorta, scrive Lirio Abbate il 20 maggio 2016 su "L'Espresso". Il 23 maggio 1992 i sismografi siciliani dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell'autostrada in direzione di Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci. L’esplosione impatta sulla prima delle tre auto blindate che formano il corteo su cui viaggia il magistrato Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Nella prima auto ci sono gli agenti della Polizia di Stato Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani mentre in quella che segue immediatamente dopo ci sono i coniugi Falcone e Morvillo con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che siede però nel sedile posteriore. Falcone aveva preferito mettersi lui alal guida con accanto la moglie. La potente deflagrazione provoca un gigantesco cratere sul bordo del quale si ferma l'auto del magistrato. Appena dietro c'è la terza blindata del corteo in cui c'erano i poliziotti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che sono scioccati e feriti, ma sopravvivono all'attentato. I tre poliziotti dopo l'esplosione scendono dall'auto e cercano di dare aiuto al magistrato, alla moglie e all'autista. Nonostante le ferite riportate e con il contributo di alcuni soccorritori, i feriti vengono estratti dall’auto, ad eccezione di Falcone, che resta incastrato fra le lamiere e per questo è necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. Come racconteranno Corbo, Capuzza e Cervello, Falcone, Morvillo e Costanza erano vivi. La giudice Morvillo respirava, ma priva di conoscenza, mentre il dottor Falcone mostra di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli chiedono i soccorritori. Dal luogo dell'attentato dunque, Giovanni Falcone e la moglie escono vivi. La corsa in ospedale in ambulanza e poi gli sforzi dei medici non riescono a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie. Lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione, mentre Costanza ricoverato con la prognosi riservata, ce la farà. Della prima auto blindata, quella che apriva il corteo, nell’immediatezza dell'esplosione non c'era nessuna traccia sull'autostrada, tanto che i primi soccorritori pensano in un primo momento che fosse riuscita a sfuggire alla deflagrazione e che sarebbe corsa avanti a chiedere soccorsi. Solo dopo alcune ore la Fiat Croma viene ritrovata in un appezzamento di terreno a un centinaio di metri completamente distrutta. È in un terreno adiacente il tratto autostradale, con i corpi dei tre poliziotti morti. I momenti immediatamente successivi e quelli precedenti l'attentato vengono così ricostruiti dai tre poliziotti che sono sopravvissuti alla strage di Capaci. Sono queste le prime “immagini” della strage descritte grazie al racconto dei sopravvissuti.

Angelo Corbo: «Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d'aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l'esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficoltà ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far si' che c'era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all'autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dottor Falcone e della dottoressa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dottor Falcone e la dottoressa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c'era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dottoressa Morvillo e uscita dall'abitacolo della macchina. Invece il dottor Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l'altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c'era stato anche un cercare di spegnere questo principio d'incendio. Il dottor Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, però, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L'autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell'abitacolo della macchina».

Gaspare Cervello: «Dopo il rettilineo, diciamo, all'inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un'esplosione che neanche il tempo di finire un'espressione tipica che non ho visto più niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioé se erano vivi; l'unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perché poi c'era il terriccio dell'asfalto che proprio copriva la macchina; c'era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l'unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: "Giovanni, Giovanni", però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l'ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l'autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: "Ormai tutti e tre non ce l'hanno fatta", mentre la macchina davanti, non l'ho vista... Ho pensato che ce l'avevano fatta, ce l'avevano fatta, che erano andati via... ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perché noi via radio non potevamo dare più niente perché la macchina nostra era anche distruttissima».

Giuseppe Costanza: «Io l'ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è, appunto, nel chiedergli quando dovevo venire a riprenderlo; mi ha detto: "Lunedì mattina", io gli dissi: "Allora, arrivato a casa cortesemente mi dà le mie chiavi in modo che io lunedì mattina posso prendere la macchina, ma probabilmente era soprappensiero perché una cosa del genere non riesco a giustificarla soprattutto da lui. Sfilò le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendoci: "Cosa fa? Così ci andiamo a ammazzare". Questo è l'ultimo ricordo che lui girandosi verso la moglie e incrociandosi lo sguardo e girandosi ancora verso di me fa: "Scusi, scusi". Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perché poi non c'è più nulla. Potevamo andare a una media di 120, 120-130, non più di tanto. Nel momento in cui sfilò le chiavi ci fu una diminuzione di velocità perché la marcia era rimasta inserita era la quarta».

Paolo Capuzza: «Io ero rivolto, diciamo, un po' nella sedia della parte destra e guardavo un po' sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un'esplosione ed un'ondata di caldo è arrivata, ed in quell'attimo mi sono girato nella parte anteriore dell'autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l'asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l'autista abbia sterzato l'autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all'autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l'autovettura del magistrato. Mentre eravamo all'interno dell'autovettura, si sentivano ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioé non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiché siamo usciti dall'autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l'M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perché appunto la mano non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall'autovettura e per guardarci intorno, perché ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c'era davanti all'autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c'erano delle fiamme ed abbiamo preso l'estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l'autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c'era più il vano motore e... ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, sì Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto però si è girato con la testa come... poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». 

Queste dunque le prime immagini della strage tratte dal racconto dei sopravvissuti.

VOTO DI SCAMBIO E LE IMPUNITA’ DELLE PROMESSE ELETTORALI.

Voto di scambio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il voto di scambio è un fenomeno che, nell'ambito della politica, si riferisce all'azione di candidato il quale, in cambio di favori leciti o illeciti, prometta ad un elettore di ricambiare il voto da parte di quest'ultimo con un tornaconto personale, o con una promessa dello stesso. Perché ci sia reato non c'è bisogno dello scambio di beni o di prestazioni, ma è sufficiente la promessa o l'accordo fra le due parti. È praticato talvolta da organizzazioni criminali, spesso di tipo mafioso, d'intesa con gruppi politici: questa fattispecie nell'ordinamento italiano definisce il reato di scambio elettorale politico-mafioso.

Oltre 1,7 mln di italiani "comprati" con soldi o favori per un voto alle elezioni. Dall'Istat arriva un dato allarmante sulla corruzione e sul voto di scambio. Al 3,7% della popolazione fra i 18 e gli 80 anni, sono stati offerti denaro, favori, regali o anche la promessa di un lavoro, scrive Antonella Serrano su TGLa7 del 12.10.2017.

Probabilmente sono molti, ma molti di più.

Le elezioni e la legge sul voto di scambio che si applica solo per i nemici: “se mi voti ti prometto un posto di lavoro: reato anche senza assunzione”, scrive "Il Circolaccio" il 2 novembre 2017. La campagna elettorale è al termine ma le promesse fioccano. Chi sta al governo “promette” stabilizzazioni e aumenti di stipendio. Chi è all’opposizione “promette” altri vantaggi. Sarà voto di scambio? Cosa dice la legge? Sembra non temere, certa politica, la persecuzione dei magistrati sul voto di scambio. Tanti candidati “promettono” anche carriere ai burocrati regionali e possibili incarichi e non sono preoccupati. E’ tutto normale? Chi indaga sulla campagna elettorale? O si cerca lo scoop solo per “fottere “l’avversario di turno?. Cosa dice la legge: Chiunque, per ottenere, a proprio od altrui vantaggio, la firma per una presentazione di candidatura, il voto elettorale o l’astensione dal voto, dà, offre o promette qualunque utilità ad uno o più elettori (lavoro) è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 3000 a lire 20.000, anche quando l’utilità promessa sia stata dissimulata sotto il titolo di indennità pecuniaria data all’elettore per spese di viaggio o di soggiorno o di pagamento di cibi e bevande o rimunerazione sotto pretesto di spese o servizi elettorali.

ALTRO CHE MAFIA. L'ITALIA E' UCCISA DAL CLIENTELISMO E DAL VOTO DI SCAMBIO.

Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. E le istituzioni. Beh, loro non fanno nulla, anche perchè sono proprio loro ad essere reclutati con il trucco. Bene. Allora cosa si pensa delle continue cronache di malaffare che danno ragione a colui che denunciando è vittima di ritorsioni. Concorsi truccati per l'acceso in Magistratura o in Avvocatura o nel Notariato o in ambito accademico, giusto per citarne alcune. Senza menzionare le innumerevoli notizie di cronaca che ci parlano di concorsi pubblici ministeriali minori o di enti territoriali. Certo, un episodio del genere non sorprende poi molto in Italia, nazione bella, ricca di cultura e con un patrimonio artistico non indifferente, ma piena di raccomandati e con un nepotismo senza eguali. IN TEMPI DI ELEZIONI: FARLOCCATE E VOTI DI SCAMBIO.

Ma la legge è uguale per tutti?

Elezioni 2013. Promessa di rimborso IMU fatta da Berlusconi. Solita promessa per accaparrarsi il voto dei creduloni italici? Per Monti è «un tentativo di corruzione, compra i voti». Per Bersani «demagogia». Secondo Vendola è la solita promessa del «Vanna Marichi» della politica. Il nuovo coniglio tirato fuori dal cilindro da Silvio Berlusconi è la restituzione agli italiani della gravosa Imu sulla prima casa. Una mossa che provoca la reazione rabbiosa dei competitori. Nel day after Mario Monti interviene di prima mattina in radio: «E’ un voto di scambio, ma anche un tentativo simpatico di corruzione: io ti compro il voto con dei soldi e i soldi sono dei cittadini», tuona dai microfoni di Rtl 102,5. Berlusconi vuole «comprare il voto degli italiani con i soldi degli italiani», aggiunge il premier uscente che ieri aveva definito Silvio «un incantatore di serpenti che non ha mai mantenuto le promesse». E conclude: «Quando sento un simpatico, molto simpatico, signore che dice che lui aveva lasciato i conti in ordine e io ho fatto disastro, un po’, perché mi sembra uno schiaffo ai sacrifici degli italiani, mi rattristo e a volte mi innervosisco. Ma non mi sono sentito toccato dalle accuse. Del resto, io sono ancora più imbecille perché ho dato attuazione ad aumenti di tasse in gran parte già decisi da lui». Più tardi il Professore interviene dai microfoni di La7 e rincara la dose: «C’è qualche elemento di usura».

A Porta a Porta del 5 febbraio 2013, il candidato per il PD Pietro GRASSO, già Procuratore di Palermo, ha dichiarato che basterebbe anche una sola denuncia da parte di un cittadino per attivare la Procura. Proponendo l’ennesimo condono tombale, potrebbe essere altresì configurabile l'ipotesi di istigazione all’evasione fiscale. Rimborso dell’IMU: Truffa o Voto di scambio? «Guardi, intanto il presidente Berlusconi ha inviato una lettera ai singoli elettori e forse non si è reso conto, ma proprio si va a cercare queste situazioni, che esiste un articolo del testo unico della legge elettorale che è l’art. 96 della legge del 57 che punisce chiunque offre o promette denaro, punisce con la pena da 1 a 4 anni e una multa da 400€ e punisce anche chi li riceve nel senso che è l’ipotesi tipica del voto di scambio elettorale, cioè che la nostra legge elettorale prevede. E quindi mi fa sorridere perché poi non mi stupirei se qualcuno presentasse un esposto. Mi fa sorridere questa… se qualcuno presentasse una denuncia o un esposto qualche magistrato sarebbe obbligato a valutare questa ipotesi perché esiste una legge che vieta che si offrano o promettano danaro o altre utilità in cambio del voto e punisce anche chi li riceve. È quindi questa la situazione che mi pare paradossale così come prospettata perché non è l’abolizione di una tassa, è una legge retroattiva che restituisce dei soldi e lo fa con una lettera diretta personalmente agli elettori. A me pare che sia una cosa assolutamente diversa da quelle leggi che si è generalmente abituati a vedere. Io quand’ero giovane studente la legge doveva essere erga omnes ed avere generalità ed astrattezza. In caso promettesse la restituzione non si capisce perché prima la mette e nel caso di Prodi con l’euro – tassa si sa già che è una tassa temporanea. Qui si tratta di una tassa che ha già raggiunto i suoi effetti, per cui è già entrata nel bilancio dello Stato; adesso si fa una legge retroattiva con cui si riprendono quei soldi e si restituiscono ai cittadini in cambio del consenso, o no? 

Art. 416 ter c.p. – La pena stabilita dall’art. 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo art. 416 bis in cambio della erogazione di denaro». Il voto di scambio è il voto dato regolarmente da un elettore, ma non motivato da scelte politiche frutto di riflessioni sincere e disinteressate, bensì corrotto da qualche tornaconto ricevuto da parte di chi si candida o chi per lui.

Tranquilli, nessuno tra i 60 milioni di cittadini presenterà una sola denuncia. Sennò che Italiani buonisti e mafiosi saremmo?...

Elezioni 2013: Grasso, Monti e il voto di scambio, scrive Aldo Bianchini su “Il Quotidiano di Salerno”. Andando con ordine, anche se in politica è molto difficile, bisogna dire che il primo a sparare la cavolata più grossa è stato Pietro Grasso, già capo della “DNA” e attuale candidato al Parlamento nelle liste del PD; niente di che, con la sua mentalità da magistrato tutto gli è ancora possibile, anche il fatto di strumentalizzare le norme di legge che regolano il “voto di scambio”. Ma che il Presidente del Consiglio in carica, Mario Monti, cadesse subito nella trappola di eclatare la cavolata di Grasso è davvero troppo. Sarà anche una super balla gigante quella annunciata da Silvio Berlusconi per la restituzione dell’IMU ma siamo abituati alle sorprese del Cavaliere e, soprattutto, siamo abituati al fatto che quando dice di abolire qualcosa lo fa davvero. Nessuno si è lanciato così apertamente e maldestramente sulla via del cosiddetto “voto di scambio” come Monti a ruota di Grasso, neppure quotidiani nazionali come Il Corriere della Sera e La Repubblica. Bastava aspettare qualche ora per assistere a come Pietro Grasso, probabilmente ispirato dalle ”anime morte” del PD (appellativo che De Luca ama lanciare verso i vertici del suo partito), è subito rimasto solo ed allo scoperto per non fare la figura dell’incauto persecutore; macchè, il professore continua ad insistere ed anche il giorno dopo ritorna sull’argomento evocando addirittura le regalie di Achille Lauro ai suoi più che probabili elettori; tutto questo dopo che aveva promesso di non citare più il nome degli avversari in campagna elettorale. Peccato che fino a questo momento, ma il tempo è signore, nessun magistrato (milanese !!) ha avviato un procedimento giudiziario a carico di Silvio Berlusconi per “voto di scambio”, sarebbe davvero il toccasana per il Cavaliere che potrebbe guadagnare in un sol colpo quei pochi punti che gli mancano per l’insperata vittoria. Ma non è ancora detto, il tempo è signore dicevo prima e tutto può ancora accadere lungo le rive del “fiume Lambro” che con i suoi 130 km. di lunghezza porta le acque dell’Olona fino al Po’. Alle dichiarazioni di Mario Monti sono rimasto sinceramente perplesso e, pur comprendendo l’ignoranza del professore in materia di leggi che regolano il “voto di scambio”, assolutamente incredulo; con tanti consulenti ridursi a fare la mia stessa fine (umile giornalista di periferia) mi sembra un po’ troppo. Gli consiglio di leggere qualche volta questo giornale online, solo così forse capirebbe qualcosa in più su un argomento difficile e complesso che la magistratura ha usato e usa, spesso, in maniera non omogenea tra procura e procura. Come dimenticare, difatti, gli sfasci che l’accusa di “voto di scambio” ha determinato per la classe politica della prima repubblica agli inizi degli anni ’90 quando era sufficiente dire che un parlamentare aveva scritto una lettera di comunicazione ad un elettore per avviare l’accusa devastante di “voto di scambio”. Molti non ricordano come furono sequestrati e rastrellati gli archivi delle segreterie politiche di Paolo Cirino Pomicino, di Enzo Scotti, di Francesco De Lorenzo e di Giulio Di Donato; i primi tre ministri e l’ultimo addirittura vice segretario nazionale del PSI. Insomma sia Grasso ma soprattutto Monti dovrebbero andare a rileggere l’art. 86 del D.P.R. 570/1960 che regola il “REATO DI VOTO DI SCAMBIO”. Solo per la cronaca è necessario ribadire che il “voto di scambio” si realizza allorchè “taluno dà, offre o promette qualunque utilità” per ottenere il voto. Ebbene nessuna di queste ipotesi si concretizza nelle parole di Berlusconi che ha, invece, promesso la restituzione di quanto ingiustamente (sul piano squisitamente politico !!) versato da tutti quei cittadini che hanno già pagato la tassa denominata IMU (Imposta Municipale Unica) sugli immobili. In pratica Berlusconi non offre per avere ma promette di restituire ciò che è stato ingiustamente tolto. Insomma mi sembra davvero difficile ipotizzare il reato di voto di scambio, anche se come dicevo all’inizio il tempo è galantuomo e probabilmente il piacere a Berlusconi qualche magistrato comunque glielo farà, tanto c’è ancora tempo.

CAMPAGNA ELETTORALE 2018: LA COMMEDIA DEGLI INGANNI E LA NECESSITA’ DELL’OPPOSIZIONE, scrive Franco Astengo il 22 gennaio 2018 su "ancorafischiailvento.org". Il tema più importante che emerge in questo avvio di campagna elettorale sembra proprio essere quello della “commedia degli inganni”. Un conto è fare della propaganda, com’è d’uso in queste occasioni scontando anche una certa quota d’iperbole sia nel mettere in rilievo ciò che si è fatto, sia nell’accentuare la facilità delle promesse. Iperbole sicuramente amplificabile con facilità di questi tempi, attraverso la molteplicità di strumenti di comunicazione di massa utilizzabili, fra i quali i cosiddetti “social” che risultano alla fine incontrollabili nella possibilità di alimentare un dibattito infinito nella forma del ping – pong tra promesse, insulti, bugie varie. Ma il livello di falsità che si sta raggiungendo in questa fase al riguardo del quadro generale evidenziato dalla campagna elettorale da parte dei 3 schieramenti maggioritari del PD, del centro destra e del M5S, francamente pareva sulla carta irraggiungibile, anche rispetto alla stessa forma dello scontro elettorale. Limitiamo l’analisi a soli due punti che emergono in questa vera e propria “commedia degli inganni”:

1)      Mentre il PD cerca di dimostrare la validità delle scelte compiute dai suoi pasticciati governi e omette – facendolo cancellare dalla capacità servile dei mezzi di comunicazione di massa a sua disposizione – il ricordo della vero punto di rottura della legislatura appena trascorsa rappresentato dall’esito del referendum sulla deforma costituzionale del 4 dicembre 2016, gli altri due spezzoni di schieramento politico contendenti si abbandonano a un’orgia di promesse assolutamente campate in aria al punto. Talmente campate in aria che sarebbe il caso di presentare una denuncia penale per “voto di scambio”. Un “voto di scambio” non personalizzato, come accadeva in passato (la promessa del posto di lavoro o cose consimili) ma generalizzato all’intero corpo elettorale. Che il “voto di scambio” fosse la specialità di Berlusconi era noto, ma che così in fretta lo diventasse anche per il Movimento 5 stelle e che da quella parte (mi riferisco alla filosofia del “reddito di cittadinanza” e dei sussidi in luogo del lavoro) diventasse così pericoloso forse non era così facile aspettarselo. Torniamo però alla vicenda della deforma costituzionale: nella campagna elettorale non può essere omesso il ricordo del tentativo svolto dal PD di violare spirito e lettera della Carta Costituzionale per transitare verso un regime nel quale il Parlamento non fosse più centrale, ma subalterno a un governo a vocazione presidenzialista, espresso da un “partito unico” fondato sulla personalizzazione più esasperata, con le “primarie di partito” diventate istituzionali (quasi come il “Gran Consiglio” al tempo del fascismo. In tempi di chiara ripresa delle istanze di stampo fascista questo tema della qualità della democrazia repubblicana deve restare, come fu nel 2016, argomento centrale;

2)      Il secondo punto riguarda addirittura la forma stessa dello scontro elettorale. L’ambiguità contenuta nelle norme della legge elettorale permette, infatti, a questi signori di falsificare impunemente, drammatizzando fintamente, i cosiddetti “duelli” nei collegi uninominali. I principali giornali della borghesia questa mattina ne sono pieni. Su questo argomento debbono essere chiarite due questioni del tutto vitali per il regolare andamento delle elezioni. Non c’è nessun duello all’ultimo sangue. Il trucco è candidare qualcuno reso artatamente popolare attraverso la televisione nel collegio uninominale (fornendo il soggetto in questione di robusti paracadute attraverso le candidature in 5 collegi plurinominali) in modo da far scattare, in maniera incongrua, la trappola del voto utile. Votando per il presunto o la presunta leader nel collegio uninominale perché impegnato/a in una sorta di “duello finale” si trasferisce direttamente il voto alla lista apparentata, grazie al meccanismo che impedisce il voto disgiunto: un impedimento questo del voto disgiunto che potrebbe, è bene ricordarlo, rappresentare una delle cause d’incostituzionalità. Incostituzionalità sula quale sarà ancora una volta chiamata a decidere (per la terza volta consecutiva) la Corte Costituzionale. Come del resto l’altro trucchetto della “spalmatura” dei voti ottenuti, tra l’1% e il 3%, dalle “liste civetta”. Oltre, naturalmente, alla questione dei listini bloccati.

Intanto, parola di Cottarelli e non di un pericoloso estremista, è falso anche il deficit del bilancio dello Stato in quanto sono stati omessi 55 miliardi di perdite dovute, pensante un po’, al salvataggio delle banche e alle rate dei derivati. Banche e derivati un problema enorme che come quello della difesa della Costituzione e della qualità della democrazia appaiono completamente assenti dal dibattito che si sta svolgendo nella campagna elettorale, dai titoli dei giornali, dai post su blog e social network. In questo quadro (desolante) “Potere al Popolo”, della cui esistenza tutti quanto proseguono nell’ignorare, si trova addosso un compito forse superiore alle sue forze ma che i suoi dirigenti e candidati debbono saper assolvere: quello di non apparire minoritari difensori soltanto di alcuni segmenti sociali, ma di rappresentare per intero la necessità dell’opposizione, in Parlamento e fuori. Occorre cimentarsi con un profilo d’identità politica di grande respiro all’altezza di questa grande contraddizione politica come quella che si sta presentando in una fase di forte riallineamento del sistema e dell’opportunità che si presenta per l’entrata in scena di nuove soggettività politiche. Nuove soggettività politiche come quella che debbono in mente i rappresentanti della sinistra d’opposizione (e quindi “Potere al Popolo) per fare in modo da risultare di essere in grado – appunto – di opporsi al tentativo di verticalizzazione del potere nei riguardi di una società che, invece, si sta organizzando, in larghe sue parti, democraticamente in forma orizzontale e che ha bisogno di essere rappresentata politicamente e nelle istituzioni per non finire progressivamente emarginata nell’economia, nella cultura, nella struttura stessa dell’organizzazione sociale. Ancora la legge precisa: “Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma”.

Il lavoro nella campagna elettorale: impegno o “voto di scambio”? Scrive il 2 febbraio 2018 Dario Montanaro, Presidente Nazionale ANCL, su "anclsu.com". Conclusa la composizione strategica degli schieramenti, la campagna elettorale è entrata nel vivo. Il confronto politico oscilla tra promesse e tentativi di riforma di ogni tipo. Sullo sfondo, in realtà, ci sono tre grandi questioni che hanno un importante impatto sociale: la tassazione, il sistema previdenziale e il lavoro. In questi giorni, infatti, stiamo assistendo ad animati dibattiti sulla flat tax, sull’abbassamento dell’età per l’accesso alla pensione, all’avvicinamento tra alcune forze politiche e qualche sigla sindacale per fare fronte comune sulla presunta abolizione della L. n. 92/2012. In tale quadro che ruolo gioca il tema del lavoro? Quest’ultimo si è spesso prestato ad essere oggetto di speculazione (da anni, si sente parlare spesso del famigerato “milione” di posti di lavoro) o, ancora, a merce di scambio per ottenere maggior consenso politico, o meglio come “specchietto per le allodole” con la finalità di catturare dei consensi dall’una o dall’altra parte. Molte campagne elettorali, infatti, sono state incentrate sul lavoro con la finalità di catalizzare consenso. Dichiarare guerra all’art. 18, infatti, è forse servito a ricercare un consenso da parte della classe imprenditoriale; difendere la reintegrazione, al contrario, è servito ad aggregare consenso attorno a quelle forze politiche rappresentanti il precariato e la diseguaglianza sociale. Alla fine di questa battaglia, è poi iniziata la conta dei territori conquistati e delle ferite subite. Da una parte, ci si vantava dell’incremento percentuale dell’occupazione grazie ad alcune riforme di semplificazione normativa (un’operazione che tuttavia si è rivelata inefficace); dall’altra, invece, è continuata la denuncia contro le riforme del lavoro – a partire dalla riforma Fornero sino ad arrivare al Jobs Act – che nulla hanno fatto se non aumentare la frammentazione del lavoro, l’instabilità dei rapporti, l’indebolimento delle tutele e la vanificazione del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo. Questo è lo scenario di riferimento. Tuttavia, è bene evidenziare come il 4 marzo si giochi una partita del tutto diversa: questo Paese ha bisogno di un impegno politico concreto che, al di là dei numeri, al di là di quel “milione di posti”, riesca ad unire il mondo della formazione con il mondo del lavoro, evitando che la dispersione aumenti. Diversi dati confermano anche che il nostro paese è quello con il più alto tasso di soggetti inattivi, con problematiche legate anche al mismatch tra domanda ed offerta di lavoro. Rispetto a queste tematiche, le forze politiche vogliono prendere un impegno serio e concreto oppure continuare a scambiare numeri e statistiche in cambio di una fiducia che svanisce sempre di più?

Elezioni: quel reato – gravissimo - chiamato voto di scambio che nessuno denuncia…, scrive Emilia Urso Anfuso il 04/02/2013 su gliscomunicati.it/agoravox.it. Cos’è un voto di scambio? Lo dice la stessa frase. Io – candidato – ti do o prometto qualcosa, in cambio del tuo voto. Questa è la base. Poi, volendo approfondire, c’è una vera e propria organizzazione nell’approvvigionamento dei voti di scambio. Un conto infatti è lo scambio uno a uno. Ogni singolo candidato dovrebbe entrare in contatto con ogni singolo potenziale elettore: un “lavoro” enorme e disumano. Non è fattibile. Meglio magari, avere un “network” di persone che conoscono persone che conoscono… Così si creano veri e propri bacini di “elettorato” che garantisce – più o meno – un certo tipo di risultato elettorale. E’ un dato di fatto. Da sempre. Basta partecipare ad una riunione di un qualsiasi partito già poco prima dell’apertura di una campagna elettorale. Molti sanno addirittura di poter contare su un numero non indifferente di aficionados pronti a mettere la crocetta a comando. Previo o post pagamento attraverso… Qui si apre un mondo, nel vero senso della parola. Il voto di scambio è una vera e propria attività politica. Ben conosciuta a livello nazionale. Esistono migliaia e migliaia di nominativi ben custoditi in ogni singolo PC di qualsiasi organizzazione politica. Nomi che, al momento opportuno, generano già un primo dato fondamentale: su quanti voti possiamo contare già da ora? Un caso per tutti da ricordare: Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Sicilia che ha basato per anni la sua poltrona sui voti di scambio. Furono scoperti migliaia di files in una sorta di faldone, che conteneva nomi, cognomi, indirizzi, numeri di telefono ed ovviamente, i desiderata di ogni singolo elettore. Questi files poi, furono messi per un breve periodo a disposizione sul web da una testata nazionale che denunciò all'epoca il fatto. Nonostante questo, nulla di grave accadde a chi si macchiò da un lato di corruzione dall'altro di corruttibilità. Questa tipologia di voto di scambio generalmente poi, produce un reale effetto sull’elettore, che si vede “ricompensare” per la fedeltà dimostrata. Dimostrata ancor oggi, nonostante le tante ammonizioni a non entrare nei seggi elettorali con cellulari dotati di macchina fotografica, con una bella fotografia della scheda elettorale con la croce messa al punto giusto. C’è però una tipologia più espansa di voto di scambio, inquietante perché quasi sfugge alla percezione dell’intera nazione che invece, avvolge del tutto. Poniamo un esempio generico: ogni candidato che dichiari una promessa da realizzare “dopo essere stato eletto” è una forma di voto di scambio generalizzata. Altro esempio: il candidato che generi una forte pressione su qualsiasi tipologia di elettore tentando con le solite promesse di aggiudicarsi addirittura una parte di elettorato altrui, non solo si macchia di voto di scambio, ma ad esso aggiunge la beffa del tentato ladrocinio di una fetta di elettorato. Ecco quindi generarsi -proprio in un periodo, quello elettorale in cui maggiormente la cittadinanza dovrebbe potersi fidare di questo o quel candidato - un reato malsano: corruzione allo stato puro e palese. Partendo da questo presupposto, come si può prendere anche in minima considerazione la possibilità di potersi fidare di chiunque chieda voti prima di aver generato almeno una parte delle promesse proferite anzitempo? Se tizio o caio mi ammaliano al solo scopo – intanto – di ottenere il mio voto, mi promettono qualcosa per cui sono pronto a farmi corrompere – perché è bene ricordare che di corruzione si tratta – come posso poi io prima di tutto fidarmi del candidato e poi ancora di me stesso, pronto a vendere un valore inestimabile (il voto/scelta del cittadino facente parte del Popolo Sovrano) in cambio di qualcosa? L’atto corruttivo fondamentale è proprio questo. Ed è lo stesso atto che, coerentemente, non dovrebbe poi lasciar libero ogni cittadino vendutosi a questo tipo di corruzione, di elevarsi al di sopra del personaggio eletto di turno, nel momento in cui lo steso personaggio presentasse al paese intero la parte peggiore di se, magari con uno scandalo di qualsiasi entità.  In poche parole, come dice un vecchio motto “se è con soldi tuoi che paghi, allora puoi scegliere”. In questo caso, significa solo che se si conserva intatta la libertà di scegliere, si può poi instaurare quella dinamica ormai scomparsa nella nostra nazione, per i motivi appena elencati; la libertà – anche – di mandare a casa chi sbaglia. La lotta alla corruzione in Italia, deve partire davvero dal basso. Finché i cittadini saranno corrotti senza quasi accorgersene, non ci sarà mai speranza di poter sollevare da qualsiasi incarico chiunque si macchi di altra corruzione. Ovviamente poi, nei classici periodi storici di “grande crisi economica” questa metodica non solo si espande ma trova maggiore presa da parte di cittadini, pronti a vendere la propria libertà di individuo per il classico tozzo di pane o per la speranza che – assurdo solo a pensarci – qualcuno restituisca a tutti, miliardi di imposte già pagate, senza peraltro sapere nemmeno dove trovare questo denaro… 

Meditare prima, è la scelta migliore.

ELOGIO DEL VOTO DI SCAMBIO, scrive Il Foglio il 12 febbraio 2013. [L’Imu, la sanità, i vantaggi dello spread basso. Si vota per questo. No?] – Il voto di scambio, nella sua accezione giuridica, consiste in un contratto illecito tra un elettore e un candidato, o un’organizzazione che intende favorirlo, basata sulla scambio del voto, che in qualche modo deve essere documentato (il che contraddice il principio della segretezza), con benefici ricevuti personalmente. E’ bene ricordarsene, visto che la polemica politica pre-elettorale tende a determinare un’estensione del concetto di “voto di scambio” allo scopo di sminuire l’avversario, attraverso la forzatura logica di apparentare a un reato specifico la promessa di benefici estesi a intere categorie, che rappresentano invece l’effetto di scelte politiche o amministrative annunciate del tutto legittimamente (anche se non sempre razionalmente). Quando Mario Monti spiega che un suo successo elettorale comporterebbe, per effetto della sua scelta di fedeltà europeista, una riduzione del costo del servizio del debito pubblico, che a sua volta consentirebbe di attenuare la pressione fiscale e i tassi di interesse richiesti alle aziende, propone uno scambio. Quando Pier Luigi Bersani si impegna ad aumentare il personale e i fondi a disposizione della sanità e della scuola statali, promette un beneficio a categorie specifiche, in cambio del sostegno elettorale richiesto. Sono fin troppo note le promesse elettorali di Silvio Berlusconi in materia soprattutto di tassazione della prima casa – che vanno anch’esse valutate, come quelle degli altri competitori, per la loro effettiva realizzabilità e per il loro effetto e non sulla base di un pregiudizio moralistico sul “voto di scambio”. La demonizzazione dell’impegno concreto in vista di misure specifiche come asse della competizione elettorale, per la verità, è una specialità tutta italiana, quando non diventa addirittura un’arma strumentale di propaganda. La campagna elettorale americana si è giocata principalmente sulle promesse fiscali, le ultime consultazioni in Germania e in Francia anche. In Gran Bretagna tutti ricordano che un monumento della politica nazionale come Winston Churchill fu battuto dalla promessa dei laburisti di dare ai cittadini le dentiere gratis, e che poi tornò al governo quando quella promessa si rivelò illusoria. Il pragmatismo delle promesse di benefici e vantaggi concreti e immediati è senz’altro più prosaico della prospettazione di “meravigliose sorti e progressive” connesse all’applicazione di qualche ideologia salvifica, oltre a non costituire un reato. Promettere il paradiso sovietico o il destino imperiale dell’Italia è stato, in fondo più dannoso che promettere riduzioni delle tasse o dello spread.

PARTITI E SERIETÀ. Promesse e debiti (nostri), scrive Mario Monti su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2018 - pagina 1. Se un candidato promette a un elettore denaro o favori, in certe circostanze è perseguibile penalmente. Se un’impresa fa un’offerta al pubblico e qualcuno l’accetta, l’impresa è giuridicamente vincolata. Ma se un partito promette agli elettori benefici o riduzioni fiscali e non dice nulla sugli oneri per il bilancio e sulla copertura, non rischia nulla. Mentre un mini voto di scambio, fatto con soldi suoi, giustamente può mettere un politico nei guai, un maxi voto di scambio, proposto da un partito agli elettori a valere sui soldi dei cittadini, non gli crea alcun problema. Stessa cosa in caso di violazione delle promesse. Le leggi impongono una certa serietà ai comportamenti tra individui. Ci lasciano invece esposti, come cittadini, a gradi elevati di irresponsabilità proprio nella fase più importante e delicata della nostra vita collettiva: quella in cui scegliamo chi farà le leggi e governerà. L’attuale campagna elettorale sta battendo ogni record, per l’irrealismo delle proposte. Le cause sono probabilmente due. Queste sono le prime elezioni italiane dell’era del Fake. L’assuefazione alle fake news ha aperto la strada a fenomeni collegati: i fake programs, particolarmente immaginativi per partiti nuovi, che non possono per ora attrarre sulla base di comprovate capacità di governo, e le fake histories, con le quali viceversa partiti che hanno governato in anni recenti o recentissimi cercano di riscrivere gli episodi meno felici di quelle fasi.

L’ altra ragione, che contribuisce a spiegare il fiorire di proposte poco responsabili sulla finanza pubblica, è la perdurante accondiscendenza monetaria della Banca Centrale Europea. Qualche anno fa questa ha svolto una funzione essenziale per superare la crisi finanziaria della zona euro e favorire la ripresa economica. Il protrarsi del quantitative easing ha peraltro causato, con il finanziamento facile del settore pubblico e i tassi di interesse molto bassi, un effetto anestetico, un artificiale offuscamento delle reali condizioni della finanza pubblica e dell’economia. Si sono così attenuati gli stimoli a completare il risanamento finanziario e le riforme strutturali. Il tema non è nuovo. Erano di questo tipo le ragioni per le quali il Corriere, alla fine degli anni Settanta, chiedeva che la Banca d’Italia fosse meno subordinata alle esigenze di finanziamento del Tesoro e nel 1981 appoggiò il «divorzio», deciso consensualmente dal ministro Beniamino Andreatta e dal governatore Carlo Azeglio Ciampi. Tre anni fa, per motivi contingenti ma validi, si è in parte disfatto a Francoforte quel che era stato fatto allora a Roma. Questa temporanea facilitazione, come ha annunciato il presidente Mario Draghi, è destinata a terminare. Sarebbe un grave errore se i partiti lanciassero programmi pensando che questa bonanza possa durare per i cinque anni della prossima legislatura. Tra i diversi partiti, nelle ultime settimane si sono osservate due convergenze: una dichiarata e positiva, l’altra non dichiarata e pericolosa. Da un lato, nessuno sembra più promuovere passi per un’uscita dall’euro. Dall’altro, i partiti propongono politiche molto diverse, come è naturale, ma che sembrano avere un elemento in comune: quale più, quale meno, comportano effetti sul bilancio pubblico che rischiano di rendere impossibile o precaria la permanenza dell’Italia nell’euro. L’affacciarsi di tali dubbi azzopperebbe il nostro Paese proprio nel momento in cui si sta aprendo un’occasione irripetibile per essere a fianco della Germania e della Francia nel ridisegno dello scenario e forse delle regole dell’Unione Europea. Ogni promessa è debito, dice il proverbio. In questo caso, però, le promesse sono dei partiti ma il debito è nostro. Non possiamo restare inerti. È vero che le leggi non ci proteggono, ma non siamo disarmati. Mai come questa volta, mi pare, i giornali e i media in genere stanno facendo un lavoro serio. Non abboccano. Anche ricorrendo a istituti di ricerca, cercano di esplicitare i costi e le conseguenze dei diversi programmi. Se l’opinione pubblica non accetterà di essere presa in giro, i partiti hanno ancora un mese per rimediare. Anche nel commercio, la legge prevede che l’offerta al pubblico possa essere revocata. Almeno quei partiti che tengono a non essere considerati «populisti» potranno rivedere o integrare la loro offerta. Per esempio, c’è qualcuno che si sentirebbe di promettere anche qualche sacrificio ben distribuito, qualche riduzione di rendite di posizione, qualche obiettivo e strumento in più per la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione? C’è qualcuno che, addirittura, si impegnerebbe a non fare nessun condono (fiscale, previdenziale, valutario, edilizio o altri) per tutta la legislatura? In altre parole, c’è qualcuno che aspira al voto di quegli elettori che vorrebbero, semplicemente, un’Italia più seria?

Elezioni 2018, programmi sotto la lente. Bonus e promesse ma conti alle stelle. Meno tasse, più lavoro e incentivi. Cosa propongono i partiti (e con quali coperture), scrive Antonio Troise il 18 febbraio 2018 su "Quotidiano.net". Dentro c’è ogni cosa: meno tasse per tutti, stop ai superticket e alle file negli ospedali, pensioni flessibili e magari anche un po’ più ricche, occupazione stabile con tanti contratti a tempo indeterminato, stimolati da ricchi incentivi fiscali. E, poi, tanti investimenti pubblici, una raffica di bonus, sconti a pioggia per famiglie e imprese. Insomma, chi più ne ha più ne metta di promesse e impegni. Secondo un rapporto di Crédit Suisse, la coalizione che presenta il conto maggiore dal punto di vista delle spese è sicuramente il centrodestra con un programma che vale, più o meno, fra i 104 e i 130 miliardi di euro. Non hanno badato ai costi neanche i Cinquestelle, che si presentano agli elettori con un piano che si attesta sul 4% del Pil, con misure che oscillano fra i 50 e i 60 miliardi. Più moderate le suggestioni che arrivano dal Pd e che non dovrebbero superare i 18 miliardi, ma si tratta di stime molto indicative: secondo altri osservatori i costi sarebbero più che doppi. Del resto molti capitoli dei programmi sono appena abbozzati. E basta poco per far saltare i conti: lo stop alla riforma Fornero, giusto per fare un esempio, costerebbe qualcosa come 140 miliardi entro il 2035, con una punta di 20 miliardi proprio alla fine della prossima legislatura. Ma le zone più in ombra sono le coperture. Quasi nessun partito si è esercitato più di tanto su questo terreno. Due gli interventi più gettonati (ma, anche, non a caso, più difficili da quantificare): spending review e tax expenditures. Che, tradotti in italiano (e in soldoni), significano più tagli alla spesa pubblica e meno sconti fiscali per famiglie e imprese. Per il resto, si naviga praticamente a vista. In questo senso, le idee più chiare sono nelle punte estreme degli schieramenti: da un lato la Lega, che vuole uscire dall’euro e far saltare il patto di stabilità. Dall’altro, la sinistra-sinistra che ripropone la patrimoniale sui redditi più ricchi. In mezzo c’è di tutto: dai condoni alla carbon tax, dalle privatizzazioni alla valorizzazione del patrimonio dello Stato fino alle varie forme di rottamazione delle cartelle esattoriali. Tutte voci che da anni si ripetono e non hanno impedito la trasformazione dei programmi elettorali della vigilia in tanti libri dei sogni una volta chiuse le urne. Vedremo se la prossima legislatura riuscirà a evitare l’ennesima metamorfosi.

Sconti per i figli e 80 euro a largo raggio. Il Pd lancia la soluzione Eurobond. Capitolo famiglie: 240 euro di detrazione Irpef mensile per i figli a carico fino a 18 anni e 80 euro fino a 26 anni, per i redditi sotto i 100mila euro. Altre misure: ridurre il cuneo fiscale, 80 euro estesi alle partite Iva, raddoppio dei fondi del reddito di inclusione, pensione di garanzia per i giovani, incentivi fiscali per badanti. Per molte voci mancano i dettagli. Le proposte valgono fra i 35 e i 57 miliardi; circa 30 miliardi dovrebbero arrivare da una nuova stretta sull’evasione fiscale. Si annuncia un nuovo piano di spending review, dalla razionalizzazione degli acquisiti della Pa e dalla digitalizzazione della burocrazia. Si propongono anche gli Eurobond. Via il canone agli over, Gentiloni ci prova con i regalini elettorali. Avanti popolo. Centomila anziani non pagheranno la tassa tv Lega e 5stelle: «Una delle tante marchette per il voto». Dopo Prodi domenica anche Veltroni sarà sul palco con il premier Leu attacca, D’Alema al Professore: «Un compagno che sbaglia», scrive il 20 febbraio 2018 Daniela Preziosi su "Il Manifesto". Il 5 gennaio Matteo Renzi aveva proposto l’abolizione del canone Rai. Ma era stato accolto da una salva di fischi. «Una stravaganza, una presa in giro», aveva commentato il ministro Carlo Calenda, ed era stato il più composto. Non a caso poi nel programma elettorale la proposta era sfumata. Ieri il presidente del consiglio Paolo Gentiloni ha annunciato un atto di governo fresco di giornata: «Un decreto che aumenta la fascia di reddito per le persone over 75 esentate dal pagamento del canone della Rai. I nuclei familiari over 75, che saranno esentati diventeranno 350 mila dai 115mila di oggi». In sostanza 235mila anziani non abbienti in più non pagheranno la tassa sulla tv pubblica. La fascia di reddito esentata passa dai 6mila agli 8mila euro l’anno. «So quanto la tv sia importante soprattutto per queste fasce sociali in difficoltà e sole», chiosa il premier. Una scelta dell’ultimo momento? Da Palazzo Chigi si assicura che era prevista da tempo. Il decreto è bollato dai leghisti e dai cinquestelle come «mancia elettorale» (Calderoli: «Lieti che centomila anziani in più non debbano pagare per vedere la tv, ma perché queste misure non sono state adottate prima e sono state tenute per le ultime settimane come marchette elettorali?»). Nonostante l’evidenza, le sinistre non si impegnano nella polemica: si tratta pur sempre di una meritevole riduzione di tasse per una fascia debole. Ma il gesto parla al paese ed è l’ennesima sottolineatura del Gentiloni style. Persino sul canone Rai il premier porta a casa un risultato concreto e più credibile delle pirotecniche promesse di Renzi. E quel Calenda (di giorno in giorno più popolare) che aveva attaccato Renzi sull’abolizione del canone, stavolta è uno dei firmatari del decreto, con il collega Padoan. La politica del poco ci compra col canone Rai, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 20/02/2018, su "Il Giornale". Il premier Gentiloni ha annunciato ieri che ha allargato la platea dell'esenzione dal canone Rai: resta fissa l'età degli aventi diritto, 75 anni, ma si alza il reddito minimo annuo, da 6.713 a 8.000 euro. A dieci giorni dal voto, l'annuncio sa molto di spot elettorale, per di più sulla pelle di anziani indigenti. Perché, se vogliamo, la notizia è che con il governo della sinistra continueranno a pagare il canone Rai pensionati a poco più del minimo, con cioè un reddito mensile di 650 euro e per il quale il balzello televisivo imposto in bolletta vale più del dieci per cento dei loro introiti. Uno può obiettare: meglio poco che niente. Certo, questo provvedimento viene incontro in qualche modo ad alcune decine di migliaia di cittadini che non saranno sicuramente offesi per l'inaspettata sorpresa. Ma per quanto ancora ci dovremmo rassegnare alla «politica del poco» che ha caratterizzato, per mano della sinistra, la sciagurata legislatura che sta per chiudersi? Pochi sgravi fiscali, poche esenzioni e poche pensioni, oltre a poche espulsioni di clandestini, hanno portato ovviamente a poca crescita, poco benessere e tanta disoccupazione, come dimostrano i dati economici che vedono l'Italia fanalino di coda dell'Europa nella ripresa, che pure altrove c'è eccome. In ogni dove e in ogni comparsata televisiva, Matteo Renzi si vanta di questo «poco» (ripete come un mantra: «Certo, si poteva fare di più») e il suo successore Paolo Gentiloni si impegna, con un certo vanto, a proseguire su quella strada. La sinistra, dai famigerati ottanta euro in poi, è diventata il «partito del poco» e forse non a caso a giorni incasserà anche pochi voti. Io mi auguro che le imminenti elezioni siano l'occasione per riscoprire la «sfida del tanto» perché non si può continuare a curare un malato grave con l'Aspirina. Vogliamo tanto taglio delle tasse (la flat tax, per esempio, va in questa direzione), tanti investimenti in opere pubbliche, tanto aiuto a chi non ce la fa e tante espulsioni di stranieri non aventi diritto. Di recente Paolo Gentiloni ha detto, affrontando questi temi, che non è tempo di cicale. Siamo d'accordo, no a sprechi e bagordi. Però non vogliamo passare il resto della nostra vita a vivere da formiche che, per quanto sagge siano, prima o poi finiscono schiacciate, vittime della loro lentezza e fragilità.

Irpef e Iva rimodulate all’ombra della Ue. Lista Bonino a basso rischio di buco, continua Antonio Troise il 18 febbraio 2018 su "Quotidiano.net". È agganciato a Bruxelles il programma della lista +Europa guidata da Emma Bonino, a cominciare dalla difesa della legge Fornero. Fronte fisco: riduzione delle imposte dirette, tre aliquote Irpef (20% fino a 40mila euro; 30% fino a 60mila e 40% oltre), Ires al 20%. Iva rimodulata. Prevista un’Agenzia per la ricerca. Il rischio coperture è fra i più bassi. Rimodulare l’Irpef potrebbe costare fra 9 e 12 miliardi. Implementare il piano 4.0 supererebbe i 10 miliardi all’anno. L’ossigeno arriverebbe dal congelamento della spesa per 5 anni e dal taglio dei sussidi. Il frutto della lotta all’evasione ridurrà le imposte e non alimenterà nuova spesa corrente.

Lorenzin punta su welfare e imprese. Tagli alla spesa e autofinanziamento. Il welfare secondo Civica popolare: nidi gratuiti, defiscalizzazione aziendale, taglio delle liste d’attesa della sanità, via il super ticket. Reddito di inclusione per contrastare la povertà. Imprese: super e iper ammortamento strutturali, incentivi alle start up. Lavoro: decontribuzione dei neoassunti, taglio del cuneo. Il programma non indica le coperture, ma è prevista una sorta di autofinanziamento. Fra le misure messe in campo per fare fronte al programma elettorale, oltre alla spending review, sono in campo anche una stretta all’evasione e una forte semplificazione del nostro sistema fiscale e burocratico.

Articolo 18 e sostegno allo studio. Leu rispolvera la carbon tax. Tema centrale il diritto allo studio, con la cancellazione delle tasse universitarie per gli studenti in regola con gli esami. Importanti la lotta alla criminalità e la reintroduzione di tutele per i lavoratori eliminate dal Jobs Act (ripristino dell’articolo 18). Previsti un reddito di inclusione e l’adozione dello ius soli. I capitoli più costosi sono l’estensione del reddito di inclusione e lo stop all’innalzamento dell’età pensionabile previsto dalla Fornero: operazione che, da sola, costerebbe circa 20 miliardi. Più altri 1,6 per abolire le tasse universitarie. Leu punta a introdurre una carbon tax per finanziare gli interventi in infrastrutture. 

Il M5S sogna il reddito di cittadinanza. Sovrastimato lo stop alle grandi opere. Il piatto forte è il reddito di cittadinanza: 812 euro al mese per un single, 1.706 per una famiglia di due adulti con due figli sotto i 14 anni. Al quale fa da sponda la pensione di cittadinanza. Inoltre: cambiare la legge Fornero e aumentare le risorse per la sanità pubblica e gli aiuti alle famiglie. No tax area fino a 10mila euro. Il programma vale circa 78,5 miliardi, di cui 62,5 di maggiori spese e 16 di minori entrate: la spending review dovrebbe dare circa 32 miliardi, poi c’è il taglio delle grandi opere inutili (7 miliardi, ma l’importo è sovrastimato). Sul fronte entrate, la parte del leone la fa la riorganizzazione di esenzioni, detrazioni e deduzioni. 

Pensioni minime più alte e flat tax. Forza Italia taglia detrazioni e aiuti. Il punto principale è una riforma fiscale basata su una flat tax basata sull’aliquota al 23% con una no tax area innalzata a 12mila euro. In programma: cancellazione dell’Irap, aumento delle pensioni minime a 1.000 euro per tredici mensilità, ‘reddito di dignità’ contro la povertà, abolizione di bollo auto e tasse sulla prima casa. Il programma di Forza Italia vale più o meno 100 miliardi: la flat tax a regime costerebbe circa 50 miliardi e sarebbe finanziata abbattendo detrazioni e incentivi a famiglie e imprese. Invece un’altra quota (30-40 miliardi) arriverebbe dal recupero dei cattivi trasferimenti alle imprese e dal recupero dell’evasione fiscale. 

Salvini cancella la legge Fornero. Le risorse? Sforando i parametri Ue. Oltre alla flat tax subito al 15%, propone la sostituzione integrale della legge Fornero, con lo stop all’adeguamento dell’età pensionabile e la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. Cavallo di battaglia resta il contrasto dell’immigrazione clandestina. Abolizione della Fornero e aliquota Iperf unica al 15% valgono circa 100 miliardi. Salvini resta convinto sull’uscita dall’euro: la maggior parte delle risorse dovrebbe essere raccolta andando contro le regole del fiscal compact. Buona parte delle coperture (35 miliardi) arriverà dalla rottamazione delle cartelle. 

Meloni, famiglia e sicurezza al centro. Costi variabili per l’ordine pubblico. Famiglia al centro: asili nido gratuiti, reddito d’infanzia (assegno da 400 euro mensili per nuovi nati fino ai 6 anni), congedi parentali retribuiti all’80% fino al 6° anno, deducibilità del costo del lavoro domestico. Altro cavallo di battaglia è la sicurezza: stipendi più alti alle forze dell’ordine e nuova legge sulla legittima difesa. Le misure per le famiglie costerebbero circa 20 miliardi. Ai quali aggiungere oltre 4 miliardi per retribuire all’80% i congedi parentali. Più difficile, invece, quantificare il costo degli interventi in materia di sicurezza: molto dipenderà dalle decisioni sugli aumenti e sull’incremento di organico delle forze dell’ordine. 

Voto di scambio, non è necessario lo «scambio» basta la promessa, scrive Alessandro Galimberti l'11 agosto 2017 su “Il Sole 24 ore". La corruzione elettorale è un reato di pericolo astratto, di pura condotta e a dolo specifico: non è necessario pertanto lo scambio dei beni o delle prestazioni, ma solo la promessa o l’accordo tra le due parti. La Terza sezione penale della Cassazione (sentenza 39064/17) ha reso definitiva la condanna a 8 mesi di reclusione e a 12mila euro rideterminata dalla Corte d’appello di Napoli nei confronti di un cittadino elettore. Questi, in concorso con altri due coimputati - una candidata alle comunali e il fratello - aveva promesso il sostegno in cabina elettorale non tanto proprio, in quanto residente altrove, ma di tre familiari abitanti nel piccolo centro all’epoca della consultazione incriminata, nel 2009. Due anni più tardi il fratello dell’imputato, destinatario della promessa di voto di scambio, era stato assunto in un’agenzia di sicurezza (peraltro a tempo determinato e per soli 3 mesi). A fronte delle lamentele contenute nel ricorso, in cui i difensori dell’elettore lamentavano la genericità delle contestazioni e - appunto - il riscontro molto scolorito alla promessa della candidata, la Terza penale ribadisce che la struttura del reato di corruzione elettorale prescinde del tutto, in ogni sua formulazione, dal vero e proprio scambio delle prestazioni e, anzi, anche dalla realizzazione di una sola di esse.

La sentenza di Cassazione 39064/2017: Il primo comma (l’articolo è l’86 della legge 579/1960) punisce il candidato (o chi per lui) offre o promette qualunque utilità a uno o più elettori, anche utilità dissimulate (per esempio rimborsi, vitto alloggio o spese e servizi). La seconda ipotesi punisce l’elettore che, per dare o negare firma o voto, accetta offerte o promesse o riceve denaro o altra utilità. In entrambe le fattispecie, annota l’estensore della Terza, si prescinde completamente dalla realizzazione del pactum sceleris, avendo il legislatore del 1960 arretrato la soglia di punibilità al momento dell’accordo e/o della promessa. Ciò è reso ben evidente nel caso in cui l’iniziativa spetta al “politico” - o a chi per lui - in cui il reato, che peraltro è a concorso eventuale e non necessario, si consuma al momento in cui viene profferita la promessa a vantaggio del terzo. Se poi si realizzerà la promessa, come nel caso di specie e a “scoppio” ritardato, ciò è del tutto indifferente per far scattare la punibilità. Ma anche nell’ipotesi più strutturata del comma 2 - il vero e proprio accordo tra elettore e candidato - il reato si consuma al momento dell’accettazione dell’offerta o della promessa (e ovviamente anche alla ricezione del denaro), restando indifferente ogni e ulteriore esecuzione dell’accordo. Tra l’altro la corruzione elettorale è reato plurioffensivo, perchè presidia sia l’interesse dello Stato a libere e corrette consultazioni, ma anche allo stesso tempo il diritto politico di ogni elettore alla libera espressione, e prima ancora determinazione del voto.

Non c' è dibattito tv in cui, parlando di programmi elettorali, alla fine non spunti la domanda sui costi delle promesse. Abolire la Fornero? Sì, ma quanti soldi servono? Scrive Maurizio Belpietro per la Verità il 23 gennaio 2018. Ridurre le tasse a una sola aliquota, magari del 15 per cento? Ok, ma il denaro dove lo troviamo? Aumentare le pensioni al minimo? Fantastico, ma se l'Inps è già in deficit, come si fa? L' elenco naturalmente potrebbe continuare, perché la fantasia dei leader politici in campagna elettorale spazia dai bonus agli incentivi, senza farsi mancare nulla. Tuttavia il problema non sono le promesse, che in buona parte non sono realizzabili per totale mancanza di fondi, ma ciò che i partiti e il governo hanno già speso proprio in vista del voto del 4 marzo. Infatti, non ci sono solo le balle che si raccontano agli elettori per invogliarli a votare un partito o un candidato. Ci sono anche le marchette elettorali, quelle operazioni fatte tenendo un occhio agli sbandierati interessi della collettività e un altro alla ricaduta che potrebbero avere i provvedimenti decisi al momento del voto. Non stiamo parlando solo dei famosi 80 euro prima delle elezioni europee o del più recente contratto degli statali, che - quando si dice il caso - garantirà aumenti di stipendio proprio con la busta paga di febbraio. No, stiamo alludendo a qualcosa di più subdolo, che adesso vi spieghiamo subito. Prendete per esempio il caso di Maria Elena Boschi, la cocca del segretario del Pd. Dopo la vicenda di Banca Etruria, trovare un collegio che se ne facesse carico era diventato un problema. Di candidarla in Toscana, cioè a casa sua, dove tutti la conoscono, non c'era neanche da parlarne, perché da quelle parti gli elettori che hanno visto andare in fumo i propri risparmi sono tanti e si rischiava una rivolta anche tra i compagni. A qualcuno dunque era venuta l'idea di farla emigrare in Campania, dalle parti di Ercolano, dove il Pd renziano andrebbe alla grande. Ma è bastato parlarne per far insorgere i militanti, per cui anche da quelle parti la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio si è trovata le porte sbarrate. Che fare, si devono essere chiesti dalle parti del Nazareno? E allora ecco spuntare l'idea risolutiva: spedirla in Alto Adige, sotto l'ala protettiva della Südtiroler Volkspartei, il partito altoatesino da sempre alleato del centrosinistra che in cambio, come è noto, ha fatto più di una concessione alla Provincia autonoma. Certo, l'ex ministra delle riforme è un boccone difficile da mandar giù anche per la Svp, perché il flop della revisione costituzionale, ma soprattutto le polemiche relative alla banca di cui era vicepresidente il padre, non sono cose che si dimenticano in fretta. Tuttavia i sudtirolesi non potevano scordarsi del regalo che proprio pochi mesi fa il governo Gentiloni ha fatto a Trento e Bolzano. A novembre, con un emendamento al decreto fiscale, alla società che gestisce l'autostrada del Brennero è stata generosamente garantita la proroga trentennale della concessione. Nessuna gara, nessun bando, ma un semplice protocollo d' intesa fra ministero e i presidenti delle due Province. I quali, ovviamente, sono anche quelli che indicano i vertici. Insomma, invece di essere privatizzata, l'autostrada è rimasta in famiglia e anche gli utili, di cui ovviamente gode il Trentino Alto Adige. Due mesi fa il senatore di Forza Italia, Lucio Malan, calcolò che il dono valesse 5,5 miliardi, senza contare l'indotto politico. Vi sembrano troppi tutti questi soldi per un seggio? Forse, ma qualcuno deve aver pensato che per impedire la caduta della Boschi non si dovesse badare a spese. Anche dalle parti di Siena c' è un'altra operazione che ai contribuenti è costata un occhio della testa e, guarda caso, anche da quelle parti verrà candidato l'uomo che ci ha messo la faccia, ovvero il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, colui che ha licenziato il precedente amministratore delegato Fabrizio Viola. L' ad voleva fare in fretta e chiudere la partita della ricapitalizzazione prima del referendum del 2016, ma la botta per il governo sarebbe stata grossa. Così si decise di rinviare. Quanto sia costata l'attesa è noto: subito 4 miliardi, che naturalmente ha dovuto mettere lo Stato, cioè i contribuenti, e che poi sono diventati 5,5. E, quando si dice la coincidenza, il ministro che ha seguito l'operazione andrà a chiedere il voto proprio ai senesi, pur essendo romano, emigrato per anni in giro per il mondo. Attenzione, non si tratta di voto di scambio, che in questo caso non c' entra nulla, ma di una campagna elettorale dove per non essere spazzati via non si bada a spese. Con i soldi degli italiani.

Bonus pensioni, la promessa di Renzi costa tre miliardi. "80 euro anche sulle pensioni minime". Il premier Matteo Renzi adesso fa le sue promesse in vista delle amministrative e prova a sedurre i pensionati con promesse che probabilmente non riuscirà a mantenere, scrive Claudio Torre, Mercoledì 06/04/2016, su "Il Giornale".  "80 euro anche sulle pensioni minime". Il premier Matteo Renzi adesso fa le sue promesse in vista delle amministrative e prova a sedurre i pensionati con promesse che probabilmente non riuscirà a mantenere. Ma dando credito alle sue parole i pensionati cominciano a farsi i calcoli chiedendo aiuto anche a qualche commercialista per capire chi davvero potrebbe ottenere il bonus. Se infatti gli 80 euro venissero dati a tutti i pensionati che hanno un reddito pensionistico non superiore al minimo, la platea scenderebbe a 2,3 milioni di anziani (questo perché una parte dei pensionati al minimo beneficia anche di altre prestazioni, come per esempio la reversibilità). In questo caso, quindi, la maggior spesa annuale scenderebbe a 2,3 miliardi di euro l’anno. La cosiddetta pensione minima viene riconosciuta al pensionato il cui reddito da pensione, sulla base del calcolo dei contributi versati, risulti inferiore ad un livello fissato ogni anno per legge, considerato il "minimo vitale" di sopravvivenza. Il calcolo cambia a seconda che la persona sia singola oppure sposata. Per il 2016 è 501,89 euro al mese. Nelle intenzioni del governo ciò che sembra evidente è che difficilmente sarà toccato il limite di legge, portandolo dai quasi 502 euro di oggi a 582 euro. Alberto Brambilla, direttore di Itinerari previdenziali, ex consigliere di amministrazione dell’Inps e sottosegretario al Lavoro nel governo Berlusconi 2001-2005, spiega a Repubblica le sue perplessità: "Il messaggio che si dà è pericoloso. Perché sforzarmi di versare contributi, anziché lavorare in nero, se poi mi viene assicurata comunque una minima da quasi 600 euro? Un livello questo assai vicino alle pensioni a calcolo, oggi attorno ai 650-700 euro, cioè quelle pensioni basse perché frutto di una vita contributiva intermittente. La differenza è che in questo caso il lavoratore precario ha pagato tasse e contributi per tutta una vita, il pensionato minimo no".

Voto di scambio di Grillo: prestiti con i nostri soldi. Il trucco dei Cinque stelle per captare consensi: aiutano le imprese con il microcredito ma dimenticano che il fondo è foraggiato dagli stipendi pubblici dei parlamentari, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. Quando si dice l'allievo che supera il maestro. Il Movimento Cinque stelle è riuscito in un'impresa leggendaria. I grillini sono passati dal vecchio assunto della sinistra cachemire et champagne «abbiamo una banca!», di fassiniana memoria, a «siamo una banca!».  Direttamente. L'idea è ghiotta, non c'è che dire, e anche furbona. Lo slogan efficacissimo: «Possiamo salvare un'impresa al giorno per i prossimi 10 anni, i soldi li mettiamo noi dai nostri stipendi». Nemmeno quel gran ganassa di Matteo Renzi con lo spot elettorale degli 80 euro al mese seppe fare di meglio. I Grillo boys annunciano fino a 25mila euro di finanziamento (con una possibile ulteriore integrazione di 10mila, per un totale di 35mila euro) di cui potranno godere subito duemila imprese. Un fondo di rotazione alimentato dalle rate restituite e dai nuovi stanziamenti che arriveranno dagli stipendi del M5S e dal ministero dello Sviluppo economico. E c'è pure un sito, www.microcredito5stelle.it , che spiega tutto. Il gran capo Beppe specifica sul blog: «Non servono garanzie reali, basta un business plan e un'idea sostenibile di impresa. Il credito viene erogato a tassi molto bassi su un termine fino a 7-10 anni». Tutte le persone che vogliano intraprendere una nuova attività imprenditoriale o che abbiano un'impresa da meno di 5 anni da oggi possono bussare a casa Grillo. Microimprese fino a 5 dipendenti, società a responsabilità limitata semplificata e cooperative fino a 10 dipendenti, lavoratori autonomi e società di professionisti. Un bel consulente del lavoro e il gioco è già fatto. La Banca (nazional) popolare Cinque Stelle ha aperto gli sportelli. Il Movimento dice di avere già 50 milioni di euro disponibili. Soldi che arrivano dai due Restitution day , quando i parlamentari Cinque Stelle hanno versato la metà delle loro indennità insieme alle eccedenze della diaria non rendicontata, compresi i famigerati scontrini. Tradotto: soldi pubblici. L'iniziativa è nobile. I parlamentari grillini hanno deciso di destinare quei soldi a un fondo per le imprese e non al loro conto corrente. Ma va comunque specificato che il loro bel gesto non è stato reso possibile grazie ai fondi personali, ma bensì con parte dei soldi pubblici che gli stimatissimi onorevoli-cittadini ricevono ogni mese da Camera e Senato. La cosa è ben diversa. Tutti coloro che da ora in poi riceveranno soldi dalla Bank of Grillo («40 imprese al mese»), matureranno un enorme debito di riconoscenza nei confronti di chi gli ha fornito quei finanziamenti. Riconoscenza che potrebbe essere sfruttata da Grillo, Casaleggio & Co. al momento più opportuno. Sotto elezioni per esempio. Silvio Berlusconi è stato accusato di voto di scambio per molto meno. Ma, come insegna il nostro presidente del Consiglio, in politica non conta tanto quello che si fa, ma quello che si fa credere di aver fatto. Occhi sgranati, voce tremante, sguardo spiritato, Alessandro Di Battista (che, infatti, da grande aspira a fare il premier) ha pubblicato sul blog di Grillo un video per presentare questo «giorno storico» e invitare tutti al mercato romano del Testaccio insieme al vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio con il quale si è cimentato nello sport preferito dai Cinque Stelle: lo srotolamento dello striscione (con cifra dell'assegno da 10 milioni per il fondo microcredito). Strette di mano al banco del pesce, sorrisi a quello dei formaggi, selfie con gli ambulanti. Passa dall'auto congratulazione («È una cosa buona, datecene atto») alla lezione di filosofia («Un mare è fatto di tante gocce»). Il banchiere Di Battista della Bank of Grillo ora è pronto a incassare.

Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”. Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.

Politiche 2018, voto di scambio: il listino prezzi, scrive Iacchite l'1 febbraio 2018. La campagna elettorale è partita e con essa tutta la giostra di promesse e di impegni che difficilmente saranno mantenuti. In tanti hanno lanciato l’allarme per il concreto pericolo di voto di scambio, in questa tornata elettorale: i vescovi, le procure, e i tanti politici che di giorno hanno una faccia e la sera un’altra. Anche questa volta nessuno riuscirà a fermare lo squallido mercimonio del voto che ad ogni tornata elettorale si ripete sempre. Nonostante i finti appelli alla correttezza e al rispetto della libertà di espressione del cittadino. Una chimera da noi. Qui lo sanno anche le pietre: il voto non è mai stato libero. Perché il “bisogno” è tanto, e c’è chi, pur di soddisfare le proprie necessità materiali magari solo per qualche giorno, è disposto a vendere il proprio voto. E questo i politici mascalzoni lo sanno bene. Approfittarsi della miseria altrui per scopi elettorale è la cosa più squallida che un politico possa fare. Ma da noi è prassi. La macchina organizzativa dei marpioni è in moto, e i tanti galoppini al loro servizio sono già in piena attività. Ed è inutile denunciare, tanto da noi anche se li fotografi mentre cedono denaro in cambio del voto, nessuno interviene. Specie la procura di Cosenza che più che far rispettare la Legge, è impegnata, per mero tornaconto personale, a tutelare proprio quei politici disposti a pagare pur di essere eletti. E’ così che funziona, e tutti lo sanno. Del resto basta guardare le denunce fatte alla procura di Cosenza sul voto di scambio, anche alle ultime amministrative (una depositata dall’avvocato Paolini) tutte sistematicamente insabbiate, per capire che niente e nessuno può fermare questo squallido mercimonio. Gira da diversi giorni in città il listino prezzi dei voti, che noi riportiamo così come lo abbiamo sentito: Un voto da noi vale 50 euro, o due buoni spesa da 25 euro. Ma c’è anche chi si offre di pagare le bollette, ma per usufruire di questo “servizio” bisogna assicurare al marpione il voto di tutta la famiglia. Oltre al denaro gira da giorni a Cosenza la “promessa”, in cambio del voto, di un posto di lavoro nella sanità privata, o in nascenti cooperative che non nasceranno mai. C’è anche chi promette una casa popolare a chi non ce l’ha. O la sistemazione del figlio, anche per pochi mesi: i famigerati corsi di formazione. E poi promesse del tipo: di aiuto a farti prendere la pensione, ti aiuto a sbrigare quella pratica, ti aiuto a far diventare il tuo terreno edificabile, ti trovo un posto all’ospedale di Parma per l’operazione di tuo padre, ti faccio cancellare tutte le multe, ti apparo quel processo, ti stabilizzo tuo nipote, ti faccio avere gli arretrati, e se vinco ti mando anche in vacanza una settimana a Guardia. E per finire ci sono gli accordi con le organizzazioni masso/mafiose che vengono trattate “in altre sedi” e con maggiore riguardo. La lista è lunga, e potrebbe continuare, e tutti sanno che non diciamo niente di nuovo. E’ così che funziona da noi: vince chi più spende. Chi riesce a mobilitare più famiglie possibili comprando la loro miseria. E questo spiegherebbe come mai alla fine vengono eletti sempre gli stessi. Perché i marpioni politici sanno bene che per conservare il loro potere hanno bisogno di mantenere nell’indigenza più gente possibile, che tradotto significa: più morti di fame ci sono, più voti da comprare per i marpioni. Ed è per questo che rubano e sperperano il denaro pubblico, piuttosto che farlo arrivare a chi ne ha veramente bisogno: non gli conviene sistemare veramente le cose, altrimenti dove troverebbero i voti? Senza i morti di fame molti di loro non sarebbero mai eletti. La miseria è funzionale a questo sistema. Ed proprio sulla miseria della gente che vivono, calpestando la dignità di chi è costretto a rivolgersi a loro, per risolvere un problema, perché non c’è altra alternativa. Sta qui la loro forza. In un “sistema” dove i principi cardini della Costituzione sono sistematicamente calpestati nell’impunità assoluta. Per dirla come la direbbe Cetto: tu mi voti, ed io ti sistemo, tu non mi voti, ‘nto culo attia e a tutta la tua famiglia. Quando la realtà supera l’immaginazione, persino quella di Cetto Laqualunque.

Voto di scambio. Vendersi per trenta denari. I due casi - uno sulle presenti elezioni del 2015, l’altro su quelle del 2012 - seminano sconforto nell’elettorato. L’attualità viene dalla Puglia: la Digos avrebbe scoperto (il tutto è ancora da dimostrare) che alcuni comitati elettorali pugliesi hanno promesso compensi in denaro ai attivisti e rappresentanti di lista, scelti tra giovani disoccupati in difficoltà economiche. L’accordo sarebbe un classico: lavorare nei seggi come contropartita per l’assicurazione di facili voti, con tanto di tariffario. I giovani venivano retribuiti dai 30 ai 50 euro e per aggirare abilmente il rischio di incorrere nel reato i loro compensi figurano come “rimborso spese”. La gravità del fenomeno e il pesante rischio di un reale condizionamento del voto in Puglia ha persino richiesto l’intervento delle autorità tramite una squadra speciale della Digos pronta a vigilare e intervenire in caso di irregolarità durante la giornata di domenica. Scene da Paese in guerra, dove sono i caschi bianchi dell’Onu quelli che garantiscono libere elezioni. Il caso “storico” di voto di scambio viene invece dalla Sicilia: spunta oggi un’inchiesta, nata da un’indagine di mafia coordinata dal procuratore Vittorio Teresi, su una fitta compravendita avvenuta durante le elezioni regionali siciliane dell’ottobre 2012 per il rinnovo dell’Assemblea Regionale e quelle comunali di Palermo del maggio 2012. Cinque le persone indagate dalla Guardia di finanza: due consiglieri dell’Assemblea regionale, di cui uno è l’attuale presidente della Commissione Bilancio dell’Assemblea, un ex deputato regionale, un consigliere comunale che non risultò alla fine eletto, e, quello che è persino peggio, anche un finanziere, per il quale l’accusa sarebbe di corruzione per aver fatto favori a uno dei consiglieri indagati. In cambio di voti, i candidati promettevano agli elettori posti di lavoro in centri e corsi finanziati con fondi europei, ma spesso la moneta di scambio consisteva anche in pochi euro.

Per trenta denari. Fa discutere in queste ore l’indagine aperta dalla Procura di Bari in merito alla scoperta di un presunto tariffario per remunerare procacciatori di voti per le prossime elezioni regionali. Al centro delle accuse la candidata barese del Partito Democratico Anna Maurodinoia. Rappresentanti di lista, sarebbero stati pagati dai 30 ai 50 euro in base al numero di preferenze assicurato. La scoperta dell’acqua calda: il voto di scambio è una vera e propria attività politica, scrive Cosimo Giuliano su "Cosmopolismedia”. La campagna elettorale per le regionali pugliesi è ufficialmente entrata nel vivo. E con essa tutti i trucchetti posti in essere dai candidati per assicurarsi quel numero di voti necessari per venire eletti. La Procura del capoluogo pugliese ha infatti aperto un'indagine sull'esistenza di un presunto tariffario per remunerare rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze per le prossime consultazioni elettorali. Agenti della Digos di Bari, nella giornata di ieri, hanno depositato presso l'ufficio del procuratore aggiunto, Lino Giorgio Bruno, il video di un servizio di Telenorba andato in onda nel telegiornale di mercoledì sulle modalità di reclutamento dei rappresentanti di lista, pagati dai 30 ai 50 euro in base al numero di voti assicurato. Gli investigatori indagano per il reato di voto di scambio, ma per il momento non ci sono indagati.  Al centro delle accuse la candidata del Partito Democratico Anna Maurodinoia, attualmente consigliere comunale nel comune di Bari, che ha già depositato una denuncia per diffamazione nei confronti dell’uomo intervistato da Telenorba. In vero è stata scoperta l’acqua calda. Il voto di scambio è una vera e propria attività politica: voti in cambio di vil danaro, buoni benzina o promesse di lavoro, controllo coatto e mafioso sull'elettorato, in questi luoghi dimenticati dal buon Dio sono sempre esistiti. Il dramma della disoccupazione, le difficoltà economiche di giovani e meno giovani sono la scintilla che consente alla longa manus di politicanti in doppiopetto e senza scrupoli di innescare il rogo delle coscienze, l’olocausto dell’Io pensante e gerente. Il voto di scambio, è cosa arcinota. E’ un fenomeno gravissimo e ampiamente consolidato in Italia. Si riferisce all'azione di un candidato il quale, in cambio di favori leciti o illeciti, prometta ad un elettore un tornaconto personale. Viene alla mente l’aneddoto legato all’ex sindaco di Napoli Achille Lauro. Durante la campagna elettorale del 1952 era solito regalare cibo e soldi, prometteva mari e monti, dava ai potenziali elettori la metà di mille lire o una sola scarpa, promettendo di dare l’altra metà a elezioni finite.  Ma non è il caso di andare così indietro nel tempo. Durante il periodo elettorale, soprattutto nelle piccole realtà, il “porta a porta” dei candidati diventa incessante e perpetuo; austeri personaggi di cui non conoscevi l’esistenza vengono a farti visita a tutte le ore. Una sorta di tramvai religioso al pari di Lourdes o Medjugorje, Fatima o San Giovanni Rotondo. Le case diventano una meta imprescindibile del politico beghino più oltranzista che, tronfio, prospetta un mondo più buono e giusto, migliore, un futuro pericolosamente troppo roseo, un Eden pagano e clientelare nel quale è difficile non immedesimarsi. Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Sicilia fu accusato di aver costruito la sua intera carriera politica proprio sui voti di scambio. Furono scoperti migliaia di documenti che contenevano nomi, cognomi, indirizzi, numeri di telefono ed ovviamente, i desiderata di ogni singolo elettore. La domanda a questo punto sorge spontanea: dove sono le autorità preposte a controllare il legale e democratico svolgimento di una campagna elettorale? Forse sono tutti a spasso a bighellonare con 30 denari?. “La democrazia - asseriva Bernard Shaw - sostituisce l'elezione da parte dei molti incompetenti all'incarico affidato dai pochi corrotti”.

Tariffario dei rappresentanti di lista. Così si «paga» il voto: 40 euro l’uno. La «confessione» di un addetto al comitato elettorale in vista delle regionali. Il servizio del Tg Norba sequestrato dalla Digos: si indaga su possibili reati, scrive Francesco Strippoli su “Il Corriere della Sera”. Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Gli investigatori intendono appurare se i fatti raccontati nel servizio costituiscano reati da perseguire a norma di legge. Il servizio non lo dice, ma la scena è girata al quartiere Japigia di Bari. Nelle immagini si vede il cronista affacciarsi sull’uscio di un comitato elettorale. Pare quello della candidata del Pd Anita Maurodinoia. Per lo meno quello è il cognome ben visibile sui manifesti elettorali di varia dimensione riprese nel filmato. Un addetto, interpellato dal cronista, spiega come essere reclutati: si arriva al comitato, ma poi lo stesso addetto li «manda lì». Non viene specificato dove, ma si intuisce sia un ufficio centrale che funga da riferimento per la città. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. A spoglio completato, infatti, come spiega l’addetto interpellato, si controllano le preferenze conquistate dal candidato-committente e se corrispondono all’accordo stipulato al momento del reclutamento, arriva la remunerazione. Appunto: 30, 40 o 50 euro, non si capisce se a voto conquistato o in totale per il seggio che si è chiamati a presidiare. A chi bisogna riferire dei voti riportati nel tabulato elettorale? L’addetto non ha incertezze: «Alla persona giusta». Ossia la stessa che ha provveduto al reclutamento.

In una nota inviata alla stampa l’avvocato Vito Perrelli, per conto della candidata Anna Maurodinoia, «comunica di aver sporto un esposto presso la questura di Bari per quanto mandato in onda dall’emittente televisiva Telenorba». «Il sottoscritto - prosegue la nota - ritiene doveroso rappresentare che il soggetto intervistato dal giornalista qualificato come custode e/o addetto al reclutamento non ha alcun tipo di rapporto, men che meno fiduciario, incarico formale e/o mandato né con il sottoscritto né con il proprio mandante. Le diffamatorie dichiarazioni rese - manifestatamente influenzate dal tenore delle domande poste dal giornalista, assolutamente suggestive, nocive e già contenenti le risposte - sono assolutamente prive di ogni fondamento per non aver mai con nessuno il sottoscritto e/o la candidata Maurodinoia, stipulato accordi per la presunta compravendita di voti»Regionali Puglia, 30 euro per il voto “anche della famiglia”. Video su candidato di Emiliano, scrive Luca De Carolis su "Il Fatto Quotidiano". Il caso di Gianni Filomeno, della lista civica appoggiata dal Pd, è simile a quello quello mostrato due giorni fa da TgNorba, in cui un presunto collaboratore del comitato elettorale di Anna Maurodinoia, in lista per il Pd, recita il tariffario per un rappresentante di lista. "Cerchiamo rappresentanti di lista retribuiti". La donna che recluta ragazzi “per sostenere il nostro candidato” lo dice al telefono: “Portati la tessera elettorale, abbiamo bisogno del riscontro del tuo voto”. Lui, Gianni (o Giovanni) Filomeno, candidato a Bari per la lista civica “La Puglia con Emiliano”, parla davanti alla telecamera (nascosta): “Sono 30 euro. Ma non è voto di scambio, è un rimborso spese”. Parole e scene da un video in possesso dei Cinque Stelle pugliesi, che settimane fa hanno lanciato il sito votolibero.it proprio per raccogliere denunce su tentativi di compravendite elettorali. Il prodotto è un filmato di quasi 6 minuti, visionato dal Fatto Quotidiano, in cui compare Filomeno, in corsa per una civica collegata al candidato del Pd Michele Emiliano. Un video simile a quello mostrato due giorni fa da TgNorba, in cui un presunto collaboratore del comitato elettorale di Anna Maurodinoia, in lista per il Pd, recita il tariffario per un rappresentante di lista: “Trenta, quaranta, cinquanta euro”. Ma un rappresentante non può essere pagato: neppure con un rimborso spese. Maurodinoia, eletta in Consiglio comunale a Bari per il centrodestra, ora con l’ex pm, ha annunciato querela contro il presunto collaboratore, smentendo tutto. Mentre la Digos di Bari ha aperto un’inchiesta. Ora c’è anche il filmato su Filomeno: 43 anni, residente a Castellana Grotte (Bari), titolare di uno studio di consulenza aziendale specializzato in “finanza agevolata”. Nel settembre scorso ha presentato a Castellana, come “consulente dell’associazione Logos”, il Piano garanzia giovani: “Un programma dell’Unione europea finalizzato a favorire l’occupazione e l’avvicinamento dei giovani al mercato del lavoro”. Tra i relatori, anche il segretario regionale del Pd Emiliano. Filomeno: “Sono 30 euro. Ma non è voto di scambio, è un rimborso spese”. Da qui si arriva al video, che inizia con l’audio di una telefonata. Un ragazzo chiede informazioni a tale signora Tina: “Ho saputo che cercate personale per volantinaggio”. E lei parte: “Stiamo cercando ragazzi che possano sostenere il nostro candidato alle Regione. Cerchiamo giovani che possano fare volantinaggio, rappresentanti di lista e attacchini: ovviamente, tutto retribuito”. La donna lo invita quindi a un incontro per “domani pomeriggio” in un locale di Corato (Bari), aperto “a tutti coloro che vogliono far parte dello staff”. E aggiunge: “Porti documento di identità e tessera elettorale”. Il ragazzo chiede: “Perché anche la tessera?”. E la signora spiega: “Per dare riscontro del tuo voto. Abbiamo bisogno dei vostri voti e dei vostri parenti, è ovvio”. La donna non cita mai Filomeno. Ma il video mostra subito dopo l’invito a un incontro dell’associazione Logos per il pomeriggio del 12 maggio, presso lo stesso locale della stessa città citata dalla signora. Il testo è in un italiano stentato: “Il responsabile dell’associazione Logos, Giovanni Filomeno, e il suo staff sono lieti di invitare i giovani under 29 e le imprese per conoscere le opportunità date dal programma garanzia giovani”. Proprio quello illustrato da Filomeno assieme a Emiliano. Il ragazzo chiede: “Perché anche la tessera?”. E la signora spiega: “Per dare riscontro del tuo voto. Abbiamo bisogno dei vostri voti e dei vostri parenti, è ovvio”. Si riprende con le immagini, e si sente di nuovo la voce della signora Tina, che si rivolge a dei ragazzi: “Ascoltatemi, io sono Tina, questo è il mio recapito, sono reperibile anche di notte”. Segue numero di cellulare (coperto dal bip). “Andate oltre i familiari, allargate… allargate”, esorta. Una ragazza obietta: “Non ci abbiamo capito molto, siamo venuti per altro”. Compare Filomeno. Giacca e camicia azzurra, spiega: “Quello che ci serve è organizzare, uno per famiglia. Quello da dire ai ragazzi è: ‘Tu sei libero di votare, di fare campagna elettorale? La tua famiglia è libera?”. Qualcuno chiede: “Trenta euro?”. E Filomeno replica: “Sì, sì, certo, è normale: un rimborso spese”. Una ragazza: “Ma è voto di scambio”. Lui nega: “No, è rimborso spese”. Lei non molla: “Sono venuta per fare la rappresentante di lista, perché la signora Tina mi ha detto che cercava un rappresentante in cambio di 30 euro”. Filomeno si irrigidisce: “Ti hanno dato un’informazione sbagliata, tu lo devi fare perché ci credi”. Tina irrompe: “Gianni, qualche problema?”. Lui: “Sì”. La donna allora precisa: “Non c’è nessun tipo di scambio”. La ragazza insiste: “Perché mi avete chiesto di portare la tessera elettorale?”. Risposta: “Perché voglio mettere una persona in ogni seggio”. Segue Filomeno che spiega propositi e idee. Fine. Da Il Fatto Quotidiano del 22 maggio 2015.

Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

PARLIAMO DI VOTO DI SCAMBIO: Il mercato degli eletti

Così è il titolo dell’inchiesta di Piero Colaprico, Riccardo Di Gricoli ed Andrea Punzo su “La Repubblica”. Lo scacchiere degli uomini d'onore. Da nord a sud il controllo delle urne. In una Regione su due le Procure indagano su presunte compravendite di pacchetti di voti da parte della malavita organizzata. Da il caso di Nicola Cosentino in Campania fino agli scandali in Liguria passando attraverso l'operazione Minotauro in Piemonte. Dal cellulare al trucco delle schede, tutti i modi per pilotare il voto. Cambiano i sistemi elettorali e le organizzazioni rivedono il modo per condizionarne i risultati. L'elettore che vuole vendere la sua preferenza sa già a chi rivolgersi e quali tecniche usare. Non solo la foto con il telefonino ma anche lo scambio della scheda già compilata.

La lunga mano dei boss sul voto nell'Italia delle elezioni inquinate. Metà delle regioni conta almeno un caso di voto di scambio. Negli ultimi due anni il numero di inchieste su politici eletti grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. E aumentano i comuni sciolti per mafia, soprattutto al nord. Una Regione su due conta almeno un caso di compravendita di voti. Dal 2010 a oggi il numero di inchieste su politici arrivati nelle stanze del potere grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. Nelle borgate dei grandi centri come nei paesi più piccoli, spesso ai margini della cronaca. Senza contare i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose: oltre 200 dal '91. La mappa dell'Italia è costellata da scandali che ruotano attorno al voto di scambio. Da Milano a Casal di Principe, da Ventimiglia a Torino, il Paese è una gigantesca scacchiera dove i calcoli a tavolino dei boss permettono di consegnare le chiavi dei palazzi istituzionali a "uomini fidati". A politici conniventi del clan di turno, che diventano così appendici delle cosche nei luoghi della democrazia del Paese. Rispetto a qualche anno fa, è il nord ad aver compiuto il balzo in avanti più significativo. Piemonte, Lombardia e Liguria, un tempo triangolo industriale e motore del Paese, si sono trasformate nei presìdi delle 'ndrine, il cui controllo territoriale passa anche dalla vendita di migliaia di voti. Un voto costa 50 euro. Ma può arrivare anche a 80 o 100. A seconda della Regione o delle condizioni dettate dai vertici della criminalità locale. In cambio di una semplice "x" che segni una preferenza, alcuni possono arrivare a offrire un panino, un pasto caldo oppure il pagamento di una bolletta. Sono le schede elettorali sporche di mafia. Migliaia di voti in cambio di migliaia di euro. Pratica che ha compromesso sul territorio nazionale decine e decine di assessori, consiglieri e ex presidenti di Regione. E che, in numerosi casi, li ha costretti a concedere favori su favori, strozzati dalla loro stessa voglia di potere.

Il voto di scambio si può raccontare attraverso tre storie. Eccole.

Operazione Minotauro. È il 6 giugno 2011. A Volpiano, cittadina di 15 mila abitanti in provincia di Torino, si riunisce il nuovo Consiglio comunale. È la prima seduta dopo le elezioni e sulla poltrona di sindaco esordisce Emanuele De Zuanne (lista civica). Aprono i lavori. Si susseguono gli interventi. I presenti, oggi, ne ricordano uno più di altri: "Con i soldi pubblici bisogna saper osare. Spenderli, ma senza rubare". Qualche applauso, ma anche fischi. L'oratore, secondo eletto dopo il Sindaco con il 33% dei voti, è Nevio Coral, già sindaco di Leinì (piccolo centro a due passi dal capoluogo piemontese), imprenditore di successo e politico molto noto nella zona. Due giorni dopo, la mattina dell'8 giugno, scatta a Torino e provincia l'Operazione Minotauro, la più vasta azione anti 'ndrangheta nella storia del Piemonte: 191 persone iscritte nel registro degli indagati, 141 i mandati di custodia cautelare spiccati dal gip, sequestri preventivi di beni per un valore di oltre 117 milioni di euro. Associazione a delinquere di stampo mafioso, detenzione illegale di armi, traffico di stupefacenti, gioco d'azzardo, riciclaggio sono solo alcuni dei reati contestati. Tra gli arrestati c'è un solo politico: Nevio Coral. Lo stesso che due giorni prima invocava un uso onesto del denaro pubblico. Il discorso di Volpiano diventa così l'ultimo atto politico di un uomo costretto a difendersi da una doppia infamante accusa: concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. "La criminalità organizzata - scrive il prefetto di Torino Alberto Di Pace nella relazione consegnata al Ministro Anna Maria Cancellieri il 29 febbraio - sarebbe arrivata a infiltrarsi tra le maglie dell'ente comunale (e non solo) realizzando un fattivo concorso nella gestione deviata della cosa pubblica". L'uomo chiave, il tramite tra lo Stato e il malaffare sarebbe sempre lui: Nevio Coral. Intrattiene rapporti con affiliati e pluripregiudicati come Vincenzo Argirò, originario di Locri classe 1957, residente a Caselle Torinese. I due vengono più volte intercettati, al telefono parlano come chi si conosce da tempo: "Bisogna proprio dire che i vecchi amici si trovano sempre" dice Coral al presunto boss. Si danno appuntamento nel ristorante dell'albergo Verdina a Volpiano, proprietà del figlio di Coral, Claudio. È il 18 maggio del 2009, Nevio cerca voti per l'altro figlio Ivano, all'epoca candidato alla Provincia di Torino. Una cena tra amici, una riunione per spartirsi il territorio. Garantiscono voti nella zona di Leinì, Volpiano e Borgaro Torinese. In cambio Coral promette loro lavoro: "Quando le strade si fanno - dice intercettato dai Carabinieri - i lavori si fanno, gli appalti vanno avanti... e innanzitutto prendiamo uno, lo mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel consiglio, l'altro lo mettiamo in una proloco...". Ivano Coral, già sindaco, verrà da lì a poco eletto anche consigliere provinciale.

'Ndrangheta a Ponente. Biglietti da visita di alcuni esponenti politici locali, carte su misteriosi giri d'affari Italia-Germania-Stati Uniti-Emirati Arabi, oltre ad alcune lettere di un padre ergastolano. Quello che nel giugno 2011 gli agenti della Dda trovarono a casa di Michele Ciricosta, boss del "locale" (come si chiamano le 'ndrine) di Ventimiglia della 'ndrangheta, sembrava un vero e proprio "arsenale" malavitoso. Non armi ma contatti, relazioni, numeri di telefono. Durante la perquisizione un particolare colpì più di tutti i Carabinieri: una scritta dietro un santino elettorale: "E' andata tutto bene", firmato Alessio Saso (Pdl). Consigliere regionale della Ligura eletto un anno prima con oltre 6330 preferenze. Secondo la Dda di Genova, mille di quei voti sarebbero arrivati proprio grazie alla "collaborazione" della 'ndrangheta e in particolare di Domenico Gangemi, professione verduriere, capo del "locale" di Genova. Per far arrivare le preferenze a Saso, mise in moto appunto la 'ndrina di Ventimiglia. Ossia Ciricosta. "Le intercettazioni del telefono di Gangemi - si legge nelle oltre 200 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Nadia Magrini - consentivano di registrare già nel mese di novembre 2009 le telefonate con il consigliere regionale. Il primo contatto telefonico tra l'amministratore locale e il 'capo bastonè avveniva il 28 novembre e lasciava chiaramente intendere una loro pregressa conoscenza". Dai tabulati telefonici emerge un rapporto stretto tra Gangemi e Saso. Si sentono più volte. Prima delle elezioni il consigliere regionale ha un unico obiettivo, rassicurare il suo interlocutore: "Io sono una persona seria... sono una persona che anche dopo ci si può contare... se uno mi chiede un lavoro, mi chiede un finanziamento... do anche quello... eh... io sono sempre rimasto in buoni rapporti con tutti". Non è solo su Genova che le mafie allungano i loro tentacoli in cerca di agganci politici. Secondo la relazione della Divisione distrettuale antimafia "a Ventimiglia, al confine con la Francia, esiste una "camera di controllo" della 'ndrangheta calabrese". Nel febbraio scorso, il Consiglio dei Ministri decideva per lo scioglimento del comune di confine. Infiltrazione mafiosa, l'accusa. Secondo le indagini si era trasformata in una roccaforte di quelle famiglie mafiose, 'ndrangheta in primis, che avevano trovato un comodo e redditizio rifugio per fare gli affari loro. Anche grazie alla politica. Ventimiglia non è sola però. Perché proprio un anno prima simile sorte era toccata a Bordighera. Dalle indagini svolte dai carabinieri del Comando Provinciale di Imperia erano emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi ed altri favori.

L'urna è Cosa Nostra. "È inutile che viene per cercare voti perché voti non ce n'è più per Raffaele... quello che ho fatto io quando lui è salito per la prima volta... e siccome io ho rischiato la vita e la galera per lui...". A parlare è il boss di Palagonia (Catania) Rosario Di Dio. Dall'altra parte del telefono c'è Salvo Politino, attuale direttore della Confesercenti etnea. Un suo amico. Il Raffaele di cui si fa riferimento, invece è - ritiene la Procura - Raffaele Lombardo, presidente dimissionario della Regione Sicilia, accusato insieme al fratello Angelo (deputato nazionale Mpa) di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato. L'oggetto della telefonata, secondo le ricostruzioni dei pm, sarebbero dei presunti favori elettorali fatti al governatore. "Le intercettazioni - si legge negli atti del pool di Catania - hanno dimostrato l'esistenza di rapporti diretti tra Di Dio Rosario, uomo d'onore ed esponente di primissimo piano dell'associazione criminale Santapaola, e Lombardo Raffaele". L'ex presidente si è sempre difeso, rimbalzando le accuse. Ha ammesso di aver incontrato mafiosi, presunti o acclarati, ma allo stesso tempo ha parlato di contatti fortuiti e occasionali, nati da conoscenze politiche. Attualmente sono due i fascicoli "paralleli" nati da stralci dell'inchiesta "Iblis" su Raffaele e Angelo Lombardo, con reati in qualche modo assimilabili: voto di scambio e reato elettorale aggravato dall'avere favorito l'associazione mafiosa. Per questo l'ipotesi accreditata, da fonti dell'accusa e della difesa, è che le due inchieste vengano riunite in un solo processo, ma questo, con molta probabilità, comporterà un allungamento dei tempi dell'udienza preliminare. La motivazione che ha portato ad aggiungere l'aggravante mafiosa è che "nel rione di Agrigento o di Catania si sarebbe esercitato un potere intimidatorio di massa, una sorta di voto di opinione mafioso, non rivolgendo la richiesta di voto a tizio o a caio, ma un clima di intimidazione per cui si sapeva che si sarebbe dovuto votare Lombardo, e nessuno avrebbe fiatato". Nei giorni scorsi è iniziata l'udienza preliminare davanti al Gip di Catania, Marina Rizza, sulla richiesta di rinvio a giudizio coattiva dell'ex governatore Lombardo.

La Procura di Catania ha depositato i verbali con le dichiarazioni dell'ex assessore regionale Marco Venturi e di un nuovo collaboratore di giustizia, Giuseppe Mirabile. Nel suo verbale, Venturi ricostruirebbe le "anomalie nelle convocazioni delle riunioni di Giunta" nella stesura dei verbali e quello che definisce il "sistema clientelare" di Raffaele Lombardo.

Dai voti facili ai business milionari. "Così la regione si è venduta ai clan". Nelle carte dell'inchiesta su Zambetti il patto stato-mafia-politica-affari. Intercettato il boss Eugenio Costantino confida "I sindaci qui sono tutti amici nostri...tutti di destra! Non ce n'è uno che non abbiamo aiutato a vincere". Uno è Eugenio Costantino, e cioè "l'elegantone", il faccendiere legato ai clan, quello che con le sue leggerezze ha distrutto l'assessore regionale Mimmo Zambetti e azzerato la giunta di Roberto Formigoni. L'altro si chiama Vincenzo Evolo, taglia extralarge, mani come pale, ritenuto il soldato del recupero crediti, il "cattivo". È il marzo del 2011, Ilda Boccassini è diventata il procuratore aggiunto antimafia, insieme con Giuseppe Pignatone Lombardia, Roma e Calabria, ha arrestato centinaia di persone, tra cui medici, magi-strati, politici, è la zona grigia che per la prima volta comincia a venire stanata. Da dove spunta un assessore che a sessant'anni paga 200 mila euro per i voti della 'ndrangheta? E dove ha preso quei contanti? I carabinieri del comando provinciale di Milano e il pubblico ministero Paolo D'Amico si sono mossi nel totale segreto per non dare scampo agli indagati. Sono stati sequestrati solo ieri i computer di Enrica Papetti, la segretaria fidatissima di Zambetti per sedici anni.

Il faccendiere della 'ndrangheta la descrive così: "Fa tutto lei, tutti gli imbrogli (...) quella è proprio complice in tutto ". Un dettaglio inedito arriva persino dalla Milano da bere. Erano gli anni '80, Pepè Onorato e Mimmo Teti erano i boss "dei calabresi" (allora si diceva semplicemente così), e un brigadiere fa un controllo in un night. Identifica i clienti: spuntano Teti e il futuro assessore Zambetti. L'avvocato dice che Zambetti è stato in fondo un po' superficiale, ma anche nel maggio 2009 rispunta il nome dell'assessore. Lo fanno due calabresi finiti travolti da altre indagini: "Vedi se organizzi una quindicina di giovanotti che andiamo a Cinisello e ci prendiamo un aperitivo che c'è Zambetti (...) roba di elezioni, ma non devono votare niente, andiamo solo lì per presenza, passo con il pullman e li prendo". La campagna elettorale della 'ndrangheta ha però sempre e solo uno scopo primario: "Zambetti ce l'abbiamo in pugno, gli facciamo un culo così". Zambetti si mette a disposizione con favori che fa e appalti che promette. E così diventa più che legittimo domandarsi: da quanto tempo "lavorano" come portavoti questi clan che si muovono alla grande tra Nord e Sud? Eugenio Costantino parla con suo padre del boss Pino D'Agostino, e gli dice, papale papale: "Con Scopelliti in Calabria, hai visto come ha fatto? Sono andati là, li hanno pagati, ed hanno comprato i voti. Se non paghi i voti non vinci!.. Pure Pino è stato due mesi l'anno scorso con la pol...", cioè con la politica, per Giuseppe Scopelliti, pdl. È lo stesso Scopelliti che ieri parlava a favore del sindaco di Reggio Calabria, comune "chiuso" per 'ndrangheta. Più le si leggono, più le si ascoltano, queste clamorose, anzi spaventose intercettazioni diciamo di ultima generazione, più emerge al Nord un salto di mentalità. Tanto da parte della 'ndrangheta, più moderna, anche se ancoratissima alle tradizioni. Tanto - attenzione - da parte degli imprenditori. Ne devono ascoltare presto sessanta, e di questi, la metà non ha radici al sud. Eppure, hanno pagato e pagano i boss per varie ragioni e non li hanno mai denunciato. Mai. Solo per paura? C'è infatti da riconsiderare grazie al lavoro svolto in strada il concetto sin qui noto di infiltrazione. Esempio perfetto è la vicenda dell'ultimo arrestato, il ristoratore cremonese Valentino Gisana.

Gisana subisce un tentativo di estorsione, va dalla polizia e fa una denuncia generica, ma consegna a uomini della 'ndrangheta il telefonino dei ricattatori. E così tra il gigantesco Vincenzo Evolo e gli altri gangster ci si annusa, ci si capisce e Gisana non deve più pagare l'esoso pizzo. Ma "qualche cosa bisogna pagare, il tempo che hanno perso", gli dicono in sintesi. E Gisana paga. Poi gli impongono di assumere un cameriere, e ok, assunto. A quel punto Gisana, che vanta un credito nei confronti di un debitore che però non si fa trovare, domanda agli "amici" calabresi se lo aiutano loro. E così la "macchina da guerra" del clan si muove, ma Gisana alla fine si sfoga con un amico: "Troppa gente che mi pressa, adesso quelli lì (e cioè i ricattatori) non mi hanno rotto più i coglioni, ma adesso io ho paura che (i "calabresi") mi mettono sotto (...) lo "Zio" mi manda gli altri, cambiami l'assegno, cambiami l'assegno (...) per me è una storia infinita". È, nel suo orrore, una frase bellissima. Una frase-chiave. La giriamo a un vecchio maresciallo che spiega: "Questi cominciano perché uno gli dà fastidio, chiedono aiuto, funziona, poi hanno bisogno di prestiti, o di recuperare i crediti, e quando i boss li mettono sotto, che cosa devono fare? Vengono qui a raccontarci che hanno cominciato loro questa catena?". Più di tante sociologie, vale dunque quest'indagine: sono gli imprenditori del Nord che adesso vanno a cercare i boss di riferimento? Sia gli imprenditori sia i politici diventano però presto come "un pacchetto", che viene passato da mano mafiosa a mano mafiosa, tanto non si può ribellare nessuno: "Hai visto quel "pisciaturu" di Zambetti come ha pagato. Ehh, lo facevamo saltare in aria. Si è messo a piangere, ohh, davanti a me a zio Pino". Il 5 maggio del 2011, l'"elegantone " fa a bordo della sua Bmw imbottita di microfoni come un'emittente radiofonica una specie di piccola mappa: "Magenta, Sedriano, Vittuone, Corbetta, anche che noi qui, dato che diamo una mano a tutti nella politica, allora conosciamo tutti. I sindaci qua sono tutti amici nostri... tutti di destra! I sindaci di questi paesi non ce ne è uno che non conosciamo, in qualche modo l'abbiamo aiutato noi a vincere ", dice Costantino. Come ottengono questi voti i boss? Perché nell'ordinanza viene usato l'aggettivo "coercitivo"? "Una volta - spiegano in via Moscova - votavi come ti diceva il boss perché ti faceva paura, ora lo voti perché dice: "Ci guadagniamo tutti". La coercizione sta nel fatto che chi vota sa perfettamente che chi chiede è legato alla mafia calabrese". In effetti, nelle intercettazioni del chirurgo Marco Scalambra, arrestato, si sente citare spesso la "lobby dei calabresi". Lobby? sono clan, ma l'unico voto a forza di mazzate viene estorto a due truffatori. Hanno "zanzato" il calabrese sbagliato, e finiscono per cedere soldi e diamanti dopo con un sequestro di persona. Si salvano, ma "Vi diremo per chi votare". Ecco perché la procura antimafia dichiara apertis verbis che in Lombardia oggi abbiamo "il prodotto di un perfetto ed autorevole coordinamento di un'unica struttura organizzata, insediatasi, ed ormai radicatasi, anche nella provincia di Milano". Più chiaro di così, ed è proprio il caso di dirlo, si muore.

Ammazzati.

Tra fiumi di denaro e politici "cavallucci", il sistema Camorra per controllare il voto. "I candidati sono come cavalli, persone su cui puntare per farli arrivare al Comune, alla Provincia, al Parlamento, al Senato, al Governo" Il racconto di Maurizio Prestieri, il boss di Secondigliano che ha deciso di collaborare con la giustizia e da allora vive sotto protezione. Pubblichiamo un articolo di Roberto Saviano sul voto di scambio uscito su Repubblica nel febbraio del 2011. Più la gente si allontana dalla politica, più sente che sono tutti uguali e tutti incapaci più noi riusciamo a comprare voti. E noi puntavamo sul rinnovamento degli amministratori locali.

Abbiamo fatto eleggere quello che all'epoca fu il più giovane sindaco italiano: Alfredo Cicala sindaco di Melito. Uscirono mille articoli su di lui, il giovane sindaco della Margherita, dicevano. Ma era un uomo nostro". È l'ultimo colloquio con Maurizio Prestieri, il boss di Secondigliano che ha deciso di collaborare con la giustizia e da allora vive sotto protezione. E la storia che racconta, quella del sindaco di Melito, è una storia tragicamente comune in Campania.

Cicala, dopo il trionfo e qualche anno in carica, finisce in carcere, arrestato per associazione a delinquere di stampo camorristico: gli vengono sequestrati beni per 90 milioni di euro. Una somma enorme per un sindaco di un paeso, impensabile poter guadagnare in breve tempo una cifra così grande e impensabile poter essere proprietario di interi agglomerati condominiali del suo territorio senza che dietro ci fossero i capitali dei clan. In questo caso sono i soldi del narcotraffico dei Di Lauro-Prestieri. Ma Cicala non è uno qualunque: prima dell'arresto fa due carriere parallele, in politica e nel clan. Diventa membro del direttivo provinciale della Margherita e secondo le indagini riesce ad influenzare anche l'elezione successiva della giunta Di Gennaro, poi sciolta per infiltrazione mafiosa. Chiamato dai camorristi "ò sindaco" è l'unico politico a poter presenziare alle riunioni dei boss. Naturalmente partecipa a diverse manifestazioni per la legalità contro la camorra e i camorristi (soprattutto contro le famiglie nemiche del suo clan).

Insomma: la personalità perfetta per coprire affari e governare un territorio. L'inchiesta "Nemesi" della Dda di Napoli che indaga sul sistema elettorale a Melito descrive il clima del territorio come "la Chicago degli anni '30". Cicala diventa il candidato dei clan per sconfiggere Bernardino Tuccillo, candidato sindaco da un altro pezzo del centrosinistra. Tuccillo è stimato, ascoltato, risoluto, è stato sindaco e la camorra cerca di boicottarlo in tutti i modi. Ha i mezzi per farlo. "Alcuni candidati - ha raccontato Tuccillo - venivano da me piangendo, supplicandomi di stracciare i moduli con l'accettazione delle loro candidature. Altri, pallidi e impauriti, mi comunicavano che avevano dovuto far candidare le proprie mogli nello schieramento avversario". Una mattina trovò i manifesti a lutto che annunciavano la sua scomparsa affissi per tutta la città di Melito. Capì che era l'ultimo avviso. Come molti altri amministratori per bene campani Tuccillo fu lasciato solo dalla politica nazionale.

Ora nel Pd locale ci sono molti membri che sostennero e collaborarono con Alfredo Cicala. Prestieri conosce bene la politica campana. "Per i politici durante la campagna elettorale la camorra diventa roba onesta, come un'istituzione senza la quale non puoi fare niente. Io mi ero fatto uno studio. Uno studio elegante, avevo comperato antiquariato costoso, pezzi antichi d'archeologia, quadri importanti in gallerie dove andavano tutti i grandi manager italiani per arredare le loro case. E la tappezzeria l'avevo fatta con le stoffe comprate dai decoratori che stavano tappezzando il teatro La Fenice di Venezia. In questo studio ricevevo le persone. Davo consigli, mi prendevo i nomi per le assunzioni da far fare ai nostri politici. Raccoglievo le lamentele delle persone. Se avevi un problema lo risolvevi nel mio studio, non certo andando dai sindacati, dagli inesistenti sportelli al Comune. Anche in questo la camorra è più efficiente. Ha una burocrazia dinamica". Maurizio Prestieri in realtà viveva sempre meno a Napoli sempre più tra la Slovenia, l'Ucraina e la Spagna. Ma non quando c'era il voto alle porte. Durante la campagna elettorale era necessaria la presenza del capo in zona. "Io provengo da una famiglia che votava Partito comunista, mio padre era un onestissimo lavoratore e quand'ero piccolo mi portava a tutte le manifestazioni, io mi ricordo i comizi di Berlinguer, le bandiere rosse, i pugni chiusi in cielo. Ma poi siamo diventati tutti berlusconiani, tutti. Il mio clan ha sempre appoggiato prima Forza Italia, e poi il Popolo delle Libertà. Non so com'è avvenuto il cambiamento, ma è stato naturale stare con chi vuole far fare i soldi e ti toglie tutti i problemi e le regole di mezzo". Prestieri sa esattamente come si porta avanti una campagna elettorale. Dalle mie parti i camorristi chiamano i politici "i cavallucci" : sono solo persone su cui puntare per farli arrivare al Comune, alla Provincia, al Parlamento, al Senato, al Governo. "Io una volta ho fatto anche il presidente di seggio, 11 anni fa. Noi facciamo campagna elettorale a seggi aperti, quando è vietato, non solo per convincere e comprare quelli che ancora non hanno votato, ma per farci vedere dalle persone che vanno a votare, come a dire: vi controlliamo. A volte facevamo circolare la voce che in alcuni seggi mettevamo le telecamere: era una fesseria, ma le persone si intimorivano e non si facevano comprare da altri politici o convincere da qualche discorso". La campagna elettorale è lunga ma i clan riescono a gestirla con l'intimidazione da una parte e il consenso ottenuto con un semplice scambio. "Io me li andavo a prendere uno per uno. Ho portato vecchiette inferme in braccio al seggio pur di farle votare. Nessuno l'aveva mai fatto. Garantivo che i seggi negli ospedali funzionassero, pagavamo la spesa alle famiglie povere, le bollette ai pensionati, la prima mesata di fitto per le giovani coppie. Dovevano tutti votare per noi e li compravamo con poco. Organizzavo le gite con i pulmini per andare a votare. I clan di Secondigliano pagano 50 euro a voto e spesso corrompendo il presidente di seggio capisci più o meno se qualche famiglia, dieci quindici persone, si è venduta a un altro. Facevamo sentire la gente importante con un panino e una bolletta pagati. Se la democrazia è far partecipare la gente, noi siamo la democrazia perché andiamo da tutti. Poi questi ci votano e noi facciamo i cazzi nostri. Appalti, piazze di spaccio, cemento, investimenti. Questo è il business". Oggi Prestieri è quasi disgustato quando parla di queste cose, sente di aver giocato con l'anima delle persone, ed è una cosa che ti sporca dentro. E per la politica italiana ha un disprezzo totale, come tutti i camorristi. Gli chiedo se aveva sempre e solo appoggiato i politici di una parte. Prestieri sorride: "Noi sì, a parte piccole eccezioni locali, come a Melito, ma la camorra si divide le zone e così si divide anche i politici. Ci scontravamo ogni volta con i Moccia che hanno sempre sostenuto il centrosinistra. Noi festeggiavamo alle elezioni politiche quando vinceva Berlusconi e loro festeggiavano alle comunali o regionali quando vincevano Bassolino e compagnia. Napoli città è sempre stata di sinistra, e a noi ci faceva pure comodo, tutti quelli di estrema sinistra che a piazza Bellini o davanti all'Orientale fumavano hascisc e erba, o si compravano coca ci finanziavano. Libertà, libertà contro il potere dicevano, contro il capitalismo e poi il fumo e la coca a tonnellate la compravano. Quindi quelli votavano pure a sinistra ma poi i loro soldi noi li usavamo per sostenere i nostri candidati del centrodestra". Gli chiedo se ha mai incontrato politici di centrosinistra. "No, mai ma sono certo che il clan Moccia assieme ai Licciardi appoggia il centrosinistra, perché erano nostri rivali e quindi ne parlavamo continuamente tra noi e anche con loro della spartizione dei politici. Noi ce la prendevamo con loro quando vinceva la sinistra, perché significava che per loro erano più affari, più appalti, più soldi, meno controllo". E politici di centrodestra, mai incontrati? "Sì certo, io sono stato per anni e anni un attivista di Forza Italia e poi del Pdl. Ho incontrato una delle personalità più importanti del Partito delle Libertà in Campania. Non posso fare il nome perché c'è il segreto istruttorio, ma mi ricordo che nel marzo del 2001, pochi mesi prima delle elezioni, questa persona, seguita da una marea di gente, si fermò in Piazza della Libertà sotto casa mia. Ero affacciato al balcone, godendomi lo spettacolo della folla che lo seguiva (tutta opera nostra che avevamo spinto la gente ad acclamarlo), e questo politico, incurante perfino delle forze dell'ordine che lo scortavano, incominciò a salutarmi lanciando baci a scena aperta. Scesi e andai a salutarlo, ci abbracciammo e baciammo come parenti, mentre la folla acclamava questa scena. Questa cosa mi piaceva perché non si vergognava di venire sotto la casa di un boss a chiedere voti e mi considerava un uomo di potere con cui dover parlare. Sapeva benissimo chi ero e cosa facevo. Ero stato già in galera avevo avuto due fratelli uccisi in una strage. Era nel mio quartiere, chiunque fosse di Napoli sapeva con chi aveva a che fare quando aveva a che fare con me. Nel mio studio, invece, venne in quel periodo un noto ginecologo, una delle star della fecondazione artificiale in Italia. Quando si voleva candidare a sindaco venne ad offrirmi 150 milioni di lire in cambio di sostegno. Non potetti accettare poiché il clan già aveva già scelto un altro cavallo". I politici sanno come ricambiare. Le strategie dipendono da che grado di coinvolgimento c'è con il clan. Se si è una diretta emanazione, non ci sarà appalto che non sarà dato ad imprese amiche. Se il clan invece ha dato solo un "appoggio esterno", il politico ricambierà con assessori in posti chiave. Poi ci sono i politici che devono mantenere le distanze e quindi si limitano ad evitare il contrasto, a costruire zone franche o a generare eterni cantieri per foraggiare il clan e dargli il contentino. "Io mi sono sempre sentito amico della politica napoletana del centrodestra. Per più di dieci anni ho avuto persino il permesso dei disabili avuto perché ero un sostenitore attivo del Pdl. In gergo di camorra quel pass noi lo chiamiamo il mongoloide. Con quello parcheggiavo dove volevo, quando c'erano le domeniche ecologiche giravo per tutta Napoli deserta. Bellissimo". Padrone della coca, padrone della politica negli enti locali, il clan Di Lauro - Prestieri diventa sempre più ricco, trova nuovi ambiti di investimento: dalla Cina dove entra nel mercato del falso agli investimenti nella finanza. C'era il problema di gestire i soldi, riciclarli, investirli. "Enzo, uno dei figli di Paolo Di Lauro col computer ci sapeva fare e spostava in un attimo soldi da una parte all'altra. E mi stupii una volta che c'era una nostra riunione, loro parlarono di acquistare un pacchetto di azioni della Microsoft. Loro avevano un uomo in Svizzera, Pietro Virgilio, che gli faceva da collettore con le banche. Senza banche svizzere noi non saremmo esistiti". Ma in realtà è proprio l'ascesa la causa della caduta. Tutto sembra mutare quando arriva l'attenzione nazionale su di loro, e arriva perché il clan ormai viaggia sempre di più, tra la Svizzera, la Spagna, l'Ucraina e Di Lauro affida tutto ai figli. Questi tolgono autonomia ai dirigenti, ai capizona, che il padre considerava come liberi imprenditori. I figli gli tolgono capitali e decisioni e li mettono a stipendio. Si scindono. E scoppia una guerra feroce, un massacro in cui ci sono anche quattro morti al giorno. "Io lo dico sempre: non dovevamo essere Vip, ma Vipl". Vipl? Chiedo. E cioè? "Si laL sta per Local". Very Important Person, Local! L'importante è essere importanti solo nel recinto. "Il danno più grave che avete fatto scrivendo dei camorristi è che gli avete dato troppa luce. Questoè stato il guaio. Se sei un Vipl a Scampia puoi sparare, vendere cocaina, mettere paura, avere il bar fico di tua proprietà, le femmine che ti guardano perché metti paura: insomma sei uno efficiente. Ma se mi metti sotto la luce di tutt'Italia il rischio è che la notorietà nazionale mi incrina quella locale, perché per l'Italia risulto un criminale e basta. L'attenzione mi sputtana, dice che sono uno violento uno che fa affari sporchi e costringono pure magistrati e poliziotti ad agire velocemente, e non ci sono più mazzette che ti difendono". Prestieri ha deciso di collaborare, però non parla di sé come di un pentito, ma come di un soldato che ha tradito il suo esercito. "No, non sono un pentito, sarebbe troppo facile cancellare così quello che ho fatto, oggi sono solo una divisa sporca della camorra". Ma il peso di quello che ha fatto lo sente. "Le morti innocenti che faceva il mio gruppo mi sono rimaste dentro. Soprattutto una. C'era un ragazzo che dava fastidio a dei nostri imprenditori, gli imponeva assunzioni, gli rubava il cemento. Dovevamo ucciderlo ma non sapevamo il nome. Solo dove abitava. Così uno che conosceva la sua faccia si apposta sotto casa con due killer. Doveva stringere la mano alla vittima: quello era il segnale. Passa un'ora niente, passano due niente, esce poi un ragazzo, prende e stringe la mano al nostro uomo, al che i killer sparano subito ma questo urla "nunnn'è iss, nunn'è iss, non è lui!!" Inutile. Non solo è morto, ma poi tutti hanno detto che quel ragazzo era un camorrista, perché la camorra non sbaglia mai. Solo noi sapevamo che non c'entrava nulla. Noi e la madre che si sgolava a ripetere che suo figlio era innocente. Nessuno a Napoli le ha mai creduto. Io moralmente mi impegnerò nei prossimi mesi a fare giustizia di questo ragazzo, nei processi". Chiunque entra in un'organizzazione criminale sa il suo destino. Carcere e morte. Ma Prestieri odia il carcere. Non è un boss abituato a vivere in un tugurio da latitante, sempre nascosto, sempre blindato. È abituato alla bella vita. E probabilmente anche questo lo spinge a collaborare con la giustizia. "Il carcere è durissimo. In Italia soprattutto. Noi tutti speravamo di essere detenuti in Spagna. Lì una volta al mese, se ti comporti bene, puoi stare con una donna, poi ci sono palestre, attività nel carcere. Se mi dici dieci anni in Spagna o cinque a Poggioreale, ti dico dieci in Spagna". Così come il carcere di Santa Maria Capua Veterea Caserta l'hanno costruito le imprese dei casalesi anche il carcere di Secondigliano l'hanno costruito le imprese dei clan di Secondigliano. "Ce lo fecero visitare prima che il cantiere fosse consegnato. E ci scherzavamo. O' cinese qui finisci tu. O' Sicco su questa cella c'è già il tuo nome.

Visitammo il carcere dove ognuno di noi poi sarebbe finito. Ho fatto più di dieci anni di galera, e mai un giorno mi sono fatto il letto.

Quando sei un capo della mafia italiana in qualsiasi carcere ti mandano, c'è sempre qualcuno che ti rifà il letto, ti cucina, ti fa le unghie e la barba. In carcere quando non sei nessuno è dura. Ma alla fine tutti stiamo male in galera e tutti abbiamo paura. Io ho visto con i miei occhi Vallanzasca, che era un mito giusto perché al nord uomini mafiosi non li conoscono, quasi baciare le mani alle guardie.

Poverino, faceva una vita di merda totale in galera, era totalmente succube delle guardie. E io mi dicevo, questo è il mitico Vallanzasca di cui tutti avevano paura? Che si mette sull'attenti e mani dietro la schiena appena passa un secondino? Dopo dieci anni di galera in verità sei un agnellino, tutti tremiamo se sentiamo che stanno venendo i GOM, (gruppi operativi mobili) che quando qualcosa non va in carcere arrivano a mazziare". Faccio l'ultima domanda, ed è la solita domanda che nei talk show pongono agli ex criminali. Ridendo faccio il verso "Cosa direbbe ad un ragazzino che vuole diventare camorrista?" Prestieri ride anche lui ma in maniera amara. "Io non posso insegnare niente a nessuno. Sono tanti i motivi per cui uno diventa camorrista, e tra questi la miseria spesso è solo un alibi. Ho la mia vita, la mia tragedia, i miei disastri, la mia famiglia da difendere, le mie colpe da scontare. Sono felice solo di una cosa, che i miei figli sono universitari, lontani da questo mondo, persone perbene. L'unica cosa pulita della mia vita".

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

Dici Calabria o Sicilia o Campania, pensi a tutto il Sud Italia.

Nei libri scritti da Antonio Giangrande, “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE”, “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE, CENSURA ED OMERTA’” ed “ITALIA RAZZISTA”, un capitolo è dedicato all’Antimafia razzista e censoria.

Su questo tema Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti del razzismo palese o latente contro il popolo dell’Italia meridionale si è soffermato prendendo spunto dai fatti di attualità.

Quando i posti di chi ha ragione sono tutti occupati……..e gli occupanti parlano, anche il Papa si fa abbindolare………

Gli ‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare alla messa della domenica, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco proprio in Calabria ("Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati"), in tanti hanno protestato con il cappellano del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni. A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che ha varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che protestano e officiare una messa speciale per loro.  "Ma per favore non parlare di rivolta... - s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it - qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo più... Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a confermare la vicenda: «la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino - ha spiegato durante un intervento alla radio Vaticana - si è messa in protesta con questa frase: “Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ultimo questa mattina ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici». La direttrice del carcere Rosa Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. «Ma chi ha usato il termine rivolta? Quale rivolta... E’ falso. Oggi in carcere è un giorno tranquillo come gli altri». E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari. "Interverremo con provvedimenti energici", assicura il vescovo.

Il razzismo è latente: dici Calabria, pensi al Sud Italia.

RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA. Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così: questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi, gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra, in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale (commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia) vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No, i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo. Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan, visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini. L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto. L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro. Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.

SINONIMI E CONTRARI: 'NDRANGHETISTA E' UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA. "Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da Expo. C'è una situazione che deve essere controllata meglio". È questo l'allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata dall'organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata "con una certa urgenza - ha chiarito Dalla Chiesa - e che riporta i segni di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato". Fin qui tutto nella norma potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la presenza di forze mafiose nei cantiere dell'Expo. Nulla da dire se non fosse che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati alla 'ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su “Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi non agli 'ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno, e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il concetto all'interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese viene utilizzato come sinonimo di 'ndranghetista. Nel testo si fa infatti riferimento alla presenza di "padroncini calabresi nello svolgimento di lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro residenza" o ancora a come l'impresa Perego avesse il compito di mantenere "150 famiglie calabresi". Insomma basta con questo stupido buon senso e addio al non far di tutta l'erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur esser trovato e qual miglior posto della Calabria per dar frutto ad una simil ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e cattivi. Calabrese è uguale a 'ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime di un razzismo sempre più manifesto. 

Il delegato di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico, stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini. Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.

Da diversi mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale, bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor, considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del nostro geographical handicap ”.

QUANDO L'ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= 'NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO DALLA CHIESA. Carissimo dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente "Giovani Per il Futuro"), curiosando sulla prima pagina de "Il Garantista",non ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate nell'articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di Sociologia della Criminalità organizzata presso l'Università degli Studi di Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto dell'argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla è uno studente di Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano, REGGINO CALABRESE INCAZZATO. "Del resto chi è nato e cresciuto da quelle parti, qualcosa da nascondere ce l'ha sempre, al limite qualche parentela o amicizia sospetta." Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a 'ndranghetista. Che per noi non v'è alcuna speranza. Lei questa la chiama realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più una vita normale; ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha offeso tutti i morti "ammazzati", i nostri veri eroi. La sua grande conoscenza dell'argomento l'ha portata ad una conclusione ignorante. Non si diventa simboli dell'antimafia sparando a zero o facendo di tutta l'erba un fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro, interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi, ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza, nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati. Eppure la demagogia e l'ipocrisia non si spegne.

La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.

Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.

“Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.

«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.

Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.

«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».

Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?

«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».

Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?

«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».

Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?

«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».

Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?

«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».

Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. 

«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».

Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?

«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. Il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

Lo scandalo del giorno, un inchino inventato, scrive Giovanni Alvaro. Eccoli di nuovo all’attacco. Schierati come un sol uomo, sorretti da un unico obiettivo, determinati, senza alcuna soluzione di continuità e pronti a massacrare senza possibilità di appello. Dalle Alpi alle Piramidi si ode, quindi, un solo grido: giustiziamo sulla pubblica piazza il sacerdote della chiesa di Oppido Mamertina, responsabile della processione e del cerimoniale che ne consegue. Uniti in una santa alleanza si ritrovano, quindi, mass media nazionali, scritti e parlati (salvo qualche eccezione), a cui non sembra vero poter denigrare un pezzo di Calabria, una sua provincia e la stessa intera regione presentati come perduti nelle spire ‘ndranghitiste; professionisti dell’antimafia pronti a cavalcare il conseguente giustizialismo che è la loro stessa ragion d’essere, ma che stanno con l’occhio attento ai propri interessi economici e politici. Oltre a pubblici ministeri votati a missioni salvifiche, interessati a non perdere la centralità mediatica conquistata (trampolino di lancio per futuri incarichi). E poi, con loro, alleati occasionali: gli stessi carabinieri che si accorgono dopo trent’anni di ipotetici inchini. Dulcis in fundo, politici di mezza tacca pronti a dire la propria. Nessuno di costoro si è chiesto se fosse vero o meno quanto rimbalzato sulle agenzie di stampa. Anzi, per la verità, molti di costoro non si son posti alcuna domanda, dato che per loro è essenziale essere presenti al debutto di un avvenimento, infischiandosene di come potrebbe andare a finire. E allora, avanti con la mazurka. Alfano: “Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi”; Rosy Bindi: “Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta”; Enzo Ciconte: “Il gesto dell’inchino è stato un atto di sfida, di forza e tracotanza”; Cafiero de Raho: “Fermare un corteo religioso per ossequiare il vertice della cosca locale è sovvertire le regole sociali, religiose e di legalità”; Nicola Gratteri: “Ora la ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa”. È solo un assaggio delle dichiarazioni demenziali sentite in questi giorni. Demenziali perché costruite su un falso, un vero e proprio falso, se è vero come è vero che la processione a Oppido prevede, da molti decenni, cinque fermate a incroci prestabiliti per far girare l’immagine della Madonna verso quella parte di paese dove non è previsto il passaggio della processione stessa. Vuole il caso che in una di queste traverse (non dinanzi all’abitazione dove da dieci anni il mafioso sconta per motivi di salute, gli arresti domiciliari, ma nella traversa incrociata) abiti l’82enne ergastolano. Inchino al boss, in vergognosa sottomissione al malavitoso? Chi ha spinto per montare il casus belli che ha riacceso la polemica della procura reggina contro la Chiesa? Chi ha tirato le fila riattizzando il razzismo ormai non più latente, del Nord nei confronti del Mezzogiorno? Dalle risposte a queste domande si potrà capire quanto strumentale possa essere l’antimafia da convegno e come essa venga usata per fini diversi dalla lotta al crimine. “Non riescono a battere la mafia e se la prendono con la Chiesa” ha dichiarato l’Arcivescovo di Reggio in un’intervista a “Il Garantista” di Piero Sansonetti e ha continuato: “Chissà se un giorno si decideranno ad affrontare le cause vere del fenomeno ‘ndranghetista”. Di sicuro il non riuscire a battere la mafia nasce anche dalle “distrazioni” che i ruoli dell’antimafia offrono per sentirsi pienamente appagati. E la grancassa continua con l'applauso della ‘ndrangheta.

Guai però a schierarti contro il conformismo.

Cafiero De Raho contro i giornalisti del Garantista. Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho: «esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare.»

Così muore la democrazia. «Cafiero de Raho (procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ndr) è convinto di essere alla testa di un esercito di magistrati, politici, giornalisti, preti, professionisti e popolo, il cui compito è la lotta militare e poliziesca all’illegalità e alle cosche. Non è così. I magistrati devono indagare, i poliziotti arrestare, i preti predicare, i politici riformare la società, i giornalisti raccontare e anche esprimere pareri. Il giorno in cui i giornalisti dovessero diventare – e in gran parte, purtroppo, già lo sono diventati – soldati della Procura, in Italia sarebbe finita la democrazia. Forse la lotta alla mafia avrebbe dei buoni risultati – li ebbe anche durante il fascismo – ma noi perderemmo la libertà. Mi dispiace, signor procuratore, ma il prezzo è troppo alto. Preferiamo non arruolarci». Piero Sansonetti, Il Garantista, 17 luglio 2014.

«Caro procuratore De Raho, ho letto la sua dichiarazione. Faccio uno sforzo per capire le sue ragioni ma voglio anche porle alcuni problemi che lei non può ignorare. So qual è la sua bussola e il suo obiettivo: fare delle indagini, farle bene, ottenere dei risultati. Giusto. Però non è questa l’unica garanzia del funzionamento di una società moderna e democratica. Talvolta gli interessi degli inquirenti possono entrare in conflitto con altre spinte che sono essenziali a garantire un regime di libertà. Per esempio i diritti degli imputati, o delle persone sospette, o i diritti dei testimoni, oppure – questo oggi mi interessa, soprattutto – i diritti dell’informazione e della stampa. Quando il buon funzionamento dell’attività giudiziaria confligge con il diritto all’informazione, come si stabilisce il confine da non oltrepassare? E’ un buon tema di discussione, mi sembra, e mi piacerebbe affrontarlo con lei e con altri settori della magistratura. Non è stata mai fatta questa discussione, nel nostro Paese, perché la lotta senza quartiere tra magistratura, giornalismo e politica si è svolta solo sulla base delle convenienze di gruppi, lobby, partiti, schieramenti, e mai sui grandi principi e sulle idealità. Voglio essere ancora più chiaro, rivolgendole questa domanda: secondo lei, le esigenze degli inquirenti possono “sospendere” quel comma dell’articolo 21 della Costituzione che dice: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”? Caro Procuratore, secondo me voi, con i sequestri e le perquisizioni compiuti l’altra sera nella nostra redazione di Reggio, e con l’avviso di garanzia consegnato al nostro cronista giudiziario Consolato Minniti, avete violato quel comma della Costituzione. Sono convinto del fatto che non volevate compiere un’azione di intimidazione. E tuttavia, caro Procuratore, oggettivamente l’intimidazione c’è stata, noi l’abbiamo vissuta come tale e per noi, da oggi, sarà più difficile lavorare a Reggio. E’ un problema o no? E’ un vantaggio o no per la città? E anche per la magistratura reggina, questa “dimostrazione di potere”, questa prova di forza, giova? O invece danneggia la vostra immagine? Caro Procuratore, a me sembra enorme ipotizzare che la pubblicazione di notizie relative all’azione della DNA possa essere un atto di aiuto alla mafia. Ma scusi, come dobbiamo intendere la lotta alla mafia, come un atto militare, nel quale anche i giornalisti – sul modello della guerra in Iraq – devono essere embedded? Non credo che sia la sua opinione, ammetterà però che l’attacco dell’altra sera al nostro giornale abbia dato questa impressione. Lei dice: «Ma era un obbligo quell’azione, perché c’era stato il reato». Sarà anche vero, ma io so che lo stesso reato è stato commesso negli ultimi anni centinaia di volte da altri giornali. Perché non si è mai intervenuti? Ci sono quotidiani che, se non violassero il segreto istruttorio, sarebbero costretti ad uscire massimo un giorno alla settimana! Lei questo lo sa. E allora: siamo uguali tutti, davanti alla legge, o forse no? E lei capirà benissimo come il dubbio che il segreto si possa violare se si è testata molto amica dei giudici, e invece non si possa violare se – come nel nostro caso – si è spesso critici verso la magistratura, sia un sospetto del tutto legittimo.
Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio…
Con Stima. Piero Sansonetti».

Ed ancora......Gratteri contro i giornalisti del Garantista: «Bisogna stanarli, vi fanno ammazzare». Ma questo giornale non cambia linea, scrive Piero Sansonetti. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria – che è stato anche candidato a fare il ministro della Giustizia – l’altro giorno, partecipando a una pubblica manifestazione, ha lanciato un attacco furibondo contro i giornali calabresi che criticano la magistratura. Gratteri non ha fatto nomi, però noi siamo sicuri che ce l’avesse con “Il Garantista”, perché non esistono in Calabria molti giornali critici con la magistratura, e non ne esiste nessuno – tranne “Il Garantista” - critico con Gratteri. (La certezza che ce l’avesse con noi è venuta dopo una telefonata con lo stesso Gratteri che vi raccontiamo tra qualche riga). La frase pronunciata da Gratteri è agghiacciante, perché, nella sostanza, accusa i giornalisti critici verso la magistratura di essere assassini, o almeno istigatori all’assassinio. Per questo chiediamo l’intervento delle autorità, in particolare del ministero della Giustizia (oltre che della federazione della stampa e della stessa Procura di Reggio) a difesa dei giornalisti calabresi critici verso la magistratura e in particolare a difesa del nostro giornale. Ci domandiamo se si ritiene normale, in un regime di democrazia, che un procuratore aggiunto si scagli contro giornalisti e giornali e li accusi di istigazione all’omicidio, e se questo non possa essere considerato un atto illegale di attacco alla libertà di stampa e ai diritti costituzionali, oltreché una offesa e una diffamazione. Per essere più chiari, vi trascrivo qui il testo delle dichiarazioni rilasciate da Gratteri e poi vi riferisco della telefonata che ho avuto con lui ieri pomeriggio. Ha detto Gratteri, rivolto ai vertici della federazione della stampa: «Bisogna stanare certo giornalismo calabrese che sguazza negli interstizi che lasciate. Dovete essere severi, feroci. In Calabria vi sono giornali e giornalisti che, per partito preso, per motivi ideologici, sono sempre contro qualcuno, scrivono cose non vere, fanno disinformazione». Poi Gratteri si è riferito a coloro che attaccano la magistratura e ha detto: «Non li denuncio perché darei loro pubblicità. Ma il punto di partenza per tutelare i giornalisti come Albanese è stanare chi non ha a che fare col giornalismo. Vi sovrespongono, vi fanno ammazzare». Vi confesso che quando ho letto queste frasi ho pensato a un equivoco. E ho fatto la cosa più semplice, per verificare: ho preso il telefono e ho telefonato a Gratteri. Mi ha risposto. Quando ha sentito il mio nome è diventato gelido. Gli ho chiesto se ce l’aveva con noi. Mi ha risposto, sempre più gelido: «Stia tranquillo, io non ce l’ho con lei, io non ce l’ho con nessuno». Ho insistito, gli ho detto se allora per favore mi diceva con quali giornali ce l’aveva, visto che in Calabria non ci sono moltissimi giornali. Mi ha risposto: «Io con lei non parlo, dovrei denunciarla, querelarla, per le cose che lei ha scritto su di me. Non lo faccio per non farle pubblicità. Lei deve imparare che non si possono lanciare accuse senza avere le prove». Io gli ho fatto notare che non lo avevo mai accusato di niente, tranne che di essere poco esperto di diritto. Ma questa è una mia opinione e non bisogna avere le prove. Dopodichè, siccome era impossibile proseguire il dialogo, lo ho salutato e ho messo giù il telefono. Però la frase che mi ha detto è uguale a quella che ha pronunciato la sera prima in pubblico (dovrei denunciarla ma non le farò pubblicità…). Dunque, indirettamente – ma non tanto – Gratteri ha confermato che ce l’aveva con me e con noi del “Garantista”. E dunque anche il seguito della frase pronunciata in pubblico (fino al: «Vi fanno ammazzare!») era riferita a noi. Posso garantire ai lettori del “Garantista” che nonostante una intimidazione così pesante e smaccata da parte di una delle più alte autorità giudiziarie, il nostro giornale non cambierà linea rispetto alla magistratura. Continuerà a criticarla e anche – come sapete – a darle la parola, perché ci piace discutere e non ci piace dare dell’assassino a chi non è d’accordo con noi. Vorremmo sapere dal ministro Orlando se possiamo contare su qualche protezione da parte dello Stato democratico, o se dobbiamo pensare che questa battaglia per la democrazia ci tocca combatterla in assoluta solitudine.

Gli strali della stampa ossequiosa e conformista, nonostante, o forse proprio per l’oscuramento del loro sito web, non si sono fatto attendere. Di tutti se ne riporta uno. La posizione del direttore Luciano Regolo de “L’Ora della Calabria”. L’attacco di Sansonetti a Cafiero De Raho: opportunismo garantito? Angela Napoli: “Così si rischia di isolare i magistrati”. «Debbo confessare che non leggo e non ho mai aperto dalla sua fondazione il nuovo quotidiano di Sansonetti. Oggi, però, sollecitato dai colleghi e amici di Cosenza che stanno collaborando con me al progetto del nostro giornale, ho visto, inviatomi per e-mail, l’editoriale odierno del direttore de “Il Garantista”: un attacco duro al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. Che cosa avrebbe fatto il magistrato per meritarsi l’invettiva (copiosa) di Sansonetti? Ha semplicemente dichiarato, riguardo alla vicenda della processione con l’inchino al boss di Oppido Mamertina, che esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare. Tanto basta al direttore romano, andato via dalla Calabria scrivendo di esserne rimasto profondamente deluso, per poi tornare a stringervi intese editoriali dopo pochi mesi, per dedurne che Cafiero De Raho avesse voluto attaccare lui o il suo giornale. Troppo astuto lo scrivente perché si pensi a un’excusatio non petita (visto che il magistrato non nomina alcuna testata). Molto più verosimile l’ipotesi che Sansonetti cerchi di fare pubblicità al suo prodotto giocando il ruolo della voce controcorrente, l’intellettuale fuori le riga “de noantri”, come si direbbe nel suo (a)dorato e salottiero contesto capitolino. Ognuno, sia chiaro, può fare il “gioco” che vuole e soprattutto professare ogni opinione. Ma la libertà di pensiero non può esimere dal rispetto verso chi effettivamente conduce, con rischi pesanti e impegno costante, una durissima lotta contro la criminalità organizzata e le sue oscure aderenze nei poteri costituiti della Calabria. Screditare, Cafiero De Raho, ipotizzare che voglia una stampa prona a lui, come avviene in regimi dittatoriali, oltre che grottesco è a mio avviso estremamente pericoloso. Io ho visto soltanto una volta il procuratore, lo incontrai per pochi minuti nel tribunale di Reggio, quando fui ascoltato dalla Commissione Antimafia dopo l’oscuramento del sito e la sospensione delle pubblicazioni dell’Ora della Calabria. Ma ho imparato ad apprezzarne il rigore e il piglio, quando, poco dopo il mio arrivo, in un intervento sul nostro giornale a proposito del commissariamento dei Comuni sciolti per mafia spiegò che sarebbe necessario prolungarlo non soltanto durante le elezioni ma anche per un certo periodo successivo all’insediamento della nuova amministrazione perché solo così si potrebbe veramente spezzare l’influenza delle cosche. Poi ne ho ascoltato la relazione in occasione della “Gerbera Gialla” in cui illustrò in termini molto chiari in quanti e quali modi si estendano i tentacoli della ‘ndrangheta sul territorio calabrese, spesso favoriti da lobby oscure e infedeli di Stato. Non mi sembra affatto uno che fa crociate, che vuole schieramenti o che cerca ribalta mediatica, come lascia intendere Sansonetti. Il direttore de “Il Garantista” aggiunge che Cafiero De Raho sarebbe contro la Chiesa ma è un assurdo, perché le esternazioni di papa Francesco e del presidente della Conferenza episcopale calabrese (oggi riunita per parlare proprio di quello che l’Osservatore Romano dopo il caso di Oppido Mamertina ha definito “pervertimento religioso”), monsignor Salvatore Nunnari, vanno nella medesima direzione del magistrato. Bergoglio ha detto con estrema chiarezza a Scalfari che ci sono tanti sacerdoti che sottovalutano l’influenza della mafia e non si levano abbastanza e tutti lo abbiamo letto e sentito. Ma la superficialità è diffusa, a volte è ingenua, altre no. Può nascere da interessi precisi o dalla semplice vanagloria, oppure essere conseguenza della paura delle ritorsioni. Io credo che correttamente Cafiero De Raho abbia voluto semplicemente richiamare l’intera comunità calabrese, giornalisti e non, a non sottovalutare i mezzi (come le incursioni in pratiche religiose di lunga tradizione) con cui la ‘ndrangheta tende a legittimare la propria supremazia territoriale. Sottovalutare questo aspetto come ha scritto il procuratore significa sul serio favorirne l’azione, consapevolmente o meno. Io l’ho sostenuto più volte, ma non sono nella squadra dei magistrati come sostiene, non senza alterigia, Sansonetti. Né credo lo siano Pollichieni, Musolino, Inserra, tanti altri giornalisti calabresi che sono intervenuti sulla questione di Oppido Mamertina stigmatizzando quell’inaccettabile inchino. Fra questi anche il vicesegretario nazionale e segretario regionale della Federazione nazionale della Stampa, Carlo Parisi, che ha di recente, dopo i sospetti insorti anche sulla processione di San Procopio, ricordato con veemenza quanto siano assurdi gli attacchi ai colleghi che rivelano queste realtà scomode, miranti a farli passare come dei denigratori della Calabria o degli smaniosi di protagonismo. Anche il sindacato dei giornalisti, secondo Sansonetti, scrive sotto… dittatura della magistratura? Perché il direttore è convinto che solo lui sia immune da questa influenza, così com’era convinto quando lasciò l’Ora della Calabria di essere diventato immune dall’influenze delle famiglie potenti della nostra regione e lo annunciò nell’editoriale di congedo, sparando accuse contro il suo ex editore e amico conviviale, Piero Citrigno, che poi invece è andato a salutare prima di lanciare la sua nuova creatura “Il Garantista”. L’essere concentrati troppo su stessi, sulle proprie idee o sui propri business, a volte distrae da problemi molto seri in una regione come la Calabria. Mentre spiegavo alla Commissione Antimafia dei rapporti insoliti, non rientranti nelle consuete dinamiche delle aziende editoriali, tra Citrigno e De Rose, il nostro stampatore protagonista della telefonata del cinghiale, l’onorevole Dorina Bianchi mi domandò come mai il mio predecessore (Sansonetti, ndr) in tre anni di direzione non avesse ravvisato nulla d’insolito. Risposi che dovevano domandarlo a lui, perché non lo sapevo. Non so se gliel’abbiano mai domandato. Ma so che l’onorevole Bruno Bossio, grande estimatrice di Sansonetti, presentatasi all’audizione nonostante i duri attacchi che mi aveva rivolto (su Facebook e in una lettera inviatami al giornale, in cui cercava di farmi passare come uno che voleva ottenere da lei documenti giudiziari secretati), cercava per tutto il tempo di minimizzare la vicenda che riguarda noi dell’Ora, sostenendo che la sospensione delle pubblicazione fosse unicamente dovuta all’indisponibilità finanziaria dell’editore e non aveva alcuna relazione con il caso Gentile-De Rose. Questo nonostante ci fosse stato oscurato anche il sito, proprio il giorno in cui in un editoriale denunciavo la manovra di far finire la proprietà del giornale nelle mani di De Rose. Per la cronaca il legale di Bilotta, il nostro liquidatore, è quello stesso avvocato Celestino, che difese Adamo, il marito della Bruno Bossio nell’inchiesta “Why not”, e assiste anche i Citrigno: io lo conobbi nel suo studio, accompagnato lì da Alfredo Citrigno, pochi giorni dopo l’Oragate, quando lo stampatore che non aveva mai sollecitato i suoi pagamenti non riscossi, improvvisamente con una lettera che noi pubblicammo chiedeva tutto subito o avrebbe fatto fallire l’azienda. Forse la drammaticità di quanto i colleghi dell’Ora e io abbiamo vissuto e stiamo vivendo, potrebbe rendermi troppo emotivamente coinvolto. Per questo, riguardo all’attacco sferrato da Sansonetti contro De Raho, ho pensato di chiedere un parere ad Angela Napoli, ex presidente della Commissione Antimafia e tuttora impegnata in prima linea contro le influenze delle ‘ndrine. Ecco la sua valutazione: «Alcuni giorni fa evidenziavo sulla mia pagina Facebook lo stato di preoccupazione che sto vivendo alla luce sia di alcune sentenze giudiziarie sia di alcune cronache giornalistiche, a mio parere, eccessivamente garantiste e, sempre a mio parere, non utili a debellare il fenomeno mafioso ed i suoi collaterali. Oggi sono più che mai convinta che la preoccupazione ha ragione di permanere, ritenendo che sia in atto una “strategia” tendente ad isolare quei pezzi della Magistratura, delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni e della politica che realmente lavorano con coraggio non solo per reprimere la ‘ndrangheta ma anche per aiutare a sradicare quella sub-cultura mafiosa che per anni ha invaso alcuni cittadini calabresi. Ho parlato di “strategia” di isolamento: l’attacco al dottor Gratteri, apparso la scorsa settimana su “Il Garantista” e quello odierno al Procuratore Cafiero De Raho, sempre sullo stesso quotidiano, e che recano la firma del suo direttore responsabile, non possono che apparire, almeno ai miei occhi, ma sicuramente anche a quelli del comune lettore, proprio come tendenti a raggiungere l’obiettivo dell’isolamento. Sono convinta che tale obiettivo non verrà conseguito perché con piacere incomincio a registrare una voglia di riscatto nel cittadino calabrese. Questa voglia non potrà che portare alla rivolta nei confronti di tutti coloro che, dopo aver affossato, in supporto alla ‘ndrangheta, la nostra Calabria, oggi tentano ancora di mantenere a galla il “sistema malato” che sovrasta questa Regione. Ormai la stragrande maggioranza dei cittadini calabresi è in grado ed ha la volontà di saper distinguere il “bene” dal “male” e di saper anche quale “autobus” prendere per percorrere la strada della piena legalità».»

Piero Sansonetti: “l’Ora, fallimento di un’esperienza”. Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è stato approvato all’unanimità dall’assemblea ma all’editore non è piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi di trovare vie d’uscita, l’altra sera siamo arrivati alla decisione dell’editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore. Il motivo per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi. La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza di “Diritto nel lavoro” il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l’assenza del diritto sia un male più grande ancora della ’ndrangheta e della criminalità organizzata. Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E’ una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare: “è colpa sua, è colpa sua”. E’ semplice: se sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male. Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo. Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene voglio dirvi cosa credo di avere capito di questa regione. Di solito, se si parla della Calabria, si dice che il suo problema è l’illegalità. Io non ho mai creduto al valore della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un principio molto diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può essere ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta, vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice – e non è affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è il contrario della ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è un’altra cosa: il diritto – e i diritti – sono quei grandi valori della civiltà, in continua evoluzione, che si oppongono alla sopraffazione, al dominio, e tendono ad affermare l’uguaglianza delle donne e degli uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli interessi dell’economia e del potere. Il Diritto tende all’uguaglianza. Ed è il contrario del Potere. Quando si dice che il problema della Calabria è la legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord, secondo il quale la questione meridionale è una questione criminale. E così è facile trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più manette, un po’ di esercito e un po’ di razzismo sano e moderno, alimentato dalla buona stampa nazionale. Io invece penso che il problema all’ordine del giorno sia il Diritto, soprattutto il Diritto della Calabria nei confronti del Nord. E’ il Nord che da decenni viola i diritti fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto del popolo calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene chiamato il fenomeno dell’emigrazione – ma che io preferisco chiamare “la deportazione” – e cioè il trasferimento al Nord di milioni di calabresi, sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico lombardo, o piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di sopraffazione di massa compiuti sotto l’occhio benevolo della Repubblica italiana. E’ un delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure la sinistra, nel dopoguerra, si è mai fatta carico di questa gigantesca ingiustizia. Perché? Perché purtroppo, in Italia, anche la sinistra è settentrionale. La Calabria – nonostante grandi personaggi politici isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto una sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d’Italia. Nasce da qui, esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della Calabria, e in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe raccontare qualcosa di scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del Nord, compresa Susanna Camusso, il capo del sindacato che recentemente è scesa qui da noi e ha anche detto cose sagge, perché sicuramente è una persona seria. Cara Camusso, lo sai quanto paga la ’ndrangheta un picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto guadagna un coetaneo del picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un call center, o in campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come giornalista? E’ facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato. Camusso, pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la ’ndrangheta prospera? E pensi che aumentando il numero dei poliziotti e dei giudici – ottime e spesso eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso, conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né polemiche, però sento che sono domande drammatiche e penso che sia giusto porle. Quando sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la direzione di Calabria Ora, ho scritto un editoriale nel quale dicevo essenzialmente una cosa: qui manca la classe dirigente. La Calabria ha bisogno di una classe dirigente che sappia rappresentare il popolo, sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi finalmente la responsabilità dell’affermazione dei diritti. Dopo tre anni confermo quelle cose, con l’angoscia di chi sa di non essere riuscito a smuovere nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che la Calabria soffra dell’assenza delle classi sociali che hanno costruito l’Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c’è borghesia: c’è il padronato. E non c’è classe operaia: c’è un popolo sconfitto, sfregiato, deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla rassegnazione. Sì: il “padronato”, proprio con quell’accezione assolutamente negativa della parola che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il proprio borsellino come un Dio, e tratta gli esseri umani come cose, accidenti, strumenti, “rifiuti”. Già lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa parola: “rifiuti”. Per una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e anticlericale: viva il papa. Prima di tornarmene a Roma devo dire qualcosa sui giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio fisso. In realtà ho grande stima per quasi tutti gli investigatori calabresi, credo però che il compito di un giornale sia quello di mettere sempre sotto controllo e sotto accusa il potere. E io sono persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in Calabria – il potere dei magistrati sia – insieme al potere economico e padronale – di gran lunga il potere più forte. Per questo io considero il garantismo un valore assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della civiltà. Oggi il garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi sconfitto – dal dilagare, nell’opinione pubblica, di un feroce giustizialismo. Talvolta ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a un certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve ai deboli, perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che apprezzo la sua spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il male dei mali è lo Stato etico, che può essere solo autoritario e fondamentalista. Come fu lo stato fascista, come furono gli stati comunisti. Devo dire, onestamente, che lui – Cafiero – poi ha precisato meglio il suo parere, e che io ho apprezzato moltissimo la sua capacità di discutere – e ci siamo detti che avremmo proseguito la discussione in altra sede, e invece, con dispiacere, dovrò disdire l’appuntamento – ma in me resta questo grande timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere una missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della vita pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.

BAVAGLIO ALL'ORA Da Repubblica al Giornale, la notizia corre sul web. La denuncia dell'Ora della Calabria dopo il blocco della stampa. Il direttore Luciano Regolo: «Violate le regole della democrazia e del vivere civile»

«Ieri notte si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile. Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'Editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp. Di fronte alla mia insistenza, nella difesa del diritto di cronaca, ho minacciato all'Editore stesso le mie dimissioni qualora fossi stato costretto a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi. Mentre discutevamo di questo, in mia presenza e in viva voce, l'editore ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come "mediatore" della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti». Avendo io ribadito all'Editore che non intendevo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto, ci siamo salutati. Così De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative. E' evidente che si è trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio.»

«Mi è stato riferito da alcuni amici la presenza di articoli relativi a fatti e vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre immediatamente querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile rispetto alla quale sono totalmente estraneo».  Lo afferma il senatore Antonio Gentile, segretario dell'Ufficio di presidenza del Senato e coordinatore calabrese Ncd, a 24 ore di distanza dalla conferenza indetta dal direttore de L’Ora della Calabria, Luciano Regolo, durante la quale aveva annunciato presunte pressioni subite per evitare l’uscita di un articolo riferito al figlio del senatore, Andrea Gentile: fatto che è coinciso con la mancata andata in edicola del quotidiano. Sia l'editore che il tipografo del giornale avevano, però, subito smentito le presunte pressioni riferite da Regolo.

La censura subita ha fatto il giro dei siti internet. Galullo del Sole 24 Ore: «Un fatto senza precedenti». Il direttore Sallusti: «Ne ho viste tante, ma giuro, una così non mi era mai capitata». La notizia della censura subita dall’Ora della Calabria ha fatto il giro dei siti internet della stampa nazionale. Da Repubblica.it al Manifesto fino al Fatto Quotidiano, molte testate hanno ripercorso la vicenda. Il giornalista del Sole 24 Ore Roberto Galullo, che spesso si occupa di vicende calabresi, sul suo blog scrive: «Le cose che Regolo denuncia e le accuse che lancia per chi (come chi vi scrive) vive il giornalismo come una prima e non una seconda pelle, rappresenterebbero (se provate persino davanti ad un pm e ad un eventuale giudice come lo stesso Regolo auspica) la pietra tombale per quel che residua della libertà di stampa in Calabria (ma, ahimè, su per li rami nell’intera Italia). Attendiamo le repliche alla sua denuncia e alle sue accuse per darne doverosamente conto all’interno di questo stesso pezzo, nelle prossime ore. Come deve fare ogni cronista. Cognita causa – come direbbero i dotti, vale a dire sulla mia pellaccia, come dico io – da lunghi anni so cosa vuol dire sostenere il peso di una libertà di stampa piena e assoluta (ergo non piegata ad alcuni interesse se non quello del lettore) in terra calabrese. La morte fisica è l’ultimo dei problemi: basta il venticello subdolo della delegittimazione, che viaggia sulle solite correnti di potere e che, per i Giornalisti, equivale alla morte eterna». Ancora Galullo: «Ciò che negli ultimi anni, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, perfino nelle ultime ore, sta accadendo in Calabria alla libertà di informazione e alla libertà di stampa è senza precedenti». Invece il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti in prima pagina ha scritto un editoriale sulla vicenda. "Il senatore pupillo di Alfano fa bloccare l'uscita di un giornale". «Ne ho viste tante, ma giuro, una così non mi era mai capitata. Un senatore, capo regionale di un partito che dice di essere il futuro dei liberali italiani, insieme ad amici impedisce l'uscita di un quotidiano per evitare la diffusione di una notizia sgradita. Ottima scelta, Alfano. Ha messo il partito in buone mani. E dire che è anche ministro degli Interni, quello che deve liberare il Sud e arroganze».

Il senatore Antonio Gentile si dice totalmente all’oscuro della vicenda relativa alla mancata pubblicazione dell’edizione di due giorni fa dell’Ora della Calabria, Massimo Clausi su “Il Quotidiano Web”. A distanza di 48 ore l’esponente di punta del Ncd interviene minacciando querele. «Mi è stato riferito da alcuni amici - ha scritto ieri in una nota - la presenza di articoli relativi a fatti e vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre immediatamente querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento e senza alcun contraddittorio, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile rispetto alla quale sono totalmente estraneo».  Il senatore e coordinatore regionale del Nuovo centrodestra si riferisce alla denuncia pubblica del direttore dell’Ora, Luciano Regolo, che nei giorni scorsi ha detto di aver ricevuto dall'editore del quotidiano, Alfredo Citrigno, la richiesta di non pubblicare l'articolo che riferiva dell'indagine sul figlio dello stesso senatore, Andrea Gentile, nei confronti del quale sono ipotizzati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp di Cosenza. Una pressione che sarebbe stata svolta anche da Umberto De Rose, il tipografo che stampa il giornale. Circostanze però seccamente negate da entrambi. La storia ha avuto un clamore mediatico senza precedenti ed è arrivata anche sulle pagine di alcuni quotidiani nazionali. Inevitabile visto lo scontro in atto fra Forza Italia e Ncd, di cui lo stesso Gentile è esponente di spicco, al punto di essere in predicato di diventare Sottosegretario alla Giustizia. Ma è inevitabile soprattutto se si considera lo spessore politico della famiglia Gentile sulla provincia di Cosenza e sull’intera regione. A far finire nei guai l’avvocato Andrea Gentile è stato proprio il collega Nicola Gaetano. Nella richiesta, poi accolta dal gip, di interdittiva per il direttore generale dell’Asp, Gianfranco Scarpelli (avanzata dal procuratore aggiunto, Domenico Airoma, e dal sostituto Domenico Assumma) Gaetano al di là dell’enorme mole di consulenze ricevute, viene tratteggiato come una specie di direttore generale ombra dell’Asp. Addirittura in un passaggio le Fiamme Gialle che hanno condotto parte dell’inchiesta citano una mail con la quale Gaetano inoltra a Scarpelli la bozza di una risposta che il dg avrebbe dovuto inoltrare ai finanzieri a seguito di una specifica richiesta nell’ambito di un procedimento attualmente aperto dalla Dda di Catanzaro sulle vicende dell’Asp. In un secondo momento i carabinieri hanno acquisito una serie di atti e gli inquirenti hanno potuto notare come molte delibere di Scarpelli non erano altro che «la pedissequa ricezione delle “minute” predisposte dal Gaetano, limitandosi alla mera sottoscrizione». Ancora nella richiesta i due magistrati scrivono che Scarpelli procedeva all’affidamento di incarichi legali scegliendoli su base fiduciaria, «sovente su esplicite indicazioni del Gaetano Nicola». Fra questi avvocati c’è appunto Andrea Gentile. In particolare è la Guardia di Finanza in una informativa a citare una mail del 5 ottobre 2011 (ore 17,14) con la quale Nicola Gaetano inoltra al dg Scarpelli la bozza di una procura con la quale l’Asp avrebbe dovuto nominare Andrea Gentile proprio difensore di fiducia nell’ambito di un procedimento penale. Non si capisce bene di quanti incarichi abbia usufruito Gentile. Così come appare – dalle carte fino ad oggi note – molto defilato il suo ruolo nella vicenda. Non a caso la sua posizione è stata stralciata rispetto al filone d’inchiesta principale, forse per capire se e fino a che punto il giovane professionista fosse a conoscenza del meccanismo, contestato nelle ipotesi di accusa, di affidamento degli incarichi legali. I magistrati dipingono il rapporto tra Gaetano e Gentile come antico, consolidato anche da comuni interessi economici, professionali e politici. L’ultima circostanza, in realtà, non risulta visto che Gentile jr non ha intrapreso una carriera politica attiva preferendo concentrare le sue energie sullo studio. Vive a Roma dove, oltre a svolgere la professione di avvocato, è anche ricercatore in una prestigiosa università privata. E’ vero invece che questi ha mosso i suoi primi passi professionali proprio nello studio di Gaetano. La Guardia di Finanza, poi, in un’altra informativa, scrive che Gaetano e Gentile in diverse mail si definiscono “compari”. Ad onore del vero, questo gergo è tipico nel cosentino fra persone che hanno particolare confidenza. Vedremo nelle prossime settimane se l’impianto accusatorio reggerà. Nel frattempo c’è da registrare la posizione del consigliere regionale Mimmo Talarico che ieri ha chiesto le dimissioni dei Umberto De Rose da presidente di Fincalabra. «Già le contestazioni ricevute sull'utilizzo di fondi pubblici costituivano un elemento di conflitto con la carica posseduta - scrive Talarico - ora la misura è davvero colma, tanto più dopo le dichiarazioni rese dall’editore Citrigno».

Tonino Gentile: il senatore alfaniano che censura “L’Ora della Calabria”, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Il politico del Nuovo Centrodestra accusato di aver fatto pressioni all'editore del quotidiano locale per stoppare l'uscita di un articolo, dove si raccontava dell'indagine sul figlio Andrea. A denunciare tutto è stato il direttore del quotidiano locale, Luciano Regolo. Articolo sgradito? Nella Calabria delle “amicizie” e dei favori tra politica ed editoria, al senatore alfaniano Tonino Gentile può bastare mettersi in contatto con l’editore per bloccare la sua pubblicazione. E se il direttore del giornale si oppone, non sembrano esserci problemi. Con tanto di “improvviso” guasto delle rotative: in pratica, il giornale non si stampa. Non siamo né in Eritrea, né in Turkmenistan o nella Corea del Nord, agli ultimi posti nella classifica per la libertà di stampa.  Succede in Italia. A denunciare pressioni e censura è stato Luciano Regolo, direttore del piccolo quotidiano “L’Ora della Calabria”, (già “Calabria Ora” e in passato diretta da Piero Sansonetti, ndr). Era ormai pronto per far mandare a stampare il quotidiano, con tanto di scoop: l’indagine su Andrea Gentilefiglio del noto senatore del Nuovo Centrodestra Tonino, quest’ultimo indicato tra i papabili per un ruolo da sottosegretario nel futuro governo Renzi appoggiato dagli alfaniani. Spiega il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti: «Lunedì la Procura di Cosenza ha accesso i riflettori sull’azienda sanitaria cosentina. Il direttore generale, Gianfranco Scarpelli, da sempre e da tutti considerato vicino ai Gentile, s’è visto notificare l’interdizione dai pubblici uffici, accusato d’aver speso 900mila euro per incarichi conferiti in via discrezionale ad un avvocato Nicola Gaetano, che secondo gli inquirenti «avrebbe agito per ottenere per sé il maggior numero di affidamenti e pilotare verso legali amici gli ulteriori affidamenti». Di quel fiume di denaro, attraverso Gaetano, avrebbe beneficiato anche il figlio del parlamentare, Andrea Gentile: a suo carico si procede per abuso d’ufficio, falso, truffa e associazione a delinquere». Come ha ricordato il Giornale, Regolo ha spiegato di aver ricevuto pressioni per bloccare l’uscita del pezzo, che citava anche una telefonata, risalente al 25 settembre 2013, nel corso della quale lo stesso senatore Tonino Gentile non indagato – parlava con Scarpelli. «Martedì sera l’editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare l’articolo sull’indagine sul figlio di Gentile. Ho minacciato le dimissioni». Ma non solo: mentre i due discutevano, con l’editore che spingeva per fermare la pubblicazione dell’articolo “sgradito” e il direttore che si opponeva, Regolo ha raccontato di una particolare telefonata ricevuta in viva voce dello stesso l’editore. A chiamare era lo stampatore del quotidiano, Umberto De Rose, che, secondo quanto ha denunciato Regolo, «ponendosi come mediatore della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che “il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti”». Nonostante le ripetute pressioni, il direttore ha continuato ad opporsi. Nulla da fare, Regolo non si è lasciato convincere. Quando sembrava che tutto fosse chiarito, con il giornale pronto per essere stampato, lo strano “incidente di percorso”. Un guasto alle rotative, improvviso. Annunciato in piena notte, alle due, da una telefonata dello stesso stampatore.  «Ci ha chiamato per dirci che il giornale non sarà stampato per un improvviso guasto alle rotative. Mi pare evidente che le pressioni del senatore Gentile hanno avuto effetto. Sono pronto a portare documenti e registrazioni telefoniche in procura», ha continuato Regolo, che ha organizzato una conferenza stampa per raccontare tutto.  Per Regolo si tratta di una chiara censura, seppur “mascherata” attraverso l’incidente delle rotative. Frutto delle pressioni del senatore considerato una sorta di pupillo di Angelino Alfano, ormai in rampa di lancio. A spiegare il suo “curriculum” è stato Enrico Fierro, sul Fatto Quotidiano: fedelissimo del governatore regionale e coordinatore nazionale dei circoli di Ncd, Peppe Scopelliti, Antonio – detto “Tonino” – Gentile fa parte di una famiglia influente in Calabria. Con familiari riusciti a “piazzarsi” in diverse giunte: dal fratello Pino, assessore regionale, alla nipote Katia, ex vicesindaco di Cosenza. In pratica, per il Fatto una macchina elettorale. Tanto da poter aspirare al posto di sottosegretario nel prossimo governo Renzi-Alfano. Forse anche per questo, secondo Regolo, la notizia sull’indagine del figlio “doveva” essere bloccata. Anche gli editori dell’ “Ora della Calabria”, la famiglia Citrigno – con interessi nel campo della sanità e nell’editoria – non sono esenti da grane giudiziarie. «Piero, il capostipite, sta scontando una condanna a 4 anni e otto mesi per una storia di usura, e a fine gennaio si è visto sequestrare dall’antimafia due cliniche (ovviamente convenzionate col Sistema sanitario nazionale) e beni per oltre 100 milioni», ha ricordato il Fatto Quotidiano.  Nonostante la denuncia del direttore Regolo, i diretti interessati – accusati di aver boicottato l’uscita del quotidiano locale – si sono difesi. «È da folli ipotizzare scenari del genere. Era l’editore a fare pressioni per non pubblicare l’articolo. Stampo quel giornale anche se non vedo un centesimo da dieci mesi. E poi la notizia del figlio di Gentile era già su tutti i siti e i giornali calabresi», ha replicato lo stampatore. Al contrario, l’editore Alfredo Citrigno: ha spiegato di essersi limitato ad «aver chiesto di verificare bene la notizia, visto che nessun giornale, nessun sito, né le agenzie l’avevano pubblicata». Critico, al contrario, Franco Siddi, segretario della Fnsi: «L’episodio getta una luce sinistra sui processi dell’informazione in Calabria». La notizia, pubblicata soltanto nell’edizione on line dato che il giornale non è uscito, ha scatenato diverse reazioni Due parlamentari grillini, Molinari e Barbanti, hanno parlato di “pagina nera”: «Un attacco alla libertà di stampa», hanno spiegato, mentre l’ex deputato democratico Franco Laratta ha denunciato come nella regione «giornali e tv vivano costantemente sotto assedio».

L’epopea politica della famiglia Gentile inizia a metà degli anni ’70. Scrive Massimo Clausi su “Il Quotidiano Web”. Il vecchio partito Socialista in Calabria, come nel resto del Paese, è dilaniato da feroci guerre intestine. Giacomo Mancini intuisce che è necessario, per consolidare i consensi, dialogare sempre di più con l’anima popolare della città. Il leader socialista individua la chiave per entrare in quei quartieri in una coppia di vivaci fratelli, Pino e Antonio Gentile, che animano la storica sezione “Morandi” della Massa, rione alle pendici del centro storico di Cosenza. Il primo fa il geometra all’Aterp, il secondo invece è impiegato all’ospedale. I due, che provengono da una famiglia numerosa composta da sette fra fratelli e sorelle, dimostrano subito di avere stoffa. Intuiscono di avere di fronte grandi spazi politici e sono abili a sfruttare, alle elezioni comunali, quella che in gergo veniva definita la “quattrina”. All’epoca per il consiglio comunale era possibile esprimere fino a quattro preferenze. Bastava organizzarsi fra famiglie numerose e votare compatti tutti sugli stessi quattro nomi non solo per essere eletti, ma anche per formare un gruppo in consiglio comunale e chiedere un assessorato. Inizia così l’ascesa politica con Pino che diventa assessore ai Lavori Pubblici a Palazzo dei Bruzi, proprio nell’epoca in cui al Comune di Cosenza venne effettuata l’ultima, e anche cospicua, serie di assunzioni. I Gentile crescono in consenso e autorevolezza. Nel 1979 all’interno del Psi si consuma una crisi profonda fra i vari gruppi dirigenti. Del caos ne approfitta Antonio Gentile, abile a tessere accordi e alleanze, che diventa a 29 anni il più giovane segretario provinciale del Psi dei tempi d’oro. Un ruolo mica male che gli permette di estendere i suoi rapporti dalla città al territorio. Ma è solo il primo passo. All’epoca delle lottizzazioni erano i partiti ad indicare i membri del cda degli istituti bancari e il Psi indica per la Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, appunto il suo giovane segretario provinciale (c’è chi dice all’insaputa del gruppo dirigente). Qui si consuma il primo grosso strappo fra Mancini e Gentile che intanto, dalla postazione del cda Carical, comincia a tessere nuovi rapporti, questa volta con il gruppo che fa capo a Riccardo Misasi e alla Dc cosentina che nell’istituto di credito calabro-lucano ha un peso forte. 

L’attuale senatore del Ncd si dedica quindi a fidi e mutui fino al crac della Carical. E’ il 1987 quando un giovane pm di Locri, Nicola Gratteri, spicca un ordine di arresto per Antonio Gentile e gli altri vertici della banca. L’accusa è quella di una gestione allegra, soprattutto negli affidamenti. L’impianto però non reggerà dinanzi al processo e Gentile verrà prosciolto da tutte le accuse. Nel frattempo un altro fratello, Raffaele, che lavora all’ospedale civile dell’Annunziata, riesce ad imporsi nel sindacato. E’ molto attivo nella Uil sanità e, in quegli anni, arriva fino alla segreteria provinciale del sindacato. Pino ridiventa assessore comunale e nel 1982 diventa sindaco di Cosenza, mostrando grandi doti amministrative. Una grande prova di forza la danno nel 1985 quando Pino Gentile viene eletto per la prima volta in consiglio regionale a discapito di Ermanna Carci Greco cui soffia lo scranno per una manciata d voti. Il consenso dei fratelli Gentile quindi cresce, muovendosi lungo tre direttrici principali: quella politica, quella economica e quella sociale del sindacato. I tre riescono a crearsi una serie di rapporti solidi e soprattutto ad avere un uomo di riferimento in tantissimi dei comuni del cosentino. Il rapporto con Mancini continua ad essere altalenante. Una piccola tregua si ha nel 1990 quando viene eletto sindaco di Cosenza Pietro Mancini. L’armistizio però dura poco perchè al Comune accade il ribaltone e diviene sindaco Giuseppe Carratelli mentre i Gentile si alleano nel partito con De Michelis e Giusy La Ganga. Mancini non dimentica. Nel 1992 ci sono le politiche. Antonio è sicuro di un posto in lista per il Psi, ma all’ultimo momento il suo nome sparisce dall’elenco. E’ la fine del rapporto con il garofano. Il senatore decide di candidarsi con il Psdi, ma non viene eletto nonostante il cospicuo risultato elettorale che, fra l’altro, impedisce l’elezione anche di Giacomo Mancini in parlamento. La parabola politica a quel punto sembra in una fase di stasi. Fuori dal Psi, con il Psdi ridotto ai minimi termini. C’è però il vecchio Pri che ha grandi tradizioni ma pochi consensi. In una riunione alla quale partecipano anche Ugo La Malfa, Enzo Bianco e Bartolomeo Tommasi viene sancito il passaggio dei Gentile all’Edera e siglata una sorta di joint venture con Nucara a Reggio Calabria e un cospicuo gruppo di Vibo Valentia. Pino si candida con manifesti dallo slogan inequivocabile “La gente lo vuole, il potere lo avversa” ed è l’unico della pattuglia del Pri che viene eletto con 9000 voti. Anche il Pri però ha il respiro corto come partito, ma a quel punto avviene la discesa in campo di Silvio Berlusconi che dà mandato a Gegè Caligiuri di radicare il suo partito anche in Calabria. I Gentile sono subito della partita, nonostante la feroce opposizione dei circoli che facevano capo a Mimmo Barile. Il resto è storia nota fatta di elezioni con consensi bulgari sia per Pino sia per Antonio, che diventa sia pure per un breve periodo sottosegretario all’Economia. Nel 2011 la famiglia Gentile giunge all’apice del suo potere politico con Pino assessore regionale ai Lavori Pubblici, la figlia Katya vice-sindaco e assessore ai Lavori Pubblici a Cosenza e altre ramificazioni sul territorio come Dario Gaetano, fratello di quel Nicola finito nell’inchiesta dell’Asp, anche lui assessore ai Lavori Pubblici al comune di Paola, il più grosso centro del tirreno cosentino. Il resto è storia di fratture: fra Katya e il sindaco Mario Occhiuto e fra Antonio e Silvio Berlusconi, con il primo che è fra i più entusiasti del progetto politico di Angelino Alfano, al quale pochi giorni fa, ha concesso un bagno di folla al teatro Rendano.

Il senatore e il giornale bloccato Spunta l'audio delle pressioni. Gentile, pupillo di Angelino, nega il pressing sull'editore dell'Ora della Calabria per fermare un articolo scomodo: "Querelo tutti". Il direttore insiste: tutto registrato, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. Cosenza - L'avvocato Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino (Ncd), è indagato dalla Procura di Cosenza con l'accusa di abuso d'ufficio, falso ideologico, truffa ed associazione per delinquere. La notizia ha potuto darla ieri anche L'Ora della Calabria. Il quotidiano diretto da Luciano Regolo era pronto ad offrirla ai suoi lettori già mercoledì, ma quel numero non aveva mai visto la luce. Bloccato prima dalle pressioni ricevute per impedire la pubblicazione di alcuni articoli, poi da un improvviso guasto notturno alle rotative di proprietà di Umberto De Rose, ex presidente di Confindustria Calabria. L'uomo che aveva invano tentato di ottenere fossero cestinati i pezzi in cui si parlava dell'inchiesta sull'Asl bruzia: un fiume di denaro secondo i pm finito nel mare degli incarichi esterni affidati con criteri discrezionali dal direttore generale Gianfranco Scarpelli, anch'egli indagato e adesso temporaneamente interdetto dai pubblici uffici. Tra i beneficiari, per la Procura, pure Andrea Gentile. Era a lui e al padre, lider maximo degli alfaniani in Calabria ed in predicato di divenire sottosegretario alla Giustizia nel governo Renzi, che De Rose voleva evitare l'onta mediatica, ammonendo quelli dell'Ora a fare attenzione, perché «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti»? Non ha dubbi Regolo, che le ingerenze le aveva già denunciate, con nomi e cognomi, in conferenza stampa. «Lo stampatore s'è posto, ed ha cercato di imporsi, come mediatore di Gentile», ha ripetuto anche ieri ai tanti che lo hanno cercato per manifestargli solidarietà. «Martedì sera - ha rincarato la dose l'editore del quotidiano calabrese, Alfredo Citrigno - De Rose mi ha chiamato per consigliarmi di non dare notizia dell'indagine a carico del figlio del senatore Gentile, precisandomi che, da sue fonti certe, gli altri giornali non l'avrebbero pubblicata. Ho deciso di non cedere a quelle richieste e di stare dalla parte dei miei giornalisti». Dopo lo stop forzato, L'Ora è tornata nelle edicole. Dando conto dei legami tra il dg interdetto ed il senatore, nelle cronache indicato come «il sostenitore più forte delle politiche di risanamento della sanità cosentina avviate da Scarpelli». Lo stesso che avrebbe poi elargito incarichi ad un avvocato, Nicola Gaetano, che stando agli atti di indagine resi noti dal quotidiano calabro sarebbe entrato nel mirino degli inquirenti perché sospettato di «aver agito per ottenere per sé il maggior numero di affidamenti e pilotare gli ulteriori affidamenti verso legali amici», tra i quali Andrea Gentile. Il parlamentare, estraneo all'inchiesta, affida il suo punto di vista ad una breve nota: «Si tratta di vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento né contraddittorio, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile, alla quale sono totalmente estraneo». Intanto, De Rose smentisce di averne mai speso il nome nelle telefonate intercorse con l'editore e il direttore del foglio calabrese. «Resto in attesa che la Procura mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio», ribatte Regolo, pronto a mettere sul tavolo le registrazioni dei famigerati colloqui. Al momento, però, i magistrati non si sono fatti sentire. E i nastri dell'Oragate restano in cassaforte.

Cosenza: quell'articolo è scomodo. E la rotativa del giornale si guasta. Il figlio di un senatore indagato. Un giornale chiuso in tipografia. Poi le pressioni dell'editore e dello stampatore sulla direzione, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Non volevano che si sapesse che il figlio del senatore era indagato. Così, l'editore del giornale ha prima fatto pressione sul direttore perché togliesse l'articolo dal giornale e poi, al suo rifiuto, stranamente, si è rotta la rotativa. Sta di fatto che "L'Ora della Calabria" stamattina non era in edicola. La denuncia è arrivata con una nota del direttore del quotidiano regionale Luciano Regolo che ha riassunto la vicenda in poche righe rese pubbliche nel pomeriggio.  Scrive Regolo: "Ieri notte si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile".  E spiega: "Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Azienda sanitaria provinciale di Cosenza. Di fronte alla mia insistenza, nella difesa del diritto di cronaca, ho minacciato all'editore stesso le mie dimissioni qualora fossi stato costretto a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi". "Mentre discutevamo di questo, in mia presenza - prosegue - e in viva voce, l'editore ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come "mediatore" della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che "il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti". Avendo io ribadito all'editore che non intendevo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto, ci siamo salutati. Così De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative".  Secondo il direttore dell'Ora della Calabria: "È evidente che si è trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio". Inutile dire che la notizia ha sollevato un vespaio di polemiche, anche se la notizia del coinvolgimento di Andrea Gentile è comparso su altre testate e siti giornalistici. Nei giorni scorsi infatti le indagini della Procura di Cosenza sugli incarichi concessi dall'Azienda sanitaria si era arricchito di un nuovo fascicolo che coinvolgeva due avvocati. Ossia Alessandro Ventura, legale di Paola, e Andrea Gentile, figlio di Tonino, senatore e coordinatore regionale del Nuovo centrodestra. La conferma dell'iscrizione di un procedimento a carico dei due è contenuta in un atto del 24 gennaio scorso, firmato dal pm Domenico Assumma, del Procura di Cosenza. Contro i legali l'ipotesi di reati come l'abuso d'ufficio, il falso ideologico, la truffa ed l'emissione di fatture per operazioni inesistenti. Non ultimo compare la contestazione dell'associazione per delinquere. Una notizia spinosa dunque, anche in virtù della fase politica particolarmente delicata. Per questo, ipotizza di fatto Regolo, si sarebbe tentato di farla sparire dal giornale. Ieri sera tuttavia è arrivata la smentita dello stampatore Umberto De Rose, che in una nota racconta la sua versione dei fatti: "Non avrei avuto nessuna necessità di fare pressioni preventive, atteso che il guasto lo avrei potuto simulare a qualsiasi ora". Aggiunge poi: "Garantisco la libertà di stampa di questo giornale, considerato che da circa dieci mesi non vengono adempiuti gli obblighi contrattuali di controparte". Nel caso "Se già il suo editore gli stava facendo pressioni per quella vicenda, che interesse avevo io a perorare cause di terzi? Voglio ribadire che l'editore è l'unico ad avere un potere sulla direzione e non certo lo stampatore".

«Vi racconto la verità sulle telefonate per bloccare la notizia sul figlio del senatore Gentile», scrive Luciano Regolo su “L’Ora della Calabria” .«La Procura di Cosenza mi convochi». «Lettrici e lettori carissimi, se non ci avete trovato in edicola ieri è perché nella notte tra il 18 e il 19 febbraio si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile. Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'Editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp. In particolare Alfredo Citrigno mi faceva notare che nessun sito degli altri quotidiani calabresi (l'unico coraggioso in effetti è stato quello del settimanale “Il Corriere della Calabria”) dava questa informazione e mi chiedeva se ci fosse la documentazione certa, altrimenti di soprassedere. Io non soltanto ho confermato che l'articolo era ampiamente documentato e corredato delle opportune verifiche, ma difendendo il diritto di cronaca, ho minacciato le mie dimissioni qualora fossimo stati costretti, io e l'Editore, a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi. Per altro ci tengo a precisare che nei due miei mesi di direzione Citrigno non mi aveva mai chiesto di rivedere o modificare i contenuti del giornale e che per questo, fin dal principio di questa nostra conversazione, mi sono reso conto che c'era qualcosa di strano, qualcosa che lo rendeva quasi confuso, intimorito. Mentre discutevamo di questo nella sua auto, in viva voce, essendo lui al volante ed essendoci tra noi un rapporto di assoluta stima, confidenza e fiducia reciproca, l'Editore, che nel frattempo mi stava dando un passaggio a casa, ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come «mediatore» della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti». E che Tonino Gentile sarebbe potuto diventare «sottosegretario alla giustizia, quindi se vede che solo tu pubblichi questa notizia poi qualche danno te lo fa». Conclusa la conversazione telefonica, ho visto l'Editore molto provato penso anche per le vicende legali che coinvolgono la sua famiglia, agli attacchi mediatici che ha ricevuto negli ultimi tempi e rimando al riguardo a quanto ho già scritto in un mio editoriale dal titolo "Vogliono tapparci la bocca"-  e gli ho ribadito comunque che non potevamo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto. Quindi, ci siamo salutati cordialmente, come sempre. Così, De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative. In questa pagina trovate anche la replica di De Rose, che pubblichiamo proprio per coerenza con l'opposizione a ogni forma di censura, nonostante il contenuto sia ampiamente discutibile. De Rose afferma che se avesse inteso ostacolare l'uscita del giornale poteva inventarsi il guasto a qualunque ora e senza fare pressioni su nessuno, ma non spiega perché, era al telefono con l'Editore, passata la mezzanotte a convincerlo che doveva non farmi pubblicare la notizia (per lui «una follia»), per non far infuriare il «cinghiale» (i Gentile) che avrebbero «ammazzato tutti». Né spiega perché insistentemente chiedeva a Citrigno di richiamarlo per rassicurarlo che la notizia fosse stata tolta, in modo che a sua volta potesse avvertire i Gentile, i quali, a suo dire, avevano già avuto la certezza («al cento per cento») che gli altri quotidiani non l'avrebbero riportata. De Rose, infine, non spiega perché l'avvenuto guasto sia stato comunicato alla redazione soltanto dopo che lui ha avuto la certezza che l'articolo sul figlio di Gentile non sarebbe stato tolto. Non capisco che cosa c'entrino i contenziosi amministrativi cui allude, non capisco che cosa c'entri il fatto che io non lo conosca personalmente. Mi sembrano linguaggi, logiche poco chiare. Ciò che invece mi sembra chiaro e incontrovertibile è il fatto che la mancata messa in stampa dell'Ora si sia trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, un danno sia per la redazione sia per l'Editore, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio. Un senatore della repubblica dovrebbe difendere la libertà di stampa. O sbaglio?»

L'Editore Alfredo Citrigno su “L’ora della Calabria”: «Ecco la verità, travisate le mie parole». «Il direttore mi aveva rassicurato sulla fondatezza degli atti». «Nonostante sia stato raggiunto da insistenti telefonate, che mi hanno turbato, ho deciso di non cedere a quelle richieste». «Alla luce della vicenda che riguarda il giornale di cui sono editore, intendo precisare quanto segue: intorno alle ore 19 di martedì ricevo una telefonata da parte dello stampatore il quale mi consiglia di non pubblicare la notizia dell'indagine a carico del figlio del senatore Tonino Gentile, perché non fondata precisandomi che, da sue fonti certe, gli altri giornali non l'avrebbero pubblicata. A quel punto ho chiesto al direttore di accertarsi della veridicità della notizia e lo stesso mi ha rassicurato prontamente sulla fondatezza degli atti. Nonostante sia stato raggiunto da altre insistenti telefonate, che mi hanno profondamente turbato, ho deciso comunque di non cedere a quelle richieste e di stare dalla parte dei miei giornalisti che invito, ora, a proseguire nel cammino già intrapreso, in piena e assoluta autonomia. Chiedo scusa ai lettori dell'Ora per la mancata pubblicazione per cause non imputabili all'editore». «Ho chiesto la verifica al direttore della veridicità e della fondatezza della notizia riguardante l'indagine a carico del figlio del senatore Gentile». A parlare è Alfredo Citrigno, editore dell'Ora della Calabria. «La mia domanda traeva origine del fatto che nè i siti degli altri quotidiani calabresi, né le agenzie di stampa avevano pubblicato la notizia. La mia preoccupazione, quindi, derivava solo da questo. Da qui la mia insistenza col direttore sulla verifica della notizia e sull'opportunità della pubblicazione. Lui mi ha risposto dicendomi che era in possesso dei relativi atti e pertanto ha deciso di pubblicare ugualmente l'articolo. Che poi il giornale non sia stato stampato e non sia dunque arrivato in edicola non è dipeso sicuramente da me. Anzi, la mancata pubblicazione ha rappresentato per me un danno economico».

«Se Luciano Regolo afferma Umberto De Rose, proprietario dello stabilimento tipografico ipotizza che ho volontariamente dichiarato un guasto alla rotativa per impedire la stampa del giornale, allora devo replicare su tre aspetti fondamentali. Il primo aspetto è che non avrei avuto nessuna eventuale necessità di fare pressioni preventive, atteso che il guasto lo avrei potuto simulare a qualsiasi ora. Il secondo aspetto è che garantisco la libertà di stampa di questo giornale, considerato che da circa dieci mesi non vengono adempiuti gli obblighi contrattuali di controparte. Ed infine il terzo aspetto è che se già il suo editore gli stava facendo pressioni per quella vicenda, che interesse avevo io a perorare cause di terzi? Voglio ribadire che l'editore è l'unico ad avere un potere sulla direzione e non certo lo stampatore. A dimostrazione di ciò voglio solo affermare che non conosco personalmente Luciano Regolo nonostante lui diriga questo giornale da qualche mese».

«La vicenda che ha coinvolto L'Ora della Calabria dichiara Giuseppe Soluri, presidente dell'Ordine dei giornalisti calabresi -, e le pressioni che il direttore responsabile del giornale, Luciano Regolo, afferma di avere subito dal suo editore e, attraverso lo stesso editore, anche dallo stampatore, rappresentano plasticamente la situazione di difficoltà, di debolezza e, in qualche caso, di degrado in cui si muove l'editoria calabrese. Nell'occasione Regolo ha denunciato il fatto ed ha resistito alle pressioni, e non possiamo che essere felici di questo. Il fatto conferma però, purtroppo, che quando la proprietà di un giornale è legata ad interessi non solo editoriali ma anche in qualche misura direttamente dipendenti da scelte politiche, è facile immaginare a quali e quante pressioni un direttore o una redazione siano quotidianamente sottoposti e quanto sia difficile difendere lo spazio di libertà che la stampa deve avere. Nel riaffermare il diritto dei giornalisti a non essere sottoposti a pressioni o censure di alcun genere da parte di chicchessia ed il diritto dei direttori dei giornali di esseri interpreti della linea editoriale concordata con gli editori e non certo gli insabbiatori di questa o quella notizia, l'Ordine dei Giornalisti della Calabria ribadisce la necessità che i giornalisti abbiano sempre e soltanto la propria coscienza, il proprio senso di responsabilità e la propria deontologia professionale come punti di riferimento nello svolgimento del loro difficile lavoro. La libertà di stampa passa attraverso questi punti fermi e non può tollerare intrusioni o pressioni di alcun genere».

Inltre l'editore dell'Ora della Calabria, Alfredo Citrigno, ha diffuso un comunicato in merito al sequestro di beni nei confronti del padre Pietro Citrigno. «Anche questa vicenda è stata utilizzata in malafede da terzi come gogna mediatica a danno della mia famiglia». L'editore dell'Ora della Calabria Alfredo Citrigno, figlio dell'imprenditore Pietro Citrigno, ha diffuso il testo di una dichiarazione in merito al sequestro di beni nei confronti del padre. «In merito al sequestro emesso dal tribunale di Cosenza, sezione penale misure di prevenzione notificato stamane e avente come oggetto beni rientranti nel patrimonio familiare si afferma nella dichiarazione nella qualità di figlio di Pietro Citrigno dichiaro che le questioni inerenti l'atto giudiziario summenzionato saranno prontamente discusse e risolte nelle opportune sedi giudiziarie dove sicuramente emergeranno "tante verità" e dove dimostreremo che tutto quanto ingiustamente esposto ad un grave provvedimento illegittimo è stato ed è frutto del lavoro di anni dell'intera famiglia Citrigno, ricordando che sin dalla maggiore età io e le mie sorelle Filomena e Simona ci siamo dedicati alle attività imprenditoriali personalmente ed attivamente». «Prendo atto che anche questa vicenda prosegue Alfredo Citrigno è stata utilizzata in malafede da terzi come gogna mediatica a danno della mia famiglia. A tal proposito ho già conferito mandato ai miei avvocati affinché ogni buon diritto della famiglia Citrigno ottenga la giusta e dovuta tutela. Sono comunque fiducioso perché confido nella serenità e nell'autonomia della magistratura».

Non dimentichiamoci, poi, l’esclusiva notizia data proprio dal suo giornale.

Accuse selezionate ad hoc: «I favori del pm Mollace». Il magistrato sarà sentito dalla Procura di Catanzaro. Da poco più di due mesi in servizio alla procura generale della Corte d’appello di Roma. Prove celate, indagini che avrebbero potuto svelare i retroscena di un delitto, insabbiate. è su una serie di omissioni,compiute al solo fine di favorire la ‘ndrangheta, che  l’ex sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, da poco più di due mesi in servizio alla procura generale della Corte d’appello di Roma, Francesco Mollace dovrà spiegare alla Procura di Catanzaro che lo ha indagato per corruzione in atti giudiziari, scrive Gabriella Passariello  su “L’Ora della Calabria”. Il magistrato, che può considerarsi uno dei pilastri storici dell’antimafia, ha ricevuto un avviso a comparire vergato dal procuratore capo della Repubblica del capoluogo Vincenzo Antonio Lombardo, dall’aggiunto Giuseppe Borrelli, dai sostituti Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio. Per lunedì prossimo è previsto il faccia a faccia e quel giorno, il 24 febbraio, un dato può già dirsi certo: Mollace non si avvarrà della facoltà di non rispondere. Questo interrogatorio lui l’attendeva da tempo. Dovrà difendersi dalle accuse che gli vengono contestate, spiegando perché da sostituto procuratore della Dda di Reggio, preposto alla gestione e alla trattazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice  e Paolo Iannò, non avrebbe svolto alcuna attività investigativa inerente i contenuti delle prove raccolte, dichiarazioni convergenti «quanto all’esistenza della cosca Lo Giudice anche dopo il 1991 e quanto alla perpetrazione dell’omicidio di Angela Costantino», moglie del boss Pietro Lo Giudice. Fatta sparire e secondo l’accusa uccisa per salvare l’onore del capoclan «da parte dei componenti la medesima famiglia ‘ndranghetista». Avrebbe omesso, secondo le ipotesi di accusa, di riaprire le indagini sulla scomparsa della Costantino, senza vagliare e comparare le dichiarazioni dei due pentiti. Con un’unica conseguenza. Che Mollace avrebbe per così dire selezionato i contenuti e le prove rese attraverso le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice e Iannò, fornendone un quadro parziale, gli inquirenti utilizzano il verbo “parcellinare”. Nessun riscontro al narrato dei collaboratori, neanche per quanto concerne «la pervicacia ed esistenza della famiglia Lo Giudice quale cosca operante nel territorio reggino, ricevendo quale utilità, da parte della predetta cosca, la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Antonino Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». Fatti accaduti in data anteriore e prossima al 30 ottobre 2010. Un’inchiesta, quella che vede indagato Mollace, che nasce dal memoriale sul “Nano”, lo pseudo pentito Antonino Lo giudice  che ha fornito nomi e cognomi di chi avrebbe materialmente piazzato l’ordigno del 3 gennaio di quattro anni fa davanti alla Procura generale di Reggio Calabria, quello del 26 agosto seguente all’ingresso dell’abitazione del procuratore generale Di Landro e il bazooka fatto ritrovare il 5 ottobre dello stesso anno a poche centinaia di metri dal Cedir, sede della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio.  Salvo poi ritrattare la sua versione dei fatti, scappare dalla località protetta, per finire di nuovo dietro le sbarre.

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa.

Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ ndranghetisti, non si scappa.

Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.

CADONO LE ACCUSE DI CALUNNIA AGGRAVATA DALLA MODALITÀ MAFIOSE PER SINDACO, VICESINDACO, PARROCO E COMANDANTE CARABINIERI. A San Procopio non ci fu nessun inchino né alcun omaggio al boss, il gip: "caso chiuso", scrive il 21-08-2017 Reggio tv. Reggio Calabria. È proprio il caso di dirlo: “tanto rumore per nulla”. A San Procopio, piccolo centro aspromontano del reggino, non ci fu alcun inchino del Santo Patrono al boss Nicola Alvaro. Dopo poco più di tre anni, a “certificare” la verità su quanto accadde, è il gip del Tribunale di Reggio Calabria, Domenico Santoro, il quale ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal pm della direzione distrettuale antimafia, Luca Miceli che non ha riscontrato elementi penalmente rilevanti di fatti che erano stati contestati ai quattro principali indagati. “Fatti” assurti alle cronache dopo il presunto “scoop” di Michele Inserra, sulle pagine del “Quotidiano della Calabria” e secondo il quale, nel corso della processione del Santo Patrono svoltasi l’8 luglio del 2014, ci sarebbe stato un presunto inchino della vara, dinnanzi all’abitazione del presunto boss Nicola Alvaro che, all’epoca dei fatti, si trovava ancora in carcere prima di finire ai domiciliari. Ma secondo le indagini svolte dalla DDA, non ci fu alcun inchino o omaggio del Santo Patrono di fronte la casa del boss e dunque né il Sindaco Eduardo Lamberti-Castronuovo (all’epoca anche assessore provinciale alla Legalità), né il vicesindaco Antonio Cutrì, né il Parroco Domenico Zurzolo, tantomeno il Maresciallo dei Carabinieri Massimo Salsano hanno commesso il reato di calunnia, aggravata da modalità mafiose nei confronti dell’autore di quell’articolo. Il caso, dunque, non è penalmente rilevante e va per questo archiviato, ha motivo di ritenere il gip. Anche perché, è emerso dalle indagini eseguite dagli agenti della Squadra Mobile che quando si svolse la processione incriminata, nella casa del boss, viveva solo la moglie Grazia Violi e da una telecamera posta di fronte a quella abitazione si poteva vedere bene che la statua del Santo Patrono si fermava per soli 20 secondi e che la donna si avvicinava per renderle omaggio. “Da ciò – evidenzia il pm nella sua richiesta d’archiviazione (così come riportato oggi dal quotidiano Gazzetta del Sud) – deriva la difficoltà di smentire gli indagati che hanno dichiarato all’unisono di non avere posto particolare attenzione all’una piuttosto che all’altra abitazione in prossimità della quale si era fermata la statua a richiesta del fedele di turno, come avviene da secoli, proprio perché tale prassi non era da loro intesa come inchino o omaggio della Statua a qualcuno, evento che anche loro avevano cercato di evitare, ma, al contrario come mero ossequio del fedele al Santo Patrono”. Quanto accertato dagli investigatori della Polizia collima, inoltre, perfettamente con la relazione di servizio fatta dall’allora comandante dei Carabinieri di San Procopio (che fu accusato di avere scritto il falso e oggi è stato archiviato), per il quale non c’era stata alcuna anomalia “se per essa si intende – scrive ancora il pm – un omaggio che la processione stessa riserva a qualcuno in quanto ‘ndranghetista e non invece una fermata, tra le tante, preceduta dall’offerta votiva al Santo Patrono”. Dunque, nemmeno il maresciallo dei Carabinieri ha dolosamente omesso di riportare nella sua relazione la sosta davanti alla casa del boss per nascondere l’evento. Aveva annotato il comandante la Stazione dei Carabinieri che la processione aveva seguito l’itinerario che sempre ha seguito e che “come usanza, ovunque le persone porgessero l’offerta la statua effettuava una brevissima sosta, meno di un minuto, per consentire ai fedeli di baciare il Santo”.

Il grande scandalo dell’inchino al boss? Beh, non era vero…, scrive Simona Musco il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sindaco, maresciallo e prete finirono nei guai. Non ci fu nessun inchino della statua del Santo sotto casa del boss Nicola Alvaro, a San Procopio, un piccolo paese calabrese che nel luglio del 2014 finì sui giornali di mezzo mondo. Il gip del Tribunale di Reggio Calabria ha infatti accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal sostituto procuratore della Dda Luca Miceli. E per quella storia, del tutto inventata, finirono sul registro degli indagati il sindaco e il vicesindaco del paese, oltre al parroco e al maresciallo dei carabinieri. Senza contare che tutte le processioni religiose, quando non vennero vietate, finirono quantomeno sotto scorta. Non ci fu nessun inchino della statua del Santo sotto casa del boss Nicola Alvaro, a San Procopio, un piccolo paese aspromontano. Dopo tre anni, il gip del Tribunale di Reggio Calabria, Domenico Santoro, ha in- accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal sostituto procuratore della Dda Luca Miceli, secondo il quale quel 10 luglio 2014 non ci fu alcuna «anomalia». A finire sul registro degli indagati furono il sindaco Eduardo Lamberti Castronuovo, all’epoca anche assessore alla Legalità della Provincia di Reggio Calabria, il suo vice Antonio Cutrì, il parroco Domenico Zurzolo e il maresciallo dei carabinieri Massimo Salsano. Tutti accusati di aver fatto parte di una “danza della riverenza” sotto casa del boss e di calunnia aggravata dalla modalità mafiosa nei confronti del giornalista che aveva riportato la notizia, e tutti, dopo ben tre anni, regolarmente riabilitati dalla procura antimafia. Ma il luglio del 2014 fu un periodo di grande clamore, un periodo in cui le processioni religiose, in Calabria, furono radiografata e guardate con sospetto dall’antimafia delle Procure e del associazioni. I vescovi e i parroci della regione vennero messi alle strette e le processioni, in alcuni casi, commissariate per evitare la presenza di portantini “deviati”. Fu sempre in quel periodo che le cronache nazionali impazzirono dietro la notizia dell’inchino della “Vara” davanti all’abitazione del boss Giuseppe Mazzagatti a Oppido Mamertina. Una notizia che fece il giro del mondo, e che raccontò una Calabria soffocata dalla riverenza mafiosa e da giochi di potere sporco che non risparmiavano nemmeno i santi. Quarantotto ore dopo uscì fuori la notizia di un altro caso attenzionato dalla Procura di Reggio Calabria e dai carabinieri: quello di San Procopio, 600 anime arroccate sull’Aspromonte. A destare l’attenzione degli investigatori fu «una fermata di qualche minuto», scrivevano i giornali, davanti all’abitazione di Grazia Violi, la moglie di Nicola Alvaro, 80 anni che nel lontano 1982 venne arrestato con l’accusa di essere il killer del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fu un testimone, poi rivelatosi inattendibile, a fare il suo nome come quello dell’uomo che la sera del 2 settembre, in via Isidoro Carini, a Palermo, aprì il fuoco contro l’A112 guidata da Emanuela Setti Carraro. Alvaro venne scagionato dalle accuse dopo un lungo periodo in isolamento nel carcere di Palmi. La notizia di San Procopio destò un mare di polemiche e una reazione indignata e feroce del sindaco Lamberti Castronuovo: «Sono tutte baggianate», disse. «Ho seguito la processione insieme ai carabinieri spiegò poi il primo cittadino – ai quali ho chiesto se c’erano luoghi dove la processione non si poteva fermare e mi hanno detto di no, altrimenti l’avrei fermata». Soste normali, «previste», dunque. Convinzione maturata anche dal pm Miceli, che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione. Secondo le indagini della squadra mobile, il 10 luglio 2014 a casa del boss c’era solo la signora Violi: Nicola Alvaro sarebbe infatti arrivato ai domiciliari soltanto 7 giorni dopo. A spiegare come andarono i fatti è stata una telecamere piazzata di fronte a quella abitazione, che ha inquadrato la statua del Santo fermarsi soltanto per 20 secondi e la donna avvicinarsi per renderle omaggio. «Da ciò – scrive il pm deriva la difficoltà di smentire gli indagati, che hanno dichiarato all’unisono di non avere posto particolare attenzione all’una piuttosto che all’altra abitazione in fatti stato in prossimità della quale si era fermata la statua a richiesta del fedele di turno, come avviene da secoli, proprio perché tale prassi non era da loro intesa come “inchino o omaggio” della statua a qualcuno, evento che anche loro avevano cercato di evitare, ma al contrario, come mero ossequio del fedele al santo patrono». Fatti che combaciano con quanto messo nero su bianco nella sua relazione di servizio dal maresciallo Salsano, accusato di aver scritto il falso per non aver evidenziato alcuna anomalia durante la processione, «se per essa si intende – scrive ancora il pm – un omaggio che la processione stessa riserva a qualcuno in quanto ‘ ndranghetista e non invece una fermata, tra le tante, preceduta dall’offerta votiva al santo patrono». Il comandante aveva annotato che la processione aveva seguito l’itinerario classico, mai mutato per decenni, e che «come usanza, ovunque le persone porgessero l’offerta, la statua effettuava una brevissima sosta, meno di un minuto, per consentire ai fedeli di baciare il Santo – si legge nella relazione -. Ovviamente a San Procopio, come del resto ovunque, vi sono alcuni pregiudicati i quali, alla stregua degli altri, ossequiavano la statua del patrono e non viceversa». Lamberti Castronuovo, che nell’immediatezza era stato sentito dal pm Alessandra Cerreti alla presenza degli avvocati Nico D’Ascola e Marco Panella, aveva spiegato che il percorso era stato allungato soltanto per far arrivare la statua sotto una casa di riposo, «per dare la possibilità di vedere la manifestazione religiosa a una signora di 90 anni, impossibilitata a muoversi». Per il sindaco, dunque, il caso sarebbe stato solo «una montatura»: la processione «non si è fermata se non nei punti previsti e insieme a me c’era il maresciallo dei carabinieri, al quale ho chiesto se c’erano problemi. Mi ha risposto di no altrimenti avrei sospeso tutto». Da lì partì così la caccia al giornalista, con la richiesta ai cittadini, nel corso di un Consiglio comunale urgente, «di sottoscrivere una denuncia contro chi ha scritto l’articolo perché è una montatura. Ho filmato tutta la processione – aveva spiegato – e invece lui non c’era. Noi ci inchiniamo soltanto di fronte alla legge e chi mi conosce sa che sono intransigente. Nessuno verrebbe da me a chiedere qualcosa di illegale». L’indagine è andata avanti: il procuratore della Dda reggina, Federico Cafiero de Raho, ha voluto verificare «il possibile condizionamento della processione da parte della ’ ndrangheta», definendo l’episodio «l’ulteriore dimostrazione delle pressioni delle cosche sul territorio». Ma quell’inchino, dice oggi la stessa Procura, non c’è mai.

Nel paesino di San Procopio arrivò l’antimafia…scrive Aldo Varano il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Ma la notizia dell’inchino al boss era del tutto inventata, dopo 3 anni lo ammettono anche i magistrati. Tutti prosciolti. «La notizia di reato è infondata», è l’esordio della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, tre anni dopo i fatti che fecero il giro dell’Italia propinando e diffondendo le certezze assolute di certo giornalismo antimafia. E’ difficile trovare notizie più ghiotte delle processioni religiose che si inchinano davanti alle case dei boss. Mafia, morti ammazzati e sangue quando si mescolano ai riti cattolici e alle scorie paganeggianti popolari diventano una calamita irresistibile per i giornalisti e per parte dei lettori: fa vendere e offre visibilità. Nel paesino di San Procopio arrivarono gendarmi e giornalisti. Ma, dicono ora i magistrati, a San Procopio, il paesino aspromontano di un migliaio di abitanti in provincia di Reggio Calabria, davanti alla casa del boss Nicola Alvaro non vi fu alcun inchino, né alcun “segno di ossequio e rispetto”. Anzi, a frugare con attenzione nell’ordinanza si scopre che nella casa del boss davanti a cui il Santo in processione si sarebbe inchinato, il Patriarca non ci aveva mai messo piede in vita sua (prima che lo arrestassero abitava in campagna) e, a volerla dire tutta, nessuno sapeva (tranne i carabinieri che lì avevano piazzato un telecamera nascosta) che quella fosse l’abitazione destinata a riceverlo una volta uscito dal carcere. Siamo nel luglio del 2014 e pochi giorni prima della processione a San Procopio ce n’era stata un’altra ad Oppido Mamertina (sempre in Calabria, sempre dalle parti dell’Aspromonte) finita su tutti i giornali italiani per uno smaccato inchino la cui esecuzione avrebbe addirittura imposto la modifica del percorso antichissimo del Santo. Eduardo Lamberti Castronovo, il sindaco di San Procopio, affermato imprenditore della sanità in Calabria, all’epoca assessore alla legalità e alla trasparenza della Provincia di Reggio, aveva concordato e chiesto in anticipo ai carabinieri del paese a al parroco di vigilare sulla correttezza e lo svolgimento della processione: lui, in continuo rapporto coi carabinieri e la Procura, le scuole e le autorità per il suo lavoro di assessore alla legalità, non voleva certo finire sui giornali come quelli di Oppido. «Alla minima anomalia – aveva chiesto – avvertitemi: mi tolgo la fascia e abbandono la processione». Ma a San Procopio era filato tutto liscio. Il Santo aveva girato per il paese sempre per le stesse strade fermandosi un attimo a raccogliere le offerte quando i fedeli avessero fatto segno di volerlo onorare con un’offerta, come sempre. Quel giorno (nessun giornalista era presente all’evento, avrebbero poi ricostruito le indagini) vi furono alcune decine di fermate di pochi secondi lungo il tragitto per le offerte, tra cui anche quella di Grazia Violi, la moglie del detenuto- boss per mafia, svoltasi in venti secondi con modalità identiche a tutte le altre. Lamberti aveva poi sostenuto di aver chiesto continuamente, anche durante lo svolgimento della processione, se tutto stava procedendo ok, raccogliendo assicurazioni dei carabinieri e del sacerdote officiante. Insomma, niente di niente. Per questo era andato su tutte le furie quattro giorni dopo quando Il Quotidiano della Calabria aveva fatto uno scoop in esclusiva e aveva aperto una durissima polemica contro il giornalista che aveva firmato (l’inesistente, dice anche la procura) scandalo ‘ ndranghetista di una processione che, sotto gli occhi di tutti, aveva ossequiato il boss. Lamberti in un Consiglio comunale aperto agli interventi del pubblico aveva ribadito la falsità della notizia chiedendo pubbliche scuse per gli abitanti di San Procopio. Il giornalista, per tutta risposta, lo aveva denunciato per calunnia aggravata dal metodo mafioso coinvolgendo anche quanti avevano sostenuto le tesi di Lamberti (vice sindaco, maresciallo dei Carabinieri e il prete del paese; anche loro prosciolti). Solo il Garantista, un giornale calabrese all’epoca diretto da Piero Sansonetti, aveva sostenuto in un editoriale che Lamberti si era limitato a difendere la comunità che lo aveva eletto sindaco e, quindi, aveva fatto bene. «Ho dovuto aspettare tre anni per avere giustizia. Ed è arrivata solo quando la procura generale ha avvertito che o si concludeva o avrebbe avocato le indagini», s’indigna Lamberti. «Certo, nessuno ha creduto a quella ridicola accusa o a miei rapporti con ambienti mafiosi. Ma io sono rimasto sul fuoco per tre anni con gravi danni anche alla mia attività. Quali? Per esempio, ma è solo un esempio, avevo vinto un appalto per fare le analisi ai dipendenti della Procura, con un bel ribasso, ma dato che ero indagato l’appalto se l’è preso chi era arrivato secondo, e a un prezzo che sarà più gravoso. Per tre anni mi hanno emarginato. Avevo costruito ottimi rapporti coi carabinieri e la procura per il mio lavoro di assessore. Ma si sono preoccupati di indagarmi raggiungendomi fuori Reggio mentre ero con il maestro Muti per organizzare un concerto in Calabria a favore della legalità. E’ vero, la giustizia arriva prima o poi. La verità alla fine viene a galla. Ma intanto tre anni di emarginazione e sospetti mi hanno bloccato facendomi gravi danni. Ed io ero nelle condizioni di difendermi, grazie al mio passato trasparente e ai miei mezzi. Mi conoscono tutti da decenni. Mi chiedo: cosa sarebbe successo se fossi stato un cittadino senza possibilità, come purtroppo ce ne sono tantissimi?».

Vittime di antimafia, scrive Gianpaolo Giacobini il 21 agosto su "Il Giornale". Dove tutto è mafia, niente è mafia. Massimo Salsano da che parte stare l’aveva sempre saputo: da quella di chi la legge la difende e la fa applicare. Di più: dalla parte di chi la rappresenta. Ma il 10 Luglio del 2014 d’improvviso s’era ritrovato sbattuto dall’altra parte della barricata. Quell’anno, il 21 di Giugno, Papa Francesco era sceso a Sibari, e dal cuore della Piana che fu degli Achei, e che negli ultimi 40 anni è diventata feudo di ‘ndrangheta, lanciava il suo anatema contro i mafiosi. Scomunica, atto simbolico di potenza dirompente, per dire agli uomini ed alle donne dei clan: inutile cercare di carpire il consenso popolare strumentalizzando la religione, perché dove c’è Vangelo non può esserci mafia. E viceversa. Né più né meno di quello che la Chiesa aveva sancito nel Maggio del 2013, elevando agli onori degli altari Pino Puglisi, parroco di Brancaccio ucciso in odium fidei su ordine dei Graviano: lo ammazzarono perché da prete – attraverso la predicazione, l’esempio e l’impegno civile e sociale – sottraeva alle cosche manovalanza e consenso popolare. Senza neppure un titolo di giornale o una comparsata nei salotti televisivi. Ne aveva sentito parlare, il maresciallo Salsano. E forse in cuor suo pensava che fosse cosa buona e giusta. Che fosse anzi normale tirare una linea, finalmente netta, e tenere fuori dalle cose di Chiesa – e dalle chiese – picciotti e padrini. Ma non era di certo affar suo. Lui, uomo di legge, doveva pensare ad altro. E lo stava facendo, in quel caldo giorno d’estate, mentre coi suoi carabinieri seguiva da vicino la statua del Patrono, in processione per le vie del paese. Un paese, San Procopio, spesso in cronaca e segnato dalla violenza criminale. Tragicamente normale, nella terra dove la pianura si fa montagna che prende il nome d’Aspromonte. Da queste parti chi resta non va perché non sa dove andare. Perché magari vorrebbe e non può. O magari ostinatamente vuole restare, perché crede che qualcosa possa ancora cambiare, anche appresso ad una statua. Ma il destino che per secoli s’era ripetuto uguale il 10 Luglio del 2014 scarta e cambia. La processione ferma il suo cammino. Pochi secondi, una ventina appena, mentre una donna va incontro alla statua a segnarsi la croce. È la pietra dello scandalo: la sosta viene spacciata per inchino. Un omaggio ai padroni del paese, strillano i giornaloni e le reti dell’antimafia militante che incrociano i fatti d’Aspromonte con la scomunica papale. Lo scandalo è servito. E per il ligio maresciallo Salsano si schiudono le porte dell’inferno: superiori e autorità varie chiedono come sia possibile che la statua d’un santo venga portata ad ossequiare gli ‘ndranghetisti mentre è scortata dai carabinieri. Il sottufficiale non ha bisogno di difendersi. Scrive ciò che ha visto. I suoi occhi raccontano di una pausa casuale, in un punto come un altro, affatto coincidente con l’uscio dell’abitazione del boss del luogo, Nicola Alvaro. Ma non gli credono. La macchina mediatica ormai in moto lo travolge. Le grandi firme e gli opinionisti televisivi dall’indignazione facile ed un tanto al chilo riciclano il più trito dei luoghi comuni: sui monti di Calabria si fanno carte false pur di coprire la realtà.

Inevitabilmente, il comandante di Stazione Massimo Salsano finisce nel registro degli indagati. E con lui il parroco, il sindaco ed il vicesindaco. Loro indagati di calunnia aggravata da modalità mafiose. Lui di aver scritto una relazione di servizio attestando il falso. E mentre l’antimafia che vede mafia dappertutto tranne dove c’è, che la scorge finanche nelle scritte di vernice sui muri (come se i mafiosi avessero sostituito le bombolette spray ai kalashnikov), il maresciallo si trova sotto la lente della Dda. E ci resta per tre anni. Fino a quando un giudice si ricorda di quel fascicolo ancora aperto e decide di trattarlo. Che poi, da fare c’è poco: la stessa Procura, resasi conto dell’abbaglio, ha già richiesto l’archiviazione. Non c’è bisogno, insomma, nemmeno di andare a processo: gli indagati vanno prosciolti. Anche Salsano. Le indagini hanno permesso di acclarare che la processione si fermò casualmente per meno di mezzo minuto, che quando il fatto avvenne il boss non era nemmeno in paese, che a muoversi verso la statua (e non il contrario) fu la moglie di Alvaro. Il tutto ripreso dalla telecamera di un impianto di videosorveglianza, e dunque a prova di smentita. «Non c’è stata alcuna anomalia», precisa il gip provvedimento di archiviazione: «Solo una fermata, tra le tante, preceduta dall’offerta votiva al Santo Patrono».

Perché la verità fosse riconosciuta, sono stati però necessari più di tre anni. E quando la voce del proscioglimento s’è diffusa, gli antimafiosi di professione non hanno fatto una piega. A carriera fatta, si sono ben guardati finanche dal concedere qualche riga alla notizia. Del resto, «il popolo, la democrazia», annotava amaro Leonardo Sciascia, «sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino da da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità». E così giusti sotto inchiesta, mafiosi in libertà. È la regola, dove tutto è mafia e niente è mafia.

Toscani shock: «Niente selfie, sei calabrese...», scrive Simona Musco il 21 ottobre 2016, su "Il Dubbio". Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza: «Nel 2007 non ha avuto remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria della regione». «Non vedo il motivo per cui dovremmo farci una foto. Per quanto ne so, potresti essere un mafioso». Sono queste le parole con le quali Oliviero Toscani ha negato una fotografia a Vittorio Sibiriu. Lui ha solo 18 anni e una faccia pulita. Un'intelligenza vivida e la passione per l'arte. Quella che lo ha spinto, giovedì, al Valentianum di Vibo Valentia, per assistere alla lectio magistralis del fotografo e alla sua mostra "Razza Umana". Una mostra, ha spiegato lo stesso Toscani, che rappresenta uno studio antropologico sulla morfologia degli esseri umani, «per vedere come siamo fatti, che faccia abbiamo, per capire le differenze». Parole che associate alla storia di Vittorio riportano alla mente il concetto di "razza maledetta" dal sapore lombrosiano. Toscani era «un mito», fino a due giorni fa, quando ha rifiutato l'invito del ragazzo. «Anche Matteo Messina Denaro non ha la faccia da mafioso eppure lo è», avrebbe spiegato, come se quelle parole fossero del tutto normali. A raccontarlo è lo stesso giovane, studente della quinta classe del liceo scientifico di Vibo. «Ho seguito la conferenza stampa e ho aspettato il mio turno per fare una foto - ci racconta -. C'era una degustazione di vini e altra gente che si avvicinava a lui per qualche scatto. Ho aspettato un po' per non disturbarlo, poi gli ho chiesto di poter fare una foto. Al suo no stavo andando via, quando mi ha fermato per spiegarmi, come se fosse del tutto normale, che potrei essere uno 'ndranghetista». Vittorio, figlio di una poliziotta e di un carabiniere, non è riuscito ad avere alcuna reazione. È andato via, portando con sé l'amica rimasta con il cellulare in mano, pronta ad immortalare quel momento. «Lo consideravo uno dei più grandi non solo come artista, ma anche come persona. Beh, ora so che di certo come persona non lo è», aggiunge. Nessuno ha reagito alle parole di Toscani. Nessuno è intervenuto in difesa di Vittorio, che solo il giorno dopo è riuscito a metabolizzare la rabbia e l'indignazione, scrivendo un messaggio indirizzato al famoso fotografo, colui che già nel 2007, ingaggiato dalla Regione Calabria per una campagna promozionale, aveva partorito, alla modica cifra di 3,8 milioni la frase - tra le altre - "Mafiosi? Sì, siamo calabresi". «Vorrei ricordare al signor Toscani che la principale qualità di un artista dovrebbe essere l'umiltà, cosa che a quanto pare non rientra tra i termini del suo vocabolario. E vorrei dire che l'unica cosa che il suo atteggiamento provoca in me è lo sdegno - scrive Vittorio -. Mi dispiace molto di averla conosciuta e di aver perso due ore della mia vita ad ascoltare le sue parole definite "anticonformiste" e usate "per lanciare messaggi contro i pregiudizi", ai miei occhi adesso appaiono solamente come poco coerenti». Commenti al vetriolo sono arrivati da Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Calabria. «Se le cose stanno così - ha dichiarato -, Toscani farebbe bene a spiegarci se ha avuto le stesse remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria del 2007. Come si fa a fare una battuta del genere ad un ragazzo? La sua è la generazione che più patisce il fatto di aver consentito alla 'ndrangheta di proliferare in questo territorio. Lui senza provocazione sarebbe un fotografo qualunque, la sua arte è opinabile, le sue provocazioni non portano nulla. Anche perché la provocazione deve essere saggia e commisurata al soggetto che la riceve. Questa storia, purtroppo, conferma il masochismo dei calabresi - conclude -. Continuiamo ad acclamare gente che ci insulta, come Vasco Rossi o Antonello Venditti. Dico una cosa a Vittorio: non sentirti offeso, Toscani è il vuoto».

Magalli: “Mai insultato i calabresi”, la replica del conduttore sulla polemica con un video del 18/11/2016 su "La Stampa”. «Mi piacerebbe mettere la parola fine a questa polemica inutile che si sta trascinando sulla Calabria indignata. A me dispiace moltissimo che i calabresi si siano dispiaciuti per qualcosa che in realtà io non ho detto. Lo voglio chiarire: i calabresi sono ottime persone, ho passato anni di vacanze in Calabria, ho amici calabresi e conosco i loro innumerevoli pregi e conosco anche il loro principale difetto che è quello di essere permalosi». Così Giancarlo Magalli si difende dopo le accuse piovutegli addosso per la frase pronunciata il 15 novembre scorso durante I fatti vostri su Rai2, dopo la mancata risposta al telefono del telespettatore estratto, di Casignana, in provincia di Reggio Calabria. «Siete permalosi a torto perché avete giudicato qualcosa senza vederla o sentirla - prosegue -. Tutti quelli che si sono indignati e sono tanti, si sono indignati non per quello che hanno visto, ma per quello che hanno letto. Quando uno legge robaccia tipo l’Huffington Post: Magalli virgolette «I calabresi scippano le vecchiette», hanno ragione ad indignarsi. Solo che io non ho mai detto nulla del genere. Un giornale ha scritto: Magalli offende i meridionali. Io non ho mai parlato dei meridionali. Faccio questo lavoro da trent’anni, se avessi qualcosa contro i meridionali sarebbe già venuto fuori, no?» «Il problema - spiega ancora - è la cosa originaria che non era riferita a Casignana, a niente, era solo una frase detta a cavolo, dicendo: vi lamentate che non vi telefoniamo per il gioco e poi non ci siete quando vi telefoniamo, ma dove andate? A scippare le vecchiette? Una battuta, certamente cretina, ma non riferita né a Casignana, né alla Calabria, né al Meridione. Solo che chi l’ha sentita l’ha capita, tanti non l’hanno sentita e commentano il commento di un altro. Vorrei che questa cosa finisse, anche perché sta raggiungendo toni inconsulti. Speriamo che si raggiunga questa tranquillità perché ci sono cose più serie a cui pensare».

L'antimeridionalismo qualunquista di Vecchioni & company, scrive "Infoaut Palermo" il 6 Dicembre 2015. Siamo chiaramente di parte; è normale: lo siamo sempre stati. E anche meridionali - beh - come è ovvio, lo siamo sempre stati: ci siamo nati al Sud. Ci siamo cresciuti in quest'isola chiamata Sicilia; ci stiamo vivendo; ci stiamo lottando. E onestamente nella merda, a volte, anche tutt'ora, un po' ci siamo sentiti. Nella merda non perché, oggettivamente parlando, la Sicilia sia un'isola di merda; e neanche perché ogni giorno ci troviamo a dover guardare orde barbare di “senzacasco” sfrecciare per le nostre strade; o manipoli di “posteggiatori della sedicesima fila” aggravare lo storico problema del traffico palermitano. Un po' nella merda ci troviamo a sguazzare letteralmente per altri motivi. Ma su questo ritorneremo fra un attimo. “Chi sa fa, chi non sa insegna” - ecco un vecchio detto (a dire il vero forse un po' ingeneroso verso le professioni dell'insegnamento) a cui la mente ci riporta leggendo le ultime dichiarazioni del professor Roberto Vecchioni. Professore intellettuale (o almeno così considerato da molti) che, invitato qualche giorno fa all'università di Palermo a parlare di rapporti figli-genitori, ha brillantemente deciso di lasciarsi andare ad alcuni spiacevoli commenti sulla terra in cui si trovava in visita: la Sicilia. Ecco, il professore intellettuale pare abbia sentito il dovere morale di “provocare” sostenendo la tesi secondo cui la Sicilia “è un'isola di merda” andando poi a chiarire meglio il senso della provocazione: “una forzatura per smuovere le coscienze di siciliani che si accontentano di vivere tra assenza di caschi, macchine mal posteggiate, abusivismo edilizio etc.” Insomma, la Sicilia è secondo il professore “una merda” perché “incivile”. Pare anche che Vecchioni si sia lasciato andare ad un paragone non proprio di buon gusto tra una Palermo che “col cazzo che avrebbe potuto...” ed una Milano che invece ha ospitato l'Expo e i suoi 25 milioni di visitatori: e i soldi, secondo il professore, non c'entrerebbero proprio nulla. Questione di inciviltà!!! La polemica è così scatenata, il dibattito aperto. La rabbia si diffonde, ovviamente, tra la maggioranza dei siciliani; ma non fra tutti. Un altro professore, per esempio, seguito da una folta schiera di istruiti pensatori (spesso “di sinistra”), Leoluca Orlando sindaco di Palermo, si schiera a difesa dell'intellettuale milanese arrivando a sostenere che le parole di Vecchioni sarebbero “un atto di amore verso la Sicilia” perché coraggiose e realistiche. Altri, nello stesso fronte, si limitano ad apprezzare la denuncia della questione sollevata in quel discusso intervento: l'inciviltà! Ecco un primo grosso (grossissimo) problema di cui, forse, i meridionali dovrebbero assolutamente liberarsi: l'accusa di inciviltà. Che poi è quella (anche se cambiano i toni) che ci sentiamo e portiamo dietro dai tempi dell'unità italiana. Cerchiamo di valutare allora, usufruendo dello stesso vocabolario di una certa retorica dominante, cosa sia civile e cosa no. Se a Vecchioni le macchine in doppia fila e i motociclisti senza casco appaiono come grande segno d’inciviltà, un tantino più incivili ci sembrano la devastazione ambientale e umana nei nostri territori tramite petrolchimici o basi militari; d'inciviltà ci parlano le statistiche su disoccupazione giovanile e conseguente emigrazione a cui sono costretti i siciliani, o quello che è uno dei tassi percentuale di morti sul lavoro più alti d’Europa; oppure che i cittadini di Messina, Gela, Agrigento, etc, rimangano senza acqua corrente per settimane. Ospedali che chiudono, cavalcavia autostradali che crollano, collegamenti marittimi con le isole minori interrotti per settimane, decine di migliaia di precari della pubblica amministrazione continuamente a rischio reddito, insomma, “d’inciviltà” su cui il nostro intellettuale dell’ultim’ora poteva concentrarsi ce n’è parecchia in Sicilia; e ricondurre un sistema di estremo sfruttamento delle risorse umane e territoriali (che ci racconta in due parole quella che è la storia dell’imposizione italiana al meridione), a una semplice “questione culturale”, non fa di certo onore alla sua nomea d’intellettuale(?). Quello che invece in maniera tutt’altro che provocatoria, vogliamo e ci sentiamo di rintracciare anche nella citata inciviltà vecchioniana, è un atteggiamento contro le regole e le regolamentazioni che inconsciamente però, esprime un grado di rifiuto: ieri alla costrizione a un determinato sistema economico e a certi modelli di vita e di condotta sociale, oggi all’assenza totale di servizi, tutele, garanzie sociali, e di una precarietà che si fa esistenziale, e di cui la nostra regione detiene sicuramente il primato in Italia. Quindi ci chiediamo ancora: come si misura il grado di civiltà di un popolo? Dal numero di caschi? O dal numero di gente che, pur e soprattutto nei suoi tessuti più indigenti, conosce cooperazione e solidarietà molto più che in tanti luoghi civili!? Dalle auto in doppia fila o dal numero di persone che, senza casa, muoiono per le strade notturne di grandi città del nord!? Cosa c'è poi di civile nell'avere come presidente della Regione un razzista come Maroni!? O cosa ci sarà mai di civile in quel grande partito del nord come la Lega, che fa di razzismo e xenofobia i suoi manifesti politici!? A Vecchioni la parola (per la verità non ci interessa molto la sua risposta…). A questo punto non possono che tornarci alla mente le recenti polemiche televisive su altri due interventi molto discussi: quello di Massimo Giletti sull' “indecenza” di Napoli; e sempre a proposito di Napoli, il recentissimo dibattito scaturito dall'appellativo scelto da Enrico Mentana (direttore del TgLa7) per richiamare in una trasmissione calcistica un collega giornalista napoletano: “Pulcinella”. A occhi attenti, l'antimeridionalismo paternalistico ha ormai pieno titolo su media e main stream, soprattutto se sei considerato un intellettuale. Da quando poi Renzi quest’estate ha nuovamente riportato in auge la “questione meridionale” (con la solita narrazione del sottosviluppo per silenziare l’incapacità governativa di porre rimedio alle problematiche sociali ed economiche dell’Isola), sembra che chiunque (evidentemente confondendo “lo spettacolo” e l’opinionismo da tv con le analisi e le valutazioni storiche e politiche) possa permettersi di dire qualsiasi cretinata, basta che poi le facciano seguire un qualsiasi complimento sulla storia e le grandi tradizioni di un popolo per pulirsi la faccia. Come del resto Vecchioni ha già fatto con una lettera al Corriere della Sera, in cui il professore però - oltre al pulirsi la faccia - si lascia nuovamente andare in stereotipi stigmatizzanti e assai pregiudizievoli sulla “pigrizia dei meridionali” e anche che quanti non lo hanno capito sono “pusillanimi e mafiosi”. Finalmente! Ci chiedevamo come la parola mafiosi non fosse stata pronunziata dal professore nel grande logos intellettuale dei luoghi comuni. Le decine e decine di studenti e non solo che hanno abbandonato l'aula durante il suo intervento... saranno mafiosi?! Cretinate e cretini a parte, quello a cui assistiamo è il diffondersi di nuove (perchè mai abbandonate e tralasciate nelle retoriche del sottosviluppo, o della mancata modernità del sud, etc) forme di razzismo antimeridionale. Razzismo antimeridionale che tanto fa comodo alle governance, locali e nazionali, perché utili a distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero trattamento riservato al sud: un neocolonialismo petrolifero e di estrazione e sfruttamento di risorse e materie prime da far invidia a quello dell’epoca dell’unità d’Italia, a fronte di una continua scarsità di accesso a reddito, servizi e diritti sempre più negatici e sottrattici con commissariamenti e istituzionalizzazione dello stato d’emergenza. Come dire, i siciliani sapranno pure quali sono i problemi della loro quotidianità e della loro terra, in alternativa…possono chiedere a Vecchioni. Sicuramente molti siciliani si sentono offesi dalle parole del caro professore, ma non scriviamo queste righe per unirci al coro dell'indignazione: speriamo soltanto di proporre l'individuazione di vecchie/nuove forme di razzismo che finiscono per diventare anche forme di controllo delle condotte, libertà di manovra capitalistica sui territori, commissariamenti politici e repressione di classe. Perché i problemi veri non sono i “senzacasco” ma i senzacasa; e non il modo di parcheggiare ma l'assenza di servizi sociali e come detto, di accesso al reddito. E persino dell'acqua corrente!!!! e questo, a nostro modo di vedere, è la vera inciviltà. A cui i siciliani dovrebbero ribellarsi senza bisogno di professori che diano lezioni di dignità: non ne abbiamo bisogno. Infoaut Palermo

Sei parente di un mafioso? Sei un mafioso pure tu... Così chiudono le aziende, scrive il 27 ottobre 2016 “Il Dubbio”. L'intervento di Carlo Giovanardi, componente della Commissione Giustizia del Senato. Il codice antimafia stabilisce che tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva, possono essere concretamente desunti da:

a) Provvedimenti giudiziari che dispongono misure cautelari, rinvii a giudizio, condanne, ecc.;

b) Proposta o provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione ai sensi della legge 575 del 1967;

c) Degli accertamenti disposti dal Prefetto.

Con alcune piccole recenti modifiche che cambiano soltanto marginalmente la normativa. Il punto c) come si vede dà ampi poteri discrezionali ai prefetti che in tutti i provvedimenti assunti sul territorio nazionale motivano sempre l'interdittiva con queste premesse: «Atteso che, come più volte riportato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il concetto di "tentativo di infiltrazione mafiosa", in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all'accertamento operato dal giudice penale, "signore del fatto" e che la norma non richiede che ci si trovi al cospetto di una impresa "criminale", né si richiede la prova dell'intervenuta "occupazione" mafiosa, né si presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi di polizia si desuma un quadro indiziario che, complessivamente inteso, ma comunque plausibile, sia sintomatico del pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. Considerato che, per costante giurisprudenza, la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali (T. A. R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 nr. 3403; Consiglio di Stato, VI, 11 settembre 2001, nr. 4724), e che, di conseguenza, le informative in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario, poiché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico-imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati». Vediamo ora di capire come la preoccupazione del legislatore di difendere le aziende dalle infiltrazioni mafiose sia stata completamente stravolta dalle interpretazioni giurisprudenziali e dalla prassi delle prefetture, andando ben al di là del rispetto formale e sostanziale dei principi costituzionali e anche del buon senso, con un meccanismo infernale che massacra le aziende, le fa fallire e distrugge migliaia di posti di lavoro. Bisogna tener conto infatti che all'impresa colpita da interdittiva antimafia vengono immediatamente risolti i contratti in essere, bloccati i pagamenti, impedito di acquisire nuovi lavori, ecc. a tempo indeterminato, fino a che cioè, non venga meno un plausibile, sintomatico pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. E da cosa si può dedurre questo pericolo che le forze di polizia comunicano al Prefetto? Incredibilmente anche da semplici rapporti di amicizia o di parentela o di affinità con i titolari o i dipendenti della impresa ma anche con persone che con le imprese non c'entrano assolutamente nulla. Due recenti casi modenesi spiegano la follia di questa procedure. Un'impresa locale con titolare originario di Napoli, felicemente sposato con una palermitana conosciuta mentre era militare in Sicilia nell'ambito dell'operazione Vespri Siciliani, dalla quale ha avuto tre figli, assunse a suo tempo, con l'autorizzazione del giudice tutelare e l'approvazione dei servizi sociali, cognato e suocero usciti dal carcere a Palermo dopo aver scontato una condanna per attività mafiosa. Sulla base di questa circostanza all'impresa è stata negata l'iscrizione alla white list ed è scattata l'interdittiva antimafia. L'imprenditore ha immediatamente licenziato cognato e suocero ma per la Prefettura questo non era sufficiente e l'ha invitato a rivolgersi al Tar dell'Emilia-Romagna che a sorpresa ha confermato l'interdittiva con la stupefacente motivazione che malgrado il licenziamento permaneva il rapporto di parentela (semmai affinità, sic. ndr). Soltanto recentemente, dopo questa surreale decisione, il Consiglio di Stato ha finalmente riconosciuto le buone ragioni dell'imprenditore escludendo che il semplice rapporto di affinità possa essere sufficiente per mantenere una interdittiva. Nel frattempo sempre a Modena un altro imprenditore di origine campana si è visto applicare l'interdittiva, in base a precedenti penali del fratello, con il quale non ha rapporti di nessun tipo da tantissimi anni, con inevitabile fallimento e rovina per moglie e figli, decisione confermata dal Tar dell'Emilia-Romagna perché "non si esclude", pur non essendoci attualità di una situazione di pericolo, che il passato oscuro del fratello, comparso in una lista di componenti di un clan di casalesi, arrestati per ordine della Procura, possa nascondere futuri tentativi di infiltrazione. Bisogna aggiungere, per chiarezza espositiva, che diversamente dai procedimenti penali dove c'è possibilità di difesa e contraddittorio, l'imprenditore a cui viene rifiutata l'iscrizione alla white list non viene ascoltato dalla Prefettura e neppure può prendere visione egli atti che lo riguardano, che sono secretati. Di fronte a questa situazione, essendo in discussione in commissione Giustizia del Senato la riforma del Codice Antimafia, sono stati sentiti in audizione il prefetto Bruno Frattasi, attuale comandante dei Vigili del Fuoco, per anni responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero degli Interni, i Prefetti di Milano, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Modena, ecc., illustri avvocati, docenti di diritto amministrativo e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. Ad eccezione dei Prefetti sul territorio, che hanno sostenuto di vivere nel migliore dei mondi possibile e non si sono accorti di nessuna criticità, da Frattasi, i professori, gli avvocati e le associazioni degli imprenditori sono state sottolineate le incongruenze e i limiti di questo sistema ed indicate soluzioni come l'obbligo di sentire l'imprenditore, fare verificare i provvedimenti interdittivi da un giudice terzo, accompagnare l'azienda colpita da interdittiva a superare lo stato di pericolo prima che possa giungere il fallimento. Con una consapevolezza che è emersa chiaramente: la criminalità organizzata non viene minimamente scalfita da questi provvedimenti che viceversa per la loro assoluta arbitrarietà e disprezzo per l'economia reale non possono che creare disaffezione e rancore verso le istituzioni. 

Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu…, scrive Tiziana Maiolo il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ndranghetista. Colpevole di “inconsapevolezza”, l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) “Festival dello stocco di Mammola”, per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma “l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata”. Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei “garantisti”) come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di “tradimento”, perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conseguenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato.

«Tuo cugino forse è mafioso dunque tu sei impresentabile». I ragionamenti di Claudio Fava e la caccia alle streghe, scrive Davide Varì il 2 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Da quando la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi ha annunciato che no, stavolta la black list degli impresentabili siciliani non arriverà in tempo per le elezioni del 5 novembre, sull’isola si è ufficialmente aperta la stagione della caccia alla parentela mafiosa. L’obiettivo è quello di delegittimare e screditare il più possibile gli avversari accusandoli di aver imbarcato nelle proprie liste boss, vice- boss, semplici affiliati o, quando proprio non si trova niente di meglio, amici e parenti di mafiosi. E tra i cacciatori di taglie più attivi c’è Claudio Fava, candidato governatore della sinistra. L’ultima rivelazione del vicepresidente dell’Antimafia, che evidentemente ha spulciato come un segugio i casellari giudiziari di mezza Sicilia, riguarda la lista del candidato grillino Giancarlo Cancelleri. Tra le fila di quest’ultimo si sarebbe infatti insinuato il cugino di un boss: «Nella lista di Palermo dei 5stelle è candidato Giacomo Li Destri, cugino di primo grado dell’omonimo Giacomo Li Destri, sotto processo per associazione a delinquere di stampo mafioso e ritenuto referente di Cosa Nostra a Caltavuturo», ha infatti denunciato Fava che poi ha sentenziato: «Si tratta di una candidatura inopportuna politicamente e moralmente». Che poi il Li Destri sia ancora sotto processo e dunque sia un boss soltanto presunto, è questione di lana caprina che a Fava interessa assai poco. Come del resto non gli interessa che il candidato non è il Li Destri” presunto boss, ma il Li Destri” cugino. Del resto la trovata del cosiddetto reato di parentela mafiosa non è certo cosa recente. Da Napoli in giù, non c’è elezione in cui l’albero genealogico dei candidati non venga sezionato, tanto da diventare parte integrante del curriculum dell’aspirante onorevole. E non importa che la Cassazione e i Tar di mezza Italia abbiano negato qualsiasi consequezialità nel rapporto di parentela tra un candidato e il parente mafioso o presunto tale, la battaglia sul reato di parentela prosegue senza sconti. Insomma, gran parte della campagna elettorale siciliana non si gioca sull’economia di una delle regioni più povere d’Europa, né sui cavalcavia che crollano come castelli di sabbia o sulle ferrovie anteguerra. Nulla di tutto questo: il cuore dello scontro si ha sui cosiddetti impresentabili. Tanto che per attaccare il candidato del centrodestra Nello Musumeci, il dem Fabrizio Micari ha addirittura scomodato Goethe: «Musumeci si è venduto l’anima al diavolo come il dottor Faust. Si è accollato gli impresentabili pur di provare a farcela. Ha persino detto di aver saputo degli impresentabili dai giornali… sì, evidentemente dalle pagine di cronaca nera». Ma l’ultima parola, almeno fino a oggi, se l’è presa Totò Cuffaro il quale è l’unico che parla di politica: «Meno male che mi hanno interdetto il diritto di voto, vedere il Leghista Salvini che spadroneggia in Sicilia mi fa ribollire il sangue».

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

Mafia, un brand di successo, scrive il 4 agosto 2017 Attilio Bolzoni su "La Repubblica". E' la parola italiana più conosciuta al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. La troviamo in tutti i dizionari e in tutte le enciclopedie di ogni Paese, dal Magreb all'Australia, dall'America Latina al Giappone. Ha la sua etimologia probabilmente nell'espressione araba "maha fat”, che pressappoco vuol dire protezione o immunità. Quando un italiano - e soprattutto un siciliano - va all'estero, la battuta è sempre una, immancabile: «Italia? Mafia. Italiano? Mafioso». E poi giù una risata. Come se l'argomento fosse divertente. La parola mafia non ha sempre avuto lo stesso significato. Un secolo fa rappresentava una cosa, un'altra negli Anni Cinquanta e Sessanta, un'altra ancora dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Ufficialmente esiste dal 25 aprile del 1865 - quando il termine "Maffia", scritto con due effe, apparve per la prima volta in un rapporto ufficiale inviato dal prefetto Filippo Antonio Gualterio al ministro dell'Interno del tempo - ma ha avuto la sua incubazione almeno un secolo prima. Nel Regno delle Due Sicilie c'erano sette e unioni e "fratellanze" con a capo un possidente, un notabile e spesso anche un arciprete. Fenomeno tipico della Sicilia e delle regioni meridionali - in Campania è camorra e in Calabria 'ndrangheta - secondo i funzionari governativi di quegli anni «era incarnata nei costumi ed ereditata col sangue». Per letterati e studiosi delle tradizioni popolari come Giuseppe Pitrè «il mafioso non è un ladro, non è un assassino ma un uomo coraggioso...e la mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della propria forza individuale». Dal 9 settembre del 1982 essere mafioso in Italia è reato. Dal 30 gennaio del 1992 - sentenza della Corte di Cassazione sul maxi processo a Cosa Nostra - la mafia è considerata un'associazione criminale e segreta. Ma nonostante ciò la parola mafia è diventata un "marchio" di qualità, un brand di successo. Nel febbraio del 2014 sono andato in Spagna per realizzare un reportage su una catena di 34 ristoranti che si chiamano "La Mafia se sienta a la mesa", la mafia si siede a tavola.  Ai loro clienti offrono una carta fedeltà e una "zona infantil" riservata ai bambini con speciali menu. Per fortuna la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi ha portato avanti una battaglia attraverso il ministero degli Esteri e, dopo un paio d'anni, l'Ufficio Marchi e Disegni dell'Unione Europea ha censurato i proprietari della catena di ristoranti spagnoli accogliendo un ricorso dell'Italia «per l'invalidità del marchio». In Austria hanno pubblicizzato un "panino Falcone", nome del giudice grande nemico dei boss ma che «purtroppo sarà grigliato come un salsicciotto». In Sicilia si vendono da sempre gadget inneggianti ai mafiosi, pupi con la lupara, tazze con il profilo del Padrino-Marlon Brando, magliette e adesivi che fanno il verso a Cosa Nostra. In Germania ha grande mercato da qualche anno la musica della mafia, spacciata anche da alcuni miei colleghi tedeschi come «autentica cultura calabrese». Ho ascoltato una canzone "dedicata" all'uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Comincia così: «Hanno ammazzato il generale/non ha avuto neanche il tempo di pregare...». Oscenità smerciate come tradizione popolare.

LA MAFIA SIAMO NOI!

La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!).

«L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Antonio Giangrande. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese.

Reggio Calabria, il suicidio di Maria Rita Lo Giudice figlia di una famiglia di 'ndrangheta. La ragazza, 24 anni, si è tolta la vita domenica gettandosi giù dal balcone di casa. Aveva cercato riscatto negli studi, che la stavano portando lontana dalla sua terra. Il procuratore capo Cafiero de Raho: "Una sconfitta per tutti", scrive Alessia Candito il 4 aprile 2017 su "La Repubblica". "Maria Rita Lo Giudice si è tolta la vita e questo deve toccare la coscienza di tutti. Se c'è una ragazza che si è fatta strada nella vita scolastica per la propria onestà, ha conseguito una laurea che è strumento per sottrarsi alla famiglia di 'ndrangheta di cui fa parte e non siamo capaci di integrarla abbiamo perso tutti quanti". È con voce seria e sinceramente commossa che il procuratore capo della Dda di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, è intervenuto sul suicidio della nipote 24enne del boss pentito Nino Lo Giudice, che domenica mattina si è lanciata dal balcone della casa in cui viveva con la madre senza lasciare alcun biglietto. "È un fatto gravissimo di cui siamo responsabili tutti quanti - dice Cafiero de Raho - Il cambiamento in questa terra arriverà quando le famiglie di 'ndrangheta capiranno che l'onestà premia e avvantaggia più della criminalità, ma abbiamo perso una ragazza che stava provando a percorrere un cammino diverso perché non abbiamo avuto la sensibilità di comprendere che ci sono mutamenti a cui tutti devono concorrere". Quello di Maria Rita era un cognome noto a Reggio Calabria. Il padre, come molti degli zii e dei cugini, è in carcere per mafia. Un'ombra pesante, che la ventiquattrenne aveva tentato di scacciare con un percorso di studi brillante. Laureata a pieni voti in Economia nell'ottobre scorso, Maria Rita aveva deciso di proseguire l'università e circa un mese fa con docenti e colleghi di facoltà era partita per Francoforte e Bruxelles, per un viaggio di istruzione alla sede della Banca Centrale e agli uffici della Commissione Europea. Un viaggio immortalato in decine di scatti, pubblicati su Facebook dalla ragazza, evidentemente fiera di un percorso che la stava portando lontano da Reggio Calabria, dove il suo cognome è sempre stato sinonimo di 'ndrangheta. Un'onta di cui Maria Rita sentiva il peso, come dell'ostracismo sociale che a Reggio Calabria ne deriva, ma che non l'aveva indotta a disconoscere la famiglia. "La ragazza non ha mai rinnegato il padre, anzi era la prima ad interessarsi delle sue vicende giudiziarie. Aspettava con ansia la discussione del caso del genitore in Cassazione e si sentiva diversa dai parenti", dice l'avvocato Russo, che assiste da tempo la famiglia. Per conto dei genitori e del fratello della ragazza, il legale questa mattina ha presentato un esposto in procura chiedendo che venga effettuata un'autopsia sul corpo di Maria Rita. "La madre ha detto di averla trovata molto strana, alterata la sera prima del suo suicidio ed è un particolare che le è rimasto in mente perché la ragazza non beveva, non fumava e mai avrebbe assunto stupefacenti. Per questo hanno chiesto alla procura di esplorare ogni possibile pista sulla morte della ragazza", spiega l'avvocato. Una richiesta che i magistrati hanno accolto, disponendo immediatamente un'autopsia completa sul corpo della ragazza. Inizialmente fissati per domani, i funerali di Maria Rita sono stati rimandati. Chi vorrà salutarla dovrà attendere che le indagini siano complete. 

La denuncia del procuratore De Raho. Reggio Calabria, il suicidio di Maria Rita figlia di 'ndrangheta: "L'abbiamo lasciata da sola". Dalle testimonianze delle persone più vicine sembrerebbe che il gesto sia stato scatenato da quel peso troppo grande da sopportare. Quello di un cognome macchiato per sempre: il padre e gli zii sono in carcere per mafia, membri di uno dei clan calabresi più potenti, scrive il 5 aprile 2017 "Rai news". La sua morte "è un fatto gravissimo". E' quanto ha dichiarato il Procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia, Federico Cafiero De Raho parlando della morte di Maria Rita Logiudice, la ragazza di 25 anni che si è tolta la vita domenica scorsa a Reggio Calabria gettandosi da un balcone. La giovane non ha lasciato alcun biglietto. Dai verbali depositati dai carabinieri e contenenti le dichiarazioni del fidanzato, gli amici e le persone vicine alla famiglia, sembrerebbe chiaro che il gesto sia stato scatenato da quel peso troppo grande da sopportare. Quello di un cognome macchiato per sempre: il padre e altri zii si trovano in carcere per mafia; lo zio, ora collaboratore di giustizia, è stato a capo di uno dei clan più potenti: quello dei Logiudice per l'appunto. Il Procuratore ha aggiunto: "Credo che debba toccare la coscienza di tutti, perchè credo che siamo tutti responsabili di fatti come questo". "Eppure - ha detto Cafiero de Raho - l'abbiamo persa perchè non abbiamo avuto la sensibilità di comprendere che ci sono momenti in cui tutti devono concorrere. Ho parlato con il prefetto, con il presidente della Corte d'Appello Luciano Gerardis, con Luigi Ciotti, con padre Giovanni Ladiana, con tutti quelli che mi sembrano le persone particolarmente sensibili. Lo stesso Ciotti mi ha chiamato con le lacrime agli occhi. E' un fatto di una gravità senza pari". "Se noi perdiamo queste occasioni - ha detto ancora Cafiero De Raho - per recuperare la libertà, l'onestà, l'etica, non abbiamo più nessuna speranza per il nostro futuro. Se diciamo ai ragazzi cambiate vita, e poi quando cambiano vita li isoliamo, li emarginiamo, non diamo nessun sostegno". Il prefetto Michele Di Bari ha convocato per oggi un comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica finalizzato ad attivare un focus sul disagio sociale che vivono alcuni giovani appartenenti a famiglie di 'ndrangheta. Sul caso stanno ancora indagando le forze dell'ordine.

Figlia del boss suicida, Maria Rita Logiudice è morta di solitudine, scrive Angela Corica il 4 aprile 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il ruolo delle donne nel contesto mafioso è un fenomeno ancora da studiare in ogni sua sfaccettatura. Donne sono le mogli dei boss che spesso sanno tutto, ascoltano i discorsi dei propri mariti che parlano ad altri mafiosi, custodiscono i segreti dell’organizzazione criminale e, come abbiamo visto in numerose operazioni, spesso sono anche complici, svolgendo un ruolo attivo (a differenza di un tempo) come tesoriere dell’organizzazione criminale. Ci sono poi le madri dei vecchi boss. Nei paesini le riconosci subito, sempre vestite di nero, con lo sguardo fisso a terra, rassegnate a vivere un’esistenza a metà. Queste donne sono anche sorelle, parenti, figlie dei mafiosi. E figlia di un mafioso era Maria Rita Logiudice, come ha raccontato ieri Lucio Musolino sul Fatto Quotidiano, una bella ragazza di 25 anni, apparentemente felice nelle sue foto pubblicate su Facebook, con una vita normale. Gli amici, il fidanzato, i viaggi, l’università e qualche soldo che certamente in famiglia non mancava. Eppure ha scelto di farla finita, lanciandosi dal balcone della sua casa di Reggio Calabria. Ha deciso di lasciare questo mondo senza un biglietto di addio, senza dare spiegazioni a nessuno. Dai verbali depositati dai carabinieri e contenenti le dichiarazioni del fidanzato, gli amici e le persone vicine alla famiglia, sembrerebbe chiaro che il gesto di Maria Rita sia stato scatenato da quel peso troppo grande da sopportare. Quello di un cognome macchiato per sempre. Suo padre, Giovanni, era in carcere come esponente della cosca Logiudice, mentre lo zio, Nino, è un collaboratore di giustizia. Quel cognome, nella città in riva allo Stretto, racconta di estorsioni, usura, donne sparite misteriosamente. Racconta di omicidi, vendette, sangue sparso per garantire l’onore della famiglia e mai l’amore. E forse, quella piccola donna che ha scelto lo studio come via di emancipazione, ha sentito troppo forte il peso di quel cognome. Non ha sopportato tutte le volte che il suo nome è stato accostato alla morte di qualcuno, alla violenza e al terrore. Quella di Maria Rita è una storia nuova per chi nasce, cresce e vive nelle famiglie criminali. È la storia di chi ha voluto interrompere per sempre quella catena che, suo malgrado, la teneva legata alla sua famiglia. Le indagini faranno maggiore luce su questa vicenda ma colpiscono le parole del procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, il quale ha affermato che Maria Rita è “morta di isolamento” aprendo una finestra su una realtà che fino ad ora avevamo scarsamente considerato. “Se non siamo capaci di interagire con chi cerca un futuro alternativo alla ‘ndrangheta – ha affermato De Raho – abbiamo perso tutti quanti. Se noi diciamo ai ragazzi di cambiare vita e poi non siamo in grado di integrarli, di sostenerli, il cambiamento che tutti auspichiamo non arriverà mai”. In queste parole è racchiuso il senso del gesto di Maria Rita. La sua voglia di cambiare che si scontra con una realtà in cui spesso questo cambiamento non è ancora possibile. Cosa avremmo fatto se la figlia di un potente boss ci avesse teso la mano chiedendoci amicizia? Avremmo parlato male di lei alle nostre spalle? L’avremmo fatta sentire inadeguata qualche volta? E davvero si sentiva libera? Il punto è che in questi anni in cui tutto è mafia e siamo perseguitati da eventi più o meno mafiosi, il ruolo delle vittime ci appare sempre più lontano. Il contesto è cambiato e c’erano state già altre donne che ci avevano indicato una strada diversa, come la povera Maria Concetta Cacciola, e tante altre come lei. Ma non abbiamo saputo interpretare i loro messaggi, la loro voglia di fuggire da un mondo che non gli appartiene. Quanto può tormentare un cognome pesante come quello dei Logiudice per una ragazza che sogna un futuro lontano da dolore e morte, da carceri e omertà? Questa storia ci insegna anche come spesso per molti di noi, nati e cresciuti in luoghi con una forte presenza mafiosa, lo studio rappresenti un’arma di riscatto che ci fa vedere la realtà con molta più lucidità e ci indica la strada da seguire. Meno efficace è la retorica che spesso accompagna eventi, convegni, manifestazioni che, come vedete, non portano a nulla. Perché è giusto parlare di mafia e parlarne ovunque se nel contempo si comprende la realtà che ci circonda e si agisce per tutelare le vittime, prima di raccontare le loro storie nei prossimi convegni. È vero, forse Maria Rita è morta di isolamento. Ognuno di noi può fare la sua parte affinché non accada mai più.

La mafia, i padri, i figli, scrive Antonella Boralevi il 5/04/2017 su “La Stampa”. Un suicidio è il mistero. Nulla è dato di sapere della morte di Maria Rita Logiudice, 24 anni, laureata in Economia con il massimo dei voti. Nemmeno se è davvero un suicidio, perchè la mamma dice che, la sera prima, l’ha vista “alterata” e l’avvocato della famiglia, Renato Russo, ha chiesto l’autopsia. Indaga il procuratore Cafiero de Raho, che ha detto. “E’ un episodio gravissimo che deve toccare la coscienza di tutti. Siamo tutti responsabili di questa tragedia”. Maria Rita Logiudice era nipote di un boss della ’ndrangheta e figlia di Giovanni, condannato in appello a 16 anni per mafia. Si sarebbe confidata con alcuni compagni di facoltà, per questo sarebbe stata isolata e, per questa solitudine, si sarebbe uccisa.  Ogni morte è un mistero, è un mistero il momento in cui si sceglie di staccarsi dalla vita, ma in questa morte di una ragazza di Reggio Calabria, che le foto ci mostrano con un sorriso timido mentre stringe il Diploma di Laurea e un mazzo di rose rosse, io credo che la mafia non sia innocente. La mafia uccide prima di tutto i suoi figli. Venticinque anni fa, il 26 luglio, si uccise Rita Atria, che indicò a Paolo Borsellino le responsabilità dei familiari e divenne testimone di giustizia. Non so se davvero i mafiosi, come ci mostrano i film e i romanzi, crescano i figli come bene prezioso e loro proprietà. Ma so che un padre che sceglie la mafia, sceglie anche per i suoi figli. Li obbliga a portarsi addosso un destino che non hanno potuto decidere. E allora, forse, per alcuni, la morte appare come l’unica liberazione possibile. 

La mafia siamo noi (e facciamo finta di non saperlo), scrive il 4 marzo 2017 Salvo Ognibene su "Articolo 21". Rita Atria, testimone di giustizia morta suicida a soli diciassette anni scriveva nel suo diario: “prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”. Parole forti, fortissime, che trovano ampio spazio in “la mafia siamo noi” di Sandro De Riccardis dove l’autore approfondisce il pensiero di Rita Atria, sviscerandolo nella realtà in cui viviamo oggi: “Siamo noi quando con i nostri like su Facebook ci sentiamo dalla parte dei giusti, in una battaglia che non stiamo combattendo. Siamo noi davanti alla tv, spettatori inermi davanti a fiction cariche di retorica”. Pura e semplice realtà di come l’indifferenza oggi si nasconda dietro uno schermo. De Riccardis spiega complicità e silenzi che aiutano le organizzazioni mafiose e se da un lato racconta quell’Italia che china la testa pur di non vedere, dall’altro c’è il racconto del belpaese che resiste. Una parte importante del testo è dedicata a storie come quella di Renata Fonte ma anche all’ “antimafia con i mafiosi”. E poi un’interessante riflessione sulla Chiesa senza compromessi che “incide la crosta della civiltà” come diceva don Tonino Bello. Scrive l’autore: “La mafia è l’incapacità della società di reagire, l’indifferenza in cui lascia che le cose accadano. Siamo noi quando non vediamo o facciamo finta di non vedere. Noi che non ci chiediamo: Io che cosa posso fare?” Una domanda a cui a volte manca una risposta ma che spesso, spessissimo, viene posta dai ragazzi nelle scuole durante i tanti incontri sulla legalità, a dimostrazione che il buon vivere civile è assai vivo nei giovani e che l’impegno comune dei cittadini che credono in un progetto di riscatto è più forte della paura e dell’immobilismo. A volte basta solo porsi le domande e trovare qualcuno che, come De Riccardis, ci suggerisce come farlo nel modo migliore.

Libri, è uscito "La mafia siamo noi". De Riccardis spiega complicità e silenzi che aiutano cosche, scrive il 7 febbraio 2017 "Ansa”. La mafia è "il funzionario comunale che chiude un occhio e firma atti che non dovrebbe firmare", ma anche "lo studente che acquista pochi grammi di marijuana per una serata con gli amici" e tutti "noi, inconsapevoli strumenti di riciclaggio quando pranziamo nei ristoranti, balliamo nei locali, facciamo shopping nei negozi acquistati dai colletti bianchi dei clan". 'La mafia siamo noi' è il titolo 'duro' di un libro da poco pubblicato da Add Editore e scritto da Sandro De Riccardis, giornalista di cronaca giudiziaria per 'la Repubblica', che in 240 pagine racconta molte storie da cui emerge anche che "l'impegno condiviso di cittadini che credono in un progetto di riscatto è più forte della paura e dell'intimidazione". De Riccardis, che ha seguito le più importanti inchieste sulla corruzione e sulla criminalità organizzata negli ultimi anni, mostra come "ingegneri, geometri, architetti, lobbisti, medici, cancellieri di tribunali, piccoli e grandi imprenditori" siano "gli uomini più preziosi per le cosche, perché mentre i politici cambiano a ogni mandato, la rete di funzionari e burocrati della pubblica amministrazione resta sempre lì, dove una firma può valere milioni di euro". E allo stesso tempo presenta una verità difficile da digerire: "La mafia siamo noi quando non ci chiediamo 'Io che cosa posso fare?' nel luogo in cui siamo, nel tempo che viviamo, nel degrado delle nostre città, nel nostro quartiere, nel cortile del nostro condominio". Di fronte al 'cancro' delle mafie che pervade tutta Italia, da nord a sud, ciò che necessario è anche guardarsi allo specchio per prendere coscienza che "la mafia siamo noi che non capiamo che il crimine non è una categoria astratta. È l'imprenditore, ad esempio, che accetta il denaro sporco e lo rimette nell'economia sana", ma anche "la signora che chiama il potente del quartiere per riavere l'auto appena rubata".

La mafia siamo noi, nessuno si senta escluso, scrive Riccardo Lo Verso il 29 novembre 2011 su "Di Palermo". Dal parrucchiere che presta ai boss il suo locale al titolare della boutique che ha cresimato la figlia di Nicchi: ecco Palermo e i suoi laceranti paradossi. La mafia siamo noi. Nessuno si senta escluso. Noi tutti che la alimentiamo con piccole azioni quotidiane. Forse (?) è per questo che Cosa nostra sopravvive alle indagini. La differenza, e non è poco, sta nella consapevolezza dei nostri comportamenti. La mafia è nelle forbici dello sciccoso parrucchiere che, mentre taglia i nostri capelli, presta il retrobottega ai picciotti per i summit. La mafia è nei vestiti che indossiamo, esposti nella scintillante vetrina di un commerciante del centro città che ha cresimato la sorella di Gianni Nicchi. Gli ha pure fatto avere le foto della figlia appena nata. Sapete, il giovane boss aveva un problemino: era latitante. La mafia è nei colorati cocktail che beviamo, serviti dal titolare del pub che nel tempo libero trascorreva le vacanze a Lipari con la famiglia dell’astro nascente di Cosa nostra. La mafia è nei pregiati tappeti che calpestiamo sotto i nostri piedi, acquistati dal negoziante che non disdegnava un tuffo al mare, a Solunto, con gli amici degli amici. Potrei proseguire nella descrizione di una certa borghesia mafiosa, come viene spesso definita, nella quale mi sono imbattuto firmando alcune inchieste sul mensile S. Mi fermo per non spostare l’attenzione dal cuore del tema: la consapevolezza. La mafia, da tempo, ha smesso di puzzare. Alcuni, per la verità, il cattivo odore non lo hanno mai sentito. Amano sguazzarci. Figuriamoci ora che la feccia profuma. E per di più di una fragranza a noi familiare. Come diavolo facciamo a riconoscere i mafiosi? Si dice, a ragione: chi non denuncia il pizzo non ha più alibi. E’ vero. Uno che si presenta con tono minaccioso nel tuo negozio è un pugno nello stomaco alla tua dignità e alla tua serenità. Non può dire di non averlo visto. Al netto della paura, non puoi fare finta di niente. Esiste, però, una mafia diversa. Che mafiosa lo è per gli atteggiamenti, per le connivenze, per le amicizie che coltiva e non certo per un santino che brucia. Ecco, è qui che la situazione si complica. Si complica perché i mafiosi è difficile riconoscerli o magari, accettatela come una provocazione, perché è più facile confondersi tra di loro. Possiamo scimmiottarne i comportamenti, tra un drink e l’altro, tanto un giorno potremo sempre dire “e io che ne sapevo?”

Riciclaggio, fiumi di denaro e consumi di tutti i giorni: quando "La mafia siamo noi". Il libro del giornalista di Repubblica, Sandro De Riccardis, spiega come i clan abbiano colonizzato l'economia. E racconta le storie di chi, nella vita di tutti i giorni, lotta per la riaffermazione della legalità, scrive il 25 marzo 2017 "La Repubblica". Una mafia sempre più invisibile che non spara e non uccide, ma che silenziosa si infiltra nell'economia, conquista pezzi di tessuto produttivo con la prepotenza imprenditoriale di chi ha un'immensa quantità di denaro a disposizione. In "La mafia siamo noi", il cronista giudiziario di Repubblica, Sandro De Riccardis, racconta anche la colonizzazione dell'economia legale da parte dei clan che riciclano capitali sporchi scalando, non sempre amichevolmente, le imprese in crisi o acquisendo bar, ristoranti, locali, discoteche. Impossessandosi di pezzi dell'industria italiana del divertimento e del turismo. "Sulle piste da ballo, nei dehors degli aperitivi, tra i tavoli dei ristoranti, nelle notti del nostro divertimento si perfeziona la più capillare operazione di riciclaggio, con i contanti provenienti dal traffico di droga, dalle estorsioni, dallo sfruttamento della prostituzione che vengono reintrodotti nell'economia legale - si legge nel libro -. Un flusso inverso a quello che siamo abituati a immaginare: i capitali freschi si muovono dalle zone più arretrate del Paese per conquistare quelle più sviluppate". Tutto questo - è il filo conduttore di "La mafia siamo noi" - richiama a una maggiore consapevolezza sulle nostre abitudini e i nostri consumi. Perché spesso rischiamo di diventare "inconsapevole strumento di riciclaggio quando pranziamo nei ristoranti, balliamo nei locali, facciamo shopping nei negozi acquistati dai colletti bianchi dei clan". "La mafia siamo noi" è un lungo viaggio nella società civile, attraverso le storie di chi per - indifferenza o connivenza - favorisce la crescita e il consolidamento della criminalità organizzata sul territorio. Ma anche di chi si ribella e prova a cambiare lo stato delle cose. Racconta la svolta antimafia di Confindustria del 2007 con il primo "Codice etico" che sancisce l'incompatibilità tra l'iscrizione all'associazione degli industriali e forme di complicità con le cosche, ma anche come la scelta di campo dell'associazione di categoria sia stata messa in crisi dalle contraddizioni e dai sospetti di contiguità alla mafia di alcuni tra i suoi principali esponenti. Ricostruisce la strenua lotta della per la legalità e la libertà d'impresa di imprenditori del passato, come Libero Grassi, ucciso da Cosa Nostra nel 1991, ma anche le denunce solitarie di imprenditori di oggi come il pasticcere di Cinisi, Santi Palazzolo, o il meccanico del Comasco, Vincenzo Francomano, che credono nello Stato e fanno arrestare i loro estorsori. "Non mi piace l'antimafia strombazzata ai quattro venti, l'antimafia spettacolo - dice il pasticcere siciliano -. L'antimafia vera si fa ogni giorno e la devono fare tutti i cittadini, nel loro piccolo, rispettando le regole.

Quella vera la fanno i cittadini che si alzano tutte le mattine e che fanno rispettare le regole, insomma che fanno il proprio dovere. Noi abbiamo un patto etico: i fornitori vanno pagati alla scadenza, gli stipendi vanno pagati sempre quando previsti. Questo è il rispetto degli altri. Ho sempre detto ai miei figli che ognuno di noi deve fare la propria parte".

E se la mafia fossimo noi? “La mafia siamo noi”, il libro di Sandro De Riccardis prova a smontare la retorica della Lombardia “calvinista” e la cortina di di coperture, depistaggi, omissioni e svarioni: chi cerca la mafia trova sempre la borghesia, scrive Federigo Borromeo il 3 febbraio 2017 su "Popoff". Un giudiziarista, nel gergo dei mass media, è colui che si occupa di cronaca nera e di crimine nei quotidiani. Sandro De Riccardis fa questo mestiere in quel di Milano con puntate/escursioni anche in altre città. E’ un mestiere fatto anche di corridoi e di attese al tribunale ovvero in questura, sempre alla ricerca di fonti affidabili e informati, certe volte all’addiaccio nei luoghi squallidi dei delitti o di eventi criminali gravi. Dalla sua bisaccia di fatti e ricordi De Riccardis distilla quelli di mafia e crimine organizzato nel suo volume appena uscito “La mafia siamo noi” (add editore). L’inizio del libro è taglia-fiato perché smonta le retorica di molto associazionismo antimafia politically correct, che in taluni casi si rivela addirittura un grancassa delle mafie: viene descritto quanto avvenne a Milano recentemente col circolo Arci “Falcone-Borsellino”, che ospitava le cene della struttura portante della ndrangheta milanese. L’attività antimafia di impulso non giudiziario o inquirente è una cosa seria, ruvida, rischiosa, difficile: chi non ricorda Fava e la splendida figura di Peppino Impastato, lontani miglia dall’animabellismo imperante! Anche il mito della Lombardia industriosa, quasi calvinista, sostanzialmente avversa al crimine organizzato viene spazzato via; scrive de Riccardis a proposito dell’omertà della Lombardia “dai tempi dei 154 arresti dell’indagine Infinito del 2010, oltre 500 affiliati alla ndrangheta sono finiti in carcere in Lombardia. Prima e dopo lo storico blitz del 13 luglio 2010, mai un imprenditore si è presentato in procura o alle forze dell’ordine per denunciare una minaccia o un attentato”. Anzi troviamo un capitolo a tutto tondo “la Borghesia mafiosa” dove si parla del ruolo di complicità o di copertura di stuoli di ingegneri, geometri, medici, cancellieri, magistrati, imprenditori. Il ruolo della mafia del mattone, in romano si direbbe i palazzinari, parte dalla famigerata situazione di Foggia e zone limitrofe sotto i riflettori dagli anni 90 per estendersi come analisi al Nord Italia. Anche per i luoghi del divertimento ormai in mano sovente alle mafie, discoteche, happy hour, ristoranti c’è un capitolo a tutto tondo, che evidenziano i veri aspetti peculiari: il riciclaggio e lo spaccio. Sempre a proposito del Nord De Riccardis parla dell’omicidio del giugno 1983 del Procuratore Bruno Caccia a Torino, attribuito in un primo momento e comodamente alle BR: fu un omicidio extra moenia della ndrangheta (su Caccia è uscito di recente un documentato libro di Paola Bellone , Tutti i nemici del procuratore, l’omicidio di Bruno Caccia), forse solo in questi mesi si potrà far luce fino in fondo su questo omicidio, non prescrittibile, sulle cui indagini ci sono state per decenni nebbie di coperture, depistaggi, omissioni e svarioni a bizzeffe. Forse nel volume si sente l’assenza di una dettagliata descrizione del crocchio di interessi a Milano tra fascisti, ultrà e grande spaccio di eroina e cocaina; ma forse servirebbe lo spazio di un libro a parte. De Riccardis passa infine al vaglio alcune iniziative vere di attività antimafia di talune associazioni e di gruppi cattolici di base territoriali. Attività senz’altri interessanti, ma che rivelano delle disarmanti evidenze. Per esempio c’è il caso dei ragazzi del Cortocircuito in Emilia che si mettono a cercare dati sui giornali, con le visure della Camera di commercio e quelle catastali e le certificazioni antimafia dapprima su una strana discoteca e arrivano alla Ndrangheta; sempre con lo stesso sistema controllano la situazione di alcuni appalti pubblici e trovano aziende affidatarie i cui dirigenti erano sotto inchiesta in altre Procure d’Italia. Ma il problema è proprio questo: non ci vuole molto a rinvenire le tracce delle mafie, per i casi più complessi occorre la Guardia di Finanza, lo SCO, le verifiche sui movimenti da capitali di parte di Bankitalia, le intercettazioni. Manca la volontà politica di fare male veramente alle mafie. Ma questo non è cosa di questo libro, questo è compito della scienza delle finanze e della politica, oggi avvitate su altro. Ricordo di aver posto qualche anno fa a un economista, oggi Ministro PD, ex PCI, del Governo Gentiloni: qual è il ruolo vero nel PIL italiano delle mafie e come si può intervenire? La risposta fu netta e laconica “Il problema sostanzialmente non esiste”.

Siamo tutti un po’ mafiosi, che ci piaccia o meno. Nel suo libro “La mafia siamo noi”, Sandro De Riccardis realizza una mappa precisa delle mafie di oggi, raccontando una società connivente e spesso ignara della criminalità, scrive Memorie di una vagina il 24 Febbraio 2017 su "L’Inkiesta". È uscito da poche settimane, pubblicato da Add Editore e si chiama La Mafia Siamo Noi. È il primo libro di Sandro De Riccardis, cronista giudiziario di Repubblica, che dopo 10 anni di inchieste sui principali scandali di corruzione politica e criminalità organizzata, decide di realizzare una mappa precisa della mafia - anzi, delle mafie - oggi.

Cos'è oggi la mafia? Com'è cambiata? Chi sono i mafiosi? E, soprattutto, perché saremmo mafiosi anche noi?

De Riccardis risponde tracciando linee, unendo punti solo apparentemente distanti del nostro paese, raccontando storie di una società connivente e spesso ignara, ma anche testimonianze di coraggio e di impegno civile, e fa tutto questo con la lucidità del giornalista, con il mestiere di chi privilegia i fatti alle interpretazioni, di chi rifugge le ramanzine retoriche e ci presenta i nomi, le date, gli eventi. Insomma, la storia (anche recentissima) e non la fiction. L'ho intervistato a Milano, bevendo una birra sui Navigli, parlando di mafia, di cultura, di educazione, di cosa potremmo o dovremmo fare noi, cittadini "normali", per non diventare complici inconsapevoli di dinamiche mafiose.

Quando è nata l'idea del libro?

«Non c'è stato un momento preciso. Il libro racconta vicende che vanno dagli anni Ottanta ad oggi. Da quando ero studente, in Puglia, negli anni del maxi-processo alla Sacra Corona Unita, fino alle inchieste più recenti, qui, in Lombardia, che ci dimostrano come esista un fil rouge che attraversa il Paese, da nord a sud; come la mafia sia profondamente radicata nella nostra società e, nonostante ciò, sia vissuta come un fatto a sé stante, diverso da noi, come se ci fosse una parte criminale, malata se vogliamo, distinta dal corpo sano della società civile, che saremmo noi».

E non è così?

«No, perché la mafia non è solo quella dei boss e dei picciotti. La mafia sono gli ingegneri, i geometri, gli architetti, i lobbisti, i medici, i cancellieri dei tribunali, i piccoli e i grandi imprenditori. La mafia è la rete di funzionari e burocrati della pubblica amministrazione che consente alla malavita di sopravvivere ai cambiamenti politici. È il network che resta sempre lì, dove una firma può valere milioni di euro e negarla può costare la vita».

Ma la mafia è anche un fatto culturale...

«Senza dubbio. La mafia è anche la signora che chiama il potente del quartiere per riavere la macchina rubata, è il funzionario comunale che chiude un occhio, è il ragazzo che compra un po' d'erba per far serata con gli amici, è il prete che non guarda al di là della propria parrocchia. Di certo la mafia non è quella che ci hanno raccontato le fiction televisive generaliste. Fiction che hanno anzi incontrato il favore dei clan, proprio perché contribuivano ad alimentare un'immagine posticcia ed estremamente parziale della criminalità. La mafia è profondamente radicata nella nostra società, e nonostante ciò, è vissuta come un fatto a sé stante, diverso da noi. L'indifferenza è un grande alleato della criminalità. Forse il più grande».

Possiamo quindi dire che esiste una retorica anti-mafia che piace anche alla mafia stessa?

«Assolutamente sì. Esiste l'anti-mafia di maniera, che vive di commemorazioni, di anniversari, di cortei e fiaccolate ed è un'antimafia spesso corrotta dalle stesse logiche che dovrebbe sconfiggere, fatta di associazioni che ricevono fondi per la promozione della cultura antimafiosa, che non vengono neppure destinati - se non in minima parte - alle attività preposte. L'anti-mafia che piace alla gente e non serve a niente. L'anti-mafia che non agisce mai, concretamente, sul territorio, nella battaglia quotidiana per rosicchiare potere alla criminalità, per offrire un'alternativa sociale a chi vive in contesti fortemente mafiosi. Alla mafia piace l'antimafia degli slogan, dei proclami, delle targhe e delle belle parole, che nulla fa - realmente - per cambiare la situazione; l'anti-mafia sostanzialmente innocua, intenta ad alimentare la narrazione epica di chi alla mafia ha avuto il coraggio di opporsi, riducendo la questione allo schema classico dell'Eroe che lotta contro il male».

Non sono forse eroi, quelli che la mafia l'hanno combattuta?

«Sono uomini, sono cittadini, sono modelli di umanità e di civiltà che hanno avuto la forza di opporsi - nel loro luogo e nel loro tempo - alla criminalità. Hanno pagato con la vita per questo. Ricordarli è sacrosanto ma consacrarli al ruolo di "eroi" ci espone al rischio di pensarli come "super-uomini", di nuovo un qualcosa di altro rispetto a noi, e di non sentirci - di conseguenza - chiamati a fare la nostra parte. Perché non tutti siamo eroi, no? Perché l'eroismo è un fatto eccezionale, non può essere la norma. Purtroppo però non si può pensare che essere anti-mafiosi significhi conoscere e interpellare le icone dell'antimafia. Non basta mettere un like su Facebook, per sentirsi dalla parte dei giusti. Non basta pubblicare la fotografia di Falcone e Borsellino, o ricordare Peppino Impastato. Non solo non è sufficiente, è per l'appunto comodo e riduttivo. Ecco, per essere anti-mafiosi bisogna fare un po' di più».

Per esempio?

«Per esempio impegnarsi materialmente, nel proprio contesto storico e culturale, per risolvere i problemi che sono sotto gli occhi di tutti. Creare, a nostra volta, una rete di cittadini che dedichino il proprio tempo a far funzionare meglio il sistema; che credano in una possibilità di riscatto, al di là delle intimidazioni. C'è chi lo fa, e lo fa senza cercare i riflettori, come Don Pino Puglisi, al quartiere Brancaccio di Palermo, che lavorava per la sua gente, che non si limitava alle omelie dall'altare ma cercava risposte ai problemi della cittadinanza, aiutando i parenti dei carcerati, i bambini senza istruzione, le famiglie senza lavoro, sottraendo così potere ai clan che, si sa, attecchiscono tanto meglio quanto più latitano opportunità e alternative».

Serve l'impegno attivo, dunque.

«Quello sempre, ma sarebbe utile anche, semplicemente, rendersi conto di quanto - come cittadini - diventiamo strumenti inconsapevoli di riciclaggio del denaro sporco, quando pranziamo nei ristoranti, balliamo nei locali, facciamo shopping nei negozi comprati dai colletti bianchi dei clan».

Non è semplicissimo però capire quando mangiamo una pizza sporca...

«Esistono delle associazioni, come l'Associazione Cortocircuito di Reggio Emilia, fondata da studenti che si sono fatti delle domande, che sono andati oltre la superficie delle cose e hanno collegato tra loro alcuni documenti (visure catastali, delibere comunali, interdittive antimafia, atti giudiziari) e dal 2009 monitorano il livello di infiltrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso nel Nord Italia, evitando locali legati alla malavita».

Quindi conoscere, approfondire, non essere indifferenti.

«L'indifferenza è un grande alleato della criminalità. Forse il più grande. Nel libro racconto molte storie, tra cui quella di Libero Grassi, imprenditore siciliano che negli anni novanta si rifiutò di pagare il racket. Rilasciò un'intervista a Samarcanda, il programma di Santoro, e lo fece nella convinzione che il suo gesto sarebbe stato d'incoraggiamento per gli altri. Fu lasciato solo, completamente, anche dagli altri imprenditori che avrebbero dovuto appoggiarlo. Il suo gesto fu definito una "tamurriata" e pochi mesi dopo fu assassinato. Sono trascorsi quasi 30 anni da allora e dalle cronache recenti, non possiamo dire che le vittime della criminalità ottengano più attenzione e solidarietà dalla società e dalle istituzioni. Combattere la mafia non è semplice. Farlo da soli, spesso, è impossibile».

Conclude così, l'autore. E io concludo dicendovi che La Mafia Siamo Noi ci accompagna alla scoperta di una mafia vecchia che s'è rinnovata. Ci spiega, senza paternalismo. Ci interpella. Ci richiama, indirettamente ma inevitabilmente, alle nostre responsabilità di cittadini. La Mafia Siamo Noi ci racconta una criminalità diversa da quella che ricordiamo attingendo alle memorie della nostra infanzia o della nostra adolescenza, una mafia assai lontana dalle stragi di Capaci e di Via D'Amelio, lontana dall'immagine di Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani, che in chiesa, con voce rotta, chiedeva ai mafiosi di pentirsi, di inginocchiarsi, di avere il coraggio di cambiare per poi concludere che "tanto loro non cambiano". La Mafia Siamo Noi ci porta lontano dalla Piovra, dalle fiction Mediaset e pure da Gomorra. Questo libro va oltre, entra nel nostro vissuto e nel nostro quotidiano. E per questo vale la pena leggerlo anche nelle scuole (non a caso, Add Editore in collaborazione con la Libreria Bodoni organizza un'iniziativa rivolta ai licei sul tema della cittadinanza attiva, proprio a partire dalla lettura di questo volume). La Mafia Siamo Noi è un libro di 240 pagine, ciascuna delle quali capace di suscitare interesse, rabbia, frustrazione, fiducia, disprezzo e stima. Stima per chi fa. E pure per chi - come De Riccardis - racconta storie che altrimenti ignoreremmo.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

COMMISSIONE BICAMERALE ANTIMAFIA? MA MI SI FACCIA IL PIACERE…..

Bindi a capo dell'Antimafia: sfruttò i sindaci anti boss per farsi eleggere alla Camera. Il Pd la candidò in Calabria: ma una volta presi i voti, non s'è più fatta vedere, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. A Siderno la stanno ancora aspettando. Eppure a Rosy Bindi la Locride dovrebbe esserle cara, visto che quei voti raccolti alle primarie Pd in Calabria sono stati decisivi per la sua elezione come capolista. Da febbraio invece l'ex presidente Pd i calabresi la vedono solo in tv. D'altronde la Bindi non ha fatto un solo incontro sulla 'ndrangheta durante la campagna elettorale, ammettendo «di non sapere niente di mafia». «Doveva venire anche il 2 agosto, ero lì ad attenderla», dice al Giornale Maria Carmela Lanzetta, ex sindaco antimafia di Monasterace. Per la cronaca, allora Rosy preferì un talk show su La7. La Lanzetta è amareggiata, ma non lo ammette per orgoglio. Aveva resistito alla tentazione di dimettersi dal Comune stritolato dalla mafia, quando i boss le hanno bruciato persino la farmacia di famiglia. Poi era arrivato Pier Luigi Bersani, l'aveva eletta icona della sua campagna elettorale, e tutto lo stato maggiore del Pd in Calabria si era convinto che alla fine sarebbe stata lei la capolista del Pd nel feudo bersaniano. E invece il commissario bersaniano Alfredo D'Attorre - ça va sans dire - anziché rilanciare il partito si è fatto eleggere e ha dato l'ok al paracadute pure per Rosy, tra lo sconcerto dei sindaci antimafia: «Avevamo scritto a Bersani - dice ancora la Lanzetta - per chiedere una candidatura simbolica, del territorio, per un segnale di cambiamento». Poteva essere la Lanzetta oppure Elisabetta Tripodi, sindaco di Isola Capo Rizzuto (feudo degli Arena, quelli che elessero l'ex senatore Pdl Nicola Di Girolamo in Germania) o Carolina Girasole (bersaniana poi arruolata con Monti). Alla fine la Lanzetta ha perso tutto: niente scranno e niente fascia tricolore. Si è dimessa dopo il «no» del suo votatissimo assessore democrat alla richiesta del Comune di costituirsi parte civile in un processo nato da un'inchiesta antimafia che coinvolgeva due funzionari. Clelia Raspa, medico alla Asl di Locri dove lavorava il vicepresidente Pd del Consiglio regionale Franco Fortugno, ucciso in un seggio delle primarie nell'ottobre del 2005, forse non voleva mettersi contro il capoclan della cittadina della Locride, Benito Vincenzo Antonio Ruga. «Ma alla fine ce l'ho fatta a costituire il Comune parte civile per difendere l'integrità dell'istituzione», sorride amara la Lanzetta. In fondo il povero Bersani non aveva scampo. La Bindi era a un passo dalla rottamazione, travolta dal ciclone Matteo Renzi. Solo delle primarie «blindate» avrebbero potuto salvarla, come successo con Anna Finocchiaro, siciliana ma eletta a Taranto. Esclusa la «renziana» Toscana, quale posto migliore della Calabria? Anche nel 2008 il Pd di Walter Veltroni aveva piazzato Daniela Mazzucconi dalla Brianza, guarda caso protegée della stessa Bindi. A stenderle il velo rosso al debutto di Rosy c'era tutto lo stato maggiore del Pd. Il cronista di Report Antonino Monteleone venne cacciato in malo modo da un congresso al quale partecipavano tutti i colonnelli locali, come la vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà o il potentissimo signore delle tessere Gigi Meduri, sponsor dell'ex consigliere regionale Mimmo Crea, beffato da Fortugno che gli scippò il seggio e beneficiario «politico» della sua morte. Che c'entra Crea, oggi travolto da pesantissime accuse, con la Bindi? Quando entrò nella Margherita, come scrive Enrico Fierro nel suo Ammazzati l'onorevole, Crea «fu festeggiato a Torino in una cena. Meduri, intercettato al telefono, si lasciò scappare: «Sedici erano a tavola, sedici deputati. C'era Franceschini, la Bindi. Quando è arrivato il conto ho detto a D'Antoni "provvedi a nome del compare Crea. Una scena che mi si mori..." (una scena che a momenti morivo dalle risate, ndr)». Sai che risate con la Bindi all'Antimafia.

Che senso ha questa commissione antimafia? La nomina di Rosy Bindi dimostra come l'incarico di lotta alla criminalità venga visto come l'ennesima poltrona da spartirsi per i partiti. Ma un lavoro serio potrebbe aiutare davvero il Paese, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Ha senso oggi una Commissione parlamentare antimafia vista solo come una poltrona da occupare? La domanda è d'obbligo dopo quello che si è verificato in queste ore con la nomina a presidente di Rosy Bindi, che di esperienza di lotta alle mafie ne ha ben poca. Un senso lo avrebbe se la Commissione fosse fatta bene, come era stata pensata all'origine, con la politica che indaga su se stessa, in particolare sulle collusioni con le mafie. Un senso lo avrebbe se fosse pensata e attuata come nel periodo in cui è stata presieduta da Gerardo Chiaromonte o da Luciano Violante, dimenticando quella che venne presieduta da Roberto Centaro. L'ultima con Beppe Pisanu ha avuto luci ed ombre, in particolare sulla relazione finale sulle stragi mafiose. Se si inizia a fare una Commissione puntuale, sfruttando i poteri di indagini che le competono, e partendo ad esempio dalla Calabria e dalla 'ndrangheta allora ha senso, possibilmente non facendosi guidare da politici collusi che possono portare su altre strade il lavoro parlamentare. Se si fa un lavoro sulle regioni del Nord, dove sono ormai radicate le mafie che hanno inquinato non solo l'economia legale ma anche la politica locale e regionale, ha un senso. Perchè in questo modo potrebbe passare il messaggio che il problema mafia si deve in qualche modo porre anche nelle città e nei luoghi istituzionali dove fino adesso la parola mafia non è stata mai pronunciata. Occorre che la politica faccia pulizia al proprio interno e che la Commissione aiuti a far luce negli angoli bui in cui la magistratura fatica ad arrivare. I commissari antimafia non sono giudici o pm, ma devono fare una seria analisi politica. Occorre dunque una seria commissione che ponga l'attenzione su questi aspetti, per dare un segnale da parte dei vertici delle istituzioni alle procure, ai tribunali e alle forze dell'ordine che sono sul territorio. Per far comprendere la gravità della situazione che stiamo vivendo. Certo, il suo vero compito è quello di un'analisi politica dove al nord i territori sono praterie inesplorate. Dunque questa commissione puó avere un senso solo se avrà il coraggio di giudicare la politica che oggi appare in molte zone collusa con le mafie. Solo cosí Rosy Bindi potrà dimostrare che la sua commissione può avere un senso, lasciando da parte in questo modo i pensieri che volano alla spartizione di poltrone politiche, a incarichi divisi fra partiti, ad auto e autisti a disposizione, a benefit e gettoni corrisposti ai commissari per le sedute, a trasferte a spese dei contribuenti e al potere politico per dirigere il "traffico" giudiziario che a volte ingolfa le procure su inchieste in cui sono coinvolti gli eletti e i loro amici. E non lasciare che le conclusioni delle loro attività possano essere influenzate dai partiti, che ne hanno deciso la nomina del presidente. Allora sì che avrebbe un senso.

“Claudio Fava scandalosamente coerente? Alla Camera ha cambiato sette volte gruppo parlamentare”, scrive "I Nuovi Vespri" il 28 settembre 2017. Lo afferma in un post su facebook l’ex parlamentare regionale, ex assessore regionale ed ex deputato nazionale, Franco Piro, figura storica della Sinistra siciliana. Di solito Piro parla poco e scrive ancora d meno. Ma questa volta… Parla poco. E scrive raramente. Ma questa volta Franco Piro, già parlamentare regionale, già assessore regionale al Bilancio, già parlamentare nazionale, figura storica della Sinistra della nostra Isola, oggi dirigente del PD un po’ silente, non ce l’ha fatta più. E, a proposito della candidatura di Claudio Fava alla presidenza della Regione siciliana sulla propria pagina facebook annota: “Ho letto un rutilante mega-cartellone pubblicitario di Claudio Fava: Scandalosamente coerente”. Leggo sul sito della Camera che in questa legislatura Claudio Fava ha cambiato per sette volte gruppo parlamentare”. E difficile immaginare una stoccata più mirata di così in poche righe…

«Peppino rimase solo anche il giorno del suo funerale», scrive Simona Musco il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio".  Umberto Santino, «I giornali scrissero che era un terrorista e la gente di Cinisi si riconosceva nel boss Badalamenti e non in lui…» «Peppino viene cancellato dal titolo di un film. Non è giusto e Fava avrebbe dovuto dircelo». Umberto Santino combatte da 40 anni per tenere viva la memoria di Peppino Impastato, diventato un simbolo della lotta alla mafia ma trasformato dai filtri cinematografici in qualcosa che non è. Un’immagine edulcorata che non piace a chi ha assistito alla sua ribellione. Il presidente del Centro di documentazione intitolato all’attivista di Cinisi assassinato dalla mafia ne parla con passione, prendendo le distanze dalla scelta di Claudio Fava che ha chiamato "I Cento passi" la lista con la quale si è candidato in Sicilia. «Peppino viene cancellato dal titolo di un film. Non è giusto e Fava avrebbe dovuto parlarne con noi». Umberto Santino combatte da 40 anni per tenere viva la memoria di Peppino Impastato, diventato un simbolo della lotta alla mafia ma trasformato dai filtri cinematografici in qualcosa che non è. Un’immagine edulcorata, «adatta al grande pubblico», che non piace a chi ha assistito alla ribellione di Impastato ai legami di sangue e al mito mafioso. Il presidente del Centro di documentazione intitolato all’attivista di Cinisi assassinato dalla mafia ne parla con passione, prendendo le distanze dalla scelta di Claudio Fava di dare il nome "Cento passi" alla lista con la quale si candiderà alla presidenza della Regione Sicilia. Una scelta irrispettosa, secondo Santino, che, come racconta al Dubbio, considera l’immagine mediatica di Peppino «una sconfitta».

Parliamo della scelta di Fava e della polemica successiva. Cos’è successo?

«Il Centro, così come la famiglia di Peppino, ha ritenuto scorretta la scelta di Fava o chi per lui. Avrebbe potuto almeno dire ai familiari che aveva questa intenzione, si tratta di una questione di elementare correttezza. Lui dice bene quando sottolinea che Cento passi è ormai un’icona di tutti, ma quell’icona fa comunque riferimento a una storia, a Peppino, all’impegno dei suoi familiari, dei compagni e del Centro. A nostro avviso andava evitato. Ma quando Fava dice di aver avvertito i familiari e Giovanni (il fratello di Peppino, ndr) dice che non è vero e che se continua a sostenerlo ricorrerà al tribunale dispiace. Ammetta la scorrettezza e chiudiamo la questione. Noi facciamo il nostro lavoro, lui il suo. Sarebbe importante però che lui riconoscesse l’errore».

Cento passi è ormai un simbolo, ma basta davvero a raccontare quello che è stato Impastato?

«Peppino viene cancellato con un riferimento al titolo di un film che a me non è nemmeno piaciuto. E non mi è piaciuto perché sviluppa la metafora del vicinato, della continuità, come se la cosa veramente significativa fosse che a cento passi da casa Impastato c’era la casa del boss Badalamenti. Ma l’unicità di Peppino era un’altra, era la sua antimafia che viene da un padre di mafia. La metafora del film vale per 60 milioni di italiani: quasi tutti hanno a 100 passi da casa un capomafia. Peppino è un caso unico, perché la mafia era la sua biologia e lui le si è ribellato».

Quindi il film non racconta il Peppino che conosceva lei?

«Il Peppino apologo della bellezza in cui gli si fa dire finiamola con queste fesserie della lotta di classe e insegniamo la bellezza? Era un’immagine edulcorata, che andava bene per il grande pubblico. Il Peppino storico, che era un comunista rivoluzionario, è in netta contraddizione con l’icona che si è creata, quella di uno che contava i passi».

Che è l’immagine creata da Fava e che ora usa per la sua lista.

«È vero, l’icona l’ha inventata Fava ma io glielo dicevo che la cosa dei cento passi su Peppino non poteva tenere. L’immagine mediatica che ha raggiunto milioni di persone non risponde molto alla sua storia, alla sua personalità. Da questo punto di vista abbiamo perso».

Quali sono le vittorie?

«La condanna dei responsabili del suo omicidio, quando tutti lo dipingevano come un pazzo terrorista. Abbiamo vinto sul piano giudiziario. Con ritardo, ma abbiamo vinto. E abbiamo vinto sul piano politicoculturale, con la relazione della Commissione antimafia sul depistaggio che ci fu nelle indagini sulla sua morte, che è un fatto unico nella storia repubblicana. Quando fui consulente della Commissione proposi di fare la stessa cosa per le stragi, ma questo invito nessuno l’ha accolto. La stessa proposta, questa estate, alla Summer school di Milano, l’ha fatta il presidente del Senato Pietro Grasso. Spero si faccia, perché su queste cose non c’è una verità giudiziaria. Se queste cose vengono fatte solo dai sociologi o dai giornalisti hanno un altro senso, rimangono un fatto privato».

Facciamo un passo indietro: il funerale. Come andò?

«Eravamo più di mille persone ma contrariamente a quanto si vede alla fine del film, di Cinisi e Terrasini c’erano pochissime persone. Non c’era una comunità che si appropriava del proprio eroe, non c’erano nemmeno le scuole. Non c’era niente di istituzionalizzato, come del resto non c’è alle iniziative che facciamo adesso. È rimasta l’idea che Peppino era un giovanotto un po’ pazzo. La comunità non si riconosceva in lui ma in Badalamenti, che è stato per anni un grande trafficante di droga».

I giornali come trattarono la cosa?

«Ci fu silenzio sull’omicidio, se si esclude Lotta Continua e il Quotidiano dei lavoratori, che poco dopo chiusero. Gli altri giornali misero la notizia in secondo piano per via del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Ricordo in particolare il Manifesto, che gli dedicò un trafiletto per le elezioni e parlò di Peppino solo alla fine del pezzo. Si comportarono malissimo. Alcuni scrissero che era un terrorista, anche l’Avanti. Un mese dopo il delitto abbiamo diffuso un bollettino del Centro in cui documentavamo l’attività di Peppino, con un inserto con la rassegna stampa. È stata una guerra contro il silenzio e contro il palazzo di giustizia, ad eccezione di Rocco Chinnici e pochi altri».

Parla del depistaggio?

«Sì. Presentammo un esposto in procura, nel quale dicevamo che si trattava di omicidio. La stessa mattina partecipai ad un incontro alla facoltà di Architettura, al quale prese parte il medico legale Ideale del Carpio, che spiegò che non c’erano tracce di esplosivo tra le mani ma sotto il torace. Quella era la prova che si trattava di omicidio. L’ 11 maggio a Cinisi c’era il comizio di chiusura della campagna elettorale di Democrazia Proletaria, con un dirigente nazionale, Franco Calamita, al quale doveva parlare anche Peppino. Chiesero a me di farlo. In questo comizio ho parlato della mafia del tempo e ho indicato in Badalamenti e nei mafiosi di Cinisi i responsabili del delitto».

Quando conobbe la famiglia di Peppino?

«Il 16 maggio, quando la madre e il fratello si costituirono parte civile. Io ho saputo dopo che Peppino era figlio di mafioso e nipote di capomafia e ciò destò un grande interesse per questa storia e per questa famiglia, che rompeva con la parentela mafiosa. Da allora è cominciata una vicenda lunghissima per salvare la memoria di Peppino, perché quasi tutto il palazzo di giustizia pensava che avesse fatto un attentato suicida».

Cosa avete fatto?

«Abbiamo iniziato a bombardare la procura con documenti. Una delle prove è stata la raccolta, da parte dei compagni, delle pietre macchiate di sangue che dimostravano che Peppino era stato tramortito in un casolare. Abbiamo ottenuto giustizia con le condanne di Badalamenti e Palazzotto e con la relazione sul depistaggio messo in atto dal procuratore capo e dal generale dei carabinieri, che hanno condotto le indagini soltanto sul ‘ terrorista’ Peppino, ignorando la sua lotta decennale».

Impastato contro Fava: «Non usare la memoria di Peppino…», scrive Simona Musco il 27 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Il fratello del giornalista ucciso dalla mafia contro il candidato siciliano: «Non può utilizzare in modo strumentale il nome “i cento passi” e la memoria di mio fratello». «È una strumentalizzazione, una trovata pubblicitaria. Non c’è mai stato alcun accordo tra me e Fava per l’utilizzo di questo nome per una lista elettorale». È polemica tra Giovanni Impastato, fratello di Peppino, e Claudio Fava, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia e candidato alla presidenza della Regione Sicilia con la lista ‘ Cento passi per la Sicilia’. Un riferimento troppo diretto alla storia di Peppino Impastato, l’attivista ucciso dalla mafia nel 1978, tanto diretto, secondo il fratello, da rendere necessario almeno il parere di chi, in suo nome, ha portato avanti la battaglia contro la criminalità organizzata. Fava, dal canto suo, replica piccato: «È una scelta che abbiamo condiviso con Giovanni Impastato ben prima di presentare questo simbolo. Questa immagine parla di Peppino Impastato come di Giuseppe Fava e di tutti gli altri caduti, tanti, per restituire dignità a questa terra. Stiamo parlando di un simbolo straordinario, non di un film». Un film che lo stesso Fava, assieme a Monica Zappelli e Marco Tullia Giordana, ha sceneggiato, ispirandosi al titolo di un capitolo di un libro che il deputato scrisse 25 anni fa, raccontando i delitti impuniti di mafia. «Che qualcuno si offende perché Fava usa una frase di Fava e nessuno protesta se Musumeci usa una frase di Paolo Borsellino, è una cosa piuttosto curiosa», conclude. Ma Impastato non ci sta: «Con noi – racconta al Dubbio – non ha mai parlato».

Signor Impastato, perché questo scontro sul nome della lista?

«Perché è un’operazione elettorale alla ricerca di consensi, è strumentale e utilizza come un marchio pubblicitario la figura e l’immagine di Peppino e l’impegno di chi ha continuato ad operare con le sue idee e il suo coraggio. È chiaro il riferimento a mio fratello, alla nostra storia e alle lotte che in suo nome abbiamo portato avanti, spesso in solitudine, per salvarne la memoria e ottenere giustizia. Coloro che hanno avuto un ruolo importante in questo percorso non sono stati neppure informati. Noi non siamo contro nessuno, ma Fava ha utilizzato queste parole come un prodotto qualsiasi».

L’onorevole Fava sostiene però che tra di voi c’era una accordo pregresso.

«Niente affatto! Non eravamo informati, anche se Fava, in maniera vergognosa, dice di averlo concordato con noi. Se dice che ci siamo incontrati per parlarne deve dire anche dove e quando. Sono 10 anni che non lo vedo e non lo sento, ormai non viene più nemmeno agli anniversari della morte di Peppino il 9 maggio. Per questo dico che si tratta di un’azione strumentale. I cento passi non è solo un titolo di un film di successo, dietro ci sono delle lotte, un percorso profondo e bisogna avere rispetto. Confrontarsi sarebbe stato più educato e invece non solo non c’è stato questo, ma ci aggiunge pure delle falsità. Tanto che nemmeno chi ha collaborato alla creazione della lista ne sapeva nulla e l’ha scoperto all’ultimo minuto».

Dunque se gliene avesse parlato sarebbe stato d’accordo?

«No, non dico questo. Non sarei stato comunque d’accordo ma sicuramente sarebbe stato diverso. Così è sbagliato e la cosa ci indigna. Una reazione da parte nostra per difendere la memoria di Peppino era doverosa. Fava, oltre tutto, è scomparso dalla Sicilia, non sa più nulla della Sicilia, forse non sa nemmeno che esiste Casa memoria (l’associazione in memoria di Impastato, ndr). Lui pensa di essere il proprietario di Cento passi, ma non è così».

Però Cento passi è il titolo di un film che porta anche la sua firma, così come il titolo di un capitolo del suo libro.

«Ha scritto con altre due persone la sceneggiatura e poi è nato il film ma questo non significa che si possa permettere di fare quello che vuole. Non è solo un film, ma una grande storia che noi abbiamo portato avanti con sacrificio e impegno. Abbiamo saputo che aveva scelto questo nome giorni fa, abbiamo aspettato che si facesse vivo per parlare con noi e invece niente».

Però Fava è figlio di una vittima di mafia, è anche vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Questo non basta ad accomunarvi nella lotta, anche dal punto di vista politico?

«Si sa che sono vicino alla sinistra ma se dietro non c’è un percorso, un impegno, una battaglia dal basso contro la mafia è inutile. È inutile arrivare da lontano, dal Parlamento, dalla Commissione o dovunque sia e scendere giù per fare una lista senza nemmeno avvisare i suoi collaboratori. Se l’avesse detto non avremmo reagito così. Lui è vicepresidente della Commissione antimafia, è stato quello che è stato, ma deve tenere conto delle persone che si sono impegnate in una battaglia sul territorio. Non aveva nemmeno più la residenza siciliana, tanto che nel 2012 ha dovuto ritirare la candidatura perché si era dimenticato di cambiarla in tempo. Lo hanno depennato dalla lista. E ora fa così. È stato scandalosamente falso e bugiardo. E che non abbiamo concordato nulla lo possono dire anche quelli che hanno lavorato con lui».

LA COMMISSIONE ANTIMAFIA LOTTIZZATA DAI PARTITI.

Anche l'antimafia viene lottizzata dai partiti. In Parlamento non si trova l'accordo per il ruolo di presidente della commissione parlamentare. E il nome di Rosy Bindi, sostenuto dal segretario del Pd Guglielmo Epifani, alimenta i malumori tra i democratici, scrivono Giovanni Tizian e Nello Trocchia su “L’Espresso”. Presidente? Assente. La commissione antimafia aspetta ancora la nomina del suo leader. Una nomina che dovrebbe essere decisa sulla base della competenza. E invece è ostaggio di strategia politiche da manuale Cencelli tanto caro alla vecchia casta. Rosy Bindi è il nome senza poltrona che il Pd ha proposto. Per ora non è passato. Tra i tanti nominativi tra deputati e senatori che di mafia e antimafia si sono sempre occupati, l’unico nome che il segretario Pd Guglielmo Epifani è riuscito a tirare fuori dal cilindro democratico è quello di Rosy Bindi. Ma il partito è spaccato. “Non ho niente contro Bindi che è una persona perbene. La verità - racconta un piddino che chiede l'anonimato - è che bisogna, ad una big come lei, assegnarle un posto così da evitare imbarazzi al governo o al partito che si prepara al congresso. La commissione trasformata in una spartizione è un brutto spettacolo”. Il nome della senatrice rimasta fuori dai ministeri e senza una poltrona che conta, divide più che unire le anime del partito. All’interno del Pd c’è una frangia che al posto dalla Bindi vedrebbe bene candidature di qualità, gli esponenti che di mafie si sono occupate e siedono in commissione. C'è Pina Picierno, campana, eletta per la prima volta alla Camera nel 2008. Tra l’altro responsabile legalità e lotta alle mafie all’interno del partito. E poi c’è Rosaria Capacchione, una vita spesa a raccontare, da giornalista, l’impero del Clan dei Casalesi, che da 5 anni vive sotto scorta. Al momento il nome resta Bindi. Nella partita della commissione antimafia sono confluite i dissapori interni in vista del congresso nazionale. E la Bindi rappresenta una mossa che rassicura i capi del partito. Così la commissione parlamentare di inchiesta sulle mafie si è trasformata in una partita a scacchi con le larghe intese in fumo e una prevedibile scazzottata dentro il partito democratico. Da luogo che dovrebbe indagare, capire, individuare responsabilità politiche su stragi, interramenti tossici, coperture, trattative, è diventato un terreno di scorribande. Nel paese che annovera quattro mafie strutturate che hanno spostato al nord e all'estero capitali finanziari e investimenti, la politica nei luoghi elettivi, risponde con una commissione che annovera indagati e discussi componenti come ha denunciato, per primo, l'Espresso e ora con lo stallo. La commissione c'è, ma non si trova il presidente. Almeno dentro i democratici. E nel Pdl? Dentro il Popolo della libertà c'è chi lavora ad una proposta. Dopo la bocciatura a presidente di Donato Bruno, avvocato molto vicino all'ex ministro e pregiudicato Cesare Previti, il Pdl potrebbe chiedere una convergenza sul nome di Rosanna Scopelliti. Fondatrice dell'associazione Ammazzateci tutti, e figlia del giudice Antonino Scopelliti, ucciso da Cosa nostra con la collaborazione della 'ndrangheta di Reggio Calabria. Una figura che dovrebbe essere di garanzia per la commissione. Alcune sue prese di posizione hanno, però, fatto discutere il movimento antimafia. Una candidatura ben vista anche dai renziani del Pd. «E’ una commissione partita male», secondo Claudio Fava di Sel. «Noi durante le votazioni siamo stati sempre presenti, nessuno è mai venuto a proporci un intesa sui nomi da candidare a presidente». E sulla Bindi? «Non avrei difficoltà a votarla, ha sicuramente l’autorevolezza che serve alla commissione, ma al di là dei nomi ormai è una questione di decoro istituzionale dare avvio alle attività della commissione». «Individuare una figura che da un lato viva la commissione come un ruolo istituzionale e dall’altro come punto di incontro con la società civile, le associazioni», così Francesco Forgione a “l’Espresso”, presidente di quella commissione antimafia che produsse nel 2008 la prima relazione sulla ‘ndrangheta, una sorta di bibbia per conoscere l’organizzazione calabrese. «Quella relazione è stato il frutto di un lavoro con la collettività. Il confronto con i territorio è fondamentale. E il ruolo del presidente lo è altrettanto». C'è una sola certezza al momento. Chi prende la presidenza dell'antimafia lascia all'altro partito di maggioranza la presidenza dell'altra bicamerale, quella sulle ecomafie. Di sicuro, insomma, c'è solo la spartizione.

Antimafia, i nomi che non ti aspetti. Il paladino del condono edilizio, l'indagato, il nemico giurato del 41bis. Dopo sette mesi di travaglio, ecco i nomi della commissione che faranno più discutere, continuano Giovanni Tizian e Nello Trocchia su “L’Espresso”. Decisi i componenti della commissione antimafia 2013. Martedì sarà votato il presidente, probabilmente in quota Pd. Il nome di Rosy Bindi è quello che circola di più. Il Pdl proporrà Donato Bruno. La commissione si riunirà per la prima volta il 15 ottobre a Palazzo San Macuto. Ci sono voluti sette mesi. Lunghi travagli interni ai partiti e la solita danza delle nomine e delle poltrone ne hanno bloccato l'insediamento. Tra i deputati e senatori che siederanno sugli scranni dell'organismo bicamerale, che ha il compito di indagare e approfondire il fenomeno mafioso, non mancano nomine che faranno discutere. Vediamo quali. Carlo Giovanardi (Pdl), Il democristiano cresciuto nella rossa Emilia, passato poi nelle truppe di Silvio Berlusconi, negli ultimi tempi è diventato il difensore delle aziende emiliane bloccate dalla Prefettura perché a rischio condizionamento mafioso e quindi da tenere fuori dalla ricostruzione post sisma. Una questione che l'ha impegnato molto in questi mesi tanto da portare in aula diverse interrogazioni per chiedere modifiche alle interdittive antimafia. Provvedimenti amministrativi emanati dai prefetti sulla base di informative investigative, utilizzati per tenere alla larga imprese sospette dai cantieri pubblici. Dalle interrogazioni è passato poi alle vie di fatto presentando due emendamenti per modificare drasticamente questo strumento di prevenzione, ritenuto dagli addetti ai lavori indispensabile per prevenire l'infiltrazione mafiosa nei lavori pubblici. Proposta bocciata dall'ufficio legislativo del ministero dell'Interno, che nero su bianco ha motivato le sue preoccupazioni: gli emendamenti indebolirebbero l'azione dei prefetti. Ma Giovanardi è stato anche il dirigente di partito che ha criticato duramente la sua ex collega di partito Isabella Bertolini per aver denunciato la presenza di camorristi tra gli iscritti del Pdl modenese. Sospetto rivelatosi poi vero e che ha obbligato l'ala di Giovanardi a depennare una serie di nominativi dagli iscritti. Nonostante le affermazioni di Bertolini fossero provate dai documenti, è finita sotto attacco con l'accusa di razzismo verso i meridionali e di voler giocare sporco in vista del congresso regionale. Carlo Sarro (Pdl) è da sempre vicino alla famiglia di Nicola Cosentino, l'ex sottosegretario imputato per concorso esterno in associazione camorristica. Di mestiere avvocato, in Campania, il deputato Sarro si batte da tempo per assicurare a centinaia di cittadini la riapertura dei termini del condono edilizio del 2003 che la regione, a guida centro sinistra, bloccò. Questione di giustizia spiega. Più volte ha proposto una moratoria sulle demolizioni delle case abusive: “Bisogna tenere in considerazione chi ha fatto ricorso all'abusivismo per necessità”. Si è reso protagonista di un'aspra polemica contro Libera e Don Luigi Ciotti presentando una interrogazione parlamentare. L'associazione aveva sottoscritto una petizione per opporsi proprio alla riapertura dei termini di condono edilizio. Vincenza Bruno Bossio (Pd) è deputata calabrese del Partito Democratico. Condivide la passione per la politica con il marito Nicola Adamo, ex vicepresidente della regione Calabria durante la giunta Loiero. Bossio e marito sono usciti puliti dall'inchiesta Why not, Adamo resta, invece, imputato di corruzione e altri reati in un'altra inchiesta, condotta dalla Procura di Catanzaro, sull'eolico in Calabria. Giovanni Bilardi (Gal) è un senatore del gruppo Gal, il centrodestra di governo. Ex consigliere regionale in Calabria dove era capogruppo della “Lista Scopelliti'. E' indagato dalla procura di Reggio Calabria per peculato nell'ambito dell'inchiesta sui rimborsi per le spese dei gruppi regionali. Donato Bruno (Pdl) è il candidato presidente del Pdl per la commissione antimafia. Avvocato, parlamentare di Forza Italia dal 1996, molto vicino all'ex ministro e pregiudicato Cesare Previti. Del tema criminalità Bruno si è più volte occupato difendendo a spada tratta i colleghi a processo per collusioni e viaggiando controcorrente sulle misure che, negli anni, lo stato ha messo in campo contro il crimine organizzato. Tra queste c'è quella del cosiddetto carcere duro per i boss, quel 41 bis che i mafiosi odiano, ma che in molte occasioni sono riusciti comunque ad aggirare. Donato Bruno, nel 2002, all'Ansa spiegava la sua opinione sul punto: “Personalmente io abrogherei il 41 bis, che è solo una tortura per i detenuti” esprimendo la sua contrarietà, per vizi di costituzionalità, a renderlo definitivo, ipotesi in discussione, in quei giorni, in Parlamento. Non solo Previti, però. Bruno ha avuto a cuore anche le sorti del capogruppo in Senato del Pdl Renato Schifani, attualmente indagato dalla Procura di Palermo per concorso esterno. Quando, lo scorso luglio, il gip non ha accolto la richiesta di archiviazione della pubblica accusa chiedendo un supplemento di indagine, Bruno ha reagito così: «Decisione inspiegabile che ci lascia rammaricati». Claudio Fazzone (Pdl) è il plenipotenziario del partito in provincia di Latina. Si è battuto come un leone contro lo scioglimento per condizionamento mafioso del comune di Fondi, assecondato dall'allora governo Berlusconi che decise di salvare l'ente locale nonostante fossero provate le infiltrazioni criminali. In ogni sede, anche giudiziaria, ha retto l'impianto accusatorio, la mafia a Fondi c'era, Fazzone parlava, invece, di complotto politico e mediatico. Nella relazione, redatta dal prefetto Bruno Frattasi, spuntava anche il nome del senatore, ora commissario antimafia. Era in una società con il sindaco Luigi Parisella e il cugino del primo cittadino Luigi Peppe. Così veniva descritto in una interrogazione parlamentare l'intreccio: “Il signor Luigi Peppe, oltre ad essere cugino del sindaco, è fratello di Franco Peppe (condannato nel processo Damasco II a 6 anni lo scorso giugno, ndr), soggetto in rapporti certi con la famiglia Tripodo, ed in particolare con Antonino Venanzio Tripodo”. Scrivi Tripodo e leggi 'ndrangheta. A firmare l'interrogazione Laura Garavini, capogruppo del Pd nella commissione antiamafia della passata legislatura. Ora Garavini in antimafia si troverà proprio Fazzone come commissario. Rosanna Scopelliti (Pdl), giovanissima deputata calabrese, è un nome importante dell'antimafia sociale, fondatrice dell'associazione Ammazzateci tutti, e figlia del giudice Antonino Scopelliti, ucciso da Cosa nostra con la collaborazione della 'ndrangheta di Reggio Calabria. Una figura che dovrebbe essere di garanzia per la commissione. Sulla sua nomina non ci sarebbe nulla da eccepire. Se non per alcune prese di posizione che hanno fatto discutere all'interno dei movimenti antimafia, mondo da cui lei proviene. Ha criticato l'ex ministro dell'Interno Cancellieri per aver sciolto il consiglio comunale di Reggio Calabria, feudo dell'attuale governatore Pdl della Calabria Giuseppe Scopelliti. Una mossa imprudente la definì. E scatenò la risposta di Sonia Alfano, la figlia di Beppe, giornalista ucciso dalla mafia e presidente della commissione antimafia europea. E proprio Rosanna Scopelliti, figlia del giudice dalla schiena dritta, onesto servitore dello Stato, ha partecipato alla manifestazione contro i giudici organizzata dal suo partito il 4 agosto scorso. Non deve essere stata una bella esperienza, con la folla che insultava magistrati e Cassazione.

Scoppia il caso del senatore Fazzone: siede in Antimafia ma si era schierato con le cosche. L'inchiesta di Repubblica sui comuni sciolti per mafia solleva l'inopportunità della presenza del parlamentare di FI nell'organismo parlamentare, scrive Alberto Custodero su “La Repubblica”. "Quel senatore si schierò a favore del comune infiltrato dalle cosche, è "impresentabile", non può sedere in commissione Antimafia". E' l'inchiesta di Repubblica sullo scioglimento dei consigli comunali per mafia che fa scoppiare il caso Fazzone. Quando il ministro dell'Interno Roberto Maroni chiese lo scioglimento del consiglio comunale di Fondi, infiltrato da 'ndrangheta e camorra, il senatore Claudio Fazzone, ex Pdl, ora Fi, difese a spada tratta il comune infiltrato. Negò la presenza delle cosche accertata da una relazione di 500 pagine dell'allora prefetto di Latina, Bruno Frattasi. E attaccò lo stesso Frattasi minacciandolo di querela e chiedendo contro di lui una commissione d'inchiesta parlamentare. Ora Fazzone (il cui nome era entrato nella relazione del prefetto in quanto in affari con pezzi dell'amministrazione collusa), siede nella commissione parlamentare Antimafia presieduta dalla dem Rosy Bindi. Si tratta della commissione bicamerale che fra l'altro si pronuncia sui comuni infiltrati. E giudica - come nel caso del governatore della Campania, Vincenzo De Luca - se i candidati alle politiche siano o meno impresentabili. Fazzone (che vanta il record delle assenze: non s'è mai presentato neppure una volta ai lavori della Commissione) si presenta come "imprenditore, funzionario di Polizia in aspettativa". Residente proprio a Fondi dove gli è stata posta sotto sequestro una faraonica villa in quanto abusiva (formalmente intestata alla moglie), è un ex appuntato di pubblica sicurezza, ex autista di Nicola Mancino quando era ministro degli Interni, poi transitato nei servizi segreti. Postosi in aspettativa, ha cominciato la sua scalata politica, eletto alla Regione Lazio nel 2000 con più di 28mila preferenze, un terzo sono arrivate da Fondi proprio dove lui si è battuto per non far sciogliere il Comune per mafia. Rieletto nel 2005 con 38mila preferenze, si è poi dimesso per diventare senatore del Pdl. Eppure c'era stato chi, a inizio dell'attuale legislatura, aveva tentato di stoppare in qualche modo la nomina di Fazzone all'Antimafia. È il caso della deputata dem Laura Garavini, che, in una riunione di Gruppo Pd, sollevò ufficiosamente la questione con Rosy Bindi, presidente della Commissione. La Bindi si trincerò (e si trincera ancora oggi) dietro la scusa che esistono delle regole. Ovvero, le nomine vengono fatte dai presidenti di Camera e Senato su indicazione dei partiti. E la commissione è negata in base a un codice etico interno a chi è indagato o rinviato a giudizio. Pare che anche in Senato qualcuno abbia posto al presidente Pietro Grasso la questione. Ma non ci fu nulla da fare: Fazzone fu nominato all'Antimafia. Dunque, chi ha difeso comuni collusi e attaccato funzionari antimafia, è il benvenuto in questa Commissione? "Trovo incredibile - risponde Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza per il Pd - che il senatore Fazzone sieda in quella commissione Antimafia che dovrebbe verificare tra l'altro le condizioni di scioglimento dei comuni a rischio infiltrazioni. Proprio lui che a suo tempo minacciò di querelare il prefetto Frattasi che, giustamente, aveva chiesto all'allora governo Berlusconi lo scioglimento del comune di Fondi infiltrato da organizzazioni criminali". "A mio parere - aggiunge Fiano - la commissione Antimafia (ovviamente nella sua autonomia) dovrebbe valutare l'opportunità che un senatore citato più volte nella relazione del prefetto di Latina relativa allo scioglimento di Fondi rimanga membro della Commissione che proprio questi fatti dovrebbe giudicare". "Cambiare la legge sullo scioglimento - commenta Laura Garavini, componente storica dell'Antimafia - rischia di essere solo un alibi. Basta applicare bene la normativa esistente. ma prima di tutto bisogna avere il coraggio di guardare al proprio interno". "Se - continua Garavini - addirittura in Antimafia ci sono persone che poco tempo fa si sono adoperate affinché la legge sullo scioglimento non fosse rispettata - come Fazzone per Fondi - allora possiamo cambiare tutte le leggi del mondo. Ma il risultato rischia di essere lo stesso". Per Claudio Fava, vicepresidente della Commissione, ex Sel, ora all'opposizione come indipendente di sinistra, "in una Commissione così delicata conta anche il senso dell'opportunità. Peraltro, l'assenza di Fazzone di fatto da un anno e mezzo in Commissione, pur essendone un componente, ci dice due cose: o il suo imbarazzo. O la sua indifferenza per le materie trattate". "In entrambi i casi - osserva Fava - non mi pare un atteggiamento di assoluta responsabilità". Dopo il codice sugli impresentabili alle politiche, ce ne vorrebbe allora uno anche per chi entra all'Antimafia, cioè per chi giudica gli impresentabili? "Non credo - conclude il vicepresidente dell'Antimafia - che un codice di autoregolamentazione possa valutare una questione di opportunità. Più che un codice, conta avere piena responsabilità: chi sceglie di sedere in questa Commissione, deve starci solo se si ritiene totalmente libero. E totalmente interessato a svolgere questa attività".

ALL'ESTERO. LA MAFIA C'E', MA SI TACE.

Germania, la mafia ha imposto il silenzio stampa, scrive Petra Reski il 4 febbraio 2018 su "La Repubblica". Petra Reski - Giornalista e scrittrice di romanzi e saggi sulle mafie italiane. Se uno guarda la mappa del mondo secondo “Reporter senza frontiere”, vede gran parte del mondo in nero e rosso, colori che significano per la libertà della stampa: “grave” e “molto grave” come nella Corea del Nord, in Russia o in Turchia. Più i colori sono chiari, più c’è libertà. L’Italia si trova al 52esimo posto, arancione scuro – cosa normale, uno potrebbe dire, dato che tanti giornalisti italiani hanno subito intimidazioni e minacce da gruppi mafiosi e bande criminali locali e dato che 13 giornalisti italiani sono stati uccisi dalla mafia negli ultimi 30 anni. La Germania invece si presenta in bianco tra i primi della classifica dietro la Norvegia, la Svezia e Finlandia, i paesi con maggiore libertà d'informazione. Posto numero 16, invariato da anni. Sarà anche per questo che tanti italiani amano dire “Ah la Germania! Tutto funziona!” Forse anch’io avrei detto la stessa cosa. Se non avessi avuta la malaugurata idea di occuparmi della mafia – pardon – degli “imprenditori italiani di successo” in Germania. Dopo la strage di Duisburg l’interesse dei tedeschi per la mafia era così grande che un editore mi chiese di scrivere un libro sulla mafia. Nel 2008 ho pubblicato “Santa Mafia”. Un mese dopo l’uscita del libro ho ricevuto la mia prima querela. Due mesi dopo, il mio libro è stato annerito. Censurato. Forse queste righe nere sono il segnale più chiaro: in Germania la mafia parla con il silenzio. Un silenzio condiviso in maniera compiacente dalla giustizia, dalla politica e dai media. Dopo l’uscita del mio libro “Santa Mafia”, ho passato tre anni difendendomi nei processi. Ho raccolto tre querele e due denunce penali, sono stata minacciata varie volte – non solo durante una presentazione del mio libro a Erfurt, una roccaforte della ‘Ndrangheta in Germania – dei clan di San Luca, ma anche durante le udienze in tribunale. Tutti i miei querelanti hanno vinto. Uno ha anche ricevuto anche un risarcimento di 10 mila euro. Il libro è rimasto annerito fino ad oggi: la Corte Europea per i diritti umani ha appena confermato la sentenza secondo la quale l’annerimento del mio libro “Santa Mafia” e il risarcimento di 10 mila euro all’ “imprenditore di successo italiano” sono stati giustificati e non infrangono la libertà di espressione. La cosa più interessante di questa sentenza è l’opinione dell’unico giudice dissidente. Ha sottolineato lo strano caso che nessuno dei documenti che ho fornito al tribunale è stato preso in considerazione: tre rapporti del BKA, la polizia federale tedesca, vari documenti sia della magistratura italiana e tedesca che della polizia tedesca e italiana, dichiarazioni giurate da magistrati italiani della Procura Nazionale Antimafia e di inquirenti tedeschi. Alcuni magistrati italiani antimafia si erano dichiarati addirittura disponibili come testimoni. Non sono stati accolti. Dopo il mio libro Santa Mafia, due altri libri sono stati anneriti: Jürgen Roth “Mafialand Deutschland” e Francesco Forgione “Mafia-Export”. I querelanti erano gli stessi “imprenditori di successo italiani” residenti in Turingia. Diciamo: amici di affari. Di recente toccava ad una televisione tedesca pubblica: il MDR in Turingia. I giornalisti televisivi avevano fatto un documentario sulla mafia a Erfurt e sono stati querelati al tribunale di Lipsia da parte di un uomo d’affari italiano che vedeva lesi i suoi diritti della personalità. Anche se non era neanche citato per nome, ma con uno pseudonimo – e pure ha vinto la causa contro la televisione. Il documentario è stato cancellato. (Di seguito è stato rimesso online solo dopo aver tolto la parte che riguardava il querelante). Nel marzo 2016 ho riferito questa vicenda in un articolo per un piccolo settimanale tedesco, il “Freitag” in cui ho descritto lo strano fatto che ogni giornalista che viene querelato per via dei suoi articoli sulla mafia, inevitabilmente perde il processo. Nell’articolo ho citato la sentenza pubblica del processo di Lipsia. Di seguito sono stata querelata da parte di quest’uomo d’affari italiano, citato per nome nell’articolo, che vedeva lesi i suoi diritti della personalità. Ma visto che il tribunale stesso ci aveva comunicato che considerava la querela “assolutamente inammissibile”, dato che si trattava di una sentenza pubblica, ero tranquilla. Poco dopo la sorpresa: il tribunale di Lipsia ha accettato l’istanza e accolto la querela. Sono stata condannata. “Chi scrive di mafia, lo fa a proprio rischio e pericolo”, mi ha detto una volta Alberto Spampinato, fratello di un giornalista siciliano assassinato dalla mafia. Quanto è vero, ho pensato, quando l’editore del “Freitag” mi ha piantato in asso in questa causa, adducendo a motivo che le spese legali “per una piccola casa editrice come la nostra sono un peso considerevole”. E nessuno al “Freitag” sembra esserci arrivato a considerare che le spese legali per un giornalista freelance sono di un peso gran lunga maggiore. Dal momento che anche il sindacato “Verdi” mi aveva rifiutato l’assistenza ho deciso di fare un crowdfunding per sostenere le mie spese legali: “La libertà di stampa non è una parola. Sono riuscita – con altri donazioni – a raccogliere 25 mila euro, donato dalla stragrande maggioranza di tedeschi: giornalisti e semplici sostenitori. Nel frattempo, l’ “imprenditore di successo italiano” mi ha querelato per risarcimento: chiedeva prima 10 mila, poi 20 mila e adesso 25 mila euro. Aumenta quasi ogni settimana la sua richiesta. Con le spese processuali, le spese legali, le cause per risarcimento danni si costruisce in Germania uno scenario minaccioso teso a colpire giornalisti, autori, film-maker, case editrici ed emittenti radiotelevisive. L’intenzione è chiara. Chi intende parlare di mafia in Germania deve pentirsene: “Colpirne uno per educarne cento”. Ormai sono una sorvegliata speciale. L’avvocato della controparte fornisce quasi ogni due settimane al tribunale di Lipsia un resoconto di quello che io o altri hanno detto o scritto su di me su Facebook, Twitter, nel mio blog e in interviste o articoli. In un altro libro “Sulla strada per Corleone” ho cercato di descrivere la storia del successo della mafia in Germania, dato che tutt’ora le leggi tedesche sono per la mafia un invito a nozze. L’associazione mafiosa in Germania non è un reato, c’è solo il paragrafo "associazione criminale di tipo mafioso” (pena massima di cinque anni), che non viene quasi mai applicato, e non corrisponde in niente al 416 bis del codice italiano. Non riguarda appalti o servizi pubblici, omertà, confisca dei beni. Il riciclaggio è un gioco di bambini in Germania. Mentre in Italia chi investe deve (almeno in teoria) dimostrare che i soldi investiti provengono da fonti pulite, in Germania l’onere della prova spetta al poliziotto, all’inquirente che deve dimostrare che i soldi sono di provenienza mafiosa. Per quanto riguarda la confisca di beni mafiosi in Germania, questi possono essere confiscati soltanto se la condanna del proprietario dei beni per associazione mafiosa è passata in giudicato. Ora, spesso i mafiosi vivono da decenni indisturbati in Germania, dove l’associazione mafiosa non è reato. E non hanno precedenti in Italia, ancora meno per associazione mafiosa. Così puliti, i mafiosi sono considerati imprenditori di successo in Germania, al massimo colpevoli di delitti "cavallereschi”: possesso di droghe, evasione fiscale o eccesso di velocità. Intercettare mafiosi in Germania è praticamente impossibile, perché è vietato realizzare intercettazioni in appartamenti privati e in locali pubblici. Se un magistrato dovesse insistere nel voler mettere sotto controllo il telefono di un presunto mafioso, si mette in moto un procedimento kafkiano. In Baviera decide la Staatsschutzkammer, una Camera consultiva composta da tre giudici, se debba essere concessa un’autorizzazione ad intercettare oppure no. Ormai nessun magistrato tedesco compie più il tentativo di chiedere un’autorizzazione in tal senso. La strategia di comunicazione della mafia in Germania ha funzionato alla grande. La strage di Duisburg ormai è stata rimossa da tanto tempo, viene considerata come un increscioso caso singolo, e non come la punta di un iceberg. Per evitare una specie di autocensura, ho deciso di scrivere in futuro solo romanzi sulla mafia, basati su fatti realmente accaduti. Così ho inventato una donna magistrato antimafia siciliana: “Serena Vitale”, figlia di emigranti italiani in Germania, cresciuta a Dortmund. Dunque, con un occhio di riguardo per delitti di mafia collegati con la Germania. Quest’anno è uscito il terzo volume dei mie romanzi con Serena Vitale: “Bei aller Liebe” (“Con tutto l’amore”) tratta del business della mafia con profughi e i centri di accoglienza. Quello che mi auguro per l’Europa è che le informazioni sulla mafia possano circolare cosi liberamente come i soldi sporchi.

Quando Babbo Natale chiedeva il “pizzo” a Berlino, scrive il 5 febbraio 2018, scrive Sandro Mattioli su "La Repubblica". Sandro Mattioli - Giornalista, presidente dell'associazione "Mafia? Nein, Danke!” Nell’ufficio a Berlino nella sede dell’associazione "Mafia? Nein, Danke!”, le mie collaboratrici ed io guardiamo una lettera sbiadita, appesa al muro con due pinze. Per essere più precisi, ed è importante essere precisi in questo contesto, è solo la fotocopia di una lettera. Il testo non si può leggere perfettamente perché la fotocopia è un po’ troppo chiara, ma con un pochino di impegno ci si riesce. Sull’originale c’era attaccato un adesivo con dei pacchetti e una faccia di Babbo Natale, quasi come quelli in regalo nei giornali per ragazzi. Ci sorride anche nella versione fotocopiata. La lettera riporta: “All’attenzione della vostra persona, siamo una cooperativa di assistenza con decennale esperienza, perciò ci pregiamo sottoporvi la presente; Noi vi garantiamo sicurezza per voi e le vs. famiglie… una polizza assicurativa, che vi consigliamo di non rifiutare… Ogni mese passeranno i nostri incaricati che si presenteranno a nome del vs Santo protettore, Che voi dovete benedire con un’offerta spontanea, perché ogni offerta che non viene data con il cuore o viene data in ritardo o peggio con l’infamia di giuda, fa dolore al Santo, ma più ancora al peccatore. Cogliamo l’occasione per augurarvi un Natale di pace e un prospero anno nuovo”. Questa lettera risale a dieci anni fa. Fu consegnata a oltre 50 ristoratori di Berlino, e tutti capirono: è una minaccia. Era il periodo subito dopo Duisburg, la tensione era alta. Nonostante da giornalista italo-tedesco mi occupassi da anni di criminalità organizzata, neanch’io mi ero subito reso conto quando vidi la lettera: non è solo un simbolo di una minaccia, ma anche di una - purtroppo solo piccola – sconfitta delle mafie. Non solo perché gli estorsori sono stati arrestati dalla polizia berlinese e messi in galera, non solo perché l’unico successo ottenuto da questo tentativo di chiedere il pizzo fu la nascita di “Mafia? Nein, Danke!”, l’unica associazione tedesca antimafia e una realtà sempre più importante. No, anche per un altro fatto molto importante: sia dagli omicidi di Duisburg, sia da questa azione i clan hanno dovuto imparare che il loro modello, i loro metodi di comunicazione, insomma, tutto ciò a cui loro erano abituati, non sono efficaci fuori dal contesto tradizionale. Parliamo di piccola sconfitta però, perché dobbiamo purtroppo riconoscere la capacità dei clan di adattarsi rapidamente a situazioni nuove, e quindi oggi ci troviamo di fronte a una mafia che investe i suoi soldi nelle zone estere e sceglie le sue strategie adattandole al contesto locale. Ma in questo doversi adattare dei mafiosi si nasconde anche un potenziale importante: con i metodi giusti si può diminuire parecchio la loro forza. Visto che i clan in Germania non usano né tanta violenza né tanta forza di intimidazione, ma utilizzano soprattutto soldi ed investimenti per affermare il loro potere, è lì che bisogna colpirli. Ed è proprio lì che nasce il problema. Perché i soldi possono anche essere sporchi, ma non puzzano. Non lasciano tracce di sangue, almeno non visibili e si muovono senza lasciare tracce. L’Italia sta già facendo il possibile per rendere i soldi il più possibile tracciabili. Ci sono inchieste della Guardia di Finanza che si concentrano soprattutto sui flussi finanziari. Procedimenti come ad esempio “Phone cards” in cui sono stati riciclati due miliardi di euro -  cifra enorme - in un’operazione di riciclaggio complicatissima. In Germania siamo lontani da tali successi. La confisca di capitali mafiosi è quasi inesistente, in dieci anni sono stati confiscati dalle organizzazioni mafiose solo 5,85 milioni di euro. Considerando solo il business della cocaina in Germania ci si rende facilmente conto che è una cifra ridicola. Sono soprattutto i legislatori a dover rendersene conto. Purtroppo la legge tedesca si concentra sui reati singoli: uno spaccio di droga, un carico di cocaina, un furto, una truffa ai danni di un’assicurazione. C’è un modo di dire tedesco: den Wald vor lauter Bäumen nicht sehen, significa: non vedere la foresta per i tanti alberi. Esattamente quello che sta succedendo in Germania: non si vede la parte organizzativa, e ancor meno i flussi finanziari. Perché purtroppo il settore finanziario, spesso complice di delinquenti, non è ancora obbligato alla trasparenza, né sul livello nazionale e ancor meno su quello globale. Finché questa situazione non cambia, le mafie non avranno bisogno di mandare lettere minatorie, semplicemente per il fatto che non convengono. È un affare troppo rischioso e troppo poco redditizio chiedere il pizzo all’estero, serve solo per motivi simbolici nelle zone tradizionali delle mafie. Nelle zone estere invece la pericolosità porta un’altra faccia: quello dei dollari, degli euro, dei franchi e di tante altre valute.

I "piccioli” e la lingua mafiosa della City, scrive il 3 febbraio 2018 Marco Gambino su "La Repubblica". Marco Gambino - Attore. Dove ci sono piccioli c’è la Mafia. Così dicono. E In Inghilterra, in particolare a Londra, di piccioli ce ne sono tanti, e si vedono. Se ne sente l’odore ad ogni angolo di strada. La città si veste di palazzi e grattacieli a ritmi frenetici. Da un giorno all’altro s’inaugurano bar e ristoranti vistosissimi. Prendono il posto di quelli c’erano fino a poche settimane prima oppure vanno ad insediarsi a decine in piazze lastricate di marmi pregiati disegnate apposta per loro. Si sventrano edifici storici per farcirli di lussuosissimi appartamenti alveare che spesso si vendono in blocchi. Gli affitti hanno costi impossibili. Il mercato immobiliare è tra i più insensati del mondo. Londra annega nei soldi. Per aprire una società in Inghilterra bastano 50 sterline. Si fa tutto online. Gestire quasi tipo di business è un gioco da ragazzi. Burocrazia snella e assenza di regolamentazione fanno dell’Inghilterra uno dei paesi più corrotti del mondo. Una corruzione molto particolare di cui responsabili non sono né la politica né l'amministrazione. Londra è stata dichiarata la capitale mondiale del riciclaggio e la City, assieme a Wall Street, sono le più grandi lavanderie, a livello globale, per il denaro sporco proveniente dal narcotraffico. Il mio commercialista, indicandomi l’enorme edificio che sta crescendo vicino al suo ufficio, in zona Earl’s Court, mi spiega che quasi tutti gli appartamenti sono già venduti. Li hanno comprati i Cinesi. Nessuno ci verrà mai ad abitare. Alla sera si accendono luci che illuminano case disabitate e che rimarranno vuote per anni. I nuovi proprietari a volte dimenticano persino di ritirare le chiavi, che restano a lungo nei cassetti dei venditori. Lo scopo dell’acquisto è infatti l’aumento di valore degli immobili: viverci o farci vivere qualcuno non è quasi mai contemplato nei progetti di chi l’acquista. E chi l’acquista non è certo il gentleman in bombetta, ma una Società d’investimenti internazionale che incanala flussi finanziari provenienti dal traffico illecito. Quando arrivai a Londra oltre vent’anni fa, l’odore dei soldi non era certo prorompente come oggi, ma se ti capitava di passeggiare per la City dove già cominciavano a sorgere i primi grattacieli contemporanei, tipo quello dei Lloyds, sentivi che i soldi c’erano anche se non si vedevano. Con un aplomb tutto britannico la città rifuggiva da qualsiasi forma di ostentazione. Risale a quegli anni un fatto che mi coinvolse personalmente e grazie al quale scoprii quel particolarissimo “vizietto” molto British, consustanziale al carattere inglese, ma estremamente ben dissimulato. Avevo trovato un lavoro come assistente di negozio da un antiquario della città. Un giorno ricevetti una telefonata da un’amica che lavorava presso una famosa casa d’aste londinese che mi chiedeva se gentilmente potevo raggiungerla per aiutarla a capire cosa volesse quel Signore che si era presentato nel suo ufficio e non parlava inglese. “Il gentleman”, come lo chiamava lei, era “stuffed with money” imbottito di soldi nel senso letterale del termine. Li aveva tirati fuori dal cappotto, dalle tasche interne della giacca, perfino dai calzini. Arrivato sul posto fui presentato ad un uomo di una certa stazza che aveva depositato sul tavolo del ricevimento, svariate mazzette di soldi. Circa 300.000 pounds in tagli da 50. L’uomo mi disse che erano soldi buoni e mi chiese di spiegare alla signora che con quel danaro voleva comprare cose antiche per portarsele a casa. Il cassiere della casa d’aste dopo aver rapidamente esaminato le banconote, con un sorriso compiaciuto, disse - This is good money so where is the problem? (sono soldi buoni quindi dov’è il problema?). Quel Signore era quindi “welcomed “a spenderli presso la Casa d’aste e salutandoci con la frase “Money is money” (i soldi sono soldi) riprese a fare il suo lavoro. Da quel giorno capii che In Inghilterra i soldi purché “buoni” sono ben accetti e che anche fra un sorry e una cup of tea si possono infrangere regole e consumare crimini. In Inghilterra non ci sono cadaveri sulle strade, né sparatorie. Ciò nonostante la mafia a Londra esiste e parla. Non con il sangue, ma con i piccioli. 

COME PARLANO LE MAFIE.

Come "parlano" le mafie, scrive Attilio Bolzoni e Norma Ferrara su "La Repubblica" il 30 dicembre 2017. In tempo di guerra si sa come “parlano”: sparano. Ma in tempo di pace, come comunicano le mafie? Qual è il loro vocabolario? Come si manifestano all'esterno? Come dialogano fra loro i boss di Cosa Nostra o quelli della 'Ndrangheta o quegli altri della Camorra napoletana? Se è vero, come è vero, che il “morto” di mafia racconta sempre tanto - un cadavere a terra può dire molto di più che un verbale di interrogatorio -  quando la mafia non si rivela con la violenza plateale allora bisogna decifrarla per quello che dice o non dice. Quel che è certo è che ogni epoca ha la sua mafia. E ogni mafia ha la sua lingua. Una volta giuravano in Sicilia: «La mafia non esiste». Ammettono oggi loro stessi, i mafiosi: «La mafia fa schifo». Una capriola nel dizionario e tutto torna a posto. Sotto la polvere. Sapere come si esprimono e come veicolano le loro minacciose parole ci consente di scoprire i loro pensieri, avere una “chiave”, un codice per interpretare i loro messaggi. Perché tutto è messaggio nel loro mondo. Anche i gesti, anche i silenzi. Negli ultimi anni c’è stata una modernizzazione della “parlata” che ha seguito passo dopo passo i mutamenti e le strategie delle organizzazioni criminali. Una fraseologia che è cambiata dentro e fuori i sodalizi, quando capi e sottocapi hanno dovuto esprimersi fra di loro e quando, al contrario, hanno dovuto notificare avvisi agli altri. Costretti a far coesistere segretezza e diffusione di informazioni, le mafie ormai parlano dappertutto. In chiesa e allo stadio, sui libri e al cinema, in politica e in affari, in Rete e al 41 bis, in Italia e all’estero. In questa puntata del blog raccontiamo le loro parole. Perché così come si adattano velocemente alle trasformazioni della società, altrettanto rapidamente i boss e i loro complici adeguano la loro lingua ai tempi e ai luoghi in cui vivono. Per esempio, la ‘Ndrangheta parla in un certo modo fra le fiumare dell’Aspromonte e in un altro quando è sulla via Emilia: carica di brutalità a casa propria, più rassicurante e morbida fra Modena e Brescello. Ma fuori dai confini nazionali la lingua ufficiale è sola una, quella dei soldi. Così, grazie a giornalisti e studiosi e magistrati, racconteremo di quando la mafia non si chiamava ancora mafia. Andando poi a curiosare nel linguaggio dei boss di oggi, a partire dai “pizzini” per passare ai telefoni cellulari, da “radio carcere” a Facebook, dal bacio in bocca a Twitter. E ancora: dalla prima “diretta” della storia mafiosa durante le udienze del maxi processo di Palermo all’“opera letteraria” di Salvuccio Riina, dalle minacce sui post alle esibizioni di potere alle feste del santo patrono del paese. Fino alle intimidazioni verbali su Youtube, fino alle testate di Ostia. E dal linguaggio delle donne nelle famiglie di ‘Ndrangheta a quello dei mafiosi quando parlano con il mondo politico. Naturalmente ci sono anche i "ragionamenti” dei protagonisti di Mafia Capitale. L’idea di dedicare una serie del blog “Mafie” alla comunicazione mafiosa è nata nel settembre scorso, a margine di un convegno ad Assisi sulla libertà di parola e contro i muri mediatici, organizzato dall’associazione “Articolo 21”. Chiacchierando fra giornalisti, abbiamo pensato di svelare qualche mistero e smontare più di un luogo comune. Come quello sulla famosa frase che una volta si pronunciava sempre in Sicilia: «La meglio parola è quella che non si dice». A quanto pare non è più così.

Quando la "cosa” non aveva ancora un nome, scrive l'1 gennaio 2018 Bianca Stancanelli su "La Repubblica". Bianca Stancanelli - Giornalista e scrittrice. Mafia deriva dall’arabo mahias, che indica le cave, oppure dal piemontese mafio, che più o meno significa villano, o dal toscano maffia, miseria - secondo il Tommaseo? Sull’origine del nome, ancora oggi, mistero fitto. Ma ben prima della parola, esisteva la cosa. E se il termine mafiusi debuttò a teatro nel 1863, con la commedia "I mafiusi de la Vicaria”, e il termine “maffia” apparve ufficialmente nel 1865 in un rapporto dell’allora prefetto di Palermo, criminali in tutto e per tutto identici ai mafiosi comparvero sulla scena siciliana molto prima. Basta leggere, per esempio, il racconto di viaggio dello scozzese Patrick Brydone, che visitò la Sicilia dalla primavera all’estate del 1770. Sbarcato a Messina col proposito di proseguire verso l’Etna e Catania, spaventato dalle notizie sugli agguati di banditi lungo il cammino, il viaggiatore si vide assegnare come scorta dal governatore della città, il principe di Villafranca, due «dei più arditi e incalliti furfanti che esistano sulla faccia della terra». E annotò sul suo diario: «In un altro paese sarebbero già stati messi al supplizio della ruota o appesi in catene; qui invece sono pubblicamente protetti e universalmente temuti e rispettati». Col procedere del viaggio, anche lo scandalizzato Brydone cominciò ad apprezzare i vantaggi della compagnia dei due furfanti: «… ci dimostrano il massimo rispetto, e fanno tutto quanto possono perché non ci venga fatta soverchieria alcuna. In verità sono loro a sopraffare tutti (tranne che noi): riducono i conti come a loro par meglio, tanto che non ne ho mai pagati di così poco salati… Se anche queste due guardie ci costano molto caro (un’oncia al giorno per ciascuno), sono persuaso che ci fanno risparmiare sui conti almeno la metà della loro paga. Ci raccontarono alcune delle loro imprese, senza farsi scrupolo di ammettere che avevano ucciso varie persone, e aggiungevano: “Ma tutti, tutti onorevolmente”. Vale a dire che non lo avevano fatto in modo vile, né senza essere stati provocati». Anni dopo, con identica arroganza, gli assassini si sarebbero presentati come uomini d’onore. E il prezzo per la loro protezione, quell’oncia che al viaggiatore sembrava così ben spesa, sarebbe stato chiamato pizzo. Cambiano le parole, resta la cosa.

Mafia, un'invenzione dei “comunisti”, scrive il 12 gennaio 2018 Fabrizio Lentini su "La Repubblica". Fabrizio Lentini - Giornalista di Repubblica. Il boato dell'esplosione di Ciaculli aveva squassato Palermo. E la sua eco si era dilatata fino a squarciare il secolare silenzio dei palazzi vaticani. Estate del 1963: di là dal Tevere cominciava la stagione del centrosinistra, e i socialisti entravano nelle stanze dei bottoni (senza trovare i bottoni, racconterà più tardi Pietro Nenni). La mafia, come sempre quando si annunciano tempi nuovi, irrompe in scena. E ammazza senza pietà. Come a Portella della Ginestra, sedici anni prima. A Ciaculli riempie di tritolo una "Giulietta" e uccide sette uomini: carabinieri, poliziotti, militari. Strategia della tensione, secondo atto. La Chiesa valdese, piccola ma attivissima, risponde al massacro con un manifesto di condanna della mafia. La Chiesa cattolica, guidata a Palermo dal cardinale Ernesto Ruffini, grande suggeritore della più potente Democrazia cristiana d'Italia, tace. A prendere carta e penna è uno stretto collaboratore del neoeletto Paolo VI, il papa intellettuale, il regista del Concilio. Monsignor Angelo Dell'Acqua, sostituto della segreteria di Stato, scrive a Ruffini invitandolo a valutare se non sia "il caso, anche da parte ecclesiastica, di promuovere un'azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri - d'istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale - per dissociare la mentalità della cosiddetta 'mafia' da quella religiosa". Ruffini, un mantovano che si è calato appieno nel "sentire comune" della terra di adozione, risponde squadernando gli argomenti classici della Sicilia offesa. Un'arringa che culmina con tre righe tranchant: ipotizzare "che la mentalità della cosiddetta mafia sia associata a quella religiosa" è "una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali". Il cardinale ideologo detta la linea. Che resterà salda per quasi un ventennio. Spezzata infine, il 6 gennaio 1980, dai colpi di "38 special" che elimineranno un democristiano onesto e anomalo come Piersanti Mattarella, obbligando i politici cattolici a scegliere senza compromessi: o di qua o di là. O con la mafia o contro la mafia. Ne scaturiranno traumi, rotture, vittime (dal segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti all'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco). La mafia come invenzione dei comunisti. L'antimafia come strumento di propaganda comunista. Sono i leitmotiv che seguono passo passo i lavori della prima commissione Antimafia. Il partito di Girolamo Li Causi e Pio La Torre ad additare le complicità, le connivenze, le omissioni. Il partito di Salvo Lima e Vito Ciancimino a gridare alla calunnia, alla diffamazione, alla strumentalizzazione. Giornali come "L'Ora”, “L'Unità”, “L'Espresso” a raccontare nomi, fatti, circostanze. Sepolti per questo da centinaia di querele, di processi, di cause temerarie. Perfino un grande artista come Bruno Caruso deve subire una condanna per un disegno, apparso su L'Ora, che raffigurava insieme mafiosi e politici collusi. Una macchina di contro-propaganda, di contro-informazione, quella telecomandata dagli amici dei boss, che punta il nemico principale, imprigionando sotto le bandiere rosse personaggi di grande statura e di ben diversa matrice, da Danilo Dolci al cardinale Salvatore Pappalardo, che in quanto nemici della mafia vengono laureati dal Minculpop di Cosa nostra comunisti ad honorem. Imparata la lezione "ideologica", anche i padrini corleonesi, Luciano Liggio prima e Totò Riina dopo, se ne faranno direttamente portavoce. Lo show anticomunista del "capo dei capi" va in scena nell'aula bunker di Reggio Calabria, al processo per l'uccisione del giudice Scopelliti. Attorniato dai giornalisti, Riina fa l'appello dei nemici: "il signor Violante", il "signor Caselli da Palermo", il "signor Arlacchi". E lancia un messaggio dei suoi: "Sono i comunisti che portano avanti queste cose... c'è tutta una combriccola... il governo si deve guardare da questi attacchi comunisti". È il 25 maggio 1994. Il Partito comunista non esiste più da un pezzo, e nemmeno la Democrazia cristiana. Da quindici giorni c'è un nuovo governo, il primo della Seconda Repubblica. Lo guida un imprenditore, un anticomunista doc: Silvio Berlusconi.

Quei figli (mafiosi) dell'era digitale, scrive Hermes Mariani l'1 febbraio 2018 su "La Repubblica". Hermes Mariani - Presidente di WikiMafia, attivista dei diritti civili ed esperto di social media, laureando in Scienze Sociali all'Università degli Studi di Milano. Doppiopetto, accento british e ventiquattro ore: lo stereotipo del mafioso moderno è servito. Sono in tanti a pensarla così, eppure l’evidenza empirica ci dice altro, il mafioso resta nel tempo antropologicamente più simile a se stesso di quanto si possa immaginare. Ma le generazioni cambiano e internet è oggi nelle tasche di chiunque. Emergono nuove modalità di comunicare, grazie alla messaggistica istantanea e ai social network: è il web 2.0. Nuove forme socio-tecnologiche dunque, realtà online in profonda continuità con i processi già attivati nella vita “reale”, offline, che permettono di comunicare con chiunque, in qualunque luogo e in ogni momento e che fanno dell’individuo un medium. Così anche i mafiosi e i loro figli per primi, si ritrovano ad avere un profilo Facebook. È il caso di Salvo Riina, figlio di Totò u curtu, “la belva”, che si reinventa scrittore dopo una condanna per mafia e pubblicizza su Facebook il suo libro, “Riina Family Life”. E sempre su Facebook decide di salutare pubblicamente suo padre morente, seguito da decine e decine di persone che commentano “baciando le mani” al “capo dei capi”, temuto e riverito fino all’ultimo dei suoi giorni. Uomo d’onore perché “rimasto muto fino alla fine”. Ma la creatura di Zuckerberg non viene utilizzata solo per fare le condoglianze alla famiglia del boss dei Corleonesi. Su Facebook gli Spada parlano e danno ordini. È quello che succede a Ostia, X Municipio di Roma (sciolto per mafia), dove Roberto Spada, prima ancora della famigerata testata, ha espresso la propria preferenza di voto per il candidato di Casapound con un post pubblico. Molto attivo sui social, Roberto, fratello del boss Carmine, detto “Romoletto”, avrebbe minacciato la giornalista Federica Angeli - che denunciava i traffici del clan - dandole della “scrofa giornalaia”. Controllo del voto e intimidazioni, ma non solo. Roberto Spada sa usare Facebook a 360 gradi, gestendo le pagine del bar e della palestra di famiglia, oltre che per salutare gli “amici carcerati” durante le feste comandate. “Sei bella come una questura che brucia”, la dedica scritta da un giovanissimo camorrista del rione Sanità sul suo profilo, dove posa con armi in mano, ostenta ricchezza e potere. Sì perché ciò che un tempo veniva fatto fisicamente per le strade ora si fa nelle piazze virtuali. Figli dell’era digitale, anche i rampolli della ‘Ndrangheta hanno dimostrato di saper coniugare l’arcaica cultura mafiosa con le moderne forme di comunicazione messe a disposizione dai social network. E così si taggano nei locali con costose bottiglie in mano, in fotografie armati fino ai denti o in video rap inneggianti alla mafia. Trasmettono messaggi all’esterno del clan, in una piazza virtuale che, però, non rimane tale: perché le armi, le intimidazioni, il fuoco, sono veri. Sanno che utilizzare i social network li espone e attira l’attenzione, ma lo fanno lo stesso. Sono consapevoli dell’enorme portata dei loro messaggi e degli effetti che questi hanno tra i loro conterranei, non solo tra i più giovani. Mafiosi moderni, più spregiudicati dei loro padri, che non mantengono più un basso profilo come i loro nonni. Hanno il potere e lo vogliono ostentare, tutti devono sapere chi comanda. Tutti devono sapere cosa sono disposti a fare per mantenerlo. Veicolano cultura mafiosa in rete, indicando lo Stato, gli sbirri, gli infami come nemici pubblici. “Non vedo, non sento, non parlo”. Invece parlano, e parlano molto. Messaggi intimidatori, indicazioni di voto, dimostrazioni di forza, controllo del territorio, messaggi d’affetto per amici e parenti carcerati. La cultura mafiosa viaggia anche tramite pagine Facebook da decine, centinaia di migliaia di fan: “Onore e Dignità”, “Noi carcerati”, “Il capo dei capi”. Cambiano i modi di comunicare, ma i messaggi sono sempre quelli.

Le voglie di Tony, il "primogenero” di Totò Riina, scrive il 30 gennaio 2018 Sandra Rizza su "La Repubblica". Sandra Rizza - Giornalista. La sua pagina Facebook, aperta nel settembre 2017, ha un nome che è tutto un programma: “Il boss non boss, ma boss nel suo mestiere”. Lui è Tony Ciavarello, marito di Maria Concetta Riina, e il suo uso spregiudicato di Fb già nei mesi scorsi lo aveva trascinato in accese polemiche per gli insulti ai giornalisti, e i minacciosi propositi di rivalsa divulgati dopo il sequestro di alcune sue società nel Salento: “Quello che avete fatto lo riceverete da Dio moltiplicato 9 volte, voi ed i vostri figli fino alla settima generazione”. Ed ecco che il rampollo corleonese ci riprova con un sorta di blog di evidente ispirazione autobiografica. Nella presentazione si descrive fiero come il “primogenero di Totó Riina” e annuncia: “Ho deciso di raccontarvi la mia esistenza (la storia vera e non quella che fino ad ora vi hanno raccontato i giornali), intensa, tribolata, sempre al limite in ogni senso...”. Ora l’intelligence antimafia dibatte e filosofeggia sullo sbarco in rete di una agguerrita net-generation mafiosa. E individua nel desiderio di apparire, di rendersi visibile, di “spettacolarizzarsi” delle nuove leve criminali la ragione per cui sempre più giovani uomini d’onore di Cosa nostra, ‘ndrangheta e Camorra, ostentano sui social modernissimi profili, non sempre criptati, ad uso e consumo di amici e affiliati, sfidando apertamente il rischio di fornire utili informazioni alle forze dell’ordine. Qualche esempio? Il latitante Salvatore D’Avino, camorrista, che nel 2011 si mostrò sorridente sul profilo Facebook della sua compagna mentre passeggiava in Costa del Sol, in Spagna, svelando agli inquirenti il suo nascondiglio e finendo in manette. Ancora più vanesio Domenico Palazzotto, boss palermitano dell’Arenella arrestato nel 2012, che con un account di fantasia amava mostrarsi su Facebook a bordo di potenti motoscafi ma anche sul sedile posteriore di una limousine bianca, sorseggiando una coppa di champagne. E non meno social il camorrista Nino Spagnuolo, di Castellammare di Stabia, fan di Scarface, che scampato nel 2012 ad una sparatoria, non riuscì a resistere e scrisse su Fb: “Sto benissimo, mai sentito meglio, vi raccomando di non stare in pena per me”. Ma non è solo il vezzo di giovani arrampicatori a caccia di un facile pedigree criminale. Perché lo stesso desiderio autobiografico che spinge i parvenu delle nuove mafie ad esibirsi sui social sembra aver travolto anche anziani boss di rango come il boss di Villabate Nino Mandalà che nel 2015 ha scritto “La vita di un uomo”, romanzo fitto di riferimenti alla propria esperienza carceraria maturata dopo la condanna per associazione mafiosa a 7 anni e 8 mesi. E rampolli di alta aristocrazia criminale come Salvo Riina, terzogenito di don Totò che, sfidando la regola millenaria della riservatezza, nonché il mistero che ricopre la pluridecennale latitanza del padre, l’anno scorso ha dato alle stampe “Riina family life”, ritratto di una famiglia in fuga dallo Stato, nel volume lanciato in pompa magna dal salotto di Bruno Vespa. Ma perchè tutta questa voglia di auto-descriversi, di offrirsi agli sguardi altrui? Siamo di fronte ad una spia dell’enorme disagio di sopportare una way of life arcaica, basata sul segreto, che cozza con il mondo della comunicazione globale? Oppure siamo davanti ad una nuova strategia di comunicazione mafiosa che utilizza consapevolmente Internet, i social, e persino l’editoria, per “pubblicizzare” e riaffermare un’immagine seduttiva delle mafie, ormai decimate da ergastoli, pentiti e defezioni? E dunque: è possibile ipotizzare in un mondo di omertà e silenzio, dove la comunicazione può significare vita o morte, l’esistenza di una mafia 2.0 che seppellisce il mondo dei segreti e dei pizzini? La risposta tuttora appassiona criminologi e informatici delle procure, preoccupati di leggere l’ennesima trasformazione delle organizzazioni criminali ma anche di scongiurare la possibilità che, sfruttando l’infinito potenziale del web, le mafie trovino strumenti utili per nuove estorsioni, ma soprattutto per la gestione dei latitanti sul territorio aggirando le intercettazioni telefoniche. Poco più di un anno fa, Facebook fu costretto ad aprire i suoi “server” ai pm di Palermo per recuperare i messaggi di Anna Patrizia Messina Denaro con il fratello Matteo, il boss in cima alla lista dei super ricercati di Cosa nostra. La donna, poi condannata a 13 anni per associazione mafiosa, apriva un profilo Facebook dietro l'altro, con foto e nomi falsi, l’ultimo dei quali era quello di un’imperatrice romana: Lucilla. Oggi, gli inquirenti sono ancora a caccia di chi si nasconde dietro gli indirizzi Ip dei misteriosi interlocutori con cui Anna Patrizia scambiava affettuosità sulla chat privata. Mandando messaggi di poche righe, come fossero pizzini, formato web.

Telegram, teste di cavallo e pistole fumanti, scrive il 2 febbraio 2018 Pierpaolo Farina su "La Repubblica". Pierpaolo Farina - Ideatore di WikiMafia – Libera Enciclopedia sulle Mafie. "Aspetta, ora ti faccio una poposta che non potrai rifiutare”, e mentre pensi a quale diavoleria l’altro tirerà fuori, ecco che arriva la testa mozzata di un cavallo infiocchettata. No, non è una riedizione trash del Padrino, parliamo di una conversazione su Telegram, il competitor russo di WhatsApp, che assieme alla pregiata collezione di 35 “stickers” della Regina Elisabetta II permette ai suoi utenti di usare anche quella originalissima di “Don Corleone”. Insieme alla testa di cavallo, l’utente ha a disposizione persino la pistola dalla quale spunta la bandierina “dislike” e quella con il boss italoamericano agghindato a Re inglese con la scritta “now kiss” (ora bacia). La mentalità mafiosa, che come ricordava Falcone non è necessario essere dei criminali per possederla, ora viaggia quindi anche attraverso conversazioni criptate e assume la forma di una modalità di comunicazione come tante altre. “Qual è il problema, quindi?”, si chiederanno in molti. Il problema c’è ed è concreto perché la Mafia che si fa “brand” contribuisce a diffondere un’immagine distorta del fenomeno; non ne provoca l’invisibilità, al contrario, la rende maggiormente visibile, ma la presenta in associazione a valori positivi per la società occidentale quali la famiglia, il rispetto delle regole, l’onore e il coraggio, sempre associato alla forza. Non quindi un’organizzazione criminale che distrugge l’economia legale, prospera sulla corruzione e trasforma i cittadini in sudditi, cancellando le libertà personali ed elargendo diritti sotto forma di favori; bensì un’associazione di mutuo soccorso, fondata su potere, soldi e prestigio, che combatte le ingiustizie e diventa un modello a cui ispirarsi per farsi largo nella società. Tutti possono diventare Don Corleone, arrivato negli Usa che era nessuno e morto come il più grande boss di tutti i tempi. La diffusione di questi modelli soprattutto all’estero contribuisce a un’internazionalizzazione della mentalità mafiosa che passa anzitutto attraverso l’accettazione del suo pilastro fondamentale, l’omertà, che diventa fattore costitutivo dell’onore alla base del successo di qualsiasi uomo. Anche l’utilizzo di banali stickers, probabilmente per scherzo o per gioco, finisce con l’alimentare questa mitizzazione della mafia fenomeno positivo che è tra le ragioni della sottovalutazione del fenomeno al di fuori dei suoi originali contesti di insediamento. Il fenomeno è talmente sfuggito di mano che persino scuole di ballo latino-americano a Roma utilizzano il brand “mafia” per promuovere se stesse; interrogati sul perché della scelta del nome “mafia latina”, i gestori hanno spiegato che il tutto “vuole essere una forma goliardica per esprimere il concetto di un gruppo di persone che non si uniforma alle regole e alla massa e che agisce per conto proprio”. Sollecitati sul reale significato della parola, hanno poi precisato di essere a conoscenza della “connotazione molto negativa, ma in questo caso volevamo semplicemente descrivere la nostra visione del mondo delle danze caraibiche”. L’assoluta buona fede è dimostrata anche dal fatto che la pagina non promuove alcunché che inneggi alle organizzazioni mafiose, solamente normali contenuti inerenti al ballo ed è questo che dovrebbe destare l’allarme sulla penetrazione culturale “positiva” del fenomeno mafioso. In principio arrivarono le magliette e gli accendini e nessuno si scandalizzò troppo, ora, come per qualsiasi altro fenomeno sociale, le infinite possibilità di moltiplicazione dell’impatto sociale offerte dal web rendono più allarmante il fenomeno, soprattutto tra le giovani generazioni, che senza gli adeguati anticorpi culturali non possono comprendere da sole la gravità di inviare a un amico una testa di cavallo infiocchettata su Telegram. La soluzione non può essere però una censura tout court degli stickers o delle pagine che utilizzano il nome “in forma goliardica”, bensì un grande lavoro culturale che passa attraverso la veicolazione di messaggi di segno opposto sullo stesso terreno di scontro. Del resto, lo diceva anche Felicia Impastato, “la mafia si combatte non con la pistola, ma con la cultura”. E vale anche sul web.

E le mafie sbarcano sui social, scrive il 28 gennaio 2018 Enzo Ciconte su "La Repubblica". Enzo Ciconte - Storico. A Ostia, durante la campagna elettorale per il rinnovo del Municipio sciolto per infiltrazioni mafiose, anche gli Spada hanno sentito il bisogno di dare un’indicazione di voto scegliendo di votare per Casapound. Che ci sia un’indicazione di voto da parte degli Spada non è una novità, né è una novità il fatto che ci siano stati in passato rapporti tra costoro e Casapound. Il fatto nuovo è lo strumento usato per dare indicazioni: un post sulla pagina facebook. E che, sempre su facebook, Roberto Spada abbia sentito il bisogno di esprimere la propria opinione dopo la famosa testata data al giornalista che era andato ad intervistarlo. La novità è che sempre di più le nuove generazioni usano i mezzi di comunicazione figli del loro tempo; non stupisce, allora, l’uso frequente di facebook, di WhatsApp, dei social network da parte dei figli o dei parenti più stretti dei mafiosi che li usano per comunicare, per trasmettere i loro messaggi, per controllare. La presenza su facebook è molto diffusa. Stiamo entrando in un universo complesso e decisamente all’avanguardia che fa a pugni con l’immagine che di solito si ha delle mafie considerate come arretrate, vecchie, immobilizzate nel rispetto di regole antiche, sofisticate e fuori dalla modernità; è un’immagine che non regge il confronto con la realtà. Apparentemente c’è una contraddizione tra i mezzi usati per dire la propria opinione che sono decisamente nuovi e i messaggi veicolati che al contrario ricalcano quelli antichi. A Torino, ad esempio, hanno profili Facebook figli di ‘ndranghetisti che ricordano i padri in galera con espressioni d’amore filiale che nulla lasciano alla fantasia: “Onore ai carcerati, peste agli infami”. Se andiamo in Calabria ci imbattiamo nel caso di uno di Lamezia Terme, condannato con sentenza di primo grado a trent'anni di carcere. Trent' anni sono tanti, avrebbe schiantato chiunque, ma non lui; o, almeno, lui non lo dimostra e lo comunica a tutti con un post la sera stessa della condanna recandosi in un ristorante cittadino e cenando a base di pesce; tutto registrato e immortalato in un selfie. Lui ha gestito una pagina, “Onore è dignità”, che è molto seguita: conta 18.781 mi piace e 18.682 seguaci, cioè persone che vengono avvisate ogni volta che verrà postato qualcosa. Sono numeri impressionanti che mostrano legami, seppure virtuali, e molti contatti. Mentre si aprono falle importanti nel consenso tradizionale – i funerali che si fanno all’alba senza il concorso delle folle oceaniche d’un tempo, i politici che non si fanno più vedere a matrimoni e battesimi, i sacerdoti che cercano di impedire gli inchini o che i mafiosi portino le statue dei santi – si cercano vie nuove per acquisire consensi perché i mafiosi sanno che hanno bisogno di avere il consenso più ampio possibile. I messaggi sono elementari, persino banali, ma servono a tenere in vita rapporti, a emettere giudizi, a ricordare che la mafia non esiste, che i carcerati sono tutte vittime innocenti perseguitate dagli sbirri. In Emilia-Romagna predomina in qualcuno il tema del carcere: “La galera è il riposo di un leone”. E poi “un abbraccio forte a tutti quelli che hanno a che fare con il carcere”, in particolare “a voi alle vostre famiglie ai fratelli e sorelle ristretti a chi è agli arresti… in semilibertà ed in sorveglianza speciale”. Il piatto forte è il link a O’sistema dove davvero si ha solo l’imbarazzo della scelta: “La galera è come la vita è dura ma non fa più paura”, “Chi semina repressione raccoglie vendetta… con rabbia coltiviamo il nostro odio antico poliziotto primo nemico”, “I pentiti sono senza onore”, per finire: “Totò Riina è un perseguitato”. È tutto pubblico, scritto senza alcuna cautela. L’uso di questi mezzi è una novità sconvolgente perché vuol dire che ci si sta impadronendo d’uno strumento della quotidianità e del futuro, capace di mettere in comunicazione in tempo reale un numero infinito di persone, di raggiungerle ovunque e senza alcun costo. È una nuova frontiera che si apre e segna un diverso tipo di rapporti che sono diretti e non sono mediati da alcuno. Vi ricordate le tre scimmiette: io non vedo, io non parlo, io non sento che in molti identificavano con l’omertà mafiosa? Bene non esistono più. Adesso anche i mafiosi parlano; di più: fanno riunioni virtuali molto diverse da quelle d’un tempo. A quelle del passato, per partecipare occorreva aver fatto il battesimo mafioso ed essere stati formalmente invitati, a quelle di oggi può partecipare chiunque. Tutti possono sapere – anzi devono sapere – cosa pensa il figlio del mafioso. E se qualcuno mette un mi piace e la volta dopo non lo fa, può arrivargli dal mafioso la domanda: perché non hai messo mi piace? È una domanda apparentemente innocente, in realtà è un modo per dire: ti seguo e so cosa fai, so quante volte metti mi piace. È un controllo sulle persone, che può essere asfissiante perché non puoi più sfuggire dopo aver messo per la prima volta quel mi piace.

Il lessico lercio degli eco-mafiosi, scrive il 27 gennaio Nello Trocchia su "La Repubblica". Nello Trocchia - Giornalista e scrittore. Inviato di Nemo - Rai 2. “Di fare il consulente del ministero dell'Ambiente me l'hanno chiesto in molti, politici e funzionari, in diversi periodi, nel 1994, nel 1995, nel 2000. L'ultima donazione ai carabinieri è stata intorno ai 20 mila euro, qualche volta ho regalato frigoriferi e televisori”. Non c'è niente di violento, di estremo, di bisunto in questa frase. Eppure meglio di ogni altra delinea i tratti della criminalità ambientale, modi e linguaggio. Poche parole che indicano chiaramente un ceto, alto; una personalità, distinta; un mestiere, di rango; un'appartenenza, che conta. Sono state pronunciate, nel 2015, in un'aula vuota del Tribunale di Napoli da Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore, considerato dalla Procura di Napoli l'inventore dell'ecomafia in Campania. In quella frase la conferma che in molti, più volte, gli avevano offerto di diventare consulente del Ministero dell'Ambiente e che più volte Chianese aveva elargito offerte e prebende all'Arma dei Carabinieri. Chianese è stato condannato in primo piano, è in corso l'appello, a 20 di carcere per disastro ambientale e connivenza con il clan dei Casalesi. Avrebbero fatto più effetto altre frasi, alcune contenute nei faldoni delle indagini svolte in questi anni. Tutte pronunciate dai soggetti protagonisti del sacco ambientale. A partire dalla frase, raccontata da Carmine Schiavone, collaboratore di giustizia e cugino di Francesco Schiavone, detto Sandokan, ingordo e demente criminale che ebbe a dire: “Si inquina tutto? Ma tanto noi beviamo acqua minerale” oppure quella pronunciata dall'imprenditore pentito Gaetano Vassallo: “Io ho visto tutta la schifezza che abbiamo sputato nella terra. Una volta scaricammo fanghi, liquidi che erano scarti di lavorazione di un’industria farmaceutica. Poco dopo i ratti si sono estinti, sono spariti”. Boss e titolari di discariche a disposizione dei clan, ma poi ci sono gli imprenditori come il titolare di una cava che disse: “Stanno scoppiando i mattoni e mi hanno individuato come responsabile perché ho mischiato la pozzolana con il materiale riciclato”. Materiale di costruzione impastato con 'monnezza' triturata. E ancora la frase del titolare di una ditta di trasporti alla notizia di un camion che ha perduto l'intero carico, pieno zeppo di rifiuti: “Il prodotto era quello che era, se lo possono mangiare, se lo mettono sul pane e mortadella” ridendo per il disastro causato. Parole untuose e lerce attinte dal lessico di boss, imprenditori, intermediari, faccendieri, azzeccagarbugli che si sono prodigati in questi decenni nel disseminare veleni ovunque cambiando identità al rifiuto solo sulla carta e distruggendo alcune aree del nostro paese e non solo della Campania. Questa è una storia di imprenditoria, politica e professioni e, sempre meno di ecomafia, dove le consorterie criminali svolgono un ruolo sempre più marginale. Una storia dove il linguaggio vira tra il gergale e lo specialistico. In mezzo a bilici, carichi, formulari, codici identificativi ogni tanto c'è chi dice: “Mandami un carico non troppo chanel” più puzzolente del solito oppure, sono gli anni del commissariamento della gestione rifiuti in Campania: “La discarica è piena di liquidi, se sale facciamo il Vajont”. Un linguaggio da specialisti, tecnici, imprenditori, da zona grigia e non da paccottiglia criminale. Diceva bene il primo boss pentito ai magistrati nel lontano 1992: “La monnezza è oro”. Quando ho avuto modo di intervistarlo quel collaboratore, Nunzio Perrella, ha aggiunto: “Io dissi anche un'altra cosa: la monnezza è oro e la politica è una monnezza”. Quella politica che si era venduta le autorizzazioni ricevendo in cambio dazioni di denaro. Questa è una storia di costi di smaltimento da abbattere nei bilanci delle aziende, di ambiente ridotto a sacrificio possibile, di una legislazione inadeguata per decenni dolosamente e a vantaggio di una galassia imprenditoriale prona al profitto e incurante di salute pubblica, territori e futuro. Salute pubblica e vite delle persone, perfino dei bambini, ridotte a danni collaterali. Così diventa tanto oscena quanto chiarificatrice di un modello l'intercettazione emersa in una inchiesta della Procura di Firenze di un imprenditore che al telefono diceva: “Ci mancavano anche i bambini. Non mi importa niente dei bambini che si sentono male. Che muoiano”. Nunzio Perrella ricorda continuamente: “Hanno pagato solo l'1% di quelli che hanno fatto affari in quegli anni”. In quel mare sconfinato di impuniti ci sono i riciclati, quelli che hanno contribuito al saccheggio e che, oggi, investono nelle rinnovabili e nel riciclaggio dei rifiuti. Quando scrivi di loro invocano il diritto all'oblio e chiedono vagonate di soldi di risarcimento. L'auspicio, tramontata la possibilità di accertare penalmente la responsabilità, è che nella relazione della commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti trovino spazio questi soggetti e la loro ascesa imprenditoriale. Aveva ragione, a proposito di parole, Roberto Mancini, poliziotto vittima del dovere, morto nell'aprile 2014, ucciso da un cancro, quando prima di morire insisteva su un punto: “Troppi trafficanti l'hanno fatta franca”. Troppi, impuniti e riciclati. La beffa oltre il danno che oggi è amara realtà. L'ultima relazione della direzione nazionale antimafia è fin troppo chiara sul punto: “In una situazione del genere non potrà né dovrà sembrare strano che al vertice di importanti realtà imprenditoriali – scrive il magistrato Roberto Pennisi - proclivi alla sistematica violazione delle norme ambientali, e che godono della simpatia di influenti potentati politici, compaiano personaggi allenatisi nella palestra campana degli anni ’80-90, che vide il ruolo attivo delle più agguerrite organizzazioni camorristiche”. Nonostante le certezze oggi c'è chi urla "La terra dei fuochi non esiste". I dati ottimi sulla salubrità dei prodotti agricoli, gioia immensa per tutti, non cancellano aree inquinate e in attesa di bonifica, i tombamenti di materiale tossico, falde a rischio in alcuni territori e incendi continui di pattume. L'ultimo allarme arriva da Comiziano, provincia di Napoli, dove in una cava, al centro di movimentazioni di rifiuti per ripristino ambientale, nelle analisi dell'acqua di falda alcuni valori sono oltre soglia come quelli del cancerogeno cromo esavalente. Di certo c'è un fatto che oltre i roghi di rifiuti che fanno piovere diossina, problema perenne e ancora irrisolto, bisogna ormai capire che la terra dei fuochi non è un perimetro territoriale, ma un paradigma di sviluppo che, nonostante nuove norme e promesse, resta terribilmente in auge. Le parole della criminalità ambientale sono sempre più forbite: congiuntivi in ordine e saccheggio ambientale continuo.

Sfoghi e ire di boss che si sentono intoccabili, scrive il 26 gennaio 2018 Paolo Borrometi su "la Repubblica". Paolo Borrometi - Giornalista. Direttore della testata LaSpia.it e collaboratore dell'agenzia Agi.   E’ con un linguaggio, sempre diverso in base a condizioni spazio-temporali, che le mafie comunicano. E lo fanno, ovviamente, per trarre un vantaggio ed un potere permanente. Se fino a qualche anno fa le mafie comunicavano con il suono delle armi (attenzione, in alcuni posti del nostro Paese è ancora così) e con la violenza, adesso lo fanno tramite Internet. Così si passa dalla storica tradizione orale a quella scritta, con i "pizzini” di Provenzano che cambieranno radicalmente la comunicazione mafiosa dentro Cosa Nostra. La comunicazione diventa scritta per difendersi dalla tecnologia messa in campo dagli inquirenti, quella delle intercettazioni e dagli strumenti innovativi. Le organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno sempre investito tempo e denaro per comunicare, spesso interpretate dall’esterno come bizzarria: è il caso, per esempio, dei morti incaprettati o dei morti ammazzati e ritrovati con gli organi genitali in bocca (o con i “tappi”). Mai dimenticare quando, anni fa, fu scoperta la comunicazione tramite gli sms inviati alla trasmissione televisiva “Quelli che il calcio” con messaggi cifrati. Eppure lettere in codice, strizzatine d'occhio alle mogli in visita nei penitenziari o parole storpiate, sono state poco a poco interpretate dagli investigatori. Oggi la nuova comunicazione avviene tramite Skype, tramite messaggerie istantanee codificate o anche tramite – come fanno i terroristi – piattaforme di gioco online. Molti messaggi però avvengono alla luce del sole su social network come Facebook. Come non ricordare, mi duole il cuore nel farlo, l’ordine di ammazzarmi dato dal capomafia di Vittoria, Giambattista Ventura, proprio tramite il noto social network. Un messaggio che, se da un lato venne identificato come “lo sfogo momentaneo dettato dall’impeto d’ira”, dall’altro per le consorterie mafiose è efficacissimo perché permette di raggiungere un numero infinito di persone (fra cui sodali ed avvicinati delle associazioni mafiose stesse) senza rischiare più di tanto. Perché, appunto, considerati dagli stessi che reputavano “bizzarrie” i morti incaprettati, come messaggi dettati dall’ira e senza “vere” conseguenze. Le forme di comunicazione mafiose si evolvono: così da un lato troviamo il figlio di Riina in tv a lanciare la promozione di un libro pieno di messaggi ambigui, dall’altro abbiamo la novità dei social network utilizzati a proprio piacimento per veicolare qualsiasi tipo di messaggio. Combattere le mafie con la conoscenza vuol dire, proprio, tentare di capirne (e prevenirne) i linguaggi. Ancora una volta, nel caso dei social network, (oltre agli inquirenti) sono i giornalisti ad avere un ruolo fondamentale: quello di “scovare” nei profili dei boss, spesso pubblici, messaggi dal contenuto inequivocabile. Perché fra “il detto e il non detto, spesso c’è una comunicazione delle mafie e dei mafiosi veloce e pericolosa, utilizzata da chi vuole comandare, ordinare, organizzare. O anche uccidere.

Spericolati incroci, selfie e segreti di 'Ndrangheta, scrive il 29 gennaio 2018 Klaus Davi su "La Repubblica". Klaus Davi - Giornalista, opinionista, sondaggista e pubblicitario. La 'Ndrangheta, tra tutte le associazioni mafiose e criminali, è quella con la più forte attitudine ontologica alla riservatezza, da sempre. Si tratta di una questione, non solamente formale, ma sostanziale. Infatti, delle oltre settecento regole non scritte che compongono il "Talmud" della 'Ndrangheta, il vincolo al riserbo è forse quello più ossessivamente ricorrente. La mania per la privacy dell’agire dell’uomo d’onore non si circoscrive solo alle attività criminali, ma coinvolge tutta la sfera dell’essere ‘ndranghentista nelle sue articolazioni: il linguaggio, i rapporti interpersonali, la narrazione della propria vita, la sessualità, e – va da sé - l ‘organizzazione dei nuclei malavitosi. E forse non è un caso che, proprio in virtù di questa riservatezza, la 'Ndrangheta abbia trovato punti d'incontro, diciamo cosi, naturale con istituzioni improntate alla segretezza come la massoneria. Questa peculiarità - a dire il vero non specifica della mafia calabrese - ma che in essa rasenta elementi patologici, ha caratterizzato per moltissimi decenni l’identità socio-culturale dell’affiliato made in Calabria o quanto meno dell’immagine che si voleva dare. E il costo di tanta impalpabilità non è stato secondario visto che sull’altare della segretezza e dell’omertà sono stati sacrificate centinaia di vite umane, come ben risaputo. Le cose, probabilmente, non sarebbero cambiate se, con l’avvento della generazione digitale, anche le generazioni espressione dell’ideologia ‘ndranghentistica non avessero sentito l’esigenza di misurarsi con questi linguaggi. Venendo così progressivamente e inaspettatamente meno, anche se in forme diverse, a quella che era una ‘linea guida’ della tradizione familiare. La svolta credo sia identificabile con la comparsa sul mercato della comunicazione dei cosiddetti social network. Tutti i più grandi rampolli dei casati di 'Ndrangheta hanno un rotto con la tradizione ancestrale del basso profilo, avvertendo l’esigenza di misurarsi con questa nuova dimensione. E i nomi scesi in campo sono importanti: da Domenico a Giovanni Tegano, da Giuseppe Pesce a Vincenzo Torcasio, dai piccoli De Stefano fino a contaminare i potentissimi Piromalli di Gioia Tauro. Non che tra i vari ‘brand’ ci sia uniformità di stilemi comunicativi. L'utilizzo dello strumento social cambia da famiglia a famiglia. Muta a seconda delle esigenze che possono essere frutto di aspirazioni meramente sociali fino a rasentare il proselitismo. Molteplici sono gli usi del mezzo social da parte di questi personaggi. In primo luogo c’è quello di carattere personale-politico: la propria pagina diviene uno strumento per esibire e ostentare uno status sociale, correlata di foto, viaggi, serate nei locali, belle ragazze, vestiti e orologi di marca. Un utilizzo socialite, per intenderci, atto a ribadire la propria supremazia gerarchica sintetizzata dal ricorso a status symbols degni dei Corona dei tempi d’oro. C’è stato anche chi però si è spinto oltre. Fra questi Giovanni Tegano, nipote dell'omonimo boss che traghettò Reggio Calabria fuori dalla guerre di mafia tanto da passare alla storia come “uomo di pace”. Giovanni Tegano junior per alcuni anni almeno si distinse per una declinazione dei social parecchio disinvolta. Se ne accorse casualmente chi scrive, in una calda notte di agosto del 2016. Cosa faceva il promettente ragazzo? Postava immagini di revolver ultima generazione, aizzava i propri coetanei contro gli sbirri, auspicava che i pentissero facessero una brutta fine, e inneggiava a chi affrontava il carcere in silenzio. Un delirio episodico? Non proprio. Vincenzo Torcasio, trentenne pupillo dell’omonima famiglia di Lamezia Terme, ebbe la brillante idea di aprire una pagina facebook per attaccare, a suo dire, la mala giustizia. Un crescendo di post e immagini che mettevano sul banco degli imputati i giudici che, strumentalizzando falsi pentiti, schiaffavano – a suo dire -  in galera persone innocenti, colpevoli solo di portare cognomi discussi. Un crescendo di invettive che ebbe fine con l’arresto dello stesso Torcasio, che per forza di cose dovette rinunciare alla mission  digital-anti giustizialista che si era dato. Mai però come il venticinquenne Emanuele Mancuso, ideatore del sito 'Intoccabili autorizzati a delinquere' che fu chiusa dalla Polizia Postale a seguito dei suoi espliciti e reiterati attacchi contro alcuni giornalisti e contro membri dell'associazionismo antimafia. Anche qui ci pensò la Polizia Postale a mettere la parola fine. Un discorso a parte meriterebbero quei siti usati dai mafiosi per mandare messaggi in codice. Rimarchevole l’esempio di due ragazzi appartenenti alle famiglie Tegano e Condello di Reggio Calabria, ritratti a più riprese intenti a scolarsi una bottiglia di champagne in qualche discoteca di Archi. Un sequel di selfie di per se innocuo, che per i conoscitori e gli addetti ai lavori adombrava profondi significati.  Considerando che i loro genitori si erano scannati fino a quindici anni prima, la “photo opportunity” fu interpretata come segnale chiaro: basta guerre, ora marciamo uniti. L’ultimo inquietante e paradossale incrocio fra giovane ‘Ndrangheta e social networking risale a poche settimane fa. Una gang di ragazzi operante in provincia di Reggio, denominata Cumps (tradotto in soldoni: forza e violenza), si è distinta perché Facebook era diventato un canale quasi palese per pianificare estorsioni, ricatti e sistematiche aggressioni. Una strategia un po’ troppo criminalmente rozza, se si considera che gli ordini delinquenziali impartiti tramite emoticon e likes si facevano di giorno in giorno più espliciti e quindi facilmente identificabili da parte delle forze dell’ordine. Le quali infatti li usarono per ricostruire la filiera criminale di questi mafiosi in erba. Resta da capire ora se l’avvento dei social determinerà una mutazione genetica dell’identità della mafia calabrese del terzo millennio. Ovvero fino a che punto essa si ‘camorrizzerà’ come dicono i sociologi, ossia muterà i linguaggi da nouveau riche del gangsterismo partenopeo per abbandonare la tradizione dell’understatement, o se invece la tecnologia sarà l’ennesimo strumento attraverso cui la mafia più potente sarà in grado di ribadire la propria supremazia. La questione è aperta e non sarà di immediata soluzione. (Ha collaborato Alberto Micelotta)

Napoli, il web atlante degli orrori, scrive il 31 gennaio 2018 Fabrizio Feo su "La Repubblica". Fabrizio Feo - Giornalista. Napoli, Rione Traiano, più o meno tre anni fa. Nel quartiere si susseguono atti di violenza tra giovani leve criminali. Fabio Orefice, ventenne, considerato vicino ad un clan della zona, viene ferito nel corso di una sparatoria. Per niente intimorito sfida gli aggressori e posta su Facebook frasi inequivocabili: “Il leone è ferito ma non è morto, già sto alzato. Aprite bene gli occhi che per chiuderli non ci vuole niente. Avita muriii”. “Dovete morire”, scrive, e non contento pubblica le foto che ritraggono i punti del corpo in cui è stato ferito. Aggiunge istantanee di armi e munizioni. Un messaggio per così dire “posta raccomandata”. Sei giorni dopo gli arriva la “ricevuta di ritorno”: sconosciuti a bordo di una moto di grossa cilindrata sparano con i kalashnikov contro il portoncino della sua abitazione. Gli investigatori di li a qualche mese scopriranno che Orefice, a sua volta, ha risposto all’ultimo attacco con una spedizione punitiva...annunciata, rigorosamente, via social network. Sui social viaggiano violenza, minacce, come quelle contenute nella pagina Facebook di Walter Mallo, giovane capo camorra del rione Don Guanella di Napoli ,27 anni e già una condanna a sedici anni, più di metà della vita che ha vissuto. Tempo trascorso a commettere delitti e a scontrarsi con altri clan, che senza troppi complimenti gli hanno messo una taglia sulla testa. Naturalmente via social, dove le dichiarazioni di guerra non si contano. "Due esponenti delle famiglie Mallardo e Misso hanno passato ore a minacciarsi e insultarsi su Facebook. Mancava solo che si dessero appuntamento per una sparatoria, sono senza parole": così Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto di Napoli, tre mesi fa aveva commentato lo scontro tra appartenenti alle famiglie Misso e Mallardo, dietro profili probabilmente falsi. Dalle parole e dai post si rischiava di passare alle pallottole. Negli ultimi 4 anni sono diventati un’infinità i casi in cui camorristi o paranze di giovanissimi gangster napoletani hanno fatto a gara nell'aggiungere sui social network valanghe di foto, post su post, grondanti sottocultura, dichiarazioni di appartenenza al clan come ad una religione, esaltazioni dell'equazione tra potere e violenza, richieste di atti di fedeltà, o vere e proprie operazioni di reclutamento. Il social come mezzo di propaganda, di comunicazione, quasi una funzione vitale, cui in molti restano incollati. E che rischiano spesso di trasformarsi in una trappola. Nel vero senso della parola. In diversi casi è bastato seguire le tracce via internet, i dialoghi e i post, per arrestare camorristi, giovani criminali in Italia, in Spagna o magari in Messico. Per non parlare dell'agghiacciante sistema di scegliere le vittime della guerra tra clan proprio sulle pagine Facebook: una circostanza certificata nelle motivazioni della sentenza di condanna per i killer di un boss della Sanità ucciso a novembre del 2015. Insomma, con un click si può entrare in una sorta di atlante web degli orrori e dei disvalori: dall'elogio dell'omertà e dall’esaltazione del marchio d' infamia per chi tradisce, collabora, all'odio per magistrati, investigatori, giornalisti e Stato. Veri e propri cataloghi del bieco vivere, prodotti di mutazioni che riguardano l'intera società, conditi e drogati da modelli negativi, amplificati in particolare dal micidiale effetto moltiplicatore di alcune serie televisive. Tutto questo ha offerto a studiosi dei fenomeni criminali occasioni e spunti di riflessione spesso assai utili. E’ importante sottolineare però che questo particolare mondo non è nato sui social. Ci si è solo trasferito. Chi segue i fatti di camorra da qualche anno ricorderà che nel giugno 2007 nel corso di un blitz che portò all'arresto di 53 persone (dei clan Ascione e Iacomino-Birra, attivi a Ercolano) vennero sequestrati i locali e gli impianti di ricetrasmissione di 'Radio Nuova Ercolano', frequenza 95.100. Secondo gli investigatori, programmazione e musica coprivano un canale di comunicazione tra affiliati a clan camorristici. Semplici canzoni erano, in realtà, messaggi in codice. Gli auguri erano, invece, congratulazioni per scarcerazioni e comunicazioni con i detenuti nel carcere di Poggioreale. Non era né la prima né l'unica radio a fare quel lavoro. E del resto non c’erano solo le radio. Cinque anni prima, nel febbraio 2002, agenti della Polizia Postale della Campania avevano sequestrato gli impianti di diciassette radio e di quattro televisioni private perché “minavano la regolarità e la sicurezza delle comunicazioni via etere'' al punto da interferire con gli spazi riservati alla sicurezza aerea dell'aeroporto di Capodichino e delle basi Usa e Nato. Furono denunciati i responsabili delle emittenti. Diversi di loro avevano precedenti penali ed uno era stato arrestato dalla squadra mobile di Napoli, mentre partecipava ad un summit di camorra. Un caso? Assolutamente no. Alcune emittenti televisive locali napoletane nel corso degli ultimi 30 anni sono state più volte sospettate di aver dato appoggio ad attività illegali o essere vicine a clan criminali, e in alcuni casi di aver anche riciclato denaro. E tra aste cartomanti, canzoni di neomelodici, hotline sono passati molte volte messaggi in chiaro o in codice ad appartenenti alla camorra, detenuti e non solo: tra il 2004 e il 2009 radio e televisioni tra Napoli, Caserta e Salerno mandavano in onda spesso la canzone 'o capo clan', di un cantante neomelodico napoletano. Un elogio della figura del capo di una cosca di camorra e dei suoi metodi. Nel 2009 fu chiesto di rimuoverla da Youtube. Ma è ancora li.

Le donne e l'eredità dei codici di 'Ndrangheta, scrive il 25 gennaio 2018 Sabrina Garofalo su "La Repubblica". Sabrina Garofalo - Sociologa, ricercatrice precaria. Centro di Women’s Studies “Milly Villa” Università della Calabria

Studiare i ruoli, le presenze delle donne nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso, anche attraverso il loro linguaggio, permette di comprendere come le questioni di genere e di generazione abbiano avuto influenza nelle configurazioni e nelle dinamiche di forza e di dominio sui territori e nelle organizzazioni stesse. In contesti di signoria territoriale - concetto ereditato dagli studi di Renate Siebert e Umberto Santino - è necessario non dare per scontato le dinamiche di potere, violenza e di costruzione del consenso, dimensioni attraversate costantemente dalle dinamiche di sviluppo del maschile e del femminile. Solo così è possibile analizzare le attività delle donne - ancor più quelle comunicative - per comprendere se si tratta di supporto, temporanea delega, o articolazione del potere stesso, e quindi mettere a lavoro i concetti di riconoscimento e legittimazione del potere ‘ndranghetistico. In questa complessità, il terreno della riproduzione di potere e del senso comune, anche attraverso “la parola”, risulta essere la vita quotidiana, nei suoi aspetti pratici e teorici. Le mansioni femminili in ambito criminale si sono sviluppate parallelamente a un ruolo di tipo più tradizionale agito nella sfera privata. Alla donna è stato storicamente affidato il compito di trasmettere il codice culturale mafioso, di incitare gli uomini a compiere vendetta di fare da garante alla reputazione maschile e da merce di scambio nelle politiche matrimoniali - come ampiamente illustrato nelle ricerche di Ombretta Ingrascì (2007). Tutte funzioni che hanno contribuito a rafforzare la struttura socio culturale del sistema mafioso favorendone la sopravvivenza nonostante condanne penali”. Alla donna è stato storicamente affidato il compito di trasmettere il codice culturale mafioso, di incitare gli uomini a compiere vendetta di fare da garante alla reputazione maschile e da merce di scambio nelle politiche matrimoniali. Tutte funzioni che hanno contribuito a rafforzare la struttura socio culturale del sistema mafioso favorendone la sopravvivenza nonostante condanne penali. Nelle famiglie nei contesti di ‘Ndrangheta ancora forti sono le pressioni sulle donne in relazione al corpo e alla affettività, sull’utilizzo delle donne e delle alleanze matrimoniali finalizzate al rafforzamento del potere. Vittima di questa strategia è stato, Pino Russo-Luzza, giovane di Acquaro (Vibo Valentia) ucciso nel 1994 perché innamorato - e ricambiato - da una giovane donna promessa in sposa a qualcun altro dal cognato che voleva dimostrare di avere potere sulla famiglia e sul territorio. E ancora, laddove tradire non è solo un atto giudicabile ma una condanna a morte, perché al tradimento dell’uomo si associa il tradimento della famiglia, le donne della famiglia rappresentano il freno, il richiamo, l’autorità, lo sguardo sulle condotte e sui corpi. Così, è necessario pensare a quella “malanova” pronunciata e urlata contro una giovanissima donna, dalle mogli dei condannati per la violenza - non solo sessuale - subita per anni da Anna Maria Scarfò rea, secondo loro, di aver “provocato e rovinato le famiglie”. E ancora, tale aspetto è forte nella complicità e ambiguità che emerge dalla storia di Fabrizio Pioli, ucciso perché coinvolto in una relazione sentimentale con Simona Napoli. Sua madre, in un colloquio acquisito agli atti che avviene subito dopo la prima denuncia presentata dalla donna afferma “tu non sei normale! Io ho fatto sacrifici e ho avuto un marito che mi è stato accanto e basta, che poi tu le cose le vedi diversa perché sei moderna!”. Normalità e modernità si alternano in questi dialoghi così come durante il processo per la morte di Maria Concetta Cacciola, che viene definita “moderna” per il taglio di capelli e le uscite non di routine e pertanto non “normale”. Una vicenda quella di Maria Concetta Cacciola, triste, drammatica, emblematica come si legge dalle fonti processuali, che ha il suo epilogo nella simulazione di suicidio ingerendo acido muriatico. La madre di Concetta, Lazzaro Anna Rosalba è l’emblema di ciò che può essere definito come leva per infiltrare le relazioni affettive di senso di colpa, ovvero di vergogna e pudore, nella difesa della famiglia. Nel tentativo di far leva sulle relazioni con i figli e con la stessa figura del materno, è lei che dice: “Ricordatelo che non c’è nessuno meglio di tua mamma e di tuo padre. Che se io devo fare sacrifici per mia figlia, io vado e li faccio tutti i sacrifici, vado e li faccio i sacrifici. Perché sei sangue mio, l’hai capito? Sei sangue mia. E se io devo passare problemi vado e li passo, non mi interessa. L’importante che tu sei con tua mamma, con i tuoi figli e con tuo marito, e di farti la tua vita, senza che iniziamo. Perché lo sanno cosa facciamo! Che sono vent’anni che facciamo questa vita noi. Non avevano bisogno di te per venirmi ad arrestare, hai capito? Stai sicura e tranquilla. E poi che facciano quello che vogliono, io mi so difendere, non sono… io non sono di quelli che sono venuti a ricattarti in tutti i modi. Questi cani luridi. Non ti preoccupare per me. Badati i tuoi figli, a tua mamma, che questa sta morendo. E l’hai capito”. Tutto ciò a fronte di violenze agite contro Maria Concetta, limitata nella libertà e colpita fisicamente in seguito alla scoperta della sua relazione extraconiugale. La madre è in questo caso, la linea di demarcazione della scelta basata sul materno come riproduzione di dinamiche di dominio e potere tutte dedicate e rivolte al maschile. È ancora lei ad affermare: “Me ne frego di loro che mi chiudono, o con noi o con loro devi stare”. Importanti, per comprendere il frame di riferimento, sono le parole che Maria Concetta, donna innamorata che ha in inizialmente oltrepassato il confine, scrive a sua madre: “In fondo sono sola. Non volevo il lusso, volevo la serenità, l’amore che si prova quando fai un sacrificio, a me la vita non ha dato nulla, se non dolore. So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell’onore, che ha la famiglia, per questo che avete perso una figlia”. Le stesse parole che ripete agli inquirenti Simona Napoli: la legge dell’onore è più forte, meglio una figlia morta che disonorata. La scelta individuale in questi contesti è pressoché inesistente, e sono le donne le artefici di pratiche di depotenziamento delle scelte di autodeterminazione di molte donne, spesso figlie e sorelle. La relazione tra violenza subita e agita, come sottolinea Renate Siebert, si articola nella inconsapevole memoria storica dell’intrinseca vulnerabilità del proprio corpo, traducendo tutto in esperienza biografiche che si muovono in ambivalenza tra carnefici e vittime nello stesso tempo. Una ambivalenza evidente ancora una volta nelle parole di una donna, Angela Donato, madre di un giovane ucciso per onore, che da giovane aveva ben conosciuto gli ambienti ‘ndranghetistici e che - come racconta in una intervista -  avverte il figlio con queste parole “Ma come te lo devo spiegare? Le donne dei boss non si toccano, perché un giorno o l’altro ti fanno sparire ti mettono in un pilastro e mamma non ti trova. E lui rispondeva: “No non ti preoccupare che a me non mi toccano. Santo io ci sono stata, conosco le persone, conosco il passato. Allora non c’erano queste cose, però guai se qualcuno toccava la famiglia, guai se pestava i piedi a un altro... Era la fine. Questa cosa c'è stata sempre, vedi che queste cose si lavano col sangue”. Angela continua ora a chiedere la verità sulla morte del figlio. Storie e parole che mettono in evidenza come si debba ancora oggi, parlare per la ‘Ndrangheta di donne che aderiscono all’ordine materiale e simbolico maschile attivamente e mostrando l’ambivalenza verso il dominio maschile che produce, come afferma Renate Siebert “condotte violente le quali - sullo sfondo di una sostanziale impotenza (che si manifesta nella impossibilità di essere padrone del proprio corpo e della propria sessualità) si scagliano contro i più deboli, ossia le altre donne, e nell’ombra di tale groviglio relazionale ed emotivo che si strutturano le astuzie dell’impotenza femminile e l’illusione di una emancipazione negli interstizi del potere patriarcale”.

Quando si confondono le Cupole, scrive il 24 gennaio 2018 Alessia Candito su "La Repubblica". Alessia Candito - Giornalista del "Corriere della Calabria” e corrispondente di Repubblica dalla Calabria. Dice vecchia regola non scritta del mercato e del commercio: “Se non lo puoi superare, imitalo”. E la ‘Ndrangheta, a Reggio che è la sua capitale e nella Calabria che è il suo feudo, l’ha seguita alla perfezione. Fin dall’Ottocento, raccontano gli archivi, la nascente picciotteria calabrese – o “maffia” come appare in alcuni scritti – si è infilata dietro gli altari, sotto le statue in processione, nelle parrocchie e nelle canoniche, si è mischiata a flagellanti e si è nascosta nelle confraternite. Alla ricerca di legittimazione, l’organizzazione nata nelle carceri borboniche che divideva con massoni “mangiapreti” e da questi ispirata, ha preso al cattolicesimo santi, simboli e liturgie per mischiarle ai propri rituali e giuramenti. Un modo per raccontarsi non in contrapposizione, ma in perfetta linea di continuità con quella religione che all’epoca era forse l’unica matrice di identità unica della sparpagliata popolazione calabrese. Risultato, un sincretismo criminale, a metà fra culto laico e santerìa meridionale, che ha trasformato i santuari in covi di ‘ndrangheta, santi e madonne in protettori di latitanti e i beati in patroni degli omicidi. Un’operazione perfettamente riuscita. E contro cui la Chiesa, quanto meno fino a qualche tempo fa, non ha certo fatto barricate. Salvo qualche rara eccezione, nella storia del secolo breve, non risulta che la Chiesa in Calabria si sia spesso scagliata contro chi sui territori distribuiva pallottole con l’ecumenicità delle ostie durante la comunione. Innumerevoli latitanti si sono sposati davanti agli altari, hanno battezzato figli e allo stato non risulta che qualche boss sia morto senza il cosiddetto conforto dei sacramenti. Di rado poi, sacerdoti e soprattutto vescovi si sono scostati quando i boss sgomitavano per farsi vedere accanto a loro in processione, nelle chiese o durante pubbliche liturgie. Una necessità per i capimafia, ansiosi di dimostrare di essere potere reale, in grado di confrontarsi – se non di controllare – il potere spirituale. Una comodità per una Chiesa che al sud era in primo luogo feudataria e grazie a quell’esercito informale spesso si sentiva protetta contro braccianti affamati di terre e il “pericolo rosso”. C’è anche chi potrebbe anche aver perso di vista il confine fra le due organizzazioni. Così gli investigatori pensavano di don Stilo, potentissimo prete della Locride, grazie alla Dc “padrone” dei fondi per gli alluvionati di Africo, divenuti strumento per assicurarsi voti e anime, ma anche proprietario del collegio che ha regalato diplomi a più di un mafioso, in cui forse – dicono i pentiti – avrebbero soggiornato anche Luciano Liggio e Totò Riina. Sotto gli occhi benevoli della Chiesa calabrese, che non si è scomposta neanche quando il suo sacerdote è stato arrestato e condannato (sentenza poi miracolosamente annullata), don Stilo per decenni ha incontrato boss e picciotti “per ragioni di apostolato”. Allo stesso modo, per decenni sembra si sia sviluppata una sistematica e generale miopia, che ha impedito a tonache di ogni grado di vedere che gli ‘ndranghetisti compravano i banchi delle chiese e ne finanziavano la ristrutturazione, che i portatori delle vare erano noti picciotti o che santi e madonne in processione si inchinavano di fronte alle case dei boss. Pratiche tuttora molto in voga. Adesso però – quanto meno quando assurgono agli onori delle cronache – la Chiesa calabrese sembra reagire. Sorteggia e non mette all’asta i posti sotto la vara, rispedisce al mittente le offerte di imprese in odor di mafia, e non sembra più infastidirsi (troppo) per quei sacerdoti riottosi che si ostinano ad affrontare in prima linea i clan. Ma ancora inciampa in operazioni fin troppo cosmetiche. Quando è finito in manette don Pino Strangio, storico rettore di Polsi, santuario divenuto punto di riferimento mondiale della ‘Ndrangheta, la Chiesa calabrese si è affrettata a rimuoverlo dall’incarico. Ma ancora oggi, che da imputato risponde di concorso esterno e violazione della Legge Anselmi sulle associazioni segrete, don Strangio è il parroco di San Luca, uno dei paesi della Locride a maggiore densità mafiosa, da cui il santuario di Polsi dipende. Certo sarà un processo a stabilire eventuali responsabilità penali, ma talvolta non è necessario attendere una sentenza per valutare l’opportunità di rapporti, comportamenti e frequentazioni. Al netto delle annunciate scomuniche papali, c’è ancora tanto lavoro da fare.

La cosca mediatica della Pianura Padana, scrive il 23 gennaio 2018 Elia Minari su "La Repubblica". Elia Minari - Coordinatore dell'associazione culturale antimafia "Cortocircuito” di Reggio Emilia. L’obiettivo è condizionare l’opinione pubblica del Nord Italia. Diversi personaggi vicini alla ‘Ndrangheta sono sempre più interessati a tv e giornali. Negli ultimi anni, nella Pianura Padana, ci sono stati casi di trasmissioni pilotate di tv locali, interviste ai giornali su commissione, comunicati e conferenze stampa: armi che oggi spesso sono ritenute più persuasive di proiettili e anche di minacce. Questa strategia, in certi casi, è stata appoggiata da insospettabili giornalisti e anche da alcuni poliziotti: uomini in divisa che poi sono stati arrestati dai loro colleghi. «Tendevano a controllare l’informazione, è una nuova strategia mafiosa al Nord», afferma il già Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti, autore della prefazione del libro che ho scritto. “Guardare la mafia negli occhi” è un testo frutto di otto anni di approfondimenti, realizzati in prima persona. Nel 2009, durante il liceo, iniziò l’avventura che mi ha portato - insieme all’associazione studentesca “Cortocircuito” che coordino - a far emergere fatti e vicende che in tanti preferivano tenere nascosti. Quando iniziai non mi sarei mai aspettato di vedere una video-inchiesta, realizzata da studente, proiettata in tribunale da parte della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna; anche altri approfondimenti sono stati utilizzati dalla magistratura. Nel luglio 2012 su un quotidiano nazionale venne pubblicata una lunga lettera firmata da Gianluigi Sarcone, attualmente imputato nel maxi-processo “Aemilia”, il più grande processo di mafia del Nord Italia. La sua fedina penale aveva già alcuni precedenti non di mafia: tentato omicidio, detenzione illegale di armi e munizioni, ricettazione. Nonostante queste condanne definitive, nelle sue apparizioni mediatiche non sono stati citati i suoi precedenti penali. Eppure Gianluigi Sarcone non appartiene a una famiglia qualsiasi: suo fratello è stato condannato in via definitiva per associazione mafiosa e attualmente è accusato dalla magistratura di essere uno dei massimi capi della ‘ndrangheta nella Pianura Padana. «Siamo dei giovani imprenditori edili», così Sarcone si presentava sui giornali. Inoltre assicurava che in Emilia «mafia non ce n’è». Poi attaccava frontalmente i convegni sulle mafie, che anche io organizzavo insieme ai miei amici. L’aveva fatto, alcuni anni prima, anche un imprenditore emiliano: scrisse su un giornale locale che parlando di mafia danneggiavamo l’economia della Pianura Padana. Un altro caso: l’imprenditore Michele Bolognino, con quasi vent’anni di detenzione alle spalle, nell’aprile 2013 tenne una conferenza stampa a Padova. L’articolo di giornale veneto non parlava della sua condanna passata in giudicato per associazione mafiosa e delle sue sei condanne definitive per ricettazione. Così l’imprenditore si poteva presentare all’opinione pubblica del Veneto come un onesto uomo d’affari. Convocare i giornalisti, per parlare a un tavolo con i microfoni accesi, non è più un’esclusiva di politici, calciatori e vip: pure i mafiosi scalpitano per avere il proprio spazio mediatico. Anche i vecchi esponenti della ’Ndrangheta si stanno adeguando al nuovo modello che impone una ricerca spasmodica del consenso mediatico. Ne è un esempio il boss Francesco Grande Aracri del comune emiliano di Brescello: ha chiesto più volte a giornalisti della Rai e di Mediaset di organizzare una conferenza stampa. Voleva parlare, per esporre le proprie ragioni. Grande Aracri, dopo avere subito il sequestro di beni per un valore di tre milioni di euro, rilasciò già un’intervista a una tv nazionale. Un’apparizione mediatica per presentarsi come un onesto lavoratore. A proposito di Brescello: nelle scorse settimane è stata emessa la sentenza definitiva sullo scioglimento per mafia di quel consiglio comunale. Nelle motivazioni della sentenza del Consiglio di Stato, i giudici danno grande rilievo alla nostra video-inchiesta. L’inchiesta è citata persino nel primo punto della sentenza, infatti è da quel video caricato su YouTube che sono partite le indagini dei carabinieri. Nella sentenza viene approfondito un episodio particolarmente inquietante: alcuni giorni dopo che pubblicammo la nostra video-inchiesta online, nel settembre 2014, a Brescello ci fu una manifestazione in piazza per contestare quel video che faceva luce sul radicamento della ‘Ndrangheta nel comune. Alla manifestazione in piazza - durante la quale mi furono rivolti insulti - erano presenti almeno cinquanta persone vicine al clan mafioso nonché imprenditori colpiti da interdittive antimafia e familiari del boss Francesco Grande Aracri. È scritto nella sentenza definitiva. Nel libro-inchiesta emergono altri casi concreti connessi alla comunicazione: storie di ragazzi, miei coetanei del Nord Italia, che su Facebook si comportano da piccoli boss. Alcuni di loro sono figli o nipoti di persone legate alla ‘Ndrangheta. Si fotografano con mucchi di banconote, armi e auto bruciate. Immagini impressionanti che vengono pubblicate senza alcun timore sui social network. Gli uomini vicini alla ‘Ndrangheta nella Pianura Padana lanciano messaggi chiari e si mostrano in piazza, sui media tradizionali e su Facebook.

L'abc del pentito calabrese, scrive il 22 gennaio 2018 Giuseppe Baldessarro su "La Repubblica". Giuseppe Baldessarro - Giornalista di Repubblica. A sentirlo parlare ricorda Tommaso Buscetta, quando nel 1986, nell’aula del maxi processo di Palermo, svelava i segreti di Cosa Nostra. Antonio Valerio, il pentito della ‘Ndrangheta che sta raccontando le “cose” dei clan in Emilia Romagna, ha lo stesso piglio, la stessa nitidezza nei racconti. A trent’anni dalle parole di “don Masino”, anche lui usa un linguaggio “scolare”. Quel linguaggio indispensabile a far comprendere ai magistrati i meccanismi e la cultura di un’organizzazione criminale da queste parti ancora “sconosciuta”. Buscetta, a Palermo, raccontava per la prima volta al mondo l’essenza di Cosa Nostra. Valerio, a Reggio Emilia, ha spiegato la ‘Ndrangheta a giudici che per la prima volta si occupano di clan calabresi. Lo ha fatto senza giri di parole, e nessuna metafora. I sott’inteso usati tra ‘ndranghetisti e tra calabresi che conoscono il fenomeno sono d’un tratto scomparsi, sarebbero stati inutili. In aula, davanti ai giudici, per essere compresi i pentiti di nuova generazione parlano in chiaro, come se si trattasse di una nuova lingua, per neofiti. In questo senso ha iniziato dall’a.b.c. dalla storia dei clan in Emilia Romagna: «Posso dire che in Emilia la ‘Ndrangheta esiste quantomeno dagli Anni Ottanta». All’epoca, le locali di ‘Ndrangheta, strutturate e forti, c’erano e agivano nel nome dei Dragone. Poi la guerra di mafia interna, combattuta sul territorio emiliano romagnolo e su quello calabrese. Quindi l’ascesa dei Grande Aracri e dei loro alleati. Valerio arriva al seguito dei cutresi a Reggio Emilia fin dall’inizio, si fa le ossa con la droga, poi ci sono gli omicidi, quindi l’assalto alle imprese del settore edile. E svela ogni passaggio: “Si rischiava troppo a spacciare droga. Per quello siamo passati alle false fatturazioni, alle evasioni fiscali e via dicendo. Per soldi abbiamo anche falsificato permessi per la Bossi-Fini con false attestazioni per le sanatorie. Del resto Reggio Emilia era piena di stranieri con false certificazioni. Io andavo semplicemente a ritirare in prefettura i pass e via così”. Soldi a palate senza sporcarsi le mani. “Bastava pagare tre bollettini ed era fatta. C’era il credito Iva che poi si usava per compensare addirittura i contributi». Un doppio incasso: soldi dai “clienti” stranieri, e somme sottratte all’erario. Tutto spiegato in maniera semplice e diretta. Come quando parla ai magistrati delle risorse a disposizione delle cosche a processo: “Hanno ancora tanti soldi e continuano a gestire gli affari anche da dietro le sbarre”. Per Valerio i clan “ancora oggi hanno grandi disponibilità di denaro” e intrattengono “rapporti con altri i boss detenuti e con gli affiliati”. I capi “ricevono il consuntivo di quello che avviene fuori”. I soldi dei nuovi affari vengono usati “anche da chi è ristretto per comprare o riscattare immobili pignorati e, in un caso, per le stesse spese processuali di Aemilia”. Prima ancora c’era stata la strategia per rifarsi una verginità. Prima di Aemilia i clan lavoravano per sostenere la politica in maniera che la politica difendesse le imprese mafiose: “Si trattava di costruire per il futuro una struttura, un contenitore di voti che noi potevamo spostare dove volevamo perché una volta che avevamo aiutato queste persone in un momento di difficoltà, la loro fedeltà era totale”. In maniera chiara Valerio spiega che “avveniva tutto in funzione della logica secondo cui dovevamo ripulirci a livello giuridico, sociale e di immagine”. Ed in questo contesto ci fu anche l’incontro con l’ex prefetto Antonella De Miro, dove alcuni esponenti dei clan dal volto pulito vennero accompagnati da politici locali: «Lo scopo era quello di far capire che i cutresi erano lavoratori e avevano fatto tanto per la città. E che le interdittive antimafia date alle nostre aziende erano il frutto di un preconcetto”. Ufficialmente brava gente, che però si stava prendendo la città e la regione. Tutto spiegato senza giri di parole.

I libri che svelano l'anima mafiosa, scrive il 13 gennaio 2018 Vincenzo Ceruso su "la Repubblica". Vincenzo Ceruso - Saggista, studioso della criminalità mafiosa. I libri al posto dei pizzini? I proclami divulgati non più nelle aule dei tribunali, ma dalle tribune televisive? L’intensa attività editoriale che, negli ultimi anni, hanno portato avanti alcune figure di spicco all’interno di Cosa Nostra, sembra mettere in discussione uno dei più diffusi cliché sull’attività odierna dell’organizzazione mafiosa, quello sulla mafia invisibile, sulla sommersione come metodo per sopravvivere alla repressione statale. Senza considerare come venga violato uno dei dogmi più sacri della consorteria, quello che vincola gli associati al silenzio sulla sua stessa esistenza. Sembrerebbe quasi, ma è un paradosso, che dialoghino tra loro. A distanza. Non è, ovviamente, un colloquio in senso letterale, ma è come se le diverse anime che, non da oggi, compongono Cosa Nostra, stiano cercando di risolvere annose questioni e lo facciano attraverso forme inedite di comunicazione. L’anima corleonese, da un lato. Quella che non ha mai rinnegato la stagione stragista e che rivendica l’eredità ideologica del defunto Totò Riina. Sono gli irriducibili. Coloro che sono seppelliti sotto una valanga di ergastoli, ma le cui ricchezze continuano a circolare nel corpo sano della società, come un veleno a cui non è stato trovato antidoto. Sono i Graviano, i Madonia, i Bagarella. Gente da decenni al carcere duro, ma il cui placet è ancora indispensabile per comandare nei quartieri di Palermo. I puri dell’organizzazione potrebbero aver trovato il loro manifesto ideologico nel libro di Salvatore Riina junior (altra cosa sono i comportamenti privati del giovane scrittore): Riina family life (edizioni Anordest, 2016). Visto sotto questa angolazione, il rampollo della più celebre famiglia di mafia forse non avrebbe scritto una prematura biografia, ma una dichiarazione di fedeltà al vecchio ordinamento mafioso. Sbagliano quanti, tra gli analisti, hanno snobbato il libro. Non tanto per il suo valore letterario, quanto per avere chiaro quali potrebbero essere le posizioni, per così dire, ideali dentro Cosa Nostra. Ancora una volta, dichiararsi fedeli ad antichi valori potrebbe essere funzionale ad un’operazione politica, che mira a rinserrare le fila dell’associazione. Dentro il sodalizio criminale non sarebbe la prima volta che, quanti un tempo erano la nuova mafia, rivendichino le regole della vecchia Onorata Società. Ancora una volta, i corleonesi (termine che oggi, meno ancora di un tempo, non assume un senso strettamente territoriale) si farebbero portatori di una linea dura. E poi, dall’altro lato, ci sono i dialoganti. Coloro che pensano che la realtà è superiore all’idea, secondo un motto caro all’odierno pontefice. Sono i tanti che hanno scontato la loro pena in carcere e non hanno intenzione di rientrarci. Quanti si dichiarano fedeli al verbo trattativista potrebbero trovare il loro punto di riferimento letterario nel romanzo di Antonino Mandalà, La vita di un uomo (Spazio Cultura Edizioni, 2015). Avvocato, già condannato per associazione mafiosa, Mandalà descrive la vita di un uomo d’onore in crisi d’identità. Non uno dei “viddani”, dei contadini di Corleone, ma un colletto bianco, che ha fatto carriera nell’associazione ma ha maturato un rigetto verso di essa. Poco importa quanto questa descrizione sia vera o falsa, e quanto i corleonesi abbiano avuto al loro fianco la più qualificata borghesia delle professioni. L’operazione di Mandalà - con esiti letterari, bisogna dirlo, migliori di quelli di Riina -, potrebbe fornire una sponda culturale a quanti rimpiangono la stagione delle trattative con lo Stato, condotte con l’intermediazione, riuscita o tentata, di alcuni sacerdoti. Nel libro, tra l’altro, compare la figura di un prete che, nel farsi vicino al boss in declino, rinnova la sua stessa vocazione. La parola chiave, in questo caso, sarebbe "dissociazione”. Ammettere le proprie colpe senza accusare nessun altro, in cambio di sconti di pena per chi è ancora in galera. Naturalmente, utilizziamo un confronto immaginario per descrivere una tensione reale dentro la mafia siciliana. Al di là dei due autori e delle loro legittime ambizioni intellettuali, il dibattito dentro l’organizzazione è già avviato da tempo. Forse, siamo arrivati al punto in cui una delle due anime mafiose ha deciso che la convivenza non è più possibile. E che bisogna scegliere quale sia la vera Cosa Nostra. Ma è una disputa che non verrà risolta con i libri.

Fiction e geografia del potere criminale, scrive il 14 gennaio 2018 Marcello Ravveduto su "La Repubblica". Marcello Ravveduto - Storico. Docente di Public and Digital History - Università di Salerno. Fino alla prima metà degli Anni Duemila le narrazioni sulla mafia delle serie televisive avevano come protagonista Cosa Nostra, una sorta di termine ombrello in grado di dare senso a qualsiasi fenomeno di criminalità organizzata. Nella fiction italiana, infatti, la mafia siciliana è presente, nel decennio 1998-2008, in oltre la metà delle produzioni (57 titoli su 100). Le altre organizzazioni trovavano uno spazio d’attenzione ridotto, meno di un terzo dei titoli raccontava storie di Camorra e ‘Ndrangheta. La serialità televisiva si è adeguata molto lentamente alla nuova geografia del potere criminale che ha ridistribuito le leve del potere mafioso tra ‘Ndrangheta e Camorra a causa sminuita centralità di Cosa Nostra nel panorama del crimine organizzato. La rottura è cominciata con Gomorra (il libro) e tutta la letteratura successiva, scientifica e divulgativa, che ha creato i presupposti di una narrazione plurima delle mafie e della globalizzazione mafiosa, capace di incrinare il valore totemico della mafia siciliana e di dare luogo a un immaginario contemporaneo, in Italia e all’estero, dentro cui agiscono vecchi e nuovi miti e stereotipi meta-letterari. Se confrontiamo, per esempio, “Gomorra”, “Narcos” e “La mafia uccide solo d’estate” ci accorgiamo che: la prima risponde ai criteri del noir; la seconda è più simile ad un poliziesco all’americana; la terza ricalca la struttura pedagogica dello sceneggiato con una sceneggiatura originale che la distingue dalle opere antecedenti. In generale, il successo delle "mafia stories” è determinato da un dispositivo di “ritorno del già noto”: un terreno di riferimenti autoreferenziali – protagonisti, situazioni, azioni, linguaggi, paesaggi, eccetera... – la cui riconoscibilità e credibilità poggia su un repertorio già familiarizzato e collaudato. La verosimiglianza – di un boss, di una mentalità, di un gergo – è misurata secondo criteri di somiglianza rispetto a personaggi, atteggiamenti e modi di espressione che contribuiscono a orientare gli spettatori verso la riconferma di esperienze simili. La peculiarità della pratica mafiosa e l’universalità dell’immaginario collettivo creano un effetto di “inversione della realtà” trasformando la fiction in pietra di paragone del reale. La serialità è permeabile agli influssi dell’attualità, sottoposta al dominio dell’immaginario: la cronaca scatena un gioco di evocazioni attraverso un intrigante meccanismo di allusioni al reale. Nonostante ciò è pur sempre possibile distinguere al suo interno da un lato le trame di pura immaginazione, dall’altro gli intrecci che richiamano in maniera esplicita personaggi reali ed eventi contemporanei o del passato. Ma al di là di questa classificazione binaria, la gran parte delle storie di mafia risultano essere il frutto dell’immaginazione; non di rado di una immaginazione che usa convenzioni e stereotipi per costruire la “drammaturgia degli eccessi”, tipica del melodramma. “Gomorra” narra la violenza attuale e quotidiana di Napoli in forma di metafora metropolitana globalizzata; “Narcos” si pone come la ricostruzione della saga del boss che ha reso il narcotraffico uno dei pilastri della globalizzazione economica; “La mafia uccide solo d’estate” sfrutta l’uso pubblico della memoria, umanizzando i protagonisti, per sintonizzarsi con i sentimenti dell’audience. Quest’ultima, in verità, merita più attenzione delle altre poiché è in linea con l’evoluzione del discorso pubblico nazionale: la lotta a Cosa Nostra non è solo affare di magistrati e poliziotti ma richiede l’impegno della società civile rispettosa delle libertà costituzionali. È il tentativo della tivù di Stato di sollecitare una religione civile attraverso il collante culturale dell’antimafia, tracciando uno spazio ideale in cui si vuole sviluppare la lealtà alla Repubblica. L’identità repubblicana antimafia sottolinea l’appartenenza dei siciliani (dei meridionali in genere) ad un’unica storia di lotta civile: il presente è il ripensamento del passato. Un’ossessiva catena di punti critici connessi dalla memoria collettiva che elabora riti di espiazione e di riparazione.

Poesie e gadget di quei “bravi ragazzi” del Salento, scrive il 21 gennaio 2018 Marilù Mastrogiovanni su "La Repubblica". Marilù Mastrogiovanni - Giornalista, direttora del "iltaccoditalia.info” e docente di Giornalismo web e social - Università di Bari. C’era un tempo in cui la Sacra corona unita era pacchiana nella scelta dei simboli auto poietici. L’autorappresentazione di sé, passava dal possesso di una tigre del Bengala all’utilizzo di rubinetti in oro massiccio, al rivestimento di marmi esotici delle mura di intere ville. Il bisogno ontologico era affermare il proprio modello vincente su una terra, la penisola salentina, che aveva voltato le spalle all’economia agricola per una industrializzazione coatta che prometteva benessere immediato. Lo stesso benessere conquistato, ma con le armi, da un manipolo di delinquenti morti di fame e disgraziati, che avevano voluto emanciparsi dalla ‘Ndrangheta e mettersi in proprio negli Anni Ottanta. In soli dieci anni avevano accumulato capitali ingenti con il traffico di hashish e cocaina e quel modello vincente di economia, quindi di struttura sociale, andava comunicato con sintagmi a tinte forti: sulle persone, con tatuaggi ad oggetto sacro o guerresco; sulle proprietà, come la casa del clan Coluccia di Galatina, interamente rivestita di marmo dentro e fuori e quella del clan Scarcella, con rubinetteria in oro massiccio, costruita abusiva in pieno parco regionale di Ugento, sulla strada più frequentata che conduce ai lidi più belli, dalla sabbia caraibica più fine. Proprio su quella strada andava costruita la villa coi tubi d’oro 18 carati, una strada dove tutti passano, guardano e non vedono. Quella villa, ora confiscata, era un presidio per comunicare la propria presenza senza dirla. Quella strada, ancora oggi, dà accesso a lidi dove investe la Scu. Lo stile di comunicazione della Scu, all’interno dei gruppi criminali e all’esterno, verso il resto dei salentini, cambia dopo la stagione dei “fuochi”, ossia la guerra tra clan per il predominio del territorio che negli Anni Novanta riversò sulle strade del Salento sangue e terrore e che si concluse con la decapitazione di quasi tutti i clan da parte della magistratura. A quel punto la Sacra corona si “insabbia”, come ha affermato più volte Cataldo Motta, capo della Direzione distrettuale antimafia fino al dicembre 2016 e protagonista di un trentennio di battaglie giudiziarie che hanno ridotto al carcere quasi tutti i capobastone della Scu. Dai “fuochi”, dalle sparatorie per strada si passa ai “fuochi d’artificio”, che esplodono nei paesini in onore dei boss quando vengono incredibilmente scarcerati, perché tutti sappiano; dalle “sfoglie”, i vecchi pizzini, si passa ai telefoni satellitari. La capacità di comunicare in maniera veloce, con un “tam tam” efficace, darsi appuntamento in aperta campagna, scambiarsi indicazioni e poi sciogliere i ranghi è propria di organizzazioni criminali nucleari, che seguono logiche militari. “Tam tam” è infatti il nome di una delle più recenti operazioni della Dda leccese, che si rifà alle modalità di comunicazione delle nuove leve della Sacra corona. Una struttura che sta riscoprendo gli antichi riti di affiliazione, definiti la “condanna buona”: il nome emerge dalle intercettazioni dei carabinieri di Brindisi che al telefono sentono tremare di paura uno dei 50 arrestati dell’operazione “Omega bis”, del settembre scorso, per il “taglio” che subirà da lì a breve, quale rito per sancire il legame. Vecchi i riti di affiliazione, moderne le logiche di cooperazione, quasi da manuale di organizzazione aziendale: piccoli nuclei che collaborano su “progetti”, capaci perciò di creare reti dinamiche costituite da gangli e interconnessioni che si ramificano all’estero e oltreoceano, sul modello delle mafie transnazionali. Per far questo hanno bisogno di creare consenso sui territori, comunicando la loro presenza in maniera smart: gadgets green, dalle matite alle magliette in materiali riciclati, sponsorizzazioni delle squadre di calcio dei pulcini e delle luminarie delle feste patronali fino al 2012 per la Geotec, la ditta di raccolta rifiuti della famiglia del boss Giuseppe Scarlino detto Pippi Calamita, all’ergastolo. La pubblicazione (con tanto di editore blasonato) di poesie per Salvatore Padovano, che cercava di darla a bere, e tutti i giornali ci cascarono, sul suo ravvedimento dopo la scarcerazione. In realtà, tra una rima e l’altra, e tra un’intervista in tv e l’altra, lanciava segnali e riorganizzava gli affari e per questo nel 2008 fu fatto uccidere dal fratello Rosario con cui si contendeva lo scettro sul territorio di Gallipoli. Dove la scelta degli investimenti nei lidi più alla moda, non è solo dettata dall’opportunità di business, ma dalla necessità di creare consenso tra la fasce più giovani della popolazione, costruendosi un’immagine da bravi ragazzi che distribuiscono drink card e free pass per le serate di discoteca sulla spiaggia. Serate abusive, mancando di autorizzazioni ad esercitare l’attività di locali da ballo sul demanio (il lido più noto, il Samsara, è stato sequestrato qualche settimana fa) ma comunicate in gran stile, con spot su tv, giornali, internet, social network, sponsorizzazioni e gadgettistica varia. Si deve ad Augustino Potenza l’invenzione di una vera e propria strategia di marketing della mafia, così efficace, da avergli creato un’aura di “brau vagnone” (bravo ragazzo), che aiutava le aziende in difficoltà, prestava denaro senza interessi e addirittura metteva pace tra i coniugi litigiosi. In realtà riciclava il denaro frutto dello spaccio di cocaina su tutta la piazza salentina, e dopo la sua scarcerazione per decorrenza dei termini nel 2012, e dopo essere stato accolto con il solito rituale dei fuochi d’artificio, organizzato da un politico locale molto benvoluto a Casarano, suo paese d’origine, in soli 4 anni (dal 2012 al 2016) aveva organizzato una struttura nucleare retta sulla diarchia con un’altra nuova leva della Scu, Tommaso Montedoro, anch’egli scarcerato per decorrenza dei termini. Potenza, detto “l’Italiano”, dopo la scarcerazione, per comunicare la sua presenza su tutto il Tacco d’Italia e creare consenso, conia un marchio, “Italiano tenace”, con un chiaro riferimento alla sua capacità di resistere alla giustizia. E con quel marchio, col suo nome, sponsorizza eventi sportivi, poi lo pubblicizza sui social network e su manifesti 6 metri per 3. Affissioni murali usate anche dall’amministrazione comunale di Casarano, per intimare la giornalista scomoda a non scrivere di mafia in riferimento a quel Comune dove fino a pochi mesi fa era consigliere eletto nella lista del sindaco un “assonante e contiguo al clan Potenza”. Messaggi ovviamente rivolti alla sottoscritta ma aventi, come destinatari finali dell’intimidazione, i cittadini. Il consigliere si dimetterà dopo avermi minacciata su Facebook. Potenza commercializza col suo nome anche scarpe, orologi, abbigliamento casual, mentre con un altro logo, “Italiano verace”, vende prodotti enogastronomici di dubbia qualità, esposti negli esercizi commerciali solo per “comunicare” la sua protezione sul quel punto vendita. Un marchio che incute timore e impone il silenzio tra la popolazione omertosa. Morirà crivellato da 19 colpi di kalashnikov il 26 ottobre del 2016, nel centro commerciale più grande del suo paese, all’ora di punta, alle 18, quando le famiglie vanno a fare la spesa. E anche questa è una comunicazione esemplare, per dire a tutti: “L’aria è cambiata”. Le indagini ci diranno l’emittente di quella comunicazione e da quale parte, ora, tira il vento.

I codici mafiosi non vanno mai in pensione, scrive il 9 gennaio 2018 Giovanni Paparcuri su "la Repubblica". Giovanni Paparcuri - Fondatore del "Museo Falcone-Borsellino”. Nel corso degli anni sono stati scritti migliaia di testi sul linguaggio della mafia fatta specialmente da parole non dette, gesti, codici, riti, silenzi, pizzini, messaggi, riunioni. Tuttavia sull'argomento sono stato invitato a esprimere la mia opinione, e tale rimane, una modestissima opinione, giusta o sbagliata che sia. In verità non sapevo cosa dire, poi guardando un "pizzino" che mi ha lasciato il dottor Falcone (unico messaggio a cui do tanta importanza) cercherò di scrivere qualcosa. Intanto il tema mi riporta alla mente le celebri dichiarazioni che fece Michele Greco all'aula bunker: «Signor presidente, io auguro alla corte pace e serenità per potermi giudicare...». Oppure come non ricordare il dottor Falcone, ospite di un convegno sulla droga, che subito dopo aver ricevuto un biglietto di minacce perse all'improvviso il suo sorriso. Comunque i tempi cambiano e anche Cosa Nostra si adatta. È risaputo che all'interno dell'organizzazione, tra l’altro, la loquacità non è apprezzata: la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile, ma oggi come ieri c’è assoluta necessità di veicolare i messaggi. Ieri si usavano i "pizzini”, adesso sicuramente useranno delle apparecchiature non rintracciabili e non intercettabili, in più adesso si usano anche i social, cui i nuovi affiliati ne fanno un grande uso, e usano tantissimo la rete per abbattere ogni distanza geografica, ma mai abbandonando la loro fonte primaria di guadagno: la corruzione per ottenere appalti pubblici. C’è anche da dire che il vecchio codice comportamentale di Cosa Nostra non andrà mai in pensione, infatti lo dimostra l’"operazione Falco” del 21 novembre scorso dove - attraverso le indagini - è stata documentata che in una “mangiata” vecchio stile, ossia in una riunione tra uomini d’onore, si è eletto il nuovo capo mandamento e i ruoli che dovevano assumere gli altri affiliati. Proprio come raccontava trenta e passa anni fa il pentito Tommaso Buscetta. E, ritornando alle nuove leve, il vecchio Padrino in un’intercettazione si lascia andare in uno sfogo: «La mafia rovinata da quattro scimuniti». Ma non per questo meno pericolosa, né meno violenta, forse di più. Comunque messaggi stile Michele Greco, non esisteranno più. Però io avrei preferito la seguente domanda. I messaggi che diamo noi a loro quali sono? Loro ci guardano e ridono, usano l’antimafia per prosperare, ridono perché tanti paladini dell’antimafia sono peggio di loro.

Poi ci sono i messaggi negativi provenienti dalle fiction, dove si mitizzano personaggi come Totò Riina, e si raccontano le regole criminali, l’onore e il coraggio dei mafiosi, che in realtà non lo sono, perché ti sparano alle spalle. Infatti è successo che l’altro giorno un ragazzino venuto in visita al bunkerino del palazzo di Giustizia dove c'è il "Museo Falcone Borsellino”, ha voluto che lo chiamassi come il capo dei capi e che gli parlassi di lui. Riflettiamoci. Per finire, nuovi o vecchi metodi, le mafie ci sono e ci saranno sempre, né è finita certo con la morte di Riina. Adesso c'è chi addirittura vorrebbe abolire il 41 bis, dimenticando la vita che conducevano quei magistrati costretti a vivere sepolti fra quattro mura dentro il Palazzo di Giustizia di Palermo. Per fortuna c'è sempre qualcuno disposto a continuare la loro battaglia... non a testate. Il bacio in bocca, privilegio per veri "masculi”, scrive l'8 gennaio 2018 Francesco Vitale su "La Repubblica". Francesco Vitale - Giornalista. Saranno stati gli inizi degli Anni Settanta quando, piccolissimo, mi capito' di intercettare questa conversazione tra una delle mie zie e sua madre, mia nonna. Nonna: «Ciccio il fruttivendolo mi disse che quelli di rispetto si baciano in bocca tra di loro... masculi con masculi. Ma io non ci credo a questa cosa, ma che verrebbe a significare?». Zia: «Verrebbe a significare che siccome sono masculi veri si possono pure baciare in bocca senza problemi, così dicono». A quel tempo nelle famiglie palermitane si parlava di Cosa Nostra prevalentemente in questi termini. Il concetto di mafia era infatti assolutamente e colpevolmente lontano da quello che abbiamo imparato a conoscere nei decenni successivi. Passava tutto inosservato, compresi gli omicidi. Ma il bacio tra "masculi” no, quello diventava motivo di "curtighhiu", di gossip diremmo oggi, e come tale aveva licenza di passare di bocca in bocca senza che chi ne parlava potesse averne un danno. Soltanto qualche anno dopo con l'arrivo nei cinema de " Il Padrino”, si capì quante sfumature di nero potesse contenere un semplice bacio nella iconografia mafiosa. E in effetti, se ci pensate, il bacio ha un ruolo fondamentale nella storia di mafia. Di volta in volta ne ha incrementato la leggenda o è stato portatore di guai. Si narra che al famoso pranzo (e non cena) delle beffe quando all'ora del caffè vennero strangolati Saro Riccobono e mezza cosca di Partanna Mondello, lo zio Totuccio Riina prima di alzarsi dal tavolo e dare inizio alla mattanza baciò i commensali sulle guance uno per uno. E infatti negli Anni Ottanta il bacio in bocca scompare dall'armamentario di Cosa Nostra. Rimane relegato in un cantuccio ed utilizzato soltanto come estremo saluto o per indicare chi aveva tradito. Ma trattasi di materia parecchio incerta e negata da tutti i collaboratori di giustizia. E d'altra parte se i corleonesi avessero dovuto baciare in bocca ogni loro vittima avrebbero dovuto fare ricorso al chirurgo plastico. Poi sotto altra veste il bacio in bocca ritorna e si trasforma ulteriormente. Stavolta nella finzione cinematografica. Con Johnny Stecchino che non sopporta i baci sulle labbra della sua amata, anzi li respinge con sdegno considerandoli poco consoni al suo status di grande boss. Tuttavia resiste fino albori del nuovo millennio il doppio bacio sulle guance inventato dai mafiosi e sdoganato in tutti gli ambienti. Simbolo di affetto in alcuni casi, ostentazione di potenza e appartenenza (ad un gruppo, ad una comunità) in molti altri. Escludendo che Totò Cuffaro nutrisse uno sterminato ed incontenibile affetto per tutti i questuanti che baciava, è facile dedurre che i suoi afflati baciosi rispondessero ad un mero tornaconto elettorale. In giro per paesi, contrade e quartieri Cuffaro in fondo non faceva altro, ogni santa volta, che mutuare la passeggiata nel corso del paese, al calar del sole, dell'uomo di rispetto, di colui che ha il potere. E poi c'è il bacio dei baci: quello tra lo “zio” Totuccio e Giulio Andreotti. Anche in questo caso si sarebbe trattato di doppio bacio sulle guance. Forse l'ultimo. Perché adesso a Palermo pure i baci sono stati dimezzati. Da due si è passati ad uno soltanto, sulla guancia destra. Adesso è così che ci si riconosce. E magari questa nuova "moda" diventerà presto di uso comune. A Palermo lo è già.

I pizzini, la "posta certificata” dei boss, scrive il 7 gennaio 2018 Salvo Palazzolo su "la Repubblica". Salvo Palazzolo - Giornalista di Repubblica e scrittore. All’inizio, erano solo messaggi di “posta certificata”. Nelle tasche di Totò Riina, al momento dell’arresto, i carabinieri ne trovarono sei di “pizzini”, piccoli biglietti di carta ripiegati fino all’inverosimile. Al capo dei capi chiedevano di sistemare un appalto, di definire la quota di un pizzo, di risolvere una questione interna dell’organizzazione. Poi, mese dopo mese, in quella stagione in cui lo Stato sferrava la sua offensiva contro la mafia delle stragi, i "pizzini” finirono per trasformarsi, anche se il sistema di trasmissione, attraverso fidati postini che viaggiavano in lungo e in largo per la Sicilia, era sempre lo stesso. Da brevi “tweet” della mafia diventarono lunghe lettere. Perché era l’unico modo prudente di comunicare e scansare le microspie ormai piazzate ovunque dalle forze di polizia. E, poi, il più attivo scrittore di pizzini, Bernardo Provenzano, l’alter ego di Riina, si era ripromesso addirittura di rifondare l’organizzazione mafiosa attraverso quelle lettere inviate ai capi delle famiglie. Sembravano quasi lettere pastorali, le sue. Tra consigli di vita e massime da buon padre di famiglia, perché la strategia delle stragi aveva creato smarrimento nel popolo di Cosa nostra, e molti mafiosi avevano anche deciso di iniziare a collaborare la giustizia. Così, i “pizzini” diventarono il tratto distintivo della nuova comunicazione mafiosa. Ma sempre “pizzini” restavano, ognuno con un numero diverso, che segnava il destinatario. E’ il Codice Provenzano, che non è stato ancora svelato del tutto. Nell’ultimo covo del padrino di Corleone c’era un “pizzino” che è rimasto misterioso. A scrivere era “Alessio”, ovvero il superlatitante Matteo Messina Denaro, che chiedeva a Bernardo Provenzano l’indicazione del nome di un politico. Chiedeva di avere quel nome attraverso «l’altra via», ovvero un altro pizzino ancora rispetto a quello della risposta ordinaria. Come se esistesse un livello di trasmissione dei messaggi con un codice di sicurezza più elevato. E con postini maggiormente riservati. Intanto, Provenzano continuava a scrivere altri messaggi dal sapore criptico, che inneggiavano «all’adorato Gesù Cristo». Molto più che una devozione. L’Adorato Gesù Cristo di cui scriveva gli aveva svelato che in un casolare utilizzato per i summit, nel cuore della provincia di Palermo, era stata piazzata una telecamera. In un’altra occasione, l’Adorato Gesù Cristo lo aveva aiutato a sfuggire a un blitz. Chissà, come comunicava il Gesù Cristo di Bernardo Provenzano? Forse, anche lui attraverso “pizzini”, in una rete riservata ancora da scoprire. Magari, la rete di comunicazione dell’imprendibile Messina Denaro. Una cosa è certa, da anni ormai, nessuna telecamera, nessuna microspia, nessun satellite segnale tracce di Messina Denaro. La tecnologia non riesce a intercettare i “pizzini”.

Tutti i "canali” per non stare troppo soli in cella, scrive il 5 gennaio 2018 Francesco Viviano su "La Repubblica". Francesco Viviano - Giornalista di Repubblica. Si è dovuto ricorrere al regime del 41 bis (carcere duro senza teoricamente possibilità di comunicare con l’esterno) per impedire che il flusso di messaggi, “ordini” e “consigli” da e per il carcere fossero bloccati. Ma nonostante il 41 bis, le inchieste hanno rivelato che ogni tanto qualche maglia si apriva ed i messaggi andavano e venivano. E da quando i controlli all’interno delle carceri si sono fatti più rigidi alcuni boss, sapendo di essere intercettati e filmati, utilizzano anche questo “canale” sperando che prima o poi queste intercettazioni vengano pubblicate in inchieste giudiziarie ed i loro messaggi saranno quindi ricevuti. Insomma si comunica meno ma si continua a comunicare. Sono stati tanti i mezzi, in passato - ma anche oggi - che i detenuti hanno utilizzato per comunicare con l’esterno. La storia passata ma anche recente ci ha raccontato quali sono state le "vie" utilizzate per "parlare" con fuori e ricevere indicazioni. Negli Anni Settanta e Ottanta c’erano meno problemi. Anche i latitanti, come hanno ricordato diversi pentiti ti di mafia, riuscivano ad entrare in carcere con la compiacenza di operatori penitenziari incontrando i boss detenuti. Poi le maglie si sono ristrette e sono tornati al vecchio metodo, quello di inserire “pizzini” nella biancheria sporca che i detenuti inviavano all’esterno del carcere. Ricevevano risposte con lo stesso meccanismo. Anche questo fu scoperto. Ma c’erano altri mezzi per non stare isolati. Per esempio con le trasmissioni radiofoniche dedicate ai carcerati, soprattutto in Sicilia ed in Calabria, dove i parenti inviavano “auguri” ai detenuti via radio. Altri canali di comunicazione erano rappresentati, da operatori carcerari che, ricevendo compensi di varia natura, per portare fuori dal carcere i messaggi dei detenuti ai loro familiari che, con lo stesso mezzo rispondevano. Recenti indagini hanno anche svelato che i detenuti, ristretti in celle super sorvegliate, riuscivano ad avere telefonini o ad accedere ad internet riuscendo in tempo reale ad avere contati con il mondo. Ed ancora, durante i colloqui dei familiari con i detenuti, si parlava a “baccagghiu” (termini e parole di un codice ancora esistente) che venivano tradotti e trasferiti all’esterno. Un metodo scoperto dagli investigatori, che hanno assunto veri e propri “interpreti” per tradurre il labiale, quelle parole che venivano sussurrate o smorfiate, ma che contenevano veri e propri messaggi con l’utilizzo anche in parte del linguaggio dei sordomuti. E poi, non dimentichiamo, i messaggi in codice che i latitanti utilizzavano per comunicare tra di loro. Un codice per antonomasia, è stato quello di Bernardo Provenzano, che nei suoi "pizzini” che inviava ai capimafia, utilizzava i numeri corrispondenti ai nomi di vari boss. Il 60 che indicava il suo infermiere, il 123, il 78 ed altri numeri. Tutti nomi cifrati.

Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso. «Pronto, carcere? Cerco il mio fidanzato», reclama una ragazza al detenuto trasformatosi centralinista. Il sistema è collaudato, anche se a volte le conversazioni risultano disturbate: «Adesso in cella siamo in tre, tutti e tre a parlare al telefono». Cellulari nascosti nei calzini, nelle suole delle scarpe, nel WC e istituti penitenziari da dove ordinare droga come se fosse pizza, occuparsi degli affari, continuare a comandare e seminare terrore. «Prendi questa e la minacci! Io questa la faccio scorticare viva». L’utenza è intestata a un ragazzo ghanese del 1999, ma a impartire gli ordini è Sante Fragalà. Condannato a 26 anni per duplice omicidio pluriaggravato, appartiene a una famiglia conosciuta a Torvaianica. Nella cittadina del litorale laziale suo padre Ignazio gestisce una pasticceria e, poco più di un anno fa, ha avuto una visita dai catanesi del clan Cappello-Carateddi. Non per i cannoli e le paste di mandorle e nemmeno per il carretto siciliano con su scritto "Ignazio sei una persona speciale". L’hanno caricato in auto e se lo sono portato via. Volevano riavere 100mila euro prestati al figlio Salvatore, uno che ha preso a calci e pugni un imprenditore libanese urlandogli: «sono delinquente nato, io faccio parte della prima famiglia catanese. Se non mi fai trovare i soldi ti sparo a te ed alla tua famiglia». Ad accompagnarlo nella spedizione Francesco Loria del clan Santapaola che da latitante ha trovato rifugio proprio in casa Fragalà, dove si ricevono le telefonate di Sante.  Dal carcere lui dispone di schede intestate a cittadini rumeni, indiani, africani. Le usa per soddisfare ogni esigenza, come quando chiama la sorella Mariangela e le spiega il modo per far entrare la droga: «Mi raccomando ind o pacchio» (in siciliano nei genitali ndr). Quello di Sante non è un caso isolato. Nell’ultimo anno e mezzo ci sono stati 163 rinvenimenti di schede e telefonini all’interno di istituti penitenziari del Nord, oltre cinquanta nel centro Italia e una ventina nel Meridione. A volte superano i controlli grazie ad agenti compiacenti. «Sono andato in confusione perché è arrivato più di un vaglia e non sapevo di chi fosse. Non conoscevo tutti quelli che mi mandavano i soldi», s’è scusato Pietro Rega in servizio alla casa di reclusione ‘Due Palazzi’ di Padova. All’interno criminali di guerra, come Goran Jesilic, un capoclan della Sacra Corona Unita, Sigismondo Strisciuglio, i camorristi Gaetano Bocchetti e Domenico Morelli, già evaso nel 1993 e poi sottoposto al 41 bis, il regime del carcere duro. Usare i cellulari dietro alle sbarre è un’abitudine, tanto che un giorno Rega si preoccupa: «E adesso come fa Bocchetti senza telefono?». Comode conversazioni con l’esterno, buone per dare ordini e mantenere il potere. Una pratica messa in atto già vent’anni fa da u carcagnusu Santo Mazzei. Dal quarto braccio del carcere di Brucoli, in provincia di Siracusa, il mafioso ragionava di amici e nemici di cosca e de l'uomo con i capelli bianchi Bernardo Provenzano con il referente catanese di Vito Vitale, il killer di Partinico. E quello lo rassicurava: «Se tu caso mai mi dai un colpetto ci puoi anche parlare». Con ‘don’ Vito, naturalmente, che all’epoca era latitante. Oggi, con l’avanzare della tecnologia, oltre alle sim e ai micro telefoni cellulari arrivano anche le pen drive. All’interno custodiscono sequenze di numeri, indirizzi di blog e siti da visitare senza necessità della connessione internet. Gli scanner in uso in molti istituti penitenziari del resto sono obsoleti e non riescono ad individuarle. Al momento giusto basta inserirle nei pc; quelli usati durate i corsi scolastici sono perfetti. Nei penitenziari minorili della Campania le nuove generazioni si sono attrezzate persino con antenne wi-fi e router installati nelle celle per poter scattare i selfie da postare su Facebook. Dietro alle sbarre si può così mandare un messaggio in codice, controllare il territorio, parlare con i latitanti, rifornirsi di droga e persino organizzare l’evasione. Tre detenuti nel carcere di Rebibbia a Roma hanno semplicemente tirato fuori dalle tasche un telefono e si sono fatti venire a prendere. Nipoti e amici si sono precipitati da Milano per presentarsi fuori dal muro di cinta. Scappare del resto non è stato difficile: hanno seguito la strada percorsa otto mesi prima da altri due fuggitivi. Una sega per tagliare le sbarre e per scavalcare una corda realizzata con lenzuola agganciate a manici di scopa. Hanno avuto anche il tempo di misurare l’altezza del muro facendo scattare l’allarme, con tanto di telecamere di sorveglianza a immortalare ogni movimento. Peccato che nessuno se ne sia accorto. Solo dopo tre conte senza esito, è un detenuto a segnalare alle guardie che nella cella 12, piano terra del Reparto G9, ci sono dei fantocci sotto le coperte. I tre sono in fuga da nove ore. Con i telefonini al seguito.

La prima volta della mafia "in diretta”, scrive il 3 gennaio 2018 Sebastiano Ardita su "La Repubblica". Sebastiano Ardita - Procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Catania. «Vi auguro di avere la pace dentro di voi». Con questo messaggio rivolto ai giudici si chiudeva la scena del maxi processo. A pronunciare quella frase era stato Michele Greco, a cui si contestava di essere il capo della cupola di Cosa Nostra. Fino a quel momento la comunicazione della mafia era stata solo interna. Poche sillabe, espressioni colte dalla mimica e dai gesti, ma soprattutto sentenze affidate ai kalashnikov. Parole di avvertimento sussurrate o nemmeno pronunciate e poi piombo e sangue: era questo, al loro interno, l’ossimoro comportamentale degli uomini d’onore. Mentre all’esterno l’ordine era negare l’esistenza dell’organizzazione. Ma il maxi divenne un palcoscenico che rendeva visibile la faccia e le storie dei protagonisti. E come tutto ciò che si vede e si conosce quelle facce iniziarono a fare meno paura. Non solo. La televisione influenzava la gente comune smascherando il becero paternalismo della mafia e la sua capacità di intimidazione. Con quella breve terribile espressione ebbe inizio perciò la stagione mediatica dei boss, che proseguì, dopo le stragi del 1992 quando, col carcere duro e gli arresti, iniziò la crisi vera. Bisognava parlare ai picciotti e tranquillizzarli; e al tempo stesso parlare a coloro che non avevano ancora deciso se stare sotto le regole dello Stato o quelle della mafia. E così Totò Riina - che nei primi processi neanche sapeva che cosa fosse “Cosa Nostra” - iniziò a rivendicare la sua posizione di capo. E Nitto Santapaola arrivò a dire in aula che quando era lui a comandare a Catania le caserme e le procure non avevano bisogno di scorte e i commercianti potevano vivere e lavorare senza paura. Per questa via anche Cosa Nostra ha vissuto la sua stagione mediatica rompendo il rituale silenzio. Ma ad ogni uscita c’era un coro di critiche, e per i boss arrivò il momento di comprendere che parlare era divenuto solo pericoloso narcisismo. Si è così giunti alla terza fase, quella che si accompagna all’inabissamento. I messaggi sono divenuti trasversali; sono affidati a uomini col colletto bianco e lambiscono i settori istituzionali compromessi. I toni degli uomini di onore sono tornati bassi. Mezze parole e sussurri, esattamente come un tempo. Ma alla forza del piombo si sostituisce ora quella del ricatto: affinché coloro che hanno avuto rapporti e stanno lì nei piani alti intendano e si diano un po' da fare, per impedire le lunghe detenzioni, le confische dei beni e il 41 bis.

Parole e silenzi al tempo del maxi processo, scrive il 2 gennaio 2018 Franco Nicastro su "La Repubblica". Franco Nicastro - Giornalista. Le forme teatrali, le parole allusive, i messaggi trasversali. Tutta la struttura del linguaggio era la fedele rappresentazione di un codice che nel tempo aveva mantenuto il suo impianto originario. Così la mafia aveva sempre comunicato. E così continuava a comunicare nell’aula bunker del maxiprocesso dove erano stati radunati i protagonisti della pagina più infame della storia siciliana. Si viveva un clima di attesa e di cambiamenti annunciati: per la prima volta lo Stato sembrava deciso a rispondere alla sfida prepotente della mafia. E noi cronisti eravamo eccitati non solo dall’idea di essere testimoni di una svolta epocale ma anche dal contatto ravvicinato con personaggi per lo più conosciuti attraverso il racconto mediato dalle carte giudiziarie. Ora quei nomi che evocavano trame, stragi e misfatti avevano un volto e quel volto faceva capolino dalle sbarre dell’aula bunker. Ma erano le parole a comporre una rappresentazione della mafia che cercava di offrire dei suoi profeti sanguinari un’immagine ora rassicurante ora suggestiva. Perfino cordiale. “Mi fa piacere rivederla” mi fece sapere, alzando dalla sua postazione il viso incorniciato da un sorriso, il boss che spesso incrociavo nelle aule di giustizia o al bar vicino al giornale. Vario era, nell’unicità degli obiettivi, il campionario degli stili comunicativi: quello beffardo di Luciano Liggio, quello curiale di Michele Greco il “papa”, quello finto e untuoso di Pippo Calò. Pur nella diversità delle forme, la linea comunque era una sola. E per noi cronisti più che scontata. Tutti erano lì a negare l’evidenza. La mafia? Liggio: “Non so cosa sia”. Le accuse? “Calunnie tetre e meschine” (ancora Liggio). Buscetta? “Lo manda qualcuno” (Pippo Calò). Ecco la teoria del complotto e della manipolazione delle prove: una grande mistificazione messa in piedi per trovare “capri espiatori” ma anche per costruire (i giudici e gli investigatori) visibilità mediatica e carriere. E i pentiti poi sono pronti a dire tutto per acquisire benefici a profusione. “Si prendono i soldi, si prendono lo stipendio, si prendono le ville” avrebbe detto Totò Riina dopo l’arresto. Erano messaggi rivolti non solo alla corte ma destinati soprattutto a una veicolazione interna e a un target esterno. Quei boss di alto rango parlavano ai giudici ma strizzavano prima di tutto l’occhio al popolo degli affiliati e dei gregari per tamponare frane e per riaffermare gerarchie. Si preoccupavano quindi di presidiare l’organizzazione. Parlavano anche ai giornalisti e, tramite loro, al grande pubblico. E per questo riconoscevano l’importanza dell’informazione e il potere evocativo della televisione. Non a caso Liggio avrebbe accettato, dopo il processo, di essere intervistato in tv da Enzo Biagi. Lo aveva fatto per rimettere in piedi, davanti a una platea ben più vasta, lo spettacolino recitato nell’aula bunker secondo il suo copione più consumato: sorrisino impertinente, orgogliosa distanza dai poteri dello Stato, risposte ironiche e divaganti. E nel momento topico la solenne rivendicazione di avere salvato la democrazia rifiutandosi di appoggiare il golpe Borghese. Appoggio che invece aveva dato Tommaso Buscetta. Doveva essere la chiusura teatrale ma il finale pieno di gloria era stato rovinato dal fatto che di quelle storie proprio Buscetta aveva parlato prima di lui. Tanto scenografico Liggio tanto cerimonioso e doppio Pippo Calò. Il suo linguaggio segnato dall’ambiguità era così fragile che a Buscetta risultò un gioco facile facile demolire la credibilità di Calò affibbiandogli, seduta stante, un omicidio: “Hai fatto fuori Giannuzzu Lallicata. Lo hai strangolato con le tue mani”. In quel momento veniva inesorabilmente demolita, insieme con l’immagine, anche la loquacità asfittica e ambigua del padrino che sfoggiava, pretendeva di sfoggiare, eleganza e buone maniere. Buscetta ha spiegato in questo modo il codice linguistico in uso a Cosa Nostra che Calò aveva cercato di replicare: “Gli uomini d’onore (…) parlano una loro lingua fatta di discorsi molto sintetici, di brevi espressioni che condensano lunghi discorsi. L’interlocutore, se è bravo o se è anche lui uomo d’onore, capisce esattamente cosa vuol dire l’altro. Il linguaggio omertoso si basa sull’assenza delle cose. I particolari, i dettagli non interessano, non piacciono all’uomo d’onore”. Vaghezza e inconcludenza si combinavano con l’obliquità incolore di Michele Greco (“La violenza non fa parte della mia dignità”) che proprio mentre la corte si ritirava in camera di consiglio per la sentenza mandò ai giudici la sua benedizione: “Io vi auguro la pace, signor presidente, la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di nostro Signore che lo raccomandò a Mosé. ‘Quando devi giudicare che ci sia la massima serenità’. (…) E io vi auguro ancora, signor presidente, che questa pace vi accompagnerà nel resto della vostra vita, oltre a questa occasione”. L’ambiguità del linguaggio era sottolineata dal riferimento insistito alla pace. “Si poteva pensare anche alla pace eterna” avrebbe poi scherzato, ma non troppo, il giudice a latere Pietro Grasso. E fin qui il copione era stato uniformemente interpretato. A spezzare il filo della recitazione sarebbe stato Giovanni Bontade. La mafia aveva ucciso un bambino, Claudio Domino. Ha sempre ucciso bambini, come qualcuno nega. Dalle sbarre si fece sentire l’accorato messaggio di Giovanni Bontade che prendeva le distanze dagli assassini per un delitto che avrebbe sottratto molto consenso a Cosa nostra: “Signor presidente, noi non c’entriamo niente con questo omicidio. È un delitto che ci offende e ancor di più ci offende il tentativo della stampa di attribuirne la responsabilità agli uomini processati in quest’aula. Anche noi abbiamo figli”. Chi aveva ideato quel messaggio aveva certamente sottovalutato l’implicita ammissione che in quell’aula si processava veramente la mafia. Anche per questo, rivelerà il pentito Francesco Marino Mannoia, Bontade venne fatto fuori. Con lui veniva archiviato un modello comunicativo che si irrigidiva nella negazione di un potere sanguinario e cercava di accreditare invece la continuità con il mito dei Beati Paoli: un’organizzazione segreta di giustizieri che difendeva il popolo dalle angherie dello Stato. La mafia stava già cambiando il suo stile e i suoi metodi. Da qui in poi non avrebbe negato più la sua esistenza ma avrebbe aperto nuovi canali di comunicazione con l’economia, la politica, la società. Avrebbe ucciso di meno, calato il sipario e si sarebbe nascosta dietro le quinte per fare meglio i propri affari.

GLI SPADA AD OSTIA. NON MAFIA CAPITALE, MA MAFIA LITORALE.

"Mafia autoctona ma è mafia". Decapitato il clan Spada di Ostia. Tra i trentadue destinatari di misure cautelari Carmine, detto "Romoletto", e il fratello Roberto (quello della testata), scrive S. Barricelli e G. Coppola il 25 gennaio 2018 su "Agi". "È mafia autoctona, ma è mafia". Non hanno dubbi gli investigatori di Polizia e Carabinieri che hanno inferto un durissimo colpo al clan Spada di Ostia, decapitandone i vertici con l'operazione "Eclissi". Trentadue le misure cautelari emesse dal Gip di Roma su richiesta della Dda, lunga la serie di reati contestati - omicidio, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni - ricondotti all'associazione per delinquere di stampo mafioso: tra i destinatari del provvedimento Carmine Spada, detto "Romoletto", capo indiscusso dell'organizzazione, e il fratello Roberto, che a novembre finì in prima pagina, e poi in carcere, per aver mandato in ospedale con una testata sul volto un giornalista della Rai. "Un'associazione che ha provocato un profondo degrado sul territorio, consentendo il dilagare di reati gravissimi e lesivi di beni primari", scrive il gip Simonetta D'Alessandro nell'ordinanza di custodia: gli Spada hanno messo in piedi "un sodalizio che ha fondato la sua potenza sull'organizzazione a base familistica e sulla ripartizione delle competenze". Mentre "l'ampiezza e la pervasività del progetto criminale ascrivibile al clan attestano l'eccezionale pericolosità sociale dei compartecipi".

"Io pijo le tenaglie e ti strappo i denti". Gli Spada, insomma, secondo chi indaga fanno il bello e il cattivo tempo sul litorale, infiltrando attività economiche legali e seminando il terrore: emblematico il duplice omicidio a danno di Giovanni Galleoni, capo del clan Baficchio, e di Francesco Antonini, commesso nel 2011 ad Ostia, delitto che segna plasticamente il passaggio del potere criminale da una famiglia all'altra. La crudezza di certe intercettazioni non lascia spazio ad equivoci: "Se vuoi stare qua sennò ogni notte è buona per la tanica!", confessa il titolare di un negozio; "ti faccio cercare da tutta Ostia... Sai che vuol dì? Ti spezzo tutte le costole ... io pijo le tenaglie e ti strappo i denti...", sibila uno degli arrestati a una vittima di usura; "Era venuto al ristorante con una macchina rubata portandosi un lanciafiamme al seguito e se si fosse infuriato avrebbe dato fuoco a tutto", racconta un'altra vittima riferendosi a Carmine Spada. E quando lo stesso Carmine Spada, per ben due volte, diventa a sua volta bersaglio di un attentato, non denuncia: pensa solo a come 'rifarsi', sconsigliato dagli amici Fasciani.  "Quello delineato dalle indagini è uno scenario criminale complesso", ha spiegato in conferenza stampa Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Roma, ricordando anche "l'importante contributo" offerto alle indagini da quattro collaboratori di giustizia. L'operazione di oggi "non la consideriamo un punto di arrivo ma una tappa dell'azione di contrasto alla criminalità organizzata del litorale che stiamo portando avanti da tempo. Un risultato importante, frutto della grande collaborazione tra le forze di polizia".

Le reazioni della politica. "Abbiamo detto che avremmo fatto di tutto per sradicare la mafia dal municipio di Ostia, oggi consentitemi di ringraziare le forze di polizia e la magistratura di Roma per gli interventi", ha commentato il ministro dell'Interno, Marco Minniti, partecipando a Bologna a un convegno sulla sicurezza nelle periferie. "Continueremo - ha assicurato - perché la lotta contro le mafie per noi è il cuore della questione". Sindaca di Roma e governatore del Lazio hanno espresso la loro soddisfazione via Twitter. "Roma rinasce con operazione contro clan Spada a Ostia - ha scritto Virginia Raggi-. Grazie a forze dell'ordine, Procura, Direzione distrettuale antimafia e ministro Minniti. Tutti insieme per dire no alla criminalità. #FuorilaMafiadaRoma". "A Ostia inferto ennesimo duro colpo alla criminalità organizzata - il messaggio di Nicola Zingaretti -. Grazie a tutte le forze dell'ordine per lo straordinario lavoro investigativo e per il loro quotidiano impegno nella lotta contro le mafie. Combatterle si può e si deve. Tutti insieme". 

Affari, soldi e delitti: "La mafia di Ostia non ha più segreti". Arrivano gli arresti. Microspie e i racconti di quattro collaboratori. Il ruolo delle inchieste di Repubblica, scrive Federica Angeli il 26 gennaio 2018 su "La Repubblica". Alle quattro del mattino i lampeggianti blu di polizia e carabinieri hanno illuminato a giorno il quartier generale degli Spada: piazza Gasparri. Elicotteri, macchine e uomini divisa sono stati l’atto finale di un’inchiesta che va avanti da due anni e che ha portato a conclusione il lavoro degli agenti della Mobile di Luigi Silipo e dei carabinieri del gruppo di Ostia, comandanti dal colonnello Pasquino Toscani. Quando i 32 componenti del clan Spada sono stati portati a sirene spiegate in carcere, il procuratore della Dda Michele Prestipino ha spiegato come i pm Mario Palazzi e Ilaria Calò, gli investigatori e il gip Simonetta D’Alessandro siano riusciti a incastrare la famiglia criminale che ha divorato Ostia e come abbiano potuto contestare loro il 416bis. La mafia autoctona «Quello delineato dalle indagini è uno scenario criminale complesso, che vede protagonista il clan Spada non solo in settori criminali e con attività svolte con il tipico metodo mafioso ma anche in attività lecite, quali la balneazione e la gestione di sale giochi e videopoker». Violenza e business, omicidi e gestione dei lidi, pizzo e rapporti con l’amministrazione della cittadina sul mare di Roma. Confermando quanto rivelato con le inchieste di Repubblica. Gli omicidi per la supremazia Ci sono quattro collaboratori di giustizia, preziosissimi per le indagini, che indicano Carmine, il boss, e il fratello Roberto, come i mandanti dell’omicidio, nel 2011 di due pregiudicati, Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, che a oggi aveva come unico colpevole un egiziano. «Tengo a precisare racconta un pentito - che l’omicidio in effetti era stato programmato dalla famiglia Spada. Roberto mi diede 1500 euro da dare all’egiziano per quel delitto». Gli agguati a Romoletto Il 4 e l’8 novembre del 2016 Carmine Spada (“Romoletto”) è vittima di due agguati a colpi di pistola. Nell’ottica dell’omertà di un boss, non denuncia nessuno dei due episodi ma è molto preoccupato, tanto che si procura una scorta fatta da suo nipote e dal suo braccio destro, Alessandro Rossi. Quando individua il mandante del suo tentato omicidio vuole vendicarsi ma i boss Fasciani lo bloccano. Il pizzo ai commercianti Una società di security, la Global Protection Service, dietro cui c’erano gli Spada, aveva in mano la guardiania di supermercati, lidi e locali. Ma dal rivale ucciso Galleoni gli Spada ereditano una serie di attività a cui chiedono il pizzo. «Posso citarvi le seguenti attività dice un altro pentito - il bar Sisto di piazza Anco Marzio, il bar, il Conad e il meccanico in via del Sommergibile, il veterinario e il fruttivendolo in via Forni, un bar di cinesi in via Cagni» e tante altre attività. Chi non pagava aveva in cambio fiamme e angherie. «Quello (Carmine) si è presentato col lanciafiamme», dice un imprenditore. La casa in cambio del debito Roberto Spada decide di azzerare un debito di droga “sfrattando” la madre del debitore dal suo appartamento comunale e cambiandolo col suo. Cento metri quadri al posto dei 40 della sua vecchia casa. La compagna di Roberto, Elisabetta Ascani, teme che possa essere oggetto di sequestro quell’abitazione considerate le dichiarazioni dei pentiti e consiglia: «Ce la dobbiamo vende e con quei soldi andiamo in affitto». La protezione ai balneari Per paura di attentati sono alcuni imprenditori balneari ad affidarsi al clan. «Volendo rendere questa situazione vivibile per tutti, 20 mila euro l’anno per 5 anni te li posso dare. So che tu mi cammini a fianco 5 anni e so che non mi succede niente».

"Il Pd pagava il pizzo al clan degli Spada". La mafia a Ostia non risparmia nessuno. Nemmeno la sede del Partito Democratico. Che, secondo il racconto di un pentito, pagava il pizzo al clan Spada, scrive Luca Romano, Sab 27/01/2018, su "Il Giornale". La mafia a Ostia non risparmia nessuno. Nemmeno la sede del Partito Democratico. Che, secondo il racconto di un pentito, pagava il pizzo al clan Spada. La rivelazione, contenuta nell'ordinanza di 750 pagine che ha portato in cella 32 affiliati al clan mafioso di Ostia, è stata resa agli inquirenti nel gennaio 2016 dal collaboratore di giustizia Michael Cardoni. "Anche la sede del Pd in via Antonio Forni pagava il pizzo a mio zio", ha dichiarato spiegando il sistema criminale legato a estorsioni, usura, business del racket e traffico di droga. Sulla vicenda il commissario dem Stefano Esposito ha affermato: "Devo dire che non mi stupirei se il clima di intimidazione che ho respirato fin dal primo minuto fosse stato subito anche dai miei compagni di partito. Questo non giustifica nulla, bisogna sempre denunciare, è l'unico modo per liberare Ostia. Aggiungo che bisognerebbe anche approfondire la vicenda delle sedicenti associazioni antimafia, da me denunciate nel 2015". La sede del circolo del Pd è stata sfrattata nel 2015 per morosità.

La mafia si era presa Ostia: in cella tutto il clan Spada. Decimata la famiglia che controlla usura, azzardo, pizzo e case popolari. Con la violenza: «Uso le tenaglie», scrive Stefano Vladovich, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". La mafia s'era presa un pezzo di Roma. Lo conferma il blitz di ieri contro il clan Spada che controllava estorsioni, usura, gestione illegale degli alloggi popolari del Comune di Roma, racket delle spiagge e delle slot machine. Con minacce, lesioni e non solo. Carmine Spada e il fratello Roberto sono accusati di duplice omicidio. L'operazione «Eclissi» dimostra, una volta per tutte, che la mafia sul litorale romano aveva una presa salda. Almeno fino a ieri. Sull'ordinanza di custodia cautelare eseguita giovedì notte da polizia e carabinieri, firmata dal gip Simonetta D'Alessandro, c'è di tutto. Fondamentali, dicono alla Direzione Distrettuale Antimafia, le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, Michael Cardoni e Tamara Ianni, 40 anni, moglie e marito, Paul Dociu e Antonio Gibilisco. Sono 31, in totale, le persone arrestate dalla Dda di Roma (uno straniero è latitante), fra le quali un ex della Banda della Magliana, Roberto Pergola detto il «Negro», con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Fra i capi Roberto «il pugile», l'autore della testata e del pestaggio, lo scorso novembre, del giornalista di Nemo Daniele Piervincenzi. Spada, già nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo con l'accusa di lesioni aggravate dal metodo mafioso, resterà dietro le sbarre. Per due anni gli investigatori hanno ascoltato telefonate, pedinato e raccolto prove su prove per mettere la parola fine a uno scenario da mafia siciliana. Negli appartamenti di Carmine e Ottavio Spada, entrambi fratelli di Roberto, arredati alla «Casamonica» (l'altro clan sinti di Roma) ovvero con mobili e oggetti di lusso decisamente kitsch, i carabinieri hanno sequestrato 200mila euro in contanti. Una famiglia potente, quella di Spada, soprattutto numerosa e da sempre attiva a Ostia come «manovalanza» agli ordini del boss don Carmine Fasciani. L'ascesa del clan abruzzese imparentato con i Casamonica e i Di Silvio (attivi nel basso Lazio), comincerebbe quando gli Spada decidono di eliminare i concorrenti più fastidiosi nel business delle case comunali a Nuova Ostia, nonché nella gestione del gioco d'azzardo e dei video poker. Insomma, gli Spada contro gli eredi della Magliana. Per togliere di mezzo i presunti killer di Paolo Frau, Giovanni Galleoni, «Baficchio», e Francesco Antonini, il «Sorcanera», Carmine e Roberto Spada chiedono l'intervento del fratello Ottavio, di Amna Saber Abdelgawad Nader, detto «l'egiziano», e di Alvez del Puerto Ruben Nelson, uruguayano. I primi due sparano uccidendo i rivali, il terzo, già arrestato dopo la testata al giornalista, fa da palo. Ostia come Siculiana: il silenzio è alla base del potere degli Spada. Nel 2016 Carmine, detto «Romoletto», esce miracolosamente vivo da ben due attentati, uno in un distributore di benzina, l'altro sotto casa. Stessa cosa il fratello Roberto. Nonostante i proiettili i boss non denunciano nulla. Il che dimostra la «mafiosità del clan e il clima di omertà vigente in Ostia» spiega la Dda. Le intercettazioni parlano chiaro. Un commerciante si rifiuta di pagare il pizzo e viene minacciato: «Mo' te viene a parlà un amichetto mio e poi vedi». E ancora: «Ricordati che a me mi costa cinquanta euro datte fuoco ai negozi e alle case che hai. Io faccio questo pè campà, manovro la gente, io metto le bombe». Stesso stile di un'altra frase intercettata: «Ogni notte è buona per la tanica!». E a una vittima di usura: «Io pijo le tenaglie e ti strappo i denti». Un ristoratore racconta di uno scagnozzo che sipresenta con un lanciafiamme. Nella capitale d'Italia.

Così il clan mafioso degli Spada teneva in pugno Ostia. Dallo spaccio in strada, alle estorsioni fino alle attività imprenditoriali, è stata un'ascesa inarrestabile e violenta. Questo racconta l’indagine della procura di Roma che ha portato all’arresto di 32 esponenti della famiglia. Con l'accusa di associazione mafiosa, scrive Floriana Bulfon il 25 gennaio 2018 su "L'Espresso". L'arresto di Carmine Spada, detto 'Romoletto', considerato il capo del clanDue morti a terra hanno segnato il confine criminale tra il prima e il dopo a Ostia. È il 22 novembre 2011 e gli Spada si prendono il potere, diventano mafia. A raccontare la violenta ascesa è l’indagine della procura di Roma che ha portato all’arrestodi 32 esponenti del clan con l’accusa di associazione mafiosa. I mandanti di quel duplice omicidio, per l’accusa, sono Carmine Spada, detto Romoletto e suo fratello Roberto, quello che ha tirato indietro il collo per far partire la testata sul naso di un giornalista. Le pistole le impugnano Ottavio detto Marco, oggi nemmeno trentenne ma con un ruolo emergente nonostante la giovanissima età e l’egiziano Nader Amna Saber Abdelgawad. In quell’agguato, a dar mano forte, c’è anche Ruben Nelson Alvez Del Puerto, l’uruguaiano guardaspalle di Roberto Spada. Lo stesso che ha partecipato all’aggressione alla troupe del programma di Rai Due Nemo. La violenta e plateale aggressione davanti alle telecamere si fa sistema. Logica conseguenza, perché in quella zona conquistata il controllo del territorio deve essere affermato e ribadito con ogni mezzo. Con quei colpi d’arma da fuoco esplosi in pieno giorno e a volto scoperto, in quella via Antonio Forni che tutti chiamano ‘la vietta’, si prendono Ostia. Tanto che nei giorni seguenti, lì a meno di trenta chilometri dal Campidoglio, vengono fatti esplodere fuochi d’artificio per festeggiare. A terra restano Giovanni Galleoni, alias Baficchio, e il suo braccio destro ‘Sorcanera’, al secolo Francesco Antonini. Quella era la loro roccaforte, legata all’eredità ostiense della banda della Magliana. Gli Spada li fanno fuori e si prendono il loro basto. Non gli basta però monopolizzare lo spaccio e avere una zona in loro esclusiva disponibilità. L’obiettivo è andare oltre la violenza di strada. Occupare la sfera economica, infiltrare la struttura politica e amministrativa. E Ostia, già prigioniera di un Municipio che poi sarà sciolto per mafia, è il terreno fertile per farlo. Con arresto degli esponenti di punta del clan Fasciani nel luglio 2013, “di cui gli zingari erano solo i cani” raccontano alcuni collaboratori di giustizia, l’ascesa è inarrestabile. All’inizio è strada, lo spaccio con le squadre che fanno turni di cinque ore retribuiti 100 euro al giorno, i pestaggi, le estorsioni, poi, una volta conseguito il monopolio, una volta arricchiti ecco l’approdo alle attività imprenditoriali, meglio se da esercitarsi in regime concessionario privilegiato: acquisizione degli stabilimenti balneari o licenze di pubblica sicurezza per l’esercizio delle sale giochi. A casa loro, in quel quadrante attorno alla ‘vietta’ e piazza Gasparri, tutti pagano il pizzo: il bar, il meccanico, il fruttivendolo, il veterinario. Anche i cinesi. Si aggira su metà dell’incasso mensile. Fanno “società” gli Spada. Le chiamano così, si tratta di prestiti, anche esigui, elargiti con un tasso medio mensile del 60 per cento. Persino al centro anziani. E quando qualcuno non paga arrivano le spedizioni punitive che “Io ti vengo a cercare…prendo tua madre tuo padre vengo dove cazzo stai te nun gioca con me… Ti spezzo tutte le costole. Io pijo le tenaglie e ti strappo i denti”. Ottavio Spada, detto Maciste afferra per il collo un ex dipendente dei Vigili del Fuoco e gli ricorda chi è: “pezzo di merda, te devi sbrigà a damme i sordi ha capito? Io campo di questo lavoro!”. Riscuote al bar Amigos, intorno al 27 del mese. Un debito da 10mila euro a distanza di una sola settimana aumenta di 1.500, ma “c’abbiamo una politica da tené”: per prestiti sopra ai 2mila euro si deve ottenere l’autorizzazione di Ottavio Spada detto Marco che dispone del fondo casa. Altrimenti gli interessi lievitano troppo e i debitori si fanno insolventi. Minacce e violenza sono la regola per ottenere quello che vogliono. Uno dei tanti transfughi che dal clan Baficchio passati agli Spada, costringe la rappresentante di una cooperativa sociale a stipulare un contratto con lui per il noleggio delle attrezzature balneari e ad assumere sua moglie. Le assunzioni sono buone anche per accollarsi il debito, tanto da imporre a un maneggio di far lavorare un debitore degli Spada. Sanno picchiare duro e ne hanno fatto impresa. Con la loro società di security arrivano a contendersi anche la protezione di un’attività balneare con un’organizzazione campana. I titolari si rivolgono prima agli uni e poi agli altri per evitare il ripetersi di atti intimidatori e sono ben a conoscenza di quello che fanno, tanto che commentando il film Suburra uno spiega: “perché hai visto si sono messi tutti d’accordo zingari e malavita e i politici si sono messi tutti d’accordo nessuno deve fare niente se no prima ogni giorno c’era un omicidio…hai visto gli zingari che potere che hanno preso perché pure loro sono forti perché nessuno è infame…tu non puoi fare l’infame quando sei uno zingaro”. 2000 euro a settimana e gli Spada garantiscono di tenere le taniche per gli incendi lontane. Per un po’ i due clan tentano anche una convivenza forzata, non regge e alla fine gli imprenditori pagano il disturbo ai napoletani: 15mila euro. Gli Spada hanno il lavoro in esclusiva. Da una parte killer e spacciatori alle loro dipendenza, dall’altro stringono legami con la zona grigia e con la politica. Per eludere le misure di prevenzione diventano soci occulti, utilizzano prestanome e gestiscono sale gioco, noleggiano macchinette. Le impongono ai bar. “Una ogni due regolarmente installate”, racconta quello che un tempo era loro sodale “Quella degli Spada non è sotto controllo dello Stato e se ci fossero stati dei controlli dovevano fingere che quella non controllata fosse rotta”. Quando vengono arrestati subentrano i fratelli nella gestione e quando vengono arrestati i prestanome ne cercano altri. Vogliono espandersi, ricercano locali nella Capitale e lungo il litorale laziale. Mettono persino gli occhi sugli storici magazzini romani allo statuto (MAS), uno spazio nel centrale quartiere dell’Esquilino. “Il punto di forza degli Spada consiste nel fatto che sono in tanti”, spiega il nipote di Baficchio Michael Cardoni. Già vedetta e spacciatore il clan lo voleva morto. Pestaggi, avvertimenti in raid notturni punitivi, hanno tentato di portargli via la casa, sono entrati in quella della madre e l’hanno sbattuta fuori. Insieme alla giovane moglie, Tamara Ianni, ha scelto la vita di collaborare con la giustizia. Anche la palestra era di suo zio. Prima della morte l’aveva data in gestione alla moglie di Roberto Spada per la sola di danza e pagava per la locazione. Dopo la morte è diventata loro. Come le case popolari. Se ne impossessano: “Roberto Spada ha cacciato la madre di uno che non aveva pagato una partita di stupefacente e se l’è presa” ricorda. A confermare le indagini condotte da Polizia e Carabinieri il contributo dei collaboratori. Come il rumeno Paul Dociu, uomo degli Spada già condannato per rapina e violenze. Si occupa di droga, di intimidazioni con molotov lanciate nei locali di un’agenzia immobiliare in pieno giorno o contro un’auto in un luogo dove chi subisce i danni non sporge denuncia, tale è la sfiducia. E’ lui a raccontare di quell’omicidio che ha portato all’ascesa. Casus belli, secondo Dociu, la contesa posizione del titolare di un negozio di ortofrutta ubicato in una zona di influenza dei Baficchio gravato da debiti anche nei confronti degli Spada. Mancanza di rispetto del controllo del territorio. “Ci fu prima una discussione tra Galleoni e l’egiziano Nader (che agiva come esattore di Carmine Spada) …ha minacciato l’egiziano con un coltello. Subito dopo, nella stessa giornata, l’egiziano ha sparato nel cancello del garage di Galleoni e ha riferito tutto a Romoletto. Nei giorni successivi Romoletto e Galloeni si vedono in un bar e c’è un ulteriore scontro”. Le cose però non si risolvono. Lo contatta il giovane Ottavio Spada detto Marco lo porta al McDonald. Davanti a un panino gli dice: “zio Romoletto si era “intoppato” (incazzato ancor di più) e quindi dovevo fare con l’egiziano l’omicidio”. Alla fine non sparerà lui, ma Ottavio Spada. Si occuperà però di nascondere l’egiziano nella sua abitazione. L’hanno fatto pulire con la candeggina per rimuovere le tracce dello sparo, racconta, e Roberto Spada gli fornisce i soldi per garantire la fuga all’estero.

Non si deve osare sfidarli. Sono loro a comandare. Così chi dà alle fiamme la macchina e la moto di Fabrizio Ferreri, nipote di Terenzio Fasciani e cognato di Ottavio Spada, va fatto fuori, per poi festeggiare in una Spa. E ci si preoccupa molto per gli attentati a Carmine Spada nel novembre del 2016. La pistola si inceppa per ben due volte e lui si salva. In casa si fanno riunioni mafiose con i fratelli e come un vero boss Romoletto si munisce di una guardia del corpo pronta a dormire a casa sua e a compiere le bonifiche. Hanno dei sospetti sul mandante, sono pronti ad agire, ma vengono indotti a fermare qualsiasi rappresaglia contro gli aggressori per volere di Giuseppe Fasciani, detto Floro, il fratello minore di Carmine, il don che ha tessuto le trame criminali del X Municipio per anni. Sui verbali del procedimento Galleoni e Antonini ci sono le dichiarazioni di Paolo Mariantoni. Aveva reso intenzione di collaborare con la giustizia e riferito particolari sulla responsabilità di Spada e della famiglia Fasciani. Il fatto quindi che in caso di uccisione di Mariantoni le forze dell’ordine immediatamente focalizzerebbero la loro attenzione circa la responsabilità su Carmine Spada e Carmine Fasciani come vendetta. I Fasciani, la famiglia storicamente alleata e sovraordinata agli Spada nelle gerarchie criminali. Gli Spada si preoccupano di inviare anche 250 euro ogni fine mese don Carmine Fasciani detenuto in regime 41 bis. Un gesto simbolico, volto a ribadire che il legame non è venuto meno. Il clan Fasciani è un'organizzazione mafiosa e "il carattere mafioso del gruppo va riconosciuto” ha scritto la Cassazione nelle motivazioni con cui lo scorso 26 ottobre ha accolto il ricorso della Procura generale di Roma contro la sentenza di Appello che aveva fatto cadere l'aggravante mafiosa. Gli Spada non sono più solo loro manovalanza, sono connessi.

Ostia, i dossieraggi politici contro Libera: "Solo bugie per screditarci". Sedicenti associazioni antimafia caldeggiate da due esponenti del 5Stelle hanno cavalcato polemiche contro l'operato di Don Ciotti, ma in arresto per corruzione è finito il funzionario che aveva occultato per sei anni un documento, scrive Federica Angeli e Enrico Bellavia il 17 dicembre 2017 su "La Repubblica". "La storia della Spiaggia Libera SPQR di Ostia necessita di un prologo e di un racconto dettagliato. Solo leggendo tutte le tappe di questa vicenda si capirà la verità e le tante bugie messe in campo per per screditare il lavoro di Libera e Uisp". Il tweet dell'associazione antimafia di Don Ciotti viene pubblicato nel primo pomeriggio del 16 ed è subito boom di condivisioni e like. E arriva a due giorni dall'arresto per corruzione dell'ex responsabile dell'ufficio tecnico dell'edilizia privata del X, Franco Nocera. La storia comincia prima di 48 ore fa e il triste epilogo, documentato da Repubblica, avvenne nel 2016 con la riconsegna della spiaggia libera attrezzata che Libera aveva vinto attraverso un bando al Comune. Quel che successe in quelle frenetiche giornate, come spiegato nel commento di Enrico Bellavia dal titolo "Mazzette a Ostia, la bomba a tempo del burocrate", fu che il Movimento 5 Stelle iniziò una guerra a colpi di dossier contro l'associazione antimafia di don Ciotti, facendo passare come il diavolo Libera. Ma la realtà dei fatti era ben diversa e oggi, attraverso un lunghissimo articolo circolato sui social, viene spiegato dettagliatamente.

"Spiaggia Libera SPQR di Ostia: una verità, tante bugie". Questo il titolo dell'articolo. "La storia della Spiaggia Libera SPQR è una vicenda prolungata e complessa - scrivono - che ci racconta qualcosa di importante delle dinamiche di un territorio così particolare come quello di Ostia. E' una storia fatta dell'impegno di molte persone, delle loro speranze di cambiare il posto in cui vivono e degli ostacoli che hanno dovuto affrontare. Che riguarda il suo bene più prezioso, il mare, e la gestione di questo settore da parte degli uffici di un Municipio precedentemente sciolto per mafia, con comportamenti e atti il cui disegno è ancora tutto da interpretare, e che si intrecciano con l'agire di attori economici e sociali del territorio. E che racconta di rapporti politici, di personaggi in ascesa e in declino, e di attori spregiudicati della vita lidense, di dossier e attacchi che ripetutamente si armano contro alcuni o contro altri, a seconda degli interessi in gioco". I dossier sono scritti da sedicenti associazioni antimafia e per la legalità, Luna Nuova e Labur, gestiti dalle stesse persone. Luna Nuova, per inciso ha già un ordine di oscuramento della sua pagina Facebook dalla magistratura romana per diffamazione aggravata e continuata.

Il bando. Libera e Uisp partecipano quindi al bando "sviluppando un’idea di gestione libera, pulita, trasparente della costa di Ostia. Risultano terzi nella graduatoria - spiegano da Libera - relativa al lotto di spiaggia n.8. Ma i primi, gli ex gestori della spiaggia, la coop sociale Roys, vengono esclusi ex articolo 38, per non aver dichiarato alcuni specifici precedenti penali. I secondi avevano espresso preferenza per un altro lotto messo a bando. E' così Uisp e Libera risultano assegnatari di quella che sarà poi la Spiaggia Libera SPQR. Siamo nell'aprile del 2014. E' in quel frangente che gli ex gestori fanno ricorso al Tar. Ma nonostante fossero esclusi dal bando, il municipio pensò bene di affidare loro la spiaggia per quella prima stagione balneare, in attesa dell'esito del ricorso. Una decisione lascia Libera e Uisp sgomenti. Ma nulla cambia e si dovrà aspettare tutta l'estate.La spiaggia verrà affidata solo a fine settembre, a stagione finita, e in condizioni davvero compromesse". Il vecchio gestore che fa ricorso e vince al tar è tal Roberto Bocchini, amico di Paolo Ferrara del 5 Stelle che, misteriosamente troviamo nella gestione opaca del Faber Beach fino a qualche mese fa. 

I documenti che spariscono dal Municipio. "Dopo i mesi complicati dell'estate - dicono ancora nel documento sui social gli esponenti di Libera - arriva finalmente il momento del confronto con la pubblica amministrazione, per gestire tutte le difficoltà che le associazioni avevano segnalato. Arriva il primo incontro in Municipio con la nuova direttrice e alcuni collaboratori: siamo a novembre 2015. E’ in quella occasione che viene comunicato alle associazioni che attualmente in municipio non è presente tutta la corrispondenza tra le associazioni e il municipio stesso, compresa la lettera in cui il precedente direttore del Municipio affermava che il chiosco fosse acquisito a demanio marittimo, regolare e utilizzabile. Libera e Uisp consegnano così tutto il faldone, come poi faranno il mese seguente in Commissione Antimafia. Si arriva così a marzo 2016, con tutte le domande sul futuro della spiaggia Libera SPQR ancora aperte.  Le associazioni chiedono così di essere ricevute in municipio".

L’ordinanza di demolizione del 2010 e la fine del progetto. Dopo alcuni giorni di attesa, Libera e Uisp presentano un esposto il 30 marzo 2016 alla Procura di Roma. La sera di quel giorno vengono ricevute in municipio, dalla direttrice insieme con altri funzionari e dirigenti. In particolare Franco Nocera, dirigente del municipio in ambito di edilizia privata, presenta un documento importante: è un'ordinanza di demolizione di abusi indirizzata alla cooperativa che gestiva la spiaggia prima di Libera e Uisp. Un'ordinanza del 2010, di sei anni prima, da eseguire allora entro 30 giorni ed evidentemente mai eseguita, che chiede di abbattere un manufatto presente sull’arenile, il chiosco. Il responsabile unico della procedura è proprio Franco Nocera, oggi arrestato per corruzione per le tangenti che avrebbe ricevuto da imprenditori dell'edilizia. Il direttore dell'epoca è Aldo Papalini, anche lui arrestato e già condannato per corruzione, per aver favorito perfino gli interessi del Clan Spada sugli stabilimenti balneari. "Ma l'ordinanza, ovviamente, era la prima volta che veniva mostrata a Uisp e Libera. Omessa dal bando di gara, omessa al momento della firma della convenzione. Omessa perfino quando fu chiesto di conoscere quali lavori di sistemazione effettuare sulla spiaggia. Scomparsa durante gli anni delle gestioni precedenti, o quando il municipio ne riprende possesso. Ma tornata casualmente in voga quando gli affidatari dell’arenile sono Uisp e Libera".

Annullamento del bando. "Dopo giorni di silenzio, Libera e Uisp, sfinite, decidono di lasciare la spiaggia e abbandonare il progetto, dicharando la nullità della convenzione-contratto ex art. 1418 e ss codice civile per violazione di norme imperative, tra cui artt. 35 e 46 D.P.R. n. 380/2001.  Si dichiara quindi la nullità di quel bando e quella convenzione, convinti che sia tutto da rifare alla luce degli elementi emersi fino a quel momento. Il municipio riprenderà espressamente e consapevolmente possesso dei luoghi a seguito di un sopralluogo con il dott. Vulpiani, il Commissario Prefettizio che governa il municipio durante lo scioglimento, dopo aver constatato di fatto e di diritto lo stato dei luoghi. E' il 26 Aprile 2016. Proprio il giorno seguente la nostra dichiarazione di voler lasciare la spiaggia arriverà il primo documento di Anac sulla vicenda che affermerà le lacune di quel bando di gara". Le lacune sottolineate da Anac sono sul bando di gara, non sull'operato di Libera. Ma qui si scatena il fango e la verità viene stravolta. Il municipio, nel bando 2014, in sostanza chiedeva ai gestori di ripristinare uno stato dei luoghi che era in realtà abusivo a monte, le sedicenti associazioni antimafia, non si sa a quale titolo, accusano Libera di aver gestito tutto in maniera opaca.

Il dossier del 5Stelle. A raccogliere quel dossier infamante per l'associazione di Don Ciotti, pagine che mischiavano le carte in tavola e non raccontavano la verità oggetitva dei fatti, sono i grillini Paolo Ferrara, attuale capogruppo del M5S in Campidoglio, e Davide Barillari, consigliere regionale. Attraverso un copia-incolla fanno loro quel dossier da presentare in Antimafia che consegnaranno in una versione con dicitura "confidenziale riservata alla stampa" ai cronisti radunati in una conferenza stampa in Campidoglio il 7 settembre del 2015. L'onda di fango che ne seguì sui social travolse l'operato di Libera a Ostia. Ma oggi la verità viene ristabilità. Non solo dalla spiegazione di Libera ma dall'arresto per corruzione di quel funzionario dell'ufficio tecnico Nocera che fece sparire un documento per tirarlo fuori al momento giusto.

Cosa c’entra un dirigente corrotto con Libera, le spiagge di Ostia, la “finta antimafia” e il M5S. Paolo Ferrara, capogruppo del M5S a Roma, si complimenta con la polizia per l'arresto di Franco Nocera. Che è il dirigente dell'ordinanza rimasta seppellita per sei anni che causò l'abbandono da parte di Libera della spiaggia che prima dell'associazione antimafia era stata gestita dal suo "conoscente" che però aveva "piccoli problemi con la giustizia". Piccola storia di una figuraccia per la quale nessuno però ha ancora chiesto scusa, scrive Alessandro D'Amato domenica 17 dicembre 2017su Next. «Voglio congratularmi con gli agenti della squadra mobile della Questura e del commissariato di Ostia per l’operazione ‘Regali di cemento’»: così Paolo Ferrara, capogruppo del MoVimento 5 Stelle in Assemblea Capitolina, ha accolto l’arresto di Franco Nocera, dirigente del X Municipio, posto ai domiciliari insieme a due imprenditori dopo essere stato videoregistrato in un incontro nel suo ufficio con l’imprenditore Stefano Polverini (anche lui finito ai domiciliari) durante il quale quest’ultimo, che sarebbe stato favorito nell’iter delle pratiche presentate all’ufficio tecnico del Municipio diretto all’epoca da Nocera, gli avrebbe consegnato una somma di denaro a titolo “di parziale corrispettivo per la sua corruzione”.

Il M5S, Libera e la Spiaggia Libera SPQR. Una brutta storia di corruzione, una delle tante che hanno funestato il litorale romano negli ultimi anni. Ma la vicenda presta anche l’occasione per raccontare una vecchia vicenda che ha per protagonista proprio Franco Nocera di cui ha parlato oggi su Repubblica Roma Davide Bellasio: nel 2010 in una determina dirigenziale Nocera bolla come abusivo un chiosco che si trova su una spiaggia in concessione a Ostia e che all’epoca è gestito da Roberto Bocchini e successivamente gli viene revocato per altre irregolarità e viene assegnato nel 2014 con bando a Libera e all’Uisp, lasciate del tutto ignare dell’abuso. Ma quella determina rimane in un cassetto per anni. Tanto che il Municipio con lettera protocollata, aveva comunicato in data 18 Marzo 2015 l’esatto contrario: che la struttura era parte della dotazione della spiaggia e regolarmente utilizzabile ai fini di una migliore erogazione dei servizi. La determina del 2010 è un atto totalmente sconosciuto alle associazioni Uisp, Libera e Le Gran Coureur. Poi accade qualcosa. Nocera, racconta Repubblica Roma, nel 2016 manda quel foglio tramite WhatsApp alla dirigente del X Municipio, Cinzia Esposito. Le cronache dell’epoca raccontano che il documento viene reso noto dal Municipio all’ATI (associazione temporanea di imprese) non in sede di bando, né tanto meno di firma della convenzione con lo stesso X Municipio, ma solo in data 30 Marzo 2016 a seguito di un esposto presentato dall’ATI affidataria alla Procura di Roma.

Quando Franco Nocera fece cacciare Libera dalla spiaggia. «L’emergere oggi di tale determina – commentava all’epoca Libera – rende di fatto nullo il bando e la convenzione stessa. Ancora una volta tante ombre avvolgono il X Municipio con documenti sconosciuti che improvvisamente ricompaiono in precisi momenti. Del resto il fatto che questi documenti appaiano oggi non è casuale: a ridosso dell’apertura della stagione balneare, mettendo in crisi un progetto, sotto il profilo economico e di immagine per le associazioni affidatarie della spiaggia». Cos’era successo di preciso? Oggi un comunicato di Libera riepiloga chiaramente l’accaduto con tanto di nomi e cognomi: Libera e Uisp presentano un esposto il 30 Marzo 2016 presso la Procura di Roma. La sera di quel giorno vengono ricevute in municipio, dalla direttrice insieme con altri funzionari e dirigenti. In particolare Franco Nocera, dirigente del municipio in ambito di edilizia privata, presenta un documento importante: è un’ordinanza di demolizione di abusi indirizzata alla cooperativa che gestiva la spiaggia prima di Libera e Uisp. Un’ordinanza del 2010, di sei anni prima, da eseguire allora entro 30 giorni ed evidentemente mai eseguita, che chiede di abbattere un manufatto presente sull’arenile, il chiosco. Responsabile di quel procedimento era proprio Nocera. Il direttore dell’epoca è Aldo Papalini, anche lui arrestato e già condannato per corruzione, per aver favorito perfino gli interessi del Clan Spada sugli stabilimenti balneari. L’ordinanza era stata omessa dal bando di gara, dalla convenzione e dalle comunicazioni, compresa quella del direttore del municipio che affermava che il chiosco fosse acquisito a demanio marittimo. Per questo alla fine Libera e UISP lasciano la spiaggia il 26 aprile 2016. In seguito ai rilievi dell’ANAC il bando del 2014 viene annullato.

Proprio la spiaggia della lite tra M5S e Libera. Ma il comunicato di Libera ricorda anche che quello era il lido che gestiva «Roberto Bocchini, amico dei “neri” e poi degli emergenti 5S Paolo Ferrara e Davide Barillari». Qualche tempo prima dei fatti che hanno coinvolto l’oggi arrestato Nocera infatti ci fu quella che potremmo tranquillamente definire come la più grossa cantonata politica presa dal MoVimento 5 Stelle romano: quella della falsa relazione antimafia desecretata e della conferenza stampa (di cui sopra potete ammirare il video) in cui tutto il gotha romano di M5S, da De Vito a Barillari, da Ferrara a Ruocco e Di Pillo, con tanto di Raggi e Frongia e insieme alla special guest Giarrusso, presentò un dossier di 42 pagine sulla mafia nel litorale romano (per il quale oggi un consigliere regionale minaccia querele) che si rivelò poi un cumulo di bufale e false accuse. Quella storia ha però un antefatto che riguarda proprio quella spiaggia e Paolo Ferrara, che oggi guida il gruppo del M5S in Campidoglio. Prima di Libera, dicevamo, questa era gestita da Roberto Bocchini e con essa quel famoso chiosco che era stato dichiarato abusivo in una determina dirigenziale di Nocera che risale al 2010 ma era rimasta però per sei anni nel cassetto. La spiaggia si chiamava Amanusa e ai 5 Stelle doveva essere nota visto che ci hanno organizzato un aperitivo elettorale a conclusione della campagna quando proprio Ferrara era candidato al municipio nel 2013. Bocchini e Ferrara a quanto pare erano amici, anche se in un’intervista al Tempo del settembre 2015 l’attuale capogruppo M5S in Campidoglio disse «Lo conosco, ma non è mio amico».

La spiaggia Amanusa e Paolo Ferrara. Il giorno prima invece Ferrara lo aveva proprio definito amico, e per questo Bocchini si era risentito molto il giorno dopo quando era stato derubricato a conoscente a mezzo stampa. Il problema diplomatico tra i due conoscenti-amici-compagni di scuola era stato generato non certo dalla scoperta dei “piccoli problemi di giustizia” di Bocchini ma proprio dalla polemica che era nata dopo l’articolo del Tempo sul dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia. Come ricordò Alfonso Sabella in quella che rimarrà alla storia come la lettera del “Me Cojoni”: «Nell’articolo del Tempo che illustra il vostro dossier guarda caso si tratta anche del ruolo oscuro che, secondo voi, avrebbe avuto a Ostia perfino l’avvocato Rodolfo Murra che è proprio colui che, nei due mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia ed è pure l’avvocato che ha vinto i ricorsi prima al Tar e poi al Consiglio di Stato; come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara è colui che ha organizzato un incontro occulto tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori “onesti”…e che sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera». Ferrara per tutta risposta annunciò una querela per Sabella.

Un’eterna ghirlanda brillante. La storia di Nocera, quella della falsa “relazione antimafia desecretata” e quella dell’amicizia tra Bocchini e Ferrara, oltre a quella degli incontri pericolosi con i balneari nei locali di proprietà del CONI oltre a quella della sciocca guerra del MoVimento 5 Stelle a Libera a colpi di dossier con informazioni false o esagerate hanno un denominatore comune: le spiagge di Ostia. Anzi: a ben guardare ne hanno anche un altro. Ovvero quella tendenza da parte di personaggi autorevoli tra i grillini romani a prendere clamorose cantonate nella valutazione degli interlocutori e ad essere particolarmente creduloni nei confronti di denunce campate in aria che hanno come obiettivo gli avversari politici. Se ci pensate bene, è la stessa miscela di scarsa capacità di discernimento e pressappochismo che portò qualche tempo fa l’attuale presidente del X Municipio Giuliana Di Pillo, non a caso presente nella conferenza stampa sul dossier sulla mafia a Ostia, ad accusare Athos De Luca di essere vicino a Buzzi a causa dell’errata e superficiale lettura di una relazione del prefetto di Roma su Mafia Capitale che in quel punto stava invece soltanto elencando i consiglieri comunali in carica in quegli anni e per questo citava nella stessa tabella di De Luca anche Virginia Raggi. Anche in quella occasione come in questa della spiaggia che ha visto l’oggi arrestato Nocera – che però potrebbe essere definito anche lui “uno dei 23mila dipendenti del Campidoglio”, come successe ad altri – tra i protagonisti a 5 Stelle non si vede l’ombra di comportamenti penalmente rilevanti (al netto delle tante querele incrociate per diffamazione annunciate). Si vede solo pressappochismo. Che però porta a fare figure non proprio eccellenti delle quali poi nessuno chiede mai scusa assumendosi la responsabilità di dire: “Ok, ho sbagliato”. Il problema – e il pericolo – è tutto qui.

LA MAFIA CINESE.

#REPORTAGE. La quinta mafia italiana: criminalità cinese tra droga, prostituzione e usura. Roberti: “Non abbasseremo l’attenzione su queste organizzazioni”, scrive il 23 novembre 2016 in Difesa e Sicurezza Nazionale Mary Tagliazucchi su "Ofcs.report". Lazio, Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna e Sicilia. Queste regioni italiane hanno un comune denominatore: la mafia cinese.  Secondo i rapporti della Dia (Direzione investigativa antimafia, e della Scico (Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata) che l’ha definita la “quinta mafia” italiana, è particolarmente radicata a Roma, Napoli, Firenze, Prato, Milano e Padova. Questo nonostante in Italia sia luogo comune pensare che la mafia sia un “business” esclusivo della camorra siciliana, campana e della n’drangheta calabrese. Ma ad allungare i suoi lunghi tentacoli da tempo ormai c’è anche la “Triade”, che ha come simbolo la testa di un dragone e che nel nostro paese ha trovato un vero e proprio paradiso di loschi investimenti fatto di strategiche alleanze e business milionari con le mafie nostrane. Simile alla mafia siciliana, anche la struttura delle famiglie mafiose cinesi hanno riti d’iniziazione e giuramenti. Per entrarne a far parte sembrerebbe sia richiesto un giuramento di rito, a cui segue l’obbligo di bere una bevanda di infuso di riso in cui sono state versate anche alcune gocce del proprio sangue. Molto spiccato il senso dell’onore e il concetto del perdere la faccia o della vendetta. A questo proposito se qualcuno riceve un gladiolo rosso è il segno della condanna a morte, e chiunque della comunità è legittimato ad ucciderlo.

Green Dragon, Black Society e Red Sun, secondo i report dell’Interpol sono fra le gang criminali cinesi più organizzate. Dopo aver messo “gli artigli” su Milano, sono riuscite infatti ad espandersi anche oltre i confini italiani come in Francia, Svizzera e Austria.

Transcrime, il centro di ricerca di criminologia dell’Università Cattolica di Milano, invece, in un rapporto pubblicato nel 2013, evidenziava come in Italia la mafia cinese investa nel commercio, nel tessile, nella ristorazione e nei numerosi punti di money service. Attività (non tutte ovviamente) che vengono sovvenzionate da soldi sporchi, provenienti dalla gestione illegale dei flussi migratori, dal traffico e spaccio di droga, dallo sfruttamento del lavoro e della prostituzione e nell’usura a danno degli stessi connazionali.  Non solo, fra i vari “affari” della mafia cinese c’è anche il traffico illecito di rifiuti e a seguire il riciclaggio di denaro, la contraffazione e il contrabbando di merci.

I nuovi adepti, come scoperto dalla Polizia di Frontiera, partono principalmente da Hong Kong, definita la “base operativa” della mafia “made in china”. Una volta arrivati in Italia cominciano da subito a seguire gli “affari di famiglia”. E non viaggiano via mare o via terra, stipati in qualche camion o barcone. Partono muniti di un visto turistico, tranquillamente in aereo e facendo scalo negli aeroporti internazionali di Fiumicino o Malpensa.  Poi di loro non si sa più nulla.

La Direzione nazionale antimafia sostiene, sempre nella sua relazione, come le città di Firenze e Prato siano state quelle prese d’assalto dalla criminalità cinese. Riscontrando peraltro maggiori difficoltà a livello investigativo rispetto alle indagini sulle altre cosche mafiose. Questo perché i traduttori e interpreti di lingua cinese, sono insufficienti a ricoprire l’importante e delicato compito delle intercettazioni modus operandi principale nelle indagini di questo genere. Nonostante le evidenti difficoltà a Firenze, tempo fa è stato scoperto un trasferimento di denaro verso la Cina, pari a oltre 4 miliardi di euro, naturalmente eseguito in uno dei loro negozi “money trasfer”.

Anche a Roma, dove riuscire ad indagare ed entrare nella criminalità romana cinese è complicato, si è arrivati però a capire come operano questi clan stranieri.  Infatti, se inizialmente la mafia cinese è arrivata in Italia per gestire l’immigrazione clandestina e le estorsioni all’interno delle loro comunità, in seguito grazie all’apertura di numerosi esercizi commerciali è avvenuta una vera e propria colonizzazione.

Nella capitale fra i quartieri più invasi dai cinesi c’è quello di Torpignattara, zona periferica fra la Casilina e Prenestina, piazza Vittorio, Esquilino e Tuscolana. Tra le “chinatown della capitale”, Torpignattara e piazza Vittorio, hanno visto sorgere, a ritmi inarrestabili, molteplici esercizi commerciali. Questo grazie alla facilità di denaro contante di cui dispongono i clan. Tutto a beffa e danno dei commercianti italiani che, non disponendo di cifre simili, non riescono a competere con loro sull’acquisto o affitto di locali da adibire ad attività commerciale. Ogni cosa viene decisa e preventivata a tavolino da queste organizzazioni che si occupano di tutto: rilevamento dell’attività, la zona giusta, i contatti necessari per l’acquisto, l’arredamento e, cosa fondamentale, la scelta del nucleo familiare (cinese) che andrà a gestire questa nuova attività commerciale. Ma non si tratta di un atto di generosità, tutt’altro. Oltre ad essere sfruttata, la famiglia in questione si vedrà richiedere, a tassi maggiorati, i soldi anticipati. E se qualcosa va storto, le conseguenze possono essere terribili. Perché, un altro dato non da trascurare, è la riconoscibilità di queste persone. I tratti somatici dei cinesi inducono molte volte a confonderli l’uno con un altro. Come scambiare un coreano per un giapponese e viceversa. Questa difficoltà per gli italiani e per le forze dell’ordine stesse, è sfruttata a dovere da questi clan, soprattutto quando all’improvviso un loro connazionale “sparisce”. All’interno della comunità criminale cinese, infatti, gli omicidi sarebbero all’ordine del giorno, ma per gli inquirenti è molto difficile venirne a conoscenza proprio per i motivi suddetti. Al momento della scomparsa del malcapitato, è uso che i suoi documenti vengano presi da un suo connazionale, certi che nessuno se ne accorgerà. Alla famiglia della vittima non resterà che continuare a lavorare per i clan nella speranza di estinguere il debito. Queste persone sono, il più delle volte, immigrati clandestini. Fra i tanti business cinesi il traffico di immigrati clandestini costituisce, di fatto, un traffico di schiavi, con una vera e propria attività di compravendita di esseri umani a fini di brutale profitto. Il clandestino che giunge in Italia rimane strettamente assoggettato al vincolo del debito da estinguere con chi ha pagato il prezzo della sua liberazione, o meglio, del suo riscatto: ciò avviene attraverso il lavoro nelle aziende, tessili e di pelletteria, di proprietà di connazionali, con la costrizione a subire orari di lavoro interminabili, con una retribuzione certamente inadeguata e non proporzionata alle prestazioni. Rapine, furti ed estorsioni sono reati interni alla comunità, consumati da cinesi a danno degli stessi connazionali.

Nel quartiere romano di Torpignattara, i residenti ormai non ci fanno più caso, parliamo di quelli più giovani che vivono la multi etnicità di questa zona fin dalla nascita. Ma chi, invece, molti anni prima ha deciso di vivere qui, non riesce ancora ad accettare questo cambiamento. Il quartiere, infatti, assomiglia sempre di più a una delle tante banlieu francesi. Qui la presenza d’immigrati stranieri raddoppia di gran lunga la percentuale di residenti italiani. Abbiamo cercato di testare gli animi dei residenti.  Una signora, proprietaria di un bar, racconta di come lei stessa sia stata avvicinata da questi clan e di come abbia resistito al loro assalto: “Una mattina, mi sono vista entrare tre uomini, di nazionalità cinese. Parlavano italiano stentato, ma hanno fatto capire subito cosa volevano.  Mi hanno proposto una cifra superiore al valore della mia attività e tutto in contanti”. Una proposta allettante visto i tempi. “Certo – aggiunge la donna – ma questo bar appartiene da tre generazioni alla famiglia di mio padre e seppur con difficoltà ho detto, no. Sono tornati altre tre volte, ma la risposta è rimasta quella”. E se a Torpignattara il business dei clan con gli occhi a mandorla sono gli esercizi commerciali, è piazza Vittorio Emanuele la vera China Town di Roma.  Qui intere strade sono piene di negozi appartenenti ai clan criminali dagli occhi a mandorla, ma la maggior parte di questi (non tutti ovviamente) sono solo delle facciate che nascondono retrobottega dove si svolgono attività legate al gioco d’azzardo e riciclaggio di soldi provenienti da prostituzione e traffico di droga. La prostituzione, in particolare, avviene in appartamenti preventivamente acquistati o presi in affitto sempre dai clan cinesi. Secondo gli inquirenti ogni singola prostituta garantisce alla mafia made in china almeno un migliaio di euro al giorno. I clienti vengono adescati sui vari siti internet o su semplici annunci di giornale. Sembra ci siano addirittura dei centralini adibiti appositamente per smistare le richieste dei clienti. Questo accade non solo a Roma, ma anche a Firenze, Pescara, Milano, Avellino, Palermo, Cesena e Prato.  Proprio qui, un anno fa gli agenti della squadra mobile hanno posto sotto sequestro un locale e hanno eseguito dieci misure cautelari nei confronti di 9 persone di origine cinese.  Il blitz era avvenuto in quello che ufficialmente doveva essere un circolo socio culturale e, invece, in realtà era un vero e proprio night club dove i clienti potevano trovare prostitute cinesi e sostanze stupefacenti come cocaina, ketamina ed ectasy.

E proprio a Milano, nell’ambito dell’attività di contrasto delle bande giovanili cinesi, nell’ottobre scorso sono state arrestate 68 persone di nazionalità cinese. Sequestrati, per un valore di vendita al dettaglio pari a circa 2 milioni di euro, circa 3,5 chili di shaboo, la potente metanfetamina conosciuta come la droga più potente e pericolosa al mondo capace di annientare le coscienze di chi ne fa uso. Il traffico avveniva tra le province di Milano, Monza e Brianza, Cagliari, Cremona, Como, Parma, Pavia, Prato, Rovigo, Treviso e addirittura contestualmente anche in Austria, Polonia, Romania e Spagna e Gran Bretagna. Ma nonostante questo, da parte della polizia, ogni volta risulta difficilissimo arrestarli. Questo perché la Triade fa in modo di usare, in Italia e all’estero, appartamenti a rotazione fra prostitute, spacciatori e normali famiglie cinesi. Tutto, naturalmente, al fine di mandare in confusione le indagini delle forze dell’ordine. Sull’andamento di queste organizzazioni criminali abbiamo interpellato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che ha affermato: “Ad oggi, seppur i tentacoli di questa mafia si sono allungati su diverse delle nostre regioni italiane e non solo, stando ai dati dell’ultimo rapporto del 2015 della relazione della Direzione nazionale antimafia, sembra che non vi siano stati ulteriori incrementi di questo fenomeno. Di certo non abbasseremo l’attenzione su queste organizzazioni criminali”.

Blitz della polizia contro la mafia cinese: 33 arresti. L'operazione in diverse città italiane e in Europa ha permesso di scoprire dinamiche, ruoli e alleanze di una vasta organizzazione e il monopolio del traffico su strada di merci di origine cinese, scrive Laura Montanari il 18 gennaio 2018 su "La Repubblica". Avevano quasi il monopolio del traffico su strada delle merci di origine cinese in Italia, Francia, Spagna, Germania e altri paesi. Un giro di centinaia milioni di euro, un calcolo esatto è impossibile al momento farlo. Ma i numeri sono enormi, dicono le accuse. Del resto l’organizzazione scoperta dall’indagine cominciata dalla squadra mobile di Prato ed emersa dall’inchiesta della Dda di Firenze, racconta di un’organizzazione mafiosa cinese che controllava non soltanto la logistica di quello che viene prodotto nelle fabbriche delle varie Chinatown e poi diffuso sui mercati, ma anche bische clandestine a Roma e a Prato, locali notturni, prostituzione, spaccio di droga, estorsione. Trentatré misure di custodia cautelare per cittadini cinesi accusati è far parte di un’organizzazione mafiosa di un gruppo criminale proveniente dal Fujiang, 54 persone indagate. Due anni di indagini per l'operazione chiamata 2China Truck". L’inchiesta parte dal controllo di un'azienda, con sede a Prato che era il cuore dell'attività criminale. Partendo da lì, le indagini si sono ramificate e hanno scoperto una geografia criminale che ha conquistato quasi il monopolio del traffico su strada grazie a un clima di terrore: ricatti, estorsioni, aggressioni all'interno della comunità cinese. Quello che colpisce è l'estensione e di come questa mafia sia cresciuta all'interno dell'Italia e diversi paesi europei inquinando direttamente o indirettamente commerci e imprese. In cima all'organizzazione, secondo le accuse, c’è Zhang Naizhong, 57 anni, residente a Roma e il suo braccio operativo pratese, Lin, ufficialmente residente in Cina nella regione del Fujiang, in realtà il riferimento della mafia per l’area Pratese. Zhang che dai suoi veniva chiamato "l'uomo nero", è stato seguito ieri sera dai poliziotti in borghese della squadra mobile agli ordini di Francesco Nannuncci: era nell’area industriale del Macrolotto di Prato, ha visitato diverse aziende di connazionali e ogni volta che usciva, seguito da uno stuolo di guardie del corpo, cambiava auto. Ha cenato in un ristorante e lì ha ricevuto la visita di altre persone che si inchinavano con deferenza al suo cospetto. Fra le persone arrestate c'è anche una giovane donna, Chen Xiaomian detta Amei, 41 anni, abitante a Prato, segretaria, manager dei capitali leciti e illeciti dell'organizzazione e compagna del boss: nella sua abitazione sono stati sequestrati 30mila euro in contanti. Zhang ha scalato il vertice della mafia cinese in Italia imponendo la 'pace' a Prato dopo una sanguinosa guerra fra bande, costata, come hanno spiegato gli investigatori, numerosi morti in città nel corso degli anni 2000. La sua organizzazione ha potuto così dedicarsi a promuovere infiltrazioni nell'economia legale e a controllare attività criminali compreso usura e raket: "Prima non sapevo come fare gli affari perché sapevo solo fare il mafioso..." dice il boss a uno dei suoi.

Il duplice omicidio del 2010. "L'inchiesta è partita da un duplice omicidio di due giovani cinesi uccisi a Prato nel 2010. Era in corso un guerra fra bande orientali - ha spiegato il paco della mobile di Prato, Francesco Nannucci -, c'erano stati diversi omicidi ogni anno per la conquista dell'economia criminale. Poi questa sequenza di morte si interruppe, per altri anni fino ad ora. Ci fu un ordine a smettere con le violenze. Per noi era impossibile non pensare a un intervento della mafia cinese che impose una sua pace per dedicarsi con tranquillità ai suoi affari senza attirare la nostra attenzione". Il duplice omicidio avvenne in un ristorante e le vittime furono aggredite col machete. Da allora nella città toscana la polizia ha ravvisato una recrudescenza nei rapporti interni alla comunità cinese a Prato in una sparatoria del marzo 2017 in cui non ci furono feriti o vittime, ma danni voluti ad auto: era una spedizione punitiva.

L'inchiesta, coordinata dalla Dda di Firenze, ha previsto misure cautelari scattate oltre che in Italia anche in Francia e Spagna, grazie alla collaborazione delle rispettive polizie. 

 Una lunga indagine, iniziata nel 2011, ha permesso di far luce sulle dinamiche della mafia cinese in Europa e su ruoli e alleanze all'interno dell'organizzazione: la polizia ha evidenziato, in particolare, il quasi monopolio in Francia, Spagna e in altri paesi del traffico su strada di merci di origine cinese, un'egemonia nel campo della logistica, imposta attraverso il metodo mafioso ed alimentata dagli introiti provenienti dalle attività criminali tipiche della mafia cinese.  "Riuscire a individuare una complessa organizzazione mafiosa cinese non è ordinario ma eccezionale - ha detto il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho nel corso della conferenza stampa che si è tenuta in procura a Firenze - . Eccezionale identificare la sua composizione e operatività. Riconoscere i caratteri mafiosi è un fatto quasi incredibile. E' importante tenere alto il livello quando queste associazioni inquinano la nostra economia. Qui si infiltravano nell'economia pulita legale".

Nel blitz che ha portato agli arresti di questa mattina sono stati impegnati gli uomini del Servizio centrale operativo (Sco), delle squadre mobili di Prato, Roma, Firenze, Milano, Padova e Pisa, dei reparti prevenzione crimine oltre a quelli dei reparti volo e cinofili.

L'associazione era composta da soggetti originari di due regioni della Cina, lo Zhejiang e il Fujian, e operava oltre che in Italia anche a Parigi, Neuss, in Germania e a Madrid. I 33 destinatari della misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Firenze Alessandro Moneti hanno l'accusa di 416 bis (associazione mafiosa) e altri reati, 21 sono gli indagati a piede libero, di cui 10 sempre per associazione a delinquere di stampo mafioso e 11 per altri reati. La maggior parte dei provvedimenti sono scattati a Prato: 25 indagati, di cui 16 arrestati e 9 denunciati a piede libero mentre sono otto gli arrestati a Roma (dove sono 10 gli indagati). A Milano e Padova sono state arrestate due persone mentre tra Firenze e Pisa gli indagati a piede libero sono 7. Altre 4 persone si trovavano invece già in carcere per altri motivi e due sono i soggetti di origine cinese arrestati in Francia (dove ci sono anche altri due indagati). Infine, due destinatari del provvedimento si trovano attualmente in Cina.

Nell'ambito dell'indagine è anche stato disposto il sequestro di 8 società, 8 veicoli, due immobili e una sessantina tra conti correnti e deposito titoli per un valore di diversi milioni.

Le reazioni. "Sono grato alle donne e agli uomini della Polizia di Stato che hanno lavorato in stretta sinergia con la Magistratura - ha detto il ministro dell'Interno Marco Minniti - andando a colpire al cuore una pericolosa organizzazione, che aveva imposto una vera e propria egemonia nel controllo del trasporto merci su strada, finanziata con gli introiti delle proprie attività criminali". E il procuratore antimafia Cafiero ha aggiunto: "è un risultato, questa indagine, che dà anche contezza di quanto il nostro territorio sia inquinato dalle mafie, non soltanto dalle mafie autoctone ma anche da quelle straniere. La presenza della mafia cinese a Prato si è sempre sospettata, ma oggi abbiamo conferma".

Come funzionava il clan della mafia cinese sgominato a Prato. Una struttura piramidale, ma a rotazione. Dove tutti potevano guadagnare tanto, a turno. E un capo dei capi che comprava corni di rinoceronte, e pretendeva l'inchino, scrive il 18 gennaio 2018 "L'Agi".

Una piramide con un meccanismo circolare, che consentiva a ogni partecipante, a rotazione, di trovarsi all'apice e quindi beneficiare di una certa somma di denaro, o all'ultimo posto, in veste di finanziatore. Questo quanto scoperto dalle indagini sul racket della mafia cinese con l'operazione della Squadra mobile di Prato che su mandato della Dda di Firenze ha arrestato 33 persone per associazione a delinquere di stampo mafioso. Altre 54 sono indagate (La Repubblica).

Il meccanismo piramidale, a rotazione. Il meccanismo 'rotatorio' funzionava in questo modo: a turno si metteva a disposizione dei componenti la gang una somma di circa centomila euro, "da destinare al primo affiliato della lista". Soldi che a utilizzava "per i propri affari". Subito dopo, però "il beneficiario scorreva in fondo alla lista, e il mese successivo concorreva alla dazione" per quello che diventava "il primo". Questo meccanismo interno al clan cinese permetteva, secondo il gip che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare in carcere, di raggiungere "diversi scopi". "Si ricicla denaro all'interno di una cerchia ristretta di persone, si garantisce anonimato esterno, non si ricorre a interessi di banche (o di usurai), si può impiegare il denaro (frutto di attività illecite o, quanto meno di evasione fiscale) in maniera del tutto svincolata da ogni contabilità e, quindi, anche per portare avanti altre attività illecite", sottolinea il giudice.

E poi un capo. Il capo dei capi, a Roma. Negozi in centri commerciali italiani, ma anche costosi status symbol particolarmente richiesti in Cina come i corni di rinoceronte e addirittura la prospettiva di una quota in una miniera di carbone in Cina. Erano questi gli investimenti del boss Zhang Naizhong, arrestato oggi nel blitz della polizia contro la mafia cinese. In qualità di capo dell'organizzazione criminale, scrive il giudice nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, il 57enne dispone di "ingenti quantità di denaro che rappresentano i proventi delle attività illecite poste in essere dal gruppo criminale in argomento, quali ad esempio la contraffazione, il gioco d'azzardo, l'usura, le estorsioni, lo spaccio di sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione" (Corriere della Sera).

Il gip lo ha definito il capo dei capi; lui stesso nelle intercettazioni ambientali si definisce il 'boss' e per lui, residente a Roma ma con numerosi interessi a Prato, gli 'affiliati' lo riverivano con inchini al suo arrivo. Zhang Nai Zhong è ritenuto l'elemento a capo dell'organizzazione. Alla scena degli inchini hanno assistito gli investigatori della squadra mobile di Prato: Zhang era appena arrivato in Toscana, stava pranzando in un ristorante quando gli investigatori hanno assistito a una vera e propria processione di cinesi, arrivati apposta nel locale per salutarlo con un inchino (Il Messaggero). 

Mafia cinese, matrimonio all'Hilton di Roma in stile Casamonica, scrive Giovedì 18 Gennaio 2018 “Il Messaggero". Un matrimonio da favola all'hotel Hilton di Roma con vista sull'intera città, gli invitati fatti arrivare a bordo di Ferrari e Lamborghini, un conto da 80mila euro saldato in contanti. A certificare il ruolo e il carisma di Naizhong Zhang, quello che per gli investigatori è il 'capo dei capì della mafia cinese in Italia e anche in Europa, è la cerimonia di nozze del figlio, Di Zhang, celebrata a Roma il 6 febbraio del 2013. Al matrimonio partecipano circa 500 invitati provenienti da varie parti d'Italia ma anche dalla Francia e dalla Cina. Il boss si è personalmente occupato di non far mancare nulla ai suoi ospiti: alloggio a sue spese, il noleggio di Ferrari e Lamborghini con autista per portare gli invitati all'hotel, il noleggio di due pullman per far arrivare i quasi novanta invitati provenienti da Prato, tra i quali ovviamente i personaggi più influenti della comunità di origine fujianese con la quale, prima dell'accordo che ha siglato la pace, era in contrapposizione. E proprio intercettando le telefonate in cui gli indagati parlavano dell'organizzazione del matrimonio, gli investigatori hanno avuto l'ulteriore conferma che Naizhong fosse da tutti riconosciuto come il capo dell'organizzazione. In una di queste, a gennaio 2013 e dunque un mese prima del matrimonio, il boss parla al telefono con il fratello che si trovava in Francia. Quest'ultimo teme che, poiché i suoi amici «sono mafiosi», che possa scatenarsi una rissa tra loro, magari dopo aver bevuto. Ma Naizhong esclude categoricamente questa possibilità in quanto è sicuro che nessuno gli mancherà di rispetto: «Se vengono qui da me sanno come comportarsi - dice - ...noi non dobbiamo pensare troppo, sono cose che non ci riguardano...Normalmente non può succedere una cosa del genere, anzi non esiste proprio. Chi è che ha il coraggio di litigare a tavola al matrimonio di mio figlio solo perché è ubriaco? Non esiste. Se qualcuno lo farà è evidente che ce l'ha con me! A me non importa se mi dirà che ce l'ha con qualcun altro, per me ce l'ha con me, perché io sto facendo la festa. Quindi non può accadere una cosa di questo genere».

Inchini e riverenze, il matrimonio di lusso in Ferrari e Lamborghini; in manette il capo dei capi della mafia cinese. Arrestato dalla Polizia, nel corso di un’indagine condotta in tutta Europa, Zhang Nai Zhong, il padrino della mafia cinese in Italia. Fermate altre 32 persone, anche in Francia e Spagna, scrive il 18 gennaio 2018 Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera".

Riverito con l’inchino. Riverito non con il baciamano. Ma con gli inchini. Sembrano scene e intercettazioni riguardanti la mafia siciliana: sfarzo, lusso, violenza, tanti soldi riciclati in attività lecite e illecite. Però in manette è finito il «capo dei capi» della mafia cinese in Italia. Ovvero Zhang Nai Zhong, 48 anni, ammanettato ieri assieme ad altre 32 persone nel corso di un’inchiesta condotta in tutta Europa ma partita da Prato, dove il «mammasantissima» aveva la sua base operativa anche se viveva a Roma, in un appartamento a viale Marconi. «D’altro canto chi comanda la mafia cinese nella cittadina toscana comanda le organizzazioni criminali cinesi in tutta Europa». Lo hanno sottolineato gli inquirenti della Dda di Firenze che hanno coordinato l’operazione China Truck partita dalle indagini sulle guerre fra bande in Toscana. Al proposito, come esempio, il capo della squadra mobile di Prato Francesco Nannucci ha ricordato un episodio significativo emerso dalle indagini: «Zhang Naizhong, che si faceva chiamare il “capo dei capi” e come tale è riconosciuto dai suoi connazionali, andò a Parigi per risolvere controversie fra gang cinesi. A chi lo accompagnava disse di chiamarlo “capo” davanti a tutti i capi cinesi in Francia. Così fu e nella sua opera di mediazione criminale Oltralpe ebbe successo acquisendo ulteriore potere e prestigio in Europa». Il business dell’organizzazione mafiosa? Attraverso intimidazioni e vere e proprie violenze il gruppo criminale si è impossessato, passo dopo passo, di tutto il sistema di trasporti delle merci prodotte in Cina, infiltrandosi, più con le cattive che con le buone, in attività apparentemente regolari in Italia e in Europa. Ma con i capitali illeciti derivati da contraffazione, gioco d’azzardo, droga, usura, estorsioni, prostituzione Zhang Naizhong, dava ordini da Prato per fare investimenti in attività redditizie: in Cina puntava a miniere di carbone e a oggetti particolarmente costosi, addirittura corna di rinoceronte; in Italia mirava a rilevare attività redditizie legali come un centro commerciale a Firenze, o illegali, come bische per il gioco d’azzardo.

Un matrimonio da favola. Un matrimonio da favola all’hotel Hilton di Roma con vista sull’intera città, gli invitati fatti arrivare a bordo di Ferrari e Lamborghini, un conto da 80mila euro saldato in contanti. A certificare il ruolo e il carisma di Naizhong Zhang, è la cerimonia di nozze del figlio, Di Zhang, celebrata a Roma il 6 febbraio del 2013. Al matrimonio partecipano circa 500 invitati provenienti da varie parti d’Italia ma anche dalla Francia e dalla Cina. Il boss si è personalmente occupato di non far mancare nulla ai suoi ospiti: alloggio a sue spese, il noleggio di Ferrari e Lamborghini con autista per portare gli invitati all’hotel, il noleggio di due pullman per far arrivare i quasi novanta invitati provenienti da Prato, tra i quali ovviamente i personaggi più influenti della comunità di origine fujianese con la quale, prima dell’accordo che ha siglato la «pace», era in contrapposizione. E proprio intercettando...... le telefonate in cui gli indagati parlavano dell’organizzazione del matrimonio, gli investigatori hanno avuto l’ulteriore conferma che Naizhong fosse da tutti riconosciuto come il capo dell’organizzazione. In una di queste, a gennaio 2013 e dunque un mese prima del matrimonio, il boss parla al telefono con il fratello che si trovava in Francia. Quest’ultimo teme che, poiché i suoi amici «sono mafiosi», che possa scatenarsi una rissa tra loro, magari dopo aver bevuto. Ma Naizhong esclude categoricamente questa possibilità in quanto è sicuro che nessuno gli mancherà di rispetto: «Se vengono qui da me sanno come comportarsi - dice - ...noi non dobbiamo pensare troppo, sono cose che non ci riguardano...Normalmente non può succedere una cosa del genere, anzi non esiste proprio. Chi è che ha il coraggio di litigare a tavola al matrimonio di mio figlio solo perché è ubriaco? Non esiste. Se qualcuno lo farà è evidente che ce l’ha con me! A me non importa se mi dirà che ce l’ha con qualcun altro, per me ce l’ha con me, perché io sto facendo la festa. Quindi non può accadere una cosa di questo genere».

Le attività fuorilegge. Le attività di per sé lecite (trasporto di merci, gestione di locali notturni) sono «svolte con modalità tali — scrive il gip Moneti nell’ordinanza — da schiacciare la concorrenza, altre del tutto illecite, quali l’estorsione, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il gioco d’azzardo, la contraffazione di marchi, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». «Non è casuale che le indagini abbiano rivelato un passato criminale realizzato in Cina per alcuni degli indagati: Wu Guojun», uno dei 54 indagati, «risulta ricercato per omicidio, reato per il quale stava operando in modo che, attraverso propri parenti, potesse corrompere funzionari di polizia cinese e farsi togliere la foto dai terminali e sostituirla con altra».

Firenze, arrestato boss mafia cinese. Zhang: "Sono il più potente in Europa". Sono state arrestate 33 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso, scrive Giovedì 18 Gennaio 2018 Francesco Bongiovanni su "La Presse". "Io sono il più potente in Europa, non mi sto vantando di me stesso, puoi chiederlo a chiunque". Così Zhang Naizhong, 58 anni, considerato il 'capo dei capi' della mafia cinese in Italia, arrestato oggi a casa sua a Roma nell'ambito dell'inchiesta China Truck, intercettato al telefono, parlava di sé con un connazionale.

Il blitz, scattato all'alba, condotto dalla polizia e coordinato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze, ha portato all'arresto di 33 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso. Altre 21 persone sono indagate a piede libero, di cui 10 sempre per associazione a delinquere di stampo mafioso. Cuore dell'attività criminale sarebbe un'azienda di autotrasporti di Prato. Partendo da lì nel 2011, le indagini si sono ramificate e hanno alzato il velo su un'organizzazione che gestiva bische clandestine, prostituzione, droga, locali notturni e, infine, il monopolio del commercio e del trasporto delle merci contraffatte. Secondo gli investigatori, la mafia cinese di Prato, dove Zhang detta legge e ha i suoi principali interessi economici, comanda in Europa. La sua fama, nell'ambito delle organizzazioni criminali cinesi, è elevata anche perché, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, Zhang si è affermato riportando la pace tra le due bande che si contendevano gli affari illeciti a Prato, con una scia di omicidi. Un'operazione analoga l'avrebbe portata a termine anche in Francia. E il boss dispensava lezioni di 'mafiosità' agli accoliti. "Nella mafia ci sono le regole della mafia, se una persona non rispetta le regole come fa a continuare a camminare nella strada della mafia?", diceva Zhang Naizhong in un'altra telefonata intercettata, esaltando anche la propria carriera di imprenditore dei trasporti e la sua gestione dei rapporti con i connazionali. "Prima - spiegava al telefono - non sapevo come fare gli affari perché sapevo fare solo il mafioso, ora invece non faccio più il mafioso. Non solo capo mafia. Sono cambiato, ci saranno sei mesi di perdita, ho già previsto anche quanto andrà a perdere e ho previsto anche quando migliorerà l'attività". Zhang Naizhong distingueva, in ordine di importanza, le persone fidate in 'fratelli' e 'amici'. Le persone fidate sono quelle più strettamente legate a lui. I fratelli sono gli associati. Gli amici sono quelli legati, ma non affiliati al gruppo. In altre intercettazioni spiegava a un altro interlocutore, parlando di un affiliato al clan: "Ora piano piano sta accettando questa realtà di stare con noi perché nella mafia ci vuole la strategia per andare avanti, hai capito? Alla mafia di oggi non serve più l'arroganza e la violenza, ci vuole la strategia. La persona che ha la strategia migliore vince, le persone che hanno la strategia peggiore perdono". In un'altra lezione telefonica Zhang diceva: "Specialmente un uomo deve avere un carattere forte. Solo così le persone ti rispettano e ti ammirano. A questo punto i fratelli mi rispettano perché sono il capo e quindi il capo può decidere qualsiasi cosa". Strategia per stabilire alleanze e condurre gli affari, ma anche violenza e terrore. E in una telefonata, infine, il boss riassume la sua filosofia mafiosa: "Io non parlo tanto con le persone, io dico solo due frasi alle persone: se lui è mio fratello oppure mio amico, e basta. E se non è amico è un nemico, se sei un nemico allora sei finito".

"Così la mafia cinese di Prato inquinava l’economia legale". Parla il procuratore antimafia Cafiero De Raho, scrive Andrea Sparaciari il 18 gennaio 2017 su "it.businessinsider.com". «Riuscire a individuare una complessa organizzazione mafiosa cinese non è ordinario, ma eccezionale. Eccezionale identificare la sua composizione e operatività. Riconoscere i caratteri mafiosi è un fatto quasi incredibile». Così il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, ha commentato l’operazione che giovedì 18 gennaio a Prato ha sgominato la più importante associazione a delinquere di stampo mafioso “made in Cina” mai scoperta in Italia. Una piovra, nata nelle lontane regioni cinesi dello Zhejiang e del Fujian, che dalla città toscana allungava i suoi tentacoli sull’Italia (Roma, Milano, Padova) e sull’Europa (Francia, Germania e Spagna). Complessivamente sono 54 gli indagati: 33 gli arrestati con l’accusa di 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) e altri reati, 21 gli indagati a piede libero. Sequestrate anche otto aziende a Prato, Roma, Milano, Parigi e in Germania, oltre a immobili, veicoli e 61 tra conti correnti e deposito titoli per un valore di diversi milioni. Il business principale del clan era nei trasporti, ma l’organizzazione gestiva anche bische, ristoranti, locali notturni e money transfer. È la seconda volta che nella storia giudiziaria italiana viene contestata l’associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di organizzazioni cinesi. Per il gip, Alessandro Moneti, la banda aveva in sé tutti gli elementi tipici della mafia: assoggettamento, omertà, intimidazione e accaparramento di attività anche lecite. Il fulcro era l’azienda “Anda”, specializzata nel settore della logistica e dei trasporti e che di fatto controllava tutto il settore dell’autotrasporto cinese, un giro d’affari stimato in diverse centinaia di milioni l’anno. Ma era solo una parte delle attività illecite. «L’operatività di questa organizzazione mafiosa sconvolge, da un lato controlla locali notturni, prostituzione, spaccio, usura ed estorsioni, dall’altro con i metodi della violenza, si accaparra aziende nei trasporti infiltrando l’economia pulita legale», ha spiegato Cafiero De Raho, «conseguendo un regime di monopolio in un segmento dell’economia», come quello della logistica, grazie ai «metodi dell’intimidazione e della violenza tipici delle mafie tradizionali italiane». A tirare le fila dell’organizzazione, il 58enne Zhang Naizhong, il Capo dei Capi per gli investigatori, quello che ripeteva ossessivamente: «Il capo sono io. Prima sapevo fare solo il mafioso, ora faccio anche e soprattutto gli affari». E li faceva bene. Per capire quanto fosse potente, era riuscito a imporre la fine della guerra tra bande rivali – sempre cinesi – che tra il 2000 e il 2010 aveva lasciato a Prato oltre sessanta morti, e quella molto simile che aveva insanguinato Parigi. Perché, come la ‘Ndrangheta insegna, gli affari prosperano nel silenzio. Zhang, come i boss di Cosa Nostra, amministrava la “giustizia” mediando tra imprenditori in lite o dirimendo questioni inerenti agli affitti dei capannoni. Il giorno prima di essere arrestato, si era recato in un ristorante dove gli imprenditori locali gli avevano reso omaggio, mettendosi in fila e inchinandosi uno dopo l’altro davanti a lui in segno di sottomissione. Un’azione che per il capo della Mobile di Prato, Francesco Nannucci, «ci racconta l’importanza di questa persona e il peso di questa organizzazione in città. Essere forti a Prato significa essere forti in tutta Europa».

L’operazione di Prato conferma – e per certi versi supera – quanto riportato dalla Direzione Investigativa Antimafia circa la mafia cinese nella sua Relazione semestrale del 2016. Per la Dia, «I network criminali cinesi avrebbero nel tempo raggiunto livelli di assoluto rilievo, risultando in grado di gestire, in autonomia, traffici illeciti di portata transnazionale. Tra questi, si segnalano la tratta degli esseri umani, lo sfruttamento della manodopera clandestina e della prostituzione, il traffico di sostanze stupefacenti, la contraffazione e il contrabbando, cui si affiancano l’usura e la gestione di bische clandestine». A tutto ciò, si deve poi aggiungere la pesante evasione fiscale «realizzata con l’utilizzo di partite iva intestate a prestanome irreperibili», come ha dimostrato l’operazione “Colletti Bianchi” del 16 novembre 2016, che sempre a Prato ha portato a 15 arresti e a 83 indagati, tutti sospettato di appartenere a “un sistema finalizzato alla completa elusione della normativa fiscale, contributiva e alle disposizioni disciplinanti l’immigrazione”.

Per gli investigatori, i proventi, soprattutto quelli derivanti da droga e prostituzione, vengono reimpiegati nell’acquisto di attività commerciali lecite e di immobili. Naturalmente, si deve poi ricordare la ricca attività di produzione di capi di abbigliamento contraffatti: «Contraffazione e riciclaggio rappresentano un ulteriore terreno d’incontro tra le organizzazioni cinesi e le mafie italiane, in primis la Camorra» sostiene la Dia. Le strutture create dalle organizzazioni cinesi per la produzione di massa di beni alterati col tempo avrebbero assunto le stesse caratteristiche delle catene di produzione delle imprese legali, adottando anche sofisticate tecnologie per la precisa riproduzione dei beni. «I profitti così generati verrebbero poi dirottati su canali alternativi al sistema bancario ufficiale, per essere riciclati o per finanziare concittadini», scrivono gli investigatori, «in proposito, sono stati rilevati casi in cui il denaro contante prodotto in nero veniva inviato dall’area fiorentino-pratese verso la Cina, mediante agenzie di money transfer o, da Milano, fatto triangolare su istituti di credito britannici» e da quei conti esteri poi i soldi venivano trasferiti in Cina. Alla luce di tutto ciò, ha perfettamente ragione il dottor Cafiero De Raho quando sostiene preoccupato che: «è importante tenere alto il livello perché queste associazioni inquinano la nostra economia».

LA MAFIA DELLE ASTE GIUDIZIARIE.

Come si truccano le aste giudiziarie, o i procedimenti dei sequestri/confische antimafia o i procedimenti concorsuali o esecutivi.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv o con i suoi canali youtube?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che i procedimenti giudiziari esecutivi sono truccati o truccabili, siano esse aste giudiziarie, o procedimenti di sequestro o confisca di beni presunti mafiosi, ovvero procedimenti concorsuali o esecutivi.

«Oltre ad essere scrittore, sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale antiracket ed antiusura (al pari di Libera). Associazione già iscritta all’apposito elenco prefettizio di Taranto, ma cancellata il 6 settembre 2017 per mia volontà, non volendo sottostare alle condizioni imposte dalla normativa nazionale: obbligo delle denunce (incentivo alla calunnia ed alla delazione) e obbligo alla costituzione di parte civile (speculazione sui procedimenti attivati su denunce pretestuose). Come presidente di questa associazione antimafia sono destinatario di centinaia di segnalazioni da tutta Italia. Segnalazioni ricevute in virtù della previsione statutaria associativa. Solo alcune di queste segnalazioni sono state prese in considerazione e citate nei miei saggi: solo quelle di cui si sono interessati organi istituzionali o di stampa. Articoli giornalistici od interrogazioni parlamentari inseriti nel mio saggio d’inchiesta: “Usuropoli. Usura e Fallimenti truccati”. 

Perché le segnalazioni sono state rivolte a lei e non agli organi giudiziari?

«Per sfiducia nella giustizia. La cronaca lo conferma. Chiara Schettini tenta di scrollarsi di dosso le accuse pesantissime che l'hanno portata in carcere, aggravate da intercettazioni che la inchiodano a minacce, a frasi sorprendenti come: "Io se voglio sono più mafiosa dei mafiosi". Il Fatto contro i giudici fallimentari: "Sono corrotti". Il quotidiano di Travaglio alza il velo sui giudici fallimentari. A parlare è una di loro: "Ci davano 150 mila euro e viaggi pagati per pilotare le cause...", scrive “Libero Quotidiano”. Il Fatto contro le toghe. No, non è un ossimoro, ma l'approfondimento del quotidiano di Travaglio e Padellaro sui tribunali fallimentari. Raramente capita di leggere sul Fatto qualche articolo contro le toghe e la magistratura. Per l'ultimo dell'anno in casa travaglina si fa un'eccezione. Così il Fatto alza il velo sullo scandalo dei magistrati corrotti dei tribunali fallimentari. A parlare è l'ex giudice Chiara Schettini, arrestata a giugno che al Fatto racconta: "A Roma era una prassi. Viaggi e soldi in contanti erano la norma per comprare le sentenze. Si divideva il compenso con il magistrato, tre su quattro sono corrotti". La Schettini è un fiume in piena e accusa i colleghi: "L'ambiente della fallimentare è ostile, durissimo, atavico, non ci sono solo spartizioni di denaro ma viaggi, regali, di tutto di più, una nomina a commissario giudiziale costa 150 mila euro, tutti sanno tutto e nessuno fa niente". Infine punta il dito anche contro i "pezzi grossi" della magistratura fallimentare: "Si sapeva tranquillamente che lì c'era chi per una nomina a commissario giudiziale andava via in Ferrari con la valigetta e prendeva 150 mila euro da un famoso studio, tutti sanno ma nessuno fa niente...". Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon su “Vicenza Piu”. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. Minerva e il prezzo della verità. Fallimenti, magistrati e giornalisti, scrive Francesco Monteleone su “Affari Italiani”. Giornalisti contro magistrati. Quanto costa essere veritieri? E' la domanda posta dai giornalisti riuniti, all'ombra della statua di Minerva, sulle scale del Palazzo di Giustizia di Bari. “Aste e fallimenti truccati…” Di fronte all’ingresso dello stesso palazzo, una scritta sul muro sintetizza impietosamente il comportamento vergognoso di alcuni magistrati responsabili della Sezione Fallimentare, che hanno subìto provvedimenti duri da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. E la verità bisogna raccontarla...tutta! Una scatola di pasta piena di soldi consegnata in un parcheggio di Trezzano. Altre due buste di denaro, una passata di mano in un ristorante di Pogliano Milanese e una in un pub in zona San Siro. Infine, una borsa di Versace, regalata in un negozio del centro di Milano, scrive Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Ruota per ora intorno a questi quattro episodi l'inchiesta della Procura su un sistema di corruzione nelle aste giudiziarie del Tribunale di Milano. Ville in Sardegna all’asta assegnate dai magistrati ai loro colleghi. Sospeso il giudice Alessandro Di Giacomo e un perito. Otto indagati in tutto. Il sospetto di altri affari pilotati, scrive Ilaria Sacchettoni il 15 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati che premiano altri magistrati nell’aggiudicazione di ville superlative. Avvocati che, in virtù dell’amicizia con presidenti del Tribunale locale, si prestano a dissuadere altri avvocati dall’eccepire. Colleghi degli uni e degli altri che, interpellati dagli ispettori del ministero della Giustizia, su possibili turbative d’asta oppongono un incrollabile mutismo. Massa e Pisa, aste truccate: “Dobbiamo rubare il più possibile”. Chiesta la sospensione del giudice Bufo. L'accusa è di aver sottratto soldi all'erario e aver dato gli incarichi alla figlia dell'amico. Sette provvedimenti. Ai domiciliari anche l’ex consigliere regionale Luvisotti (An), scrivono Laura Montanari e Massimo Mugnaini il 10 gennaio 2018 su "La Repubblica". «Qui bisogna cercare di rubare il più possibile» dice uno. E l’altro che è un giudice, Roberto Bufo, 56 anni, di Carrara ma in servizio al tribunale di Pisa, risponde: «Esatto». E il primo: «Il concetto di fondo è uno solo... anche perché tanto a essere onesti non succede niente». La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se a dirlo è Peter Gomez, il direttore de “Il Fatto Quotidiano”, giornale notoriamente giustizialista e genuflesso all’autorità dei magistrati, è tutto dire. Ed ancora. RACKET DI FALLIMENTI E ASTE. LE CONNIVENZE DELLA PROCURA FANTASMA TRIESTINA, scrive Pietro Palau Giovannetti (Presidente di Avvocati senza Frontiere). Non solo a Trieste. E adesso l'inchiesta sulle aste pilotate a palazzo di giustizia potrebbe salire decisamente di tono: alla Procura di Brescia, competente a indagare sui magistrati del distretto di Milano (dunque anche quelli lecchesi), sarebbero stati inviati mesi fa una serie di documenti di indagine, scrive Claudio Del Frate con Paolo Marelli su “Il Corriere della Sera”. Ed ancora. Tangentopoli scuote ancora Pavia, scrive Sandro Repossi su “Il Corriere della Sera”. Mentre il sostituto procuratore Vincenzo Calia invia due avvisi di garanzia a personaggi "eccellenti" del Policlinico San Matteo come Giorgio Domenella, primario di traumatologia, e Giovanni Azzaretti, direttore sanitario, spunta un'altra ipotesi: un magistrato sarebbe coinvolto nell'inchiesta sulle aste giudiziarie. Caso San Matteo. Ed ancora. Il pm Paolo Toso ha presentato oggi le richieste di pena per i 15 imputati del processo sulle aste giudiziarie immobiliari di Torino e provincia: in totale 62 anni di condanna. Aste immobiliari, il business dal lato oscuro. L'incanto di case e immobili, in arrivo da fallimenti di privati e imprese è, complice la crisi, un settore in crescita esponenziale. Ma anche uno dei più grandi coni d'ombra del sistema giudiziario, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”. Se avete qualche soldo da riciclare, le aste immobiliari sembrano essere fatte apposta. E sono tante: circa 50mila all'anno, per un valore complessivo incalcolabile e, soprattutto, incalcolato. Corruzione e falso, arrestati giudice e cancelliere a Latina, scrive “la Repubblica”. Corruzione in atti giudiziari, concussione, turbativa d'asta, falso. Sono alcune delle accuse contestate a otto persone ai quali la squadra mobile di Latina ha notificato ordinanze di custodia cautelare emesse dai giudici di Perugia e di Latina. Tra gli arrestati, quattro in regime di detenzione in carcere e altrettanti ai domiciliari, anche un magistrato e un cancelliere in servizio presso il tribunale del capoluogo, alcuni professionisti e un sottufficiale della Guardia di Finanza. Al giudice andava una percentuale dei compensi che, in sede di giudizio, lo stesso giudice riconosceva ai consulenti. Le indagini avrebbero accertato come i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest'ultimo una percentuale dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso. Il filone di indagine ha permesso anche di svelare altri illeciti sullo svolgimento delle aste disposte dal Tribunale di Latina per la vendita di beni oggetto di liquidazione. Tutto questo non basta ad avere sfiducia nella Magistratura? Ogni segnalazione conteneva una denuncia presentata, che si è conclusa con esito negativo. Sono stato sentito dagli organi inquirenti, territorialmente toccati dagli scandali, per rendere conto del mio dossier. Gli ho spiegato che sono uno scrittore e non un Pubblico Ministero con potere d’indagine, con l’inchiesta giudiziaria bell’e fatta, né sono una parte con le prove specifiche allegate alla singola denuncia rimasta lettera morta. Val bene che una denuncia può non essere sostenuta da prove, o che al massino vale un indizio. Ma decine di casi a supporto di un’accusa, valgono decine di indizi che formano una prova. Se si ha fede si crede a ciò che non si vede; se non si ha fede (voglia di procedere da parte di PM o suoi delegati), una montagna di prove non basta! Anche il giornalista di Telejato, Pino Maniaci, a Palermo non veniva creduto quando parlava di strane amministrazioni giudiziarie sui beni sequestrati e confiscati a presunti mafiosi, che poi le sentenze non li ritenevano mafiosi. Però, successivamente, l’insistenza e lo scandalo ha costretto gli inquirenti a procedere contro i loro colleghi magistrati, che poi sono i dominus dei procedimenti giudiziari, anche tramite i collaboratori che loro nominano. Comunque di scandali se ne parla e se ne è parlato. Quasi tutti i Tribunali sono stati toccati da scandali od inchieste giudiziarie. Quei pochi luoghi rimasti immuni sono forse Fori unti dal Signore...».

Spieghi, lei, allora, come si truccato le aste giudiziarie e i procedimenti connessi…

«LA NOMINA DEI COLLABORATORI DA PARTE DEL GIUDICE TITOLARE. I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti. Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. La nomina del curatore esecutivo o del commissario concorsuale o amministratore dei beni mafiosi sequestrati o confiscati si dice che avviene per rotazione. Vero! Bisogna però verificare la quantità degli incarichi e, ancor di più, la qualità. Un incarico del valore di 10 mila euro è diverso da quello di 10 milioni di euro. All’amico si affida l’incarico di valore maggiore con liquidazione consistente del compenso! Di quest’aspetto ne parla la “Stampa”. Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Secondo quanto scrivono Il Messaggero e Il Fatto Quotidiano la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo.

L’AFFIDAMENTO E LA GESTIONE DEI BENI CONFISCATI/SEQUESTRATI AI PRESUNTI MAFIOSI. I beni dei presunti mafiosi confiscato o sequestrati preventivamente sono affidati e gestiti da associazione di regime (di sinistra) che spesso illegittimamente sono punto di riferimento delle prefetture, pur non essendo iscritte nell’apposito registro provinciale, e comunque sempre destinatari di fondi pubblici per la loro gestione, perchè vincitori di programmi o progetti allestiti dalla loro parte politica.

LA DURATA DEL MANDATO. Un mandato collusivo e senza controllo porta ad essere duraturo e senza soluzione di continuità. Quel mandato diventa oneroso per i beni e ne costituiscono la loro naturale svalutazione. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Anche “Il Giornale” ha trattato la questione. Parcelle gonfiate, indagato consulente del Pm. Avrebbe ritoccato note spese liquidate dalla Procura: è stato nominato in 144 procedimenti. Con le accuse di truffa ai danni dello Stato e frode fiscale, il pm Luigi Orsi ha messo sotto inchiesta il commercialista M.G., più volte nominato consulente tecnico del pubblico ministero e dell'ufficio del giudice civile e anche amministratore giudiziario di beni sequestrati. E poi c’è l’inchiesta de “Il Messaggero”. Tribunale fallimentare, incarichi d'oro. Inchiesta sui compensi da capogiro. In tribunale, avvocati e cancellieri ne parlano con circospezione. E lo raccontano come se fosse un bubbone che prima o poi doveva scoppiare, perché gli interessi economici in ballo sono davvero altissimi e gli esclusi dalla grande torta cominciavano a dare segni di insofferenza da tempo.

LA VALUTAZIONE DEI BENI. La valutazione dei beni da vendere all’asta pubblica è fatta in ribasso, anche in forza di attestazioni false dello stato dei luoghi. Per esempio: si prende una visura catastale in cui il terreno risulta incolto/pascolo, ma in effetti è coltivato ad uliveto o vigneto. Oppure si valuta come catapecchia una casa ben manutenuta e rinnovata. Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

LE FUGHE DI NOTIZIE. Le fughe di notizie sulla situazione dei beni, le notizie sulla pericolosità o meno dei loro proprietari, o gli avvisi sulle offerte sono cose risapute.

LA MANCATA VENDITA. Spesso ci sono dei personaggi, con i fascicoli dei procedimenti in mano, che in cambio di tangenti promettono la sospensione della vendita. Altre volte i proprietari mettono in essere comportamenti intimidatori nei confronti dei possibili acquirenti, tanto da inibirne l’acquisto.

LA VENDITA VIZIATA. La vendita del bene all’asta può essere viziata, impedendo ai possibili acquirenti di parteciparvi. Per esempio si indica una data di vendita sbagliata (anche da parte degli avvocati nei confronti dei propri clienti esecutati), o il luogo di vendita sbagliato (un paese per un altro).

L’AQUISTO DI FAVORE. L’acquisto dei beni è spesso effettuato tramite prestanomi al posto di chi non è legittimato all’acquisto (come per esempio il proprietario esecutato), e spesso effettuato per riciclaggio o auto riciclaggio.

 IL PREZZO VILE (VALORE TROPPO BASSO RISPETTO AL MERCATO). Il filo conduttore che lega tutte le aste truccate è la riconducibilità al prezzo vile: ossia il quasi regalare il bene da vendere all’asta, frutto di sacrifici da parte degli esecutati, rispetto al valore di mercato, affinchè si liquidi il compenso dei collaboratori del giudice, e, se ne rimane, il resto al creditore».

Cosa si può fare contro il prezzo vile?

«Contro il prezzo vile, se si vuole si può intervenire.  Casa all'asta: addio aggiudicazione se il prezzo è troppo basso. Importante ordinanza del Tribunale di Tempio sulla revoca dell'aggiudicazione di un immobile all'asta, scrive la dott.ssa Floriana Baldino il 10 febbraio 2018 su “Studio Castaldi” - Dal tribunale di Tempio, con la firma del giudice Alessandro Di Giacomo, arriva un'importante decisione. Il giudice, a seguito del deposito di un ricorso urgente, ha revocato l'aggiudicazione dell'immobile all'asta, considerando la circostanza che l'immobile era stato venduto ad un prezzo troppo basso rispetto al valore che lo stesso aveva sul mercato. Il giudice, infatti, deve sempre valutare l'adeguatezza del prezzo di vendita rispetto a quello di mercato onde evitare "l'eccesso di ribasso", che sicuramente non va a vantaggio né del creditore né del debitore. L'unico a trarne vantaggio sarebbe soltanto colui che all'asta acquista l'immobile ad un prezzo irrisorio. Il giudice Di Giacomo, accogliendo dunque la tesi dell'avvocato difensore, ha revocato l'aggiudicazione dell'asta in base ai principi stabiliti dalla legge n. 203 del 1991. Tale legge parla impropriamente di "sospensione" ma, in verità, attribuisce al G.E. – fino all'emissione del decreto di trasferimento – un vero e proprio potere di revocare l'aggiudicazione dell'immobile a prezzo iniquo. Il potere di revocare l'aggiudicazione, prima spettava solo al giudice delegato ex art. 108 della legge fallimentare, ma la riforma ha attribuito questo potere al giudice dell'esecuzione, allo scopo di "restituire il processo esecutivo alla fase dell'incanto che andrà rifissato con diverse modalità, affinchè la gara tra gli offerenti si svolga per l'aggiudicazione del bene al prezzo giusto".

La sospensione della vendita. Già prima dell'approvazione del decreto del 2016, molti giudici, di diversi tribunali, avvalendosi della possibilità riconosciuta loro ex art. 586 c.p.c., in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 203/91 di conversione del D.lg. n. 152/91, sospendevano la vendita quando il prezzo era notevolmente inferiore a quello "giusto". Quel decreto, urgente, era stato pensato per la lotta alla criminalità organizzata delle vendite pilotate, ovvero negli anni in cui si assisteva ad una serie di incanti deserti al fine di conseguire, attraverso successivi ribassi, un prezzo di aggiudicazione irrisorio. Questa legge, pensata e studiata per la lotta alla criminalità organizzata, è stata poi applicata in diversi tribunali e per tutte le procedure che non avevano più alcuna utilità. Ogniqualvolta i giudici ritenevano che gli interessi economici del debitore e del creditore venissero frustrati dal prezzo troppo basso di aggiudicazione dell'immobile, potevano, a discrezione, "sospendere la vendita". Così, ad es., il tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, con ordinanza del 9 Maggio 2013 che ha sospeso per un anno l'esecuzione immobiliare dopo cinque tentativi di asta. Nella fattispecie, il prezzo del bene si era talmente ridotto rispetto alla stima del perito che il giudice ha ritenuto che la sospensione di un anno della procedura, potesse essere un congruo termine per tentare la vendita dell'immobile ad un prezzo diverso, e magari più adeguato. Al Tribunale di Napoli invece un giudice è andato oltre restituendo il bene al debitore (ord. del 23.01.2014.), facendo riferimento a due principi importanti. Il primo, della ragionevole durata del processo, ed il secondo, principio cardine a cui il giudice napoletano ha fatto riferimento, quello secondo cui, procedere con l'esecuzione, non era più fruttuoso né per il debitore né per il creditore, sempre per il c.d. "giusto prezzo". Successivamente anche il Tribunale di Belluno si è espresso in tal senso con ordinanza del 3.06.2013.

La necessaria utilità del processo esecutivo. Il processo esecutivo deve avere una sua utilità. Soddisfare il creditore e liberare il debitore dai suoi debiti. Il periodo storico in cui ci troviamo non è sicuramente dei migliori ed il mercato immobiliare è sicuramente molto penalizzato. Si assiste sempre a situazioni in cui alle aste non vi è alcuna proposta di acquisto, almeno fino a quando il prezzo dell'immobile rimane alto. Poi il bene viene venduto ad un prezzo veramente irrisorio ed il creditore non viene soddisfatto dal prezzo ricavato dalla vendita, mentre il debitore si ritrova senza immobile (in molti casi proprio la prima abitazione) e con ancora i debiti da saldare. Molte norme sono intervenute in aiuto degli imprenditori in crisi ed ora tutto sta nelle mani dei giudici dei tribunali, che possono applicare le norme in una maniera più elastica e meno rigida.

La giurisprudenza. Importante, in materia di esecuzione, è la sentenza n. 692/2012 della Cassazione. Occupandosi di esecuzione in materia fiscale, la S.C. ha ribadito che: "Nell'esecuzione esattoriale il potere del giudice di valutare l'adeguatezza del prezzo di trasferimento non solo non subisce alcuna eccezione rispetto l'esecuzione ordinaria ma deve essere esercitato con particolare oculatezza, sì da valutare se, nel singolo caso, sia più dannoso per lo Stato creditore il protrarsi dei tempi di riscossione o la perdita della possibilità di realizzare gran parte del proprio credito, a causa della sottovalutazione del bene pignorato". Una massima enunciata prima della approvazione del "decreto del fare", ovvero quando ancora Equitalia poteva pignorare e vendere all'asta gli immobili dei contribuenti. La massima enunciata dalla Cassazione in materia tributaria, si adegua, ed uniforma, a quello da sempre sottolineato nel procedimento civile.

Il processo esecutivo deve mantenere la sua utilità. La Cassazione specifica inoltre che il concetto di prezzo giusto, non richiede necessariamente una valutazione corrispondente al valore di mercato, ma occorre aver riguardo alle modalità con cui si è pervenuti all'aggiudicazione, al fine di accertare se tali modalità (pubblicità ed altro), siano stati tali da sollecitare l'interesse dell'acquisto. Insomma, sempre più numerose le sentenze a favore del consumatore indebitato che vede svendere i propri beni senza ottenere, per di più, dalla vendita la soddisfazione dei creditori».

Come bloccare un'Asta?

«Se la tua casa è all’asta esistono diversi metodi per sospendere o bloccare definitivamente il pignoramento a seconda delle situazioni. L’importante è che le aste vadano deserte, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Molto spesso – specie quando si ha a che fare con la legge – si prende cognizione dei problemi quando il danno è spesso irrimediabile. Succede a chi ha la casa pignorata che, dopo aver ignorato gli svariati avvisi del creditore e aver sottovalutato le carte ricevute dal tribunale, si chiede come bloccare un’asta. In verità, anche per chi è soggetto a un’esecuzione forzata immobiliare, esistono alcune scappatoie, pienamente legali, ma da prendere con le dovute cautele. Infatti, se è vero che esse consentono di sbarazzarsi del pignoramento dall’oggi al domani, dall’altro lato non vengono accordate dal giudice con facilità e automatismo. Del resto, come tutte le norme, anche quelle che consentono di bloccare un’asta immobiliare sono soggette a interpretazione e, peraltro, come vedremo, lasciano un campo di azione abbastanza ampio alla valutazione del giudice. Ma procediamo con ordine. Il problema della casa all’asta resta il cruccio principale per molti debitori che subiscono il pignoramento. Impropriamente si crede peraltro che la «prima casa» non sia pignorabile, cosa non vera per due ordini di motivi: innanzitutto il limite vale solo nei confronti dell’agente della riscossione (Equitalia o, dal 1° luglio 2017, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione); in secondo luogo perché a non essere pignorabile non è la «prima casa» ma solo l’unico immobile di proprietà del debitore (per cui, se questi ha due case, ad essere pignorabili sono entrambe e non solo la seconda). A dirla tutta, quando si tratta di creditori privati (la banca, un fornitore o la controparte che ha vinto una causa) il pignoramento immobiliare può essere avviato anche per debiti di scarso valore (invece, per i debiti con il fisco il pignoramento è possibile solo superati 120mila euro). Prima di capire come bloccare la casa all’asta sono necessarie due importanti precisazioni. La prima cosa da sapere è che, di norma, prima di procedere al pignoramento (e, quindi, all’asta), il creditore iscrive un’ipoteca sull’immobile. Per quanto ciò non sia vincolante (lo è solo nel caso in cui ad agire sia l’Agente della riscossione), avviene quasi sempre perché attribuisce un diritto di prelazione sul ricavato: in altre parole, il creditore con l’ipoteca si primo grado si soddisfa prima degli altri. La seconda indispensabile precisazione è che, per bloccare la casa all’asta si può contestare le ragioni del creditore solo se questi agisce in forza di un assegno o di un contratto di mutuo. Viceversa, se il creditore agisce in forza di una sentenza di condanna, il debitore non può più metterla in discussione (avendo avuto il termine per fare appello o ricorso per cassazione). Quindi, se il giudice ha fissato il nuovo esperimento d’asta e il creditore agisce perché ha ottenuto un decreto ingiuntivo (ad esempio, la banca per interessi non corrisposti) non è più possibile sollevare eccezioni sul merito del credito (ad esempio sull’anatocismo)».

Ma allora quando si può bloccare la casa all’asta? 

«Le ragioni sono essenzialmente legate all’utilità della procedura. Ci spieghiamo meglio, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Lo scopo del pignoramento – e quindi delle aste – è quello di liquidare i beni del debitore e, con il ricavato, soddisfare il creditore procedente. Una procedura che realizza l’interesse di entrambe le parti: quello del creditore – perché così ottiene i soldi che gli spettano – e quello del proprietario della casa – perché in tal modo si libera del debito. Quando però queste due finalità non possono essere realizzate, allora non c’è ragione di tenere in vita la procedura. Si pensi al caso di un’asta battuta a un prezzo ormai così basso da non consentire al creditore di recuperare neanche la metà delle somme per le quali agisce, al netto delle spese legali già sostenute. Nello stesso tempo, l’eventuale vendita – eseguita magari a favore di chi, furbescamente, ha atteso diverse aste prima di proporre un’offerta, in modo da far calare il prezzo – non consente al debitore di liberarsi della morosità, peraltro espropriandolo di un bene per lui vitale. Risultato: insoddisfatto il creditore, insoddisfatto il debitore. Consapevole di ciò il legislatore ha, di recente, emanato due norme che, sebbene possano apparire indipendenti tra loro, se applicate l’una con l’altra possono favorire la rapida conclusione del pignoramento.

COME BLOCCARE L’ASTA. Qualora non si presenti alcun offerente alle aste promosse dal tribunale, il giudice può disporre un ribasso del prezzo di vendita del 25% (ossia di un quarto). Molto spesso, però, nonostante i ribassi e il calo drastico del prezzo rispetto alla stima fatta all’inizio del pignoramento dal consulente del tribunale (il cosiddetto «Ctu», ossia il consulente tecnico d’ufficio), non si presenta alcun offerente. Con la conseguenza che il prezzo d’asta scende sempre di più fino al punto da non soddisfare le pretese dei creditori. Così il codice di procedura stabilisce che «quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori – anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo – è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo». In pratica, tutte le volte che la casa, sottoposta a pignoramento immobiliare, non trova potenziali acquirenti e la base d’asta, a furia di ribassi, arriva a un prezzo che non è in grado di garantire un ragionevole soddisfacimento dei creditori il giudice decreta la fine anticipata del processo esecutivo. Si tratta di una estinzione anticipata del pignoramento che non consente allo stesso di risorgere in un secondo momento. Questo significa che il debitore torna nella piena disponibilità della propria casa prima pignorata e non dovrà subire alcuna asta. Ma quando è possibile raggiungere questo risultato? Quante aste bisogna aspettare? In teoria molte. E proprio per questo è intervenuta la seconda parte della riforma di cui abbiamo accennato in partenza. La seconda norma in evidenza è contenuta nel cosiddetto «decreto banche» dell’inizio 2016. In base all’ultima riforma del processo esecutivo, quando il terzo esperimento d’asta va deserto e il bene pignorato non viene aggiudicato, il giudice dispone un quarto tentativo di asta e, per rendere più allettante la partecipazione degli offerenti, può decurtare fino a metà il prezzo di vendita. Con l’ovvia conseguenza che, andata deserta anche la quarta asta, il prezzo di vendita sarà sceso così tanto da consentire il verificarsi di quella condizione – prima descritta – che consente l’estinzione anticipata del pignoramento: ossia l’impossibilità di conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori. Ecco così che già dopo la quarta o la quinta asta, al più dopo la sesta, è possibile bloccare le aste successive e chiudere una buona volta il pignoramento. Del resto scopo del pignoramento è quello di soddisfare il creditore e non infliggere al debitore una sanzione esemplare. Tanto è vero che una recente ordinanza del Tribunale di Tempio ha stabilito che: «Neppure le esigenze di celerità cui tale particolare procedura è improntata (si riferisce all’ esecuzione esattoriale), in forza delle quali l’espropriazione anche per prezzo vile trova la sua ragion d’essere nel preminente interesse dello Stato procedente, possono giustificare che il trasferimento degli immobili pignorati prescinda da un qualsiasi collegamento con il valore dei beni e che tale valore possa essere anche irrisorio, atteso che l’espropriazione ha la finalità di trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori e non certo di infliggere una sanzione atipica al debitore inadempiente». Secondo il giudice quindi è anche possibile sospendere la vendita se il prezzo è troppo basso. Il che è previsto dal codice di procedura civile che prevede la possibilità di sospendere il pignoramento anche una volta intervenuta la vendita: «Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell’esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto».

LA SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE FORZATA SULLA CASA. C’è poi la possibilità di chiedere la sospensione del pignoramento quando il giudice ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto e di mercato. La misura è nell’interesse sia del debitore (che ha interesse a che la casa si venda al prezzo reale, per poter chiudere la partita col creditore), sia del creditore stesso (che intende recuperare quanto più possibile delle somme che gli spettano). Si tratta di un potere riservato al vaglio discrezionale del tribunale (ma che, ovviamente può essere sollecitato dagli avvocati delle parti) che comporta il differimento dell’asta pubblica “a data da destinarsi” (ossia a quando il mercato sarà più “maturo”). Sempre che, nelle more, non intervengano altri eventi modificativi del processo come, per esempio, il disinteresse del creditore, una trattativa tra le parti che porti a una transazione con sostanziale decurtazione del debito, ecc.

NEL CASO DI FALLIMENTO. Anche se la vendita avviene per via di un fallimento, le cose non cambiano. Difatti, la legge fallimentare prevede, nel caso in cui oggetto della vendita forzata sia un bene appartenente a un imprenditore fallito, che «il giudice delegato, su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, previo parere dello stesso comitato dei creditori, può sospendere, con decreto motivato, le operazioni di vendita, qualora ricorrano gravi e giustificati motivi ovvero, su istanza presentata dagli stessi soggetti». In passato il tribunale di Lanciano, nell’ambito di pignoramento immobiliare conseguente a un fallimento ha preso atto del notevole squilibrio tra il prezzo di base d’asta dell’immobile e quello di mercato (per come attestato dalla perizia del Consulente tecnico d’ufficio) e, sulla scorta di ciò, ha sospeso la vendita della casa pignorata».

MAI DIRE ANTIMAFIA. QUELLI CHE SONO ANTIMAFIOSI. QUELLI CHE SONO PER LA LEGALITA'.

COSA SAREBBE L’ANTIMAFIA SENZA LA MAFIA? E SE TOTO’ RIINA NON FOSSE MAI ESISTITO? QUANTE CARRIERE SENZA GLORIA?

Il male e i talebani del “bene”, scrive il 3 dicembre 2017 su "La Repubblica" Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. Chiesero a Luciano Liggio se esistesse la mafia e lui serafico rispose, sì, se esiste l’antimafia. Vero perché troppo spesso in Italia quell’“anti” vive solo nella ragione del suo opposto. Così se c’è la mafia, c’è l’antimafia e se c’è il fascismo c’è anche l’antifascismo. Così i destini del male e del suo antidoto sembrano indissolubilmente legati. L’antimafia che è o dovrebbe essere la sostanza dello stato di diritto, esiste invece come una setta, una organizzazione da contrapporre alla mafia e non la ragione stessa del vivere civile. Ci si deve accreditare antimafiosi per vedersi riconoscere la legittimazione a dire qualcosa, altrimenti si rischia l’indistinto anonimato dell’ovvietà. Ma con i galloni addosso dell’antimafiosità militante, allora anche la banalità dell’evidenza, veste i panni del martirio sofferto della rivelazione. L’antimafia che avrebbe dovuto essere la constatazione che nella società, nella vita civile, nel sostrato di regole e diritti di un Paese c’erano già gli strumenti per la ribellione, ha finito con l’essere una comoda tenda sotto la quale accasarsi mentre altri impiantavano il gabbiotto dell’ufficio rilascio patenti. Il talebanismo antimafioso, fatto di dogmi e uomini simbolo, fatto di eroi di carta vendicatori delle verità negate ha finito con il prendersi tutto il campo, consegnando in dote ai populismi di ogni risma la genuina volontà di un popolo, siciliano, italiano, di farla finita con i bravi. Ecco, l’antimafia come totem, il venerabile nulla al quale votarsi incuranti di selezionare i compagni di strada, consegnando ruoli da guru agli illuminati del momento, la perpetuazione di un male presupposto del bene che gli si oppone è l’unico totem dal quale fuggire e di gran carriera. Non lo fanno gli antimafiosi tutti d’un pezzo, quelli mai un dubbio, quelli che decidono a chi concedere la benemerenza della parola. Quelli che se la raccontano ogni giorno e sperano, in cuor loro che ci sia sempre un nemico, così tanto per giustificare la loro di esistenza di anti qualcosa. Magari con il fondoschiena poggiato su qualche polverosa poltrona di comando di qualcosa diventata per contatto essa stessa antimafiosa. L’antimafia del contagio virtuoso è così l’antimafia del contatto provvidenziale. E per tutto il resto basta un po’ di martirio, una spruzzatina di illuminismo, due quarti di ovvietà e un terzo di furbizia.  Dopotutto ogni totem incarna un tabù.

G8 di Genova, condannato per la Diaz ora è il numero due dell’Antimafia: “Come si fa a dire che l’Italia è cambiata?” Da alcune settimane il nuovo vicedirettore della Direzione Investigativa Antimafia è Gilberto Caldarozzi, ritenuto colpevole e condannato a tre anni e otto mesi per falso: mise la firma nei verbali che attestavano l'esistenza di prove fasulle usate per accusare ingiustamente le persone picchiate all'interno della scuola ligure, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 24 dicembre 2017. Per i fatti della Diaz venne condannato a tre anni e otto mesi in via definitiva. L’accusa era quella di falso: mise la firma nei verbali che attestavano l’esistenza di prove fasulle usate per accusare ingiustamente le persone picchiate all’interno della scuola di Genova, durante il G8 del 2001. Una macchia nel curriculum che non ha sbarrato la strada a Gilberto Caldarozzi, nominato vicedirettore della Direzione Investigativa Antimafia. Il numero due della più importante struttura investigativa che si occupa di criminalità organizzata è in pratica uno dei poliziotti condannati per la “macelleria messicana” della Diaz. Uno scatto di carriera deciso dal ministro Marco Minniti e che risale al settembre scorso. Raccontata dal Sole 24 Ore (11 settembre 2017 ndr) la nomina del poliziotto condannato viene ora rilanciata dall’edizione genovese di Repubblica che riporta il messaggio del Comitato Verità e Giustizia per Genova. “Molti dei ragazzi tedeschi, vittime della polizia nel luglio 2001 spiegano di avere provato paura quando, ritornati in Italia per i processi o per le vacanze hanno incontrato agenti in divisa. Mi chiedo come si possa dire a queste persone che l’Italia è cambiata se uno dei massimi dirigenti del nostro apparato di sicurezza è oggi proprio colui che ieri fece di tutto per accusarli ingiustamente e coprì gli autori materiali dei pestaggi e delle torture”, dicono dal gruppo formato da ex arrestati della Diaz e di Bolzaneto e dai loro familiari. Assolto in primo grado nel novembre 2008 dopo 172 udienze, Caldarozzi viene condannato in appello nel maggio 2010 dopo altre 18 udienze: poi su quella condanna arriva il bollo della Cassazione il 5 luglio 2012. Ai tempi del G8 era il più alto in grado, subito dopo Francesco Gratteri, anche lui condannato e promosso prefetto prima di andare in pensione. Considerato un investigatore esperto (ha fatto parte dei gruppi che hanno arrestato boss di Cosa nostra come Bernardo Provenzano e Nitto Santapaola) prima dei fatti della Diaz Caldarozzi dirigeva lo Sco, il servizio centrale operativo della polizia all’epoca guidata da Gianni De Gennaro. Dopo la condanna venne interdetto per cinque anni. Un lustro trascorso lavorando per una banca ma anche come consulente per la sicurezza da Finmeccanica, chiamato sempre dal suo ex capo De Gennaro. Nel 2014 Cassazione scrisse nelle motivazioni sul rigetto del suo affidamento ai servizi sociali: “Si è prestato a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici”. Ora scaduta l’interdizione torna a vestire la divisa. E occupando un ruolo prestigioso. “Se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso”, diceva in un’intervista a Repubblica, nel luglio scorso, l’attuale capo della Polizia Franco Gabrielli. Nel frattempo l’Italia ha persino approvato una nuova legge contro la tortura, criticata dagli stessi magistrati dei processi di Genova. E un imputato poi condannato in quei processi è stato promosso a numero due dell’Antimafia.

Ai vertici dell'antimafia un condannato per la "macelleria messicana" alla scuola Diaz. Gilberto Caldarozzi, 3 anni e 8 mesi per i falsi del G8, è il numero 2 della Dia. Per i giudici ha "gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero", scrive Marco Preve il 24 dicembre 2017 su "La Repubblica”. Più che la rabbia della vittima c’è il senso di sconfitta del cittadino di fronte al Potere, negli occhi di uno degli ex ragazzi che nel luglio del 2001 attraversarono le notti della macelleria messicana della Diaz e del carcere cileno di Bolzaneto. Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso, ovvero per aver partecipato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare ingiustamente chi venne pestato senza pietà da agenti rimasti impuniti, è oggi il numero 2 – Vice direttore tecnico operativo-  della Direzione Investigativa Antimafia, ovvero il fiore all’occhiello delle forze investigative italiane, la struttura alla quale è affidata la lotta al cancro criminale. La nomina, decisa dal ministro dell’Interno Marco Minniti, passata quasi in sordina ed ignorata dalla politica, risale a poche settimane fa. Se ne sono accorti, quasi casualmente nei giorni scorsi i reduci del Comitato Verità e Giustizia per Genova, un gruppo formato da ex arrestati della Diaz e di Bolzaneto e dai loro famigliari. “Molti dei ragazzi tedeschi, vittime della polizia nel luglio 2001 – racconta un membro del Comitato – spiegano di avere provato paura quando, ritornati in Italia per i processi o per le vacanze hanno incontrato agenti in divisa. Mi chiedo come si possa dire a queste persone che l’Italia è cambiata se uno dei massimi dirigenti del nostro apparato di sicurezza è oggi proprio colui che ieri fece di tutto per accusarli ingiustamente e coprì gli autori materiali dei pestaggi e delle torture”. Caldarozzi, ex capo dello Sco, la Sezione criminalità organizzata, considerato un “cacciatore di mafiosi”, per la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è invece uno dei responsabili dei comportamenti di quella notte del 2001 e dei successivi comportamenti degli apparati di Stato, che sono valsi al nostro paese due condanne per violazione alle norme sulla tortura. Scrissero i giudici della Cassazione per Caldarozzi e gli altri condannati: “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Non esattamente una medaglia da inserire nel proprio curriculum. D’altra parte, a luglio di quest’anno sono scaduti i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e i dirigenti condannati per la Diaz che non erano andati in pensione sono rientrati in polizia. In un intervento sulle sentenze della Cedu, pubblicato sul sito Questione Giustizia di Magistratura Democratica, il pm del processo Diaz Enrico Zucca affronta il caso Caldarozzi: “L’ultimo dei rientri, che si fa fatica a conciliare con quanto espresso nei confronti del condannato in sede di giudizio di Cassazione, è quello che riguarda l’attuale vice-capo della Dia, che vanta così nel suo curriculum il “trascurabile” episodio della scuola Diaz”. Il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, in un’intervista a Repubblica dell'estate ha voluto finalmente affrontare il tema G8 senza tabù, dichiarando che lui al posto di “Gianni De Gennaro (allora capo della polizia oggi presidente di Finmeccanica, ndr) si sarebbe dimesso”. A quanto si sa, i funzionari rientrati in polizia sarebbero stati destinati a ruoli non di primo piano. Ma Caldarozzi è sfuggito a questa logica. Essendo la Dia una struttura che dipende direttamente dal Ministero, per lui, che vanta con Minniti e con il gruppo De Gennaro un’antica amicizia, si sono spalancate le porte dei piani alti. Il suo esilio, per altro non è stato quello di un appestato. Gli anni di interdizione li ha trascorsi lavorando come consulente della sicurezza per le banche e poi come consulente per la Finmeccanica dell’ex capo De Gennaro. Si parlò anche di “collaborazioni” con il Sisde, i servizi segreti, proprio come, sempre a stare alle voci, si racconta intrattenga oggi il anche pensionato Franco Gratteri, ex capo della Direzione centrale anticrimine, il più alto in grado fra i condannati della Diaz. Nonostante l’Italia, tra molte contestazioni e distinguo, si sia dotata da qualche mese di una legge sulla tortura, sembra essere completamente inevaso uno degli aspetti più volte ricordati dai giudici europei. Quello che riguarda non gli autori materiali delle torture bensì tutta la scala gerarchica e i regolamenti interni che non provvedono a isolare i torturatori e chi li ha coperti nelle fase preliminare delle indagini, e che poi non provvede, se non a radiarli, perlomeno a bloccare le progressioni di carriera, o in estremo subordine ad assegnarli ad incarichi non operativi. Diciassette anni dopo aver disonorato – lo dicono, per sempre, i giudici della Cassazione, anche se molti poliziotti e altrettanti politici non hanno mai accettato questa sentenza - la polizia italiana, Gilberto Caldarozzi viene premiato con una delle poltrone più importanti della lotta al crimine. La “macelleria messicana” è stata archiviata dallo Stato. 

L'agenda rossa, scatola nera delle stragi, scrive il 2 dicembre 2017 su "La Repubblica" Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. Se si avesse la voglia di approfondire la genesi dei misteri italiani si scoprirebbe che alcuni lo sono e altri lo diventano, nascono intorno a a domande lasciate cadere, si alimentano di reticenza e di viltà, si ingigantiscono nel dubbio lasciato irrisolto, e sembrano ricomprendere nella loro dimensione tutto ciò che avremmo voluto sapere e non ci è stato dato. L’agenda rossa di Paolo Borsellino è un mistero e lo è diventato. Perché tiene insieme la sparizione di un oggetto e il rovello sul suo contenuto. Perché se è sparita doveva essere importante. Perché se qualcuno l’ha presa evidentemente ciò che c’era dentro avrebbe spiegato tutto. Così in questi anni l’agenda rossa è il totem dei totem, la scatola nera del disastro in cui lo Stato italiano è precipitato consegnando ai boia della mafia stragista le proprie migliori intelligenze. Diventata inconcludente materia giudiziaria, la sparizione dell’agenda ha contribuito ad accrescerne il valore di mistero irrisolto. Autorizza, legittimamente, a interrogarsi sul ruolo degli apparati precipitatisi in via Mariano d’Amelio più con l’intento di cancellare prove che di rintracciarne. L’agenda rossa, issata come vessillo, della vergogna di cui si è macchiato uno Stato che tra lamiera fumanti cercava di far sparire gli indizi della propria compromissione. Cosa avrebbe potuto raccontare l’agenda? Probabilmente l’unica cosa che sembra rimanere in ombra ogni qual volta si guarda alle stragi: cosa i giudici avrebbero potuto fare. Il giorno dopo della loro azione e non il giorno prima. Perché in quella scelta criminale c’è sì il proposito di vendetta per quel che era stato ma anche e soprattutto la ferma volontà di scongiurare ciò che sarebbe dovuto accadere. In breve, a cosa lavorava Paolo Borsellino, chi e cosa ostacolava il suo lavoro? Su quell’agenda può esserci più di una indicazione su questo ma come spesso accade è anche un gigantesco alibi per non cercare ancora, per non frugare per non interrogarsi oltre. Per non riconnettere i fili di un ragionamento che da solo conduce in fondo al tunnel. Almeno sul piano della coscienza collettiva che non necessariamente batte lo stesso tempo della giustizia. E’ un fatto, ad esempio, che i primi nemici di Paolo Borsellino fossero all’interno del palazzo di giustizia di Palermo. Che ad ostacolare il suo lavoro fosse il capo della procura, Pietro Giammanco. E chi fosse Giammanco lo raccontano le sue eccellentissime relazioni da quintacolonna della Democrazia cristiana andreottiana in terra di ermellini. Per chiarirsi su questo l’agenda rossa potrebbe anche non servire.

“Orrori e menzogne con un pupo travestito da pentito”. Il processo per l’omicidio di Paolo Borsellino è stato un grande bluff. "Se io dicevo – rivela Scarantino - che Riina è arrivato nella villa di Calascibetta con l'asino lo scrivevano". Una ricostruzione fasulla, spacciata per verità. Ora ci sarà un colpo di scena su chi sono i reali mandanti del depistaggio, scrive Nello Trocchia, giornalista d'inchiesta, su Tiscali Notizie il 10 dicembre 2017. “Le gravissime anomalie che hanno caratterizzato la condotta di magistrati e poliziotti sono state funzionali a uno dei più grandi depistaggi che la storia di questo paese abbia conosciuto”. Fiammetta Borsellino è chiara, inequivocabile e così definisce il depistaggio che ha condizionato il raggiungimento della verità e inquinato il processo Borsellino 1 e, in parte, bis che era stati istruiti dopo la strage di via D'Amelio che ha ucciso, quel 19 luglio 1992, il magistrato Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta. 

Il falso pentito e gli innocenti in carcere. Quando ho incontrato Fiammetta Borsellino, terza figlia del magistrato, per realizzare l'inchiesta andata in onda su Rai2, nel programma Nemo, mi ha impressionato l'equilibrio e la sua fermezza. “La mia serenità è un lascito di mio padre così come la mia compostezza, il mio equilibrio” racconta. Da qualche mese ha rotto il silenzio e vuole la verità sul pupo vestito da pentito, su questa “storia – aggiunge – di orrori e menzogne”. Il depistaggio, tra i più gravi della storia del nostro paese, ruota attorno a un balordo con piccoli precedenti per droga, elevato al rango di pentito di primo piano da poliziotti e magistrati. Si chiama Vincenzo Scarantino. Scarantino viene arrestato, nel 1992, dai poliziotti del gruppo Falcone e Borsellino, guidati da Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2012, e si autoaccusa davanti ai magistrati che hanno creduto a quella versione (il defunto Giovanni Tinebra, Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo, quest'ultimo dal novembre 1994), di essere il committente del furto della 126 imbottita di esplosivo e colui che portò l'autobomba in via D'Amelio. “Io non sapevo neanche dove fosse via D'Amelio – spiega oggi Scarantino – io sono stato combinato mafioso dallo stato, non lo sono mai stato prima”. Viene portato a Pianosa e nel supercarcere Scarantino non regge e cede. E' l'inizio del depistaggio. “A Pianosa – aggiunge il falso pentito - mi fanno tutte le schifezze che possano esistere nel mondo, quando sono arrivato mi hanno riempito di bastonate. 50 chili aveva perso, quando non si mangia, il cervello non funziona più, incapace di intendere e di volere. A me mi hanno arrestato per dire bugie non per un sospetto. Io sono stato fatto mafioso dallo stato”. 

Vincenzo Scarantino. Dopo l'arresto e il “trattamento” Pianosa, Scarantino inizia a raccontare e chiama in causa persone che con la strage non c'entravano niente. Si celebra il Borsellino 1 e il bis, in Cassazione si arriva agli ergastoli, anche per persone completamente estranee. Una estraneità che emergerà solo quando a pentirsi sarà, nel 2008, il boss Gaspare Spatuzza. Spatuzza smonterà totalmente le falsità di Scarantino. Nel settembre scorso la Corte di Appello di Catania ha depositato le motivazioni della sentenza di revisione delle condanne inflitte dalla Cassazione. Ora bisogna ricalcolare le pene per i reati minori, un ricalcolo che aprirà poi le richieste di risarcimento che lo stato dovrà pagare per l'ingiusta detenzione, al 41 bis, di soggetti che con la strage nulla c'entravano. Come Gaetano Murana, 18 anni in carcere, accusato di aver partecipato alla carneficina. Murana, invece, era completamente estraneo. “Ora cerco un lavoro – racconta – ma mi chiudono tutti le porte in faccia”.

Le anomalie. “Si tratta di una storia di errori e menzogne” denuncia Fiammetta Borsellino, ma soprattutto di anomalie. Durante il periodo di collaborazione in diversi momenti si poteva smascherare il falso pentito Scarantino. Quando, ad esempio, nel 1995 Vincenzo Scarantino viene messo a confronto con tre pentiti rodati Salvatore Cancemi, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, il falso collaboratore viene letteralmente demolito. “In quel momento – racconta l'avvocato Rosalba Di Gregorio che ha difeso alcuni imputati – i magistrati, loro e non noi visto che non abbiamo avuto depositati gli atti (saranno depositato solo successivamente, ndr), avrebbero dovuto sterilizzare la fonte e buttarla”. I collaboratori chiariscono che la ricostruzione di Scarantino non regge e soprattutto è assurda la presunta riunione nella quale sarebbe stata decisa la strage. Una riunione alla presenza di oltre dieci persone, cosa impensabile per la Cosa Nostra di Totò Riina, e durante la quale Scarantino sarebbe entrato per prendere da bere e proprio in quel momento avrebbe ascoltato Riina indicare in Borsellino l'obiettivo da colpire.  “Se io dicevo – aggiunge Scarantino - che Riina è arrivato nella villa di Calascibetta con l'asino lo scrivevano”. Una ricostruzione fasulla, spacciata per verità. Un'altra anomalia è relativa al sopralluogo avvenuto presso il garage Orofino, quello che sarebbe stato il ricovero della Fiat poi usata per la strage. “La cosa anomala – ricorda Fiammetta Borsellino è che nessuno magistrato ha presenziato a quel sopralluogo”. Lo stesso Scarantino racconta: “Quando mi portano a fare il sopralluogo al garage io non lo riconosco, si scende e io non lo riconosco poi un poliziotto mi tocca il braccio e mi dice è là e io dico. E sì, sì”. Un'altra anomalia sono le ripetute e continue ritrattazioni di Scarantino che, in diversi momenti, accusa poliziotti di averlo indotto a quelle dichiarazioni e di non saperne nulla della strage. Ritrattazioni che non hanno rappresentato una spia di allarme, ma che anzi hanno rafforzato la tesi accusatoria. 

I processi e la verità parziale. Per una delle ritrattazioni, Scarantino è stato anche condannato per calunnia ai danni dei poliziotti e dei magistrati che ha accusato. Una condanna per la quale, spiega a Tiscali Vania Giamporcaro, avvocato di Scarantino, potrebbe essere richiesta la revisione alla luce del dispositivo della sentenza nel processo Borsellino Quater che evidenzia che il comportamento di Scarantino è attenuato dall'aver agito sotto impulso di terzi. Per Scarantino, infatti, è scattata la prescrizione, ma soprattutto è stata concessa la circostanza attenuante perché è stato “determinato a commettere il reato”. Al momento i poliziotti, i tre funzionari di vertice, sono stati già indagati e prosciolti. Ora le motivazioni del Borsellino Quater chiariranno i contorni delle responsabilità dei soggetti coinvolti, motivazioni che si preannunciano senza sconti e non senza conseguenze. Il Csm ha aperto un fascicolo sul caso, ma è in attesa proprio delle motivazioni per capire se e in che direzione orientare il proprio approfondimento. Un fatto è certo, il depistaggio c'è stato, ma ora bisogna comprendere chi lo ha voluto e perché. Al momento di certo c'è che i principali boss di Cosa Nostra sono stati condannati per quella strage, ma la verità è ancora lontana su chi ha voluto quella carneficina oltre le mafie. 

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattordicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate.

Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa.

Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno.

L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa in considerazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

"Repubblica" usa Falcone per accusare il Cav. Il magistrato «resuscitato» a 25 anni dall'uccisione attraverso un appunto, scrive Mariateresa Conti, Sabato 09/12/2017, su "Il Giornale". Repubblica «resuscita» Giovanni Falcone attraverso un appunto. E a 25 anni dalla sua morte lo usa come «accusatore» di Silvio Berlusconi, che nel '92 quando il magistrato è saltato in aria a Capaci, e nell'89, l'epoca a cui risalirebbe la nota, alla politica non pensava affatto. Ma tant'è, eccolo lì il Giovanni Falcone veggente al punto da immaginare già nel 1989 che quelle poche parole: «Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni a Grado e anche Vittorio Mangano» un giorno di 25 anni dopo sarebbero servite a Repubblica fare un titolone: «Berlusconi pagava i boss di Cosa nostra». E questo giusto mentre il leader azzurro fa campagna elettorale ed è in costante crescita nei sondaggi. Vedi la coincidenza. Intendiamoci, nihil novi sub sole. La tesi che il Cavaliere abbia assunto Mangano come stalliere ad Arcore e abbia pagato i boss per proteggere i ripetitori tv in Sicilia è vecchia, anzi vecchissima, illustrata pure nella sentenza che ha condannato Marcello Dell'Utri (a proposito, lo scoop serve anche ad affossare l'ex senatore azzurro, che nel frattempo è alla ribalta delle cronache). Ma metterla in bocca al defunto Giovanni Falcone fa più effetto. E così, ecco l'appunto. Trovato in quello che era il vecchio bunker in cui Falcone e Borsellino lavoravano e che da oltre un anno è diventato un museo, gestito da un fedelissimo di Falcone, Giovanni Paparcuri, autista scampato alla prima strage palermitana col tritolo, quella in cui il 29 luglio del 1983 fu ucciso il giudice Rocco Chinnici. Paparcuri, a più di un anno dall'inaugurazione del museo, ha scoperto la nota (la grafia «elegante e ordinata» è quella del defunto Giovanni, assicura l'articolo) tra le carte relative agli interrogatori di un pentito di mafia storico, Francesco Marino Mannoia. E ha informato i pm. Mannoia, contattato dal giornale, si è trincerato dietro un «non ricordo». Sua consuetudine quando non vuol parlare, vedi quello che è successo, proprio con lui, al processo Contrada quando mise a verbale di non sapere nulla dell'ex 007 salvo poi cambiare idea. Già, il processo Contrada. Anche lì Falcone, morto da alcuni anni, era stato «resuscitato». «Giovanni non si fidava di lui», era la tesi. Monca però della controprova più banale: Falcone non aveva mai aperto un fascicolo contro Contrada. E non lo ha aperto neppure contro Berlusconi. Tutto il resto sono chiacchiere. Postume.

Riapre la caccia a Berlusconi. Si vota e il Cavaliere finisce indagato per le stragi di mafia del '93: siamo al ridicolo, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 01/11/2017, su "Il Giornale". La tregua è finita. Si riapre la caccia a Berlusconi, come ai vecchi tempi. Mettiamola così, in modo irrispettoso per la preda: è un buon segno, significa che l'uomo è ancora politicamente temuto, ritenuto in grado di tornare al comando per via elettorale dopo essere stato deposto per via giudiziaria. Così, a tre giorni dalle elezioni siciliane, a poche settimane dal verdetto della Corte Europea sulla sua possibile riabilitazione e al via della campagna elettorale per le Politiche, riparte il ben noto circo degli ammazza-Silvio. Che questa volta era in difficoltà perché non è facile inventarsene una nuova dopo aver già passato in rassegna e contestato sia tutto il codice penale che quello civile. Cerca e ricerca non si è trovato un nuovo reato, neppure una multa non pagata. E allora ecco che, all'ultimo, dalla spazzatura delle procure di Palermo e Firenze, riemerge una storia del 1993, talmente assurda che, sollevata per ben tre volte in venticinque anni, non ha mai superato la soglia delle indagini preliminari, sempre archiviata per assoluta mancanza non dico di prove, ma addirittura di indizi. È la storia che vuole Berlusconi e Dell'Utri mandanti delle stragi di mafia del '93 e che si basa su allusioni di due galantuomini. Il primo si chiama Gaspare Spatuzza, sicario di Cosa Nostra, autore di 40 omicidi e accusato di aver sciolto nell'acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito. Il secondo è Giuseppe Graviano, il boss che azionò il detonatore dell'esplosivo che fece saltare in aria Borsellino e la sua scorta. Per la verità Graviano non ha mai dichiarato alcunché, anzi, semmai ha sempre smentito le fantasie di Spatuzza. Ma - e qui starebbe la novità -, intercettato in carcere mentre parlava con un compare, avrebbe detto al riguardo di quei fatti una frase sibillina e, secondo gli inquirenti, pronunciato (ma non c'è certezza perché l'audio è confuso) il nome «Berlusconi». Interpellato, l'interessato ha negato, ma tant'è, l'occasione è ghiotta per avvelenare la campagna elettorale del redivivo Cavaliere. E chi è il regista di tutto questo? L'uomo si chiama Nino Di Matteo, pm di punta dell'antimafia palermitana, noto per le sue critiche politiche a Berlusconi e per le sue simpatie per il movimento di Grillo. Al punto di dare la sua disponibilità a fare il ministro in un eventuale governo Cinquestelle perché «è diritto di un giudice fare politica». Riepiloghiamo. Un pm dichiaratamente antiberlusconiano e filo-grillino che sta per entrare in politica attiva, come ultimo atto della sua carriera in magistratura e al via della campagna elettorale che lo vede schierato, innesca un'inchiesta infamante contro Silvio Berlusconi. E poi dicono che a inquinare la politica è la mafia...

Stragi del '93, Berlusconi indagato di nuovo: riparte la macchina del fango. Il boss Graviano intercettato in carcere tira in ballo Berlusconi. E riparte il tritacarne giudiziario. Con le toghe che riaprono un fascicolo già archiviato nel 2011, scrive Giovanni Neve, Martedì 31/10/2017, su "Il Giornale". L'assalto giudiziario è ripartito. Preciso come un orologio. A pochi giorni dalle elezioni elettorali in Sicilia e a meno di un semestre dalle politiche, ecco che i magistrati vanno a indagare nuovamente Silvio Berlusconi. Lo accusano, insieme a Marcello Dell'Utri, di essere il mandante occulte delle stragi mafiose del 1993 che insanguinarono Firenze, Roma e Milano. La notizia, ovviamente, viene data da Corriere della Sera e Repubblica. A ogni appuntamento elettorale, sempre la stessa storia. A questo giro, con il centrodestra nettamente in testa nei sondaggi, il tritacarne elettorale viene oliato dalla procura di Firenze che ha fatto riaprire dal giudice per le indagini preliminari un fascicolo già archiviato nel 2011. La procura del capoluogo toscano già altre due volte aveva aperto un'inchiesta su Berlusconi. L'ultima era stata, appunto, archiviata sei anni fa. Ora avrebbe ottenuto dal gip la riapertura del fascicolo sull'ex premier e Dell'Utri, dopo aver ricevuto da Palermo le trascrizioni dei colloqui in carcere del boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano. I pm di Palermo lo avevano intercettato durante il processo sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia. "Berlusconi mi ha chiesto questa cortesia, per questo c'è stata l'urgenza", diceva il padrino al camorrista Umberto Adinolfi mentre facevano l'ora d'aria nel braccio del 41 bis del carcere di Ascoli Piceno. Era il 10 aprile dell'anno scorso. "Lui voleva scendere, però in quel periodo c'erano i vecchi - raccontava Graviano - lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa". E ancora: "Trent'anni fa, venticinque anni fa, mi sono seduto con te, giusto? Ti ho portato benessere. Poi mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi. Per cosa? Per i soldi, perché ti rimangono i soldi...". Gli omissis, però, sono molti. E la maggior parte delle frasi sono di dubbia interpretazione. Il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, ha comunque delegato alla polizia giudiziaria lo svolgimento di verifiche. Per riaprire un fascicolo già chiuso da almeno cinque anni, i pm di Firenze vanno a fidarsi di un boss in carcere dal 1994. Parole che l'avvocato Nicolò Ghedini non fatica a bollare come "illazioni infamanti" pubblicate ad hoc "prima del voto". D'altra parte Berlusconi non ha mai avuto "alcun contatto né diretto né indiretto con Graviano". Ma quello, che ancora oggi vediamo in atto, è il solito schema del tritacarne giudiziario messo in piedi per colpire e screditare l'avversario politico.

Dell’Utri shock: «Sono un prigioniero di guerra», scrive Errico Novi il 10 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Ha imparato a prenderla con filosofia per davvero. Marcello Dell’Utri esce bene nella bella intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera: un uomo che non spreca energie a combattere contro il destino quando è più forte. Mostra leggerezza e atarassia quasi orientali anche sul nodo giuridico della sua condanna: la pronuncia, inosservata, della Corte europea dei Diritti dell’uomo. «Dopo la sentenza Contrada stabiliranno che la condanna è stata illegittima e sarò risarcito per ingiusta detenzione», dice a proposito dei 7 anni di carcere che sconta ora a Rebibbia. Aggiunge: «I tempi sono lunghi, temo che il pronunciamento della Corte europea avverrà a pena scontata». Lo dice così, come se niente fosse, ma è un paradosso giuridico grande quanto una casa. Sembrano arrabbiarsi più di lui i suoi avvocati. Come Tullio Padovani, già ordinario di Diritto penale all’università Sant’Anna di Pisa, che non esita a parlare di «gioco delle tre tavolette» da parte del nostro ordinamento. «Carta vince carta perde, proprio così: siamo andati in Cassazione e l’incidente di esecuzione non è passato perché, ci hanno detto, bisogna seguire un’altra strada, quella della revisione del processo», ricorda il difensore. «Come se non avessimo già esperito un tentativo simile, in Corte d’Appello, dove pure abbiamo battuto inutilmente la testa». Il professor Padovani, tra i più apprezzati studiosi di Diritto penale del Paese, usa parole forti e inconsuete. Ma il paradosso c’è eccome. A spiegare il punto di innesco è un costituzionalista come Valerio Onida, il quale interpellato dal Dubbio ricorda come all’origine dello stesso pronunciamento su Contrada ci sia «il caso Scoppola, con cui è emersa l’incostituzionalità della mancata previsione delle sentenze della Corte europea tra i motivi che possono condurre a una revisione del processo». Mancherebbe un elemento che consente appunto di riaprire un procedimento passato in giudicato sulla base di una pronuncia favorevole dei giudici di Strasburgo. Eppure Padovani spiega come «non sia necessario altro, in realtà, non c’è bisogno di una norma ulteriore: ce n’è già una che è quella in base alla quale abbiamo presentato appunto l’incidente di esecuzione davanti alla Suprema corte. Sarebbe bastato che non chiudessero gli occhi, che manifestassero un po’ di buona volontà. E invece ci siamo trovati di fronte a una sentenza farsesca». Padovani definisce così dunque la decisione firmata lo scorso 11 ottobre dalla prima sezione penale. Dell’Utri ne parla con serena rassegnazione. Anzi se la prende con se stesso, dice che nel 1996, quando aveva capito che piega avessero preso i pm sul suo caso, non avrebbe dovuto farsi eleggere «per difendermi nei processi». Perché così «oggi sarei libero, invece mi trovo qui dentro a 75 anni, vedo avvicinarsi il finale di partita e sinceramente mi dispiace passarlo qui anziché con la mia famiglia». Amarezza al limite, non rabbia. Resta il fatto che i reati contestati all’ex senatore sono compresi in un arco temporale che arriva fino al 1992, mentre la giurisprudenza ha definito il reato di concorso esterno solo nel 1994. Dell’ultri è in galera dunque per un’accusa che, all’epoca del suo presunto concorso esterno, neppure poteva essere contestata. Non a caso persino chi come Emanuele Macaluso mai ha pensato di iscriversi al partito degli innocentisti, non ha problemi ad ammettere che «così com’è la questione del concorso esterno risulta poco convincente, e non parlo solo dei reati commessi prima che la Cassazione definisse il reato: siamo sicuri sia ragionevole che una fattispecie del genere sia prevista dalle sentenze ma non dalle leggi? Io dico che il concorso esterno non può continuare a esistere solo sul piano dottrinario: o si decide di non punirlo più o, cosa evidentemente più sensata, si provvede a codificarlo per legge. Le norme penali sono quelle scritte dal Parlamento», dice l’ex direttore dell’Unità, «non si può restare fermi alla giurisprudenza». Difficile che cambi qualcosa nel frattempo, più probabile che Marcello Dell’Utri esca di cella tra poco meno di 3 anni quando, al netto degli sconti, la sua pena sarà estinta. Ha comunque mantenuto il buonumore, Bianconi lo restituisce bene, così come dall’intervista al Corriere si apprezza un uomo che a 75 anni ha ancora la pazienza di prendersi un’altra laurea, stavolta in lettere. Pazienza ne ha avuta anche con Berlusconi, che pure Dell’Utri ricorda solo come vittima, e anzi dice di essere un «prigioniero di guerra», della guerra contro Silvio. Che però esattamente dieci anni fa gli diede un dispiacere difficile da dimenticare: prese il suo elenco dei “circoli” e lo affidò a Michela Brambilla, dopo che il cofondatore di Forza Italia ci aveva lavorato per anni ed era riuscito a mettere assieme una parvenza di palestra per la futura classe dirigente azzurra. Non disse nulla, dopodiché il predellino travolse ogni idea di rivincita dal basso e preparò la nuova vittoria del Popolo della libertà.

L’ironia, che è funzione indispensabile della pazienza, è la stessa della precedente uscita “ pubblica” di Dell’Utri, al congresso del Partito radicale di inizio settembre, quando concluse il breve discorso da detenuto– militante con l’esortazione ai “ compagni” pannelliani: « Guardate che a parte voi qui del carcere non parla nessuno, ma visto che ci siamo io sono pronto a battermi, diamoci da fare, guardate che se ci mettiamo vinciamo le elezioni » , col sorriso sulle labbra e un entusiasmo che né la cella né il « gioco delle tre tavolette » hanno scalfito.

Dell’Utri, perché non lo fuciliamo? Scrive Piero Sansonetti il 6 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Ma allora perché non lo fuciliamo, come si faceva una volta con i politici in disgrazia? In Italia, è vero, da una settantina d’anni non si usa più: l’ultimo credo che fu Buffarini Guidi. Luglio 1945. Però si può fare un’eccezione, e chiedere alla commissione antimafia, magari, di scegliere il plotone di esecuzione. Sto parlando di Marcello dell’Utri, naturalmente. Ieri il caso della sua carcerazione è andato davanti al tribunale di sorveglianza. Il tribunale di sorveglianza nelle prossime ore dovrà decidere se mandarlo a curarsi in ospedale o lasciarlo in carcere ad aspettare la fine. Dell’Utri ha un tumore maligno alla prostata, il cuore in condizioni pessime, il diabete altissimo. Non può operarsi perché le sue condizioni cardiache non lo permettono. Il Procuratore generale ha chiesto a dei periti di sua fiducia di visitare Dell’Utri. Che è stato visitato anche dai periti nominati dalla difesa, che sono quelli di Antigone, e dai periti del tribunale. I periti dell’accusa hanno dato lo stesso responso dei periti della difesa: le sue condizioni non sono compatibili con il regime carcerario. E hanno proposto i nomi di cinque istituti ospedalieri, di Roma e di Milano, in grado di ricoverarlo e di curarlo. Ma il Procuratore generale, nell’udienza di ieri, ha detto di fidarsi dei periti del tribunale e non dei periti nominati da lui. E siccome i periti del tribunale dicono che può restare in carcere, il Procuratore, smentendo clamorosamente i suoi periti, in un breve intervento (circa 2 minuti, poche parole succinte e chiare) ha chiesto che dell’Utri resti in cella. Non si conoscono precedenti di una situazione di questo genere. Un procuratore che dice di non credere ai periti che lui ha nominato è una novità assoluta in giurisprudenza, e anche nella vita di tutti i giorni. Ora bisognerà aspettare la decisione dei giudici. I quali dovranno tener conto delle richieste del Procuratore e delle perizie dei periti del tribunale, ma non potranno non prendere atto anche delle perizie dei medici scelti dalla Procura. Se i giudici dovessero decidere di rispedire Dell’Utri in carcere, la sua vita sarebbe in serissimo pericolo. Riassumiamo brevemente i fatti. Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e fondatore di Forza Italia, è stato condannato con sentenza definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Questo reato non esiste nel codice penale, e dunque la condanna confligge seriamente con l’articolo 1 del codice penale, il quale recita esattamente così: «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite». Da tempo però i magistrati hanno stabilito che il reato di associazione esterna esiste in quanto combinazione dell’articolo 110 (concorso in reato) e dell’articolo 416 bis (associazione mafiosa). E che di conseguenza è ammissibile l’ipotesi che una persona faccia parte di una associazione pur non facendone parte, e sia interno a quell’associazione pur restandone fuori. E che le pene si decidano di volta in volta. In questo modo sono state comminate svariate condanne, anche a Dell’Utri. Nel frattempo però la Corte europea ha stabilito che si può anche ammettere che il reato ora esista, in quanto passato al vaglio dei tribunali italiani e della Cassazione, ma comunque esiste da non prima del 1994. Il problema è che Dell’Utri è accusato (ed è stato condannato) per fatti avvenuti tutti negli anni 80. Quando, dunque, il reato sicuramente non esisteva. Dell’Utri ha fatto ricorso alla Corte europea, contro la sentenza, ed è praticamente certo che la Corte gli darà ragione (visto che ha dato ragione a Bruno Contrada, ex dirigente dei servizi segreti, condannato per lo stesso reato e nelle stesse condizioni). Il problema è che la Corte europea è lenta, e probabilmente la sentenza e l’ordine di scarcerazione arriveranno quando dell’Utri avrà finito di scontare la pena, oppure sarà morto. Nel frattempo Dell’Utri si è ammalato, ha superato i 75 anni, ha scontato molto più della metà della pena. Esistono non alcune ragioni per scarcerarlo: esistono vagonate di ragioni (perché non esiste il reato, o perché è anziano, o perché è malato, o perché ha scontato più della metà della pena…). Perché nessuno muove un dito? Perché la procura generale di Roma ha smentito i suoi periti pur di non accettare che Dell’Utri sia curato come tutte le altre persone, libere o detenute? Ci sono state pressioni per impedire la scarcerazione? La verità che tutti sanno è che Dell’Utri non viene scarcerato per ragioni assolutamente, e squisitamente, e ormai del tutto palesemente politiche. Dell’Utri è Berlusconi. E questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è accusato di essere stato uno dei cervelli pensanti del berlusconismo, e questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è siciliano. E questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è stato per molti anni un parlamentare. E questo, naturalmente, viene ritenuto più che mai imperdonabile e comunque una aggravante. Talmente imperdonabili sono queste sue colpe (assai di più di qualunque associazione esterna) che sono mosche bianche quelli che hanno il coraggio di difenderlo. Perché – mi chiedo, per esempio – non esiste neppure un parlamentare di sinistra che abbia la sensatezza di dire: «Sta male, rischia la vita, fatelo uscire»? Naturalmente speriamo che, come spesso accade, tra i giudici che alla fine sono chiamati a giudicare, prevalga il buon senso e la conoscenza della Costituzione italiana, e i principi sacri dell’umanità. Se non sarà così Dell’Utri rischia la vita. Se Dell’Utri morirà in carcere nessuno potrà considerare la sua morte una cosa diversa da un delitto politico.

Se il magistrato “diventa” anche medico, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 10 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un’analisi sul potere dei pm dopo il caso dell’ex senatore Marcello Dell’Utri. L’ultima parola spetta sempre alle toghe. Anche per quanto riguarda gli aspetti sanitari. Il rigetto da parte del Tribunale di sorveglianza di Roma dell’istanza presentata da Marcello Dell’Utri, finalizzata al riconoscimento dell’incompatibilità del regime carcerario per motivi di salute, ha messo in evidenza un’altra “particolarità” del sistema giudiziario italiano. Dell’Utri, in carcere ormai da oltre tre anni, aveva presentato ad aprile un’istanza di sospensione della pena per motivi di salute. L’ex senatore di Forza Italia, 76 anni compiuti, da tempo cardiopatico e con una grave forma di diabete, è affetto anche da un adenocarcinoma prostatico. Patologie che per i suoi medici lo rendono incompatibile con il regime detentivo. Incompatibilità sottolineata anche dal medico del carcere che in due relazioni ha evidenziato come a Rebibbia non sia possibile praticargli cure e terapie necessarie. In vista dell’udienza che doveva decidere sull’istanza, il sostituto procuratore generale della Capitale Pietro Giordano aveva nominato due consulenti affinché effettuassero una perizia sul suo effettivo stato di salute. Anche questi medici erano giunti alle medesime conclusioni dei colleghi: le condizioni di Dell’Utri sono incompatibili con il carcere. Il pg, però, nel parere aveva deciso di non tenere in alcun conto della relazione presentata dai suoi consulenti. Dello stesso avviso, giovedì scorso, il Tribunale di sorveglianza. Il motivo è semplice: il giudizio di compatibilità con il carcere spetta sempre al magistrato. Che quindi, in casi come questo, si “sostituisce” ai medici, diventando lui stesso medico. Per i giudici, infatti, le patologie cardiache e oncologiche di cui Dell’Utri soffre, «sono sotto controllo farmacologico e non costituiscono aggravamento del suo stato di salute. La terapia può essere effettuata in costanza di detenzione sia in regime ambulatoriale che di ricovero ospedaliero». Nel provvedimento il Tribunale descrive un «quadro patologico affrontabile in costanza di regime detentivo. La pena può assumere il suo carattere rieducativo non prestandosi a giudizi di contrarietà al senso di umanità», ha poi aggiunto il collegio.

Il vero fascismo. Che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri, da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice: era di sinistra, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 08/12/2017, su "Il Giornale". Devo ricredermi, ha ragione La Repubblica a lanciare l'allarme su un pericoloso rigurgito di fascismo in Italia. Ma non perché - come enfatizza il quotidiano diretto da Mario Calabresi - cinque cretini di Forza Nuova leggono un volantino in un centro culturale pacifista e altrettanti agitano fumogeni sotto la sede del suo giornale mascherati manco fosse carnevale. Stiamo diventando un Paese fascista perché un anziano e malato detenuto viene tenuto in carcere nonostante i medici abbiano certificato che le sue condizioni di salute sono senza dubbio incompatibili con il regime di detenzione. Anzi, per la verità Mussolini gli oppositori politici li mandava al confino nella splendida isola di Ventotene o in esilio, come capitò anche a Indro Montanelli, futuro fondatore di questo Giornale. La decisione di ieri del tribunale di sorveglianza di negare cure adeguate in luoghi adeguati a Marcello Dell'Utri, 76 anni, malato di tumore e ad alto rischio cardiopatico, suona come una condanna a morte di Stato. Condanna che l'imputato ha accettato annunciando di sospendere volontariamente e da subito anche le poche terapie che gli vengono somministrate in carcere. Noi quella condanna non la accettiamo e la cosa dovrebbe fare inorridire anche i sinceri democratici antifascisti che si agitano tanto per le pagliacciate di quattro ragazzotti in cerca di pubblicità (facendo così peraltro il loro gioco) ma che appaiono indifferenti alle violenze fasciste della giustizia. Tanto accanimento, direi odio, nei confronti di Dell'Utri non può che avere radici politiche, perché il codice penale permetterebbe ben altre soluzioni. Tipo quelle trovate per Adriano Sofri, icona della sinistra salottiera e rivoluzionaria, che condannato per l'omicidio del commissario Calabresi (padre dell'attuale direttore della Repubblica) scontò metà di una misera pena (15 anni) nel comodo di casa sua per «motivi di salute». Chiedo ai signori giudici: che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri (che per di più non ha mai ucciso nessuno), da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice. Sofri era di sinistra (e che sinistra), Dell'Utri è stato a lungo il braccio destro di Berlusconi, e per questo può morire in cella come un cane. Se dovesse succedere, e mi auguro di no, chiunque può fare qualche cosa per fermare questo «fascismo» giudiziario - dal ministro della Giustizia al presidente della Repubblica - e se ne lava le mani dovrà risponderne. Agli uomini liberi da pregiudizi e alla propria coscienza, per tutta la vita.

La disgustosa vendetta su Dell'Utri. Una vendetta disgustosa che umilia lo Stato di diritto, scrive Vittorio Sgarbi, Domenica, 10/12/2017, su "Il Giornale". Il tumore c'è o non c'è. E chi ha un tumore va curato con rispetto e senza afflizioni. Ciò che lo Stato sta facendo contro Marcello Dell'Utri è, in piena flagranza, il delitto di tortura. Si aggiunga che chi è malato deve essere messo nelle condizioni psicologiche migliori per reagire. Ed è agghiacciante - per chi si dice cristiano come Vito Mancuso, che privilegia i simboli agli uomini - leggere che a una autorità dello Stato, il vicepresidente del Senato, non è concesso portare due libri a un carcerato. Non strumenti di offesa, ma di conforto spirituale. Questa è barbarie, indegna di un Paese civile, gonfiato dalla retorica di un'antimafia colpevole di inaudite violenze contro la persona, per cui nessuno paga. Non è accettabile leggere, rispetto al dono dei libri: «Se hanno le copertine rigide non me li danno». È disgustoso. Le parole non servono più, e i nostri legislatori sono pusillanimi. Ci vuole rispetto per le persone e cura per le malattie. Il resto è disumana vendetta che umilia lo Stato che la pratica. Il sindaco di Campobello di Mazzara, Ciro Caravà, è morto di cancro da qualche mese dopo essere stato illegittimamente trattenuto in carcere per due anni, nella cosiddetta «custodia cautelare», finendo poi per essere prosciolto da ogni accusa. Destituito da sindaco, diffamato, umiliato, è stato ucciso prima psicologicamente e poi fisicamente. Chi paga? I magistrati che lo hanno arrestato non meritano, davanti a Dio e agli uomini, di essere perdonati; ma, per un intollerabile privilegio, che è contro ogni giustizia, sono intoccabili e restano impuniti. Non si può leggere in un Paese civile quello che ha detto Dell'Utri: «Mi dicono che dovrei andare tutti i giorni, accompagnato dalla scorta, su e giù da questa cella all'ospedale Pertini o a Tor Vergata per la radioterapia. Non hanno idea di cosa significhi una trafila del genere nelle mie condizioni. È come infliggere una lunga, lenta morte. E allora decido io: non mi faccio consegnare più il pasto dal carcere... e non prenderò più nessuna medicina. Basta».

Così lo Stato esegue la sua condanna a morte. Nessuna pietà per Dell'Utri: lui in cella, Sofri curato a casa. Sia il mandante dell'omicidio Calabresi sia il killer Bompressi furono scarcerati per gravi motivi di salute, scrive Stefano Zurlo, Sabato 09/12/2017, su "Il Giornale". I paragoni valgono per quello che valgono e però qualche spunto possono offrirlo. Adriano Sofri e Marcello Dell'Utri sono due personaggi lontanissimi che hanno in comune solo il passaggio attraverso la cruna dell'ago del carcere. Sofri, classe 1942, è un intellettuale apprezzatissimo, un guru della cultura italiana, e al di là delle sue innegabili qualità, molti hanno scommesso sulla sua innocenza anche dopo la condanna definitiva a 22 anni per l'omicidio del commissario Calabresi. A Marcello Dell'Utri, classe 1941, di un anno più vecchio, è sempre capitato l'esatto contrario: molti commentatori hanno giurato sulla sua colpevolezza anche prima del verdetto finale, anzi prima pure dei processi. Colpa del peccato originale: la vicinanza a Silvio Berlusconi per conto del quale avrebbe tenuto contatti con gli ambienti di Cosa nostra. Ora i destini dei due prendono ancora una volta strade diverse. Dell'Utri resta in cella, anche se gravemente malato: è afflitto da una pesante cardiopatia e con un tumore in corso. Per chi non lo ricordasse, Sofri ebbe un trattamento assai diverso. A novembre 2005 rischiò di morire per la rottura dell'esofago. Fu portato d'urgenza dalla cella del carcere di Pisa all'ospedale dove fu operato al volo. Fu diagnosticata una malattia rara: la sindrome di Boerhaave e, quel che qui interessa, gli fu sospesa la pena. Poi, superata la fase più acuta, ricominciò a scontare la pena, ma non più nella cella del Don Bosco, dove riceveva politici e giornalisti, ma in casa. E sfruttando un altro istituto, la liberazione anticipata prevista per chi tenga un comportamento esemplare, riuscì a chiudere i conti con la giustizia all'inizio del 2012. Oggi firma reportage e articoli dal Kurdistan. Per la cronaca anche Ovidio Bompressi, il killer di Calabresi, mangiato dall'anoressia, non fu abbandonato in prigione: venne scarcerato, finì ai domiciliari, infine venne graziato da Giorgio Napolitano nel 2006. Dell'Utri deve scontare una pena molto più corta, solo sette anni, ma contro di lui c'è una sorta di stigma, un marchio incancellabile forgiato sulle corde dell'antiberlusconismo. I paragoni non possono dire tutto. Ma qualcosa non torna. E a metterlo in evidenza è Alessandro Gamberini, l'avvocato che a suo tempo difese Sofri: «Il verdetto Dell'Utri mi ha meravigliato. Mi sembra un provvedimento poco coraggioso, i giudici si sono appiattiti sui periti del tribunale che hanno sposato la tesi della compatibilità, ma in casi controversi e complessi come questo c'erano tutti i presupposti per la concessione della detenzione domiciliare che avrebbe permesso all'ex senatore di curarsi senza mille complicazioni, scorte e lampeggianti». Certo, i reati di mafia sono un capitolo a parte pure nell'ordinamento penitenziario: Dell'Utri ha diritto alla liberazione anticipata ma non ai permessi premio e alle altre misure previste per i detenuti «comuni». Però anche questa distinzione è in realtà assai debole e superata: a suo tempo il ministero della Giustizia aveva tolto il detenuto dal circuito dell'alta sicurezza, riconoscendo che era venuta meno la sua pericolosità e non risultavano più legami con le famiglie di Cosa nostra. Del resto le sentenze di condanna dell'ex parlamentare sono un viaggio a ritroso nel tempo, quasi archeologia giudiziaria: i crimini commessi vanno dal 1974, quando il codice nemmeno prevedeva l'associazione a delinquere di stampo mafioso, al 1992. Un quarto di secolo fa. Ora l'ex senatore, sballottato fra carceri e ospedali, è in cella. E ha deciso di accelerare quella che ritiene una condanna a morte. Cosi ha iniziato uno sciopero del vitto e delle medicine. Il suo sentiero si fa sempre più stretto. Nell'attesa dell'ennesima pronuncia che potrebbe rimettere in discussione la sua scomodissima posizione: quella della Corte di Strasburgo.

Totò Riina. Fine o inizio della storia?

Il paradosso della storia. Tra cento anni si parlerà di lui come un protagonista del passato, mentre nell’oblio cadranno le comparse che oggi passano per eroi contemporanei.

L’inutile caccia ai presunti segreti di Riina, garanzia scontata di tante carriere. La vita del Capo dei capi è stata la parabola di uno sconfitto, feroce, effimero trionfatore ma alla fine sconfitto...scrive Massimo Bordin il 17 Novembre 2017 su "Il Foglio". “Si è portato nella tomba i suoi segreti” è frase che non andrebbe mai scritta tanto è banale. Basta pensare, un attimo prima di cedere alla retorica, a come la morte chiuda ogni comunicazione, ogni speranza. Vale per i capi della mafia come per tutti. Ma tutti lasciano una traccia, un segno e su tutti è possibile tracciare un percorso, tirare un bilancio che sarà comunque la base di un giudizio storico. Perché non dovrebbe valere per un grande criminale...

Totò Riina è morto. Dopo due interventi chirurgici da giorni era in coma, scrive il 17 novembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Le condizioni del “capo dei capi” di Cosa Nostra si erano aggravate nelle ultime ore. Riina aveva da poco compiuto 87 anni. Il ministro di giustizia Andrea Orlando aveva concesso il permesso a figli e moglie di essere al suo capezzale. Il capo dei capi, il boss mafioso di Corleone Tommaso (Totò) Riina è morto questa notte alle 3,37 nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma dove si trovava dopo essere stato sottoposto nelle scorse settimane a due interventi chirurgici, ed era entrato in coma dopo l’ultimo intervento.   La Procura di Parma ha disposto l’autopsia sulla salma. La decisione di procedere all’esame medico legale è stata presa “trattandosi di un decesso avvenuto in ambiente carcerario e che quindi richiede completezza di accertamenti, a garanzia di tutti”, come ha spiegato il procuratore capo Antonio Rustico mentre attorno l’ospedale del capoluogo è presidiato da Polizia e Carabinieri che si trovano in divisa all’accesso della sezione di Medicina legale e all’interno con personale in borghese. Riina nonostante si trovasse in detenzione al 41 bis da 24 anni, dopo il suo arresto effettuato il 15 gennaio del 1993 dopo 24 anni di latitanza dagli uomini del “Capitano Ultimo” cioè Sergio De Caprio (attuale colonello) , del ROS dei Carabinieri guidato all’epoca dei fati dal Gen. Mori, per gli inquirenti  era ancora il capo di Cosa nostra .Totò Riina era detenuto secondo il 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”. Nel 1995, anno della reclusione nel supercarcere dell’Isola dell’Asinara, Totò Riina venne condannato per gli omicidi del tenente colonnello Giuseppe Russo, dei commissari di polizia Giuseppe Montana e Antonino Cassarà e dei politici Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Nei quattro anni successivi arrivano anche le sentenze per gli omicidi di Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della squadra mobile Boris Giuliano, per la Strage di Capaci e gli attentati del 1993. È recluso in isolamento fino al 12 marzo 2001. Una misura che venne introdotta della legge del 26 luglio 1975. Fu inizialmente pensata per le rivolte in carcere ma nel 1992, dopo la strage di Capaci, venne estesa ai condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso. La norma che inizialmente aveva carattere temporaneo successivamente è stata poi rinnovata ed è ancora in vigore. In Italia i detenuti al 41 bis sono in carcere per associazione mafiosa, come il boss corleonese, o per sospetta attività di terrorismo. Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia Andrea Orlando, previo parere positivo della Procura nazionale antimafia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva firmato il permesso per consentire alla moglie e ai figli di visitarlo in ospedale.  Totò Riina stava scontando 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del ’92 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e quelli del ’93, nel Continente. Sua fu la decisione di lanciare nei primi anni ’90un’offensiva armata contro lo Stato. Non ha mai avuto un minimo cenno di pentimento, ed appena tre anni fa, dal carcere parlando con il detenuto pugliese Alberto Lorusso nel carcere milanese di Opera, si vantava dell’omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati impegnati nella lotta   alla mafia come il pm Nino Di Matteo. Era il dicembre del 2013 quando Riina, parlando in carcere senza sapere di essere intercettato, disse: “Lo faccio finire peggio del giudice Falcone. Lo farei diventare il tonno buono”. Ma questa non era stata l’unica minaccia a distanza inviata a Di Matteo. In altre conversazioni Riina aveva detto: “Organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non ne parliamo più. Questo Di Matteo non se ne va. Dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo”. Lo scorso febbraio il boss di Cosa Nostra ribadiva, intercettato mentre parlava in un colloquio video-sorvegliato con sua moglie Antonietta Bagarella: “Io non mi pento… a me non mi piegheranno… mi posso fare anche 3000 anni”. E “altrettanto significativo”, scrivevano, è un passaggio durante il quale i coniugi “giungono ad affermare che i collaboratori di giustizia vengono pagati per dire il falso”. L’ultimo processo a suo carico, ancora in corso, era quello sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, in cui era imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato, insieme ad ex-politici come Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino. Nelle ultime settimane Riina era stato operato due volte. I medici avevano da subito avvertito che difficilmente il boss, le cui condizioni erano da anni compromesse, avrebbe superato gli interventi. Sembra che siano intervenute complicazioni dopo le operazioni, che hanno costretto i medici a sedare il boss mafioso. Le precarie condizioni di salute di Totò Riina erano note da tempo. La scorsa estate si era discusso persino sull’ipotesi il “capo dei capi” di Cosa Nostra potesse uscire dal carcere per affrontare una “morte dignitosa”. Ma alla fine il Tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva rigettato la richiesta del differimento della pena o, in subordine, della detenzione domiciliare, che ti era stata presentata dai legali del boss. I giudici in quell’occasione avevano ribadito che Riina “non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero”. Anche il presidente della Commissione parlamentare antimafia, la senatrice Rosy Bindi, aveva sostenuto che “non esiste il diritto alla morte fuori cella”. La DIA, Direzione Investigativa Antimafia, aveva ribadito lo scorso luglio che il boss mafioso era ancora “a guida di Cosa nostra, a conferma dello stato di crisi di un’organizzazione incapace di esprimere una nuova figura in sostituzione di un’ingombrante icona simbolica”. Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via Georgofili a Firenze, (ordinata da Totò Riina) Saputa la notizia delle gravi condizioni di Riina, aveva commentato: “Iddio abbia pietà di lui, noi non abbiamo potuto perdonarlo e ci spiace muoia ora che forse si potrebbe arrivare a capire chi gli ha armato la mano per ammazzare i nostri figli, malgrado lui il capo della mafia non si sia mai pentito. Ho parlato ora con i parenti delle vittime della strage di via dei Georgofili e la risposta è stata il silenzio totale, hanno patito troppo per un uomo che tale non è mai stato”. Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, terzogenito dei quattro figli del boss, che a sua volta ha scontato una pena di 8 anni per mafia, ieri prima del decesso del padre aveva scritto su Facebook: “Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà” ottenendo quasi 500 like al post e diverse decine di auguri al boss tra i commenti. Il portavoce della Cei, don Ivan Maffeis ha dichiarato che per Totò Riina, “un funerale pubblico non è pensabile. Ricordo la scomunica del Papa ai mafiosi, la condanna della Chiesa italiana che su questo fenomeno ha una posizione inequivocabile. La Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio ma non possiamo confondere le coscienze”.  “Il Signore abbia in gloria Totò Riina, ma le cose non cambieranno con la sua morte”, ha aggiunto il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, auspicando che “questa morte possa spingere tutti ad assumersi le proprie responsabilità. Le cose cambieranno se chi amministra lo farà tenendo presente lealtà e legalità”. “La pietà non ci fa dimenticare il dolore e il sangue versato”, ha scritto su Facebook il presidente del Senato Pietro Grasso, magistrato che con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ha combattuto Totò Riina. “Riina iniziò da Corleone negli anni ’70 una guerra interna alla mafia per conquistarne il dominio assoluto, una sequela di omicidi che hanno insanguinato Palermo e la Sicilia per anni” ha ricordato Grasso. “Una volta diventato il capo la sua furia si è abbattuta sui giornalisti, i vertici della magistratura e della politica siciliana, sulle forze dell’ordine, su inermi cittadini, sulle persone che con coraggio, senso dello Stato e determinazione hanno cercato di fermarne il potere”. “La strategia di attacco allo Stato – ha concluso il presidente del Senato – ha avuto il suo culmine con le stragi del 1992, ed è continuata persino dopo il suo arresto con gli attentati del 1993. Quando fu arrestato, lo Stato assestò un colpo decisivo alla sua organizzazione. In oltre 20 anni di detenzione non hai mai voluto collaborare con la giustizia”. Pietà quindi, ma non perdono. E un po’ di rimpianti: “Porta con sé molti misteri che sarebbero stati fondamentali per trovare la verità su alleanze, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla”. Maria Falcone, sorella del magistrato Giovanni ucciso lungo la A29, all’altezza dello svincolo di Capaci, il 23 maggio 1992, ha commentato la morte del “capo dei capi” dicendo di “non gioire per la sua morte, ma di non poterlo perdonare. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato”. E a parlare è poi il poliziotto Giuseppe Costanza, l’unico sopravvissuto all’attentato: “Meno si parla di lui e meglio è. Cerchiamo di ridimensionare la figura di questo signore. Mettiamolo all’angolo. Non merita altro per quello che è stato e per quello che ha fatto. E se ne vada in silenzio con tutti i suoi segreti”. La notizia della morte di Totò Riina appare oggi sulle ‘home page’ dei principali media mondiali online: dalla Bbc al New York Times, da El Pais a Le Figaro. Anche il Wall Street Journal pubblica la notizia, evidenziando nel sottotitolo che Riina “stava scontando 26 ergastoli per condanne di omicidio”. La Bbc pubblica la notizia ricordando che l’ex boss, soprannominato ‘la bestia’ per la sua particolare violenza, avrebbe ordinato “oltre 150 omicidi”. Riina è stato la “mente di una sanguinosa strategia” che prevedeva “l’uccisione di giudici e membri delle forze dell’ordine che cercavano di abbattere Cosa Nostra”, scrive il New York Times. Il quotidiano spagnolo El Paisde finisce Riina il “capo dei capi della mafia” e il “padrino più tenuto e sanguinario della storia”, sospettato di avere ucciso personalmente 40 persone. Anche il tabloid tedesco Bild pubblica la notizia nella sua home page con un’immagine di Riina dietro le sbarre, così come fanno – tra gli altri – il Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), il Sueddeutsche Zeitung e il Tagesspiegel.

Morte Totò Riina: parla Infermiere che lo gestiva, scrive Andrea Delle Foglie il 18 novembre 2017 su Il Giornale AssoCare.it. Totò Riina non c'è più, spazzato via da mamma Morte. Gli Infermieri lo hanno trattato come un comune paziente, fino alla sua definitiva dipartita terrena. Totò Riina non c'è più. il boss dei boss della peggiore Mafia di sempre ha dovuto desistere davanti alla falce crudele di nostra signora oscura... la morte! Era oramai un vegetale ed era tenuto in vita solo dai farmaci. Al suo cospetto Infermieri e Medici che, comunque, non lo hanno mai abbandonato. Seppur di fronte ad uno degli uomini più crudeli di tutti i tempi i Professionisti della Salute che lo hanno assistito negli ultimi anni, mesi e giorni lo hanno trattato come un paziente qualsiasi. Senza privilegi, senza infamità. AssoCareNews.it ha ascoltato uno degli Infermieri parmensi che lo ha gestito negli ultimi giorni prima del trapasso terreno. Si tratta di Giuseppe (il nome è ovviamente fittizio per salvaguardare l'incolumità dell'interessato). 

La testimonianza di uno degli Infermieri dell'Ospedale di Parma. "Totò Riina, nonostante fosse il capo di Cosa Nostra, è stato trattarti come un comune paziente - ci spiega il collega dell'Ospedale 'Maggiore' di Parma - da Infermiere avevo, ho e avrò sempre l'obbligo deontologico, etico e professionale di trattare tutti alla stessa maniera. So che ci troviamo di fronte ad una persona condannata a 6 ergastoli, ma è pur vero che era un essere umano e tutti gli esseri umani hanno il diritto ad degno un fine vita. Le condizioni di salute, soprattutto dopo gli ultimi interventi, erano pessimi. Il paziente è stato tenuto in vita, sedato, fino a quando il suo cuore non ha cessato autonomamente di battere. Non ho mai avuto modo di parlarci direttamente, perché sempre incosciente da quando ho iniziato a gestirlo direttamente. Altri colleghi mi hanno parlato di una persona silenziosa, che ti guardava fissa negli occhi, che incuteva paura, che trasmetteva sicurezza e rabbia al tempo stesso. Insomma un vero capo che impartisce ordini con il solo battere delle ciglia." Un ultimo atto di pietà per il capo della mafia che di pietà non ne ha mai avuta per nessuno - si legge sulle cronache de "Il Giornale" in un servizio a firma di un collega anonimo. Simbolo della versione più feroce di Cosa nostra, quella delle stragi, poi diventato - una volta in prigione a scontare 26 ergastoli - anche il simbolo della reazione dello Stato all'offensiva della criminalità organizzata negli anni Novanta.

Condizioni molto gravi, che lo hanno condotto al trapasso. Le condizioni di Totò (Salvatore) Riina si erano aggravate negli ultimi giorni, ma solo ieri è arrivata la notizia, da fonti non ufficiali, che il padrino è in fin di vita. Tenuto in coma farmacologico nel Reparto detenuti dell'ospedale di Parma, dove è ricoverato da tempo. Dal Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria, hanno spiegato che negli ultimi giorni era stato sottoposto a due interventi. Dopo l'ultima operazione sono intervenute complicazioni che hanno costretto i medici a sedarlo. Negli ultimi tempi era completamente dipendente dall'aiuto degli infermieri, aveva «difficoltà nel compiere qualsiasi movimento» e non riusciva a parlare normalmente. Il boss però fino a pochi mesi fa era «vigile e collaborante». Dopo l'estate, le sue condizioni sono precipitate. Il via libera alla famiglia fa pensare che non rimanga molto tempo al boss di Cosa Nostra sottoposto dal 15 gennaio 1993 al regime del 41 bis, il regime di carcere duro riservato ai condannati per reati di mafia, varato proprio durante gli anni di Cosa Nostra guidata da Riina.

Il re delle stragi mafiose. Il boss di Corleone ha pianificato le stragi mafiose. La prima, poco conosciuta, quella di Viale Lazio nel 1969 contro il boss Michele Cavatai o. Ultimi, gli attentati del '92 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e quelli del '93 a Firenze, Roma e Milano. Nello stesso anno l'arresto, dopo 24 anni di latitanza. Fu proprio Riina a decidere di inaugurare la stagione delle bombe e degli attacchi allo Stato. Il super boss non ha mai lasciato le redini di Cosa Nostra. Tre anni fa, in carcere a Opera, continuava a minacciare di morte i magistrati e prendeva di mira il Pm Nino Di Matteo, che stava indagando sulla trattativa Stato mafia.

Il decesso inevitabile del capo dei capi. Ieri era anche l'87 esimo compleanno del padrino e l'unico segnale arrivato dalla famiglia è un post del figlio su Facebook per la ricorrenza. «Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà. Ti voglio bene, tuo Salvo», ha scritto il terzogenito dei quattro figli del boss e di Ninetta Bagarella. Il post ha ricevuto centinaia di like e commenti. In molti hanno voluto fare gli auguri al padre. A luglio i suoi legali avevano chiesto il differimento della pena proprio per ragioni di salute. La Cassazione aveva chiesto al tribunale di sorveglianza di Bologna di motivare la carcerazione, facendo presente che anche il boss ha diritto alle cure. Il tribunale spiegò che all'ospedale di Parma Riina avrebbe potuto avere tutta l'assistenza necessaria alle sue condizioni di salute. Garanzie concesse a un fuorilegge che di concessioni non ne ha mai fatte. Quando ha parlato dal carcere, lo ha fatto per pronunciare sentenze di morte o per minacciare magistrati o rivali. "Spero che trovi il coraggio di pentirsi - conclude il collega parmense - non ha mai ammesso di essere il capo dei capi, ma anche se sedato continuava a comunicare il suo odio e la sua voglia di rivincita nei confronti di chi lo ha costretto a 24 anni di vita carceraria. Pace all'anima sua!"

E' morto Totò Riina, il "capo dei capi". Il boss mafioso da 24 anni era al 41 bis. Il capo della mafia siciliana è deceduto alle 3,37 nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma. I familiari non hanno fatto in tempo a vederlo vivo, nonostante il permesso del ministro. La figlia su Fb: "Silenzio". Gli ultimi misteri del padrino di Corleone nelle sue intercettazioni in carcere, scrive Salvo Palazzolo il 17 novembre 2017 su "L'Espresso-Repubblica". Alle 3,37 Totò Riina ha smesso di vivere, non è sopravvissuto agli ultimi due interventi e a cinque giorni di coma. Era ricoverato nel reparto detenuti dell'ospedale Maggiore di Parma, in regime di 41 bis (il carcere duro per i reclusi più pericolosi) ormai da 24 anni. E' stata disposta l'autopsia "trattandosi di un decesso avvenuto in ambiente carcerario e che quindi richiede completezza di accertamenti, a garanzia di tutti", spiega il procuratore di Parma, Antonio Rustico. I familiari non sono riusciti a incontrarlo prima che morisse, nonostante il permesso straordinario ricevuto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri, viste le condizioni del detenuto, aveva autorizzato la visita. Secondo indiscrezioni, la figlia minore del boss è rimasta a Corleone. Riina aveva quattro figli: uno è detenuto e sta scontando l'ergastolo per quattro omicidi, mentre il minore, dopo una condanna a otto anni per mafia, è sorvegliato speciale. La più piccola delle due figlie femmine vive a Corleone, la maggiore invece si è trasferita da anni in Puglia. Sulla sua pagina Facebook la figlia di Totò Riina, Maria Concetta, sembra lanciare un messaggio che poi è un'indicazione, data subito dopo la morte del padrino. La foto del profilo è una rosa nera, sovrastata dal volto di una donna che emerge da un sfondo scuro e un dito che "taglia" la bocca con su scritto "shhh", silenzio. Riina si è portato per sempre nella tomba i suoi segreti. "Ne dovrebbero nascere mille l'anno come Totò Riina", ripeteva in carcere al suo compagno dell'ora d'aria, il boss pugliese Alberto Lorusso. Tre anni fa. E poi si vantava della morte di Giovanni Falcone: "Gli ho fatto fare la fine del tonno". La stessa fine che invocava per il pm Nino Di Matteo: "Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono". Come sempre, manie di grandezza mafiosa, ma non solo. Il capo dei capi della mafia siciliana ha sempre perseguito una lucida strategia in carcere, quasi un'ossessione: ribadire il ruolo che ha svolto nell'Italia degli ultimi quarantanni e allontanare l'idea che sia stato un pupo, un burattino nelle mani di forze occulte annidate dentro lo Stato. "Sono diventato una cosa immensa, sono diventato un re - sussurrava a Lorusso - se mi dicevano un giorno che dovevo arrivare a comandare la storia... sono stato importante". Lui e solo lui, Totò Riina.  E, allora, anche la trattativa con uomini dello Stato, di cui parlò per la prima volta ai magistrati il suo pupillo Giovanni Brusca nel 1996, gli stava stretta. Lo disse chiaramente Riina agli agenti della polizia penitenziaria, mentre stava per essere portato nella saletta delle videoconferenze per assistere al processo di Palermo, di cui non ha perso un'udienza: "Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me". Quella voglia di esternazioni portò i pubblici ministeri di Palermo a disporre le intercettazioni dei colloqui durante l'ora d'aria, per cogliere ancora meglio i pensieri di Riina, che in carcere parlava e straparlava con il compagno di passeggiate (solo all'aperto, mai nella saletta della socialità), davanti ai giudici invece non apriva bocca. Così, microspie e telecamere hanno fatto emergere la vera natura di Cosa nostra. Che pone ancora tanti interrogativi. Riina ha confermato quanto Giovanni Falcone ripeteva: ufficialmente, Cosa nostra non prende ordini da forze esterne. Ma qualcuno, in Cosa nostra, ha avuto intense relazioni con uomini della società civile, della politica e delle istituzioni. Relazioni ancora avvolte da tanti, troppi misteri. Lo diceva anche Riina. Si vantava dell'omicidio del generale Dalla Chiesa: "Quando ho sentito alla televisione, promosso nuovo prefetto di Palermo, distrugge la mafia... prepariamoci gli ho detto, mettiamo tutti i ferramenti a posto, il benvenuto gli dobbiamo dare". Ma in un'altra occasione, Riina precisava che Cosa nostra non c'entra niente con le carte scomparse dalla cassaforte del prefetto. "Io ho fatto sempre l'uomo d'onore, la persona seria", diceva. E ancora: "Io sono un gran pensante. Io sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto". Lo ribadiva anche per Borsellino. Rivendicava la strage nel corso di quelle ultime intercettazioni, ma teneva a precisare: "I servizi segreti gliel'hanno presa l'agenda rossa". E in un altro passaggio ricordava la risposta data al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari durante un interrogatorio in cui gli era stato chiesto di suoi eventuali contatti con i servizi segreti: "Se mi fossi incontrato con questi, non mi chiamerei più Salvatore Riina". Nella "versione di Riina" lui era sempre il boss duro e puro. Ma poi gettava ombre sui suoi compagni. "Mi spiace prendere certi argomenti - diceva dell'amico di sempre, parlando della stagione delle stragi - questo Binnu Provenzano chi è che gli dice di non fare niente? Qualcuno ci deve essere che glielo dice. Quindi tu collabori con questa gente... a fare il carabiniere". Negli ultimi tempi, Riina accusava anche i fedelissimi Madonia di rapporti con uomini dello Stato: "Erano confidenti dei servizi segreti". E pure al pupillo Matteo Messina Denaro dava del "carabiniere". Riina ha continuato a essere il mafioso di sempre, ha provato fino all'ultimo a dire tutto e il contrario di tutto. Per non far distinguere la verità, quella che cercano ancora i magistrati. "Bisognerebbe ammazzarli tutti", diceva lui. "C'è la dittatura assoluta di questa magistratura". Sono state le sue ultime parole intercettate. Adesso, molti dei segreti di Riina li conserva uno dei suoi rampolli, cresciuto accanto a lui durante la stagione delle stragi: il superlatitante Matteo Messina Denaro, ormai diventato un fantasma da quei giorni del 1993.

Totò Riina, il boss che fece la guerra allo Stato. Da Corleone a Palermo, la scalata del "viddano" diventato il tiranno di Palermo. Fra complicità e affari, scrive il 17 novembre 2017 "La Repubblica". In carcere, la prima volta, entra che ha da poco compiuto 18 anni. Un "battesimo" criminale precoce e un'accusa grave: l'omicidio di un coetaneo, durante una rissa, per cui viene condannato a 12 anni. Nato a Corleone il 16 novembre del 1930 da un famiglia di contadini - perderà presto il padre e il fratello, morti mentre cercavano di estrarre della polvere da sparo da una bomba inesplosa -, Totò Riina, morto stanotte nel reparto detenuti del carcere di Parma, fino ad allora ha alle spalle solo qualche furto. Poca roba, fino all'incontro con Luciano Leggio, all'epoca mafioso rampante che sta tentando di farsi strada. E' lui, suo compaesano che per un errore di trascrizione di un brigadiere passerà alla storia come Luciano Liggio, a farlo entrare in Cosa nostra. Un metro e 58, che gli vale il soprannome di Totò U Curtu, esce dall'Ucciardone nel 1956, a pena scontata solo in parte, e viene arruolato nel gruppo di fuoco di Leggio che dietro di sé lascia una lunga scia di sangue. La lotta per il potere di "Lucianeddu" e dei suoi comincia nel 1958 con l'eliminazione di Michele Navarra, medico e boss di Corleone.  Leggio ne azzera il clan e ne prende il posto. Totò diventa il suo vice. Nella banda c'è anche un altro compaesano, Bernardo Provenzano.  Nel dicembre del 1963 Riina viene fermato da una pattuglia di carabinieri in provincia di Agrigento: ha una carta di identità rubata e una pistola. Torna all'Ucciardone per uscirne, dopo un'assoluzione per insufficienza di prove nel 1969. Mandato fuori dalla Sicilia al soggiorno obbligato, non lascerà mai l'Isola scegliendo una latitanza durata oltre 20 anni.  Da ricercato inizia la sistematica eliminazione dei nemici: nel 1969, con Provenzano e altri uomini d'onore, uccide a colpi di mitra il boss Michele Cavataio e altri quattro picciotti in quella che per le cronache sarà la strage di viale Lazio. Due anni dopo è lui a sparare contro il procuratore di Palermo Pietro Scaglione.  L'ascesa in Cosa nostra, ottenuta col sangue e la violenza - sarebbero oltre 100 gli omicidi in cui è coinvolto e 26 gli ergastoli a cui è stato condannato -  è inarrestabile. E va di pari passo con i primi delitti politici: l'ex segretario provinciale della dc Michele Reina e il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Dopo la cattura di Leggio, Riina prende il suo posto nel triumvirato mafioso assieme a Stefano Bontate e Tano Badalamenti.  Farà poi allontanare quest'ultimo, accusandolo falsamente dell'omicidio di un capomafia nisseno. Ma è negli anni 80 che il ruolo suo e dei suoi, i viddani, i villani di Corleone che hanno sfidato la mafia della città, diventa indiscusso. Soldi a fiumi con la droga, gli appalti e la speculazione edilizia. E una conquista del potere a colpi di omicidi eclatanti e lupare bianche.  E' la seconda guerra di mafia. Il 23 aprile 1981 cade Stefano Bontate, "il principe di Villagrazia", il boss che vestiva in doppiopetto, frequentava i salotti buoni della città e controllava i traffici della Cosa nostra palermitana. Massacrato nel suo regno e nel giorno del suo compleanno. Diciotto giorni dopo, tocca al suo alleato, Totuccio Inzerillo, poi al figlio e al fratello: i parenti superstiti fuggono negli Stati Uniti e hanno salva la vita a patto di non tornare più in Sicilia. In poche settimane restano a terra decine di cadaveri. Riina la belva, come lo chiama il suo referente politico Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo del sacco edilizio, è feroce e spietato. Condannato in contumacia all'ergastolo durante il "maxiprocesso", viene inchiodato dalle rivelazioni dei primo pentito di rango, Tommaso Buscetta. Totò "u curto" si vendica facendogli uccidere undici parenti. Quando il maxi diventa definitivo e cominciano a fioccare gli ergastoli per gli uomini d'onore, il padrino dichiara guerra allo Stato. Una sorta di redde rationem con la condanna dei nemici storici come i giudici Falcone e Borsellino, a cui si doveva il maxiprocesso, e di chi aveva tradito. La lista di chi andava eliminato era lunga e contava anche i politici che, secondo il boss, non avevano rispettato i patti. E' la stagione delle stragi che il capo dei capi vuole nonostante non tutti in Cosa nostra siano d'accordo. Il 12 marzo muore Salvo Lima, proconsole andreottiano in Sicilia. Il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al boss restano però pochi mesi di libertà: il 15 gennaio del 1993 i carabinieri del Ros lo arrestano dopo 24 anni di latitanza. La moglie, Ninetta Bagarella che ha trascorso con lui tutta la vita, torna a Corleone con i quattro figli, Lucia, Concetta, Giovanni e Giuseppe Salvatore, tutti nati in una delle migliori cliniche private di Palermo. Gli ultimi periodi della latitanza la famiglia li trascorre in una villa degli imprenditori mafiosi Sansone, a due passi dalla circonvallazione. I carabinieri lo ammanettano poco lontano da casa: un arresto il suo su cui restano molti punti oscuri. La versione ufficiale lo vuole "consegnato" da un suo ex fedelissimo, Baldassare Di Maggio, il pentito che poi avrebbe raccontato del bacio tra Riina e Andreotti. Ma sulla cattura del capo dei capi gravano ombre pesanti: a tratteggiarle sono gli stessi magistrati che dal 2012 lo processano per la cosiddetta trattativa Stato-mafia in cui il boss avrebbe avuto, almeno inizialmente un ruolo. Sarebbe stato il compaesano, l'amico di una vita, Bernardo Provenzano, più cauto e, dicono i pentiti, contrario frontale all'attacco allo Stato, a venderlo ai carabinieri barattando in cambio l'impunità. Con la morte del padrino restano senza risposte molte domande: sui rapporti mafia e politica, sulla stagione delle stragi, sui cosiddetti delitti eccellenti, sulle trame che avrebbero visto Cosa nostra a braccetto con poteri occulti in una comune strategia della tensione. Riina non ha mai mostrato alcun segno di redenzione. Fino alla fine quando, al processo trattativa, citato dalla Procura è rimasto in silenzio.

Totò Riina è morto. E il boss di Cosa Nostra porta con sé tutti i suoi segreti. Latitante per 24 anni, in carcere dal 1993, il Capo unico ha trasformato la criminalità organizzata siciliana in organizzazione terroristica che è arrivata persino a dichiarare guerra allo Stato. E molti misteri verranno sepolti con lui nella tomba, scrive Lirio Abbate il 17 novembre 2017 su "L'Espresso". L'immagine sanguinaria di Totò Riina ha fatto da sfondo alla Sicilia per oltre quarant'anni. La sua ombra si è allungata su tutte le stragi mafiose e sui delitti eccellenti e molti misteri verranno sepolti con lui nella tomba. Fino al giorno della sua morte è rimasto il capo di Cosa nostra, unico e indiscusso dagli anni Settanta fino ad oggi, trasformando la mafia siciliana dai vecchi modi felpati e sanguinari a organizzazione terroristica-mafiosa che è arrivata pure a far la guerra allo Stato. Attraverso vecchie immagini ormai ingiallite, che conducono alla fine degli anni Settanta, è possibile calarsi in una Sicilia d’epoca dove si possono contestualizzare uomini e fatti e anche sensazioni di una società che in gran parte non sapeva o non voleva riconoscere i mafiosi. Ma ci conviveva. Molti lo hanno fatto per convenienza e altri invece per paura. La storia di Riina è soprattutto la storia di un gruppo di picciotti di Corleone, malridotti e spietati allo stesso tempo, che danno la scalata alla gerarchia di Cosa nostra, che fino ad allora aveva le sue regole, le sue leggi e una sia pur distorta moralità. Teorico della violenza totale e dell'inganno sistematico, all'interno di un progetto lucidissimo quanto folle, massacro dopo massacro, Riina spazza via l'organigramma eccellente del parlamento mafioso. Il capo corleonese cancella le regole a colpi di tritolo e come ha sostenuto il pentito Tommaso Buscetta, soltanto un potere superiore, una “entità”, è riuscita ad assicurargli una latitanza che si è protratta per 24 anni.

Una latitanza serena. Riina l’ha condivisa con la moglie, Ninetta Bagarella, e i quattro figli: Maria Concetta, nata nel 1974, Giovanni (1976), Salvatore Giuseppe (1977) e Lucia (1980). Tutti partoriti in una clinica di Palermo (storia incredibile per un latitante di mafia ricercato da tutti) e registrati all’anagrafe. Come se fossero una famiglia normale. Sono decine gli ergastoli a cui è stato condannato, fra questi anche quelli per l'uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e i loro poliziotti di scorta. Per il maxi processo a Cosa nostra i giudici hanno inflitto al boss il carcere a vita per una serie di delitti e stragi commessi a Palermo negli anni Ottanta: l'uccisione di Michele Reina, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa e la giovane moglie Emmanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo; e ancora per l'autobomba che uccise il consigliere istruttore Rocco Chinnici e i carabinieri che lo proteggevano. Riina ha ordinato migliaia di omicidi, molti dei quali li ha pure eseguiti di persona. Un sanguinario che ha messo a ferro e fuoco la Sicilia. Come nell’estate di terrore del 1979 quando ha scatenato l'infermo mafioso lasciando sull’asfalto decine di cadaveri. Fra tutti quello di un servitore dello Stato, un grande poliziotto che stava con il fiato sul collo dei corleonesi. Era Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo. Oltre a lui Riina ha ucciso e fatto uccidere carabinieri, magistrati, sindacalisti, giornalisti, medici, funzionari regionali e politici, compreso un presidente della Regione siciliana. Vittime innocenti di un conflitto che lui ha voluto per conquistare potere e territori. Nel 1981 la sua forza militare era ormai tale da consentirgli di eliminare a viso aperto tutti i capi delle famiglie che gli resistevano. Cominciò uccidendo il boss “don Piddu” Panno di Casteldaccia e poi il palermitano Stefano Bontate, l'uomo che offrì all'epoca protezione a Silvio Berlusconi: iniziò così la guerra di mafia, durata tre anni, che lasciò sulle strade del Palermitano circa mille morti. Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, gli unici in grado di resistere militarmente ai corleonesi, assistettero al sistematico sterminio dei loro amici e parenti, mentre l'intera compagine mafiosa tremava davanti a Riina. La sua latitanza è durata 24 anni e si è conclusa a Palermo il 15 gennaio 1993. Quando il volto del capo dei capi apparve per la prima volta in televisione, il giorno dell'arresto, sorprese tutti: nessuno immaginava che un personaggio così goffo, piccolo, dagli occhi spiritati, potesse essere il mafioso feroce che le cronache giudiziarie avevano dipinto. Riina nel 2010 parlando con suo figlio in carcere gli fa un lungo discorso. Riflette con il figlio sull'uccisione di Paolo Borsellino e critica l'atteggiamento di Giovanni Brusca che per l'attentato a Capaci ha svelato ogni retroscena, ma non ha saputo fornire indicazioni per la bomba del 19 luglio 1992. «Ho detto al magistrato che io il fatto di Borsellino l'ho saputo dalla televisione e non so niente». A Milano durante un'udienza aveva fatto un'altra uscita, ancora più esplicita per prendere le distanze dall'ordigno di via Palestro, esploso nel luglio 1993 quando era già in cella: «Non ne so nulla, ma bisogna capire quale fosse il vero obiettivo che si voleva colpire».

Più in generale, nell'incontro con il figlio confida: «Ho detto che Riina è capace di tutto e di niente. Però tuo padre è incredibile, quando tu credi sappia tutto non sa niente, ma come lui tanti di questi signori sono ridotti così. Quasi un po' tutti. Perché un po' tutti? Perché l'ultima parola era sicuramente la mia e quindi l'ultima parola non si saprà mai. Ci devi saper fare nella vita. Quando hai una possibilità se la sai sfruttare, l'ultima parola non la dici; te la tieni per te e puoi fare tutto su quest'ultima parola: gli altri non sanno niente e tu sei anche un po' “avvantaggiatello”. Questa è la vita a papà: purtroppo ci vogliono sacrifici, ho avuto la fortuna, in sfortuna, di trovarmi lì e sono andato avanti, certamente... sì. Non è di tutti eh?». E poi spiega: «Perché anche loro sbagliano e sbattono la testa al muro, non sanno... non sanno, questi sbattono la testa al muro perché non sanno dove andare. Questo è un segreto della vita...».

I segreti. La sua storia ha cercato di raccontarla, a modo suo, durante le ore di passeggio in carcere trascorse con un altro detenuto, al quale pochi anni fa ha trasferito ricordi e analisi di fatti criminali e retroscena inconfessabili che sono state registrate dalle microspie degli investigatori. Parole di un boss che hanno aperto dubbi e ipotesi su quella che è stata la stagione dei corleonesi e su quello che è stato il ruolo di Riina in fatti ancora oggi misteriosi e poco chiari. Durante un colloquio in carcere con il figlio fatto sette anni fa lanciava un messaggio fondamentale, quello di essere ancora forte. «Vivo solo e non ho contatti con nessuno. Mi volevano annientare così. Hanno sperimentato questo fatto: "Lo mettiamo solo e lo annientiamo, lo distruggiamo, lo finiamo". Devono sapere invece... che a me non mi distruggete». Una tenuta sintetizzata con una frase: «Facciamoci questa galera... Io a ottant'anni non lo so quanto si può campare ancora, stai tranquillo che cerco di tirare avanti. Io sono qua, come mi vedi, tranquillo e sereno che forse nemmeno potete immaginare». Addio Riina.

Totò Riina, storia del padrino di Corleone. Nato nel 1930, è stato latitante fino al giorno del suo arresto. Le tappe di una vita criminale, scrive Lirio Abbate il 17 novembre 2017 su "L'Espresso". Salvatore Riina era nato a Corleone il 16 novembre 1930. Il padre era un agricoltore. Entrato in clandestinità nel 1950, prima ancora di essere sfiorato da un ordine di cattura negli anni Settanta. E c'è rimasto fino al giorno della suo arresto. La latitanza l'ha condivisa con la moglie, Antonietta Bagarella, e i quattro figli: Maria Concetta, nata nel 1974, Giovanni nel 1976, Salvatore Giuseppe, nel 1977 e Lucia nel 1980. La moglie di Riina, Antonietta, è la sorella del boss Leoluca Bagarella. Maestrina delle elementari, fu la prima donna siciliana ad essere inviata al soggiorno obbligato. Per amore preferì un'altra strada, certo più difficile perché ha voluto unire il suo destino a quello di Salvatore Riina, amico inseparabile sin dalla più tenera infanzia dei suoi fratelli Calogero e Leoluca. La loro unione è stata consacrata nel 1966 da un matrimonio religioso. Lo celebrò padre Agostino Coppola, ambiguo mediatore in sequestri di persona e poi condannato per associazione mafiosa. Il rito si svolse in un appartamento al quinto piano di un anonimo condominio di largo San Lorenzo, a Palermo, dove la coppia ha vissuto in quegli anni, in latitanza. Quando i carabinieri vi fecero irruzione era un covo ancora caldo e in un cassetto vennero trovate le partecipazioni di nozze che la maestrina aveva scritto a penna, una per una. Solo nel 1994 Salvatore Riina ha potuto sposare, per lo Stato, Antonietta Bagarella. Lo ha fatto dal carcere con una procura. La strada criminale del vecchio padrino è stata seguita negli ultimi anni anche dai due figli maschi. Giovanni e Salvatore Giuseppe sono entrambi in carcere con l'accusa di aver fatto parte della cosca mafiosa di Corleone. Il primo è stato condannato all'ergastolo per un duplice omicidio commesso a Corleone. La figlia maggiore, Maria Concetta, è sposata, e si è trasferita a vivere in Puglia a Mesagne, mentre Lucia fa la pittrice e si è trasferita in una cittadina della svizzera.

Totò Riina: la storia e le foto del boss dei boss (1930-2017). Morto all'età di 87 anni, il capo dei corleonesi scontava 26 ergastoli. Dalla prima condanna nel 1949 alle guerre degli anni '80 alle stragi degli anni '90, scrive il 17 novembre 2017 Edoardo Frittoli su Panorama. È morto nella notte successiva al giorno del suo 87° compleanno il boss mafioso Salvatore Riina detto Totò "u curtu", il boss più sanguinario della storia di Cosa Nostra. La sequenza dei numeri 24, 25 e 26 marcano gli anni di regime di 41 bis passati da Riina nelle carceri di massima sicurezza, il numero degli anni di latitanza e il numero di ergastoli a cui il boss dei boss è stato condannato. Riina era nato a Corleone (Palermo) il 16 novembre 1930. Il boss dei boss di Cosa Nostra viene condannato per la prima volta nel 1949, a soli 19 anni. L'accusa è di omicidio di un coetaneo dopo un violento alterco ed il giovane Riina passa i suoi primi sei anni in carcere a Palermo. Tornato a Corleone si mette al servizio del capo dei mafiosi locali Luciano Liggio, al soldo del quale combatte la guerra di mafia contro la famiglia dei Navarra. Pochi anni dopo avere ucciso il rivale Michele Navarra viene nuovamente arrestato nel 1963. Al processo svoltosi a Bari viene assolto per insufficienza di prove e, una volta libero, Riina rimane in Puglia per poi essere trasferito a Corleone in regime di soggiorno obbligato, dal quale si sottrae in poco tempo entrando in latitanza. Il 10 dicembre 1969 torna alle cronache nazionali per il ruolo di esecutore nella cosiddetta "strage di viale Lazio" compiuta per eliminare il boss palermitano Michele Cavataio, alla quale partecipano Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella. Oltre al boss restano sul terreno altri quattro cadaveri. Due anni dopo Riina uccide il procuratore Pietro Scaglione, proseguendo l'ascesa ai vertici con una serie di sequestri a scopo di estorsione, tra cui spicca quello del figlio dell'industriale costruttore Giacomo Cassina, nella Palermo del sindaco Vito Ciancimino, di cui i corleonesi erano elettori. Morto il boss Liggio, Riina diventa reggente della cosca di Corleone, iniziando la guerra per il potere con gli ex alleati Badalamenti e Bontate legandosi a Provenzano. All'inizio degli anni '80 il boss elimina gran parte dei rivali, tra cui Salvatore Inzerillo e altri 200 affiliati nella "seconda grande guerra di mafia" a Palermo. Sono anche gli anni dell'infiltrazione dei corleonesi nella politica palermitana per tramite dell'esponente DC Salvo Lima, contro i cui avversari all'interno dello stesso partito si scatenò il fuoco delle armi di Riina: il 9 marzo 1979 è ucciso Michele Reina (segretario provinciale DC); il 6 gennaio 1980 è la volta di Piersanti Mattarella, fratello dell'attuale Presidente della Repubblica Sergio, allora a capo della Regione Siciliana e in contrasto con Ciancimino.

Il 30 aprile 1982 rimane ucciso Pio La Torre, l'esponente del PCI che aveva indicato i legami del sindaco di Palermo con Cosa Nostra. Gli anni '80 sono anche quelli del maxiprocesso di Palermo (iniziato nel febbraio 1986), dove furono imputati quasi 500 affiliati, tra cui Riina e gli altri boss indicati dai pentiti Tommaso Buscetta e Baldassarre di Maggio. Il ruolo dei collaboratori fece scattare l'epoca delle stragi dei loro familiari, bambini compresi. Le condanne pesantissime del 1992furono alla base dell'omicidio di Salvo Lima, che a giudizio dei corleonesi non era stato in grado di influenzare le sentenze. La strage di Capaci che costò la vita al giudice Giovanni Falcone a sua moglie ed alla scorta ed in seguito quella del collega Paolo Borsellino, aprirono la tragica stagione delle stragi di Milano, Roma e Firenze, indicate anche come la fase della "trattativa Stato-mafia". Totò Riina viene catturato dai Carabinieri del ROS guidati dal Capitano Ultimo il 15 gennaio 1993, mentre si trovava a poca distanza dalla sua abitazione a Palermo e dove aveva trascorso con la moglie e i figli parte della sua latitanza. L'arresto fu reso possibile dalle informazioni fornite dal suo ex-autista Baldassare Di Maggio, entrato nel mirino dei corleonesi dopo la collaborazione con gli inquirenti. I lunghi processi per le altrettanto lunghe liste di imputazione a carico di Riina si aprono nel 1992 quando il boss era ancora contumace. Tutte le condanne all'ergastolo (tranne quella della strage del Rapido 904) sono confermate: il boss dei boss ne ha accumulati ben 26. Dal 1995 al 2001 viene rinchiuso all'Asinara e Ascoli Piceno in regime di isolamento (41bis), revocato temporaneamente e poi nuovamente applicato per una serie di minacce ad esponenti della magistratura trapelate dal carcere. Nel 2003 Riina subisce un primo intervento chirurgico a causa di un infarto. Trasferito nel carcere di massima sicurezza di Opera(Milano), nel 2006 è ricoverato nuovamente per insufficienza cardiaca. Durante il processo sulla trattativa Stato-mafia Riina invia minacce al pm Antonino di Matteo, uno dei suoi più grandi accusatori nei processi a suo carico. Trasferito a Parma, passa i suoi ultimi mesi nella struttura ospedaliera dell'istituto di detenzione. Muore dopo essere entrato in coma nelle prime ore del mattino del 17 novembre 2017.

È morto Totò Riina, Capo dei Capi di Cosa Nostra, scrive il 17 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Aveva appena compiuto 87 anni. Rosy Bindi (Antimafia): “La fine di Riina non è la fine della mafia siciliana che resta un sistema criminale di altissima pericolosità”. È morto alle 3.37 nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma il boss Totò Riina. Ieri aveva compiuto 87 anni. Operato due volte nelle scorse settimane, dopo l’ultimo intervento era entrato in coma. Riina, per gli inquirenti, nonostante la detenzione al 41 bis da 24 anni, era ancora il capo di Cosa nostra. Riina era malato da anni, ma negli ultimi tempi le sue condizioni erano peggiorate tanto da indurrei legali a chiedere un differimento di pena per motivi di salute. Istanza che il tribunale di Sorveglianza di Bologna ha respinto a luglio. Ieri, quando ormai era chiaro che le sue condizioni erano disperate, il ministro della Giustizia ha concesso ai familiari un incontro straordinario col boss. Riina stava scontando 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del ’92 in cui persero la vita Falcone e Borsellino e quelli del ’93, nel Continente. Sua la scelta di lanciare un’offensiva armata contro lo Stato nei primi anni ’90. Mai avuto un cenno di pentimento, irredimibile fino alla fine, solo tre anni fa, dal carcere parlando con un co-detenuto, si vantava dell’omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati. A febbraio scorso, parlando con la moglie in carcere diceva: “sono sempre Totò Riina, farei anche 3.000 anni di carcere”. L’ultimo processo a suo carico, ancora in corso, era quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, in cui è imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato. Ieri, nel giorno del suo 87esimo compleanno, il figlio Giuseppe Salvatore, che ha scontato una pena di 8 anni per mafia, ha pubblicato un post di auguri su FB per il padre. “Massimo riserbo. Al momento nessun commento”. Luca Cianferoni, uno degli avvocati storici di Totò Riina, il boss di cosa nostra morto la notte scorsa, vuole aspettare prima di fare dichiarazioni. Nel giugno scorso, durante una delle udienze del processo d’appello per la strage del treno 904 a Firenze, Cianferoni era tornato a chiedere “la detenzione domiciliare ospedaliera” per Riina, le cui condizioni già allora, disse, si erano “aggravate”. “Ha diritto a morire dignitosamente – aggiunse l’avvocato -: non abbiamo mai chiesto che torni a casa, ma che sia assistito in ospedale”. Nel mese di luglio il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva respinto la richiesta.

LE REAZIONI. “La fine di Riina non è la fine della mafia siciliana che resta un sistema criminale di altissima pericolosità”. Lo dichiara Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, commentando la morte del boss 87enne, che “è stato il capo indiscusso e sanguinario della Cosa Nostra stragista. Quella mafia era stata già sconfitta prima della sua morte, grazie al duro impegno delle istituzioni e al sacrificio di tanti uomini coraggiosi e giusti”. Bindi aggiunge quindi “non possiamo dimenticare quella stagione drammatica, segnata dal delirio eversivo di un uomo spietato, che non si è mai pentito dei suoi crimini efferati e non ha mai collaborato con la giustizia. A noi resta il dovere di cercare le verità che per tutti questi anni Riina ha nascosto e fare piena luce sulle stragi che aveva ordinato”. “La pietà di fronte alla morte di un uomo non ci fa dimenticare quanto ha commesso nella sua vita, il dolore causato e il sangue versato. Porta con sé molti misteriche sarebbero stati fondamentali per trovare la verità su alleanze, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla”. È quanto afferma il presidente del Senato, Pietro Grasso, in un post pubblicato su Facebook, a proposito della morte di Totò Riina. “Resta il forte rimpianto che invita non ci abbia svelato nulla della stagione delle stragi e dei tanti misteri che sono legati a lui”. Lo ha detto Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia, a proposito della morte del boss Totò Riina. “Per lui – ha aggiunto – questo sarà il momento più difficile perché dovrà presentarsi davanti al tribunale di Dio a rendere conto del sangue e delle lacrime che ha fatto versare a degli innocenti”. “Posso perdonare mio figlio se fauna cazzata. Mi ci incazzo e poi lo perdono. Ma un assassino, un criminale: che cosa significa perdonare? C’è una legge”. Così Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, arrivando a un incontro con gli studenti all’Itc di San Lazzaro di Savena (Bologna) nel giorno della morte di Totò Riina. “Mi hanno chiesto se era giusto tenerlo al 41 bis – ha aggiunto Borsellino riferendosi al regime di carcere duro cui il boss era sottoposto -. Ma Riina aveva 26 ergastoli, tutti di tipo ostativo cioè che non prevedono riduzioni di pena. Difronte a questo che cosa significa? Sovvertiamo la legge? La condanna è tale se c’è la certezza della pena. Ma se non c’è la certezza della pena e qualcuno pensa che anche un assassino come Totò Riina possa essere messo fuori allora la certezza non esiste più. E senza questa certezza le leggi non vengono rispettate”.

Ritratto di Totò Riina, «’U curtu», il boss delle stragi. Da Corleone ha sfidato lo Stato senza mai svelare i suoi segreti, scrive Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera" il 17 novembre 2017. E così la parabola terrena e mafiosa di Totò Riina sembra davvero finita. Di sicuro quella di capomafia, come in qualche modo certifica la decisione del ministro della Giustizia Orlando di derogare alle regole ferree del «41 bis» consentendo a moglie e figli di stargli vicino (compreso Salvo, «libero vigilato»). Ma è una fine raggiunta da «guida di Cosa nostra» tuttora riconosciuta dagli altri uomini d’onore, come hanno scritto gli analisti della Dia nella loro ultima relazione. È stato il boss che ha imposto la sua dittatura dentro Cosa nostra, il piccolo padrino che ha scalato le gerarchie imponendosi a colpi di mitragliette, tritolo e «tragedie», e dichiarò guerra allo Stato. Per obbligarlo a una nuova convivenza, dopo quella con la vecchia mafia che lui aveva piegato ai suoi voleri. Con gli omicidi e le stragi del 1992 sferrò l’attacco più violento, uccidendo gli ex amici come Salvo Lima e Ignazio Salvo, e i nemici storici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tra i pochi a capire da prima la pericolosità della sua strategia. Per Riina si rivelò un errore fatale: lo Stato, quel che ne restava dopo Capaci e via D’Amelio, fu costretto a reagire come mai aveva fatto prima, e le cosche dovettero subire una controffensiva mai vista. Trattativa o non trattativa, l’ala terroristica e corleonese fu travolta e sgominata. A cominciare proprio dalla caduta del «capo dei capi», primo arrestato eccellente di una stagione cominciata nel gennaio 1993. Su quell’arresto, nonostante i processi conclusi con le assoluzioni, le zone d’ombra non si sono mai dissipate del tutto. Ma anche le ipotesi e le illazioni più «dietrologiche» sulla fine di quella venticinquennale latitanza fanno comunque parte di una sconfitta. Magari a vantaggio di una mafia diversa, meno violenta e forse più insidiosa, ma comunque sconfitta. Arrivata però dopo una stagione di sangue e di trame che ha provocato montagne di cadaveri, ricatti e svolte drammatiche nella storia repubblicana. Anche in quel drammatico 1992: le morti di Falcone e Borsellino, insieme alle inchieste su Tangentopoli, hanno deviato in maniera irreversibile il corso della politica italiana. E lui, ’u curtu che si credeva grande, ha continuato a considerarsi un vincitore fino alla fine. Negli ultimi venticinque anni di galera e di processi ha lasciato parole e immagini in cui s’è solo incensato. Dalle prime apparizioni nelle aule giudiziarie, quando sfidava i pentiti nei confronti (sebbene ne uscisse regolarmente battuto), alle dichiarazioni contro i giudici e i «comunisti» che lo volevano incastrare a ogni costo, fino all’autonarrazione affidata alle microspie che registravano i suoi colloqui con il figlio maggiore Giovanni, mafioso ergastolano pure lui. «Tu sai che papà se la cava, tu pensa sempre che papà è fenomenale – gli disse in un incontro del 2010 —. Sono un fenomeno. Tu lo sai che io non sono normale, non faccio parte delle persone uguali a tutti, sono estero... Nella storia, quando poi non ci sono più, voialtri dovete dire e dovete sapere che avete un padre che non ce n’è sulla terra, non credete che ne trovate, un altro non ce n’è perché io sono di un’onestà e di una correttezza non comune». I figli diranno ciò che vorranno, ma la storia della mafia guidata da Totò Riina è quella di un’organizzazione criminale aggredita al suo interno dal boss corleonese cresciuto a suon di bombe (vide scoppiare la prima quando suo padre saltò in aria nel 1943 mentre cercava di estrarre la polvere da un ordigno inesploso lasciato dagli americani, uccidendo se stesso e il figlio più piccolo), che dopo aver fatto fuori i mafiosi di «tradizione palermitana» decise di decapitare i vertici istituzionali della Sicilia. La «mattanza» che tra il 1979 e il 1983 ha tolto di mezzo i responsabili della politica, della magistratura e delle forze dell’ordine sull’isola non ha precedenti in nessun Paese occidentale. Provocando dubbi negli altri mafiosi, che per esempio hanno continuato a interrogarsi sui reali motivi che portarono all’uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, assassinato prima ancora che potesse fare qualcosa di concreto, mentre trovava i principali ostacoli all’interno dello Stato, più che nelle cosche. Ma in quella specie di autobiografia consegnata nel 2013 al suo compagno di passeggio in carcere, nonché alle «cimici» nascoste in cortile, non ci sono spiegazioni ai suoi comportamenti. Solo autoesaltazione, nuovi progetti di morte contro i «magistrati persecutori» e recriminazioni contro capimafia meno «onesti» e intelligenti di lui; per esempio il latitante Matteo Messina Denaro, accusato di pensare solo a se stesso abbandonando i detenuti. Ma fino alla fine ha voluto giocare il ruolo del più furbo. Forse consapevole (senza mai ammetterlo, però) di fare parte di un gioco più grande, ma gratificato dal ruolo ritagliato per se stesso. Già abbastanza sovradimensionato rispetto a un «corto» come Totò Riina.

L’ascesa di Riina, così “u Curtu” prese il posto di Liggio, scrive Paolo Delgado il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". È stato un’anomalia feroce e distruttiva. Durante il suo impero, amici e nemici sono morti a migliaia. Per trovare un altro nome capace di evocare al solo pronunciarlo l’ombra di Cosa nostra bisogna saltare nello spazio e nel tempo, al di là dell’Atlantico e negli anni ‘ 30, nel regno di Lucky Luciano, oppure sconfinare nell’immaginario, sino a quel don Vito che si chiamava come il suo paese, Corleone. Eppure nella storia di Cosa nostra Salvatore Riina, Totò “u curtu”, è stato un’anomalia assoluta, feroce, devastante e distruttiva. Perché Cosa nostra, a modo suo, è sempre stata una democrazia. Così l’aveva voluta Salvatore Lucania, detto Charlie “Lucky” Luciano, dopo aver stroncato nel sangue le ambizioni imperiali di Salvatore Maranzana. Nessun capo dei capi per Cosa nostra, al massimo un primus inter pares, un presidente con intorno una commissione a fare da governo. E così era sempre stata la mafia siciliana. Fino al golpe di don Totò e dei suoi corleonesi nel 1981, e all’instaurazione di una dittatura tra le più sanguinarie, con oltre tremila esecuzioni, finita solo quando “u Curtu”, dopo 24 anni di latitanza, fu arrestato il 15 gennaio 1993. Eppure nessuno sembrava meno destinato al ruolo di capo assoluto della più potente associazione criminale del “viddano” nato il 16 novembre 1930 a Corleone, poco distante da Palermo in termini di chilometri ma all’altro capo dell’universo nelle gerarchie mafiose. Di famiglia poverissima, orfano a 13 anni, col padre e un fratello saltati in aria mentre scrostavano una bomba inesplosa, condannato per omicidio a 19 anni e scarcerato 6 anni dopo, Riina era uno dei picciotti di fiducia di Luciano Leggio, braccio destro del capomafia locale, rispettato e temutissimo, il dottor Michele Navarra. Piccolo, baffuto, silenzioso e sempre serio Riina e i suoi amici d’infanzia e compagni della vita, Bernardo “Binnu” Provenzano e Calogero Bagarella, fratello di Ninetta, futura signora Riina, erano l’esercito privato di Leggio, i suoi uomini di mano e di fiducia. Guardando a ritroso, la differenza tra i corleonesi e il resto di Cosa nostra era già chiara sin dagli esordi, da quando senza curarsi di niente, rispetto, regole o gerarchie, lasciarono il potente Navarra steso in mezzo a una strada di campagna, il 2 agosto 1958, sorpreso col suo autista e fucilato senza esitazioni. Qualche giorno prima il medico aveva tentato di eliminare il suo ex campiere e braccio destro diventato troppo ambizioso, Leggio. Dopo l’omicidio eccellente fu proprio Riina a guidare la delegazione che doveva cercare la pace con gli uomini di Navarra. Accordo raggiunto con reciproca soddisfazione, se non fosse che proprio all’ultimo minuto, tra una pacca e l’altra, Riina aggiunse una condizione imprevista: la consegna «di quei cornuti che hanno sparato a Leggio». Un attimo dopo Provenzano e Bagarella cominciarono a sparare e la mattanza a Corleone finì solo quando tutti gli uomini di Navarra furono eliminati uno a uno. Quando approdarono a Palermo i corleonesi non avevano amicizie politiche, non avevano le mani in pasta negli affari grossi, che allora erano soprattutto gli appalti, non avevano eserciti a disposizione come i boss di prima grandezza come i Bontate, sovrani della famiglia palermitana di Santa Maria del Gesù o Salvatore Inzerillo, con le sue parentele altolocate, cugino del potente padrino di Brooklyn Carlo Gambino, o come don Tano Badalamenti di Cinisi. I corleonesi avevano dalla loro parte solo la fame, la determinazione e la disposizione alla violenza che avevano già dimostrato a casa loro. A Palermo salirono piano piano parecchi gradini. Riina si fece altri anni di carcere prima di essere assolto nel giugno 1969. Uscito di galera scomparve per 24 anni ma senza andare troppo lontano e continuando a scalare i vertici di Cosa nostra. Organizzò la strage di viale Lazio a Milano, che il 10 dicembre 1969 mise fine alla prima guerra di mafia. Furono ammazzati il boss Michele Cavataio e tre suoi uomini, ma ci rimise la pelle anche Bagarella, e Provenzano si guadagnò il soprannome di “u Tratturi”, il trattore, finendo Cavataio a colpi di calcio di pistola sul cranio. Quando Leggio, latitante nel Nord, entrò a far parte della Commissione, Riina fu delegato a rappresentarlo e quando il boss finì in carcere ne prese il posto, nel ‘ 74, lo stesso anno in cui coronava con le nozze il lungo fidanzamento con Ninetta Bagarella. Ma i “viddani” restavano la plebe di Cosa nostra. Il giro grosso ora erano gli stupefacenti, e a loro arrivavano le briciole, concesse con sprezzo e sufficienza da Stefano Bontate, “il principe di Villagrazia”. Ma Don Totò non era solo deciso e crudele. Era anche astuto. Lavorò nell’ombra conquistando quinte colonne in tutte le famiglie, incluso il fratello di Bontate. Nell’estate ‘ 81 passò all’azione con i metodi brevettati a Corelone: ammazzò Bontate, ammazzò Inzerillo, sterminò uno per uno tutti i fedeli dei boss nemici, poi, come capita spesso nelle dittature diventò diffidente, iniziò a vedere tradimenti ovunque e a sospettarli anche prima che si verificassero come quando fece ammazzare il suo killer di fiducia, Pino Greco “Scarpuzzedda” perché stava diventando troppo popolare tra gli uomini d’onore. Negli anni del suo impero di terrore amici e nemici sono morti a migliaia. Riina conosceva solo la guerra. Nel suo regno l’eliminazione di giudici e poliziotti scomodi diventò norma comune e dopo la sentenza definitiva nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino dichiarò guerra allo Stato: Lima, Falcone, Borsellino, poi la pianificazione delle stragi. Per la stessa Cosa nostra la sua dittatura è stata devastante: all’origine delle collaborazioni, dei pentimenti, c’è la sua ferocia, quella che lo spingeva a far ammazzare i nemici, e se non li trovava tutti i familiari. È stato il primo e l’ultimo imperatore di Cosa nostra, e forse, senza neppure rendersene conto, anche il suo più temibile nemico.

"Io, Riina, e l'infame Ciancimino". L'ex sindaco di Palermo e suo figlio. Le stragi del '92-'93. E Berlusconi. Per la prima volta, parla il capo dei Corleonesi all'ergastolo. Intercettato durante un colloquio in carcere, scrive Lirio Abbate il 16 settembre 2010 su "La Repubblica". Ho detto al magistrato che se nella vita vuole fare il procuratore, faccia il procuratore e faccia il suo dovere di fare il procuratore, e lo faccia bene. Io se sono Riina e lo faccio bene, stia tranquillo. Ognuno deve fare il suo mestiere, il suo lavoro, e lo deve fare bene. Chiuso". Potrebbe intitolarsi: "La mafia spiegata a mio figlio". Una lezione unica, del maestro più esperto: Totò Riina. Il padrino più feroce che ha cambiato Cosa nostra e la storia d'Italia, dopo 14 anni ha potuto incontrare per la prima volta il figlio Giovanni, anche lui detenuto. E, sapendo di essere intercettato, ha trasformato quel colloquio in una summa della sua esperienza criminale, alternando consigli pratici ("Sposati una corleonese e mai una palermitana") a messaggi sulle inchieste più scottanti ("Della morte di Borsellino non so nulla, l'ho saputo dalla tv"). Un proclama che ha alcuni obiettivi fondamentali: dimostrare che lui è ancora il capo di Cosa nostra, che il vertice corleonese è unito e, almeno nelle carceri, rispettato. Negare qualunque rapporto con i servizi e e ribadire invece la forza dei suoi segreti. Per questo la registrazione è stata acquisita agli atti delle procure antimafia. Era dal 1996 che non si potevano guardare in faccia. Solo lo scorso luglio si sono ritrovati l'uno davanti all'altro, divisi dal vetro blindato della sala colloqui del carcere milanese di Opera. Le prime parole sono normali convenevoli. Poi la mettono sullo scherzo. Totò non comprende perché "Giovannello" non è abbronzato. E il figlio spiega: "Perché nell'ora d'aria preferisco fare la corsa". Il boss insiste sulla salute: "Stai tranquillo che me la cavo. Tu sai che papà se la cava. Tu pensa sempre che papà è fenomenale. È un fenomeno. Tu lo sai che io non sono normale, non faccio parte delle persone uguali a tutti, io sono estero". Ci tiene a trasmettere di essere ancora forte, per niente piegato da 17 anni di isolamento: "Ti devo dire la verità, io sono autosufficiente ancora... Non devi stare in pensiero perché tu sai che papà se la sbriga troppo bene. Puoi dire ai tuoi compagni che hai un padre che è un gioiello". 

TRADIMENTI. Poi però entrano nelle questioni serie. Partendo da Bernardo Provenzano: è lui il traditore che ha trattato con lo Stato consegnando il capo dei capi ai carabinieri del Ros? "Ho fatto una difesa di Provenzano. Ai magistrati ho detto: quel Provenzano che voialtri dite che era d'accordo per farmi arrestare... Provenzano non ha fatto arrestare mai nessuno". I rinnegati per lui sono altri, più volte attaccati durante il colloquio: Vito Ciancimino e suo figlio Massimo, che con le sue dichiarazioni sta animando l'ultima stagione di inchieste. "Loro si incontravano con i servizi segreti, padre e figlio. Provenzano no. I magistrati durante l'interrogatorio non ci credevano, e gli ho detto: "E purtroppo... Provenzano no!"". Sull'uomo che assieme a lui è stato protagonista della più incredibile scalata mafiosa, che in mezzo secolo ha trasformato due contadini di Corleone nei padroni di Cosa nostra fino a sfidare lo Stato, su quel Provenzano che è stato il reggente del vertice della cupola fino al giorno dell'arresto si dilunga. Alternando segnali positivi a frecciate sibilline, riferite ai pizzini trovati tra ricotta e cicoria nel covo di Montagna dei Cavalli: "I magistrati mi hanno detto che sono troppo intelligente (facendo riferimento alla difesa di Provenzano, ndr) ed ho risposto che non è così. Non sapevo di avere un paesano scrittore. Il mio paesano (Provenzano, ndr) è scrittore, ma non si sedeva con gli sbirri per farmi arrestare. Il paesano queste cose non le fa". E sempre su Provenzano: "Onestamente è quello che è, non voglio soprassedere. Però farlo passare per uno che arresta le persone, non è persona di queste cose. I mascalzoni sono gli altri che lo vogliono far entrare. Perché Giovà devi essere onesto con lui: per me ha un cervello fenomenale per l'amor di Dio, ha un cervello suo quando fa lo scrittore e scrive... quindi solo lo scrittore può fare queste cose. Lo sapevi che papà lo difende lo scrittore? Gli dissi l'altro giorno che non sapevo che avevo uno scrittore al mio paese, io so che c'è uno scrittore che si chiama Provenzano ma incapace di farmi arrestare i cristiani (i mafiosi, nd.)". E torna ad accusare i due Ciancimino: "Qui infamoni sono padre e figlio e tutte queste persone perché devono far passare...". Il capo dei corleonesi riflette sulle frequentazioni che avrebbe avuto Provenzano e sulla confidenza che avrebbe dato a Ciancimino. "La gente bisogna delle volte guardarla dall'alto in basso e valutare se vale la pena frequentare certe persone. Quando io gliene parlavo a Provenzano di questi, gli dicevo che non ne valeva la pena, ma lui mi diceva: "Noo", ed io: "Ma finiscila, finiscila, vedi che non ne vale la pena". Adesso a distanza di tempo questo è il regalo che gli ho fatto". "Papà, hai avuto sempre un sesto senso per... Hai avuto sempre il sesto senso". "Giovà, ma lo sai perché, che cos'è? Il cervello sveglio, che sono più avanzato di un altro, più sveglio, hai capito perché?".

DOPPI SERVIZI. La questione dei servizi segreti aleggia in tutto l'incontro. Direttamente e per vie trasversali. Quando Provenzano venne arrestato, alcuni quotidiani narrarono un diverbio in carcere con il giovane Riina che avrebbe visto il padrino entrare nel penitenziario e lo avrebbe accolto insultandolo come "uno sbirro". Una versione impossibile: i boss al 41 bis non hanno contatti tra loro di nessun genere. Le indagini hanno fornito una ricostruzione suggestiva di questo falso episodio che porta a riflettere sul ruolo depistante che avrebbero avuto fino ai giorni nostri alcuni uomini degli apparati di sicurezza. È stato uno 007 infatti a riferire la falsa notizia del diverbio a Massimo Ciancimino, che poi ne ha parlato con un giornalista, come lui stesso ha detto ai pm. Su questo fatto indaga la Procura di Roma. Un altro mistero, che i due Riina chiariscono faccia a faccia. "Non è vero che tu lo incontravi in carcere... Come potevi incontrarti con Provenzano? Me lo devi dire", chiede il boss al figlio. "Una buffonata, una vergogna... Lo sai papà, non mi permetto nemmeno a dirlo a quelli che lo dovrebbero meritare determinate cose, immagina se me lo metto a dire a qualcuno che non lo merita". E Riina sintetizza la sua linea: "Ho voluto dirlo ai magistrati che con questi servizi segreti di cui parla lui (Ciancimino jr, ndr) io non ho mai parlato, non li conosco, anche perché se io mi fossi incontrato con uno di questi dei servizi segreti non mi chiamerei più Riina...". E conclude: "Mi hanno chiesto se conosco nessuno (il riferimento è ad uomini dei servizi, ndr). Non conosco nessuno, e se mi fossi incontrato con queste persone non mi chiamerei Riina. Minchia l'avvocato stava morendo, mi stava cadendo a terra...".

STRAGI SU STRAGI. Il vecchio corleonese autore e mandante di centinaia di omicidi e stragi riflette in carcere con il figlio sull'uccisione di Paolo Borsellino. Il boss critica l'atteggiamento di Giovanni Brusca che per l'attentato a Capaci ha svelato ogni retroscena, ma non ha saputo fornire indicazioni per la bomba del 19 luglio 1992. "Ho detto al magistrato che io il fatto di Borsellino l'ho saputo dalla televisione e non so niente". A Milano durante un'udienza aveva fatto un'altra uscita, ancora più esplicita per prendere le distanze dall'ordigno di via Palestro, esploso nel luglio 1993 quando era già in cella: "Non ne so nulla, ma bisogna capire quale fosse il vero obiettivo che si voleva colpire". Più in generale, nell'incontro con il figlio confida: "Ho detto che Riina è capace di tutto e di niente. Però tuo padre è incredibile, quando tu credi sappia tutto non sa niente, ma come lui tanti di questi signori sono ridotti così. Quasi un po' tutti. Perché un po' tutti? Perché l'ultima parola era sicuramente la mia e quindi l'ultima parola non si saprà mai. Ci devi saper fare nella vita. Quando hai una possibilità se la sai sfruttare, l'ultima parola non la dici; te la tieni per te e puoi fare tutto su quest'ultima parola: gli altri non sanno niente e tu sei anche un po' avvantaggiatello. Questa è la vita a papà: purtroppo ci vogliono sacrifici, ho avuto la fortuna, in sfortuna, di trovarmi lì e sono andato avanti, certamente... sì. Non è di tutti eh?". E poi spiega: "Perché anche loro sbagliano e sbattono la testa al muro, non sanno... non sanno, questi sbattono la testa al muro perché non sanno dove andare. Questo è un segreto della vita...".

PAPELLO E TRATTATIVA. Parlano anche del "papello", la lista di richieste in favore di Cosa nostra che secondo alcuni collaboratori di giustizia fra cui Giovanni Brusca, Riina avrebbe fatto avere nel 1992 a uomini dello Stato per far cessare le stragi. È la trattativa. Copia del "papello" è stata consegnata ai magistrati di Palermo da Massimo Ciancimino, il quale sostiene che suo padre lo avrebbe ricevuto perché fece da tramite fra i corleonesi e uomini dello Stato. Nel colloquio con Giovanni, il capo dei capi non smentisce l'esistenza di una lista con le richieste. Non smentisce che quel "papello" che oggi fa tremare ufficiali delle forze dell'ordine e politici sia esistito. A Giovannello dice solo che il foglio prodotto da Ciancimino "non è scrittura mia...". E aggiunge: "Giovà, nella storia, quando poi non ci sarò più, voi altri dovete dire e dovete sapere che avete un padre che non ce ne è sulla Terra, non credete che ne trovate, un altro non ce ne è perché io sono di un'onestà e di una coerenza non comune". Il capo dei corleonesi sembra non dare alcuna apertura di collaborazione, ma vuole far prevalere il suo ruolo di numero uno di Cosa nostra. Di boss che non parla con gli sbirri. "Ho chiuso con tutti perché non ho nulla a che vedere con nessuno. Il magistrato voleva farmi una domanda e gli ho subito detto: "Non mi faccia domande perché non rispondo". E lui non ha parlato, è stato zitto, perché io so mettere ko un po' tutti perché io ho esperienza Giovà, ho esperienza".

BAGARELLA. A un certo punto Riina senior chiude con stragi e servizi per affrontare questioni familiari. "Giovanni lasciamo stare, salutami lo zio quando gli scrivi". Lo zio a cui fa riferimento è Leoluca Bagarella, lo stragista che ha sulle spalle centinaia di omicidi. Un sanguinario che secondo alcuni pentiti nella sua vita avrebbe versato poche lacrime solo in occasione della morte della moglie che sembra essersi suicidata. La scomparsa della donna è ancora un mistero, come pure il luogo in cui è stata sepolta. Nei confronti di quest'uomo che non ha mai avuto pietà per le sue vittime, Totò Riina usa queste parole con Giovanni, forse facendo riferimento alla morte della moglie: "Rispettatelo sempre, che volete povero uomo sfortunato; anche lui nella vita proprio sfortunato nella vita per quello che gli è successo. Purtroppo questa è la vita e dobbiamo andare avanti". Le raccomandazioni di tenere unita la famiglia, e di pensare al futuro per Salvo, l'altro figlio che è pure lui detenuto e che nel 2011 finirà di scontare la pena per associazione mafiosa, vengono spesso ripetute. Non mancano i riferimenti alla passione comune che padre e figlio hanno: quella del ciclismo. "Il Giro d'Italia me lo seguo sempre", sottolinea Totò Riina, commentando le prestazioni di Petacchi, le sue volate e le vittorie. "Io spero sempre in Basso, però c'è questo Contador, è troppo forte, minchia è troppo forte questo!". E dal figlio vuole la conferma se legge sempre la "Gazzetta dello Sport". "Sì, sì, seguo tutto a livello sportivo...".

CIBO E POLITICA. L'unico accenno alla politica viene buttato in modo casuale, discutendo del vitto concesso dal governo: "Berlusconi, che io ci credo poco o niente...". Una battuta, verrebbe da credere, anche se il capo dei capi è un maestro nel calibrare le parole. Ne parla mentre consiglia al figlio di mangiare molta frutta ed elenca quali alimenti acquistare. "Perché io qui ho preso chili... Giovà, la vita che faccio io con questo signore... Berlusconi, che ci credo poco e niente, la vita che faccio con questo... io mangio come un pazzo e metto su chili".

Giovanni ribatte che in carcere si trova bene, e che si è pure iscritto a scuola per conseguire il diploma di Agraria. Ma suo padre ci tiene a precisare: "Cerca di non litigare con nessuno, comportati sempre bene, come mi sono sempre comportato io". Giovanni ribatte: "Ci vuole un po' di pazienza nella vita". "E noi ne abbiamo", risponde il padre. E aggiunge: "Riconosco che la galera è difficile, però uno se si mette in testa di non far del male agli altri, diventa facile, bisogna avere un po' di pazienza". Il figlio annuisce "ne abbiamo. Purtroppo sono già 14 anni che sono qua dentro ...". Ma Totò gli indica il suo esempio: "Giovanni, qui mi portano in braccio. Mi portano sul palmo delle mani... Mi rispettano tutti. Mi rispettano Giovà, sanno che sono tedesco, sanno che c'è profumo, qualcuno che... perché io non parlo. Io non gli rispondo, sanno che non parlo. Sono un ottantenne e conosco la vita che c'è fuori, il mondo che c'è fuori, quindi valuto tutto e tutti. E mi so regolare con tutti".

FERMARE I PENTITI. Il boss poi loda la moglie che lo ha sempre assistito restando al suo fianco, ma non scarica su di sé la colpa di "tutte le sofferenze" che la sua famiglia sta vivendo. Non a caso Totò Riina è stato sempre definito "un tragediatore" dai mafiosi che lo hanno conosciuto: parla con il figlio come se la loro detenzione non fosse la pena per stragi ordinate e omicidi commessi, ma solo colpa del fatto che "c'è gente disgraziata, gente infamona". Il riferimento è ai pentiti che lo accusano: "C'è gente meschina, ha fatto questo su minacce e su tutto? Perché sono nati tra i carabinieri? Sono nati tra gli infamoni? Sono nati spioni?". E Giovanni risponde: "Eh, ognuno sì... approfittatori... approfittatori". Il capo dei capi butta lì una frase che sembra indicare un suo tentativo per bloccare i pentiti. "Mi fermo lì, quello che ho potuto fare, io ringrazio pure a me stesso. L'ho fatto... ho cercato pure...". Giovanni comprende il senso di quello a cui il padre si riferisce e dice: "Però uno non è che può sempre...". Il capomafia bisbiglia al figlio una parola: "Questo Brusca...". E il discorso su questo argomento finisce così. I due parlano subito di altro. Il pensiero vola ancora a Salvo, il figlio minore che il prossimo anno lascerà il carcere. Il boss vuole che vada a lavorare a Firenze perché a Corleone "non ci può tornare". Ma il valore della famiglia e dei corleonesi Totò Riina cerca di spalmarlo in tutti i suoi discorsi: "Caro Giovanni, nella vita dovete capire che siamo di Corleone, non siamo palermitani, quindi, se avete determinazione, pensate di trovare una ragazza lì a Corleone, perché bene o male, bene o male, è sempre una corleonese". Giovanni contrasta questo discorso: "Però devo dire una cosa che il ragionamento mogli e buoi dei paesi tuoi, funzionava, un tempo; adesso purtroppo non è nemmeno così". E il padre: "Eh sì però c'è sempre questo fatto dei paesi tuoi... Dici: "Corleone non è più come i tuoi tempi" però a papà sempre una paesana bene o male sappiamo chi è la mamma, chi è la nonna, chi era il nonno, chi è il padre, invece alle volte...". Ma il messaggio fondamentale per lui è trasmettere di essere ancora forte. "Vivo solo e non ho contatti con nessuno. Mi volevano annientare così. Hanno sperimentato questo fatto: "Lo mettiamo solo e lo annientiamo, lo distruggiamo, lo finiamo". Devono sapere invece... che a me non mi distruggete". Una tenuta sintetizzata con una frase: "Facciamoci questa galera... Io a ottanta anni non lo so quanto si può campare ancora, stai tranquillo che cerco di tirare avanti. Io sono qua, come mi vedi, tranquillo e sereno che forse nemmeno potete immaginare".

Morto Totò Riina: il legame particolare tra Raffale Cutolo e il boss di Cosa Nostra, scrive il 17 novembre 2017 Fabiana Coppola su "Voce di Napoli". Totò Riina è morto alle 3.37 nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma il Capo dei capi della mafia, colui che comandava dal 41bis dove stava scontando 26 condanne all’ergastolo. Il capo di Cosa Nostra è morto dopo essere stato in coma per cinque giorni in seguito a un doppio intervento chirurgico. ‘O Curto era malato da anni, ma negli ultimi tempi le sue condizioni erano peggiorate, due tumori al rene avevano spinto i legali a chiedere un differimento di pena per motivi di salute. Il collegamento tra la mafia e la camorra esiste da tempo e c’è un episodio in particolare di Riina legato a Cutolo che rappresenta questo legame. Il rapporto tra la mafia e la camorra è sempre esistito e diverse sono state le situazioni in cui è stato possibile conoscere il connubio della camorra organizzata. Giorgio Mottola, giornalista della trasmissione Report, ha interamente ricostruito il ruolo della mafia siciliana sugli affari della camorra. l libro Camorra nostra parte dalla confessione dell’ex boss dei Corleonesi Franco Di Carlo ed è un’inchiesta corredata da documenti giudiziari, fonti testimoniali e ricerca di riscontri. Il giornalista tenta di ricostruire come la mafia di Totò Riina, il capo più spietato di cosa nostra il cui impero si basò sulla violenza, abbia influenzato e contribuito a fondare la nuova camorra degli Zaza, dei Nuvoletta, dei Bardellino e dei Mallardo. Nel testo c’è un episodio che racconta come Raffaele Cutolo, il boss più prestigioso che fondò la Nco (Nuova Camorra Organizzata) oggi rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Parma, si sia ribellato ai dettami della mafia sfidando il capo dei capi. L’aneddoto raccontato e riportato sulla testata il Fatto Quotidiano è il seguente: alla fine degli anni Settanta, in un vertice tra camorra e mafia Riina impone a Cutolo di affiliarsi puntatogli una pistola alla testa, ma il boss replica con queste parole: “O spari o ti piscio sulla pistola. Cutolo, però, aveva solo iniziato la sua sceneggiata. Si alzò e, piantandosi di fronte a Riina, aprì la patta e gli pisciò la scarpa”. Questi episodi, riportati nell’inchiesta di Mottola, fanno parte dell’interrogatorio del ‘Professore Vesuviano’ ancora oggi secretato.

Riina, quegli anni nel carcere di Padova con l'incubo del caffè al cianuro. Nel primo periodo della sua detenzione, tra il 1993 e il 1994, il boss di Corleone era sottoposto a misure rigidissime di isolamento per paura che potesse essere avvelenato. All'epoca si sperava che collaborasse, che rivelasse i suoi segreti. Speranza poi rivelatasi vana, scrive Andrea Gualtieri il 17 novembre 2017 su "L'Espresso". La "belva", come lo chiamavano, ha trascorso in gabbia poco più di novemila giorni. Isolato dal mondo per non permettergli di influire ancora sulle attività di Cosa Nostra. Ma non solo a quello scopo: nei primi anni di detenzione di Totò Riina c'era anche l'incubo di un nuovo caffè al cianuro, come quello che aveva stroncato in epoche diverse Gaspare Pisciotta e Michele Sindona. Siamo a Padova, tra il 1993 e il 1994. Attorno al capo dei capi, arrestato da pochi mesi, c'è una pressione enorme. Si spera ancora che dalla sua bocca possa uscire qualche parola che permetta di lanciare la scalata al livello più alto, quello dei mandanti politici delle stragi. Speranza vana, rivelerà la storia successiva, ma in quel momento l'uomo che conosce i segreti più abominevoli del Paese è ancora un potenziale obiettivo sensibile. Nella prigione veneta viene rinchiuso in una cella della sezione di massima sicurezza. Si trova in un mini reparto isolato, senza vicini di stanza. E a vigilare su di lui sono agenti di un nucleo selezionato di polizia penitenziaria. Ufficialmente nessuno sa della sua presenza, anche se in un istituto di reclusione "radio carcere" si diffonde presto. E gli interventi del boss nell'aula bunker di Mestre sono un'indicazione chiara, per gli addetti ai lavori: Padova è la "buca" di riferimento per i casi più delicati, in quell'area d'Italia. Sono pochissimi però a entrare in contatto con Riina. "Tutto funzionava con il meccanismo delle scatole cinesi, nessuno conosceva tutti gli ordini sulle procedure di sicurezza, ma solo la porzione che lo riguardava", racconta una fonte. E proprio sul cibo c'erano le restrizioni più forti. Niente servizio di mensa: il boss si doveva cucinare da solo in cella. Tanto che un funzionario di fiducia doveva andare all'esterno a fare la spesa: ogni giorno in un supermercato diverso, in gran segreto e senza scorta. Nessuno, in quel modo, avrebbe potuto avvelenarlo. "Consumava il pasto da solo, sotto lo sguardo degli agenti e in silenzio, come sempre". Raccontano che chiedesse solo di avere pane morbido. Il resto era in linea col personaggio: "Aveva 64 anni ma sembrava un anziano. Tanto dimesso da far pensare che in carcere al 41bis non avrebbe resistito a lungo". Sono passati invece 24 anni: è arrivato l'isolamento all'Asinara, poi Ascoli Piceno e il carcere milanese di Opera. Ma a quel punto si era già capito che Riina non avrebbe parlato.

Cattura e trasferimento all'Asinara. "Questa non me la dovevano fare", scrive "Live Sicilia" il 17 novembre 2017. "Questa proprio non me la dovevano fare". Secondo le cronache dell'epoca, Totò Riina reagì così quando realizzò di essere finito all'Asinara. Era la vigilia di Natale del 1993, il "capo dei capi" era stato catturato all'inizio di quell'anno. Dalla sfarzosa dimora palermitana si ritrovò catapultato nel bunker appena ristrutturato per lui. A Cala d'Oliva, oggi meta turistica dedicata alla memoria di un'epoca che l'istituzione del Parco non intende cancellare ma che non riesce neanche a superare, Totò Riina restò dal dicembre del 1993 al luglio del 1997. Ci arrivò a bordo di un elicottero dei carabinieri, poco dopo le 10, con appresso pochi effetti personali in una busta di plastica. Quando il mulinello di sabbia prodotto dalle eliche gli permise di aprire gli occhi, capì di essere finito nel carcere che i mafiosi temevano di più e si mise le mani in testa. Col suo trasferimento all'Asinara, caldeggiato anche dall'allora presidente della commissione Antimafia, Luciano Violante, si volevano azzerare le complicità che l'avevano aiutato a governare la "cupola" anche dopo l'arresto. Il 20 novembre Riina venne prelevato dal carcere palermitano dell'Ucciardone. Un aereo dell'Aeronautica militare lo condusse a Ciampino. Nel carcere romano di Rebibbia venne sgomberato un braccio per lasciargli spazio per una notte. La mattina dopo lo prelevò un elicottero dell'Arma che lo riportò a Ciampino, da dove partì per Alghero. Qui due elicotteri decollarono verso l'Asinara: in uno c'era Riina. Nell'isola Riina convisse con sé stesso e la sua coscienza, al buio, in pochi metri quadrati. Era sepolto vivo, senza contatti con l'esterno. A controllarne ogni minimo movimento, se possibile anche i pensieri, c'era il Nucleo interforze di vigilanza dell'Asinara: trenta guardie sarde, che per non farsi capire da lui parlavano "in limba". La permanenza nella cosiddetta "Cayenna sarda" fu il periodo più duro della sua detenzione. Quando ci arrivò, la sezione speciale di Fornelli ospitava altri 67 mafiosi in regime di 41 bis. Passò quasi un anno tra la sua cattura e il suo sbarco nell'isola: data la sua pericolosità e il suo potere, lo Stato prese ulteriori precauzioni e ristrutturò apposta per lui, a tempo di record, il bunker. "U curtu", il boss delle stragi, all'Asinara non si fidava di nessuno. Gli portava il pranzo il direttore del carcere, Gianfranco Pala, all'interno di una ventiquattrore. Riso, pastasciutta, fettine e pollo, ogni tanto del vino. Prendeva delle medicine per il mal di testa, per non correre rischi pretendeva che il medico aprisse le pillole e lasciasse il contenuto sul comodino, accanto ai libri dedicati alla vita di Sant'Alfonso de Liguori, di Sant'Antonio da Padova e di Santa Rita da Cascia. Anche andare a messa era troppo pericoloso. Lo spostavano solo per i processi di Palermo, poi tornava in esilio, dove rimase finché l'Asinara non si trasformò: da carcere a Parco naturale. La seconda settimana di agosto del 1985, sette anni prima delle stragi di Capaci e di via D'Amelio in cui vennero assassinati, anche i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono trasferiti d'urgenza per motivi di sicurezza all'Asinara con le famiglie. Per loro il posto più sicuro era quella prigione. La stessa che dopo la loro morte ha ospitato colui che è ritenuto il responsabile delle due stragi del 1992. Fu lì che prepararono la trama della la sentenza-ordinanza "Abbate Giovanni + 706": il maxi processo a Cosa Nostra. Forse fu anche per questo che Totò Riina, "u curtu", il "boss delle stragi", il "capo dei capi", quando arrivò a Cala d'Oliva esclamò: "Questa non me la dovevano fare".

"IO, VITTIMA DEI COMUNISTI". Scrive Pantaleone Sergi il 26 maggio 1994 su "La Repubblica". E' esplicito Totò Riina. Indica i suoi nemici. Nell' ordine il "signor Violante" e il "signor Caselli da Palermo". Poi il "signor Arlacchi". Messaggio chiaro: sono una "combriccola" comunista. Consiglia, quindi, al governo Berlusconi di guardarsi dai comunisti; aggiunge che lo Stato deve finirla con i pentiti perché tutti dicono cose false; si lamenta perché lo tengono segregato "come un cane". Ma non è lui il boss dei boss, il capo della cupola palermitana latitante per oltre venti anni, la "belva" che decideva vita e morte per amici e nemici? "Io non so niente, io ero latitante ma lavoravo per la mia famiglia...", ribadisce. Riina si fa sentire dalla gabbia, nell' aula-bolgia della Corte d' Assise di Reggio Calabria, stretta, affollata e infocata, dove si celebra il processo per l'omicidio del giudice Antonino Scopelliti, il Grande Accusatore della Cassazione, ucciso a Campo Calabro nel pomeriggio del 9 agosto 1991. Ora, a processo iniziato davanti al presidente Foti e 12 giudici popolari (nove donne e tre uomini), c' è notizia di un nuovo squarcio di verità che arriva da un pentito, l'ex padrino messinese Gaetano Costa che inchioda Riina e gli altri della cupola. Ma è il capo dei capi di Cosa Nostra, pantalone grigio scuro e camiciola a quadrettini bianchi e blu, a tenere banco con sicurezza durante una pausa del processo. Si parla di pentiti, di lotta alla mafia. Va a ruota libera il boss, dopo avere lamentato di non poter parlare perché "Riina non è Buscetta che può parlare di quello che vuole, anche di cose di 30 anni fa". Riina che ne pensa del nuovo governo? "Io del governo dico che un governo vale l'altro. I governi sono la stessa cosa. C' è solo uno strumento politico... il signor Violante...". Ora però non c' è Violante... "Ma c' è sempre il partito. Sono i comunisti che portano avanti queste cose: il signor Violante, il signor Caselli da Palermo. C' è tutta una combriccola... loro portano avanti queste cose. Il governo si deve guardare da questi attacchi comunisti". E' questo un consiglio che lei dà al governo? "Sì. Quello di guardarsi sempre dai comunisti. Mi dispiace se c' è qui pure qualche comunista... Sono le idee... C' è il signor Arlacchi che scrive. Che cosa scrive il signor Arlacchi? Sono idee comuniste, me lo lasci dire. Io sono un povero analfabeta, però...". Che ne pensa della legge sui pentiti? "Deve essere abolita. Sono gestiti, sono pagati, fanno il loro mestiere. Molti hanno pure lo stesso avvocato. L’avvocato Li Gotti perché difende dieci pentiti? Perché c' è un sottinteso... Tutti i pentiti si inventano tutto. Lo Stato deve finirla con questi pentiti. Sono quelli che fanno uccidere avvocati, magistrati...". Come “fanno uccidere”? "A Palermo un giudice si è sparato, a Caltanissetta un avvocato...". Ha saputo delle bombe ad amministratori di sinistra nel Palermitano? "Diranno che le ha messe Riina". E del dibattito in corso sulla legge, del convegno di Palermo? "Non so nulla, non posso sapere nulla. Io sto isolato da 16... da 17 mesi. Mi fanno fare una vita da cani. Mi danno la televisione e poi me la tolgono per mesi. Per farmi pentire. Ma io non ho niente di cui pentirmi". Allora perché è stato tanto tempo latitante? E durante la latitanza che faceva, opere di bene? "Durante la latitanza io lavoravo. Ho quattro gioielli di figli, ho una moglie giovane, giovanissima...". Ma perché i pentiti accusano proprio lei e non un altro? "Sono come Tortora. Processando me lo Stato copre tanti vuoti. Sono chiamato in causa dai pentiti per correità. Nessuno può dire Riina ha fatto questo o quest' altro. Conta il teorema, il teorema Buscetta...". Un pentito lo accusa di avere incontrato Andreotti. "Non conosco Andreotti, non l'ho mai incontrato, mai visto". E Lima, e i cugini Salvo? "Non conoscevo Lima, non conoscevo i Salvo" Queste le parole del boss. E fuori dall' aula è subito polemica. Intanto il processo viene aggiornato a luglio. Il difensore di Riina, Alessandro Scalfari (è stato anche il difensore calabrese di Luciano Liggio), ha chiesto e ottenuto che Andreotti venga come testimone. L' accusa, invece, vuole Gaetano Costa in aula. Il boss pentito ha già parlato con altri magistrati l'11 marzo scorso. Fu Costa, a far da tramite tra Cosa Nostra e quelli di "Cosa Nuova", l'ennesimo nome dell'organizzazione mafiosa calabrese, mettendo in contatto Giovanni Pullarà, con cui stava in carcere a Livorno assieme a Francesco Spadaro, con i Piromalli di Gioia Tauro. Il sostituto procuratore Giuseppe Verzera e il procuratore aggiunto Salvatore Boemi, partono con questa inedita deposizione d' accusa. Riina non muove un ciglio. Ai giornalisti aveva già detto: "Di Scopelliti, non so nulla. Mi hanno preso per i capelli e mi hanno messo qua. Speriamo bene...". Imputata è la cupola. Riina, Calò, Provenzano, Pietro Aglieri, il vecchio Procopio Di Maggio (che se ne sta silenzioso in un'altra gabbia) e gli altri. Che dice Gaetano Costa? Era l'inizio del 1991. Giovanni Pullarà e Francesco Spadaro uscirono dal carcere di Livorno per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, ma vi fecero ritorno poco dopo per il famoso decreto Martelli. Perché non si erano dati alla latitanza?, domandò Costa. La risposta fu semplice: "I vertici avevano sconsigliato la latitanza perché di lì a poco sarebbe intervenuto l'esito positivo della Cassazione". Secondo Costa "Pullarà e Spadaro erano sicuri che sarebbero stati assolti dalla Cassazione in quanto i loro capi gli avevano assicurato che grazie all' interessamento diretto di Salvo Lima, dell'onorevole Andreotti e dei Salvo di Salemi, il verdetto della Cassazione sarebbe stato per tutti gli imputati favorevole". "Ce li abbiamo in pugno", dissero i mafiosi dei politici. E poi c'era la parola di Riina: "Zu' Totò ha garantito che potevamo stare tranquilli". L' accordo non ci fu. C'era dunque da contattare i calabresi per tentare di corrompere il giudice Scopelliti. Costa li mise in contatto con i Piromalli di Gioia Tauro, "famiglia" influente. In Calabria andò Francesco Tagliavia, boss della Kalza, ma Scopelliti non volle sapere niente. Pullarà disse a Costa: "Stu curnutu unne vuole arrivare"? Era la condanna a morte. "La mafia", è il commento di Costa, "non è abituata a ricevere rifiuti alle sue richieste".

Holding da 150 miliardi. I beni presi a Riina? Briciole per "Mafia spa". Sequestrati al boss un'ottantina di milioni in passato e 1,5 a luglio. Il vero tesoro è altrove, scrive Luca Fazzo, Sabato 18/11/2017, su "Il Giornale". C'è una certa eleganza nel fatto che l'ultimo bene sequestrato a Totò Riina, prima che rendesse l'anima a Dio, sia stato un luogo sacro: i terreni del Santuario Maria Santissima del Rosario, nella sua Corleone. Anche quei campi, destinati a sostenere con i loro frutti l'attività pastorale, finanziavano in realtà il vecchio padrino e il suo clan. E ora che Riina non è più tra noi, forse quei beni potranno tornare nelle mani della Diocesi di Monreale, che all'indomani del sequestro si era mostrata comprensibilmente costernata. Insieme ai sacri terreni, i carabinieri del Ros nel luglio scorso portarono via ai familiari di Riina 32 conti correnti, per un totale di un milione e mezzo di euro. Importo cospicuo per un comune mortale, un po' deludente se confrontato al mito delle ricchezze di Cosa Nostra, agli studi macroeconomici che ne fanno la prima azienda del Paese, 150 miliardi di fatturato annuo, più di Exor, il doppio dell'Enel, il triplo dell'Eni. Così in quella occasione - e a maggior ragione oggi, con i resti di Riina avviati a illacrimata sepoltura - fu inevitabile tornare a interrogarsi sulla distanza profonda tra la mafia raccontata dalle analisi, la Spa planetaria di cui parlano pentiti e statistiche, e la realtà di beni terrigni, opulenti e rozzi che traspare dai provvedimenti di sequestro. Che poi è la stessa distanza tra l'immagine di un moderno boss imprenditore, ad di una Cosa Nostra ltd in grado di muoversi nell'economia globale, e il viddano semianalfabeta sepolto da un quarto di secolo in un carcere di massima sicurezza. Quale era il vero Totò Riina, come convivevano in lui i due volti? La domanda è cruciale, perché ne porta con sé un'altra: se Totò è stato fino alla fine il capo dei capi, dove approda adesso lo scettro del comando, a chi finisce il pacchetto di controllo della company? Se si frugano i 24 anni trascorsi dal giorno in cui «Ultimo» e «Vichingo» tirarono giù di peso 'u curtu dalla Citroen del suo autista, l'elenco dei sequestri a ripetizione di beni che hanno colpito lui, la sua famiglia fino al centesimo grado di parentela, e poi complici, compari e prestanome, non si può che restare delusi. Tesori, indubbiamente: ma tesori fatti di villini a Mazara e negozi di auto usate, libretti di risparmio e capannoni di periferia. L'ultimo censimento completo dei beni di Riina risale ormai a molti anni fa: 300 appartamenti e uffici, 38 appezzamenti di terreno, 1.685 ettari coltivati a vigneto. Valore totale, un'ottantina di milioni sequestrati dallo Stato. Okay, ma il resto? La spiegazione più ovvia è che quelli non sono i beni di Cosa Nostra ma il patrimonio personale di Riina, i fringe benefit accumulati negli anni. E che, al di sopra di questo inventario un po' mezzadrile, esista un altro livello, un universo parallelo dove i profitti miliardari di Cosa Nostra si sono riversati nel corso degli anni, riversandosi nella new economy e lavandosi nei circuiti della finanza. È chiaro che non potevano essere né Riina né Provenzano, che non hanno mai visto un computer in vita loro, a dirigere questo valzer di quattrini, e che anche lì, da qualche parte, devono muoversi le menti raffinatissime di cui parlava Falcone. Queste menti adesso con chi si rapporteranno, a chi daranno conto? Il principio è quello della continuità aziendale, come spiegò lo stesso Riina ai colletti bianchi che avevano fatto affari con la vecchia mafia palermitana, da lui sterminata e soppiantata: «Adesso rendete conto a me». Oggi è lui ad uscire di scena, non a colpi di kalashnikov in una strada di Palermo ma intubato nel verde asettico di una stanza d'ospedale. Poiché il crepuscolo di Riina è stato lungo, la transizione ha potuto venire trattata e organizzata con calma e cautela. E da qualche parte forse c'è già qualcuno - e non è detto che sia Matteo Messina Denaro - pronto a presentarsi agli gnomi che hanno le chiavi del caveau a ricordare che il padrino è morto, ma la ditta è viva.

Rischio guerra per la successione. L'investitura del latitante Messina Denaro è in forse, scrive Mariateresa Conti, Sabato 18/11/2017, su "Il Giornale". E ora che succede? Chi sarà il nuovo capo? La domanda nasce spontanea. E se la pongono, in ottica diversa, sia gli investigatori, che grazie anche ai nuovi pentiti cercano di ricostruire, sulla base di come Cosa nostra è cambiata, i possibili nuovi leader, sia gli stessi mafiosi. In Cosa nostra il dibattito è aperto, e da tempo: «E se non muoiono tutti e due, luce non ne vede nessuno... è vero zio Mario?», chiedeva nel 2015, intercettato dal Ros, Santi Pullarà, figlio di Ignazio, lo storico capo del mandamento di Santa Maria di Gesù a Palermo, a Mario Marchese, l'ultimo capomafia di Villagrazia. Ecco, Provenzano è morto un anno fa, Riina due giorni fa. La «luce» di cui parla l'intercettazione, la possibilità cioè di fare carriera, adesso c'è. E bisogna vedere come i boss in corsa la sfrutteranno, e soprattutto se la prospettiva è quella di una nuova, sanguinosa guerra di mafia. Un capo in pectore ci sarebbe. Ed è quel Matteo Messina Denaro che è inafferrabile ormai da 24 anni, lo stesso numero di anni di latitanza di Riina al momento della cattura, e che fino a qualche anno fa era considerato un fedelissimo del capo dei capi. Ma c'è più di un «ma» contro questa ipotesi. Intanto Messina Denaro è del Trapanese, e i palermitani, dopo anni di dominio «corleonese», potrebbero essere contrari a una sua incoronazione proprio per la sua provenienza. E poi critiche allo stesso Messina Denaro sono arrivate quando era in vita da Riina in persona. Nessuna confessione, del resto il capomafia ora defunto ha sempre proclamato: «Non mi pento, mi possono dare 3.000 anni di carcere». Ma qualche frase in libertà buttata qua e là nel 2013, durante l'ora d'aria con l'allora compagno di detenzione Alberto Lorusso: «A me dispiace dirlo questo... questo signor Messina (cioè Matteo Messina Denaro, ndr), questo che fa il latitante, che fa questi pali... queste...». Il riferimento è alle pale eoliche del Trapanese. «Eolici... i pali della luce...Questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di...». E poi giù considerazioni varie, l'ipotesi, vista negativamente, che fosse andato all'estero. Insomma, una scomunica vera e propria da parte di Riina, che all'epoca era il capo e che verosimilmente sospettava di essere ascoltato dalle cimici. E se non Messina Denaro, allora chi? I riflettori sono puntati su alcuni boss in via di scarcerazione. E in particolare, restando a Corleone, sul nipote prediletto di Totò Riina, Giovanni Grizzaffi, che è uscito dal carcere qualche mese fa. Non sembra però avere il carisma giusto per arrivare in cima. Come non sembrano averlo i boss palermitani che si dividono patrimoni e affari. La partita è aperta. E in quasi 25 anni, tanti ne sono passati dall'arresto di Riina, anche Cosa nostra è cambiata. Ritiene che Messina Denaro conterà il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi: «Non so che peso potrà avere ma la sua voce deve essere sentita». Per l'aggiunto Vittorio Teresi, pm del processo trattativa, i giochi sono già fatti: «Ormai le condizioni di Riina facevano facilmente prevedere che di lì breve sarebbe scomparso. Sono abbastanza certo che l'organizzazione si sia mossa per prendere le decisioni necessarie, o una gestione collegiale dei vertici o un tentativo di qualcuno di forzare la mano».

Invisibile, silenzioso, pericoloso: dopo Riina viene Messina Denaro. Messina Denaro è l’espressione della nuova mafia. Più trapanese che palermitana, più tecnologica che rurale, più strategica che vendicativa. E ancora più pervasiva e horror di quella di prima, scrive Roselina Salemi il 18 Novembre 2017 su "L’Inkiesta". Totò Riina aveva indicato il suo nome nel 2013, in carcere, ed era certo che lo stessero intercettando. Era il suo modo di farlo sapere “ufficialmente”. L’Espresso gli ha dato una copertina, “Forbes” che adora le classifiche, nel 2010 l’ha incluso nella short list dei dieci latitanti più ricercati del mondo. Tutta roba che fa curriculum e alimenta il suo mito. L’Assenza. La Ribellione. La musica dei kalashnicov. Odore di zolfo. Un che di demoniaco. Tutta roba che non fosse drammaticamente vera potrebbe stare in un gangsta-rap. Ora che è Riina è morto portandosi dietro parecchie domande senza risposta, Matteo Messina Denaro è il suo logico successore. L’ex ragazzo rampante, figlio del capo-mandamento di Castelvetrano, latitante dal 1993, sfuggito al SISDE, alla DIA, a chiunque, ha ereditato (o fatto sparire, dicono) il suo archivio segreto. Lo chiamavano “u siccu” (il magro) era un tipo freddissimo, di poche parole. Nato come killer puntava a far carriera e Riina ha condiviso con lui non poche decisioni. Non sappiamo quasi niente della sua vita privata. Ha scritto ingenue lettere d’amore e Maria Mesi (e questo nel 2000 le è costato una bella accusa di favoreggiamento), ha avuto da Francesca Alagna una figlia forse non ha mai conosciuto, gli piace il calcio e ha problemi agli occhi (sempre stato miope) curioso contrappasso per uno che, al contrario, ha la vista lunga. Messina Denaro è l’espressione della nuova mafia che i pizzini non li disdegna, ma è più trapanese che palermitana, più tecnologica che rurale, più strategica che vendicativa. Sicuramente simili, uomini invisibili eppure onnipresenti, Riina, il rappresentante della vecchia mafia dei pizzini e Messina Denaro, l’espressione della nuova, che i pizzini non li disdegna, ma è più trapanese che palermitana, più tecnologica che rurale, più strategica che vendicativa, sono in realtà piuttosto diversi. E chissà che questo non crei qualche problema all’incoronazione, anche se nel tempo l’opposizione interna è stata sterminata. Quello di cui nessuno parla, perché è un tema fastidioso, impalpabile, è il consenso che lo circonda e che per istinto la società civile rifiuta di riconoscere. Non solo a Castelvetrano dove le scritte “Matteo è grande” e “W Matteo Messina Denaro” sono frequenti - è considerato da tanti un padre, un protettore, un Robin Hood- ma molto lontano, nelle frange marginali, tra i ragazzi senza prospettive che hanno trovato il loro super eroe, la loro rockstar maledetta che se ne frega delle regole e mette in pratica la vita spericolata, il loro Diabolik (è un altro dei suoi soprannomi). Solo che qui non c’è alcun ispettore Ginkgo. La magistratura l’ha inseguito, gli ha arrestato il fratello, la sorella, i cugini e il nipote, ha spazzato via vari prestanome e sequestrato beni per un paio di miliardi di di euro, ma guardate la mappa dell’impero: supermercati, parchi eolici, boutique, gioiellerie, luoghi nei quali viviamo, dove facciamo la spesa, pensando che quell’altro mondo di oscurità sia lontanissimo. Invece è qui. Ho conosciuto studenti disposti a morire per combatterlo e studenti che lo consideravano una leggenda vivente, come i cattivi della fiction che alla fine piacciono più dei buoni (vedi “Gomorra” dove non c’è neanche la lotta tra i Bene e il Male, ma tra diverse forme di Male) e confessavano un’ammirazione contorta per il vincente, il capo. In Calabria, nel cuore nella ‘ndrangheta, altra parrocchia, c’è chi vede in lui un modello di ribellione, una forza antistato che bilancia le ingiustizie dello Stato (mi è stato spiegato con molta serietà alla fine di una lezione all’Università di Messina).

Messina Denaro è una macchina perfetta. Come Alien. Come il killer psicopatico di Cormack McCarthy in “Non è un paese per vecchi. A differenza dei tormentati Cattivi delle serie televisive (Marco D’Amore ha collaborato alla sceneggiatura della serie per far sentire a Ciro, “l’Immortale” il peso dei delitti commessi e ci teneva molto che fosse così) a Messina Denaro nessuno ha scritto un copione. Lui è quello che fa. E’ una macchina perfetta. Come Alien. Come il killer psicopatico di Cormack McCarthy in “Non è un paese per vecchi”. Come nel sanguinoso West contemporaneo di “Meridiano di Sangue”. Che non è tanto lontano da casa nostra. C’è un pezzo di West in Calabria, dove i testimoni scomodi finiscono sepolti nelle cappelle di famiglia abbandonate, e c’è in Sicilia, dove una pace superficiale e ingannevole protegge il regno di Messina Denaro, gli permette di andare allo stadio e incontrare i collaboratori. Di avere case, viaggiare, controllare la contabilità, stroncare il dissenso. Era ancora libero quando ha partecipato al sequestro di un bambino, il piccolo Giuseppe Di Matteo, per ordine di Giovanni Brusca. L’obiettivo era convincere il padre Santino, collaboratore di giustizia, a ritrattare le dichiarazioni sulla strage di Capaci. Tenuto prigioniero per 779 giorni, Giuseppe è stato strangolato poco prima del quindicesimo compleanno e sciolto nell’acido. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci hanno fatto un film, “Sicilian Ghost Story” presentato a Cannes. Molto applaudito. Adesso il fantasma è lui, Messina Denaro, l’uomo Invisibile, Diabolik. E sarebbe utile, invece, scoprire che la rockstar maledetta è un signore di cinquantacinque anni con occhiali spessi e nessun odore di zolfo. Prederebbe molti follower.

Disunita e senza un capo, la mafia palermitana dopo Riina. Lo Voi: «Fedele alle regole, ma nessuno sa cosa accadrà», scrive Gabriele Ruggieri il 18 novembre 2017 su "Meridionews". Con la morte dell'ultimo dei Corleonesi, la mappa che si riesce a tracciare nei mandamenti del capoluogo non rende l'immagine di una Cosa nostra in grande forma. Decimata dai tanti blitz e alla costante ricerca di un leader. Dal fallimento del tentativo di ricreare la commissione provinciale alla caduta degli ultimi uomini d'onore. «Muore Riina ma non finisce Cosa nostra». Le parole del procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi sono eloquenti: Cosa nostra rimane anche senza il suo maggiore esponente. Perché, seppur malato e congelato nel regime di 41bis in cui stava scontando i suoi 26 ergastoli, Riina per i magistrati continuava a essere faro per la cupola mafiosa. «Scompare quello che tuttora, nonostante la detenzione, era il capo della mafia, e si apre una nuova stagione» continua Lo Voi. Una stagione che vede la mafia molto indebolita, nonostante sia stato acclarata da più indagini la capacità dell'organizzazione di rigenerare le proprie teste ogni volta che venivano recise. «Cosa nostra resta fedele alle sue regole - conclude il procuratore - che la vogliono dotata di una struttura verticistica. Solo le indagini ci consentiranno di capire quale sarà la nuova struttura dopo la morte di Totò Riina. Inutile fare ipotesi su cosa accadrà, sarebbero velleitarie». Insomma, dopo la morte di Totò Riina, la mafia del Palermitano sta attraversando - almeno secondo gli inquirenti - non poche difficoltà a trovare un assetto che possa anche solo renderla paragonabile a quella dei Corleonesi, di cui Riina è stato capo, oltre che ultimo grande esponente in vita. Proprio nel Comune del Palermitano ci avevano provato i Lo Bue, ma sia Rosario, che il figlio, che Carmelo Garriffo, il postino che smistava i pizzini per Provenzano, che altri sono finiti in manette in quattro distinte operazioni dei Carabinieri, l'ultima, Grande Passo 4, nel settembre del 2016. E a vuoto sono andati anche i tentativi di ricreare una commissione provinciale, idea - pare - sponsorizzata addirittura da Matteo Messina Denaro e promossa attorno al 2008 da Matteo Capizzi, uomo d'onore del mandamento di Villagrazia-Santa Maria di Gesù e finito in manette nell'ambito dell'operazione Perseo, che fece fallire le velleità di ricostruzione del vecchio sistema, a dire il vero osteggiate anche dall'interno visto il disappunto di diversi boss dell'epoca, tra cui il capofamiglia di Porta Nuova, mandamento cardine di Palermo. Lo stesso Capizzi è finito nuovamente in cella otto anni dopo. Questa volta l'operazione era denominata Brasca e con la sua operazione gemella, Quattro.Zero, ha portato dietro le sbarre proprio due degli ultimi fedelissimi di Totò Riina e della vecchia mafia tutta regole e codici d'onore: Mario Marchese, boss di Villagrazia e Gregorio Agrigento, di San Giuseppe Jato. Ma di storie come le loro sono piene le cronache. Figure come quelle dei nuovi pentiti e blitz come gli ultimi ai danni dei mandamenti di Brancaccio e Borgo Vecchio, senza contare la facilità con cui, una volta usciti dal carcere, i vecchi boss si riappropriano del proprio territorio, lasciano intendere che davvero la nuova Cosa nostra palermitana non sia nemmeno paragonabile a quella delle guerre di mafia degli anni Ottanta, ma si trovi disunita e senza un capo. Un capo che avrebbe potuto essere quel Francsco Guttadauro, rampollo della famiglia che per anni ha governato Brancaccio e figlio della sorella di Matteo Messina Denaro. Il nipote del cuore, che avrebbe dovuto essere l'anello di congiunzione tra Palermo e il fortino del Trapanese, e che adesso, come gli altri, si trova in carcere.

La morte non cancella il dolore delle vittime: "Non lo perdoniamo". La sorella del giudice Falcone: "Mai pentito". Rita Dalla Chiesa: "Non posso consolarmi", scrive Valentina Raffa, Sabato 18/11/2017, su "Il Giornale".  «Chi? No. Non è cosa mia». Alcuni corleonesi fingono di non sapere chi fosse Totò Riina. Ma «Cosa nostra», di cui è stato il capo indiscusso di tutti i tempi, è cosa di tutti, perché uccidendo molti dei figli migliori dell'Italia, ha colpito lo Stato, ha inferto una ferita in tutti gli italiani. Alcuni ancora a Corleone, il paese che gli diede i natali, proprio nella piazza intestata ai giudici Falcone e Borsellino che il capo dei capi ha strappato ai loro cari e all'Italia intera, fingono di non sapere. La reazione, di contro, la dice lunga su quale potere si conferisca a Riina, anche ora che non c'è più. Il peso dei suoi efferati omicidi, quelli per cui stava scontando 26 ergastoli, incombe sulla cittadina siciliana dove in tanti, per fortuna dissociandosi dal «niente so e niente voglio sapere», si dicono preoccupati per il domani, per quella riorganizzazione interna a Cosa nostra che si ipotizza seguirà alla morte del boss. Perché la mafia esiste ancora e non bisogna abbassare la guardia. La morte di Totò u curtu, «la belva», come la sua vita, non può passare inosservata, nemmeno se l'unico superstite della strage di Capaci, Giuseppe Costanza, l'autista del giudice Giovanni Falcone, comprensibilmente lo auspica. «Meno se ne parla meglio è dice - Cerchiamo di ridimensionare la figura di questo signore. Mettiamolo all'angolo. Non merita altro per quello che è stato e per quello che ha fatto. E se ne vada in silenzio con tutti i suoi segreti». Perché è troppo il dolore che ha seminato. Perché, intercettato in carcere mentre parla con la moglie, Ninetta Bagarella, non è affatto pentito di nulla, anzi è fiero. Perché ha deciso di portare con sé nella tomba tanti, troppi segreti, come sottolinea Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso. «Ci saranno tante persone che gioiranno del fatto che con la sua morte scompare un'altra cassaforte dopo quella vera scomparsa dopo la sua cattura». Le ferite che Riina ha inferto resteranno per sempre aperte, soprattutto alla luce del mancato pentimento. E i familiari delle vittime, che pure non si fanno portatori di messaggi d'odio e rancore, non possono perdonare. «Non gioisco per la sua morte - ha detto Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso - ma non posso perdonarlo. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato. Per quello che è stato il suo percorso mi pare evidente che non abbia mai mostrato segni di pentimento. Basta ricordare le recenti intercettazioni in cui gioiva della morte di Giovanni». «La sua morte è arrivata a 87anni mentre gli uomini dello Stato che ha ucciso erano tutti uomini che nella loro vita non hanno potuto proseguire nei loro affetti. Non è una morte consolatoria». Rita Dalla Chiesa, che per mano di Riina ha perso il padre, generale Alberto Dalla Chiesa, non ha mai creduto nella vendetta, ma anche per lei è impensabile il perdono. Tutt'altra la reazione ad Ercolano (Napoli) dove la città è stata tappezzata di manifesti funebri con tanto di tricolore e i volti di Falcone e Borsellino per dare «il lieto annuncio» della morte di Salvatore Totò Riina. E a seguire i nomi delle «vittime innocenti della mafia». «È una questione che riguarda lui, la sua famiglia e Dio - commenta il colonnello Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che arrestò, 24 anni fa, Totò Riina - Non ho niente da dire». Per Ultimo, che guardò dritto negli occhi il capo dei capi, Riina era «più vigliacco che cattivo».

Di Matteo: mio figlio finito nell’acido, Riina doveva morire 50 anni fa. L’ex mafioso che confessò Capaci: ignorante ma furbo, metteva tutti uno contro l’altro. La guerra di mafia? L’ha fatta solo lui. Ma è stato uno sterminio e basta, scrive Giovanni Bianconi il 18 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «È morto troppo tardi, doveva morire cinquant’anni fa», mormora nel suo incorreggibile dialetto siciliano Santino Di Matteo, il pentito di mafia che ha confessato la strage di Capaci e al quale Cosa nostra, dopo le sue prime dichiarazioni ai magistrati, ha rapito il figlio tredicenne Giuseppe, ucciso dopo due anni di segregazione. Un ex mafioso, colpevole di tanti omicidi, a sua volta vittima della mafia che adesso dice: «Sono contento che è morto Totò Riina, così finalmente si chiude un capitolo».

Un capitolo che anche lei ha contribuito a scrivere, con i delitti che ha commesso.

«Certo, perché noi l’abbiamo seguito e abbiamo sbagliato. Ci siamo fidati delle famiglie che gli stavano intorno, come i Madonia, i Ganci, i Brusca, e lui si faceva forza dell’appoggio di questi. Gli hanno lasciato troppo spazio, e lui ci ha rovinato a tutti. Se invece negli anni Sessanta chi lo voleva togliere di mezzo l’avesse fatto...».

Chi voleva toglierlo di mezzo a quell’epoca? 

«Giuseppe Ruffino, uno di Corleone che non vedeva di buon’occhio né lui né Calogero Bagarella, quello ammazzato nella strage di Viale Lazio. Riina aveva paura di Ruffino, e evitava di incontrarlo. Poi Ruffino è morto nel suo letto e Riina non ha avuto più ostacoli. Ha fatto arrestare Luciano Liggio ed è rimasto solo lui a comandare».

Ma come ha fatto a comandare su tutti gli altri? 

«Perché era ignorante come una capra, ma molto furbo. Organizzava tragedie, metteva tutti uno contro l’altro con le voci che lui stesso faceva circolare, e poi si alleava con uno dei due per ammazzare l’altro. Destinato a essere ammazzato con la tragedia successiva».

E da dove veniva tutta questa voglia di uccidere e togliere di mezzo gli altri? 

«Sempre dall’ignoranza, perché lui a volte nemmeno riusciva a capire quello che dicevano le altre persone, pensava che lo prendessero in giro, cosa che lui non tollerava. E decideva di uccidere. Voi parlate sempre di “guerra di mafia”, ma la guerra l’ha fatta solo lui, gli altri l’hanno subita. È stato uno sterminio, non una guerra».

Possibile che tutto, fino alle stragi del 1992, derivi solo da questo? 

«Certo, perché Riina s’era messo in testa di attaccare lo Stato. Non ha preso ordini da altri, è lui che ha deciso che lo Stato doveva mettersi in ginocchio davanti a lui. Ma si può pensare una cosa del genere? Invece di convincerlo a fare accordi ti metti a fare le stragi? Solo lui, nella sua ignoranza, poteva pensare di restare in piedi dopo quello che ha deciso di fare».

Lei ha mai pensato a fare obiezioni? 

«E come facevo? A parte che mi pare di averlo visto l’ultima volta prima della strage di Capaci, dopo non lo ricordo. Lo andai a prendere per accompagnarlo a un appuntamento a Palermo. Avrei dovuto incontrarlo di nuovo il giorno che l’hanno arrestato, perché era convocata una riunione e c’ero anch’io che lo aspettavo insieme agli altri, ma poi s’è saputa la notizia e ce ne siamo andati tutti».

E nei processi dove lei ha deposto contro di lui? 

«È rimasto sempre in silenzio, a differenza di quando parlavano gli altri collaboratori. Io spiegavo ai giudici che questo era un morto di fame, che l’avevano vestito le nostre famiglie, e lui zitto. Il maresciallo che mi accompagnava s’è stupito ma io no, perché lo conosco bene, e so che personaggio è e non poteva dirmi niente».

Dopo il suo pentimento, suo figlio è stato rapito e ucciso su ordine di Brusca, oggi pentito come lei. 

«Io quello non gli perdono, in Cosa nostra si ammazzava ma i bambini no. Ma è colpevole anche Riina. Lui stava in carcere, però a suo cognato Leoluca Bagarella che era ancora libero poteva mandare a dire di lasciare andare quel ragazzino innocente. Non l’ha fatto, e questo significa che c’è pure il suo zampino. È una carogna, come dicevano i suoi paesani. Meno male che è morto». 

È morto Riina, e la verità? Scrive il 17 novembre 2017 Girolamo Tripoli su "Il Giornale". È la notizia del giorno: è morto Totò Riina. La belva, così era soprannominato il boss corleonese per la sua ferocia.

Devo essere onesto, la sua morte mi lascia indifferente. Avevo solo quattro anni quando è stato arrestato, quindi non posso esprimere la gioia di quel momento, ma se dovessi paragonarlo all’arresto dell’altro grande boss di Corleone, Bernardo “il trattore” Provenzano, posso dire che è l’arresto il momento in cui bisogna essere felici. Perché è con l’arresto che queste persone hanno perso tutto (si spera). Vengono privati della libertà, della ricchezza, della possibilità di poter comandare sugli altri, di poter uccidere. Dicevo, la sua morte mi lascia onestamente indifferente. Avrei preferito se avesse parlato, se avesse raccontato i segreti che si è portato nella tomba. Conosce, o meglio conosceva, i misteri che avvolgono l’Italia dagli anni ’70 in poi. Sapeva nomi, fatti, luoghi. Purtroppo, anche se avesse vissuto altri cinquant’anni, non avrebbe mai parlato. E adesso rimangono sempre di meno quelli che potrebbero risolvere alcuni dei più grandi enigmi che avvolgono l’Italia. Con la morte di Riina, e con la futura morte di Provenzano e degli altri coinvolti, gioiscono quelli che nell’ombra sperano che il loro nome non salti mai fuori. E noi, figli dell’oscurità (se la luce è sempre stata sinonimo di verità), brancoliamo ancora nel buio. C’è un segreto che vorrei strappargli più di tutti gli altri, un segreto che parte da lontano, dal 1992: chi ha ammazzato Paolo Borsellino? Chi ha voluto il depistaggio sulle indagini? Se al primo interrogativo la risposta, dopo vent’anni, ce l’abbiamo, non abbiamo però la risposta all’ultima domanda. C’è un processo in atto (il Borsellino quater) e nella sentenza di primo grado si è appreso che Vincenzo Scarantino è stato indotto a dire falsa testimonianza. Quindi, qualcuno ha provato a depistare le indagini. Se potessi avere davanti a me Riina gli chiederei di risolvere almeno questo mistero, perché ci sono famiglie che chiedono verità e giustizia. Riina è morto, non mi importa. Ma non facciamo che muoia anche la verità.

La morte di Totò Riina commentata dalla stampa internazionale, scrive Rossana Miranda su "Formiche.net" il 2017/11/17. Che cosa si dice negli Stati Uniti, in Spagna, in Francia, nel Regno Unito e in Argentina della morte del capo della mafia siciliana Totò Riina. Totò Riina, capo di Cosa Nostra, è morto a 87 anni. Nato a Corleone 87, è deceduto all’ospedale di Parma, dove era ricoverato da giorni in stato di coma. Capo indiscusso della mafia siciliana, era stato arrestato il 15 gennaio 1993, e da allora viveva detenuto in regime di 41-bis. La mafia di Riina si è infiltrata nei tavoli dei grandi appalti miliardari di opere pubbliche, sviluppato grossi traffici internazionali di droga, e sferrato gli attacchi frontali e sanguinari allo Stato in quella che è passata alla storia come “strategia stragista” del biennio 1992-1993. La notizia della morte di Riina è balzata su tutti i siti della stampa internazionale.

“LA MENTE DI UNA SANGUINOSA STRATEGIA”. “Morto noto capo dei capi della mafia”, si legge sulla homepage del The New York Times. Il quotidiano americano scrive che “Totò Riina è morto venerdì in un ospedale mentre stava scontando diversi ergastoli, come mente di una sanguinosa strategia per assassinare pubblici ministeri e forze dell’ordine italiane che cercavano di far cadere Cosa Nostra. […] Riina è deceduto dopo aver ricevuto la visita dei familiari al suo capezzale, con il permesso del ministro della Giustizia, il giorno del suo compleanno, e dopo essere stato indotto a un coma farmacologico in un ospedale di Parma, al nord dell’Italia. I media italiani hanno detto che la sua salute si è deteriorata in seguito a due recenti interventi chirurgici”.

“IL CRIMINE PIÙ INFAME”. Il tabloid britannico The Sun titola: “Salvatore Totò Riina muore a 87 anni. Noto padrino della mafia di Corleone che ordinò centinaia di omicidi, è morto di cancro”. Il giornale ricorda che Riina era soprannominato “La Belva” ed “era noto per la sua crudeltà. Si ritiene abbia autorizzato omicidi di centinaia di vittime, tra cui donne e bambini innocenti. Tra i crimini più infami c’è quello del figlio tredicenne di un informatore di polizia, il cui corpo era stato dissolto nell’acido”. The Sun ricorda che Riina ordinò anche gli omicidi dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992. “E si ritiene che l’assassino (Riina, ndr) abbia ordinato gli omicidi di 11 familiari di un informatore, che alla fine ha aiutato a consegnarlo alla giustizia”.

RICHIESTE SURREALISTE. Il quotidiano spagnolo El País apre stamattina l’homepage del sito con la morte del “grande capo di Cosa Nostra siciliana e il padrino più temuto e sanguinario della storia”. “Riina ha smesso di sorridere – si legge nell’articolo intitolato ‘Muore Totò Riina, il capo dei capi della mafia siciliana’ – e si è portato nella tomba i segreti di una carriera criminale così lunga, che potrebbe spiegare la storia recente dell’Italia con ogni cadavere”. Il giornale di Madrid scrive che Riina scontava “26 ergastoli ed era sospettato di avere ucciso 150 persone – 40 dei quali lui personalmente –. […] Viveva ossessionato di poter trascorre gli ultimi giorni di vita nella sua Corleone”. E sottolinea: “Il Tribunale Supremo disse che la persona che aveva giustiziato più di un centinaio di vite innocenti aveva ‘il diritto di morire degnamente’”. Dopo la morte di Falcone e Borsellino, “Riina aveva scritto 12 condizioni per smettere di uccidere. C’erano premesse surrealiste come l’eliminazione delle tasse sulla benzina in Sicilia”, si legge su El País.

UN CRIMINALE ANCORA PERICOLOSO. Il quotidiano argentino El Clarín, invece, si dedica alla vita di Riina in carcere, dove gli era stato vietato di leggere i giornali o guardare la tv: “Alle visite non era possibile avvicinarlo più di un metro. Era proibito toccarlo, abbracciarlo o dargli un bacio […]. Nonostante l’età e le condizioni di salute, Riina era considerato ancora ‘pericoloso’. Quando in alcune occasioni gli è stato permesso di godere dell’ora d’aria con altri detenuti, ha cominciato a dare ordini su quanto e come uccidere alcuni magistrati”.

L’ADDIO DELLA FAMIGLIA. La morte di Riina ha avuto meno risalto sui quotidiani francesi. Le Monde scrive: “Sua moglie e tre dei suoi quattro figli hanno ricevuto un’eccezionale autorizzazione dal ministero della Giustizia italiano per salutarlo giovedì. Giovanni, il primogenito di Riina, sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi. ‘Per me, tu non sei Totò Riina, tu sei solo mio padre. E ti auguro un felice compleanno, papà, in questo triste ma importante giorno, ti voglio bene’, ha scritto su Facebook l’altro figlio, Salvatore”.

IL FUTURO DI COSA NOSTRA. Secondo il Financial Times, la mafia siciliana non è affatto estinta. Dopo la morte di Riina il nuovo capo della mafia italiana è Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993, nato a Trapani in Sicilia: “È considerato il protagonista – anche se estremamente oscuro – della mafia siciliana. Dall’inizio degli anni ’90, la mafia siciliana ha perso parte del suo impatto, in particolare rispetto alla ‘Ndrangheta calabrese, che domina il commercio internazionale di droga”. Il principale giornale britannico di economia e finanza sostiene che “tra la società siciliana il velo del silenzio – l’omertà – sui crimini della mafia è stato sollevato fino a un certo punto, ma i locali si sono ribellati alle violenze e alla corruzione che è andata di pari passo con il regno di Cosa Nostra in Sicilia”. Il quotidiano della City ricorda che “durante il suo tempo in prigione, Riina non ha mai mostrato alcun segno di rimorso per le sue azioni”.

La morte di «Totò» Riina fa il giro del mondo. In coma dopo due interventi chirurgici, aveva appena compiuto 87 anni. Stava scontando la condanna a 26 ergastoli tra cui quello per le stragi di Falcone e Borsellino; nella tomba si porta molti segreti, scrive il 17 Novembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno”. E’ morto solo, nel letto d’ospedale a Parma in cui, da giorni ormai, giaceva in coma. Malato da tempo gli sarebbe stato fatale l’ultimo intervento chirurgico. Ottantasette anni e un giorno, ieri era stato il suo compleanno, se ne va così Totò Riina, il padrino delle stragi. I familiari, autorizzati ieri dal ministro della Giustizia a un colloquio straordinario, non sono arrivati in tempo. Probabilmente domani la moglie e la figlia minore, Lucia, che fino a questa sera non avevano lasciato Corleone, andranno all’obitorio in attesa del nulla-osta alla sepoltura da parte della Procura che ha disposto l’autopsia sulla salma dell’anziano capomafia. Sul decesso è stato aperto un fascicolo per omicidio colposo, escamotage evidente per consentire gli accertamenti medico-legali. Sarebbe un modo per evitare dietrologie e sospetti su una vicenda chiara. Con Totò U Curtu, così era soprannominato per la sua statura, si chiude un’era della storia di Cosa nostra, l’epoca dei morti, delle bombe, del tritolo. Una lunga scia di sangue, dopo un’escalation ai vertici della mafia fatta di nemici ammazzati e attentati, culminata nelle stragi del '92 e del '93. Ventisei condanne all’ergastolo, chiuso in un silenzio interrotto, davanti ai giudici, solo dall’ostinata negazione dell’esistenza di Cosa nostra, Riina non ha mai mostrato segni di pentimento. "Per questo non lo perdono» dice Maria Falcone, sorella del magistrato assassinato a Capaci. «Non gioisco della sua morte, ma la mia religione mi insegna a perdonare chi si redime e lui non l’ha fatto», spiega ricordando intercettazioni recenti in cui il capomafia rideva, raccontando di aver fatto fare a Falcone «la fine del tonno». E sulla stessa linea è la Cei: «Un funerale pubblico non è pensabile. Ricordo la scomunica del Papa ai mafiosi, la condanna della Chiesa italiana che su questo fenomeno ha una posizione inequivocabile. La Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio ma non possiamo confondere le coscienze», dice il portavoce, don Ivan Maffeis. Sul silenzio del boss, recentemente citato nel processo sulla trattativa Stato-mafia e mai salito sul banco dei testi, è intervenuto il neo procuratore antimafia Cafiero De Raho: «è la modalità comportamentale tipica di chi ha assunto un ruolo verticistico. E’ l’immagine del monolite che l’organizzazione rappresenta. Qualunque indebolimento sarebbe l’annientamento dell’organizzazione. Se avesse collaborato avrebbe svelato quei segreti della mafia che l’ha resa forte». La salma dell’anziano padrino dovrebbe arrivare a Corleone nei prossimi giorni per essere sepolta nel cimitero del paese, diviso tra anziani «nostalgici» che si dicono a lutto e chi spera che con la morte del boss finisca davvero un’era. La notizia della morte del capo dei capi che, ne è certo il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, ha continuato a essere un riferimento per gli uomini dei clan fino alla fine, ha fatto il giro del mondo. «Con Riina, però, non finisce Cosa nostra», dice Lo Voi mentre Pietro Grasso, presidente del Senato per anni magistrato antimafia, invita a non abbassare la guardia. La mafia, dunque, non è finita e continua a sparare e fare affari: gli occhi degli investigatori, ora, sono puntati sulla successione. Chi prenderà il posto del padrino corleonese? «Fare scenari - dice il capo dei pm palermitani - è velleitario». Ma i clan hanno bisogno di un organismo di comando: una commissione, un uomo solo? Saranno le indagini a dirlo, mentre gli esperti di mafia sono certi che lo scettro non passerà all’ultimo grande latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro, rampollo di una famiglia mafiosa storica trapanese da sempre vicina ai corleonesi. Al 41 bis dal giorno del suo arresto, il 15 gennaio del 1992, Riina non ha mai lasciato il carcere duro. I suoi legali hanno provato a ottenere un differimento pena senza successo. Condannato a scontare ergastoli per centinaia di omicidi era ancora sotto processo per tre vicende: la cosiddetta trattativa Stato-mafia, l’attentato al rapido 904 e le minacce al direttore del carcere di Opera dove era stato detenuto. I tre procedimenti verranno chiusi con la dichiarazione di estinzione del reato per morte del reo. «E' stata sconfitta l’idea folle di Riina e altri esponenti mafiosi di fare la guerra allo Stato e vincerla. Lo Stato ha vinto continuando a rispettare la legge e la Costituzione» ha spiegato Lo Voi. Dal Salento, dove vive da tempo, Maria Concetta Riina, la maggiore dei figli del boss lista a lutto la sua pagina Facebook. Una rosa e l’invito al silenzio per salutare il padre.

Morte di Riina: decine di post di cordoglio sui profili di figlia e genero. Maria Concetta Riina, figlia del capo dei capi, risiede da anni a San Pancrazio Salentino insieme al marito, Tony Ciavarello, scrive il 17 novembre 2017 "Brindisi Report". Decine di messaggi di cordoglio stanno arrivando sui profili facebook di Maria Concetta Riina, figlia di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra morto la scorsa notte (fra giovedì 16 e venerdì 17 novembre) nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma, e di suo marito, Tony Ciavarello. I due risiedono da anni a San Pancrazio Salentino. Poche ore il decesso del padre, spirato alle 3,37, lei ha sostituito la foto del suo profilo con l’immagine di una donna che invita al silenzio, con il dito indice sulle lebbra. Lui invece, in segno di lutto, ha pubblicato un nastrino nero. Sono tante le persone, residenti in varie regioni d’Italia, che hanno manifestato la loro vicinanza alla figlia e al genero del defunto, che proprio ieri aveva compiuto 87 anni. Riina stava scontando una pena cumulativa di 26 ergastoli. Latitante dal 1969, venne arrestato il 15 gennaio del 1993 a Palermo. Da allora era recluso in un carcere di massima sicurezza in regime di 41 bis (il carcere duro per i reclusi più pericolosi). Dopo l’aggravamento delle sue condizioni di salute era stato trasferito presso la struttura sanitaria di Parma, dove è stato sottoposto a due interventi chirurgici. Da cinque giorni era in coma.  Nella giornata di ieri, poco prima della morte, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, con il parere positivo della Procura nazionale antimafia e dell’Amministrazione penitenziari, ha autorizzato i figli di Riina a raggiungere il capezzale del padre. Lo scorso 26 ottobre, fra l’altro, finì alla ribalta dei media nazionali un appello lanciato da Ciavarello sul suo profilo Facebook. Il genero di Riina, infatti, colpito la scorsa estate da un provvedimento di sequestro che interessò le sue aziende, oltre a beni e conti correnti dei famigliari del boss, chiese un aiuto economico pubblicando un annuncio sul sito collettiamo. Ciavarello si definisce sul suo profilo “un martire perseguitato dalla procura di Palermo”. 

Tony Ciavarello, genero di Riina lancia strali contro giornalisti e magistrati, scrive Ignazio Marchese il 25/07/2017 "Blog Sicilia". I parenti del boss Totò Riina usano Facebook per lanciare attacchi a giornalisti e magistrati. Prima la figlia Lucia per non avere ottenuto il bonus bebè, adesso il genero contro “Gente di legge e giornalisti accaniti contro di noi”. E’ quanto scrive Antonino Ciavarello, genero del boss di Corleone sposato con Maria Concetta. I due vivono in Puglia. “Palazzolo aspetta e spera, tu e tutta la procura di Palermo che ti foraggia gli scoop prima che le cose accadono – aggiunge Ciavarello – E poi. Io non lancio tesi, io a differenza tua parlo per cose di cui sono certo e non come scrivi tu di ciò che i registi ti imboccano”. Poi un affondo sui sequestri messi a segno dai carabinieri lo scorso 19 luglio. “Avete sequestrato con ingiusta violenza la mia azienda, ma non potrete mai sequestrare il mio Sapere ed il mio Mestiere, e per questo risorgerò presto dalle mie ceneri come l’Araba Fenice più Grande e più Forte di prima – conclude Ciavarello – Per il resto arriverà il giudizio di Dio anche per voi che avete permesso ed autorizzato violenza verso gente innocente, per voi che avete eseguito e per voi che state ripetendo a pappagallo quello che la regia vi ha scritto. Quel che avete fatto lo riceverete da Dio moltiplicato 9 volte, voi ed i vostri figli fino alla settima generazione. Gloria a Dio! Comunque la ditta sta ancora lavorando fino ad oggi, non è più mia ma i miei ragazzi sono a lavoro… Vi voglio Bene Ragazzi”.

I familiari di Riina non sono riusciti a vederlo prima della morte, scrive venerdì 17 novembre 2017 "Next Quotidiano". I familiari del boss Totò Riina non sono riusciti a incontrarlo prima che morisse nonostante il permesso straordinario ricevuto dal ministro della Giustizia che, ieri, viste le condizioni del detenuto, aveva autorizzato la visita. Secondo indiscrezioni, la figlia minore del boss sarebbe ancora a Corleone. Riina aveva quattro figli: uno è detenuto e sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi e il minore, dopo una condanna a otto anni per mafia, è sorvegliato speciale. La più piccola delle due figlie femmine vive a Corleone, mentre la maggiore si è trasferita da anni in Puglia. Sulla sua pagina Facebook intanto la figlia di Totò Riina, Maria Concetta, sembra lanciare un messaggio che poi è un’indicazione, data subito dopo la morte del padrino. La foto del profilo è una rosa nera, sovrastata dal volto di una donna che emerge da un sfondo scuro e un dito che taglia la bocca con su scritto “shhh”, silenzio. Lo stesso avvocato Luca Cianferoni, storico legale del boss, all’agenzia di stampa Agi ribadisce la linea: “Ho ricevuto mandato dalla famiglia di tenere il massimo riserbo e silenzio sulla vicenda”. Vietato parlare. Un gesto che sembra anche rimandare all’atteggiamento tenuto da sempre da Totò Riina: mai nessun cedimento, mai nessuna volontà di collaborare e di rompere la regola principe di Cosa nostra: silenzio, insomma. La chiesa ha intanto escluso i funerali pubblici per il boss.

Riina, è il giorno dellʼautopsia sul corpo del boss: poi la sepoltura. La Procura dovrebbe rilasciare il nullaosta per seppellire il capo di Cosa Nostra nel cimitero di Corleone, scrive il 18 novembre 2017 TGCOM. E' prevista in mattinata l'autopsia sul corpo di Totò Riina, il boss di Cosa Nostra morto venerdì all'ospedale di Parma. Successivamente è prevista la visita dei familiari e il probabile nullaosta della Procura alla sepoltura nel cimitero di Corleone. Per consentire gli accertamenti medico-legali, sul decesso è stato aperto un fascicolo per omicidio colposo. La Cei ha escluso ogni possibilità di organizzare esequie pubbliche. Grasso: "Il suo arresto mi salvò la vita" - Dopo le stragi Falcone e Borsellino, "la scelta cadde su di me, che avevo la colpa di essere stato 'esecutore' del maxiprocesso di Giovanni Falcone. Dovevano uccidermi col tritolo, a Monreale, mentre mi recavo a casa dei miei suoceri". E' il racconto del presidente del Senato, Pietro Grasso, a La Stampa. "Trovarono difficoltà perché vicino al posto designato c'era una banca i cui sistemi di allarme interferivano coi timer mafiosi e c'era il pericolo che la bomba esplodesse quando non doveva. Poi, a gennaio, arrivò la cattura di Riina e perciò sono qui a raccontare". Pm: "La sua successione è già stata pensata" - "Credo che, per come conosco l'organizzazione mafiosa, avessero già cercato di pensare a una successione. Perché è vero che Riina rappresentava il capo assoluto di Cosa Nostra, ma è anche vero che ormai le sue condizioni facevano facilmente prevedere che di lì breve sarebbe scomparso". E' quanto ha dichiarato Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo. "Sono abbastanza certo - ha aggiunto il magistrato - che l'organizzazione si sia mossa per prendere le decisioni necessarie: o una gestione collegiale dei vertici o un tentativo di qualcuno di forzare la mano. Nel primo caso avremmo una stagione di politica silente di Cosa Nostra, di sommersione come è stata quella inaugurata da Provenzano o uno scontro, che non è mai da augurarsi". L'arcivescovo di Monreale: "Nessuna cerimonia, è scomunicato" - "Il mio timore è che adesso la sua tomba possa diventare una meta di pellegrinaggio. Che di Riina si crei un mito". Lo ha affermato monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale. "C'è gente che viene a Corleone per visitare la casa del padrino, i luoghi della mafia. In un albergo c'erano degli americani che chiedevano di vedere le immagini della strage di Capaci. Ho sentito dire che il figlio di un mafioso organizza tour turistici, chissà che informazioni darà". E sull'ipotesi di esequie pubbliche: "Non ci sarà alcun funerale, ne ho parlato anche con il questore. La salma sarà portata al cimitero e il cappellano, se la famiglia lo chiederà, potrà formulare una preghiera e la benedizione in forma strettamente privata e d'accordo con l'autorità civile. I mafiosi sono scomunicati e il canone 1184 del codice di Diritto canonico, per evitare il pubblico scandalo dei fedeli, stabilisce che i peccatori manifesti e non pentiti devono essere privati delle esequie".

La mafia e quella scomunica che non esiste, scrive il 18-11-2017 "La Nuova Bussola Quotidiana”. La morte in carcere del boss mafioso Totò Riina, che stava scontando 26 condanne all'ergastolo, ha immediatamente riaperto vecchie ferite. Ma ha anche provocato la domanda sulla modalità del suo funerale. Immediatamente portavoce e segretario della Conferenza episcopale italiana hanno dichiarato l'impossibilità del funerale pubblico ma escluso anche quello religioso, ricordando la scomunica lanciata già nel 2014 da papa Francesco contro i mafiosi. In realtà le cose sono più complesse e abbiamo chiesto a padre Giorgio Maria Carbone di spiegare che cosa realmente la Chiesa prescrive in situazioni come questa. Il mafioso non è scomunicato.

Papa Francesco nella visita apostolica in Calabria del 21 giugno 2014 disse con veemenza che i mafiosi erano scomunicati. Ma dopo non seguì nessun cambiamento delle norme canoniche in materia di scomunica. Quindi, nulla di fatto e nulla di diritto. La scomunica latae sententiae, cioè quella pena con la quale un fedele è escluso dalla comunione con la Chiesa ed è privato dei beni spirituali, pena latae sententiae, cioè automatica, nella quale il fedele incorre per il semplice fatto di aver commesso un delitto grave, è prevista – ad esempio – per l’apostata, l’eretico e lo scismatico (canone 1364), per «chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice» (canone 1370), per «chi procura l’aborto ottenendo l’effetto» (canone 1398). Ma «chi commette omicidio, rapisce o detiene con la violenza o la frode una persona, o la mutila o la ferisce» è punito con pene espiatorie che non sono la scomunica (canoni 1336 e 1397), come ad esempio il divieto di dimorare in un determinato luogo, la privazione di uffici, diritti o facoltà. Inoltre, la scomunica, come le altre pene, ha uno scopo medicinale, cioè mira a ottenere la conversione del colpevole. E infine per incorrere nella scomunica il colpevole deve aver compiuto il delitto mentre era in vigore una legge che irrogava la scomunica. Mentre se ha commesso il delitto, prima dell’entrata in vigore della legge di scomunica, non incorre in essa. Questi sono i principi generali che regolano la scomunica. Nella fattispecie concreta che riguarda Totò Riina possiamo dire che, per quanto sia colpevole di abominevoli delitti, non è canonicamente scomunicato. Ma forse chi parla di scomunica usa un linguaggio molto improprio e per nulla canonico. Possiamo supporre che voglia riferirsi solo alla privazione delle esequie ecclesiastiche? A questo proposito il canone 1184 prevede questo: «Se prima della morte non diedero alcun segno di pentimento, devono essere privati delle esequie ecclesiastiche:

1) quelli che sono notoriamente apostati, eretici, scismatici;

2) coloro che scelsero la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede cristiana;

3) gli altri peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli.

Presentandosi qualche dubbio, si consulti l’Ordinario del luogo, al cui giudizio bisogna stare». Certamente concordiamo sul fatto che Totò Riina è oggettivamente un peccatore manifesto. Ma dobbiamo altrettanto concordare sulla nostra comune ignoranza: non sappiamo se prima della morte Riina ha dato un segno di pentimento. Abbiamo una certezza circa l’oggetto morale e una ignoranza circa le circostanze soggettive. Chi potrebbe toglierci da questa ignoranza? Il cappellano del carcere di Parma o quello dell’ospedale di Parma, oppure qualcuno che ha raccolto le confidenze del boss di Corleone.

È doveroso poi ricordare alcuni insegnamenti di Gesù che illuminano la nostra coscienza. In Matteo 21,31 è detto: Pubblicani e prostitute vi precederanno nel regno dei cieli; in Luca 6,37: Non giudicate e non sarete giudicati: il che non significa che non devo emettere giudizi – la mia intelligenza è fatta per elaborare giudizi – significa piuttosto che non devo giudicare la moralità dell’altro, né dire che è buono o cattivo. Posso, anzi talvolta devo giudicare i fatti, l’oggettività di quanto mi si para davanti, ma non dovrò mai giudicare la persona, per il semplice fatto che sono incompetente visto che non conosco quanto accade nel suo intimo, nella sua intelligenza e nella sua volontà. E poi, non ti ricordi il caso di un peccatore pubblico, un malfattore notorio, condannato alla stessa pena di Gesù? Che dice: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». E Gesù gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Luca 23,43). Mio nonno, Luigi, che non aveva simpatie né mafiose, né camorristiche, quando moriva qualcuno era solito dire in napoletano: "S’è imparavisato", che tradotto suona: è entrato in paradiso. Davanti a slogan avventati e alla rincorsa del politicamente conveniente, questa è la speranza che ci deriva dalla fede in Gesù Cristo.

Il figlio del boss morto: "Per me tu non sei Totò Riina, ma papà. Buon compleanno". Salvo Riina, che vive e lavora a Padova, posta sui social questo messaggio per il padre, morto la notte dopo il suo 87° compleanno, scrive il 17 novembre 2017 "Il Mattino di Padova". «Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. Ti auguro buon compleanno. Ti voglio bene, tuo Salvo». Nella notte tra giovedì - il giorno dell'87°compleanno del boss - e venerdì - quando si è spento, poco dopo le 3,30 - il figlio Salvo ha rivolto al padre questo saluto sui social. Salvo Riina, che vive e lavora a Padova, ha affidato prima a Facebook, poi a Twitter e infine a Instagram questo post dedicato al padre accompagnandolo con il fotomontaggio di un volto formato per metà dal suo viso e per l'altra da quello del padre, in modo da evidenziare la loro somiglianza. Il capo dei capi di Cosa Nostra, nei giorni scorsi, era stato sottoposto a due interventi, al secondo dei quali erano seguite gravi complicazioni. Il guardasigilli Andrea Orlando, con il parere positivo della Procura nazionale antimafia e dell'Amministrazione penitenziaria, aveva accordato un permesso ai familiari perché potessero fargli visita per l'ultima volta, nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma in cui era ricoverato. Salvo Riina, terzo dei quattro figli di Totò e Ninetta Bagarella, non ha potuto vederlo. Ha postato il messaggio di auguri al padre ricevendo numerose attestazioni di vicinanza. Il rapporto di Salvo Riina con il padre era finito al centro di polemiche nell'aprile 2016, in occasione della sua apparizione al programma televisivo "Porta a Porta": invitato per l'uscita del suo libro, durante l'intervista aveva detto di amare suo padre e di non poterlo giudicare.

La figlia di Riina su Facebook, silenzio e rosa nera per lutto. Decine di post e commenti di cordoglio per il boss, Facebook li rimuove. La rosa nera in segno di lutto postata su Facebook da Maria Concetta Riina in ricordo del padre, Totò, scrive il 17 novembre 2017 "L'Ansa". Nel giorno della morte di Totò Riina, c'è chi fatica a darsi pace: sono i parenti, i figli, gli amici più stretti che vivono con dolore il trapasso del boss di Cosa Nostra e che, senza pensare ai reati pesantissimi di cui si è macchiato, si scambiano decine e decine di like e condivisioni su Facebook. Tanti al punto che il social, secondo i familiari di Riina, li ha rimossi in seguito alle numerosissime segnalazioni ricevute. La figlia maggiore, Maria Concetta, espone una rosa nera come foto del profilo, sovrastata dall'indice di una ragazza che indica il silenzio come copertina. A fugare ogni dubbio sul significato dell'immagine, anche il tatuaggio “shhh...” in bella evidenza, sul dorso del dito. La donna, 42 anni, ha sempre descritto il padre come "un lavoratore ingiustamente accusato", contro il quale parlano solo "calunniatori malvagi e senza scrupoli". Decine e decine i like all'immagine, e altrettante le condivisioni. Al punto che il marito di Maria Concetta, Tony Ciavarello, ha scritto poco fa che è stata segnalata "in massa" la sua foto del profilo (un nastro a lutto), e "fb ha eliminato la foto con tutte le condoglianze. A qualcuno ha dato fastidio il vostro cordoglio". Numerosissimi anche i commenti: "Mi unisco al vostro dolore", scrive uno; "è un giorno molto triste", fa eco un altro. "Buon viaggio zio Totò" si legge ancora; "La morte ridona la dignità e ci pone tutti alla pari davanti alla grandezza di Dio" dice un altro. Molti tra quanti esprimono condoglianze per la morte del boss, listano di nero la propria pagina social. E c'è chi commenta, bollando come una "panzata ri picuruna" (una massa di pecoroni) chi non si duole o non si mostra addolorato. "Sarà solo Dio che potrà decidere se accoglierlo o no". I Riina sono sempre stati piuttosto attivi su Facebook. La scorsa estate, ad esempio, i parenti del boss avevano lanciato attacchi a giornalisti e magistrati via Facebook: prima la figlia Lucia era intervenuta sul bonus bebè negatole da Regione e Inps, poi il genero Ciavarello si era scagliato contro 'gente di legge e giornalisti accaniti contro di noi'. Andando indietro fino al 2016, Maria Concetta Riina, era intervenuta sul presunto omaggio che una confraternita di Corleone avrebbe tributato alla sua famiglia, facendo fermare la statua di San Giovanni Evangelista sotto l'abitazione in cui vive Ninetta Bagarella, moglie di Totò. "E' una notizia totalmente falsa - aveva postato, precisando che la madre non era in casa - e chi scrive queste cose infangando il paese, dovrebbe solo vergognarsi".

Totò Riina, dopo la morte il messaggio mafioso della figlia Maria Concetta: "Silenzio", scrive il 17 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". A poche ore dalla morte, la prima della famiglia di Toto Riina a parlare è la figlia Maria Concetta. Lo fa dal suo profilo Facebook e il suo più che un messaggio è un'indicazione chiara: silenzio. La foto del profilo, da poco inserita dalla figlia maggiore del boss corleonese, è una rosa nera, sovrastata dal volto di una donna con un dito sulla la bocca. Sopra la scritta "shhh", silenzio. Il tutto rigorosamente su sfondo nero, in segno di lutto. A parlare di silenzio e di riserbo è anche l'avvocato Luca Cianferoni, storico legale del boss: "Ho ricevuto mandato dalla famiglia" spiega all'Agi, "di tenere il massimo riserbo e silenzio sulla vicenda". Insomma, come detta da Maria Concetta è vietato parlare. Un gesto in linea con l'atteggiamento da sempre tenuto dal boss: mai nessun cedimento, mai nessuna volontà di collaborare e rompere la regola principe di Cosa nostra: silenzio. Nelle ultime ore, subito dopo la morte del padre, oltre alla rosa nera, al dito sulla bocca della donna che indica di fare silenzio, su Facebook Maria Concetta Riina ha postato anche una famosa opera del writer Banksy, intitolata "Balloon Girl”, che ritrae una bambina che perde un palloncino a forma di cuore: tutti i post hanno ricevuto decine di "like" e parecchi commenti di condoglianze. 

Riina, la figlia del boss ha provato a zittire come faceva la mafia. Maria Concetta Riina, 34 anni, ha postato una foto con una ragazza che chiede silenzio. Anche il marito Antonino Ciavarello ha listato a lutto la sua pagina del social network, scrive il 17 novembre 2017 Pier Luigi Battista su "Il Corriere della Sera". «Pietà l’è morta», si dice in guerra. In guerra, appunto: quando si sviluppa un’atroce familiarità con la morte. Si dice quando la morte falcia innumerevoli vite, quando l’uccisione del nemico è un ordine categorico e non, come in tempo di pace, un reato. Ma con Totò Riina non si può parlare di pace. Lui e i suoi sgherri hanno compiuto mattanze senza pietà, hanno scatenato una guerra spietata contro incolpevoli esseri umani. Ora che Riina è morto, ci vorrebbe il silenzio delle emozioni, ma nell’epoca ciarliera dei social il silenzio è un’anticaglia del passato, e infatti da quando si è sparsa la notizia del boss deceduto è esplosa la voglia di dire, odiare, farsi trascinare dalla collera, e talvolta vilipendere, virtualmente, il cadavere ancora caldo dell’aguzzino. Qualcuno ha addirittura esultato. E la pietà? Fino a dove può spingersi la pietà per il corpo senza vita di un massacratore seriale, per uno che ha esercitato una tirannia sanguinaria, rivendicando come un titolo d’onore la propria crudeltà?

Il dilemma etico. Attraversa il web, in tempo reale, il dilemma etico che da sempre accompagna l’atteggiamento umano nei confronti della morte di chi si è trasformato in vita in un agente del Male. La Chiesa, che pure dovrebbe essere il quartier generale della misericordia, non sempre è stata clemente con le morti considerate «pericolose», fino a rifiutare cristiana sepoltura ai suicidi, i cui corpi non meritavano il seppellimento in terra consacrata. Oggi si discute sull’opportunità di un funerale religioso per Riina, ma le preoccupazioni sembrano piuttosto alimentate da considerazioni di ordine pubblico. Ma se è risuonata nei decenni scorsi l’angosciosa interrogazione «dove era Dio quando le camere a gas erano in funzione», anche oggi, a poche ore dalla morte del boia, ci si chiede dov’era Dio quando un bambino veniva sciolto nell’acido o altri bambini sono rimasti orfani dopo la carneficina di Capaci.

Pietà per Riina? Pietà per Riina? Nel segreto dei cuori e delle coscienze, forse, ma non nella dimensione pubblica del cordoglio. E del resto anche i «laici», i non credenti, non possono sfoggiare sempre sentimenti sublimi: le loro coscienze sono forse state travolte dai tormenti della pietas quando, dall’alto dei cieli non sporcati dal fango del terreno, venivano sganciate bombe poco intelligenti sui bambini destinati alla morte?

Un rito collettivo. Nell’epoca del web loquace, del resto, la morte di un personaggio pubblico è diventata l’occasione di un rito collettivo in cui ciascuno, per il semplice fatto di possedere l’arma di un necrologio in 280 caratteri, aspira ad essere l’officiante. Un rito di commozione e di partecipazione per la morte di un cantante, di un artista, di uno scrittore su cui riversare torrenti di affetto. Un rito non proprio misericordioso quando a morire è un simbolo del Male. Riina si è meritato un trattamento così furente oppure si sta facendo, a parole ma non in misura meno macabra, uno scempio collettivo del suo cadavere?

Il pubblico disprezzo è giustificato. Nel segreto del cuore di ciascuno, le risposte possono essere le più varie. Ma nella dimensione pubblica il disprezzo per un assassino spietato può essere più che giustificato. I familiari di Riina hanno tutto il diritto di piangere il loro morto, ma certo non, come ha fatto sempre via web la figlia del boss, intimare il silenzio pubblico con un gesto perentorio che appare come qualcosa di spregevole se si considera che proprio l’intimazione violenta e sanguinaria al silenzio è uno dei pilastri simbolici e non solo simbolici del terrore mafioso. Il disprezzo non si estingue con la morte. E l’invocazione alla pietas rischia di suonare ipocrita e declamatoria. «Pietà l’è morta» è terribile. Ma per Totò Riina la pietà non è mai stata viva, non è mai esistita.

Totò Riina, il vergognoso saluto sui social al capo dei capi: "Riposa in pace grande uomo". «Zio Totò sempre nel mio cuore», «È un grande uomo d’onore e come lui oggi non esistono più», «Grande uomo! Tanta ammirazione, l’unico in grado di gestire veramente l’Italia per anni». Sono solo alcuni dei commenti che molti utenti dei social network stanno scrivendo per rendere omaggio al boss di Cosa Nostra, scrive Federico Marconi il 17 novembre 2017 su "L'Espresso". È morto Totò Riina, ma la cultura mafiosa degli italiani gode di piena salute. E basta fare un giro sui social network per rendersene conto. «Zio Totò sempre nel mio cuore», «È un grande uomo d’onore e come lui oggi non esistono più», «Li potrai ammazzare una seconda volta sti sbirri di merda», «Grande uomo! Tanta ammirazione, l’unico in grado di gestire veramente l’Italia per anni». Sono centinaia i commenti che, tra cuoricini e faccine tristi, inondano le pagine Facebook dedicate al capo dei capi, morto a 87 anni nella notte tra 16 e 17 novembre. Un omaggio – continuo e spesso sgrammaticato – all’uomo che ha trasformato la criminalità organizzata siciliana in un’organizzazione terroristica e che ha passato gli ultimi 24 anni al 41 bis (il regime di carcere duro, ndr), dove stava scontando le decine di ergastoli a cui è stato condannato per le stragi, le bombe e gli omicidi eccellenti da lui voluti. Latitante per 24 anni, in carcere dal 1993, il Capo unico ha trasformato la criminalità organizzata siciliana in organizzazione terroristica che è arrivata persino a dichiarare guerra allo Stato. E molti misteri verranno sepolti con lui nella tomba. 24 anni di carcere in cui non ha mai parlato, non ha svelato nomi, complicità, connivenze. Riina si porta nella tomba tanti segreti. E sui social gli rendono onore per questo: «Zi Totò sei un uomo. Qua a Napoli tutti burattini: due giorni di questura e fanno succedere il finimondo», «Uomo coerente. Di questi tempi è raro», «Totò fino alla fine è rimasto muto. Riposa in pace uomo d’onore». C’è poi chi lo considera «l’unico vero vanto della Sicilia», chi si lascia andare alla nostalgia del “quando c’era lui le cose andavano meglio”, chi “grida” «Riina è morto, viva Riina». E ancora chi vuole organizzarsi per essere presente alle esequie: «Informatemi del funerale se si fa nel suo paese, per organizzarmi per andarci grazie. Tantissime condoglianze alla famiglia, baciamo le mani». Ogni tanto qualche utente commenta indignato per le dimostrazioni d’affetto, le condoglianze, gli omaggi. Ma viene subito rimesso in riga: «Certa gente non capisce che prima di parlare male del grande capo dovrebbe lavarsi la bocca con l’acido». E riprende subito dopo il vergognoso saluto al mafioso, stragista, omicida Totò “u curto”.

"Marcisci presto", nessuna pietà per Riina, scrive il 17/11/2017 "L'AdnKronos". "Morto Riina: mi auguro abbia anche sofferto". E ancora, "doveva essere ammazzato prima", "marcisci presto". Nessuna pietà per Totò Riina, il 'Capo dei capi' di Cosa Nostra morto alle 3.37 di questa mattina dopo 24 anni di carcere. La notizia del decesso del boss diventa infatti nuova materia di dibattito e scherno, con decine e decine di tweet e post che testimoniano tutta la rabbia degli utenti contro il mafioso, per la cui morte "oggi bisogna solo festeggiare". Un'esplosione di frasi su Twitter e Facebook, tutte (salvo rarissime eccezioni che invocano il silenzio ma non certo il perdono) cariche di disprezzo verso il mafioso responsabile di omicidi e attentati, al quale non si risparmia neanche l'insulto postumo: "Ci ha messo pure tanto, alla fine era ora che smettesse di rubare ossigeno a chi se lo merita davvero"; "Così dovrebbero morire i mafiosi: anni in un buco a morire tra atroci sofferenze, soli e disprezzati, senza alcun briciolo di potere. Che la terra non ti sia lieve"; "Finalmente Riina è morto. Marcisci presto", "Dovevi crepare prima pezzo di merda". Questi solo alcuni dei pensieri degli utenti, che sulla morte del boss scherzano - "Ora insegna agli angeli ad usare il C4", "chissà se salutava sempre" - e festeggiano, perché "se il buongiorno si vede dal mattino, io oggi inizio sorridendo". E in mezzo a tanta rabbia, spuntano anche pensieri per quanti sono morti per mano del capo di Cosa Nostra e il cui ricordo rischiava di essere sovrastato dal clamore della notizia: "Quando muore un assassino noi ricordiamo le vittime"; "Oggi il sorriso di Falcone e Borsellino è il nostro sorriso"; "Riina è morto - scrive ancora un altro utente -. Sono germogliati fiori a Capaci e in via D'Amelio a Palermo".

Corleone, dove Riina sembra un ricordo sbiadito. Viaggio tra giovani, stranieri e qualche nostalgico, scrivono Gaetano Ferraro e Silvia Buffa il 17 novembre 2017 "Meridionews". Per le vie del paese la gente parla, non si fa problemi. C'è chi dice di non conoscere il capo dei capi, morto all'età di 87 anni, chi di averlo visto soltanto in televisione. Si tende a volere sfatare il mito che vede la cittadina del Palermitano come capitale della mafia, ma qualcuno ancora parla del boss come di «una brava persona». «Un ci rumpiti 'a tiesta». La finestra di casa Riina si apre piano, dopo tre scampanellate rigorose al civico 24 di via Scorsone. E a fare capolino è la testa boccoluta di una donna, che dopo qualche secondo ha già richiuso la persiana con un tonfo. Non se la sente di commentare in nessun modo la notizia, arrivata nella notte, della morte di Totò Riina, che in questa casa ha lasciato i suoi affetti più cari. Un vicino, qualche casa più in fondo, si affaccia un paio di volte, per poi sparire subito dietro le tende. In tutte le strade limitrofe l’atmosfera è di diffidenza: non circola nessuno, solo qualche auto di passaggio ogni tanto. Poi solo silenzio, il rumore di qualche persiana che si chiude, i vicoli deserti. Fanno eccezione due anziani coniugi, alle prese con un trasloco a pochi metri dalla dimore dei Riina-Bagarella. «Noi abbiamo altro per la testa», taglia subito corto il marito. «Noi un canuscemu a nuddu», replica anche la moglie. In quella stessa zona, però, ci vivono da quando sono ragazzini, dicono dopo, è difficile credere che non si siano mai nemmeno incrociati con la famiglia più chiacchierata della giornata. A nominarlo, Totò Riina, lì nei pressi di casa sua sembra quasi che le poche persone incontrate in giro si chiudano a riccio, cambiando espressione, e la frase, specie da parte dei più anziani, è sempre la stessa: «Mai conosciuto, a stento so chi sia». C’è addirittura chi, come l’ultraottantenne Ippolito, dichiara di averlo visto solo alla televisione. Eppure anche lui vive a Corleone da sempre e di quei vicoli conosce volti, nomi e storie. Anche lui, come gli altri, è diffidente, ma si vede subito che qualcosa da raccontare ce l’ha. E mentre si lascia scappare qualche confidenza, cammina fino alle case tra via Ravenna e via Rua del Piano. «Lui è nato in questa casa gialla - dice, indicando una palazzina ad angolo -. Qua credo ci abiti ancora sua sorella Maria». Ma anche qui le uniche persone che si intravedono sono quelle che spostano le tende delle finestre per vedere fuori. E due trentenni che, passando accanto a Ippolito, senza troppa ironia gli dicono: «La gente perché non la porti a casa tua anziché qua?». Ma più ci si allontana dalla casa della famiglia Riina, più l’atmosfera si trasforma e il clima diventa via via più disteso. In pochi scappano dalle domande e la maggior parte dei passanti si dimostra tollerante nei confronti di curiosi e giornalisti. Fino ad arrivare alla piazza principale del paese, intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dove lo scenario ha del surreale e fra telecamere e microfoni di giornalisti venuti anche da molto lontano, l’impressione è quella di trovarsi quasi su un set cinematografico. E i paesani sono le comparse ideali di questo film in presa diretta. Gli umori sono diversi: i più giovani di Totò u curtu sanno poco, giusto quello che c’è da sapere. La mafia, loro, l’hanno «solo sentita nominare» e la vivono oggi come un fenomeno molto distante. «Mafia e politica sono d’accordo, lo saranno sempre, non credo che questo cambierà mai», dice un anziano della piazza. Corleone, però, è diversa secondo lui, e lo è da tempo ormai. «Basta passare qualche giorno qua per innamorarsi del paese», spiega un altro signore. «Per noi è una brava persona!», si limita invece a dire un’anziana signora a braccetto con la figlia. Tra pareri e sensazioni diverse, sono tutti concordi nel vederla come una morte uguale alle altre, che poco o niente cambierà alla città: «Ha il nostro rispetto, è pur sempre una persona che adesso non c’è più, malgrado quello che ha fatto», è il concetto a cui si aggrappano tutti.

L'ALTRA CORLEONE, QUELLA SANA E ONESTA CHE NESSUNO RACCONTA, scrive Pietro Scaglione il 17/11/2017 "Famiglia Cristiana". Dopo la morte del “capo dei capi” Totò Riina, si devono accendere i riflettori sulla Corleone che resiste e lotta per il cambiamento. Vi sono infiniti esempi di “storie del bene”. Dai Fasci Siciliani a Bernardino Verro, futuro sindaco socialista e illustre vittima della mafia. Moltissimi cattolici militarono nel movimento, nonostante gli assurdi veti di alcuni parroci legati a formazioni conservatrici e preoccupati dall’avanzata del socialismo. Dopo la morte del “capo dei capi” Totò Riina, si devono accendere i riflettori sull’altra Corleone, la Corleone che resiste e lotta per il cambiamento. Vi sono infiniti esempi di “storie del bene” non raccontate: i giovani impegnati nei campus di Libera nei terreni confiscati ai boss; l’antimafia sociale; l’azione della Camera del Lavoro (in continuità con l’insegnamento degli storici leader Placido Rizzotto e Pio La Torre);  le battaglie (passate e presenti) della sinistra e del cattolicesimo sociale; il ruolo del “Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e sull’Antimafia” (contenente reperti storici di notevole importanza); le storie di politici come Pippo Cipriani e di sindacalisti come Dino Paternostro (da sempre impegnati per il cambiamento e il rinnovamento della loro cittadina). Corleone non è soltanto la terra natale di Riina, Provenzano, Liggio e Navarra. Corleone è anche il teatro del primo sciopero agricolo contro il latifondo (nel lontano Ottocento), la cittadina delle prime lotte contadine e dei Fasci Siciliani, la terra natale di eroi come Bernardino Verro e Placido Rizzotto. L’altra Corleone affonda le sue radici nella stagione delle lotte dei Fasci Siciliani. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, infatti, la Sicilia conobbe un’importante stagione di speranza, diritti e progresso sociale. Il protagonista assoluto del nuovo corso fu il movimento dei Fasci siciliani, finalizzato a creare una democrazia sostanziale, a redistribuire le ricchezze e a combattere le ingiustizie. Si trattò di un originale movimento, che unì contadini, lavoratori e intellettuali nella lotta per un mondo migliore. Tra il 1891 e il 1894, i Fasci dei Lavoratori furono il primo esempio concreto di antimafia sociale, di partecipazione democratica e di socialismo nella nuova Italia unita. I Fasci rivendicarono battaglie sociali assolutamente condivisibili: uguaglianza, riduzione dell’orario di lavoro, aumenti salariali, miglioramento delle condizioni di vita dei contadini e di tutti i lavoratori. Il movimento ebbe anche il merito di organizzare, proprio a Corleone, nel 1893, il primo sciopero agricolo italiano. Oltre all’attività politica e sindacale in senso classico, i Fasci dei Lavoratori promossero anche l’emancipazione femminile e il progresso culturale delle masse, in una terra come la Sicilia con livelli record di analfabetismo. L’influenza del cristianesimo sociale sui Fasci fu notevole. Moltissimi cattolici militarono nel movimento, nonostante gli assurdi veti di alcuni parroci legati a formazioni conservatrici e preoccupati dall’avanzata del socialismo. Le religiosissime donne del movimento si ribellarono ai niet ecclesiastici e rifiutarono platealmente di partecipare alle processioni del Corpus domini per far comprendere ai parroci che i fedeli erano schierati dalla parte dei lavoratori e non dalla parte dei potenti e degli oppressori. Tra i protagonisti dei Fasci Siciliani vi fu un personaggio leggendario come Bernardino Verro, futuro sindaco socialista di Corleone e illustre vittima della mafia. Dopo avere affrontato una lunga detenzione e i rigori del Tribunale militare ai tempi di Crispi, Bernardino Verro fuggì all’estero, per sottrarsi alle persecuzioni subite in età giolittiana, “reo” di avere promosso imponenti scioperi dei contadini, come appunto la prima manifestazione antilafondista a Corleone. Dopo l’esilio in Tunisia e in Francia, Verro fondò la Casa del Popolo di Corleone e l’Unione agricola cooperativa, applicando il principio dell’affittanza collettiva. Il consenso popolare e l’entusiasmo delle masse lo salvarono, temporaneamente, dalla condanna a morte decretata dai mafiosi e dai latifondisti sin dai primi del Novecento.  In politica, promosse una proficua alleanza tra socialisti e cattolici, in opposizione al blocco di potere conservatore appoggiato dai proprietari terrieri. Con una decisione audace, Verro puntò sui comuni interessi di classe della base sociale dei cattolici e dei socialisti. Inizialmente, l’operazione ebbe enorme successo, come testimoniato dalle elezioni amministrative del 1907. Nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, Verro divenne sindaco di Corleone con oltre il 70% delle preferenze e la lista del Partito Socialista conquistò 26 seggi su 32, sbaragliando tutte le altre forze politiche. ll 3 novembre del 1915, Bernardino Verro fu assassinato da due killer mentre stava tornando a casa, dopo un’intensa giornata trascorsa in Municipio. L’assassinio di Bernardino Verro destò una fortissima emozione non soltanto in Sicilia, ma anche nel resto d’Italia. Migliaia di lavoratori resero omaggio alla salma esposta nel Municipio di Corleone e quasi tutto il paese si mobilitò (102 anni fa!). Un altro corleonese illustre fu Placido Rizzotto, partigiano in Carnia, militante socialista, segretario della locale Camera del Lavoro e dirigente della Cgil. Secondo Dino Paternostro, “Rizzotto capiva che la sua nuova trincea era a Corleone. Capiva che qui doveva organizzare la gente, che doveva lottare per liberare quei volti bruciati dal sole, stanchi per la fatica e invecchiati precocemente. Pensava che i contadini uniti avrebbero potuto possedere la terra da coltivare e da far produrre, senza più farsi succhiare il sangue dai gabelloti e dai padroni. Per questo spiegava loro la necessità di organizzarsi, di costituire le cooperative”. Rizzotto era impegnato nelle lotte contadine, nell’occupazione delle terre, nella rivendicazioni dei diritti dei braccianti, nella battaglia contro le ingiustizie sociali e contro i privilegi dell’aristocrazia terriera. I suoi nemici giurati erano i mafiosi, i loro complici politici e i latifondisti. Il 10 marzo del 1948 fu assassinato dalla mafia e il suo corpo fu gettato in una foiba e ritrovato dopo 64 anni grazie alle moderne tecniche dell’analisi del Dna. A distanza di quasi 70 anni, il nipote Placido Rizzotto (anche lui corleonese e con lo stesso nome dello zio) ipotizza scenari da guerra fredda, tra trame anticomuniste, complicità della destra agraria e servizi segreti deviati. Altri tre martiri italiani furono legati in qualche modo al caso Rizzotto: il procuratore Pietro Scaglione (ucciso nel 1971) fu il Pubblico Ministero che chiese l’ergastolo per i killer; il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (assassinato nel 1982) fu il capitano dei Carabinieri che avviò le indagini; il leader comunista Pio La Torre (ucciso pochi mesi prima di Dalla Chiesa) fu il successore di Placido Rizzotto alla guida della Camera del Lavoro di Corleone.

Un uomo è un uomo…, scrive Piero Sansonetti il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". La coraggiosa sentenza della Cassazione che attribuisce a Toto Riina il diritto a «morire con dignità» è un colpo al populismo giudiziario e a chi pensa che la legge non sia uguale per tutti. È una sentenza che provocherà molte polemiche. Un colpo secco a quell’ideologia giustizialista – e a quella retorica giustizialista – che da molti anni prevale in Italia. Nel senso comune, nel modo di pensare delle classi dirigenti, negli automatismi dell’informazione e anche della politica. Dire che Totò Riina va liberato – perché è vecchio, perché è malato, perché le sue condizioni fisiche non sono compatibili con la vita in carcere, perché non è più pericoloso – equivale a toccare il tabù dei tabù, e cioè a mettere in discussione, contemporaneamente, alcuni dei pregiudizi più diffusi nell’opinione pubblica e nell’intellettualità (espressioni che ormai, largamente, coincidono). Il primo pregiudizio è quello che riguarda la legge. Che spesso non è concepita come la regola che assicura i diritti e la difesa della civiltà, ma piuttosto come uno strumento per punire e per assicurare la giusta vendetta, privata o sociale.  Non è vista come bilancia: è vista come clava. Il secondo pregiudizio riguarda l’essere umano, che sempre più raramente viene considerato come tale – e dunque come titolare di tutti i diritti che spettano a qualunque essere umano – e sempre più frequentemente viene invece inserito in una graduatoria di tipo “etico”. Cioè si suddivide l’umanità in innocenti e colpevoli. E poi i colpevoli, a loro volta, in colpevoli perdonabili, semiperdobanbili o imperdonabili. E i diritti vengono considerati una esclusiva dei giusti. Il diritto di negare i diritti ai colpevoli, o anche solo ai sospetti, diventa il nocciolo duro del diritto stesso. Salvatore Riina, capo della mafia siciliana per circa un ventennio tra gli anni settanta e i novanta, è concordemente considerato come il vertice dell’umanità indegna, e dunque meritevole solo di punizione. Chiaro che per lui il diritto non esiste e qualunque ingiustizia, se applicata a Riina (o all’umanità indegna) inverte il suo segno e diventa giustizia. E, dunque, viceversa, qualunque atto di giustizia verso di lui è il massimo dell’ingiustizia. La Corte di Cassazione, con una sentenza coraggiosissima, inverte questo modo di pensare. E ci spiega un concetto semplice, semplice, semplice: che la legge è uguale per tutti. Come è scritto sulle porte di tutti i tribunali e sui frontoni di ogni aula. Il magistrato la studia, la capisce, la applica: non la adatta sulla base di suoi giudizi morali o dei giudizi morali della maggioranza. La legge vale per Riina come per papa Francesco, per il marchese del Grillo come per il Rom arrestato l’altro giorno col sospetto di essere l’assassino delle tre sorelline di Centocelle. E poi la Corte di Cassazione ci spiega un altro concetto, che fa parte da almeno due secoli e mezzo, della cultura del diritto: e cioè che la pena non può essere crudele, perché la crudeltà è essa stessa un sopruso e un delitto, e in nessun modo, mai, un delitto può servire a punire un altro delitto. Un delitto non estingue un altro delitto, ma lo raddoppia. La Cassazione fa riferimento esplicito all’articolo 27 della nostra Costituzione (generalmente del tutto ignorato dai giornali e da molti tribunali) e stabilisce che non è legale tenere un prigioniero in condizioni al di sotto del limite del rispetto della dignità personale e del superamento del senso di umanità nel trattamento punitivo. La Cassazione non dice che è ingiusto, o incivile, o inopportuno: dice che è illegale. E cioè stabilisce il principio secondo il quale, talvolta, scarcerare è legale e non scarcerare è illegale. Idea molto rara e di difficilissima comprensione. La prima sezione penale della Cassazione, che ha emesso questa sentenza respingendo una precedente sentenza del tribunale di sorveglianza di Bologna, e dichiarandola “errata”, ha avuto molto coraggio. Ha deciso senza tener conto delle prevedibili reazioni (e infatti già ieri sono piovute reazioni furiose. Dai partiti politici, dai giornalisti, dai maestri di pensiero). Usando come propria bussola i codici e la Costituzione e non il populismo giudiziario. È la prova, per chi non fosse convinto, che dentro la magistratura esistono professionalità, forze intellettuali e morali grandiose, in grado di garantire la tenuta dello stato di diritto, che ogni giorno la grande maggioranza della stampa e dell’informazione tentano di demolire. La magistratura è un luogo molto complesso, dove vive una notevole pluralità di idee in lotta tra loro. Non c’è solo Davigo e il suo spirito di inquisizione.

È giusto gioire per la morte di Totò Riina? Epicuro risponde, scrive il 17 novembre 2017 "Blasting News". V. Cabbia Autore della news (Curata da M. Calamuneri). Salvatore 'Totò' Riina ha smesso di vivere. Precisamente alle ore 3.37 del 17 novembre 2017. Dopo due operazioni e 5 giorni di coma, non ce l'ha fatta. Era ricoverato nel reparto detenuti dell'ospedale Maggiore di Parma, in regime di 41 bis (il carcere duro per i reclusi più pericolosi) ormai da 24 anni. Date le condizioni di salute, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha concesso il permesso straordinario ai famigliari di poter vedere il detenuto. La famiglia, però, non ha avuto il tempo di vederlo in vita. L'uomo stava scontando 26 condanne all'ergastolo per decine di omicidi e stragi. E, nonostante la detenzione al 41 bis da 24 anni, per gli inquirenti era ancora il capo di Cosa nostra. Sui social c'è molto movimento tra commenti, ingiurie verso #Riina, espressioni di felicità per la sua morte. La figlia minore, Maria Concetta, su Facebook non ha rilasciato commenti, ma ha postato solamente un immagine di un una rosa nera, sovrastata dal volto di una donna che emerge da un sfondo scuro e un dito che sulla bocca con su scritto “shhh”, per indicare il silenzio. Come reagire alla notizia della morte di un uomo che ha commesso così tanti omicidi ed ha impartito così tanto dolore? Come poter avere una visione chiara della vicenda? Come dovremmo reagire di fronte alla morte di quest'uomo? È moralmente accettabile gioire per la sua morte? Queste sono alcune tra le domande che hanno attraversato la mente di molti italiani che, aprendo i giornali, hanno appreso della scomparsa del boss della Mafia siciliana. Per avere una visione completa della questione, bisogna partire dal presupposto che ogni individuo sceglie le proprie convinzioni e i propri valori, in base alla proprie esperienze e a delle valutazioni personali. Questa ontologia soggettiva si riflette nelle azioni quotidiane, e giustifica, secondo il soggetto, la bontà del proprio agire nel mondo. Nel caso particolare, troviamo un uomo, che più volte ha affermato di non essere pentito dei propri atti, che ha rilasciato dichiarazioni pesanti da cui non trapelano vacillamenti né tanto meno quel senso di pentimento che soddisferebbe la 'sete di vendetta' che potrebbe soddisfare i familiari degli omicidi da lui commessi e dal popolo italiano intero che ha subito gravi affronti da quest'uomo. Dovendo quindi rispondere alla domanda se sia giusto o meno 'gioire' per la morte di Totò Riina, il primo passo è analizzare la condizione terrena dell'ultimo periodo del detenuto. Siamo di fronte quindi ad un uomo malato, che dichiara con forza di non avere rimorsi, ma di cui alla fine non possiamo scrutare i veri pensieri e un'eventuale sofferenza interiore che è sempre stata celata. Si è di fronte ad un soggetto che negli ultimi 24 anni della propria vita è stato condannato al regime peggiore per i carcerati in Italia – il 41bis – e che durante la fine della sua vita, data l'età, si è ammalato gravemente. Queste però, non sono condizioni sufficienti a decretare in modo oggettivo che il suo stato d'animo fosse inquieto, o che comunque stessa passando quel 'contrappasso dantesco' che tutti desidererebbero per dichiarare che giustizia è stata fatta anche dal punto di vista morale. La redenzione di Totò Riina, per quanto imperscrutabile, sembra dunque che non sia avvenuta, ad ogni modo, ciò non dovrebbe influire nella reazione del lettore nel momento in cui apprende la notizia.

La concezione della morte secondo Epicuro. Il filosofo greco #Epicuro, infatti, ci invita a riflettere sul concetto stesso di morte, affermando che: “La morte per noi non è nulla: ciò che infatti è distolto è insensibile, e ciò che è insensibile non ha niente a che fare con noi”. Il concetto risulta più chiaro considerando anche ciò che egli dice nelle sua 'Lettera sulla felicità', dove ci suggerisce di prendere “dimestichezza con il pensiero che per noi la morte non è nulla, perché tutto il bene e tutto il male risiedono nella sensazione, e la morte è privazione di sensazione […] cosicché è sciocco che dice di temere la morte non perchè sia dolorosa quando c'è, ma perchè addolora quando deve ancora venire; in effetti ciò che, presente, non dà turbamento, non è ragionevole che provochi dolore quando lo si aspetta. Il più tremendo dei mali dunque, la morte, per noi non è nulla, dal momento che quando ci siamo noi la morte non c'è e quando c'è la morte non ci siamo più noi. Quindi non è nulla né per i vivi né per i morti, perchè rispetto agli uni non c'è, rispetto agli altri sono questi a non esserci”.

La giustizia e la saggezza come elementi fondamentali per la felicità umana. Da queste parole, si può comprendere come, sebbene ci si trovi davanti alla morte di un uomo che si è imposto nella società danneggiando tanti individui in modi ingiustificabilmente crudeli, la sua morte non ha influito nelle sue sensazioni, e non deve influire nemmeno su quelle altrui. Epicuro espone brutalmente il proprio pensiero sulla morte, dal quale non si riesce ad uscirne soddisfatti da un punto di vista prettamente emotivo ed egoistico. Per analizzare la questione in modo formale dal punto di vista filosofico si dica che il filosofo aveva ben chiaro cosa fosse per lui la giustizia. Infatti, egli stabilisce che: “Il giusto secondo natura corrisponde a ciò che si rivela utile per non danneggiare gli altri e non essere da essi danneggiati” (aforisma 31). Il pensatore, inoltre, non crede sia possibile discernere tra un comportamento virtuoso e il raggiungimento della felicità, in quanto: “Non è possibile vivere felici senza condurre una vita saggia, specchiata e giusta, né condurre una vita saggia, specchiata e giusta senza essere felici. Chi non realizza questa condizione, ovvero non vive in modo assennato, specchiato e giusto, non può vivere felice”. Epicuro dunque, stabilisce dei criteri entro i quali l'uomo può essere definito saggio, e quindi felice, canoni in cui il comportamento di Totò Riina, con certezza, non rientra. Il filosofo, inoltre adduce che: “Non sono i conviti e le feste continue, né la pratica sessuale con donne e fanciulli [l'omosessualità era una pratica molto diffusa nell'antica Grecia], né il pesce pregiato e tutto quanto offre una mensa raffinata a rendere la vita felice, ma il lucido calcolo che valuta le cause di ogni scelta in positivo o negativo. Di tutte queste cose il principio e il bene maggiore è la saggezza […] che insegna come non sia possibile vivere felici se non si conduce una vita ragionevole, specchiata e giusta. Le virtù sono infatti connaturate alla vita felice e la vita felice è da esse inscindibile.”

Concludendo. Si è di fronte ad una condanna di un comportamento da parte di un grande filosofo, che però, non consola e non soddisfa l'uomo comune in quanto viene esclusa a priori la possibilità della gratificazione degli impulsi più istintivi e naturali di vendetta. Il punto è, che come suggerisce l'epicureismo, si dovrebbe ricercare i motivi e le ragioni della nostra felicità nel proprio io, per arrivare ad una situazione di atarassia, che non è condizionata dagli eventi esterni. L'atarassia corrisponde a quello stato d'animo pieno, ordinato, in contrapposizione al vuoto e al marasma che possono prevaricare la razionalità del soggetto imponendogli sofferenza e caos. Secondo Epicuro “Il saggio né rifiuta il vivere né teme il non vivere, perchè né è contrario alla vita, né ritiene che ci sia qualcosa di male nella non-vita”. L'individuo che si pone come ideale da conseguire la saggezza, deve necessariamente essere indipendente nel pensiero e riuscire a controllare la propria emotività, sebbene l'ambiente esterno possa essere in tumulto, in modo da dominare e sopportare i dolori fisici e morali. La brutalità del pensiero di Epicuro ci fa riflettere dunque sul fatto che la morte di un uomo, seppur abbia commesso atti spregevoli, non deve tangere in alcun modo il lettore, né in senso positivo né in senso negativo. Il fatto che Totò Riina abbia cessato di esistere non è qualcosa per cui dovremmo provare un qualsiasi tipo di sentimento, per il semplice fatto che essa sostanzialmente non ci riguarda. Ciò non significa che la fine della vita del Boss mafioso non ci può lasciare spunti di riflessione o dei dubbi, ma piuttosto dovrebbe non coinvolgerci dal punto di vista emotivo, lasciando spazio ad una lucida riflessione sul percorso di quest'uomo, in modo da conoscere ed essere informati su ciò che ha sbagliato, e non tanto sulla gratificazione personale che la sua morte dovrebbe darci. 

BADPAESE: Totò Riina, il ruolo della giustizia ed il peso della vendetta, scrive su "Superuovo" Elia l'8 giugno 2017. Quali sono i fatti? Riina ha 86 anni, soffre di disturbi cardiaci e neurologici, ha un tumore al rene e non è nemmeno in grado di mettersi seduto da solo; per questi motivi è stato più volte ricoverato negli ultimi anni. Questo non significa affatto che debba essere automaticamente trasferito agli arresti domiciliari, considerata l’entità della sua pena e la sua pericolosità sociale. La Suprema Corte ha analizzato le motivazioni addotte dal Tribunale di Bologna e ha rilevato che sono incomplete e in alcuni casi contraddittorie. Non ha scritto da nessuna parte cosa bisogna fare nel caso concreto, perché non è il ruolo della Cassazione: non decide sul fatto in questione, ma controlla solamente se è stato rispettato il diritto, le forme; in questo caso l’obbligo di motivazione non è stato del tutto adempiuto dal giudice di Bologna, e quindi ha rimesso a lui la decisione. Anche la tanto evidenziata espressione sul ‘Diritto ad una morte dignitosa’ non va letta come un invito al differimento della pena ai domiciliari, perché si può morire dignitosamente anche in carcere. Evitiamo quindi di lasciarci andare a facili polemiche o a riflessioni sdegnate, non ce n’è alcun bisogno. Ma spostiamoci ora sulla reazione sociale a questa ‘non notizia’. In tanti, tantissimi hanno urlato allo scandalo, all’ingiustizia, alla vittoria della mafia e all’affronto alla memoria di Falcone, Borsellino e tutte le altre vittime di Cosa Nostra. Tra le frasi più gettonate “Perché mai dovremmo concedere una morte dignitosa a Totò Riina, che non l’ha concessa alle sue vittime?”. Questa frase ad effetto esprime al pieno il problema: quale deve essere il ruolo della giustizia penale? La legge deve essere uguale per tutti, punto e basta. Il fatto che Riina sia un personaggio orribile, che abbia commesso crimini atroci e che non si sia mai pentito non può e non deve influire sui suoi diritti in modo superiore rispetto a quanto prevede la legge. Lo Stato non può provare rabbia, rancore, desiderio di vendetta, non può fare uno ‘strappo alla regola’ perché questo particolare detenuto è uno scarto umano, non può negare a qualcuno i diritti riconosciuti a tutti. Soprattutto, lo Stato non può trattare in modo crudele un detenuto perché questi è stato crudele con le sue vittime: farlo significherebbe che lo Stato utilizza lo stesso metro morale della mafia, che si adegua alla barbarie mafiosa utilizzando la stessa moneta.

Cosa distinguerebbe allora lo Stato dalla mafia? Lo Stato, con la condanna penale, limita la libertà personale del condannato, ma non elimina il diritto alla vita né il diritto alla salute, e quindi il diritto a morire in modo dignitoso. Negarlo costituirebbe un trattamento ‘inumano e degradante’, vietato sia dalla Costituzione che dalle convenzioni internazionali. Non lasciamoci prendere dalla rabbia che giustamente ci provoca vedere la faccia di Riina, non lasciamo che il comprensibile sentimento di vendetta sovrasti i concetti di giustizia e i principi di giustizia sui quali il nostro Stato e la nostra Costituzione si fondano (ma ancor prima, ogni Stato di diritto). Qual è la riflessione di fondo che possiamo trarre da questa vicenda? A mio avviso che bisogna sempre ragionare con la testa, mai con la pancia, mai sull’onda delle emozioni, perché questo estremizza le idee, radicalizza i concetti, svuota i ragionamenti di contenuto critico, fino a ridurre tutto ad un giudizio di ‘del tutto bianco o del tutto nero’, ‘del tutto giusto o del tutto sbagliato’. Se questo modo di pensare di declina nell’ambito penale si arriva a processi mediatici, volontà di condanne esemplari, accettazione della tortura, cancellazione dei diritti per chi ha commesso gravi reati (attenzione, questi non sono esempi qualunque, sono concetti espressi da milioni di persone sui social e cominciano a diventare anche slogan politici) Ed ecco che scompare lo Stato moderno. Vi prego, quindi, di valutare sempre tutte le conseguenze delle parole e delle idee, prima di dirle o di scriverle. Per ricordare ancora una volta il valore della vita umana, di ogni vita umana, mi affido alle parole del compianto Marco Pannella, in occasione del rapimento di Aldo Moro: “Io penso […] che una solidarietà nei confronti di chi vede ammazzati i propri cari possa essere espressa solo a partire dal momento in cui una certezza ci domina: che in qualsiasi momento […], innanzitutto per il colpevole prima che per l’innocente, la vita è considerata sacra. E in questo Parlamento repubblicano, da radicale non violento quale sono, rivendico questo principio di civiltà: per il colpevole la vita sacra, senza di che non ha senso piangere i morti che ci cadono accanto…”.

Morte di Riina, la figlia Maria Concetta ai giornalisti: "Vi denuncio". "Ho tre figli piccoli, devo tutelarli". Il legale: "Questo è scandalismo". Arriva anche la vedova. "Non vi voglio neanche vedere", dice ai cronisti, scrive il 18 novembre 2017 "Quotidiano.net". Si è tenuta stamattina l'autopsia sul corpo di Totò Riina, il boss di Cosa Nostra morto ieri all'ospedale di Parma dopo un ricovero iniziato a dicembre 2015 e da una decina di giorni in terapia intensiva. Oltre al medico legale Rosa Gaudio, nominato dalla Procura, era presente anche un consulente tecnico incaricato dalla famiglia Riina.  Sul decesso è stato aperto un fascicolo per omicidio colposo, escamotage evidente per consentire gli accertamenti medico-legali. Qualche tensione vista la presenza della figlia del boss dei boss, Maria Concetta, che si è scagliata contro i cronisti: "Ho dei figli minori, non ho niente da dire. Vi denuncio", accusa la maggiore dei quattro figli di Totò. E specifica: "Ho tre bambini piccoli che vedono la foto della madre sui giornali. Forse voi non avete capito. Ho dei figli da tutelare, per cortesia smettetela" ha ripetuto la donna, accerchiata da fotografi e cameramen, chiedendo "rispetto per il dolore di una famiglia" e non rispondendo alla richiesta di spiegare il messaggio postato ieri su Facebook, dove invitava al silenzio. Maria Concetta Riina è poi entrata nell'istituto, 'scortata' dal suo legale e accompagnata da personale delle forze dell'ordine. All'Istituto di Medicina legale di Parma è arrivata anche la vedova di Riina, Ninetta Bagarella, accompagnata dal figlio Salvo. Sono giunti a bordo di una Panda e Salvo ha aperto la portiera alla madre, prima di entrare da una porta sul retro. "Fatemi camminare, non vi voglio neanche vedere", ha detto Ninetta Bagarella ai cronisti.

IL LEGALE - "Là c'è un cadavere, ve ne dovete andare, questa non è stampa. Questo è scandalismo", ha detto invece l'avvocato Luca Cianferoni, difensore di Totò Riina e legale della famiglia del boss di Cosa Nostra, all'ingresso della Medicina Legale dell'ospedale di Parma che custodisca la salma del capo mafia. E ancora: "Ma come si permette?", ha risposto a un cronista che gli ricordava come Riina non si sia mai pentito, fino all'ultimo. Infine il legale scrive una nota all'Ansa che insieme alla collega Tiziana Dell'Anna condanna "l'aggressione nei modi condotta da giornalisti e fotografi davanti al portone dell'Istituto di Medicina Legale dell'Ospedale Maggiore di Parma nei confronti della signora Maria Concetta Riina, madre di tre figli minori in età scolare". E aggiungono che "si riservano di inoltrare immediato esposto agli Ordini professionali di appartenenza e ogni altra azione in ogni sede".

Questa sera, domenica 10 dicembre in prima serata su Italia 1, va in onda il nuovo appuntamento con “Le Iene Show”. Conducono Nicola Savino, Giulio Golia e Matteo Viviani. Assente ancora Nadia Toffa che si sta riprendendo dal malore da cui è stata colpita lo scorso 2 dicembre, scrive la Redazione di Marida Caterini, Domenica, 10 Dicembre 2017 10:05. Recentemente è balzata agli onori della cronaca la notizia che, su un sito di e-commerce, era stato pubblicato un annuncio per la prevendita di alcune cialde da caffè dedicate a Totò Riina, il boss di Cosa Nostra deceduto lo scorso 17 novembre. Questa iniziativa, secondo quanto riportato dai media, sarebbe stata lanciata dalla figlia del “Capo dei capi”, Maria Concetta, e dal genero Antonino Ciavarello, che da anni vivono a San Pancrazio Salentino (Brindisi). Il progetto ha suscitato forti polemiche, tanto da spingere il sito di e-commerce a bloccare la pagina dedicata alle cialde. Giulio Golia si reca nel piccolo centro pugliese per intervistare Maria Concetta. Di seguito alcuni stralci:

Iena: Quando suo padre era latitante…

Maria Concetta: Noi eravamo con mio padre, stavamo insieme.

Iena: E dove eravate?

Maria Concetta: In giro per l’Italia. […] Giravamo sempre, di continuo, non ci fermavamo mai.

Iena: Chi c’era?

Maria Concetta: Io, mia madre e i miei fratelli. […] Io, mio padre, mia madre e i miei fratelli siamo stati sempre insieme durante la latitanza. Non andavamo a scuola, era mia madre a farci da insegnante, perché giravamo sempre, di continuo, non ci fermavamo mai. Ma nonostante tutto facevamo una vita normale, andavamo a fare la spesa…

Iena: Ma anche lui veniva?

Maria Concetta: Sì, sì, usciva normalmente, senza trucchi, senza maschere. Ti sembrerà allucinante eppure è così.

Iena: Giravate anche per Palermo?

Maria Concetta: Sì, anche. Quando c’era bisogno uscivamo, per andare a fare la spesa, in farmacia. […] Quando ci fu la strage di Capaci l’abbiamo saputo dal Tg, eravamo tutti sul divano. Mio padre era normale, non era né preoccupato né felice, e non è vero, come hanno detto, che ha brindato con lo champagne.

Iena: Bernardo Provenzano veniva a casa?

Maria Concetta: No, non lo conosco io. In televisione l’ho visto. Forse all’epoca con mio padre quando erano ragazzini a Corleone si conoscevano, penso, perché erano vicini di casa. Però io a casa nostra non l’ho mai visto. Sembrerà strano perché molti diranno “mangiavano e bevevano insieme” ma non è vero. Può essere che mio padre queste persone le conoscesse e intrattenesse rapporti al di fuori dell’ambiente familiare.

Iena: Ma voi sapevate di essere in latitanza? Che cosa vi diceva?

Maria Concetta: Noi facevamo una vita normale.

Iena: Ma lui arrivava e diceva “ce ne dobbiamo andare”?

Maria Concetta: Diceva “per il lavoro, dobbiamo andarcene in un altro posto”. […] Non lo capivamo…magari eravamo pure piccoli. Non avevamo questa percezione di una cosa brutta, negativa… tipo che fossimo braccati. Non ci diceva “dobbiamo scappare” di notte oppure “dobbiamo allontanarci perché siamo seguiti o siamo braccati”. No, lui ci diceva con calma “dobbiamo andarcene…”.

Iena: Prendevate la macchina…?

Maria Concetta: Sì, facevamo le valigie e ce ne andavamo.

Iena: Ma andavate anche in vacanza?

Maria Concetta: Sì, andavamo al mare, stavamo una, due settimane.

Iena: In quel periodo c’erano molti posti di blocco, ne avrete trovato uno?

Maria Concetta: La verità? Neanche uno, mai.

Iena: Non avete mai visto neanche un carabiniere?

Maria Concetta: Li abbiamo visti però non ci fermavano.

Iena: E suo padre che faceva?

Maria Concetta: Era tranquillo. Nella vita siamo stati magari fortunati per 20 anni… giravamo e non ci fermava mai nessuno…

Iena: E quando è stato arrestato?

Maria Concetta: Noi non c’eravamo. L’abbiamo visto in tv. Abbiamo raccolto le nostre cose, chiamato un taxi e siamo andati, mia madre e i miei fratelli, a Corleone.

Maria Concetta: Me ne sono andata dalla Sicilia per stare lontani dal contesto e stare tranquilli, ma non è stato possibile perché ci hanno sequestrato ingiustamente le aziende intestate a mio marito e ci hanno buttati in mezzo alla strada. Questo perché noi ci chiamiamo Riina. E noi dobbiamo essere colpevolizzati per questo per tutta la vita, solo perché non prendo le distanze da mio padre? Non mi sembra giusto. Se esiste la legge esiste per tutti, non è che per i Riina la legge deve essere diversa. Dove dovrei andare? In esilio a Honolulu?

Iena: Però è curioso che siete venuti a stare in Puglia a 30 km da Mesagne, dove è nata la Sacra Corona Unita…

Maria Concetta: Io non ho rapporti con queste persone. Allora, se andavo a Napoli e c’era la Camorra, o in Calabria e c’era la ‘Ndrangheta? Dove dobbiamo andare, in un’isola deserta?

Maria Concetta: Io non posso prendere le distanze da mio padre. Perché mio padre ai miei occhi era un’altra persona, non è il mostro che vedete voi, che vede l’Italia intera. È stato un buon padre. E poi penso che ci sono delle cose che in cuor mio non sono state commesse.

Iena: Ma era uno stinco di santo suo padre?

Maria Concetta: Non lo so se era uno stinco di santo, non lo devo giudicare io, sarà il Signore a giudicarlo, l’ha già giudicato del resto, è morto il 17 novembre. Se non era uno stinco di santo sarà all’Inferno, se lo era starà in Paradiso. Non lo so dove sarà. Per me è stato un buon padre.

Iena: Ci sono pentiti, intercettazioni… Non posso condividere quello che mi dice, è follia. Non può non prendere le distanze da suo padre…

Maria Concetta: Io ho le mie buone ragioni per pensare che mio padre in certe cose non c’entra. Non ha potuto fare tutto quello da solo.

Iena: Ma era un pupazzo suo padre?

Maria Concetta: Non lo so se era un pupazzo.

Iena: Ma perché non prende le distanze, c’è qualcosa che noi non sappiamo?

Maria Concetta: Può essere ma io non lo so… Il problema è che nel momento in cui lo dico vengo attaccata, perché mio padre ha fatto comodo a tante persone. Si è accollato tante cose che altrimenti avrebbero dovuto accollarsi altri. Era un parafulmine.

Biografia di Maria Concetta Riina di Giorgio Dell'Arti.  

• Palermo 7 dicembre 1974. Figlia di Totò. Nel 2012 da Corleone si trasferì con la famiglia (il marito Tony Ciavarello, che l’aveva preceduta, e i tre figli) nel Brindisino, a San Pancrazio Salentino.

• «Chi eravamo, noi lo sapevamo da sempre: noi lo sapevamo che eravamo latitanti. Da quando io mi posso ricordare, l’ho sempre saputa questa cosa che mio padre era ricercato e che noi dovevamo scappare perché lo cercavano, perché mio padre era accusato di tutti questi omicidi (...) Per me però era una cosa che era al di fuori da quello che vedevo io o che sentivo in tv. Era una cosa lontana da quello che vivevo nella mia famiglia (...) Tutti gli amici mi chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il giorno dopo che si sono portati via mio padre (...) Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro (...) Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l’avrebbero fatto pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia (...) Mio padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me, come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato (...) Vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l’ho vissuto e così lo vivo ancora (...) Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro (...) Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano. Non è bello sentirsi dire certe cose. Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l’ultima volta (...) Tempo fa avevo anche fatto una domanda di accesso a un corso che organizzava servizi finanziari. Sono salita a Milano, è andato tutto bene, ho legato con tutti, anche con il direttore commerciale. Tutto a postissimo. Poi hanno visto sul mio documento di identità nome e provenienza: Riina e Corleone. Alla fine mi hanno fatto la fatidica domanda: “Ma tu sei parente di?”. Io ho risposto: certo, sì, sono la figlia. L’ho detto con naturalezza – io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto “Sono la figlia di Riina”, però se me lo domandano non ho problemi a dirlo. Non è passata nemmeno mezz’ora e mi ha chiamato il direttore dicendo che era offeso perché non gliel’avevo detto prima. Era un grosso problema per lui, per l’immagine della sua azienda (...)» (ad Attilio Bolzoni) [Rep 28/1/2009].

• «Non si è mai fatto segnalare per particolari attività criminali, non ha una storia segnata da faide, non è un centro nevralgico di traffici illeciti. Eppure da qualche mese il piccolo comune di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi, è segnato in rosso sulle cartine di almeno tre procure. È San Pancrazio, infatti, il comune che potrebbe rappresentare il trait d’union tra la Sacra corona unita e Cosa nostra. Un sodalizio inedito quello tra le due associazioni criminali, su cui si sono accessi i riflettori degli investigatori. L’ultimo fascicolo, in ordine di tempo, è arrivato sulla scrivania del sostituto procuratore di Brindisi Milto De Nozza (…). Dalle pagine degli atti investigativi fa capolino un cognome che – al contrario della cittadina brindisina – ha fatto la storia criminale di questo Paese: quel cognome è Riina. Dal 2012, infatti, San Pancrazio Salentino è stato scelto come dimora da Maria Concetta Riina, primogenita di Totò ’u curtu, super boss di Cosa nostra, arrestato il 15 gennaio del 1993 e da allora detenuto in regime di 41 bis al carcere di Opera a Milano. Ed è dal carcere di Opera che sono arrivate alcune tracce, capaci di far accendere la curiosità degli investigatori. Riina, infatti, stando alle indagini della procura nissena, durante la cosiddetta ora di socialità in carcere ha instaurato un rapporto privilegiato con alcuni esponenti della Sacra corona unita, che come lui sono detenuti in regime di 41 bis. Caso vuole infatti che il carcere di Opera ospiti anche alcuni personaggi di prima grandezza della malavita pugliese, come Alberto Lorusso, fino agli anni ’90 considerato al vertice della cosca di Brindisi, la stessa zona dove è andata a vivere la figlia di Riina. La primogenita del padrino di Corleone aveva seguito in Puglia il marito Tony Ciavarello, già sottoposto alla misura della sorveglianza speciale dopo alcune condanne per gioco d’azzardo e danneggiamento. La loro presenza nel territorio era finita sui giornali dopo la strage di Brindisi, quando il 19 maggio del 2012 un ordigno esplose di fronte all’istituto scolastico Morvillo-Falcone. Adesso a raggiungere la giovane Riina a San Pancrazio, potrebbe arrivare anche la madre, Ninetta Bagarella. La signora Riina è attualmente a Corleone ma starebbe valutando l’opzione di trasferirsi anche lei nel Brindisino. Da dove proviene questa predilezione diffusa per il territorio brindisino da parte della famiglia Riina? Se lo chiedono gli investigatori siciliani ed anche quelli pugliesi, che al momento non possono fare altro che registrare il possibile arrivo della signora Riina a San Pancrazio. Sia Maria Concetta Riina che la madre, infatti, sono persone libere e non sottoposte ad alcuna misura restrittiva. (…)» (Giuseppe Pipitone) [Fat 10/10/2013].

Mafia, bloccato l'annuncio online sulle cialde di caffè dedicate a Totò Riina. L'annuncio online per le cialde di Totò Riina. Brindisi, la pagina era stata creata dalla figlia di Totò Riina. Il sindaco di San Pancrazio salentino: "Non possiamo tollerare che tra noi esistano persone che inneggiano a un boss sanguinario", scrive Chiara Spagnolo il 7 dicembre 2017 su "La Repubblica". Stop alla pubblicizzazione delle cialde di caffè Zù Totò: la pagina creata dalla figlia di Totò Riina, Maria Concetta, e dal genero Tony Ciavarello è stata oscurata. Sul sito di e-commerce che l'aveva ospitata per qualche giorno, si legge testualmente "questo account risulta bloccato". La decisione è stata presa dai gestori del sito, dopo la bufera scatenata dalla diffusione della notizia dell'iniziativa imprenditoriale, firmata dai Ciavarello-Riina, e della quale gli investigatori appureranno la veridicità. Lanciare un brand con marchio Riina in realtà non è un reato penalmente perseguibile - spiegano le forze dell'ordine - ma la questione viene tenuta costantemente sotto controllo dai carabinieri del comando provinciale di Brindisi e anche dalla Dda di Lecce, che ha sempre mantenuto alta l'attenzione sulla costola della famiglia Riina che nel 2012 si trasferì a San Pancrazio Salentino. Proprio dal piccolo centro brindisino, è arrivata la ferma presa di posizione del sindaco Salvatore Ripa: "Si tratta di una provocazione intollerabile, che questa comunità non vuole sopportare". "Lavoriamo quotidianamente per affermare i concetti di legalità e rispetto delle regole e per instillarli nei giovani - ha proseguito il primo cittadino -  Non possiamo tollerare che tra noi esistano persone che inneggiano a un boss sanguinario". Tony Ciavarello, proprio a San Pancrazio, sta scontando la detenzione domiciliare per un residuo di pena di sei mesi, relativo a una condanna per una truffa commessa a Termini Imerese nel 2009. Sul suo profilo Facebook, il genero del boss si definisce "martire, perseguitato dalla Procura di Palermo", che, nella scorsa primavera, ordinò il sequestro dei suoi conti correnti e delle aziende salentine. Anche nella nuova vita pugliese - secondo gli inquirenti siciliani - i Riina continuerebbero a riciclare i soldi delle attività illecite della famiglia. Il lancio on line della ditta che avrebbe dovuto commercializzare prodotti alimentari marchiati "Zù Totò" - a detta dei coniugi Ciavarello-Riina - si è reso necessario proprio in virtù del sequestro dei beni e del blocco delle attività che Ciavarello aveva avviato tra Lecce e Brindisi.

Arrestato nel Brindisino il genero di Riina per una truffa del 2009. Proprio qualche giorno prima che il suocero morisse, Antonio Ciavarello aveva fatto parlare di se per una singolare richiesta pubblicata su un sito specializzato con la quale chiedeva un aiuto economico dopo il sequestro di alcune aziende riconducibili alla famiglia, scrive l'1 Dicembre 2017 Vincenzo Sparviero su "La Gazzetta del Mezzogiorno”. A qualche giorno dalla morte del capo dei capi, i carabinieri hanno arrestato Antonio - detto Tony - Ciavarello, 43 anni, genero di Totò Riina, originario di Palermo ma residente da anni a San Pancrazio Salentino con la moglie Maria Concetta Riina: una delle figlie del defunto padrino di Cosa nostra. Ieri sera, dunque, amara sorpresa per Ciavarello che ha ricevuto la visita dei militari dell’Arma della Compagnia di Francavilla Fontana, incaricati di notificare al palermitano un ordine di esecuzione riguardante una condanna per una truffa commessa nel 2009 a Termini Imerese. Ciavarello sconterà in regime di domiciliari, presso la sua abitazione di San Pancrazio, la parte residua di una pena a sei mesi. Proprio qualche giorno prima che il suocero morisse, Ciavarello aveva fatto parlare di se per una singolare richiesta pubblicata su un sito specializzato con la quale chiedeva in qualche modo un aiuto economico dopo il sequestro di alcune aziende riconducibili alla famiglia. Era ottobre quando arrivò il provvedimento di sequestro che - oltre a riguardare le aziende - colpì pure altri beni e conti correnti dei famigliari del capo di Cosa Nostra. Ciavarello, come si diceva, chiese un aiuto economico pubblicando un annuncio sul sito «Collettiamo». Una richiesta che aveva fatto discutere non poco. Poi, qualche giorno addietro, Totò Riina è morto e della vicenda non si è più parlato. Si è parlato invece - e tanto - di quello che è accaduto dopo: delle tante attestazioni di vicinanza ai famigliari del boss, apparse su Facebook.  Lo scorso 17 novembre, il giorno del decesso di Totò Riina, Facebok rimosse d'iniziativa la foto listata a lutto postata da Ciavarello sul proprio profilo. Decine di messaggi di cordoglio provenienti da tutta Italia e dall'estero - come si diceva - accompagnarono il post pubblicato dal genero del boss. Alcuni giorni fa, però, i gestori del social network si sono scusati con Ciavarello, spiegando in una nota che «i post erano stati eliminati per errore» e per questo sono stati ripubblicati. Anche su questa vicenda i commenti si sono sprecati, a cominciare da quelli dei neo-compaesani di Ciavarello e signora. Insieme con la moglie Maria Concetta, l’arrestato vive da anni a San Pancrazio Salentino. Ovviamente, la loro presenza non passa certo inosservata per quanto abbiamo mantenuto sempre un profilo basso. Nella chiesa del paese hanno preso la prima comunione i suoi figli e spesso si nota la coppia in giro.

Toto' Riina, parla il genero Tony Ciavarello: ''Lui un perseguitato, come me...'', scrive "Blitz Quotidiano" il 3 Novembre 2017. Roma. “Riina? Dicono sia un mafioso, ma ho dubbi sulle condanne. Totò? Forse un perseguitato, come me. Aiutatemi, sono senza un euro”. A La Zanzara su Radio 24 parla Tony Ciavarello, genero di Totò Riina. Ciavarello, che ha sposato la più grande delle figlie del boss, Maria Concetta, ha aperto una pagina su Facebook per chiedere aiuto dopo che lo Stato gli ha sequestrato alcune aziende di ricambi auto. Ciavarello si sente “un perseguitato” e dice: “La volete finire di torturarmi la vita? Non ho niente da dirvi, non ho niente da dire. Sono un disastrato, mi hanno sequestrato tutto, sono senza lavoro, si sono presi la ditta… allora chiedo i soldi, e allora?”. Davvero si sente un perseguitato? “Sì, sono un perseguitato. Mi hanno sequestrato una ditta che non ha nulla a che vedere con Totò Riina…Certo che sono perseguitato, vi faccio vedere le carte…Sono perseguitato per tutto l’arco della mia vita da quando mi sono fidanzato con mia moglie Maria Concetta…compreso questo sequestro…Tutto è cominciato da un capitale di 500 euro che loro dicono che io non potevo avere, dicono che vengono da mio suocero Totò Riina…”. Continua: “La procura di Palermo mi perseguita…finora dopo il mio appello hanno versato dei soldi due persone…”. Sei rimasto senza soldi? Come campi? “Non ho più conti correnti, mi hanno sequestrato tutto, campo grazie a soldi di amici e conoscenti…. ”. “Me ne sono andato lontano dalla Sicilia – dice ancora – per stare lontano da Palermo, da Corleone, dalla procura di Palermo… Ho portato mia moglie in Puglia, ma io ho sposato la figlia, non ho niente a che fare con Totò Riina…”. Riina è un mafioso sì o no, secondo lei? “Dicono sia un mafioso, dicono…Mi hanno accusato, ma non mi hanno mai condannato, non hanno mai trovato niente. Se lui è stato accusato con lo stesso sistema ho dei dubbi…se il processo lo hanno fatto come lo hanno fatto a me… Ho dei dubbi sulle condanne a mio cognato. Ho dubbi sulle accuse e su come sono state fatte indagini e processi, visto cosa hanno fatto con me…”. Lei sta mettendo in dubbio le condanne al Capo dei capi, ci sono una montagna di sentenze e di prove: “E’ normale che metto in dubbio quelle condanne…è possibile che anche lui sia un perseguitato, ci starebbe pieno pieno…”. E’ giusto il 41bis, Riina deve restare lì? “Non fa differenza per me, a me interessa che mi lascino in pace”. Il 41bis è una tortura? “Mai provato, non ho fatto un giorno di carcere. Non ve lo so dire”. La mafia c’è ancora? “Bisogna vedere cosa si intende per mafia. Se si intende violenza e soprusi ce n’è dappertutto”. E come organizzazione criminale? “Non ve lo so dire”.

"Sono rovinato", il genero di Riina lancia colletta online, scrive Adnkronos il 26/10/2017. Ciao a tutti, purtroppo devo chiedere aiuto a tutti quelli che possono darmi una mano, vi prometto che appena mi rimetto in sesto con il lavoro restituirò tutto a tutti o faremo beneficenza per altri bisognosi". Poche righe che contengono una disperata richiesta d'aiuto. E' questo il messaggio scritto da Antonino 'Tony' Ciavarello, genero di Totò Riina e marito di Maria Concetta, una delle figlie del boss di Corleone, che, ridotto sul lastrico ha deciso di lanciare una colletta online. "Sono in una condizione disastrosa - scrive il genero di Riina - mi hanno sequestrato tutto e non ho più neanche un lavoro visto che si sono presi la mia ditta". Sulla pagina Facebook che gestisce 'Il boss non Boss ma Boss nel suo mestiere', Ciavarello ha rilanciato la petizione dove chiede aiuto. "Chi può mi aiuti, ho tre bambini, cerco lavoro ma nessuno me ne dà - denuncia - per favore datemi una mano Grazie e che Dio vi Benedica". Il genero di Riina, che su Facebook si descrive come un "martire perseguitato dalla procura di Palermo dal 25 aprile del '94, giorno in cui mi sono fidanzato con mia moglie" non è l'unico in famiglia ad aver lamentato problemi economici. Qualche mese fa la figlia più piccola di Riina, Lucia, si era sfogata per il bonus bebè che le era stato negato dal comune di Corleone.

I soldi e le miserie dei padri, scrive il 4 dicembre 2017 su "La Repubblica". Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. Tony Ciavarello ha pure lanciato una colletta di sussistenza dopo il sequestro delle sue attività in Salento e inaugurato un racconto a puntate della sua storia sulla pagina “Il boss non Boss ma Boss nel suo mestiere”. Si dice perseguitato per aver sposato la figlia di Totò Riina, colpito nelle sue fortune che per lui sono assolutamente pulite. Per uno che esce allo scoperto, c’è l’anonimato assoluto per figli e parenti prossimi dei boss, ingrassatisi negli Anni Ottanta e Novanta, ora chiusi in qualche galera sepolti da valanghe di ergastoli. Eppure ricchi. Con lo Stato che agguanta a fatica quel che si vede e si affanna a cercare spesso senza risultato, quel che è stato abilmente occultato. Certo, c’è l’esercito dei rovinati, che niente avevano e niente hanno. Ma in cima alla piramide di Cosa Nostra sequestri e confische non hanno scalfito di molto il tenore di vita dei padrini e dei loro discendenti. C’è un fiume sotterraneo di denaro che alimenta ancora queste famiglie: le parcelle agli avvocati, i costi delle trasferte per gli incontri, la vita quotidiana dei detenuti e dei loro congiunti. Dove è questo denaro? Dove si nascondono queste fortune? Da dove traggono i soldi per biglietti aerei, macchine a noleggio, soggiorni in hotel e abiti firmati? Negli Anni Novanta non c’era legale che non piangesse miseria. Raccontava che i clienti di peso non pagavano più. Non dicevano che avevano pagato e tanto durante gli Anni Ottanta. Molto di più di quanto fossero le normali parcelle, sperando sempre in un provvidenziale cavillo, in un grimaldello che facesse saltare il processo. Non dicevano che certe difese, una volta prese non si lasciano più che si crea un intreccio di dare e avere dal quale non ci si sottrae alla leggera. Scopo del potere, capaci anche di regalare agi pacchiani tesi alla legittimazione di un’autorità effimera, i denari dei boss continuano a stare ben nascosti e ad assicurare un’economia domestica ben al di sopra della media. Chi non delinque, chi non contribuisce a ingrandire il patrimonio, i figli, i nipoti, rivendicano la loro innocenza. E il diritto a una vita tranquilla. Difficilmente ammettono che galleggiano comodi sul denaro dei padri, se hanno studiato lo hanno fatto con i soldi sporchi e se hanno avviato attività è da quel denaro che hanno tratto il capitale d’avvio. Come Massimo Ciancimino che per conservare i soldi di papà le ha tentate tutte. In parte anche riuscendovi. Dopotutto, ripulire il denaro è niente rispetto alla coscienza.

 La colpa di chiamarsi Riina. Licenziata la nipote del capo dei capi, risponde Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Maria Concetta ha 39 anni, di cui dieci trascorsi in una concessionaria di macchine a Marsala. Faceva la segretaria. “Fedina penale immacolata, mai sfiorata da ombre”, dice il suo avvocato. Eppure il prefetto parla di "inquietante presenza". È scattata l'informativa interdittiva per il suo datore di lavoro, che l'ha licenziata "nonostante la sua correttezza professionale". - Licenziata per il cognome che porta. Perché Maria Concetta è una Riina. È nipote di Totò e figlia di Gaetano, il fratello del capo dei capi, pure lui condannato per mafia. Essere una Riina rappresenta una “giusta causa” di licenziamento. Maria Concetta ha 39 anni di cui dieci trascorsi alle dipendenze del titolare di una concessionaria di macchine a Marsala. Fa, o meglio, faceva la segretaria. “Fedina penale immacolata, mai indagata, mai sfiorata da ombre”, ricorda con amarezza il suo legale, l'avvocato Giuseppe La Barbera, seppure sia quantomeno ipotizzabile che ai Riina, e chissà fino a quale grado di parentela, gli investigatori abbiano fatto uno screening tanto necessario e doveroso quanto profondo. Ora accade che la prefettura di Trapani emetta un'interdittiva nei confronti del suo datore di lavoro che è anche legale rappresentante di una società immobiliare. “La inquietante presenza nell'azienda della citata signora Riina - si legge nel documento della Prefettura - fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell'organizzazione mafiosa ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un'oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”. Secondo l'interpretazione prefettizia, dunque, la presenza di Maria Concetta Riina in azienda rientra nei casi previsti dal codice antimafia che, a partire dal 2011, ha voluto con la "informazione antimafia interdittiva” creare un argine contro le infiltrazioni della criminalità organizzata. Il prefetto Leopoldo Falco ha fatto suo “il prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione... tanto è vero che assumono rilievo per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali”. Risultato: con la Riina in organico niente “liberatoria antimafia”. E senza liberatoria si resta tagliati fuori dal mercato. A mali estremi rimedi estremi: il titolare ha dovuto mandare a casa Maria Concetta Riina. Nella lettera spedita alla sua ormai ex dipendente scrive che “si vede costretto a licenziarla, nonostante abbia apprezzato nel tempo le sue doti e correttezza professionale”. Insomma, Maria Concetta Riina è stata una brava lavoratrice, ma bisogna allontanare ogni sospetto di mafiosità. Nel frattempo, però, il titolare ha impugnato l'interdittiva davanti al Tar. Senza esserci alcuna sudditanza psicologica verso un cognome pesante o chissà quale logica di connivenza, tagliano corto i legali. “Siamo di fronte ad un problema sociale - spiega l'avvocato Stefano Pellegrino che assiste la società assieme a Giuseppe Bilello e Daniela Ferrari - perché sociale è il rischio che deriva dall'esasperazione del concetto di antimafia. Nessuna voglia di aggirare le regole, nessuna giustificazione ai comportamenti illeciti che devono essere perseguiti. L'economia in Sicilia rischia, però, di essere messa in ginocchio da questo rigore eccessivo”. Chi usa parole dure è l'avvocato La Barbera che si dice “sconvolto dalla violenza con cui si applicano le norme dello Stato. Le leggi, volute come scudo di difesa, diventano armi letali. La signora è stata licenziata e una famiglia privata dell'unica fonte di reddito per la sola colpa di chiamarsi Riina. Prendiamo atto che in Italia esiste, oltre all'aggravante mafiosa, anche quella per il cognome che si porta”. Quindi l'affondo: “Se lo Stato toglie alla signora Riina la possibilità di lavorare allora le garantisca un sostentamento economico”.

Droga e soldi falsi, Riina jr via dal Veneto. Indagato per associazione a delinquere: al figlio del “boss dei boss” tolta la libertà vigilata, lo aspetta una casa di lavoro a Vastodi Cristina Genesin, scrive il 29 novembre 2017 Il Mattino di Padova". Pochi giorni fa era stato protagonista di un lungo viaggio da Padova a Corleone con tappa a Parma (e poi viceversa) per accompagnare il papà-boss fino al camposanto. Un viaggio (al cimitero) che le famiglie di tante vittime (spesso innocenti) dello stragismo mafioso propugnato da Riina senior erano state costrette a fare per decenni tra lacrime, dolore e rabbia. Ieri, intorno alle 19, ha ripreso il cammino lontano da Padova Giuseppe Salvatore Riina, noto come Salvuccio. Fine della pacchia e spedizione con raccomandata in una casa di lavoro per un anno. La destinazione? Vasto, in Abruzzo, in una struttura destinata “a internati per reati di associazione mafiosa o camorristica che stanno insieme a detenuti affetti da gravi patologie psichiatriche”, si legge nel sito del Ministero della Giustizia. Il provvedimento che aggrava la misura di sicurezza a carico del figlio 40enne del boss (dalla libertà vigilata alla casa di lavoro) è stato firmato dal giudice di Sorveglianza di Padova, Linda Arata, e notificato ieri intorno a mezzogiorno all’interessato e al suo difensore, l’avvocato vicentino Francesca Casarotto. La struttura, invece, è stata scelta dal Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Padova, la città di Sant’Antonio, e Riina jr, il rampollo del capo dei capi: fine della storia. E del “volontariato” nell’onlus “Famiglie contro l’emarginazione”. È il dicembre 2007 quando il giovane Riina viene condannato a 8 anni e 10 mesi per associazione a delinquere di stampo mafioso. Passa anni tra carcere e misure di prevenzione. Di nuovo libero (ma ancora sotto sorveglianza speciale), il 23 febbraio 2012 il tribunale di Palermo lo autorizza a trasferirsi a più di mille chilometri, nella città del Santo, dove arriva il 14 aprile. Scaduta la misura di prevenzione, è applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata. Ma i paletti che limitano il suo campo d’azione Riina jr li butta via uno dopo l’altro. Alcuni mesi fa viene trasmessa al tribunale di Sorveglianza una relazione della Dda di Venezia (Direzione distrettuale antimafia) sugli “incontri proibiti” di Salvuccio, già pubblicati dal Mattino di Padova il 3 febbraio 2017. Incontri con pregiudicati che avvengono nel quartiere dell’Arcella fotografati dall’Aliquota operativa della compagnia carabinieri di Padova (allora comandati dal tenente Luca Bordin con il capitano Vito Franchini) che, per primi, avevano spedito un’informativa a Venezia dove è aperta un’inchiesta a carico di Riina junior (fascicolo n.6119 del 2016): è indagato per associazione a delinquere finalizzato allo spaccio di stupefacenti e di banconote false, reati commessi tra l’1 maggio 2014 e il 30 novembre 2014. Nel 2016, quando pubblica il libro sul padre ed è ospite nel “salotto” di Porta a Porta (RaiUno), Salvuccio è controllato. E si scopre che si fa beffe di orari imposti e di frequentazioni vietate. Va alla ricerca di spacciatori per comprarsi la cocaina di notte e di giorno e fa festini. In un’occasione è beccato alle 5 di mattina mentre accompagna alla navetta per l’aeroporto la fidanzata. E le ordinazioni agli spacciatori di fiducia (tunisini) le fa al telefono. Secondo il giudice Arata si tratta di gravi e non occasionali violazioni. Riina si difende. Nell’udienza del 23 novembre ammette: «Prendevo cocaina per gestire lo stress ... La mia vita è cambiata nell’ultimo mese». I recenti lutti familiari (la morte di una zia e quella del padre) lo avrebbero convinto a non dare più dolori alla mamma. E per accreditare il cambiamento, si presenta al Sert di Padova per un monitoraggio delle urine dal 25 ottobre al 10 novembre. Esito negativo. Impossibile, però, l’esame del capello: Riina è stato dal barbiere e la lunghezza nella zona della nuca (l’area idonea) risulta insufficiente. Il giudice non ha dubbi: sostituzione della libertà vigilata con la misura(detentiva) della casa di lavoro per un anno. La vita è un viaggio. E, per Riina jr, il nuovo viaggio è appena cominciato.

Mafia. "Papà li scannò tutti", così parlava Riina jr prima di scrivere libri. Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva "uomini che hanno fatto la storia della Sicilia". "Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate", scrive Salvo Palazzolo il 15 aprile 2016 su "La Repubblica". "Io vengo dalla scuola di Corleone", dice nella premessa. "Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?". E inizia il suo lungo racconto: "Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia... linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io... sulla mia pelle brucia ancora di più". Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l'intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, "Riina + 23" è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni "Anordest". Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.

L'INIZIO DELLA GUERRA. Capitolo uno: "Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt'altra parte. Racconta: "C'era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni ... era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l'inizio della loro inarrestabile ascesa. L'inizio della carneficina. "E chi doveva vincere? - dice Salvo Riina - in Sicilia, in tutta l'Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?".

I RIBELLI. È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un'altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. "Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c'erano in tutta la Sicilia". Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. "Ci fu un'estate di vampe - spiega il giovane boss con grande naturalezza - Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un'estate". E giù con il suo racconto sugli stiddari: "Che razza - dice - qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci 'a scippari u craniu". Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: "Ci fu un'estate che le revolverate... non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone". E ancora: "Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell'altro... Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate ... era una fazione di boss perdenti... si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo".

BUSINESS E STRAGI. Capitolo quattro: "I piccioli": "Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l'uno per cento. Capitolo cinque: "I cornuti", ovvero i collaboratori di giustizia. "Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi". Capitolo sei, il cuore del libro: "Le stragi Falcone e Borsellino". "Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: "Abbattiamoli" E sono stati abbattuti".

RITRATTO DI FAMIGLIA. Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov'è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: "Siete stati sempre catu e corda... ma quello che ti tirava era sempre Gianni". E Salvo: "Papà diceva che lui era il più...". La mamma chiosa: "Il più agguerrito". E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all'ergastolo da vent'anni, condannato per quattro omicidi. "Tu facevi il trend ", dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: "Il trainer, non il trend". Gianni ricorda una frase del padre: "Una volta mi ha detto una cosa che non ho mai dimenticato: "Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c'è"". Quella era un'investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: "Vedi che io vengo dalla scuola corleonese". E la madre certificò: "Sangue puro".

Il capo dei capi e la deontologia professionale. Dalla copertura della morte del mafioso Totò Riina a quella delle aspiranti attrici sedotte e abbandonate, giornalismo inadeguato, scrive Elisabetta de Dominis il 19 Novembre 2017 su "Lavocedinewyork.com". L’esercizio del diritto insopprimibile della libertà di informazione è limitato dall’obbligo inderogabile del rispetto sostanziale dei fatti. Rina è stato il capo dell’Italia? Ci sono dei giornalisti che parlano e scrivono come gli conviene. Perché vendono di più i loro giornali o perché ricevono delle prebende. “La vita del capo dei capi si sta spegnendo…” così ha aperto il tg2 della Rai, giovedì 16 novembre, la voce accorata di una giornalista. Oddio – penso – cos’è successo a Berlusconi? Ma subito dopo sento: “Totò Riina è ancora il capo indiscusso di Cosa Nostra”. L’Italia è Cosa Nostra? Cosa di Riina? Ma questa redazione giornalistica di certo non sa cosa sia la deontologia professionale, eppure si tratta di giornalisti dipendenti dalla tv di Stato che noi paghiamo. I giornalisti si devono attenere al codice deontologico del Testo Unico dei Doveri del Giornalista. Si tratta di un codice etico che delinea il comportamento da osservare nell’esercizio del proprio mestiere. Déon in greco antico significa dovere. Ma questo obbligo di comportamento è più morale che giuridico, nel senso che non è sanzionato da un codice giuridico, civile o penale che sia. L’Ordine dei Giornalisti commina delle sanzioni, l’ultima delle quali è la radiazione. Eppure l’Ordine tace. Ergo, ci sono dei giornalisti che parlano e scrivono come gli conviene. Perché vendono di più i loro giornali o perché ricevono delle prebende. Di conseguenze delle due l’una: o la redazione è composta da professionisti inadeguati all’esercizio delle loro funzioni, perché non sanno discernere un comportamento etico, oppure chi ha redatto la notizia era in malafede perché doveva omaggiare Cosa Nostra. In entrambi i casi il pensiero etico è distorto ab origine. Non solo: chi ha in mano l’informazione influenza il pensiero della massa. E che non si giustifichino sostenendo che hanno esercitato il diritto d’informazione; è solo becera informazione. L’esercizio del diritto insopprimibile della libertà di informazione è limitato dall’obbligo inderogabile del rispetto sostanziale dei fatti. Rina è stato il capo dell’Italia? Né in questo caso ci si può appellare alla tutela del condannato, esposto ai media, che va reinserito nella vita civile. Riina era stato condannato a 14 ergastoli. Ma in fondo hanno ragione loro: si sono adeguati all’amoralità imperante per lavorare e guadagnare. Che Paese di ipocriti incompetenti! Quindi la deontologia rimane sotto i tacchi, e questa volta i tacchi di Berlusconi non c’entrano. Comunque il Nostro non solo è risorto agli onori politici, visto il successo delle elezioni in Sicilia, ma di certo è cresciuto qualche centimetro per la soddisfazione di aver vinto la causa in appello contro l’ex-moglie Veronica Lario. La quale percepiva dal mitico Silvio un assegno di mantenimento di 1 milione e 400 mila euro il mese. Secondo la motivazione della sentenza si sarebbe indebitamente arricchita e dovrà restituire 60 milioni, perché dispone di un patrimoni di 104 milioni che le permette l’autosufficienza. Speriamo che non abbia già elargito tutti gli assegni in beneficienza, come peraltro sarebbe stato etico fare. Sempre giovedì sera, ma su La Sette, Corrado Formigli, durante la trasmissione Piazzapulita che conduce, ha fatto vera informazione nonostante abbia intervistato Domenico Spada, condannato in primo grado a 7 anni per estorsione ed usura. Domenico Spada appartiene al clan degli Spada, famiglia di rom sinti che controllerebbe usura, spaccio e occupazione abusiva delle case popolari di Ostia, frazione di Roma con 230 mila abitanti. Formigli voleva sapere cosa ne pensasse del cugino Roberto Spada che ha dato una testata al giornalista Daniele Piervincenzi, cronista della trasmissione rai Nemo, rompendogli il setto nasale e manganellandolo alle spalle, mentre cercava di intervistarlo sulle elezioni ad Ostia. Domenico ha ammesso: “Mio cugino ha sbagliato”, mentre delle persone intervistate hanno affermato che “Spada ha fatto bene a dare la capocciata. Qui stiamo a morire de fame… non sono gli Spada ma è lo Stato la mafia”. In effetti lo Stato italiano dovrebbe farsi un esame di coscienza considerato che il primo articolo della Costituzione recita: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” e dove manca lo Stato prendono potere delle organizzazioni paragovernative di stampo mafioso, elargendo lavoro, abitazioni e doni. Formigli è poi passato ad intervistare Dino Giarusso, cronista della trasmissione Mediaset Le Iene, in onda su Italia 1, il quale ha intervistato e filmato 10 aspiranti attrici mentre dichiaravano all’unisono di esser state molestate dal regista Fausto Brizzi durante un provino. Tutte erano col volto coperto, “per paura, per vergogna, perché non sono attrici famose” ha sostenuto Giarusso. Però non hanno avuto paura di andare nell’abitazione/studio di Brizzi né hanno avuto vergogna di spogliarsi nude rimanendo sole con lui. Secondo il giornalista hanno “la vita assolutamente distrutta” perché sono rimaste traumatizzate delle avance sessuali di Brizzi. Ma vivaddio, si sa a cosa si va incontro quando si va a casa di un uomo, per di più a fare un provino. Si va scollate, in minigonna e si accondiscende alle richieste: significa che si è consenzienti. Ma come mai poi non si viene scritturate? Allora si accusa: il regista ha abusato del proprio potere. E queste donne non hanno cercato di fargli perdere la testa attraverso il loro potere di seduzione? Entrambi hanno esercitato il raggiro, anche se è l’uomo ad avere il potere contrattuale. Mi pare che anche qui la professionalità resti sotto i tacchi, anche se in questo caso sono a spillo e danno stilettate. Brutta pagina di giornalismo televisivo quella di Giarusso che mette alla gogna mediatica un regista che non ha la possibilità del contradditorio. Le accusatrici non sono nemmeno attrici giuridicamente parlando, perché non hanno denunciato a viso scoperto il regista nelle sedi competenti. E viene il sospetto che il cronista Giarusso, regista irrealizzato e che, come ha affermato, ben conosceva la moglie di Brizzi, nutrisse del rancore verso di lui che ha tramutato in un’arma di amoralità giornalistica.

In onda mafiosi, escort e brigatisti Tutti moralisti solo se lo fa Vespa. Biagi e Santoro non facevano scandalo, scrive il 7 Aprile 2016 "Il Tempo". Se in tv vanno mafiosi e «pataccari», escort e brigatisti, stragisti e «cattivi maestri», assassini e criminali d’ogni risma, tutto tace. Ma se l’invito audace proviene da Bruno Vespa, ecco che la polemica scatta puntuale, precisa come l’alba. Era già accaduto nel settembre scorso, quando dagli studi di Porta a Porta passarono Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote del capofamiglia Vittorio, i cui funerali vennero celebrati a Roma tra carrozze, cavalli e Rolls Royce. E si è ripetuto in queste ore di fronte alla notizia che Vespa avrebbe intervistato Giuseppe Salvatore Riina, terzogenito del Capo dei capi di Cosa Nostra e autore di un libro sulla sua famiglia. S’indignano tutti, compresi Usigrai e Fnsi, sindacati dei giornalisti di viale Mazzini e Federazione nazionale della stampa. Eppure in passato dai nostri schermi televisivi di figure losche, discutibili e condannabili ne sono passate tante, cercate e volute da presentatori di talkshow con il marchio dell’«alta moralità» e dunque, per definizione, non criticabili. Il tutto nel silenzio assoluto, se non nell’assenso, degli indignati in servizio (quasi) permanente effettivo. Nel lontano 1991, ad esempio, Michele Santoro ospita nel suo Samarcanda un mafioso tutto d’un pezzo come Rosario Spatola, che in quell’occasione accusa, mentendo, l’allora ministro Calogero Mannino. Nel 1998 è sempre Santoro ad aprire le porte di Moby’s a Enzo Brusca, l’«uomo d’onore» che diede l’ordine di strangolare e sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo. Passa qualche anno e nel 2009 lo stesso giornalista costruisce una puntata di Anno Zero intorno a Patrizia D’Addario, la escort che in quel momento è al centro delle cronache scandalistiche italiane. Ed è nella stessa trasmissione che compare più di una volta Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, ex sindaco mafioso di Palermo, e attualmente alle prese con più di un processo per calunnia e concorso esterno in associazione mafiosa. E quando Santoro crea un nuovo contenitore, Servizio pubblico, uno dei primi ospiti è il figlio di Bernardo Provenzano. Proteste? Poche! Polemiche? Nessuna! Così come nessuno si sorprese della presenza a Servizio Pubblico di Vincenzo Scarantino, il pentito che con le sue false accuse fece condannare degli innocenti per la strage di via D’Amelio (e che a fine trasmissione venne arrestato quasi in diretta televisiva). Fin qui il repertorio santoriano che non indusse sindacati di categoria, politici e penne di un certo peso a scendere in campo in difesa della «dignità televisiva». Ancora un salto indietro nel tempo. È il 1982 quando Enzo Biagi, uno dei più tenaci giornalisti antiberlusconiani, pone le sue domande al banchiere e criminale Michele Sindona, mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Ed è ancora Biagi ad ospitare Stefano delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale e simbolo del mondo fascista italiano, poi il brigatista rosso Patrizio Peci, il «cattivo maestro» Toni Negri, colui che sparò a Giovanni Paolo II, Ali Agca, un secondo brigatista che di nome fa Alberto Franceschini, Majed Youssef Al Molqui, uno dei dirottatori dell’Achille Lauro, la moglie del boss pentito Tommaso Buscetta. E ancora: Anthony Gabriel Tannouri, criminale su cui in quel momento pende un mandato di cattura per traffico d’armi e droga, Ibrahim Mahmod Khaled, capo del commando che aveva compiuto la strage di Fiumicino, e infine Buscetta e la «primula rossa» di Corleone Luciano Liggio. Insomma, non proprio la crema dell’umanità. Momenti di collera registrati? Pare di no! Irritazioni per lo scandalo? Macché! Anche un altro giornalista ben etichettato a sinistra fa i suoi «colpacci» senza destare stizza e risentimento. Corrado Formigli, infatti, da conduttore di Controcorrente su Sky, ospita Said Syam, portavoce di Hamas, organizzazione terroristica palestinese. E la soglia del suo studio televisivo viene oltrepassata anche dal brigatista Valerio Morucci. Interviste «originali», infine, anche da parte di Gad Lerner, che le sue domande le indirizza al terrorista e leader del Pkk Abdullah Ocalan. Ma scandaloso è solo Bruno Vespa.

Riina: è morto un miserabile ma non sarà la ferocia contro di lui a renderci migliori, scrive Giulio Cavalli il 17 novembre 2017 su "Left". Quando muoiono diventano tutti buoni. Tutti. Quando muore un uomo di mafia come Riina, con un curriculum di morti ammazzati che fa spavento e che include alcuni degli uomini migliori della storia di questo Paese allora diventa lo slancio per dare a lui tutta la ferocia che ci siamo trattenuti per quelli che se ne sono andati e non abbiamo mai avuto voglia di scrivere cosa ne pensavamo davvero. È morto Riina e tutto il Paese, anche oggi, ha il suo rito quotidiano di ferocia collettiva: oggi è un “liberi tutti” per scrivere tutta la bile e lanciare la macabra danza dello sputo sul cadavere. Eppure la ferocia contro Riina non ci renderà migliori. No. Non servirà alla battaglia antimafia, che invece ha bisogno di sprezzo e sdegno e denuncia contro quelli che sono vivi; non servirà a scardinare i poteri e la politica che con Riina hanno trovato un ottimo (e omertoso) sacchetto dell’umido in cui deviare l’indignazione che sarebbe andata a loro; non servirà al processo di sgretolamento del falso mito, che ne esce rinforzato da un Paese intero che esulta per la sua morte; non sarà utile alla verità e alla Storia che avrà gioco facile nel far credere che con Riina muore una mafia che invece è vivissima, molto più urbana e che si è disfatta di Riina ‘ù Curtu quando ha intrapreso la via della sommersione e della cautela. Per carità: è morto un miserabile, vero. Uno di quelli che è riuscito a incarnare perfettamente tutti gli spigoli peggiori di Cosa Nostra: sanguinario, in guerra con lo Stato, nemico della verità, assetato di potere, violento, corrotto e corruttore, prepotente e fiero della propria criminalità. Ma ognuna delle caratteristiche di cui superficialmente potremmo pensare di esserci liberati con la sua morte ha una faccia e un nome che non è Riina e molti dei suoi tentacoli oggi si esibiranno nel fiume di ferocia vendicativa. E invece con la morte di Riina se n’è andata, ancora una volta, un pezzo di verità e di giustizia. E non sarà la ferocia a riempire questa fame. Non basterà.

Totò Riina e la coscienza dello Stato, scrive il 17 novembre 2017 Roberto Bertoni su "Articolo 21". Totò Riina non c’è più e, come nel caso di Provenzano, non saremo noi a esultare o a sputare sulla bara di un criminale assassino con circa trecento vittime sulla coscienza e ventisei ergastoli sulle spalle. Preferiamo riflettere, al contrario, sulle ragioni per cui un personaggio del genere sia potuto rimanere latitante per un quarto di secolo, continuando peraltro a impartire ordini anche dal carcere di Parma dove era recluso al 41 bis.

Preferiamo riflettere sulla vera natura della mafia siciliana e sulle responsabilità della politica, di chi l’ha protetta, di chi se ne è servito, di chi ha fatto finta di niente, di chi ha asserito per decenni che la mafia non esista e di chi è arrivato addirittura a sostenere che ci si debba convivere, voltando costantemente la testa dall’altra parte, negando dignità alle innumerevoli vittime d questa piovra e, di fatto, uccidendole una seconda volta. Su Riina c’è poco da dire: la sua biografia è nota, la sua barbarie pure, il sangue che è stato versato su suo ordine è stato al centro delle cronache, politiche e giudiziarie, per circa mezzo secolo, le sue vittime sono eroi e martiri ormai riconosciuti quasi all’unanimità. Ciò su cui vale la pena riflettere, dunque, è se questo contadino, divenuto boss di Cosa Nostra e, infine, Capo dei capi, sia stato davvero il mandante di questa infinita mattanza o se non fosse, piuttosto, una pedina al servizio di interessi superiori o, magari, entrambe le cose. La morte di Riina, infatti, porta con sé tanti, troppi misteri mai risolti e sui quali, d’ora in poi, sarà ancora più difficile provare a far luce; porta con sé i non detti, i punti oscuri e le trame luride che, da Portella della Ginestra in poi, hanno caratterizzato la storia del nostro Paese, passando attraverso gli omicidi illustri, le stragi e i condizionamenti politici che hanno, ad esempio, sfregiato Palermo, vittima del sacco edilizio che, a partire dagli anni Cinquanta, ha sostituito le ville in stile Liberty con un’oscena colata di cemento che, purtroppo, non si è mai fermata. Riina, pertanto, è certamente figlio di una tremenda storia criminale ma è, al tempo stesso, il frutto avvelenato di una terra in cui prospera il gattopardismo, in cui tutto cambia affinché tutto resti com’è, in cui i Pio La Torre, i Dalla Chiesa, i Chinnici, i Cesare Terranova, i Falcone, i Borsellino e altri personaggi del medesimo livello sono sempre stati considerati estranei, alieni e pericolosi anche da parte di alcuni di coloro che li avrebbero dovuti sostenere e supportare. Quando venne assassinato il generale Dalla Chiesa, una mano ignota scrisse che, con la sua tragica fine, era morta la speranza dei siciliani onesti. Con la morte di Riina, purtroppo, non è finita la mafia, non è rinata la speranza di nessuno e il rischio, anzi, è che a tirare un sospiro di sollievo, in questo momento, siano proprio coloro di cui “Totò ‘u curtu”, com’era soprannominato, conosceva segreti che li avrebbero senz’altro rovinati. Se n’è andato un farabutto, lo Stato ha avuto nei suoi confronti la pietà e la dignità che egli non ha mai mostrato nei confronti delle due vittime e, almeno di questo, possiamo dirci soddisfatti. Di tutto il resto no, a cominciare dalla squallida ipocrisia di tanti personaggi che, pur potendo, la mafia non l’hanno mai combattuta per davvero e oggi si trincerano dietro a qualche commento strumentale e di maniera al fine di nascondere la propria ignavia.

Ecco i mondi di sotto e di sopra che Riina si porta nella tomba, scrive Giuseppe Sottile i Sabato 18 Novembre 2017 su "Live Sicilia". Dal Foglio. Con la sua morte scompare la Cosa nostra stragista. Perde forza anche l'antimafia dei teoremi. I giornalisti coraggiosi che giorno dopo giorno vi descrivono una mafia potente e invincibile vorrebbero che non lo dicessimo. Vorrebbero ridurci al silenzio, con le buone e con le cattive, anche quelle confraternite conventicolari che giorno dopo giorno vi raccontano il romanzo nero dei mandanti occulti, dei servizi deviati, delle trame oscure; e che fantasticando di uno Stato complice dietro le stragi del ’92 vorrebbero farvi credere che solo il giudice Nino Di Matteo, candidato dai grillini a un incarico di governo, potrà svelare un giorno, grazie al suo zelo e al suo incontaminato candore, le immonde verità nascoste sotto il sangue versato da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e dai loro uomini di scorta. Invece le cose da dire vanno subito dette. A cominciare dal fatto che ieri notte, alle 3:37, quando in un carcere di massima sicurezza è spirato Totò Riina, sanguinario boss dei corleonesi, è morta non solo la mafia stragista – quella che con il tritolo voleva condizionare la vita della repubblica e la libertà di tutti noi; ma è morta anche l’antimafia delle imposture – quella che ha costruito la boiata pazzesca della Trattativa e che, su quel teorema, ha affilato ogni arma per mettere alla gogna i propri avversari politici e acquisire meriti per future carriere, per future investiture. L’ultimo rigurgito, come ricorderete, risale a poche settimane fa. Si era alla vigilia delle elezioni in Sicilia e la confraternita degli incappucciati – di quelli cioè che grufolano nei sottoscala delle procure, sperando sempre di trovare una cartuzza buona per sputtanare qualcuno – già pregustavano nuovi giorni di gloria perché, sbobinate le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano, detenuto nel carcere duro di Ascoli Piceno, era riapparso nei cieli alti del mascariamento il nome brillante e seducente di Silvio Berlusconi, da oltre vent’anni bersaglio immobile di quella filiera giudiziaria per la quale l’unica soluzione possibile per i problemi dell’Italia è un governo dei giudici. Ma l’assalto all’ex premier si è rivelato nient’altro che una Caporetto: chiamato a testimoniare nel processo che si celebra nell’aula bunker dell’Ucciardone, il boss che nel cortile del carcere aveva smozzicato il nome di Berlusconi si è avvalso della facoltà di non rispondere; e quando dalla procura di Firenze è trapelata, con cronometrico tempismo, la notizia dell’avviso di garanzia notificato al leader di Forza Italia – bollato, va da sé, come mandante occulto delle stragi – i titoli dei giornali, per la verità molto modesti, non hanno sortito l’effetto devastante che lo scoop avrebbe meritato, almeno nelle intenzioni di chi lo aveva architettato. Le elezioni siciliane, per Berlusconi, sono andate benissimo. Stavolta la macchina del mascariamento non ha funzionato. Segno che all’antimafia delle confraternite e dei giudici onnipotenti ormai non crede più nessuno. La morte di Riina non potrà che accelerare la disfatta. Con il fallimento dell’ultimo assalto al fortino dell’odiatissimo Cavaliere eravamo al crepuscolo. Con la scomparsa del capo dei capi il tramonto del giustizialismo, condotto in nome di una titanica lotta a Cosa nostra, sarà pressoché inesorabile. A Riina, che pure dal 1993 era seppellito con tutti i suoi gregari dietro le doppie sbarre di un carcere di massima sicurezza, impietoso e invalicabile, l’antimafia delle trame infinite continuava ad attribuire ogni nefandezza. Se un magistrato di Palermo voleva ad esempio guadagnarsi le prime pagine dei giornali come un venerato eroe della legalità e dell’intransigenza, si inventava la revisione di un qualunque processo nel quale, puntualmente, Riina diventava il principale imputato. Giorni e giorni di udienze, giorni di tribune mediatiche, giorni di interviste e di talk-show. Poi arrivava la sentenza d’assoluzione e si ricominciava da capo, altro giro altra corsa. Chiusa la stagione spettacolare dei processi inutili (e anche costosi, ma guai a parlarne) l’antimafia degli intrepidi, sempre alla ricerca delle verità indicibili e sommerse, ha dato il via a una nuova tecnica investigativa: l’intercettazione ambientale dei boss detenuti, sorpresi dagli astuti investigatori a discutere nel cortile del carcere durante l’ora d’aria. La scena è questa: il mafioso chiacchiera con un altro malacarne, suo compagno di detenzione, ben addestrato nell’arte provocatoria, ma non sa che tutto intorno centinaia di cimici stanno registrando ogni sua confidenza, ogni suo sussurro, ogni suo inconfessabile proposito di vendetta. La serie, manco a dirlo, si è aperta proprio con Totò Riina, il regista di tutte le stragi, il boss che voleva piegare i giudici alla sua legge, che voleva cancellare le sentenze della Cassazione, che voleva intimidire lo Stato. Era murato vivo nel carcere di Opera, a Milano. Ed è lì che i magistrati antimafia hanno catturato per quasi un anno tutti i suoi discorsi, tutte le sue parole, comprese le farneticazioni e le inevitabili minchiate. Ne è venuto fuori un brogliaccio clamoroso di cose dette e non dette, di allusioni e insinuazioni, di minacce e intimidazioni. Parole e parolacce per tutti e contro tutti: per i picciottazzi che si pentirono e lo tradirono, come Giovanni Brusca o Salvatore Cancemi; e per i magistrati, come Di Matteo, che “si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce: e allora organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non ne parliamo più”. Ma, al di là di queste sparate lugubri e invereconde, è venuto fuori soprattutto il ritratto di un Riina rancoroso e irruento, con gli occhi e la testa rivolti sempre all’indietro, agli anni nefasti dell’ultima guerra di mafia quando i “viddani” di Corleone, con i loro piedi incretati e i kalashnikov nascosti sotto lo scapolare, cominciarono a sterminare i boss che regnavano incontrastati su Palermo – da Giovanni Bontade, detto “il principino”, a Peppe Di Cristina, da Totuccio Inzerillo alla stirpe dei Galatolo – e lentamente si impadronirono di tutte le leve di comando; di quelle leve che macinavano potere e miliardi, dagli appalti alla droga. E’ stata una confessione lunga, anche se a trattati confusa o incomprensibile, quella che le spie piazzate nel carcere di Opera strapparono a Totò Riina, detto ’u curtu. Una confessione che, nonostante l’impegno di un gruppo di investigatori particolarmente attenti al linguaggio limaccioso dei mafiosi, non rivelò nessun’altra verità se non quella già acclarata dai processi e scolpita nelle ventisei sentenze che hanno condannato all’ergastolo non solo Riina ma anche i suoi colonnelli, primo fra tutti quel Leoluca Bagarella che rimane ormai uno dei pochi sopravvissuti alla catastrofe. Perché – piaccia o no alle confraternite dell’antimafia chiodata – è venuto il momento di dire e di ribadire che, dopo tante lotte e tanto sangue sparso sulle angustiate terre di Sicilia, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. E che il mito di una Cosa nostra potente e invincibile serve ormai, quasi esclusivamente, a mantenere in vita quegli apparati, a cominciare dalla pomposa e inutile Commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi, messi in piedi negli anni della mattanza quando l’unico obbiettivo di Falcone e Borsellino, ma anche di tanti altri onesti investigatori e magistrati, era quello di trovare comunque una via di uscita, un modo spiccio e immediato per agguantare i boss e spezzare finalmente la catena dei delitti. Questo non significa, sia chiaro, che con la scomparsa di Riina si possa considerare morta anche la mafia, quella gramigna malefica che da sempre opprime e dissangua la Sicilia. Ma bisogna anche considerare il fatto che gli ultimi arresti di Palermo e le analisi condotte dalle procure più attente e responsabili ci dicono una sola cosa: che la mafia c’è ed è ancora viva e vegeta; ma è un’altra mafia. Diciamolo, piaccia o no a quelli che ancora ne coltivano il mito: non c’è più la mafia organizzata in maniera piramidale, con i membri della commissione che eleggevano la cupola e con un patriarca, come Michele Greco re di Ciaculli, che diventava l’onnipotente Papa del malaffare e di tutte le criminalità riunite. Non c’è più la ripartizione protocollare delle competenze e delle influenze come c’era ai tempi di Angelo Siino che prima di saltare il fosso e pentirsi era stato addirittura “ministro” dei Lavori pubblici in nome e per conto di Totò Riina. Non c’è più il “mandamento” secondo lo schema territoriale descritto da Tommaso Buscetta, il pentito che con le sue rivelazioni, ruppe la diga dell’omertà e portò oltre quattrocento boss nell’aula del maxi processo. Non c’è più insomma la mafia dei centonovanta omicidi all’anno nella sola Palermo: quelle bande e quei clan sono stati rasi al suolo dallo Stato, a quel tempo personificato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due giudici che hanno pagato con la vita il loro impegno nella società e nelle istituzioni. La mafia che Riina, morendo, lascia invece in eredità è un’organizzazione sfilacciata, che si muove soprattutto nelle periferie e che trova persino difficoltà a controllare i vecchi mandamenti perché c’è sempre un vecchio boss che, da un momento all’altro, potrebbe uscire da galera e riprendere i fili del racket. E’ una mafia spicciola ma tentacolare, con gerarchie mutabili e spesso indistinte, che raccoglie tutto quello che può raccogliere, dalla guardianìa alla estorsione. Anche il pizzo di duecento euro al mese. Ed è per questo forse che i più disincantati cominciano a chiamarla “la mafia dei muzzunara”, alludendo così al rito miserabile dei poveracci che un tempo, non avendo la possibilità di acquistare le sigarette, raccoglievano da terra i “muzzuna”, cioè le cicche. Una sottovalutazione certamente eccessiva, ammettiamolo. Contro la quale, ed è persino ovvio, cominciano a mobilitarsi i puri e duri dell’antimafia militante per quali non si può nemmeno ipotizzare un adeguamento degli apparati investigativi alle nuove dimensioni e alla nuova stratificazione che il fenomeno presenta. “Guai ad abbassare la tensione”, sermoneggiano nei rari cortei che si vedono in giro. E così sermoneggiando avviano inchieste e contro inchieste per dimostrare che, dopo la morte di Riina e la scarcerazione dei tanti boss che hanno già scontato la pena, si aprirà l’immancabile guerra di successione; e che dopo la guerra – contati i morti e i feriti, i caduti e i risuscitati – si ricostituiranno cupole e mandamenti. Un modo come un altro per perpetuare l’emergenza, per rinominare dopo le elezioni una nuova Commissione antimafia e per affermare il principio in base al quale ci salveremo solo se la politica si farà da parte consegnando il potere nelle mani di magistrati indomiti e indomabili. Come Piercamillo Davigo, come Nino Di Matteo.

Il magistrato Alberto Cisterna: «Non ci sarà più un capo dei capi», scrive Rocco Vazzana il 18 Novembre 2017 su "Il Dubbio". «Con la morte del giudice Scopelliti, sui corleonesi scatta una trappola. In cassazione arrivano due procuratori generali bravissimi, e viene rimosso Corrado Carnevale…» «Cosa nostra, secondo me, non avrà mai più un capo». Alberto Cisterna, presidente di sezione al Tribunale di Roma, è un magistrato con un lungo curriculum antimafia alle spalle. Prima sostituto procuratore in Dda a Reggio Calabria e poi vice di Piero Grasso alla Direzione nazionale antimafia. Nei primi anni Novanta, da Gup, ha giudicato Riina per l’omicidio del giudice Scopelliti. «Ho avuto modo di confrontarmi con lui faccia a faccia», racconta.

Dunque, possiamo dire che è morto il capo dei capi di Cosa nostra?

«È morto quello che sicuramente è stato il capo di Cosa nostra fino a tutti gli anni Novanta, l’uomo che anche dal carcere è rimasto a lungo il punto di riferimento per tutta l’organizzazione. Poi probabilmente questo suo ruolo è venuto meno. Io ho l’impressione che già con la sua cattura si fosse chiuso un ciclo».

Eppure in molti sostengono che Riina fosse ancora il capo assoluto della mafia siciliana…

«La mia idea è che non fosse in condizioni di dominare il mondo come qualcuno ha sostenuto. E poi è improponibile, a mio avviso, ritenere che la mafia, per come la raccontiamo, si possa ridurre a Totò Riina, un “viddanu”. C’è una sproporzione che deve essere ridotta tra ciò che i processi hanno accertato e ciò che si è determinato nell’immaginario collettivo. Ma ricondurre al reale l’immaginario è un’operazione complicata, contro cui si contrappongono forze importanti di questo Paese. E non mi riferisco solamente a forze politiche, ma a robuste centrali culturali che tengono in piedi l’idea che la mafia sia quella lì. Spero che la morte di Riina aiuti a riaprire una riflessione serena su questo tema».

E che cos’è la mafia allora?

«Cosa nostra è un’organizzazione criminale fondata su una sopraffazione sistematica che ha realizzato profitti enormi e che ha sicuramente avuto relazioni con la politica. Ma quando ha sfidato frontalmente lo Stato è stata distrutta. Segno che, contrariamente ai veri poteri deviati di questo Paese, è stata sempre concepita come un corpo estraneo al sistema. Il Paese è in mano a bande massoniche deviate e faccendieri, rispetto ai quali Riina costituisce una schermo di attenzione che ha consentito alla corruzione di proliferare indisturbata. Bisognerebbe porsi una domanda: come mai, in base alla narrazione della mafia immaginaria, non c’è neanche un mafioso tra i Panama papers? Per non parlare della lista Falciani o della stessa Loggia P2».

Chi ha preso il posto di Riina nell’organizzazione?

«Nessuno. Cosa nostra, secondo me, non avrà mai più un capo. È impossibile per il semplice fatto che non ce n’è più bisogno. Anche in passato, non è che Cosa nostra avesse un capo riconosciuto ed eletto, aveva un dittatore autoproclamato, ‘ l’uomo che volle farsi re’ distruggendo tutti gli avversari. Nessuno per fortuna ha più quella forza. Lo ripeto da più di dieci anni, la mafia è come i VoPos comunisti sul muro di Berlino: potevano sparare, ma non potevano sparare. Non ci sono più le condizioni politiche che consentano l’uso della violenza. E poi, dispiace dirlo, ma la morte in carcere di Riina e Provenzano ha un valore esemplare per i mafiosi e per la sorte che gli spetta».

Lei ha processato Riina a Reggio Calabria, che impressione ha avuto?

«Ho avuto modo di confrontarmi con lui faccia a faccia in una delle rare volte in cui Riina è stato presente in aula di Tribunale, poi è iniziata la stagione delle video conferenze. Ero Gup dell’udienza preliminare del processo per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. A Reggio Calabria arrivarono tutti i capi di Cosa nostra: Pippo Calò, Madonia e ovviamente lo stesso Riina».

Cosa ricorda di quei giorni?

«Riina arrivò a Reggio, in una città in stato d’assedio, subito dopo la sua cattura. Era un uomo piccolo di statura, da cui il nome “u Curtu”, ma ancora vigoroso e stava in una gabbia isolata rispetto agli altri componenti della Cupola. Ricordo che chiese a sorpresa di rendere dichiarazioni spontanee. Mi disse che non c’entrava niente con quella storia, che era un semplice contadino, che non era mai stato in Calabria e che nel giorno dell’omicidio stava insieme alla sua famiglia. Non abbassava mai lo sguardo, era molto presente. Ricordo anche una serie di aneddoti, come quando gli fu recapitata una scatola di cannoli siciliana dai parenti. Lui la guardò e rivolgendosi a un carabiniere, in dialetto palermitano, gli disse di buttarla perché temeva fossero cannoli avvelenati».

In quel processo furono tutti assolti…

«Sì, quell’omicidio è rimasto senza mandanti, è un vero e proprio buco nero. Si è sempre detto che la morte di Scopelliti fosse attribuibile ai corleonesi ma i processi non hanno mai dimostrato questa tesi. Sono stati tutti assolti».

Ma allora perché fu ammazzato Scopelliti, sostituto procuratore generale in Cassazione che avrebbe dovuto rappresentare l’accusa contro gli imputati del maxiprocesso?

«È un omicidio strategico e probabilmente solo in parte un omicidio di mafia. A guardarne gli effetti sicuramente ha finito per danneggiare Cosa nostra, e in modo irreparabile. Nel 1991 Riina e i suoi erano fortissimi. È l’omicidio che ha decretato l’inizio della fine della mafia siciliana e Riina lo aveva compreso forse. La stagione delle stragi e tutto ciò che è accaduto dopo ha una sola origine: l’omicidio di Antonino Scopelliti nel 1991. È quello l’anno in cui devono essere rintracciate le cause della svolta stragista, il 1992 è l’anno degli effetti. Dopo la morte del giudice scatta la più grande e dirompente strategia antimafia mai concepita prima e tutto per il volere di Francesco Cossiga, Giovanni Falcone e Claudio Martelli. Tutto il pacchetto di leggi in vigore che ancora consente di combattere la mafia è stato prodotto nel 1991: dallo scioglimento dei consigli comunali per mafia all’istituzione della Dia, dalla legge sui pentiti alla costituzione della Procura Nazionale Antimafia, dalla nascita del Ros alla fondazione dello Sco. Centinaia di detenuti furono trasferiti nelle carceri di massima sicurezza, anche all’Asinara, in condizioni durissime, ci furono parecchi suicidi. È da lì che nasce il “papello”, la trattativa: i mafiosi non erano in grado di sopportare quel trattamento».

Ma allora chi ordina un omicidio di questo tipo?

«Non lo so. Di sicuro con la morte di Scopelliti su Riina e gli altri scatta una trappola. In Cassazione viene sostituito il dottor Scopelliti con due procuratori generali bravissimi come lui. E soprattutto cambia il collegio e viene rimosso Corrado Carnevale, il cui posto viene preso da Arnaldo Valente. Riina aveva colpito la Cassazione e gli effetti quel gennaio 1992 non si sono fatti attendere. La vittoria di Falcone e della sua ineguagliabile strategia».

Con la morte del boss Riina non si uccide la Mafia, solo la verità può farlo. Totò la belva Riina ha voluto comandare fino alla fine, ma non muore da capo di tutti i capi. La mafia si rialzerà, a meno che..., scrive Stefano Vaccara su "Lavocedinewyork.com" il 17 Novembre 2017. Altro che morte della mafia. La mafia si nutre di “cover up”, di occultamento della verità. E fino a quando non saranno svelate le coperture e i perché che resero possibile la troppo lunga latitanza di Totò Riina, e poi quella ancora più prolungata del suo boss vicario, Bernardo Provenzano, la mafia resta viva e si rafforza. Con la morte di Salvatore Riina, il boss di Cosa Nostra chiamato “u’ curtu” per la sua statura modesta, non ci sfiora il pensiero che senza di lui la mafia siciliana appartenga ormai alla storia. Al contrario. Il mai pentito Totò la belva, che si porta nell’aldilà chissà quanti segreti – e che avrà provveduto, in caso di necessità, a minacciare di farli riapparire – semmai “libera” Cosa Nostra dal suo scomodo comando esercitato per ben 24 anni da dietro le sbarre. Quindi addirittura la sua scomparsa potrebbe rilanciare l’organizzazione mafiosa. Riina testardamente ha mantenuto la carica di capo di tutti i capi della cupola mafiosa, perché nessuno ha avuto mai il coraggio di riunirsi per estrometterlo, sicuramente non Matteo Messina Denaro di Castelvetrano, ormai diventato lui il boss dei record della latitanza (già, un fantasma imprendibile). Quando un boss muore in galera come Riina – in ospedale ma sempre da carcerato – ne viene umiliato anche il suo potere. Un capo di tutti i capi che non riesce a morire libero, che la sua scarcerazione “per motivi di salute” non sia mai avvenuta, é un segnale di grande debolezza, uno smacco grave per Cosa Nostra. Come se l’intreccio di ricatti e contro-ricatti, su cui l’organizzazione criminale mafiosa basa il suo potere, questa volta non abbia funzionato fino alla fine. Il sanguinario Riina, alla fine, non passerà alla storia di mafia come un boss di Cosa Nostra della stazza di un Lucky Luciano, che pur avendo rischiato di marcire in galera, invece per i suoi “servizi” all’America e alla neonata Repubblica italiana (anni 1943-50), muore da uomo libero. Il magistrato svizzero ticinese Jacque Ducry che aveva lavorato con Giovanni Falcone, che nel 2000 interrogò Riina, in una intervista resa alla notizia della sua morte, ha dichiarato: “…loro sono diventati dei simboli di Cosa Nostra, grazie a svariati livelli di protezione. Da soli non avrebbero mai potuto fare ciò che hanno fatto. A cominciare dalle lunghissime latitanze”. Altro che morte della mafia. La mafia si nutre di “cover up”, di occultamento della verità. E fino a quando non saranno svelate le coperture e i perché che resero possibile la troppo lunga latitanza di Totò Riina, e poi quella ancora più prolungata del suo boss vicario, Bernardo Provenzano, la mafia resta viva e si rafforza. Quale segreto, quali accordi anche antichi custodivano questi “malacarne” mafiosi, che li ha mantenuti liberi di operare in Sicilia come uno stato nello stato e liberi di uccidere, all’occorrenza e convenienza, decine di sindacalisti, politici, magistrati, poliziotti, carabinieri, e anche giornalisti? Quanti cittadini e funzionari dello Stato – tutti nati in Sicilia tranne il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – si sarebbero potuti salvare se Riina, invece che nel gennaio del 1993, fosse stato arrestato venti, dieci, anche solo un anno prima? Resta la consolazione che lo Stato italiano è riuscito a fare arrivare il boss di Corleone all’appuntamento con l’aldilà da carcerato. Questo è un segnale, finalmente, di “resistenza” al potere di ricatto esercitato ancora dalla mafia. Ma per combatterla fino in fondo, e sconfiggerla definitivamente, la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità deve essere svelata sul perché certi individui semianalfabeti – altro che uomini d’onore, semmai “ominicchi del disonore” – siano stati per così lungo tempo liberi di mantenere così tanto potere, il potere assoluto di vita e di morte, su così tanti cittadini della Repubblica italiana. Solo confessando le responsabilità sul “mistero mafia”, su questo “strumento di governo locale,” come già accusava il deputato ed ex magistrato del Regno d’Italia Diego Tajani nel lontano 1875 (1875!) puntando il dito contro gli scranni del governo, ecco che, anche dopo la morte di un boss come Riina, sì che potremmo uccidere definitivamente anche la mafia.

Col boss Totò Riina nell’aldilà, dove andranno a finire i troppi segreti di Stato? Morto il capo di tutti i capi della mafia: che ne sarà dei documenti legati ai suoi crimini che sono scomparsi, spariti, sottratti? Scrive Valter Vecellio su "Lavocedinewyork.com" il 16 Novembre 2017. Mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando firma un permesso per la moglie e i figli del padrino Totò Riina per poter stare vicini al proprio congiunto in coma, da qualche parte resta nascosto un immenso, occulto “archivio” con custodite prove, documenti, relativi a certe complicità, certe protezioni, che la mafia ha avuto in tutti questi anni. Andrà tutto all'inferno con lui?

NOTA. Salvatore Riina, cosiddetto capo di tutti i capi di Cosa Nostra siciliana, è morto poche ore dopo la pubblicazioni di questo articolo.

Notizia di agenzia: “Il 16 novembre 2017 compie 87 anni, Salvatore Riina, il capo dei capi di Cosa nostra, al 41 bis dal 1993; è ricoverato in gravissime condizioni. Nei giorni scorsi è stato sottoposto a due interventi, nel secondo sono intervenute pesanti complicazioni che hanno reso necessaria una pesante sedazione. Riina è ricoverato nel Reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Suo figlio Salvo gli fa gli auguri su Facebook: “Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà. Ti voglio bene, tuo Salvo”.

Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato un permesso per la moglie e i figli del padrino, potranno stare vicini al proprio congiunto in fin di vita. Riina sta scontando 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi, quella di viale Lazio del 1969, quelle del 1992 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sua la scelta di lanciare un’offensiva armata contro lo Stato nei primi anni ’90. Mai avuto un cenno di pentimento, irredimibile fino alla fine, solo tre anni fa, parlando in carcere con un co-detenuto, si vantò dell’omicidio di Falcone.

A meno di improbabili evoluzioni – magari anche l’Inferno dei credenti si rifiuta di avere come “ospite” uno come Riina – il sanguinario capo della Cosa Nostra corleonese si avvia a seguire la strada dove lo ha già preceduto l’altro suo compare sodale (anche se poi le strade sembrano essersi divise), Bernardo Provenzano.

Non è vero quello che dicevano fin dai tempi dei latini, “Parce sepulto”. Con buona pace di Virgilio, non si può, non si deve sempre perdonare “chi è morto, ovvero è inutile continuare ad odiare dopo la morte”. Al contrario, si può, si deve, continuare a odiare, disprezzare; e soprattutto ricordare. Non si deve e non si può dimenticare quello che hanno fatto Riina, Provenzano e i loro seguaci e complici: i delitti, le stragi, il Male.

Non si deve, non si può. E’ un imperativo. Un dovere. E’ un imperativo, un dovere ricordare, fare domande, chiedere e cercare risposte. Quando si dice Riina, Provenzano e tutta la Cosa Nostra che in questi decenni si è resa responsabile del massacro di quella grande parte buona della Sicilia e dell’Italia, e ha allungato i suoi tentacoli oltre, ben oltre, i nazionali confini, si vuole anche dire che non ci si deve stancare di ricordare che se Riina, Provenzano, i corleonesi sono stati e sono ancora quello che sono stati e sono, lo si deve al solido, sfuggente, vischioso reticolo di complicità su cui hanno potuto contare, anche – se non soprattutto – in apparati dello Stato che avrebbero dovuto, al contrario, combatterli; e invece li hanno protetti, aiutati, nutriti.

Da qualche parte deve esserci un immenso, occulto “archivio” dove sono custodite prove, documenti, relativi a queste complicità, queste protezioni. Invito a leggere con attenzione quanto segue. E’ un “inventario” di impressionante che aiuta a capire quello che si cerca di comunicare.

E’ l’inventario, il “catalogo” delle cose importanti che sono scomparse, sparite, sottratte.

Sono scomparse le fotografie scattate dai carabinieri sul luogo dell’omicidio di Peppino Impastato, la mattina del 9 maggio 1978, a Cinisi.

Sono scomparsi gli appunti di Impastato sequestrati dai carabinieri nella sua abitazione.

E’ irreperibile la relazione di Pio La Torre, il segretario regionale del PCI, al congresso dell’area metropolitana di Palermo, dell’ottobre 1981, in cui si denunciano le collusioni di alcuni esponenti del partito e delle cooperative di Villabate e Bagheria con esponenti della Cosa Nostra. Non si trovano neppure gli atti del processo avviato dalla commissione provinciale di controllo del PCI nei confronti degli esponenti segnalati da La Torre, assassinato il 30 aprile 1982.

Scomparsi gli appunti del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il prefetto della città di Palermo, ucciso il 3 settembre 1982 assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo.

Scomparso il foglio della relazione di servizio stilata dall’agente Calogero Zucchetto, il primo ad arrivare sul luogo dell’omicidio Dalla Chiesa. Zucchetto viene ucciso il 14 novembre 1982 da due killer corleonesi, Pino Greco detto “scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo.

Scomparsa anche l’agenda con la copertina rossa del vice-questore Ninni Cassarà, capo della sezione investigativa della squadra mobile di Palermo, ucciso il 6 agosto 1985 assieme all’agente Roberto Antiochia.

Scomparsi alcuni fascicoli per una rogatoria in Svizzera che Cassarà invia dentro un pacco sigillato, il 27 luglio 1985, dieci giorni prima di essere assassinato, ai colleghi della polizia criminale di Lugano.

Scomparsa l’agendina tascabile con la copertina di colore marrone scuso che il 12 novembre 1984 Cassarà sequestra a casa di Ignazio Salvo, al momento del suo arresto per mafia.

Scomparse le video-cassette e un’audio-cassetta che Mauro Rostagno, sociologo e direttore dell’emittente “RTC” di Trapani conserva sottochiave nella sede della televisione o nella borsa che portava con sé, sul sedile posteriore dell’automobile, la sera in cui viene ucciso dalla Cosa Nostra, il 26 settembre 1988.

Scomparsi gli appunti del poliziotto Nino Agostino, ucciso il 6 agosto 1989 da killer della Cosa Nostra, assieme alla moglie Ida Castelluccio, in stato di gravidanza, nella casa al mare di Villagrazia di Carini.

Irreperibile il diario personale di Giovanni Falcone, presumibilmente annotato al computer. Al pari irreperibili le date e il contenuto di alcuni file conservati nella memoria del computer portatile Toshiba ritrovato nell’abitazione palermitana di Falcone solo dopo il primo sopralluogo della polizia giudiziaria. Irreperibili le date di alcuni file composti su un computer portatile Compaq, rinvenuto sulla scrivania dell’ufficio romano di Falcone agli Affari Penali del ministero di Giustizia. Irreperibili le cassette magnetiche dell’unità di backup del computer fisso sistemato accanto al Compaq. Irreperibile l’estensione di memoria del databank Casio Sf-9500 ritrovato nell’abitazione romana di Falcone qualche giorno dopo la strage, con il disco rigido cancellato.

Scomparsa l’agenda di Paolo Borsellino, con il simbolo dei carabinieri sulla copertina rossa in pelle, conservata nella borsa che il magistrato ha sistemato nel bagagliaio della Croma blindata al momento della partenza da Villagrazia di Carini, per andare a trovare la madre in via D’Amelio, a Palermo, dove è stato assassinato con cinque componenti della scorta il 19 luglio 1992.

Scomparsi gli appunti di Totò Riina, tenuti nella cassaforte della villa di via Bernini 54, suo ultimo nascondiglio prima dell’arresto, la mattina del 15 gennaio 1993.

Scomparsi gli appunti del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, che aveva offerto un contributo importante per la cattura di Riina, e la sera del 4 marzo 1995 si spara un colpo di pistola all’interno di una Fiat Tipo di servizio parcheggiata nell’atrio della caserma Bonsignore di Palermo.

Ecco elencati molti, ma solo alcuni, degli innumerevoli misteri attorno alla persona di Riina e la “sua” Cosa Nostra. Una tragica cronaca che si avvia, ormai a diventare storia. Una storia di questo Paese, fatta di tante, brutte, oscure, inquietanti storie.  

Prete su Facebook: “Ha fatto più morti innocenti Totò Riina o Emma Bonino?” Don Francesco Pieri, prete bolognese e docente alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, lancia un’incredibile provocazione: nel mirino le battaglie della Bonino a favore dell’aborto, scrive il 19 novembre 2017 Davide Falcioni su "Fan Page". "Ha più morti innocenti sulla coscienza Totò Riina o Emma Bonino?". La domanda – decisamente fuori luogo – è stata posta su Facebook da don Francesco Pieri, sacerdote bolognese che dalla sua pagina social ha postato una provocazione decisamente forte, anzi esagerata. Il prete, docente tra l'altro alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, ha incassato tra gli altri anche il ‘mi piace’ di don Massimo Vacchetti, vice-economo della Curia e responsabile della Pastorale dello sport. Il riferimento del parroco, evidentemente, è all'impegno civile e politico di Emma Bonino per la legge sull’aborto e per le tante altre battaglie sul fine vita e l'eutanasia: il commenti social del prete è stato segnalato sul Resto del Carlino di questa mattina. Secondo don Francesco Pieri tra il capo di Cosa Nostra, responsabile di centinaia di omicidi e di stragi che hanno segnato la storia d'Italia, e la radicale Emma Bonino "moralmente non c’è differenza". Lo scrive il sacerdote tra i commenti ricordando che il Concilio Vaticano II con la sua Gaudium et spes "mette l’aborto (non importa se legalizzato, ospedalizzato e mutuabile o no) in serie con genocidio, omicidio volontario e altri crimini orrendi (GS 27), tra cui certamente quelli di mafia, e lo definisce abominevole delitto (GS 51). Solo che vedo meno gente disposta a indignarsi e schierarsi per questi innocenti. Anche tra chi metterebbe la mano sul fuoco per il Vaticano II". A sostegno della sua assurda tesi Don Pieri cita anche il cardinale Giacomo Biffi, morto nel 2015, rilanciando un articolo di stampa del 1998, in cui il religioso non esitava a paragonare l’aborto ai lager nazisti: "La massima vergogna del ‘900, che pure ha conosciuto le più orrende infamie della storia, come i molti e diversi genocidi che sono stati perpetrati, resta senza dubbio la legalizzazione dell’aborto".

Sulla morte di Totò Riina, la testa “famosa” da issare alla picca. La necessità che Riina morisse in stato d’assedio, nei termini extragiudiziari, e muscolosi, ha assolto ad una funzione simbolica, scrive Fabio Cammalleri su "Lavocedinewyork.com" il 18 Novembre 2017. Riina è stato un simbolo: non c’entrava retribuire i suoi micidiali demeriti; non c’entra il sangue versato: essi stessi sono stati resi compatibili con equivocissimi trattamenti di favore. Serviva semplicemente una testa. Per ammonire, per seguitare a corazzare un minaccioso pedagogismo sociale; per riaffermare la “mafia perpetua”, anche a dispetto di una cadaverica vitalità. Una parte della pubblica opinione aveva chiesto a gran voce che accadesse: ed è accaduto. Salvatore Riina è morto da recluso. L’ultimo dei suoi numerosissimi procedimenti penali, aveva riguardato l’ipotesi che si curasse in un ospedale non penitenziario: sul presupposto che vi si potessero approntare cure migliori. Ricordiamo: la Corte di Cassazione aveva posto la questione, introducendo sullo sfondo pure “il diritto a morire dignitosamente”; ma, richiesto di pronunciarsi, nello scorso Luglio il Tribunale Sorveglianza di Bologna aveva deciso che Riina poteva restare dov’era: nel carcere di Parma, e lì adeguatamente curarsi. Quest’ultima vicenda giudiziaria, intervenuto in effetti il decesso, ha così acquisito un complesso valore paradigmatico. Non per le implicazioni etiche di un “diritto a morire nel proprio letto”: pur esistenti come cifra di civiltà, a meno che non si voglia mutare il detenuto in “prigioniero”. O per quelle di un più vasto, ma indefinito “spazio interiore del perdono”; che, invece, interrogando moti intimi, non dovrebbe interessare, se non indirettamente, la comunità politica e civile. No. La necessità che Riina morisse in stato d’assedio, nei termini extragiudiziari, e muscolosi, in cui è stata invocata, ha assolto ad una funzione simbolica: occorreva simboleggiare un contesto di pensieri, un’atmosfera sentimentale, che sviasse la comunità dei consociati dal formulare una domanda: Riina (e, con lui, Cosa Nostra) ha perso bene, o ha perso male? Perché la società, non necessariamente “civile”, ma certo viva e vera: quella che parla e dice secondo limpide assennatezze, contando i morti che non ci sono più; gli sguardi torvi e mellifluamente arroganti, a lungo presenti in ogni contrada siciliana (non solo siciliana, è noto: ma specialmente siciliana), e però scomparsi dalla circolazione, dice che Riina e Cosa Nostra hanno perso malamente. Avendo vissuto una contraria realtà umana e collettiva per oltre mezzo secolo, i savi anonimi sanno: e oggi colgono la differenza, assumendo a discrimine (irresponsabilmente banalizzato) la devastazione della veglia, del sonno, delle vie, delle vite: penetrante, assidua, onnipresente. Che è cessata. E, distinguendo quella devastazione da un più comune turbamento, sono grati a quegli uomini che hanno permesso questa evoluzione, questo netto e palpabile miglioramento; anche se alcuni di essi hanno ricevuto lunghi tormenti e somma ingratitudine, da talune, incongrue, espressioni istituzionali.

Quali? Quelle che in tanto hanno avuto ed hanno una ragion d’essere, in quanto possono seguitare a sostenere che Rina e Cosa Nostra hanno perso bene: quando addirittura non alludono, più o meno fra le righe, alla possibilità che abbiano vinto. Nonostante i 24 anni trascorsi in galera perinde ac cadaver; nonostante analoga sorte abbia colpito i suoi sodali, quale unica alternativa a pluridecennali, legittime, pene reclusive; nonostante le confische. Nonostante l’evidente superamento di un assetto geopolitico che aveva favorito, non una “mafia politica” tout court, come pure sciattamente ancora si sostiene; ma alcune, specifiche, e nominative, cointeressenze: sorte in quel contesto, e poi scomparse, con la scomparsa dell’assetto geopolitico agevolatore; come, al contrario intese spiegare Falcone (sempre duramente contestato, diciamo anche vilipeso, per queste sue precisazioni). I cascami di questa ostinazione interpretativa, che si è fatta parapolitica (e, perciò, aggruma interessi personali, funzionali a conseguenti visioni di dominio sulla società), sono stati e sono perniciosissimi. Non solo le ripetute brutture istituzionali e paraistituzionali antimafia: di chi ha lucrato in sostanzioso denaro e varie altre utilità, pagando (quando ha pagato) in pantomime di fatto inoffensive, e presto fatte dimenticare. E le brutture di chi, fuori e dentro le aule di giustizia, ha manomesso verità fondamentali sul Biennio delle Stragi (ma Fiammetta Borsellino e, con lei, quelli come lei, non si stancheranno mai di aspettare). Ma contestualmente si è divelto il Processo Penale, corpo e regola prima di ogni Democrazia: ormai ridotto a remoto e cartolare presupposto di un Apparato, che all’idea di una “mafia perenne”, e perennemente invincibile, lega un ordito di potere, normativamente nutrito e propagandisticamente sostenuto: il quale, nell’ultimo anno, ha registrato indubbi, quanto forse decisivi, successi in Parlamento. Riassuntivamente, uno su tutti: “la mafia”, “l’associarsi” mafioso, il suo “metodo”, non valgono più come condotta: ma come sociologistico algoritmo di una semplificazione probatoria universale. Algoritmo ormai invocabile non solo per ambiti sociali sempre più vasti e onnicomprensivi (“la PA” da “prevenire”, “l’Imprenditore” da “interdire”, al solo sospetto di “contagio”; cioè, al mero contatto con una persona, a sua volta, anche semplicemente “mafio-sospetta”); ma come criterio critico fondamentale, a partire dal quale qualificare potenzialmente la società italiana nel suo complesso: avendo “trattato”, tramite le sue massime espressioni istituzionali (non dimentichiamo che i sostenitori della “mafia perenne”, hanno spinto i loro aleggiamenti fino al Quirinale), non può che essere “sospetta” essa stessa: tutta, e sine die. E, sospetta, in primo luogo, quando mostra di non voler abdicare alla sua stessa mite e lineare assennatezza. Un programma per il futuro, questo; non un consuntivo per il passato: sia chiaro.

Per questo occorreva quel simbolo. Non c’entrava retribuire i micidiali demeriti di Riina; non c’entra il sangue versato: gli stessi demeriti e lo stesso sangue sono stati resi compatibili con equivocissimi trattamenti di favore, sanzionatori, e non solo. E la coeva condanna a sei anni di reclusione per calunnia, a carico di Massimo Ciancimino, ovviamente, comprova, ancora una volta, quanto le pretese di marmorea inflessibilità, celino, più frequentemente di quanto sarebbe desiderabile, sinuose e scivolose ambiguità.

Per ammonire, per seguitare a corazzare un minaccioso pedagogismo sociale; per riaffermare la “mafia perpetua”, anche a dispetto di tale cadaverica vitalità, semplicemente, occorreva una testa “famosa” da issare su una picca. E la si è avuta.

CHI ERA DAVVERO IL BOSS. "Addio vecchio stragista rincoglionito", Filippo Facci il 18 Novembre 2017 su "Libero Quotidiano" seppellisce Riina: la verità su di lui che nessuno dice. In pratica è morto un vecchio galeotto stragista rincoglionito che da 24 anni era al regime carcerario del "41bis", e che, sino al 1992, era a capo dell'organizzazione "Cosa nostra" che era la mafia corleonese (cioè la mafia e basta) che a sua volta smise di esistere poco tempo dopo. Smise di esistere in quanto sconfitta dallo Stato, perché non ebbe più una struttura gerarchico-militare, perché non ci fu più una "cupola", perché i capi sono morti o in galera, e i sottoposti pure, e con loro tanti killer, estorsori, picciotti e prestanome. Smise di esistere, come Riina, perché i sequestri di armi e droga e patrimoni economici e immobiliari lasciarono il segno, perché bombe e stragi e omicidi seriali non ce ne furono più, perché la presa sul territorio si allentò progressivamente, perché i traffici internazionali sono divenuti appannaggio di organizzazioni non siciliane, perché gli "eredi" di quella mafia siciliana fanno tutt' altro mestiere e si occupano di riciclaggio, finanza, appalti, sanità, energia eolica: ma sono un' altra cosa. Non è più "Cosa nostra", così come Riina non ne era ovviamente più il capo. Questo nonostante le lagne degli orfani antimafia, quelli che ancor oggi fanno archeologia giudiziaria e si occupano di fatti accaduti 25 anni fa, gente che tenta di raccontarci un Paese eternamente in guerra, come se i problemi italiani fossero davvero "la trattativa" o il ruolo del vegliardo Totò Riina, che ora è morto anche clinicamente. Chiaro che ora, in lutto, è soprattutto l'antimafia professionista, gli archeologi che ieri hanno subito titolato «La mafia non è finita» (Francesco La Licata, La Stampa) o «Cosa nostra pronta a riorganizzarsi» (Salvo Palazzolo, Repubblica) sino al delirante sottotitolo del Fatto Quotidiano online, secondo il quale: «La morte di Riina sembra rilanciarne un'altra, di stagione: quella della ricerca della verità sulle stragi... tornare a indagare sui misteri del 1992 e 1993...». Sui quali, notare, hanno già fatto decine e decine di processi e sentenze. Ma registrare tutto il commentario esploso ieri resta impraticabile. Molte testate online, e tutti i telegiornali, hanno ritenuto di grande importanza che la Cei (i vescovi) ritenga «impensabili» dei funerali pubblici: il che da una parte è un'ovvietà, dall' altra sarebbe divertente elencare tutte le eccezioni che sono state fatte in passato. Persino i parenti dell'ex boss hanno contribuito involontariamente al delirio: Maria Concetta Riina, figlia del padrino corleonese, ha postato su Facebook una rosa nera e un volto di donna con scritto «shhh», silenzio. E se da una parte sembra assurdo che possa esserci silenzio dopo la morte di quello che, all' estero, hanno definito «il mafioso più potente del Ventesimo secolo», dall' altra ci sono agenzie di stampa anche serie, come l'Adnkronos, che hanno descritto così il «shhh», l'invito al silenzio post-mortem: «La foto sembra essere un messaggio». In attesa di scoprire che Riina è vivo e magari nascosto in Argentina assieme a Hitler e Bokassa, limitiamoci a registrare che è morto un vecchio galeotto stragista rincoglionito a cui - dato di fatto - è stato negato il cosiddetto «diritto a morire dignitosamente», il che negli ultimi mesi poteva significare metterlo agli arresti domiliciari: che sono sempre arresti. Gli è stato negato più per questioni di principio che per una oggettiva pericolosità: Riina negli ultimi mesi stava malissimo, era a letto, non ci stava con la testa - da tempo - e anche nei suoi colloqui intercettati aveva solo uscite paternalistiche, roba che molti, tuttavia, si preoccupavano di sovra-interpretare.

Era sempre solo, anche perché nessuno voleva condividere la cella con lui: troppi controlli e cimici, essendo lui ipersorvegliato. Intanto, però, comicamente, la Direzione antimafia continuava a considerarlo il capo di una fantasmatica "Cosa Nostra" che potesse riorganizzarsi, che sarebbe come dirlo di Renato Curcio rispetto alle Brigate Rosse. A Palermo la procura di Francesco Lo Voi ha ormai arrestato anche la più residuale soldataglia (chiamarla mafia pare troppo) mentre i pochi membri di Cosa Nostra tornati in libertà vivono da eremiti o buttano becchime ai piccioni. Ma, tornando alle condizioni di salute di Riina, va detto che sino a poco tempo fa erano considerate «compatibili con il carcere» dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, mentre la Cassazione invitava piuttosto a valutare «il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». Insomma, la Suprema Corte suggeriva di riflettere sulla pericolosità di un uomo che non parlava più e che non riusciva a comandare neppure il suo intestino. Ma questa è la linea dello Stato con certi mafiosi non pentiti, praticamente una legislazione a parte rispetto a qualsiasi codice occidentale. Non fu diverso, del resto, per Bernardo Provenzano: la stessa Cassazione riconobbe che fosse affetto da patologie «plurime e gravi di tipo invalidante», ma il boss rimase al 41bis lo stesso, sino alla morte nel luglio dell'anno scorso.

Un discorso che invece non vale per chi si pente: Giovanni Brusca trucidò 40 persone, partecipò a sei stragi, sciolse un 13enne nell' acido, ma nel 1996 si "pentì" e gli furono concessi dei permessi premio per poter uscire dal carcere ogni 45 giorni. Carmine Schiavone, amministratore dei Corleonesi, fu 70 volte assassino, mandante di 500 assassinii, estorsore, schiavista di prostitute, seppellitore di rifiuti tossici, avvelenatore di falde acquifere eccetera: ma si pentì, ed è stato scarcerato nel 2013 (10 anni anziché 8 ergastoli) e ha imperversato su giornali e talkshow sino alla sua morte, due anni fa. Comunque: un tempo, quando i giornali erano i giornali, si preparava con ampio anticipo il cosiddetto coccodrillo per i personaggi che potevamo morire da un momento all' altro, così da non essere colti alla sprovvista. Nonostante tutto, il coccodrillo di Totò Riina era pronto dal 1993, quando lo catturarono. Smise di vivere allora, per fortuna. Il resto sono fantasie da mafiologi. Filippo Facci

Crepa in cella, mafioso! Rosy Bindi esautora la Corte, scrive Errico Novi il 14 giugno 2017 su "Il Dubbio". La presidente della commissione antimafia visita Riina a Parma anticipa la sentenza sul superboss. «A Riina è assicurato il diritto a una vita dignitosa e dunque a morire, quando ciò avverrà, altrettanto dignitosamente». Rosy Bindi anticipa il Tribunale di sorveglianza. Se non fosse che in Italia Parlamento e ordine giudiziario sono ancora formalmente separati, non varrebbe neppure la pena di celebrare l’udienza del prossimo 7 luglio, in cui i magistrati di Bologna dovranno riesaminare il caso. La presidente della commissione Antimafia è stata a Parma lunedì scorso e ha verificato «le condizioni in cui è attualmente detenuto Totò Riina, tuttora il capo di Cosa nostra». Una volata. Anzi, una «vista senza preavviso», come la legge consente a tutti i parlamentari. Ha visto il boss «ma abbiamo preferito non interloquire con lui». Hanno accertato tutto tranne cosa avesse da dire il mafioso. Nel suo blitz Bindi è stata accompagnata dai due vicepresidenti della commissione, il cinquestelle Luigi Gaetti e Claudio Fava di Sinistra italiana. Ieri le «comunicazioni» alla stampa. Che danno tutta l’impressione di una sentenza letta in anticipo e in sostituzione dei giudici competenti. «Riina è in condizioni decisamente migliori rispetto a quelle che ha potuto apprezzare la Suprema corte, risalenti a maggio 2016». Un modo per giustificare quello che, per Bindi, è evidentemente il gravissimo errore contenuto nella sentenza con cui la Cassazione ha annullato il no al differimento pena. Inoltre Riina «è ben assistito: sì, ha avuto due neoplasie», cioè tumori ai reni, «ma ha un bello sguardo vigile, perfettamente lucido, tanto che si occupa dei suoi processi, interloquisce regolarmente con il proprio difensore e con i familiari». Il tutto dall’ospedale di Parma, «dov’è ricoverato, in un regime che potremmo definire di 41 bis ospedaliero, dal gennaio 2017». La Cassazione aveva annullato la sentenza del Tribunale di sorveglianza per difetto di motivazione su due punti: il fatto che, nel rigettare la richiesta di scarcerazione, il giudice avesse tenuto in conto solo «il passato criminale» e non «la situazione presente» del boss; e il fatto che «l’attuale pericolosità» di Riina non fosse stata sufficientemente argomentata. Bindi risolve entrambe le questioni. Rispetto allo stato di salute e alla conseguente dignità da assicurare all’esecuzione penale, il mafioso gode di «un’attenzione medica e assistenziale persino superiore a quella che gli sarebbe riservata se fosse libero». Cancro a parte «è su una sedia a rotelle in una stanza singola dell’ospedale di Parma, con un bagno attrezzato per i disabili e in perfette condizioni igieniche. È seguito da personale scrupoloso. Ci siamo fatti consegnare l’intera documentazione». Carte che, modestamente, la Procura generale di Bologna ha chiesto solo ieri al Dap. Eppure sarebbe quello l’ufficio giudiziario titolato a sostenere l’accusa davanti al Tribunale. Anche Gaetti assicura che Riina è seguito meglio di qualunque altro 87enne con cancro, sindrome parkinsoniana e «concreti rischi di eventi cardiovascolari infausti». Il ricovero è eccessivo, dice, «se non fosse un detenuto si troverebbe con l’assistenza domiciliare o una Rsa». Invece è in una struttura ospedaliera, ma solo perché, ricorda la presidente, «la cella del carcere non è abbastanza ampia da contenere un letto rialzabile e non era dotata di un bagno per disabili: l’amministrazione penitenziaria ha avviato dei lavori che saranno conclusi in pochi giorni, in modo da ampliare e adeguare gli spazi». Appena ristrutturata la cella, dunque, «Riina potrà farvi ritorno». Una cronista chiede: «Ma chi aveva deciso di portarlo in ospedale?». Bindi paradossalmente giustifica: «Le sue condizioni non erano compatibili con le strutture in cui era recluso». Un barlume di dubbio s’insinua: ma allora vuoi vedere che la Cassazione non aveva tutti i torti? La presidente dell’Antimafia cita l’articolo 27 della Costituzione (finalità rieducativa della pena) e l’articolo 3 della Convenzione per i Diritti umani (i trattamenti detentivi non siano inumani e degradanti) ma esclude che dal combinato dei due principi si possa ricavare «un diritto a morire fuori del carcere». C’è però un diritto a morire con dignità: basteranno ad assicurarlo i tre metri quadri in più e il bagno? «Serve un coordinamento che consenta al personale dell’ospedale di Parma di assistere Riina in carcere», ricorda anche Gaetti. E hai detto niente: quindi è tutto in alto mare. Dopodiché si pone un problema enorme, e qui la missione di Bindi si rivela preziosa: «Ci sono molti mafiosi al 41 bis in cattive condizioni, con decadimento fisico dovuto all’età: bisogna attrezzarsi. O negli ospedali, o con il personale ospedaliero dentro gli istituti di pena». E già: problema sottovalutato. Ma dopo l’analisi, torna la sentenza: Riina, sancisce la presidente Bindi, è in ogni caso «ancora il capo di Cosa nostra, è così per le regole interne alla mafia». Giudicato chiuso, l’udienza è tolta.

Morti Provenzano e Riina, ora aboliamo il carcere duro, scrive Piero Sansonetti il 18 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il padrino non c’è più. La chiesa rifiuta i funerali. Ma il 41 bis, ora, che senso ha? Il 16 maggio del 1974, tre giorni dopo la vittoria del divorzio al referendum, viene arrestato a Milano Luciano Leggio, detto Liggio. Il più celebre capomafia del dopoguerra. Da quel momento, dentro Cosa Nostra, il bastone del comando passa ai suoi luogotenenti che controllano la cosca dei corleonesi. Il principale luogotenente è Totò Riina, poi c’è Bernardo Provenzano. Riina tiene le redini della mafia per quasi vent’anni, fino al 1993, quando viene catturato, poco dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino. Gli succede Provenzano, che resta al comando un’altra decina d’anni. Lo catturano nel 2006. Con la morte di Riina, si è chiusa l’epopea feroce e maledetta dei grandi corleonesi. Provenzano era morto nel luglio di un anno fa. Liggio morì in carcere nel 1993. Il 41 bis – cioè l’organizzazione del carcere duro, una forma severa e un po’ crudele di carcerazione – è stato pensato proprio per impedire che i grandi corleonesi continuassero a nuocere, anche dal carcere. I politici e i magistrati, che difendono questa istituzione, hanno sempre spiegato che non è una forma più aspra di punizione ma solo una misura di sicurezza. E risponde alla necessità di impedire che i capi comunichino con i picciotti. Diano ordini, tessano strategie. L’asperità della punizione è solo un effetto collaterale. Non ci sono più Riina e Provenzano Il 41 bis ora può essere abolito. Non è facilissimo credere a questa tesi. Che è stata ripetuta per anni, anche negli ultimi tempi, per impedire che a Provenzano e Riina, ormai malatissimi, fosse risparmiato il 41 bis mentre erano agli sgoccioli della loro vita. Ma facciamo uno sforzo, e crediamoci. Ora che i due capi non ci sono più e che il vertice di Cosa Nostra è stato disarticolato, che senso ha mantenere il 41 bis? Non c’è nessuno tra gli investigatori e gli studiosi che pensa che il vertice operativo di Cosa Nostra sia collocato in carcere, e che sia da lì che partono gli ordini. Gli inquirenti e gli studiosi sanno che la mafia in questi anni ha subito dei colpi micidiali, che la sua struttura è molto indebolita, la sua potenza militare ridimensionata e quasi ridotta a zero, e che probabilmente – lo dice in un’intervista che pubblichiamo a pagina 3 del Dubbio di oggi il magistrato Alberto Cisterna, ex numero due della Dna – non dispone più di un comando unitario. Oltretutto – dice sempre Cisterna, l’impressione è che non abbia più, da tempo, un ruolo centrale nell’organizzazione e nella direzione del crimine nel nostro paese. Mantenere il 41 bis non risponde oggi a nessuna esigenza di sicurezza o di investigazione. Dopo la morte dei due capi, anche dal punto di vista formale ( o dell’immaginario), risponde solo all’esigenza di mandare un messaggio di “durezza”, che possa servire come monito, come intimidazione. Ma la giustizia come monito o come intimidazione non è prevista dalla nostra Costituzione. E neanche la crudeltà come forma di risposta ai crudeli. Proprio in questi giorni, in seguito alla vicenda Ostia, che ha avuto un grande risalto sui giornali, è risultato molto evidente come la “mafiosità” rischia di diventare un pretesto che serve solo a rendere più semplice la repressione. Il che può anche essere considerato da molti un fatto positivo, ma è innegabile che è qualcosa che lede lo Stato di diritto. A Ostia è stato arrestato Roberto Spada per un reato sicuramente grave e odioso, quello di avere pestato un giornalista che gli faceva domande scomode. Questo reato però non prevede la possibilità di arresto preventivo. E allora la Procura ha usato il grimaldello della mafiosità, e cioè ha stabilito che le botte (la testata) al giornalista, erano avvenute in modalità mafiosa. È evidente che siamo di fronte a una manipolazione quasi farsesca della legge, però nessuno ha avuto niente da dire, sulla base di un ragionamento molto semplice: Spada è colpevole, per di più Spada è antipatico, per di più Spada ha colpito un giornalista, quindi è indifendibile e non c’è nessun bisogno invocare per lui lo Stato di diritto. E così l’altro giorno si è arrivati a trasferire Spada in un carcere di massima sicurezza come se fosse un capomafia autore di omicidi e stragi. Una legge che procede con il doppio binario, utilizzando l’articolo 416 bis del codice penale (associazione mafiosa) per bypassare le garanzie offerte dai codici, può avere un senso – forse – per un periodo molto breve e di grande e vera emergenza. Aveva un senso, probabilmente, nel 1992, dopo gli attentati, le uccisioni, e poi nel 1993, l’anno delle stragi. Oggi è ingiustificabile. Non c’è una emergenza mafiosa e sono passati 25 anni da quelle stragi. Naturalmente anche per i reclusi accusati di mafia, e quindi chiusi al 41 bis, funziona il ragionamento che viene fatto per Spada: son mafiosi, son colpevoli, a che serve lo Stato di diritto? Ecco, il punto è proprio questo. Lo Stato di diritto è Stato di diritto solo se vale per tutti. Se prescinde dalle colpe, o dalle accuse, o dalla gravità delle colpe o delle accuse. La forza dello Stato di diritto è quella. E se lo Stato di diritto perde la sua universalità, scompare. Tre giorni fa l’Onu ci ha fatto notare che le condizioni nelle quali si vive al 41 bis non sono civili. E non rispondono alle norme previste dalla carta dei diritti dell’uomo. I giornali non ne hanno parlato. I giornali non parlano di queste cose. E neanche i partiti. Perché la contraddizione tra 41 bis e Costituzione italiana non è molto popolare. Non porta voti. Non porta copie. L’opinione pubblica non ha nessuna voglia di sentirsi dire che lo Stato di diritto vale anche per chi è stato accusato o condannato per mafia. O vale per i terroristi. E invece proprio oggi, nel vortice dell’indignazione per Riina, per la sua vita, per la sua morte, mentre persino la Chiesa dimentica per un giorno la carità e rifiuta i funerali, bisogna avere il coraggio di non farsi mettere il silenziatore. Riina non c’è più, Provenzano non c’è più, la direzione della mafia non è in carcere. Il 41 bis è solo un abuso che va abolito, ascoltando il parere dell’Onu.

Morte di Riina: abiti scuri e silenzio, il lutto dei boss in carcere al 41 bis. Le reazioni alla notizia nei penitenziari. E alcuni detenuti non hanno ritirato il vitto, scrive Giovanni Bianconi il 16 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Il boss Vittorio Tutino, ancora fresco di ergastolo per la strage di via D’Amelio nel quarto processo Borsellino, s’è vestito a lutto, «con abiti di colore nero e scarpe nere». Come lui il corleonese Rosario Lo Bue, recentemente condannato a 15 anni di galera; suo fratello Calogero fu il «vivandiere» arrestato con Bernardo Provenzano. Il giorno dopo la morte di Totò Rina, hanno voluto dimostrare così il cordoglio per la dipartita del «capo dei capi» di Cosa nostra. Un segno di rispetto che, in forme diverse, s’è esteso a molti altri detenuti, nelle sezioni speciali del «41 bis», riservate a capi e gregari di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Gli agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria hanno osservato con attenzione le loro reazioni, riversate in appunti che la Direzione dell’amministrazione penitenziaria ha trasmesso alla Procura di Palermo. Per verificare se, anche da questi piccoli indizi, si potessero cogliere eventuali segnali della «formazione di una nuova leadership» dentro Cosa nostra. Nel carcere de L’Aquila, dove si sono chiusi Tutino e Lo Bue, quando morì il padrino — un mese fa — era in corso una protesta con la «battitura» della sbarre tre volte al giorno, alle ore dei pasti. Ma il giorno in cui arrivò la notizia, la protesta fu sospesa, per rispetto. Inoltre i detenuti della «sezione rossa» non hanno ritirato il vitto passato dall’amministrazione, consumando ciascuno nella propria cella il cibo che aveva a disposizione. All’apertura dei cancelli blindati, alle 7 del mattino, normalmente i boss a si augurano il «buongiorno», ma il 17 novembre non si sono salutati affatto. La stessa cosa ha fatto, a Novara, Tommaso Lo Presti, considerato il «reggente» della famiglia mafiosa palermitana di Porta Nuova, rimasto muto anche all’ora di pranzo e la sera, quando solitamente — secondo un rito che al «41 bis» aiuta a scandire il tempo che passa — ci si scambia il «buon appetito» e «buona sera». Sempre a Novara un altro capo di rilievo, Vito Vitale da Partinico, già alleato dei corleonesi, al risveglio ha acceso la televisione e, appreso che Riina era morto, l’ha spenta e non l’ha più voluta vedere per tutta la giornata: «Tipico gesto di lutto familiare nelle regioni meridionali», hanno annotato gli agenti del Gom. Nello stesso penitenziario, invece, altri reclusi di altra generazione, non hanno mostrato alcuna reazione. Per esempio Giuseppe Biondino, nipote diretto di Salvatore, l’autista di Riina che il 15 gennaio 1993 fu arrestato insieme al «capo dei capi»; il 17 novembre ha avuto un comportamento uguale a tutti gli altri giorni, «manifestando la diversità carismatica di attaccamento alle regole associative di Cosa nostra». Al pari di Alessandro D’Ambrosio, della famiglia di Porta nuova, che ha salutato i compagni di sezione «come se nulla fosse». Non sono state segnalate reazioni particolari di Leoluca Bagarella, il cognato di Riina rinchiuso a Sassari, e del figlio maggiore Giovanni, anche lui ergastolano al «carcere duro». Così come tutte le relazioni arrivate dai reparti di Rebibbia, a Roma, riferiscono che «nessun commento» è stato pronunciato dai detenuti. Con l’eccezione del dialogo tra Gaetano Maranzano, boss del quartiere palermitano Cruillas, e l’imprenditore accusato di camorra Antonio Simeoli. Il quale alla distribuzione del vitto ha detto al siciliano: «Condoglianze Gaetà». «Ma di che cosa?», ha risposto quello. «È morto, l’ho sentito al telegiornale». «Ma chi, u curtu? Non l’avevo sentito», e ha riso, mostrando scarso interesse. Tornando a L’Aquila, ma nel reparto femminile, il colloquio ascoltato tra la camorrista Teresa De Luca e la ‘ndranghetista Aurora Spanò, ha avito toni esilaranti. «Stamattina ho avuto un brutto risveglio, è morto lo zio», ha detto la prima. E l’altra: «Ti è morto lo zio e non dici niente?». «Ma sei scema? L’ho saputo stamattina». «E come hai fatto se la posta arriva al pomeriggio?». «Madonna mia Aurò, non capisci niente. Non mi parlare che mi fai salire i nervi». Un’altra detenuta calabrese, invece, Teresa Gallico, se l’è presa col permesso concesso ai parenti di Riina di stargli accanto nelle ultime ore di vita, «mentre a lei e ai suoi tre fratelli, quando morì suo padre, era stato negato»; la napoletana Raffaella D’Alterio «non ha fatto altro che dare ragione alla propria compagna».

Il 41-bis non è poi così duro: visite mediche, permessi e vasetti di miele per i boss mafiosi, scrivono di Giampiero Calapà e Silvia D'Onghia - Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2016. C'è un giudice di sorveglianza Sassari che consente lo scambio corrispondenza detenuti di istituti diversi: così quelli di Sassari scrivono quelli Tolmezzo. Solo che a Tolmezzo c'è un altro giudice che vieta la corrispondenza persino tra detenuti e familiari, come invece previsto da una nota del Dap. Non è una barzelletta, è una delle tante contraddizioni del 41bis. Il problema non è la legge 94 del 2009, ma la gestione eterogenea della misura applicata ai più pericolosi detenuti per reati di mafia. 732, al momento, contro i neanche 600 uomini del Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria che si occupano di loro in 12 istituti. Fino a qualche anno fa erano 660, ma - a fronte dell'incremento dei detenuti - i poliziotti che vanno in pensione non vengono sostituiti. “Tutto è affidato ai singoli magistrati sorveglianza - spiega un agente - ed è chiaro che questo crea disparità di trattamento. Se uniamo le incongruenze alla simbologia mafiosa, capiamo che i boss riescono a esprimere ancora il loro potere”. Vediamo come. Permessi Le cose sono due: o nel 2016 stanno morendo tantissimi familiari, oppure gli avvocati sono diventati più potenti e giudici più tolleranti. In tutto il 2015, infatti, solo undici boss hanno ottenuto il permesso di visitare parenti moribondi o familiari infermi o gravemente disabili. Nei primi sei mesi del 2016, siamo già a quota dodici. Si tratta di permessi che vanno dall’una alle tre ore, ma questo significa che vengono impiegati una ventina di poliziotti, spesso un volo militare, cioè un costo per la collettività che va dai 10 ai 20 mila euro. “Con alcuni paradossi - spiega la nostra fonte - tipo quello di una di un boss autorizzato a tornare nella sua casa tra i vicoli di Bari vecchia o in un paese siciliano con la “processione” per incontrarlo. O ancora a far visita a un defunto: solo che quando arriva là e non trova nessun parente se ne vuole andare subito. In alcuni casi non viene informata nemmeno la Dda. Non sarebbe meglio, quando si può, prelevare il figlio disabile e portarlo dal padre?”. Visite mediche Il personale che cura i detenuti e delle Asl che gestiscono la sanità in carcere. Durante le visite, la Polizia deve rimanere sulla soglia, guardare ma non ascoltare. E se il mafioso prova a condizionare medico? “In alcune strutture può capitare di captare conversazioni sospette - prosegue il nostro agente - solo che anche lì, di fronte a una relazione, ci sono magistrati che apprezzano e altri che biasimano”. Altro segno di potere è la visita del medico di fiducia: “C'è un detenuto in un istituto il Nord che con cadenza regolare riceve due odontoiatri pugliesi, ovviamente pagandoli. Oppure boss che si fanno comprare vasetti di miele da 28 euro l'uno in farmacia. Tutto diventa un simbolo”. Avvocati Ci sono avvocati che fanno la spola tra gli istituti. Alcuni sono addirittura parenti dei mafiosi. “E alle volte scattano love story: c'è un boss che accarezza i capelli della sua avvocata”. Simbologia In un reparto 41 bis, tutto ha un significato. Dalle foto dei detenuti, che dovrebbero avere la stessa grandezza, al cibo: “Di solito il primo che dice “buon appetito” è il capo che vorrebbe essere servito per primo - ci spiega l’agente - dobbiamo stare attenti a modificare il percorso del carrello”. “Chi non è mai stato dentro, non può capire cosa sia il 41 bis - conclude il poliziotto -. Pensi a una cosa: quando arriva una T-shirt bianca in un pacco, dobbiamo assicurarci che non riporti scritte sotto l'etichetta o sotto l'ascella. Tutto va controllato, e noi siamo pochi. Mi chiede se c'è un progetto che smantellarlo? Sicuramente non ce n'è uno per mantenerlo”.

Sepolti vivi: luci e ombre del 41-bis, il più duro regime carcerario italiano, scrive Gregorio Romeo il 29 giugno 2016 su news.vice.com. Soffriva di diabete, insufficienza renale, problemi cardiaci, un cancro polmonare scoperto quando aveva già raggiunto i sette centimetri di massa ed una metastasi al fegato. Feliciano Mallardo, condannato in primo grado a 24 anni per estorsione aggravata e associazione camorristica, è morto in queste condizioni al 41-bis, nel maggio del 2015, nella cella detentiva dell'ospedale San Salvatore a l'Aquila. La moglie e i figli l'avevano visto l'ultima volta venti giorni prima, attraverso un vetro divisore, senza nessuna possibilità di contatto. Avevano chiesto un ultimo colloquio straordinario, privo di barriere; richiesta considerata ragionevole dal tribunale di Napoli, data la salute del detenuto e il prevedibile "exitus improvviso." Ma non c'è stato tempo: il necessario nulla osta del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, pur sollecitato, non è mai arrivato. Poco meno di un mese prima, Palmerino Gargiulo è morto suicida a Cuneo. Il 55enne – già monitorato per tendenze autolesionistiche – è stato trovato impiccato nella sua cella dalle guardie penitenziarie, appeso a una corda rudimentale fatta di lenzuola e lacci. Secondo uno studio dell'Osservatorio permanente sulle morti in carcere, la frequenza di suicidi tra i detenuti al 41-bis è 3,5 volte maggiore rispetto al resto della popolazione reclusa. In Italia, insomma, oggi si può morire così al 41-bis – isolati in un regime carcerario speciale che, tra le varie restrizioni, prevede l'isolamento in cella per 22 ore al giorno; la possibilità di un solo colloquio familiare al mese, di massimo un'ora, attraverso un vetro divisore; il divieto di ricevere libri e "qualsiasi altra forma di stampa" dall'esterno; e la stretta limitazione dei rapporti sociali tra reclusi. Secondo diverse associazioni a tutela dei detenuti, si tratta di restrizioni che non sempre riflettono la necessità di impedire i contatti tra prigionieri e gruppi criminali, ma potenzialmente sconfinano nella pura vessazione.

Le origini del carcere duro. Il regime speciale è nato nel clima delle stragi mafiose del 1992. Probabilmente, solo entrando nella storia drammatica di quel periodo è possibile capire come mai – a distanza di 24 anni – non solo sia ancora in vigore, ma regoli la vita di 729 detenuti. Più di un quarto dei quali in attesa di sentenza definitiva, 161 reclusi da un periodo che va dai 10 ai 20 anni e 29, tra cui diversi ultra ottantenni, al 41-bis da oltre 20 anni. Quando il 19 luglio 1992 esplode la bomba di via D'Amelio a Palermo, uccidendo il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta, il cosiddetto "carcere duro" in Italia ancora non esiste. Solo il giorno dopo la strage, l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli decide di firmare i primi provvedimenti di 41-bis. Lo Stato vuole mostrare la sua reazione di forza alla mafia e al Paese; così, nel cuore della notte, 55 detenuti (dei 532 complessivi che saranno trasferiti al regime speciale nei giorni successivi) vengono prelevati dal penitenziario palermitano dell'Ucciardone e deportati a bordo di aerei militari verso l'isola di Pianosa. La decisione del ministro Martelli poggiava su un comma varato dopo l'altra sanguinosa bomba del 1992, quella che il 23 maggio aveva colpito il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca, e tre componenti della scorta. La norma – voluta dallo stesso Falcone e alla quale non era stata data attuazione anche per via della sua estrema rigidità – fu quindi "sbloccata" dalla strage di via D'Amelio. Da allora, il ministro di giustizia può sospendere, in caso di "gravi motivi di sicurezza pubblica," le normali garanzie dei detenuti. L'obiettivo formale è impedire il passaggio di ordini o altre comunicazioni tra i criminali in carcere e le organizzazioni d'appartenenza sul territorio.

Come funziona il regime speciale. Ispirato alla carcerazione speciale anti-terrorismo abolita nel 1986, e nato come misura temporanea, il 41-bis è stato periodicamente prorogato fino al 2002, quando con la legge 279 entra stabilmente nel nostro sistema penitenziario. In base alle ultime modifiche del 2009, il ministro della giustizia - sentiti gli uffici giudiziari antimafia - può disporre il carcere duro per qualsiasi detenuto accusato di reati legati al crimine organizzato con un primo decreto della durata di 4 anni, rinnovabile (potenzialmente all'infinito) ogni due anni. Nel tempo, il numero dei detenuti al 41-bis è passato dai 543 del 1993 ai 729 (tra cui sette donne) del dicembre 2015, dislocati in 13 penitenziari tra il centro, il nord Italia e la Sardegna. Si tratta soprattutto di persone accusate o condannate per associazione mafiosa, ma ci sono anche terroristi politici (circa il 20 per cento del totale). Il ricorso del detenuto contro il regime 41-bis è sottoposto al vaglio esclusivo del Tribunale di sorveglianza di Roma che, peraltro, molto raramente accoglie i reclami. Secondo alcuni osservatori, è a questo livello che il meccanismo del carcere duro presenta maggiori criticità, soprattutto quando si tratta di contestare i decreti di proroga del ministro della Giustizia. Come indicato dalla Corte costituzionale, infatti, ogni rinnovo dovrebbe presentare delle ragioni "attuali" che giustifichino la permanenza del detenuto al carcere duro. Tuttavia, come spiega a VICE News Carlo Fiorio, avvocato e professore di Procedura penale all'Università di Perugia, "nella prassi le proroghe forniscono motivazioni stereotipate, quasi un copia-incolla del decreto precedente. Spesso non tengono neppure conto di fatti concreti che rendono il rapporto tra detenuto e gruppo criminale esaurito o non più possibile."

Il caso Provenzano. Per molti, un esempio in questo senso è rappresentato da Bernardo Provenzano, al 41-bis da quando è stato arrestato nel 2006, dopo 43 anni di latitanza. Il boss è morto nel luglio 2016 a 83 anni, e da oltre due era ricoverato nella camera ospedaliera di massima sicurezza dell'ospedale San Paolo di Milano. A settembre 2015 il primario del reparto aveva descritto così le sue condizioni di salute: "Allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana. Portatore di pluripatologie cronicizzate, portatore di catetere vescicale a permanenza, alimentazione spontanea impossibile se non attraverso nutrizione enterale (sondino naso-digiunale)."

E ancora: "Grave decadimento cognitivo, sindrome extrapiramidale, esiti di emorragia cerebrale. L'eloquio spontaneo, quando presente, è di tipo confabulante e assolutamente incomprensibile." Nonostante questa perizia – e il parere delle procure di Caltanissetta e Firenze, contrarie al rinnovo del 41-bis – nel marzo dello stesso anno il ministro Andrea Orlando ha prorogato il carcere duro per Provenzano, considerato ancora in grado di "mantenere contatti con esponenti tutt'ora liberi dell'organizzazione di provenienza." In questo caso persino giuristi tutt'altro che contrari, in linea generale, al carcere duro come l'ex magistrato Antonio Ingroia e il giudice Alfonso Sabella, hanno criticato l'applicazione del 41-bis a una persona in stato di semi incoscienza – ragione per cui, peraltro, la posizione giuridica di Provenzano è stata sospesa in diversi processi che lo vedevano ancora imputato. Del resto, data la sua natura emergenziale, il potere di applicazione del 41-bis appartiene all'esecutivo, cioè al ministro della giustizia. In altre parole, a un uomo politico, le cui scelte sono per definizione soggette al giudizio e al consenso degli elettori. È lecito chiedersi, dunque, quale personaggio o gruppo politico si assumerebbe oggi la responsabilità di essere associato alla revoca del carcere duro a un boss di Cosa Nostra, sebbene ammalato. "In questo senso," continua Fiorio, "sarebbe auspicabile che la decisione di sottoporre un detenuto al carcere duro fosse in capo al sistema giurisdizionale e non a quello politico-amministrativo. Anche per non inquinare il principio democratico della separazione dei poteri."

La trattativa. Per comprendere, almeno in parte, l'intransigenza che oggi contraddistingue il 41-bis è utile ritornare al 1992. Dopo l'introduzione del carcere duro, e fino all'ottobre del 1993, gli attentati di Cosa Nostra diventano sempre più cruenti. Per la prima volta la mafia siciliana attacca lo Stato e colpisce cittadini inermi "in continente," con le bombe di Milano, Firenze e Roma che causano dieci morti e quasi 100 feriti. In questo clima, nel febbraio del 1993, i familiari dei prigionieri al carcere duro scrivono al presidente della Repubblica Scalfaro una lettera, dai toni piuttosto aggressivi, contro le condizioni detentive del 41-bis. Nel novembre del 1993 il ministro della giustizia Giovanni Conso, succeduto a Martelli, non rinnova il regime speciale per 334 reclusi. Questa catena di eventi (insieme al misterioso "papello" con le richieste di Cosa Nostra alle istituzioni) è sufficiente per inserire il tema del 41-bis al centro della presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Ascoltato nel 2010 dalla Commissione parlamentare antimafia, Conso sostiene di aver deciso di non prorogare il carcere duro per quei detenuti "in piena solitudine" e con "l'intenzione di fermare la minaccia di altre stragi," ma senza cedere a nessuna trattativa. Parole che non possono essere ulteriormente precisate, visto che l'ex ministro è morto lo scorso agosto a 93 anni. È plausibile, dunque, che proprio l'origine del 41-bis - nato come risposta emergenziale alla mafia e subito risucchiato nell'ombra della trattativa - spinga oggi lo Stato a tenere un atteggiamento talmente inflessibile da lambire, talvolta, la disumanità? "Io credo di si," risponde il professore Fiorio. "È chiaro che alcuni detenuti non devono entrare in contatto con l'esterno ma, spesso, il carcere duro è solo un'icona, un simbolo. Come nel caso di Provenzano." C'è comunque da notare che l'opposizione dei boss al carcere duro si è protratta nel tempo, anche con scioperi della fame e dell'ora d'aria da parte di alcuni detenuti. Il 2 luglio 2002, durante un udienza a Trapani, Leoluca Bagarella – cognato di Totò Riina – legge un testo (che secondo alcuni celava una minaccia concreta alle istituzioni) di protesta contro il 41-bis. Nello stesso anno, a dicembre, alcuni tifosi espongono uno striscione allo stadio La Barbera durante il match Palermo-Ascoli: "Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia." Nessuna di queste contestazioni, tuttavia, ha favorito l'alleggerimento del regime che anzi, proprio nel dicembre 2002, è stato stabilizzato in modo definitivo nel nostro sistema penitenziario.

I punti critici del 41-bis. In ogni caso, dalla sua introduzione il 41-bis è stato al centro di critiche mosse da importanti istituzioni. Nei primi periodi di applicazione, i detenuti sottoposti al carcere duro erano reclusi anche nelle carceri di Pianosa e l'Asinara, prigioni speciali definitivamente chiuse nel 1998. È in questa fase che le denunce di violenze subite dai detenuti (alcuni dei quali poi risultati innocenti) si sono moltiplicate; culminando - nei casi di Benedetto Labita e Rosario Indelicato - con la condanna dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per non avere indagato adeguatamente sugli abusi. Tra il 2003 e il 2013, a seguito delle periodiche visite nelle carceri italiane, è il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa (CPT) a definire il 41-bis "fortemente dannoso per i diritti fondamentali dei detenuti" e "non privo di effetti sullo stato delle condizioni somatiche e mentali di alcuni prigionieri." In una delle sue relazioni, il CPT ha criticato anche la "militarizzazione" delle sezioni speciali, la cui sicurezza è affidata a un nucleo specifico della polizia penitenziaria, il Gruppo Operativo Mobile; lo stesso reparto che presidiava, durante il G8 di Genova nel 2001, la caserma-carcere di Bolzaneto dove si verificarono ripetuti episodi di violenza contro i manifestanti fermati. Secondo il CPT, inoltre, utilizzare il 41-bis come strumento di pressione per favorire il pentitismo rischia di essere contrario alle convenzioni internazionali sottoscritte anche dall'Italia e alla stessa Costituzione della Repubblica. Proprio su queste basi, nel 2007, il giudice americano D.D. Sitgraves, negò l'estradizione in Italia di Rosario Gambino, presunto boss di Cosa Nostra detenuto in California, tenendo conto della testimonianza di un agente FBI che riferì la prassi di usare il carcere duro per "ottenere informazioni." A inasprire il 41-bis, infine, contribuiscono anche una serie di prescrizioni legate alla vita quotidiana che possono variare a seconda dell'istituto penitenziario. Tra queste, il divieto di fare piccoli lavori di artigianato in cella, di appendere foto e poster alle pareti e l'obbligo di possedere un numero limitato di libri e riviste. Tutte restrizioni raccolte e pubblicate lo scorso aprile in una relazione della Commissione straordinaria diritti umani del Senato, nella quale si auspica un alleggerimento del carcere duro. "Qualsiasi ragionamento sul 41-bis deve partire dal presupposto che lo scopo della norma non è rendere più afflittiva la pena ma interrompere i legami del detenuto con l'organizzazione criminale," spiega a VICE News Luigi Manconi, senatore del PD e presidente della Commissione diritti umani. "Tutto ciò che eccede tale scopo è illegale; e al 41-bis abbiamo riscontrato tante, tante, illegalità." È realistico, dunque, ipotizzare che la politica nel suo insieme raccolga il messaggio della commissione e modifichi il carcere duro? "Oggi, dato il clima di populismo penale, temo di no," conclude il senatore Manconi. "Mi auguro, però, che da parte del ministro della Giustizia possa iniziare una riflessione, quantomeno sugli abusi e gli eccessi più evidenti."

41bis e permessi di necessità: il “carcere duro” non può impedire al detenuto di essere presente alla nascita del figlio, scrive Lucilla Amerio il 7 novembre 2017 su Giurisprudenza Penale Web, 2017. Cassazione Penale, Sez. I, 20 ottobre 2017 (ud. 26 maggio 2017), n. 48424 Presidente Di Tomassi, Relatore Sandrini. Con la Sentenza in commento, la Corte di Cassazione è recentemente intervenuta per delineare ulteriormente i delicati “confini” dei diritti e delle facoltà dei detenuti in regime di 41bis. In particolare, nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato il reclamo proposto dal recluso in regime di “carcere duro” avverso il provvedimento di diniego di permesso di necessità ex art. 30 ord. pen., emesso dal Magistrato di Sorveglianza a fronte della richiesta del reclamante di poter presenziare alla nascita del figlio, concepito mediante fecondazione assistita. Tale richiesta era stata avanzata in considerazione della particolare natura del permesso in parola che, lungi dal costituire un qualsivoglia beneficio penitenziario, rappresenta piuttosto un rimedio eccezionale, volto a consentire a qualunque detenuto di poter fronteggiare eventi familiari di particolare gravità; donde l’operatività del medesimo anche nell’ambito della particolare disciplina riservata al circuito detentivo speciale. E tuttavia, a fronte del reclamo proposto, il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva concluso emettendo un’ordinanza di rigetto; e ciò, per la (tanto) semplice (quanto, per vero, discutibile) ragione che la nascita di un figlio non costituirebbe un evento irripetibile, idoneo a integrare il requisito della “particolare gravità”, espressamente richiesto dall’art. 30 ord.pen. Del resto, aveva proseguito il Tribunale di Sorveglianza, ben avrebbe potuto il detenuto incontrare sia il figlio neonato, sia la moglie, in sede di colloqui visivi presso l’istituto penitenziario di appartenenza, senza di fatto subire, dalla sua mancata partecipazione al parto, un effettivo nocumento. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il detenuto reclamante, lamentando la violazione dei presupposti previsti dalla legge per la concessione del permesso di necessità, e, nello specifico, rilevando come la concedibilità del medesimo, lungi dall’esaurirsi in una valutazione oggettiva circa il carattere negativo o “naturalisticamente” irripetibile dell’evento familiare di volta in volta in essere, richieda, invece, una più accurata analisi in ordine ai risvolti che tale evento potrebbe assumere nella vita del richiedente. Orbene, proprio tale necessaria “rilettura” dell’art. 30 ord. pen. ha condotto la Cassazione ad accogliere il ricorso del detenuto, con rinvio per il riesame della questione al Tribunale di Sorveglianza di Roma. In prima battuta, la Suprema Corte ha ritenuto di dover dare continuità alla più recente esegesi della disposizione in oggetto, in forza della quale la “particolare gravità dell’evento” familiare, indispensabile per la concessione del permesso di necessità, richiede di accertare l’effettiva capacità dell’evento stesso – “da intendersi nella sua accezione di fatto storico specifico e ben individuato – di incidere in modo significativo nella vicenda umana del detenuto, senza che debba trattarsi necessariamente di un evento luttuoso o drammatico”. Conseguentemente, con l’espressione “evento di particolare gravità” deve, in generale, intendersi qualunque accadimento inusuale e del tutto al di fuori della quotidianità, “sia per il suo intrinseco rilievo fattuale, sia per la sua incidenza nella vita del detenuto e nell’esperienza umana della detenzione carceraria”. Tale interpretazione, ha proseguito la Corte di Cassazione, pare, del reso, l’unica “costituzionalmente orientata”, in considerazione della “rilevantissima incidenza” che il contatto con i familiari ed il ruolo della famiglia assumono sull’effettiva realizzabilità delle esigenze costituzionali di rieducazione del condannato e di umanizzazione della pena. In forza di tutte le argomentazioni in questa sede riassunte, pertanto, la Cassazione ha ritenuto di non poter condividere la motivazione addotta dal Tribunale di Sorveglianza nell’ordinanza oggetto di gravame: invero, “l’affermazione del Tribunale di sorveglianza secondo cui la nascita di un figlio non costituisce, per il genitore, un evento (necessariamente) irripetibile potrebbe anche apparire fondata dal punto di vista strettamente naturalistico, ma non è condivisibile sotto il profilo – che assume rilevanza dirimente agli effetti della valutazione da compiersi ex art. 30 ord.pen. – della sua concreta incidenza sull’esperienza umana del genitore interessato, per il quale la nascita di ciascun figlio rappresenta un evento emozionale di natura eccezionale e insostituibile, tale da realizzare un unicum indelebile nella sua esperienza di vita”. Ove ciò non bastasse, ha aggiunto la Suprema Corte, l’intensità emotiva che normalmente caratterizza la partecipazione del padre alla nascita di un figlio, anche sotto il profilo della conseguente preoccupazione per la salute tanto della madre quanto del bambino, costituiscono elementi tali da integrare, ex se, quei caratteri di eccezionalità e di inusualità che concretizzano la particolare gravità dell’evento familiare richiesta dall’art. 30 ord. pen. Da qui, l’accoglimento del ricorso con rinvio per il riesame della questione ad esso sottesa. Trattasi, a parere di chi scrive, di una pronuncia essenziale per i principi, non solo (e non tanto) giuridici, quanto umanistici di cui si fa portatrice e che pare destinata, d’ora innanzi, a costituire l’ulteriore tassello di un percorso ermeneutico e legislativo (si pensi alle proposte di riforma dello stesso art. 30 ord. pen., volte ad eliminare proprio il requisito della “particolare gravità”) in continuo divenire che ha, quale centro d’interessi, il detenuto e, quale fine cui tendere, la tutela dei diritti e delle facoltà a questi riferibili in quanto (prima di tutto) essere umano. A fronte di tali conclusioni, tuttavia, pare doveroso evidenziare che la pronuncia in commento ha lasciato un sapore “amaro” per chi, personalmente, ne ha “subito” gli effetti (ormai tardivi): invero, essendo nel frattempo decorsi i “termini” di tempo “naturalisticamente” a disposizione del detenuto per poter beneficiare del permesso richiesto, è assai probabile che il medesimo non abbia comunque potuto, suo malgrado, assistere alla nascita del figlio.

Mafia, ecco con quali trucchi i boss aggirano il 41 bis. Il carcere duro previsto per isolare i capi dagli affiliati a piede libero viene sempre più spesso dribblato grazie a una serie di accorgimenti. E così si tradisce l'insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, scrive Floriana Bulfon il 3 luglio 2018 su "L'Espresso". Non appena il mafioso Alessandro Piscopo arriva alle porte della sua Vittoria, tra le serre del ragusano, si verifica un evento miracoloso: suo fratello, a letto per un intervento al cuore, si alza e se ne va al bar. Per il boss è un giorno speciale. Gli è concesso di lasciare il carcere dell’Aquila, dove è sottoposto al regime del 41bis per stringere a sé il parente malato. Lui però non si trova. La lunga attesa e la preoccupazione terminano davanti all’apparizione: eccolo spuntare da dietro l’angolo, sulle sue gambe. Pronto ad abbracciarlo in mezzo a curiosi e compari scesi in strada. Sono in tanti e la scorta della polizia penitenziaria non riesce a tenerli lontani. Il rischio era noto, nella zona
ci sono molti pregiudicati agli arresti domiciliari, ma il magistrato di Sorveglianza di fronte all’emergenza familiare ha accordato il permesso. I 727 capimafia detenuti tornano sempre più spesso a casa. Solo l’anno scorso è accaduto 31 volte, con un costo per lo Stato di oltre mezzo milione di euro. È un loro diritto ed è tutto regolare, ma tra un crescente numero di istanze e ricorsi, i trattamenti appaiono sempre meno omogenei. La norma più odiata dalla criminalità organizzata è essenziale nella strategia di contrasto, ma ha posto delicati problemi di compatibilità costituzionale e presenta modalità esecutive diverse, a volte contraddittorie con le finalità preventive. L’attuale efficacia del carcere speciale, introdotto dopo le stragi del 1992 per impedire di comunicare all’esterno e continuare a guidare l’organizzazione, finisce così per tradire l'insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quando il boss della ’ndrangheta Salvatore Pesce, arrestato nell’agosto del 2011 dopo una lunga latitanza, torna a Rosarno ad attenderlo trova una processione di fedelissimi. Gli concedono un permesso per far visita alla figlia e vedere solo i familiari. Sua cognata però ha bisogno di parlargli e poco importa se non risulta nello stato di famiglia, in dieci minuti il suo nome è stampato su un certificato appena rilasciato dal comune. Vale due ore di colloquio in libertà. Un’ora invece quella data a Domenico Gallico per incontrare la madre novantaduenne in cattive condizioni di salute. Lei è stata condannata all'ergastolo per mafia. Lui di ergastoli ne ha collezionati sette. Negare il permesso renderebbe inumana la pena, ma Gallico è considerato un detenuto pericoloso. Nel 2012, dopo aver ottenuto con un pretesto di essere interrogato, ha teso un agguato massacrando di botte il pubblico ministero Giovanni Musarò. Dal 1990, pur stando in carcere, ha continuato inoltre a coordinare l’attività della cosca fino al 2013 e lo ha fatto servendosi proprio dei familiari. La madre del resto, durante uno dei colloqui con un altro dei suoi figli, s’è fatta tramite nel dare l’ordine di commettere un omicidio. Dopo cinque giorni viene ammazzato l’autotrasportatore Antonio Surace; ucciso per dare un segnale alla ‘ndrina rivale su chi debba riscuotere il pizzo della Salerno-Reggio Calabria. Un quadro allarmante. Per questo gli investigatori sottolineano il pericolo di farlo entrare nella villa di Palmi, nei cui sotterranei era stato ricavato un bunker e dove vive anche il fratello Carmelo, già latitante e ora sorvegliato speciale. A lui Domenico comunica la lieta notizia dell’arrivo, avvertendolo «di non farsi trovare impreparati, di non aspettare l’ultimo momento». Tra ricorsi e opposizioni, sospetti pericoli di fuga e di azioni eclatanti, alla fine il permesso è accordato. Carte bollate e curiose concessioni. Ignazio Ribisi, boss di Palma di Montechiaro, può far visita alla moglie e per l’occasione portare con sé una colomba pasquale e un litro e mezzo di coca cola. Peccato che non si possano portare liquidi in cabina e ai detenuti sia vietato mettere in stiva il bagaglio. Alla fine Ribisi è costretto a presentarsi a mani vuote, ma per fortuna trova la tavola imbandita a festa, nonostante il suo arrivo, per motivi di sicurezza, debba essere a sorpresa. Una detenzione a due velocità. Da una parte carceri sovraffollate con detenuti comuni ammassati in strutture fatiscenti, suicidi e sofferenze e dall’altra persino privilegi culinari dal sapore particolare: solo cibi crudi per Pietro Ligato di Pignataro Maggiore, la città nota come la “Svizzera dei clan”. Lui, figlio del boss che ha ucciso il fratello del giudice Ferdinando Imposimato, s’è dichiarato crudista, anche se da casa gli hanno spedito prelibatezze campane ben cotte e lui stesso ha tentato di comprare confezioni di “Quattro salti in padella”. Un capo della ’ndrangheta che per mesi s’era nascosto in un bunker sotto terra in carcere invece si è scoperto claustrofobico. Secondo l’attestazione medica la cella gli provoca problemi di salute, non deve quindi essere chiusa e per i trasporti meglio utilizzare un’ambulanza anziché uno scomodo furgone blindato come tutti gli altri. Non mancano poi i colpi d’astuzia: una sim cucita all’interno dell’elastico dei boxer, il micro telefono nascosto all’interno di un pacchetto (sigillato) di sigarette e il carica batterie in un doppio fondo della bomboletta, sotto la schiuma da barba. È il pacchetto per comunicare in libertà di Vincenzo Cirillo, fiancheggiatore del clan Setola. Gliel’hanno trovato nel corso della perquisizione d’ingresso dal carcere di Ariano Irpino a quello di Spoleto. Del resto i detenuti sottoposti al 41 bis sono distribuiti in 11 istituti, ma solo quello di Bancali a Sassari permette di rispettare le regole. Il regime di carcere speciale impone che siano ridotti i contatti con l’esterno e che ‘ “ora d’aria” avvenga all’interno di un gruppo di quattro persone. Ad esclusione di Sassari, le celle però sono una di fronte all’altra e in alcune strutture, come a l’Aquila, per 52 gruppi di socialità ci sono solo 11 passeggi utilizzabili. Diventa quindi molto complicato ottenere il rispetto delle imposizioni per gli agenti del Gruppo Operativo Mobile. Il reparto dedicato a sorvegliarli dal 2015 è stato progressivamente impoverito: non ha più autonomia contabile e l’organico è stato ridotto a 592 unità. Per evitare forme di arbitrio, misure impropriamente afflittive e regolamentare in modo omogeneo l’applicazione, lo scorso ottobre il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è intervenuto con una circolare. Stabilisce ad esempio che possano esserci colloqui con i figli e nipoti minori di 12 anni senza vetro divisorio, che il direttore dell’istituto risponda entro termini ragionevoli alle istanze, limita le forme invasive di controllo ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza. Un passo in avanti significativo, eppure se da una parte delinea un livello di dettaglio estremo in alcune prescrizioni, altre presentano un’applicazione poco chiara. Restano così dubbi nel caso dei colloqui con i garanti. Per quello nazionale sono previsti incontri senza limiti di tempo, senza preavviso e senza registrazione. Ma ci sono anche i garanti regionali. Accade così che il camorrista, Umberto Onda, reggente del clan Gionta di Torre Annunziata abbia ottenuto l’autorizzazione dal giudice di Spoleto. Il Dap si è opposto, ma la magistratura di Perugia ha confermato la decisione e nell'attesa di un parere della Cassazione, ha avuto il suo colloquio con il garante di Umbria e Lazio. Non è andata bene invece al padrino Salvino Madonia, il sicario di Libero Grassi. Prima Viterbo e poi Roma hanno negato l'incontro con lo stesso garante. Disparità, anomalie, ricorso continuo ai tribunali di Sorveglianza e il vero obiettivo del 41 bis che viene perso di vista: non è una pena aggiuntiva, ma uno strumento teso a isolare i boss, separandoli dal resto dell'organizzazione per ridurne il potere criminale.

I boss col 41 bis vanno a casa: così tradiamo la memoria di Falcone. Le commemorazioni. Gli omaggi. I riti. Eppure, 25 anni dopo, l’insegnamento del giudice viene sempre più spesso dimenticato. I capomafia in carcere duro vengono portati nei loro territori. Dove possono dare ordini, scrive Lirio Abbate il 16 maggio 2017 su "L'Espresso". C’è un viavai di persone che non si ferma davanti all’abitazione di un capomafia della ’ndrangheta. È come una processione. Entrano ed escono dalla casa del boss Salvatore Pesce, a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro. Pesce è stato arrestato nell’agosto del 2011 dopo una lunga latitanza. E per via della sua forte leadership criminale sul territorio calabrese è stato sottoposto al 41bis, il carcere duro previsto per contrastare le mafie varato dopo le stragi in cui sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era il 1992 e all’epoca per impedire ai detenuti di comunicare all’esterno ordini e messaggi è stato applicato questo regime. Nonostante ciò, Salvatore "Ciccio” Pesce, accompagnato da una nutrita scorta di agenti della polizia penitenziaria, nei mesi scorsi è tornato a casa, in Calabria, per rivedere la sua famiglia, abbracciare i suoi cari, salutare gli amici e i compari, e lo ha fatto con un permesso speciale che gli è stato accordato dal magistrato di Sorveglianza. E Pesce non è certo il solo mafioso detenuto che di tanto in tanto lascia il carcere di massima sicurezza in cui è sottoposto al 41bis per essere trasportato a casa, con un permesso speciale, a rivedere amici e parenti. Sulla carta è tutto regolare e le ordinanze ben motivate. Ma così si rischia di svuotare il senso di questo provvedimento strategico nell’attività di contrasto ai clan perché consente di privare le organizzazioni mafiose dell’apporto dei loro capi, impedendo le comunicazioni con il resto del clan. Dall’inizio dell’anno i magistrati di Sorveglianza hanno disposto, sulla base di “emergenze” espresse dai detenuti, diciassette permessi. Ognuno di questi viaggi organizzati dallo Stato costa circa ventimila euro alle casse pubbliche. Lo scorso anno sono stati venti i detenuti riportati a casa. Dal 1992, quando è stata introdotta la norma, al 2009, non ne era stato accordato nessuno. Le cose sembrano cambiare. Ciò che è stato ideato, per contrastare le mafie sul sangue delle vittime innocenti, delle stragi del 1992 di Capaci e via D’Amelio - dove sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro - oggi viene alterato da ordinanze e provvedimenti di qualche magistrato di Sorveglianza, competente per il territorio in cui ricadono gli istituti di pena dove i boss sono detenuti, che accolgono le richieste supportate da motivazioni di “emergenza” familiare. Il capomafia viene portato sul suo territorio anche per poche ore, e in questo modo ha la possibilità di comunicare, riallacciare contatti, suggerire strategie criminali ai suoi fedelissimi e così ogni sforzo per isolare il boss in carcere è vanificato. I direttori degli istituti di pena vedono stravolgere alcuni capisaldi che regolano il duro regime carcerario, come ad esempio lasciar passare, sempre su ordinanza del magistrato di sorveglianza, la corrispondenza fra alcuni detenuti sottoposti al 41 bis. Il mafioso palermitano Leonardo Vitale - è stato dalla polizia penitenziaria e in particolare dal Gruppo operativo mobile - scriveva su autorizzazione del giudice ad altri detenuti al 41 bis appartenenti a Cosa nostra e nel testo della missiva nascondeva un codice con il quale camuffava i messaggi da trasmettere. E mentre il direttore della casa circondariale vuole registrare le telefonate che effettua il detenuto sottoposto allo speciale regime, perché tutto deve essere controllato a questi boss altrimenti non valgono a nulla le misure di isolamento, c’è stato un magistrato di Sorveglianza che ha respinto la richiesta. Il boss, in questo caso, ha potuto effettuare telefonate ai familiari senza essere ascoltato e registrato. E poche settimane fa si sono incontrati in carcere i fratelli Giuseppe e Nino Madonia, sicari palermitani, mafiosi di alto rango coinvolti nei misteri ancora irrisolti di delitti e stragi. Non si vedevano da vent’anni. Paradossalmente, negli ultimi tempi la norma del carcere duro è stata resa dai governi ancora più stretta e rigida. Ma è approfittando proprio di questa rigidità che i detenuti trovano il modo per insinuarsi con continui ricorsi al magistrato di Sorveglianza, provocando crepe al sistema detentivo. Oggi il 41 bis, a distanza di venticinque anni dalle stragi in seguito alle quali è stato adottato, è diventato un tema sul quale si è ampliato il dibattito politico e giuridico. È una norma che da un parte è essenziale nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata, dall’altro pone delicati problemi di compatibilità costituzionale e di interpretazione giurisprudenziale, anche se questi sono stati in gran parte risolti nelle loro linee fondamentali. Occorre riflettere e analizzare ciò che afferma il mafioso Vittorio Tutino, detenuto a L’Aquila, parlando con un agente del Gom dopo la visita di un parlamentare. Il boss palermitano, assolto dall’accusa di aver preso parte alla strage di Capaci e attualmente imputato per l’attentato di via D’Amelio, analizza la situazione attuale del contrasto alla mafia e parla per metafora: «Non sono più i tempi che Berta filava», indicando così il periodo passato in cui c’era stato più rigore rispetto ad oggi, aggiungendo che i tempi del duro contrasto stanno per finire. E così mentre il Paese si prepara a ricordare il sacrificio di uomini dello Stato come Falcone e Borsellino e gli agenti di polizia uccisi nelle stragi palermitane venticinque anni fa, i mafiosi stanno a guardare come le cose possono essere rese più semplici per loro in maniera legale. È il caso, ad esempio, di un capo della ’ndrangheta che è stato a lungo ricercato. Accusato di omicidi e altri gravi reati, alla fine i carabinieri lo hanno arrestato dentro un bunker sotto terra, dove si era rifugiato per diversi mesi. Finito in carcere e sottoposto al 41 bis, poco tempo dopo il detenuto si è fatto visitare da un medico il quale ha poi certificato che il mafioso è claustrofobico e la cella gli provoca problemi di salute. Lo stesso che aveva vissuto a lungo in un bunker. Il certificato medico è stato allegato al ricorso fatto dal detenuto al magistrato di Sorveglianza, evidenziando la sua “incompatibilità” a stare in una stanza chiusa. E il magistrato, supportato dall’attestazione medica, ha ordinato che l’uomo non può avere l’ingresso della cella chiuso da una porta blindata ma da un cancello. E inoltre per il suo trasporto fuori dal carcere deve utilizzare un’ambulanza anziché uno scomodo furgone blindato. Oggi i detenuti sottoposti al 41 bis sono 728. Nelle varie carceri in cui sono distribuiti, sono divisi in “gruppi di socialità” formati da quattro persone: di solito un boss dominante e le cosiddette “dame di compagnia”, personaggi di spessore criminale più basso. Da aprile 2014 il boss che viene spostato da un istituto all’altro è seguito dalla sua corte di “dame”. La formazione resta sempre la stessa. Negli ultimi tempi però, si sta diffondendo una nuova strategia fra i boss detenuti. È quella di stare da soli. Non vogliono compagnia. Questo atteggiamento lo attuano gli appartenenti ai gruppi camorristici come Paolo Di Lauro, che si rifiuta anche di fare colloqui con i familiari, o Raffaele Cutolo, che invece ama rispondere a tutte le lettere degli “ammiratori” che gli scrivono in carcere. Secondo gli investigatori questo atteggiamento di isolamento protratto per qualche anno potrebbe poi indurre il detenuto a far ricorso al tribunale di Sorveglianza per non essere più sottoposto al 41 bis. Il carcere che i mafiosi vogliono più evitare è quello di Bancali a Sassari. Aperto quasi due anni fa, è stato costruito su misura per i 41 bis e può ospitare novanta detenuti. È amministrato in maniera perfetta. E questa perfezione ai detenuti non piace. Per questo motivo è diventato l’incubo di padrini e gregari, perché di carceri così non se ne erano mai viste in Italia. Non sono certo i tempi di Asinara e Pianosa, ormai solo un ricordo, ma il Bancali ne ha perfezionato la struttura. Tutto è moderno: spazi e celle sono stati riprogettati rispetto ai locali angusti dove all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio vennero rinchiusi i “dannati”, i primi boss a cui fu applicato il 41 bis. Un provvedimento che per i mafiosi diventò la “condanna delle condanne”, spingendo numerose figure di primo piano verso la collaborazione con la giustizia. Ci sono voluti 23 anni per ottenere una struttura come questa creata attorno alla norma più odiata dalle mafie, che hanno sempre posto l’abolizione del regime speciale al vertice della loro “agenda politica”. Il carcere di Sassari rappresenta una svolta. In passato le maglie del 41bis si erano lentamente ma inesorabilmente allargate, con episodi clamorosi di boss che dal carcere duro riuscivano a mantenere relazioni con i clan o addirittura a concepire figli. Poi nel 2009 c’è stata la svolta. Un articolo del testo di legge ha riportato rigore nella reclusione: «I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari». È da questa legge che si è arrivati alla costruzione del padiglione speciale di Bancali. Ma ai boss non piace e per questo presentano centinaia di ricorsi contro ogni cosa, prendendo di mira nelle loro istanze la direzione del carcere che si limita ad applicare le regole. Quelle regole che a venticinque anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino qualcuno, a colpi di carte bollate e timbri, tenta di aggirare.

Sono 730 i detenuti al 41bis, 100 in attesa di giudizio. La maggioranza è reclusa per associazione mafiosa, scrive Damiano Aliprandi il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Attualmente ci sono 730 detenuti al regime del 41 bis, tra i quali 100 in attesa di giudizio e 300 sono ergastolani, la maggior parte ostativi. Questi sono i dati attuali che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha fornito a Il Dubbio. Ciò significa che oltre la metà, non avendo commesso nessun omicidio, hanno un fine pena e quindi, in media, dopo 10 anni ritornano liberi. La maggioranza dei reclusi al 41 bis sono stati condannati per associazione di tipo mafioso, (articolo 416 bis), il restante è in regime duro per reati legati al terrorismo. Il dottor Roberto Calogero Piscitello, dirigente della direzione generale detenuti e trattamento, che è stato sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia (Dda), ha spiegato a Il Dubbio che sono 13 gli istituti penitenziari nei quali sono ospitati detenuti al regime del 41 bis. La misura prevede l’isolamento del condannato in cella, ma anche dei momenti di socialità con gli altri detenuti (due ore al giorno tra aria e socialità e mai in gruppi superiori a 4 soggetti). Piscitello ha aggiunto che, inoltre, questi altri detenuti «non devono assolutamente appartenere allo stesso gruppo criminale». Per via di una legge del 2009, si tende ora a istituire penitenziari dedicati completamente al 41 bis e collocati preferibilmente in aree insulari. Proprio per questo, nel 2015, la casa circondariale di Sassari “Giovanni Bachiddu” ha aperto le porte ai detenuti del 41 bis e, secondo i dati più recenti, vi sono reclusi 90 boss mafiosi, mentre 23 sono in regime di alta sicurezza per terrorismo islamico. Parliamo di un carcere inaugurato nel 2013, ma progettato nel 2005. Il ritardo è dovuto alla realizzazione delle strutture destinate proprio ad accogliere detenuti in regime di 41 bis che non erano state previste nel progetto originario. Il terzo blocco dedicato al regime duro ha una disposizione di celle definita “ad alveare” per evitare qualsiasi contatto all’esterno e con i detenuti delle altre celle. Tutto è pensato per isolare, estraniare, dividere dal mondo come prevede il 41 bis: le celle sono divise in blocchi, nei quali vengono ospitati solo 4 detenuti, gli stessi con i quali si condivide l’ora d’aria e la ‘ socialità’. Tutto è pensato in chiave moderna. Attigua alla cella è stata progettata una sala per le video conferenze, nella quale i boss possono seguire le sedute dei processi che li riguardano. Proprio per via dell’esigenza del 41 bis il dottor Piscitello ha spiegato che eventuali traduzioni all’esterno per via dei permessi di necessità – vengono concessi solo per motivi familiari gravi, tipo lutto o grave malattia da parte dei parenti più prossimi – hanno un costo che può raggiungere i 20.000 euro. Ma ciò è inevitabile, perché «il regime del 41 bis – spiega sempre il dirigente della direzione generale detenuti e trattamento – non consente il rispetto della territorialità della pena previsto dall’ordinamento penitenziario, proprio per evitare eventuali rapporti con il clan del territorio di appartenenza». Proprio partendo – ma non solo – da quest’ultimo aspetto, i giuristi e il mondo politico si dividono in due scuole di pensiero: da una parte c’è chi reclama la costituzionalità e l’esigenza di tutte le forme cautelative che prevede il regime speciale, d’altra c’è chi mette in discussione la sospensione dei diritti per i reclusi al 41 bis, negando loro il principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione. Oltre all’esclusione da tutti i benefici (lavoro all’esterno, permessi, semilibertà, arresti domiciliari ecc.). Vedremo in concreto, nella prossima puntata, che cosa prevede il regime 41 bis e se ci saranno delle modifiche volte a umanizzare il regime duro senza precludere lo scopo per il quale è nato.

Al carcere duro ci si suicida di più rispetto agli altri reclusi, scrive Damiano Aliprandi il 15 giugno 2017 su "Il Dubbio". Casi di suicidi, morti per malattia, disturbi psichici. In 41 bis, secondo uno studio dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, la frequenza di suicidi tra i detenuti è 3,5 volte maggiore rispetto al resto della popolazione reclusa. Il caso di Totò Riina – come fu con la morte di Provenzano – ha acceso un forte dibattito sull’incompatibilità o meno con la carcerazione dura per chi soffre di disturbi psicofisici. In realtà la questione fu già sollevata dalla Corte europea di Strasburgo riguardo all’opportunità di confermare il carcere duro nel caso di detenuti anziani e in condizioni di salute critiche. Nella sentenza Cedu del 17 settembre 2009 sul caso “Enea contro Italia”, la Corte sottolinea che ‘ le condizioni di detenzione di una persona malata devono garantire la tutela della sua salute, tenuto conto delle ordinarie e ragionevoli contingenze della carcerazione. Se non è possibile dedurne un obbligo generale di rimettere in libertà o di trasferire in un ospedale civile un detenuto, anche se quest’ultimo soffre di una malattia particolarmente difficile da curare, l’articolo 3 della Convenzione impone comunque allo Stato di proteggere l’integrità fisica delle persone private della libertà.”. Poi continua: “La Corte non può escludere che, in condizioni particolarmente gravi, ci si possa trovare in presenza di situazioni in cui una buona amministrazione della giustizia penale richieda l’adozione di misure di natura umanitaria”. Dopodiché, la Corte ha chiesto di tener conto soprattutto di tre elementi per valutare la compatibilità del mantenimento in carcere di un ricorrente con uno stato di salute preoccupante, ovvero: la condizione del detenuto, la qualità delle cure dispensate e l’opportunità di mantenere la detenzione visto lo stato di salute del ricorrente. Inoltre, il tema era stato sollevato nel corso dell’indagine conoscitiva sul 41 bis della Commissione diritti umani dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini a proposito delle condizioni di salute di Bernardo Provenzano. Sulla base del ‘ cronico e irreversibile decadimento intellettivo’ e della incapacità di comunicare dell’uomo, ultraot- e malato, i difensori, Rosalba di Gregorio e Maria Brucale, avevano presentato reclamo contro la proroga del regime di carcere duro. Sappiamo però com’è andata: è morto, in regime di 41 bis, nel reparto di medicina protetta dell’ospedale milanese di San Paolo. Tanti sono i casi di morte in carcere. C’è il caso di Feliciano Mallardo, condannato in primo grado a 24 anni per estorsione aggravata e associazione camorristica, che morì in regime di 41 bis nonostante soffrisse di diabete, insufficienza renale, problemi cardiaci e con un cancro polmonare scoperto quando aveva già raggiunto i sette centimetri di massa ed una metastasi al fegato. Oppure il caso di Palmerino Gargiulo, ergastolano sottoposto al regime del 41 bis, che fu ritrovato impiccato nel carcere di massima sicurezza del Cerialdo di Cuneo. Utilizzò una corda rudimentale fatta di lenzuola e lacci. Attualmente ci sono diversi casi che Il Dubbio ha segnalato. La storia dei tre detenuti ultranovantenni che attualmente sono in regime del 41 bis al carcere di Parma, tra i quali uno che soffre di diverse patologie come l’Alzheimer e ci si chiede come mai possa ritenersi ancora pericoloso e lucido, tale da giustificare il regime duro. Altro caso emblematico riguarda la storia di Vincenzo Stranieri, ex boss della sacra corona unita, che presenta gravi patologie come il tumore alla faringe e viene alimentato con un sondino: infatti, attualmente recluso al carcere milanese di Opera, fa andirivieni tra il carcere e l’ospedale di San Paolo. Ovviamente sempre in regime di 41 bis. In realtà avrebbe già da tempo finito di scontare la sua pena, ma il ministero della Giustizia ha deciso di internarlo per altri due anni. Anna, la figlia di Stranieri, sta conducendo una battaglia giudiziaria per ottenere almeno la revoca del 41 bis, vista la sua vistosa incompatibilità con tale regime. Chiede di poterlo almeno abbracciare o dargli una carezza, ma non può farlo: c’è sempre il vetro divisore a separarli.

Altro che Skype, al 41 bis ogni mese solo un colloquio, scrive Damiano Aliprandi il 16 giugno 2017 su "Il Dubbio".  Sospensione di tutti i benefici della pena previsti dall’ordinamento penitenziario; isolamento pressoché totale; l’ora d’aria (massimo due ore al giorno) avviene in vasche di cemento con la presenza di piccoli gruppi di detenuti, anche se normalmente il passeggio avviene in completa solitudine oppure con un’altra persona e basta; il divieto di ricevere libri e qualsiasi altra forma di stampa dall’esterno. Per quanto riguarda i colloqui con la famiglia, la norma è rigidissima. Per capire meglio basta leggere cosa prevede la nuova normativa del 2009 che inasprì ulteriormente il 41 bis. In particolar modo ha inteso limitare la fruizione dei colloqui visivi, per contenere il pericolo che il detenuto continui a comunicare con l’esterno trasmettendo ordini e messaggi. È prevista, pertanto, la fruizione di un solo colloquio visivo mensile – tramite vetro divisorio – che deve essere comunque videoregistrato; la nuova legge ha imposto il controllo auditivo dei colloqui visivi, ovviamente previa motivata autorizzazione della competente autorità giudiziaria. Per i colloqui telefonici, la nuova normativa ha apportato una sostanziale modifica: la telefonata deve essere effettuata esclusiva- in caso di mancata fruizione, nell’arco del mese solare, del colloquio visivo. Per quest’ultima disposizione si chiarisce che il colloquio telefonico potrà essere effettuato in qualsiasi giorno del mese. Successivamente, con una nota del maggio 2013 ai direttori degli istituti, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha specificato che il colloquio visivo deve essere mensile e cioè che «tra un incontro e l’altro dovrà trascorrere un intervallo di tempo di circa un mese», escludendo la possibilità che i colloqui avvengano a distanza ravvicinata, come ad esempio negli ultimi giorni di un mese e nei primi del mese successivo.

La legge del 2009 stabilisce inoltre che i detenuti hanno la possibilità di effettuare, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio con i loro difensori, della stessa durata di quelli previsti con i familiari (dieci minuti per la telefonata e un’ora per il colloquio visivo). Poi qualcosa è cambiato. Nel giugno 2013, il Dap, con un’ulteriore circolare, torna sui colloqui con i legali a seguito di una sentenza della Corte costituzionale: viene quindi stabilito che ai detenuti sottoposti al regime speciale 41- bis dovrà essere consentito, al pari di quelli a regime ordinario, di effettuare colloqui con i difensori senza limiti di frequenza e di durata. In seguito al rapporto sul 41 bis redatto dalla commissione sui diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi, è nata una indicazione al Parlamento affinché apporti delle modifiche che rendano più umana la pena. Lo stesso Manconi ha più volte detto che «lo scopo della norma non è rendere più afflittiva la pena ma interrompere i legami del demente tenuto con l’organizzazione criminale», e che quindi «tutto ciò che eccede tale scopo è illegale». Anche dal documento finale degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, è emerso che il 41 bis presenta delle restrizioni che vanno al di là di quanto previsto dal legislatore. Il documento punta il dito in particolar modo all’applicazione che varia da Istituto a Istituto. Proprio per questo motivo, il Dap è pronto a emanare una circolare per risolvere questo gap e puntare a uniformare le regole per tutti gli istituti penitenziari che ospitano i detenuti al 41 bis. Roberto Calogero Piscitello, dirigente della direzione generale detenuti e trattamento del Dap, ha riferito a Il Dubbio che presto firmeranno la circolare. Nella prossima puntata parleremo di alcuni casi che riguardano gli effetti degradanti del 41 bis.

I figli dei detenuti al 41 bis “maggiorenni” a 12 anni, scrive Damiano Aliprandi il 15 giugno 2017 su "Il Dubbio". A 12 anni, i figli dei detenuti al 41 bis diventano “maggiorenni”. Parliamo di una delle restrizioni che avvengono al carcere duro. Infatti, per i colloqui visivi con i figli minori, in seguito alla legge del 2009 la circolare del Dap aveva disposto che «i colloqui del detenuto in regime di 41 bis che si svolgano esclusivamente con figli minori di anni 12 potranno avvenire senza vetro divisorio, in sale colloquio munite di impianti di videoregistrazione ( con ovvia esclusione del sonoro) e che, nel caso di colloqui con più persone, il colloquio senza vetro divisorio sarà limitato ai soli figli minori di anni 12, e non eccede- rà 1/ 6 della durata complessiva del colloquio». A 12 anni, dunque, il figlio risulta “adulto” e il colloquio deve essere effettuato tramite vetro divisorio. Però prima della legge del 2009 che inasprì il regime speciale, la restrizione era diversa: c’era la possibilità di effettuare una parte del colloquio visivo con i figli minori di anni 16 senza il vetro divisorio, per tutelare l’esigenza di affettività dei bambini nei confronti del genitore detenuto e per evitare che riportassero conseguenze psicologiche negative dovute al prolungato distacco dalla figura genitoriale. Ora però, quando il bambino raggiunge il dodicesimo anno di età, il colloquio avviene come il resto degli adulti: si svolge in un locale di solito molto piccolo, una sorta d’acquario col vetro divisorio fino al soffitto, telecamera, citofono per parlare con la madre o il padre detenuto. Poi ci sono le stanze senza vetro divisorio che servono per i dieci minuti di colloquio consentiti ai figli minori di 12 anni: non hanno il vetro fino al soffitto ma un bancone che consente il contatto fisico comunque sottoposto a videoregistrazione da parte di una telecamera. Stando ai racconti tratti dal libro inchiesta sul 41 bis scritto a quattro mani dai radicali Sergio D’Elia e Maurizio Turco, in queste sale si verificano di solito le scene più penose: bambini in tenera età che – staccati dalla madre che non può accompagnarli – piangono, urlano, scappano dal padre che non hanno mai visto o non riconoscono più dopo tanti anni. Sono diffusi, infatti, i casi di figli minori di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psicoterapeutici.

La moglie di Graviano incinta? Sì, grazie alla fecondazione assistita, scrive Damiano Aliprandi il 13 giugno 2017 su "Il Dubbio". Non è possibile che il boss Michele Graviano abbia potuto avere rapporti sessuali con la moglie stando al 41 bis. Ha fatto uscire illegalmente il suo sperma. «Al 41 bis ho messo incinta mia moglie, dormivamo insieme in cella», così avrebbe detto il boss stragista Giuseppe Graviano al suo compagno dell’ora d’aria. Questa è la notizia choc pubblicata su tutti i giornali. Stando alle sue parole, l’ex boss della mafia, ininterrottamente al 41 bis da 24 anni, avrebbe concepito un figlio con un rapporto sessuale durante la detenzione al carcere duro. Alla donna, in pratica, sarebbe stato permesso di entrare in cella. I colloqui erano intercettati e il dialogo è finito agli atti del processo sulla presunta trattativa Stato- mafia. Ma è andata effettivamente così? La risposta è no. In realtà si tratta di una storia vecchia che riguarda anche suo fratello recluso anche lui al 41 bis. Ovviamente non si tratta di aver fatto sesso in carcere, anche perché ciò non può avvenire durante la detenzione normale, figuriamoci in quella speciale del 41 bis dove il controllo è rigidissimo. Parliamo di fecondazione assistita. Accadde che nel 1997 i fratelli Graviano riuscirono a far volare la cicogna dalla cella in cui erano rinchiusi. Le loro mogli, infatti, partorirono due bimbi in una clinica di Nizza, a distanza di un mese l’una dall’altra, nonostante i mariti fossero detenuti da oltre due anni. Di nascosto i fratelli Graviano avevano fatto passare la provetta dietro le sbarre. La procura di Palermo avviò un’inchiesta in cui veniva ipotizzata una fecondazione assistita realizzata illegalmente, ma finì con un’archiviazione perché gli inquirenti non riuscirono a trovare i complici. In realtà non si tratta di un caso unico. Fratelli Graviano a parte, i detenuti in regime di 41 bis hanno diritto a diventare padri usufruendo dei trattamenti per la procreazione assistita. Lo aveva stabilito la sentenza della Cassazione del 2008, accogliendo il ricorso con il quale veniva negata al boss di Cosa Nostra Salvatore Madonia recluso al 41 bis, la richiesta di accedere al programma di procreazione assistita previsto dalla legge 40 del 2004. “Il trattamento penitenziario – si legge nella sentenza – deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona” e, nei confronti dei detenuti, anche quelli al 41 bis, “non possono essere adottate restrizioni non giustificabili e non indispensabili a fini giudiziari”. Il ricorrente aveva fatto presente che sia il Gup del Tribunale di Palermo, e poi anche il Presidente della Corte di Assise di Palermo, lo avevano autorizzato “al prelievo di liquido seminale al fine di consentire alla moglie, affetta da problemi di fecondità, di accedere, alla procreazione medicalmente assistita”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva negato l’autorizzazione al prelievo sostenendo che la legge 40 “postula la massima tutela del nascituro, nel caso concreto non realizzabile data la situazione di detenzione del genitore”. Inoltre il Dap aveva sostenuto che esistevano “finalità preventive connesse alla custodia dei soggetti inseriti nel circuito del 41 bis” che imcondazione il prelievo. Contro questa decisione veniva presentato ricorso al magistrato de L’Aquila, il quale aveva rilevato che “le attività che il detenuto in regime di 41 bis doveva compiere non implicavano alcuna uscita dal carcere e neanche dalla propria cella, per cui (il prelievo in questione) non può qualificarsi come ‘ trattamento sanitario” previsto dall’organizzazione penitenziaria. Il magistrato sosteneva che del caso si doveva occupare esclusivamente il Dap, ma la Suprema Corte aveva giudicato fondato il ricorso, osservando che sono tutelabili con ricorso al giudice “tutte le situazioni giuridiche soggettive espressamente riconosciute dalle norme penitenziarie, nonché tutte quelle riconoscibili ad un soggetto libero, in relazione alle quali occorre sempre applicare il principio di proporzionalità”. Ma quello di Madonia non è l’unico caso di concepimento in provetta per capimafia detenuti nel carcere duro. Pioniere della fecondazione dietro le sbarre fu nel 2002 un uomo d’onore catanese, il cui nome, per motivi di privacy nei confronti del bambino, non è mai stato reso noto. Fu il ministero della Giustizia ad autorizzare la fecondazione in vitro. Sempre dal colloquio intercettato tra Giuseppe Graviano e il suo compagno dell’ora d’aria, appare un’altra incongruenza. Avrebbe detto: «Poi nel 1993 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, la mafia, iddi ricinu (loro dicono ndr) che era la mafia, allora che fa il governo senza, ha deciso di allentare il 41bis, poi c’è la situazione che hanno levato pure i 450». In pratica sostiene che il governo – all’epoca il ministro della Giustizia era Giovanni Conso – avrebbe tolto dal 41 bis 450 mafiosi. La realtà storica è un’altra. Si evince che probabilmente Graviano non è a conoscenza dei fatti: erano 334 i detenuti ai quali non fu prorogato il 41 bis. Giovanni Conso è considerato uno dei più grandi giuristi e ha ricevuto attestati di solidarietà dai suoi ex colleghi del mondo accademico. L’alleggerimento del 41 bis ai 334 detenuti viene visto come un favore alla mafia e utilizzato dalla Procura di Palermo come una prova della presunta trattativa Stato- mafia. In realtà gli appartenenti a Cosa Nostra in quell’elenco, il cui alleggerimento avrebbe potuto conseguire il loro gradimento, erano circa una dozzina e appartenevano in realtà alla vecchia mafia. Gli altri erano soggetti secondari, e in stragrande maggioranza appartenenti ad altre organizzazioni criminali, non a Cosa Nostra.

Così nel 2007 è diventato padre anche Cutolo, scrive Damiano Aliprandi il 13 giugno 2017 su "Il Dubbio". Raffaele Cutolo, il 30 settembre 2007, diventò padre nonostante il 41 bis. Tutto legale. La battaglia che vede i detenuti al 41 bis lottare per il riconoscimento del loro diritto di paternità, infatti, ha origini lontane. Inizia nel 1983, quando Raffaele Cutolo aveva sposato la moglie, Immacolata Jacone, nella cappella del carcere dell’Asinara. In quel momento l’ex super boss della Nuova Camorra Organizzata, aveva espresso un desiderio: «Morirò in prigione – aveva rivelato anni dopo o’ professore – il mio ultimo desiderio è regalare un figlio a mia moglie». Così nel 2001 il ministero di Grazia e giustizia aveva autorizzato la famiglia Cutolo a ricorrere ai benefici previsti dalla legge sulla fecondazione assistita. La notizia era stata tenuta nascosta per nove mesi ma quando, nell’ottobre del 2007 era nata la piccola, la stampa ne era venuta a conoscenza. L’uomo, rinchiuso dal 1982 e ininterrottamente al 41 bis da quando fu istituito, ha settantacinque anni ed è attualmente recluso al carcere di Parma. Si tratta del tredicesimo carcere della sua vita, tredici come gli ergastoli ricevuti. Cutolo aveva già avuto un figlio, Roberto, da un precedente matrimonio. Il ragazzo era morto però in un agguato avvenuto nel 1990, quando aveva ventotto anni. Per quell’omicidio era stato condannato Mario Fabbrocino, “o’ Gravunaro”, uno dei promotori della Nuova Famiglia, l’associazione mafiosa nata proprio per contrastare la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo. Stando alle parole di Cutolo – al quale il cantautore Fabrizio De Andrè gli dedicò versi da epica brigantesca con “Don Raffaè” – la sua mafia non esiste più. Ora le è rimasta la figlia Denise, nata con l’inseminazione artificiale.

41 bis e “Protocollo Farfalla”: un’inutile ricerca di regie occulte, scrive Damiano Aliprandi il 20 giugno 2017 su "Il Dubbio". Avvocati penalisti attenzionati per il solo fatto di aver esercitato legittimamente il diritto alla difesa dei reclusi al 41 bis, monitoraggio dei movimenti di protesta all’interno e all’esterno delle carceri che predicavano l’abolizione del regime duro, tentativo di aggancio (fallito) con alcuni reclusi al 41 bis per ottenere informazioni. Parliamo del cosiddetto “Protocollo Farfalla”, un’operazione fallimentare dei servizi segreti effettuata tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004 in collaborazione del Dap con l’allora capo Giovanni Tinebra. La denominazione “farfalla” prende ispirazione dall’ associazione “Papillon”, creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni della casa circondariale romana di Rebibbia, con l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie non violente in collaborazione dei movimenti politici sensibili alle tematiche carcerarie, come ad esempio i Radicali. Ma come mai proprio “Papillon”? Nell’agosto del 2002, al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis, fu ritrovato un volantino di Papillon Rebibbia Onlus. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde. In parole semplici, quell’operazione di intelligence nacque a seguito del sospetto che dietro le proteste contro il 41 bis ci fosse una regia mafiosa. Ancora meglio lo spiega la relazione del Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) redatta a conclusione di un approfondito lavoro: «Lo scenario storico, le pressioni nelle carceri, l’obiettivo prioritario indicato nella relazione al Parlamento del secondo semestre del 2003, suggerirono l’adozione di azioni informative tese anche a verificare eventuali saldature tra interessi criminali e aree politiche di matrice garantista». In sintesi, si era trattata di una sorta di “dietrologia di Stato” che intravvedeva le forze politiche garantiste in combutta con le organizzazioni criminali. Per capire meglio, bisogna inquadrare il contesto storico e la criminalizzazione mediatica delle proteste contro il 41 Le norme dell’articolo 41 bis furono inizialmente adottate con un carattere temporaneo per una durata limitata a tre anni (fino al 1995). Il 41 bis fu prorogato per ben tre volte e il 31 dicembre 2002 fu reso ordinario. Con l’approssimarsi dell’ultima scadenza, si riaccese il dibattito, anche politico, sul carcere duro. Ricordiamo ad esempio l’inchiesta sul 41 bis dei radicali Maurizio Turco e Sergio D’Elia che documentarono seri problemi di legittimità. Anche i detenuti al 41 bis si fecero parte attiva di questo dibattito e nel marzo 2002 il noto mafioso Pietro Aglieri inviò al procuratore antimafia Pier Luigi Vigna e al procuratore di Palermo Pietro Grasso una lettera sullo speciale regime carcerario; nella missiva si auspicavano «soluzioni intelligenti e concrete» al problema del carcere duro così come fino a quel momento applicato. Nel luglio 2002 Leoluca Bagarella, durante il processo presso la Corte d’assise di Trapani, rilasciò dichiarazioni spontanee nelle quali chiedeva una riconsiderazione, in termini politici, del regime previsto dall’articolo 41 bis. Nello stesso periodo, in una decina di istituti di pena in cui si applicava il carcere speciale, si verificarono iniziative di protesta e scioperi della fame dei detenuti. Il caso mediaticamente più eclatante fu, però, l’esposizione di due striscioni: il primo, “Uniti contro il 41- bis”, esposto allo stadio di Palermo e il secondo su iniziativa dei tifosi del Bologna in cui si esprimeva solidarietà ai tifosi palermitani per la libertà di parola. I media dell’epoca diedero risonanza a tali manifestazioni e alimentarono il dibattito. Al centro delle polemiche vi erano anche alcuni parlamentari, indicati dai criminali al carcere duro come traditori, poiché, una volta eletti, avrebbero cambiato il proprio pensiero sull’articolo 41 bis. Si ricordano, a tale proposito, le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè in riferimento ai parlamentari Nino Mormino e Antonino Battaglia. Tali polemiche furono ribadite da una lettera firmata da alcuni detenuti di Novara, tra cui Francesco Madonia e Giuseppe Graviano (oggi ritornato in auge per via delle intercettazioni), i quali rimproveravano avvocati penalisti entrati in Parlamento di aver cambiato posizione: «da avvocati avevano deprecato il 41 bis, da parlamentari invece non avevano combattuto il carcere duro». È in questo contesto che si avviò l’operazione di intelligence. Non è ancora del tutto chiaro come si sia svolta tale operazione e se sia stata del tutto legale. Restano punti oscuri ancora non del tutto chiariti. Durante l’audizione del Copasir, c’è stata l’inquietante testimonianza del senatore Roberto Castelli, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia, che ha raccontato il seguente episodio: «Venni a conoscenza che all’interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi. Io ho sempre cercato di fare il ministro occupandomi anche dell’apparato, per cui la cosa non mi piacque assolutamente, perché poteva anche avere altri risvolti, magari a priori assolutamente legittimi. Ma volli vederci chiaro, anche per testimoniare un po’ il fatto che, se fossi stato informato su questioni di questa gravità, sarebbe stato meglio. Senza avvisare l’allora capo del dipartimento Tinebra del blitz, chiesi di fare il giro della palazzina e entrai in un reparto in cui c’erano non ricordo più se tre, quattro o cinque centrali di ascolto, con persone che indossavano delle cuffie e che ascoltavano non so chi». Prosegue il senatore Castelli: «Diedi incarico all’allora mio capo di gabinetto di svolgere indagini di natura puramente informale. Lui, dopo qualche tempo, mi disse che effettivamente era tutto regolare e che tutto avveniva sotto l’egida della magistratura. Non so se questa centrale sia ancora attiva o se sia stata smantellata; non me ne occupai più, anche perché ripeto che non è assolutamente compito del ministro della Giustizia occuparsi delle indagini». Sappiamo che l’operazione “Farfalla” si concluse con un nulla di fatto: non c’era nessuna regia occulta dietro le legittime proteste. Resta però un interrogativo: si dice che tale operazione si sia svolta fuori da ogni tipo di controllo, compreso quello della magistratura. Ciò però cozza con la testimonianza dell’ex ministro Castelli. Intanto la relazione del Copasir conclude che tale operazione non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e probabilmente anche della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l’Italia e per i cittadini. Si legge nella relazione che l’assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell’attività, ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate su una ipotetica trattativa tra lo Stato e la criminalità organizzata.

C’è un 41 bis speciale molto più duro del 41 bis. Un area riservata: è quella del 41 bis speciale, dove i detenuti sono al buio, spesso sottoterra, isolati per anni in celle di 3 metri quadrati, scrive Damiano Aliprandi il 24 gennaio 2018 su "Il Dubbio". C’è il 41 bis, del quale si parla spesso. Una forma antica di carcere duro. Probabilmente anticostituzionale. Ma quasi nessuno sa se che esiste anche il 41 bis special, che è una forma di carcerazione ancora e parecchio più aspra del 41 bis. I detenuti sono tenuti in isolamento pressoché totale, in celle buie, spesso situate sottoterra, e minuscole. Racconta un detenuto che ha vissuto questa esperienza: «Per dieci anni sono stato isolato totale in una cella di un metro e 52 centimetri di larghezza per due metri e 52 centimetri di lunghezza, e cioè uno spazio occupato quasi tutto dal letto. Non mi arrivava un raggio di luce». Il 41 bis special è toccato per esempio al cugino del capocamorra Francesco Schiavone: «Non sentivo alcun rumore quando ero in cella, nemmeno una porta sbattere o una persona chiacchierare. Stavo impazzendo». Alla fine il cugino di Schiavone decise di dissociarsi. È questo lo scopo del 41 bis special? Indurre al pentimento? Allora non sarebbe più serio, e onesto, usare la tortura, come si faceva nel settecento? Ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Un super 41 bis per alcuni condannati al 41 bis. Parliamo della cosiddetta “area riservata” che non ha nessun fondamento normativo, eppure è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro. Se già il 41 bis è al limite della Costituzione – è nato come misura emergenziale e avrebbe dovuto durare per un periodo limitato di tempo, ma poi è diventato perenne grazie alla legge del 2002 sotto il governo Berlusconi e reso ancora più duro nel 2009 sempre con il governo di centrodestra -, l’area riservata sospende completamente il dettato costituzionale. Sì, perché questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali come il comitato europeo per la prevenzione sulla tortura (Cpt), ma anche dal dossier della commissione dei diritti umani preseduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate riservano un isolamento totale. Basti pensare al caso segnalato da Mauro Palma nella sua relazione del 2017. Il Garante parte dalla riflessione sull’applicazione congiunta del regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario previsto dall’articolo 41 bis, della sorveglianza speciale di cui all’articolo 14 bis e della pena dell’isolamento diurno prescritta dall’articolo 72 che danno luogo a stati di isolamento prolungato, protratto anche per molti anni, che incidono gravemente sull’integrità psichica e fisica della persona detenuta. Palma lo ha riscontrato nella Casa circondariale di Tolmezzo dove aveva incontrato un detenuto che era collocato nell’area riservata ed era in isolamento continuo da sei anni, senza poter accedere ad alcuna anche minima forma di socialità. Durante la visita effettuata dalla delegazione del Garante, la persona si presentava in condizioni igieniche appena sufficienti e riferiva di soffrire di cecità dall’occhio sinistro per “foro maculare” e ridotta visibilità al destro per “cellophane maculare”. La condizione di isolamento continuo protratta per sei anni, verosimilmente responsabile anche del decadimento fisico, psichico e igienico del detenuto che trascorre le proprie giornate soltanto ascoltando la radio ( non potendo nemmeno guardare la televisione a causa del difetto visivo), secondo Mauro Palma pone concretamente la questione della compatibilità con i parametri dell’umanità della pena e del divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti umani. Alla richiesta del Comitato europeo per la prevenzione della tortura avanzata nel 2008 di chiarire quale fosse la norma che istituisce tali aree, le autorità italiane l’hanno individuata nell’art. 32 del regolamento penitenziario, il quale prevede una separazione del detenuto che abbia un comportamento che richiede particolari cautele dal resto della comunità carceraria o l’assegnazione a istituti e sezioni per motivi cautelari, e cioè per la tutela dello stesso detenuto o dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni. Eppure la spiegazione non risulta esaustiva visto che, nel caso delle aree riservate, manca la finalità di tutela del destinatario del provvedimento, che legittima l’assegnazione dell’art. 32. Inoltre, consistendo il regime speciale del 41 bis nella sospensione totale o parziale dell’applicazione del normale regime carcerario, in presenza di ragioni di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, il riferimento a una fonte subordinata disciplinante regimi detentivi ordinari non sembrerebbe idoneo a giustificare la scelta di ricorrere a tale isolamento. Un super 41 bis così duro, al punto che l’amministrazione passata, per non subire accuse di disumanità, ha dovuto inventarsi di trovare per ogni detenuto isolato in queste condizioni quello che nel gergo carcerario viene definito “dama di compagnia”, ovvero un altro detenuto sacrificato per dare una parvenza di umanità. Cosa significa? Oltre ai mafiosi di grosso calibro, vengono sacrificate altre persone che appartengono alla mafia di “basso rango”. Per capire meglio la durezza di tale regime, riportiamo una testimonianza tratta dal libro di Ornella Favero, giornalista e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, che ha una redazione composta da 35 detenuti del carcere “Due palazzi di Padova”. Il libro si intitola Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza, uscito per la collana Le Staffette, edizioni Gruppo Abele. Raccoglie le storie di alcuni detenuti che hanno vissuto anni di regime duro al 41 bis. Tra questi c’è l’ergastolano Biagio Campailla che arrivò al 41 bis dopo aver vissuto nel carcere, dignitoso, del Belgio. Ad un tratto del suo percorso detentivo, dal 41 bis “normale” (sempre se può definirsi tale) era stato messo nell’area riservata. «Per dieci anni sono stato isolato totale – racconta nel libro -, in una cella di un metro e cinquantadue di larghezza e due metri e cinquantadue di lunghezza compreso il letto e tutto, non mi arrivava nessun raggio di luce, perché era proprio come sotto terra». Campailla poi spiega il trattamento di “socialità”: «Nel regime di 41- bis area riservata, tu vai al massimo con un’altra persona, ti assegnano un altro compagno e ci sono anche dei periodi che per mesi e mesi rimani da solo; invece nelle sezioni di 41 bis non area riservata, sei assegnato con tre persone, puoi andare per quelle ore d’aria con quelle tre persone, puoi svolgere tutto con quelle tre persone». Il regime 41 bis in area riservata è super duro, così duro che diventa per alcuni una tortura insostenibile. Così come accadde al cugino del capoclan Francesco Schiavone, suo omonimo detto “Cicciarello”, che lo portò a dissociarsi. «Non sentivo alcun rumore quando ero in cella – aveva spiegato ai giudici Schiavone – nemmeno una porta sbattere o una persona chiacchierare. Stavo impazzendo». Eppure il 41 bis ufficialmente non ha la funzione di portare la persona al pentimento, perché al contrario sarebbe una tortura. Oppure no? Ad oggi l’unica forza politica che chiede apertamente, da anni, il superamento del carcere duro è il Partito Radicale, a questo recentemente si è aggiunta la nuova formazione di sinistra radicale che si presenta alle elezioni politiche. Si chiama “Potere al popolo” e sul programma elettorale ha scritto nero su bianco che ne chiede l’abolizione.

Sei stata una brigatista? Allora la persecuzione è legittima, scrive Paolo Persichetti il 14 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Nadia Lioce, in carcere al 41bis, sarà processata per «disturbo della quiete pubblica». Aveva sbattuto una bottiglia di plastica contro la porta della sua cella per protestare contro la detenzione troppo dura. Può sembrar strano ma anche da una cella d’isolamento del 41 bis è possibile fare molto rumore. È quanto sostengono i responsabili del Reparto operativo mobile della sezione 41 bis del carcere di l’Aquila in una denuncia presentata contro Nadia Lioce e da cui sono scaturite le accuse di «disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e oltraggio a pubblico ufficiale». Il processo davanti al tribunale del capoluogo abruzzese entrerà nel vivo il prossimo 24 novembre. Rinchiusa in regime di 41 bis ormai dal lontano 2005, dopo la condanna all’ergastolo ostativo per gli attentati mortali del 1999 e del 2002 contro i consulenti governativi Massimo D’Antona e Marco Biagi, rivendicati da un piccolo gruppo che aveva ripreso una vecchia sigla brigatista, le Brpcc, Nadia Lioce ha assistito nel tempo ad una progressiva restrizione del regime detentivo a cui è sottoposta, in particolare per quanto attiene alla possibilità di aver con sé fogli, quaderni, libri e riviste. Nel 2011 è stato introdotto il divieto di ricevere libri e riviste dall’esterno, impedimento confermato anche nell’ultimo provvedimento del Dap: il «decalogo» che ha uniformato a livello nazionale il trattamento dei detenuti in 41 bis. Se negli ultimi tempi le condizioni materiali di detenzione della Lioce hanno subito un adeguamento (cella singola di normale grandezza, sufficientemente luminosa, areata e riscaldata; un passeggio grande e attrezzato), le restrizioni hanno preso di mira la possibilità di leggere, studiare, pensare, scrivere. Un’ora di colloquio mensile con vetro e non più di 15- 18 ore annue di confronto con i propri avvocati, sono il tempo di conversazione disponibile che la detenuta riesce a consumare nell’arco di quattro stagioni, poco più di 24 ore di parola per un silenzio lungo 364 giorni. Nell’ultimo decennio – ha ricordato il senatore Luigi Manconi, in una interpellanza presentata il 10 giugno del 2015 – la sottrazione del materiale cartaceo conservabile nelle celle della sezione femminile 41 bis presso il carcere dell’Aquila, è passato da 30 a 3 riviste, da 20 a 3 quaderni, agli atti giudiziari dell’ultimo anno, a un solo dizionario. In ottemperanza a questo giro di vite, il 13 aprile 2015 Nadia Lioce – ha denunciato sempre Manconi – si è vista sottrarre l’immediata disponibilità del materiale cartaceo in suo possesso (atti giudiziari, lettere, un quaderno, una rivista e articoli di giornale) trasferito in locali adibiti a magazzino e accessibili solo a giorni alterni in giorni feriali. Nel corso della stessa giornata la detenuta indirizzava al direttore dell’Istituto un reclamo per la restituzione del materiale che le era stato sottratto. Copia veniva inviata anche al magistrato di sorveglianza e allo stesso senatore Manconi perché potesse effettuare l’azione di sindacato ispettivo. La sottrazione del materiale cartaceo era stata anticipata tempo prima dal sequestro dell’elastico di una normale cartellina porta- documenti e di buste di carta ricavate da fogli di quotidiani incollati, utilizzate per archiviare corrispondenza e atti giudiziari. Circostanza confermata il 22 ottobre 2015 nella deposizione resa davanti al pm dal Commissario capo della Casa circondariale de l’Aquila: «Con la detenuta Lioce ha avuto inizio un attrito dovuto inizialmente al fatto che la stessa ha accumulato un notevole quantitativo di documenti all’interno della propria cella, fatto che rendeva difficoltoso effettuare le ordinarie perquisizioni». Da quel momento – ha aggiunto – ogni ulteriore oggetto ritirato alla detenuta è divenuto un motivo di contrasto e protesta, come è stato per una banale laccetto porta occhiali che la detenuta aveva ricavato con una striscia di tessuto. Manufatto non consentito dal regolamento e il cui sequestro ha provocato ulteriori tensioni con la reclusa. Un crescendo che di volta in volta si è focalizzato su oggetti banali e insignificanti. In questo modo, in appena tre mesi sono stati elevati nei confronti della Lioce 70 provvedimenti disciplinari, come hanno denunciato in occasione della udienza del 15 settembre scorso i suoi legali, Caterina Calia, Ludovica Formoso e Carla Serra, che fanno anche notare come la permanenza di questo regime detentivo ultrarestrittivo non abbia più fondamento in assenza di quell’organizzazione esterna, smantellata nel 2003, in cui la Lioce militava. Dopo aver constatato che le normali vie di ricorso legale non avevano sortito alcun effetto, Nadia Lioce ha inscenato, dal marzo al settembre 2015, la battitura della porta blindata al termine di ogni perquisizione, suscitando da sola tanto di quel baccano da essere trascinata a processo. «Come ormai da tempo accade – scriveva in un rapporto del 4 settembre 2015l’agente scelto del Reparto operativo mobile che assieme ad una collega aveva eseguito la perquisizione – in risposta a tali controlli, alle ore 8.45 circa, iniziava a protestare battendo una bottiglietta di plastica contro il cancello della propria camera detentiva fino alle ore 9.15 circa». Un atteggiamento ritenuto «strumentorio», dal vice Ispettore del Rom che in un altro rapporto ricorreva a questo inusitato neologismo per censurarne il comportamento chiedendo che la segnalazione venisse inviata alla locale autorità giudiziaria. Altrove le proteste della Lioce venivano qualificate come manifestazione «della sua indole rivoluzionaria», suscettibile di sanzioni disciplinari come l’applicazione della misura dell’isolamento punitivo (14 bis Op). Come se non bastasse, è venuta la richiesta di disporre «previo accertamento e quantificazione del danno, da eseguirsi a cura dell’addetto alla m. o. f. (manutenzione ordinaria fabbricati)», un «provvedimento di addebito a titolo di risarcimento per i danni rilevabili sul cancello della camera detentiva di assegnazione», provocati dalla percussione di una bottiglietta di plastica sulle pesanti porte di ferro blindato.

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattordicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate. Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa. Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristo-crazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno. L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo ( poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa inconsiderazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia.

P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

Magistrati capopopolo. Ora tocca a Grasso, scrive Piero Sansonetti il 28 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il primo a inventare la figura del magistrato sceriffo, del Pm combattente, l’eroe che sbaraglia il male, i malvagi e i corrotti fu Tonino Pietro. Fu anche il primo a entrare in politica…

In principio fu Di Pietro. Sì, fu lui a inventare la figura del magistrato sceriffo, del Pm combattente, l’eroe che sbaraglia il male, i malvagi, i corrotti. La cui immagine campeggia sui giornali e in Tv. E che poi si autonomina capopopolo e entra in politica con fare da Peròn. Prima di Di Pietro questo personaggio non esisteva.

Poi vennero i tanti figliocci di Di Pietro. Ma nessuno col suo carisma, col suo piglio. Per esempio De Magistris, per esempio Ingroia, per esempio Emiliano. E ora, ultimo della serie, Piero Grasso. I magnifici cinque. Non tutti uguali. Non tutti con la stessa carriera e robustezza professionale. Tutti però con la medesima idea in testa. Che il consenso – ingrediente fondamentale della politica, e quindi del potere – non si conquista con un programma, con una strategia, con un sistema di idee, ma si conquista con la spettacolarizzazione della propria figura; e una interpretazione populista del ruolo del magistrato può aiutare moltissimo.

Magistrati capopopolo: stavolta tocca a Grasso. Per ora sono cinque, ma piccoli Di Pietro crescono. In fila ci sono molti aspiranti. Per esempio Di Matteo, per esempio Davigo. Di Pietro irrompe sulla ribalta della grande politica subito dopo la più importante inchiesta politico- giudiziaria di tutti i tempi. “Mani Pulite”. Che porta il suo marchio ed è frutto del suo ingegno. Anche altri magistrati collaborarono con lui (come Borrelli, come Davigo) ma senza Di Pietro e le sue straordinarie capacità di inquisizione e di dominio della scena, “Mani pulite” si sarebbe fermata prima di cominciare. Come era successo con decine di altre inchieste, che sfioravano il potere politico, affossate nei decenni precedenti. Di Pietro prima di tutto rase al suolo il palazzo, minacciando persino i templi della grande economia e della Finanza. Poi decise di lasciare la magistratura, dopo aver ferito a morte Craxi, Forlani, Martelli, La Malfa, De Mita, e un altro centinaio di dirigenti politici medi o alti. A quel punto si mosse con circospezione, respingendo una proposta della destra, accettandone una della sinistra e alla fine mettendosi in proprio e creando un partito che ebbe un ruolo decisivo negli equilibri del centrosinistra fino al giorno che un nemico imprevisto (Milena Gabanelli) decise di eliminarlo usando uno strumento che di Pietro conosceva bene: la Tv. E in una trasmissione Tv lo accusò di disporre di troppe case (anche se non era vero) e in pochi giorni fece in modo che i sondaggi, che ormai lo davano al 10 per cento, scendessero al 2, spalancando la porta a Beppe Grillo.

De Magistris seguì una strada diversa. Non disponeva certo delle stesse capacità investigative di Di Pietro, si lanciò lo stesso in una grande inchiesta che catturò l’attenzione dei mass media. Mise sotto accusa mezza Calabria e un po’ di Campania e Basilicata, con l’inchiesta Why Not. Titoli in prima pagina centinaia, condanne zero. Ma non era quello che contava, e quando si presentò candidato per fare il sindaco di Napoli, stravinse nel tripudio popolare.

Di Ingroia si sa. Cercò di mettere a frutto le inchieste antimafia di Palermo, e soprattutto il processo per la famosa trattativa- stato- mafia. Ma gli andò male. Mise insieme un partitino che doveva riportare in vita il vecchio partito di Di Pietro più Rifondazione e altri. Restò sotto la soglia del 3 per cento alle elezioni del 2013, e niente Parlamento.

Infine Emiliano, ma la sua vicenda è ancora in viaggio. Anche lui faceva il magistrato in Puglia, ed era molto popolare. Diventò famoso e così riuscì a farsi eleggere prima sindaco di Bari e poi presidente della Regione. Ora punta in alto, probabilmente non ha rinunciato a succedere a Renzi alla direzione del Pd. Però l’operazione è ancora in alto mare.

Ed ecco, infine Grasso. Che sembra senza molti dubbi il nuovo leader della nuova formazione di sinistra nata in opposizione a Renzi. All’inizio si pensava che il leader di questa formazione potesse essere Giuliano Pisapia, ma Piero Grasso sembra avergli soffiato il posto. Sarà un caso, naturalmente, ma forse no: Pisapia è un celebre avvocato garantista, Grasso invece è un magistrato. E normale che le cose vadano così? E’ un’inventariabile conseguenza del nuovo corso della democrazia populista, che sta dilagando in Italia e non solo? La fusione tra populismo giudiziario e populismo politico è il destino immodificabile? E per la magistratura è un bene, o è una perdita di funzione e di autorevolezza? Le lascio lì, queste domande. Ricordandomi però, forse perché sono vecchio, che una volta il rapporto tra magistratura e politica era diverso. Anche allora, ogni tanto, i magistrati entravano in politica, ma con intenzioni diverse e diverse ambizioni. Non dovete pensare che i magistrati siano solo persone in cerca di potere. Molti di loro non lo sono affatto. Voglio raccontarvi una storia di una quarantina di anni fa. C’era un magistrato palermitano molto impegnato nelle indagini sulla mafia. Aveva fatto condannare all’ergastolo Luciano Liggio, uno tra più celebri e spietati capi della cupola. Lui si chiamava Cesare Terranova. Nel 1972 accettò di candidarsi al Parlamento per il Pci ed entrò in commissione antimafia. In quegli anni non esistevano i professionisti dell’antimafia. Non avevi nessun vantaggio a strepitare contro le cosche, anche perché né la politica né i giornali ammettevano l’esistenza di Cosa Nostra. Facevano finta che fosse una leggenda. Terranova decise di andare in Parlamento per denunciare. Non cercò mai di fare una carriera politica. Ancora in quegli anni, una volta, si rifiutò di pubblicare le liste di “proscrizione”, alla vigilia delle elezioni, anche se al suo partito sarebbe convenuto. Perché – disse – il compito della commissione antimafia non era quello. Nel 1979 rinunciò alla candidatura e tornò a fare il magistrato. Forse sbagliando. La mafia non gli perdonò il suo impegno. Ha la memoria lunga Cosa Nostra. Il 25 settembre, un paio di mesi dopo aver abbandonato Montecitorio, stava guidando la macchina nel centro di Palermo, con a fianco la guardia del corpo, Lenin Mancuso. Gli sbarrarono la strada e iniziarono a sparare, coi fucili e con le rivoltelle. Lui cercò di fare marcia indietro ma gli furono addosso. Gli diedero il colpo di grazia alla nuca. Mancuso morì il giorno dopo.

Ma attenzione ai pericoli dell'antimafia militante, scrive Vittorio Sgarbi, Sabato 18/11/2017, su "Il Giornale". Muore Totò Riina, ma non muore la mafia: questa è la rassicurante sintesi di quanti non credono che si possa battere il male e ne hanno una visione eterna e metafisica. Le dichiarazioni sono sconcertanti. L'ex procuratore Roberti dichiara: «È morto da capo». E per la seconda volta, come fu per l'aggravarsi della malattia, mostra di non credere alla forza dello Stato: Riina è pericoloso anche da morto. Resteranno gli imbarazzi di uno Stato impaurito che ha avuto paura di sospendere il regime di 41 bis a un malato terminale in stato di semi incoscienza vegetale, solo pochi mesi fa, attribuendogli un potere simbolico ben più forte di quello reale, inesistente e perduto dopo anni di isolamento. Inaccettabili anche allora le argomentazioni di Roberti: «Vorrei ricordare che il pubblico ministero Nino Di Matteo vive blindato proprio a causa delle minacce che Totò Riina ha lanciato dal carcere. Se non è un pericolo attuale questo, mi chiedo che altro dovrebbe esserci». Esiste dunque una mafia reale sottovalutata e una mafia immaginaria che è utile per creare combattenti ed eroi su un campo di battaglia che non esiste. Per questa finzione si sciolgono comuni dopo trent'anni che i boss sono stati arrestati, com'è accaduto a Corleone, per puro sfregio, per dare l'esempio, con inaccettabili azioni repressive proprie di uno Stato fascista, misure di prevenzione e interdittive dei prefetti che servono soltanto alla carriera di magistrati e burocrati. Fai il commissario di un comune sciolto per mafia, sei pagato diecimila euro al mese (e i commissari sono tre); e vieni nominato prefetto dopo avere umiliato una città in cui i mafiosi sono tutti al cimitero, sputtani i sopravvissuti, infami gli amministratori succeduti a quelli che trattarono veramente con la mafia, e innalzi la gloria di nullità che vengono promossi da altre nullità che fanno i ministri dell'Interno, e che devono dimostrare di volere reprimere la mafia. Fino al ridicolo e oltre il ridicolo, all'infamia di sedere a fianco del sostituto procuratore che dichiara che il tuo partito è stato fondato dalla mafia. La mafia si usa per delegittimare il nemico politico o l'antagonista: si creano così le dicerie per cui Berlusconi, per affermarsi, si trasforma in mandante di stragi. E non potendolo dimostrare, si arresta Dell'Utri per un reato che non ha commesso e che non esiste. Si tiene in galera qualcuno, in perfetto contrasto con quello che la Corte europea ha dichiarato per il caso Contrada, condannato e tenuto in carcere dieci anni, illegittimamente, non perché era innocente ma perché non doveva essere processato, in assenza di reato. Che vuol dire, in soldoni, che il magistrato si comporta come un medico che, dovendoti curare il fegato, non lo distingue dal cuore e ti applica due bypass. Esattamente così. E quei giudici ignoranti, in tutti i gradi di giudizio, in una vera e propria metastasi giudiziaria, sono ancora al loro posto. Come nel caso della malattia di Riina, non si libera Dell'Utri, arrestato per un reato che non può avere commesso, per non minare la credibilità della magistratura e per tenere sotto schiaffo Berlusconi. E la politica è impotente. Dopo Andreotti, assolto, hanno tentato con Calogero Mannino, con Nicola Mancino, e perfino con Napolitano, accusato di essere, niente meno, che il garante della trattativa Stato-mafia, indimostrata e inesistente, ma utile per umiliare concorrenti pericolosi come il generale Mori e il capitano Ultimo, carabinieri straordinari, processati per accuse inverosimili. Un continuo delirio che culmina con Mafia capitale, attribuendo a Roma un marchio di infamia che, nonostante le sentenze, viene ribadito da un altro procuratore antimafia che non sopporta di stare in una sede marginale (disagiata) come Roma fintanto che essa non sia omologata alle città conclamatamente mafiose. Il vero abuso è quello dell'antimafia. Abuso di potere e abuso del «marchio» mafia, per vantaggio personale e per privilegi inconfessabili, che vengono fatti passare per faticose restrizioni subite, come le scorte, gli aerei di Stato, le case blindate di falsi eroi. Una retorica insopportabile e intrinsecamente criminale. Un vero abuso di potere, che portò allo scioglimento per mafia (giudicato illegittimo dal Consiglio di Stato) dei comuni di Ventimiglia e di Bordighera. Abusi, abusi continui, prepotenze, carriere facili; questo è il retroscena dell'antimafia in lutto per la morte di Riina. I milioni spesi per la trattativa Stato-mafia, pervicacemente incardinata tra il 1992 e il 1993, con il pentito eccellente Massimo Ciancimino, appena condannato a sei anni di reclusione per calunnia aggravata provata nei confronti di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, e di molti altri coinvolti nella finzione teatrale di una mafia, a immagine e somiglianza dei teoremi utili ai magistrati. Come ha indicato Fiammetta Borsellino, gran parte di queste inchieste, che non hanno individuato i veri colpevoli, sono forme di depistaggio. Una verità amara per lo Stato che, per molti anni, ha continuato a fingere di non vedere le complicità di amministratori locali con le multinazionali che hanno cancellato i paesaggi meridionali con «le energie rinnovabili», per affari miliardari in cui la mafia ha trovato il suo nuovo pascolo. La Sicilia è vittima, e i danari si distribuiscono per l'Europa. La pressione mafiosa è tale, con il contributo minaccioso e dell'antimafia, che le isole Canarie sono frequentate da settantacinque milioni di persone e la meravigliosa Sicilia, mortificata, da sei milioni e mezzo. Poi se la prendono con i forestali.

«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.

«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».  

"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".

Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

25 anni dalla strage di Capaci, l’antimafia è più divisa che mai. Dopo 25 anni dall’uccisione del giudice Falcone, della moglie e di tre uomini della scorta, l’antimafia è attraversata da veleni, divisioni e accuse. Il fratello di Montinaro, caposcorta di Falcone: “L’antimafia di facciata esiste. Il problema vero è riuscire a smascherarla”, scrive Lidia Baratta il 23 Maggio 2017 su “L’Inkiesta”. Venticinque anni fa, 23 maggio del 1992. Sulla Fiat Croma marrone, la prima delle tre che accompagnano Giovanni Falcone e la moglie Francesco Morvillo, viaggiano tre agenti della scorta. Vito Schifani guida, Antonio Montinaro è seduto accanto, Rocco Dicillo dietro. Alle 17:58 la loro auto è la prima a saltare in aria all’altezza dello svincolo di Capaci. Mille chili di tritolo che fanno volare la Croma marrone dall’altra parte dell’autostrada, in un campo di ulivi. Mentre la Croma bianca, su cui viaggia Falcone con la moglie e un agente di scorta, si disintegra. Si salvano tra le lamiere Giuseppe Costanza, l’autista seduto dietro nell’auto del giudice, e gli altri agenti della Croma azzurra. Sono feriti, ma vivi. Sulla strada si apre un buco “come il cratere di un vulcano”, dicono. Davanti a quel buco, a quella colonna di fumo nero che si alza da Isola delle Femmine, la città di Palermo stavolta non rimane con le mani in mano. Dai balconi sventolano le lenzuola (i lenzuoli) bianche in segno di protesta, per differenziarsi da quella atrocità. È il seme dell’antimafia come la conosciamo oggi. Cinque anni prima Leonardo Sciascia aveva profetizzato l’esistenza dei “professionisti dell’antimafia”. Ma le stragi del 1992 segnano la data di nascita di una nuova spinta nella società civile. Tre anni dopo nascerà Libera. E da lì comitati, fondazioni, associazioni, movimenti che portano i nomi delle vittime di mafia. Ma 25 anni dopo, mai come in questo momento, l’antimafia è attraversata da veleni, divisioni e accuse. Le associazioni intanto si sono moltiplicate. Solo quelle iscritte nei registri di comuni e delle regioni oggi sono circa 2mila. Ma molti di quelli che erano diventati miti dell’antimafia, colpo dopo colpo, negli ultimi anni sono caduti a suon di inchieste. Come Silvana Saguto, la magistrata accusata di corruzione nella gestione dei beni confiscati; Rosy Canale, condannata per aver sperperato i denari delle donne di San Luca; Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo condannato per concussione in primo grado. E poi ancora le indagini su Pino Maniaci, su Adriana Musella e la sua gerbera gialla, e persino su un paladino dell’antimafia come Antonello Montante. Da casi come questi è nata anche una spaccatura interna alla stessa Libera, quando Franco La Torre, figlio di Pio, ha fatto notare durante un’assemblea l’assenza di prese posizione dell’associazione sulle indagini. Poco dopo La Torre verrà «cacciato con un sms». La stessa Commissione parlamentare antimafia sta indagando (sembra un paradosso) sulla degenerazione dell’antimafia e dei suoi finti o presunti portabandiere. L’antimafia attira denari. Attorno alla lotta alla mafia girano soldi, e non pochi, tra libri, fondi pubblici, elargizioni di ogni tipo e costituzioni di parte civile. Solo lo stanziamento a disposizione del Programma operativo nazionale (Pon) legalità per il Sud ammonta a oltre 377 milioni. E dove ci sono i soldi nascono i veleni. Rosy Canale con i soldi destinati alla lotta alla ‘ndrangheta ci aveva comprato due macchine e prenotato le vacanze. Il fondatore dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta Claudio La Camera è stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver usato i fondi dell’antimafia anche per acquistare oggetti di modellismo, sottraendo fino a 434mila euro di soldi pubblici. La stessa Commissione parlamentare antimafia sta indagando (sembra un paradosso) sulla degenerazione dell’antimafia e dei suoi finti o presunti portabandiere. L’ultimo botta e risposta di accuse riguarda Addiopizzo. In un audio circolato in Rete, Andrea Cottone, Cinque stelle fuoriuscito da Addiopizzo, critica l’uso dei fondi pubblici del candidato sindaco dei Cinque stelle di Palermo Ugo Forello, che ha presieduto l’associazione fino all’anno scorso. Cottone descrive un «circuito meraviglioso» per il quale «si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna». Poi Addiopizzo si costituisce parte civile, e come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi «e se li liquidano loro stessi». Nell’audio si parla anche della gestione definita «poco trasparente» dei fondi del Pon Sicurezza, e del presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia nei collegi difensivi degli imprenditori stessi (una doppia presenza che era già stata denunciata in commissione antimafia nel 2014). Addiopizzo ha smentito e ha annunciato di procedere per vie legali. Dietro le manifestazioni, le marce e gli striscioni, a venticinque anni da Capaci l’antimafia insomma è più divisa che mai. Persino la famiglia Morvillo ha scelto da poco di ritirare il proprio cognome dalla Fondazione Falcone, diretta da Maria Falcone, dopo la separazione della salma del giudice da quella della moglie. Ma la decisione di prendere le distanze sarebbe dovuta, come ha raccontato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, anche alla scarsa attenzione che la fondazione avrebbe dedicato alla figura della sorella in tutti questi anni. E per la prima volta, dopo 25 anni, i nomi di Giovanni e Francesca Falcone cammineranno separati. In un clima di spaesamento e divisioni, si cercano punti di fermi nell’antimafia, nomi di cui non dubitare. Si cerca una di tracciare una riga netta tra l’antimafia vera e quella “di facciata”. Non per forza collusa (ci sono pure i personaggi che di giorno marciano contro i criminali e di giorno ci fanno affari), ma diventata ormai un “brand” per costruirsi una carriera e organizzare dibattiti con tanto di gettoni di presenza. In nome di persone uccise dalle mafie, come ha denunciato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, si organizzano anche progetti da 250mila euro l’uno. Ho incontrato gente “specializzata” nell’organizzazione di eventi con questo taglio, gente che addirittura mi ha proposto un gettone di presenza per partecipare. L’antimafia di facciata esiste eccome. Il problema vero è riuscire a smascherarla. Io stesso, che seleziono moltissimo gli eventi a cui partecipare, corro il rischio di prendere parte a eventi farlocchi. Tra i più critici oggi c’è proprio Brizio Montinaro, fratello di quell’Antonio Montinaro che il 23 maggio del 1992 saltò in aria sulla Croma marrone che precedeva Falcone. La sua stessa famiglia in questi anni si è divisa sul senso da dare all’impegno antimafia. Da una parte la vedova di Antonio Montinaro, Tina, che negli anni ha fondato diverse associazioni (l’ultima si chiama Quarto Savona Quindici) e che fa su e giù per l’Italia per portare la testimonianza di quello che resta del relitto dell’auto su cui viaggiava suo marito. A fine anni Novanta Tina Montinaro attaccò aspramente quello che definiva un trattamento economico eccessivo dei collaboratori di giustizia, poi intraprese una battaglia contro il giudice tutelare di Palermo Antonino Scarpulla, che l’aveva criticata per la “sovraesposizione” dei due figli (uno dei quali Montinaro l’aveva chiamato Giovanni, proprio come Falcone). E fu anche al centro delle polemiche quando accettò la cittadinanza onoraria del comune di Salemi guidato da Vittorio Sgarbi, poi sciolto per mafia. Accanto a lei milita una delle sorelle Montinaro, Matilde, che a Calimera, il paese d’origine della famiglia in provincia di Lecce, ha fondato un’associazione, Nomeni, in cui però nessuno dei fratelli risulta tra i soci. Dall’altro lato ci sono le altre sorelle di Montinaro, Anna e Donatina, e Brizio, fratello maggiore di Antonio, che per molti anni ha deciso di restare in silenzio, evitando telecamere e interviste, ma partecipando spesso a incontri e dibattiti nelle scuole. «Se c’è la speranza di poter solleticare la riflessione e la spinta verso un mondo migliore ciò può avvenire solo intervenendo sulle giovani generazioni», spiega. In questi anni in tanti hanno contattato Brizio, che di mestiere fa l’architetto, per partecipare a dibattiti e tagli di nastri di strade e piazze dedicate a Falcone e Borsellino. «Ho incontrato gente “specializzata” nell’organizzazione di eventi con questo taglio, gente che addirittura mi ha proposto un gettone di presenza per partecipare», racconta. «L’antimafia di facciata esiste eccome. Il problema vero è riuscire a smascherarla. Io stesso, che seleziono moltissimo gli eventi a cui partecipare, corro il rischio di prendere parte a eventi farlocchi. E di questo ti puoi accorgere solo dopo aver conosciuto meglio promotori e partecipanti. Anche nelle nostre famiglie di vittime di mafia c’è chi si fa prendere la mano più dall’apparire che dall’essere». Da due anni, Brizio Montinaro ha deciso persino di non partecipare più neanche alle giornate della memoria di Libera. Non segue le iniziative della cognata né quelle della sorella. E lui stesso in occasione dei 25 anni dalla morte di suo fratello ha scelto di fare il “giro largo” dalle manifestazioni ufficiali. «Sarò in Sicilia tra scuole e università, e quest’anno anche in Calabria, per portare avanti a modo mio la memoria di Antonio e delle stragi», racconta. Con lui ci sono il movimento della Agende Rosse, Scorta Civica e anche Alfredo Morvillo, appena fuoriuscito dalla Fondazione Falcone. A due giorni dal 23 maggio, si sono ritrovati davanti alle tombe di Francesca e Antonio al cimitero dei Rotoli di Palermo. Mentre la cognata Tina Montinaro sarà a Palermo per riportare a casa la Croma blindata su cui viaggiavano gli agenti della scorta di Falcone in quel 23 maggio del 1992. Che ha cambiato tutti. Persino l’antimafia.

Palermo, un audio scuote i 5 stelle: "Forello dettava legge sui soldi di Addiopizzo". Un ex socio del comitato racconta a Nuti e ad altri deputati di parcelle e affari. La registrazione finisce sul web. L'ira del candidato: "Solo falsità", scrivono Emanuele Lauria e Claudio Reale l'8 maggio 2017 su "La Repubblica". Un audio di trenta minuti che mette in circolo nuovi veleni nella campagna elettorale dei 5 stelle. Viene rilanciato da alcuni profili Twitter, finisce su YouTube, riaffiora in un numero imprecisato di punti dell’universo del web. Dentro, ci sono accuse pesanti nei confronti del candidato sindaco Ugo Forello e del suo modo di gestire Addiopizzo, l’associazione da lui presieduta sino all’anno scorso. C’è il racconto della vita di una delle organizzazioni antimafia più attive, fatto da un insider, da un ex socio fuoriuscito con altre 18 persone nel 2009. A parlare è Andrea Cottone, attuale componente dello staff della comunicazione di M5S alla Camera. E attorno a lui, in una stanza di Montecitorio, ci sono Riccardo Nuti e i deputati palermitani a lui vicini. Siamo nel luglio del 2016, i cosiddetti “monaci” sono già in allarme per la possibile candidatura di Forello. E chiedono a Cottone dettagli (e documenti) sull’attività dell’avvocato leader di Addiopizzo. Il giornalista è puntiglioso. Parla dell’influenza che, nella fase iniziale, sul movimento avrebbe esercitato l’ex commissario antiracket Tano Grasso ("Un fantasma che muove tutte queste persone"), parla soprattutto dei compensi che Forello e un paio di legali a lui vicini avrebbero percepito nei processi innescati dalle testimonianze degli imprenditori taglieggiati. Parla di "un circuito meraviglioso" per il quale "si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna". Poi Addiopizzo si costituisce parte civile "e viene difesa da quell’altro". Poi come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi "e se li liquidano loro stessi". "Geniale", commenta la deputata Chiara Di Benedetto. Gli altri deputati annuiscono, mostrano di trovare conferma ai loro sospetti. Al centro di quello che sembra una specie di interrogatorio di Cottone da parte dei parlamentari finisce anche la gestione definita “poco trasparente” dei fondi (un milione di euro) del Pon Sicurezza. E quel presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia appunto nei collegi difensivi degli imprenditori stessi: una doppia presenza che era già stata avvistata in commissione antimafia nel 2014 e che farà poco più avanti parte di una denuncia pubblica del deputato Francesco D’Uva. "Nessuno ha pensato di denunciare queste cose? Perché Addiopizzo non si può toccare", dice Giulia Di Vita. Il clima, fra i “nutiani” è di insofferenza crescente. E diventa rovente con la considerazione che gli esponenti di Addiopizzo avevano nel frattempo invaso M5S: "Noi rappresentiamo un involucro da riempire", commenta Nuti. E quasi con sorpresa, durante il dibattito, i deputati “scoprono” di avere molti rappresentanti di Addiopizzo nei propri staff. "È un fatto molto grave", ancora Nuti. "Siamo stati scalati", fa notare Cottone. L’ex capogruppo si mostra preoccupato per il fatto che, di lì a poco, l’assemblea dei grillini palermitani avrebbe scelto Forello o uno del suo gruppo come candidato sindaco. Ecco l’invito a Grillo a intervenire per bloccare l’assemblea e procedere invece con il voto online. La situazione sarebbe esplosa in autunno, con il caso delle firme false, l’inchiesta e le sospensioni di Nuti, Di Vita e Claudia Mannino. La campagna elettorale di M5S è partita con un movimento spaccato. Ora, qualcuno, ha messo in rete l’audio che imbarazza Forello e il suo gruppo. Chi l’ha registrato? Chi l’ha diffuso? La seconda domanda ha una risposta: fra coloro che l’hanno pubblicato c’è Alessandro Ventimiglia, iscritto al meet-up “Il Grillo di Palermo”, storica roccaforte dei “monaci”. Ieri la notizia della registrazione aleggiava sull’iniziativa di Forello per lanciare i candidati nelle circoscrizioni. A margine della kermesse, il candidato sindaco sbotta: «Un mucchio di falsità». Valerio D’Antoni, uno degli avvocati di Addiopizzo, entra più nel merito: "Pur avendo ottenuto il riconoscimento del risarcimento, Addiopizzo non ha mai incassato un euro. È stata riconosciuta solo la compensazione delle spese legali, stabilita dalle sentenze". Solo bugie, insinuazioni, mascariamenti? Di certo per i 5 stelle è un’altra grana in piena campagna elettorale.

L'anomalia dell'associazione antiracket di Marsala: "Ampliamo gli orizzonti...", scrive TP24 l'8/07/2016. Si definiscono un gruppo di amici, “quattro pazzi”, che vogliono diffondere “la cultura antimafia”. Si definiscono “trasparenti”, anche se nessuno ha mai detto il contrario. E quelle strane, e inopportune costituzioni di parte civile nei processi in tutta Italia, quelle sono un semplice “ampliare gli orizzonti”. E’ la strana associazione antiracket e "antimafie" Paolo Borsellino onlus di Marsala. Una creatura che nasce dalla trasformazione dell’associazione antiracket di Marsala, una associazione antimafia che, con il suo dominus, l’avvocato Peppe Gandolfo, gira in lungo e in largo i tribunali di tutta Italia lanciandosi nel business del momento per l’antimafia: la costituzione di parte civile nei processi contro la criminalità organizzata. Una associazione nata a Marsala che si fionda sul processo “Mafia Capitale”, sul processo “Aemilia” quello sulle 'ndrine in Emilia Romagna, che tenta il colpaccio anche al processo sulla Trattativa Stato-mafia. Una stortura per l’antimafia, quella concreta, quella sul territorio di sudore e di studio, di fatiche e di cultura. Loro, i responsabili dell’associazione marsalese hanno tentato di spiegare le cose, qualche giorno fa, in una conferenza stampa praticamente deserta di giornalisti. Il caso dell’associazione lo ha trattato diverse volte Tp24.it ed è stato raccontato anche da Giacomo Di Girolamo in “Contro l’Antimafia”. L’associazione antiracket di Marsala un bel giorno, tempo fa, decide di cambiare nome. L’antiracket e Marsala stanno stretti, i processi sull’usura sono pochi in città, e scarseggiano quelli contro le cosche locali. Allora ci si attiva per “ampliare gli orizzonti”. Proprio così lo chiama il processo di trasformazione il professore di educazione artistica alle medie Enzo Campisi, colui che si definisce “artefice della trasformazione”. Si pensa ad una rivoluzione dello statuto, a cominciare dal nome. Non si chiamerà più associazione Antiracket di Marsala, ma “Associazione Antiracket e Antimafie Paolo Borsellino Onlus”. Tutto quadra. Le mafie, non più la mafia, consente di far rientrare nella lista i processi contro le ‘ndrine di tutta Italia, o le associazioni criminali ibride, come Mafia Capitale. Spuntano sedi fittizie. In Piemonte, a Roma, a Bologna. Quando non c’è neanche quella di Marsala. “La nostra è una associazione molto modesta che ha l’ambizione di crescere nel tempo, allora proposi un cambio di passo. Restare limitati a Marsala sembrava stretto per la voglia di comunicare la cultura antimafia”. Campisi spiega così l’attraversamento dello Stretto. Ad esempio l’associazione si è costituita parte civile al processo “Aemilia” sulla ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Il primo step del processo, quello con il rito abbreviato scelto da alcuni imputati, si è concluso con l’ammissione di parte civile per l’associazione marsalese e il riconoscimento di un “ristoro” di 20 mila euro. Più il pagamento delle spese legali: 7 mila euro per il legale di fiducia dell’associazione, ossia lo stesso Peppe Gandolfo. “Ma non abbiamo ancora ricevuto questi soldi”, dice il direttivo dell’associazione. Non ancora, quindi. Ma cosa fa, cosa ha fatto in Emilia Romagna l’associazione guidata da Antonino Chirco, presidente "per caso" da un paio d’anni. Quali sono state le attività sul territorio emiliano tali da giustificare la costituzione di parte civile, e quali sono stati i danni provocati all’associazione dalle ‘ndrine? Insomma cosa è stato prodotto in questi anni? Poco o nulla, a giudicare dalla risposta: “Ci siamo estesi dove avevamo persone vicine. E’ ridicolo fare una guerra tra i poveri e voler distruggere una attività antimafia. Abbiamo cercato di creare dei gruppi di studenti per crescere lentamente. Abbiamo deciso di costituirci parte civile dove avevamo un gruppo di studenti a noi vicini”. Quindi a Bologna c’è un gruppo di studenti, che si incontra, ogni tanto, non è dato saperlo, e che ha deciso di costituirsi parte civile in un processo nato da inchieste e per fatti precedenti alla nascita stessa della sede emiliana dell’associazione. Buono a sapersi. Nel favoloso mondo dell’antimafia succede questo.  Ma qual è il senso, giuridico, logico, di buon senso, di onesta intellettuale di costituirsi parte civile a dei processi che nulla hanno a che vedere con una associazione marsalese? “Se non lo fanno i siciliani a schierarsi contro le mafie in tutta Italia lo devono fare i genovesi. O i bergamaschi?” dice Campisi. “Ci sentiamo in dovere di dire ci siamo. Poi sta al magistrato se è pertinente la nostra costituzione. Sono i magistrati come Nino Di Matteo che ci esaminano”. In realtà Nino Di Matteo, e magistrati come lui, non c’entrano nulla, dato che è un magistrato non giudicante, che ha curato la parte inquirente del processo trattativa Stato-Mafia, in cui tra l'altro l'associazione di Gandolfo e il suo gruppo di amici si è costituita parte civile senza essere ammessa. Per il presidente Chirco, però, sollevare domande, sull’opportunità di queste costituzioni di parte civile nei processi extra marsalesi, senza aver svolto nessuna attività sul territorio, è il frutto di “farneticazioni”.  “Abbiamo organizzato diversi incontri nelle scuole, sia in Piemonte che in Sicilia” e poi, attività di spicco, quella di partecipare alle manifestazioni delle Agende rosse. Perchè? “Per rafforzare i magistrati del processo sulla trattativa Stato-mafia”. Insomma, un tormentone. L'associazione però nasce come antiracket. Qui invece pare una versione ridotta e casereccia di Libera. E quanti sono gli imprenditori, i commercianti, che in questi anni sono stati assistiti dall'associazione dalla denuncia al processo? Per l'avvocato Peppe Gandolfo sarebbero una quindicina, in 14 anni di attività.  Ma senza dati alla mano. Il presidente Chirco fa capire che negli ultimi anni non è stato assistito nessuno. “Se non si presenta nessuno per denunciare, abbiamo un numero verde. E una sede che si trova nel comando dei vigili urbani di Marsala, ma una vittima non verrà mai al comando”. Anche perchè la sede è sempre chiusa. “No, qui non si fa vedere mai nessuno, solo quando c'è qualche riunione, ma non vengono mai”, ci dicono dalla stazione dei vigili urbani di via Del Giudice. “Nessuno denuncia perchè non si sente protetto dallo Stato” dicono i responsabili dell’associazione. L’associazione antiracket, c’è da dire, che in questi anni è stata anche una sorta di comitato elettorale per l’avvocato Giuseppe Gandolfo. All’interno ci sono quasi tutti i suoi fedeli sostenitori che lo hanno seguito nella campagna elettorale del 2012, quando si candidò sindaco, e poi lo hanno seguito nella “moda” dell’adesione al movimento 5 Stelle di Marsala. Una convivenza mai serena con il gruppo storico dei 5 Stelle. Anche per le notizie che arrivavano dall’associazione. La trasformazione, dicevamo, è avvenuta un paio di anni fa. L’antiracket di Marsala negli anni si è costituita parte civile in diversi processi, e tutti i soldi accumulati nei vari risarcimenti non si sa che fine abbiano fatto. Spariti nel nulla, come conferma lo stesso Chirco: “Negli anni passati è stata usata come bancomat”.  Ma da chi? E perché?  E ora che si fa? “Abbiamo deciso di rendere trasparenti i nostri bilanci e pubblicarli sul nostro sito”. Peccato che il sito non sia ancora online. In tutto ciò non è mai stato prodotto alcun documento, alcuno studio sulla presenza della malavita organizzata a Marsala e nella provincia di Trapani. E poi le attività. Tutto è antimafia, tutto è legalità, tutto giustifica la presenza nelle aule dei tribunali, e il nome di Paolo Borsellino nell’intestazione apre la pista a progetti di legalità e a sovvenzioni pubbliche. “Abbiamo restituito i soldi che ci ha dato la Regione, siamo stati gli unici”, dice ancora Gandolfo. Altre iniziative? “Abbiamo accompagnato i ragazzi in discoteca per sensibilizzarli a non usare alcolici”. Ecco, l’antimafia sobria e astemia, quella che fa paura alle ‘ndrine. Intanto negli ultimi tempi qualcosa è accaduto: l'associazione ha attaccato alcuni manifesti in città.  Un po’ nei bar, un po’ nei panettieri. C'è poi uno striscione, un banner, che fa il giro d'Italia e che era presente alla prima udienza del processo Aemilia a Bologna come, in posizione strategica, su un balcone, ai funerali del maresciallo Silvio Mirarchi, un mese fa, davanti la chiesa madre, a tiro di telecamera. Non chiamatelo esibizionismo, è “ampliare gli orizzonti”. 

Antimafia, malversazione e appropriazione indebita: sequestrati i beni alla presidente di Riferimenti. Il provvedimento dopo l'avvio dell'indagine della procura della Repubblica di Reggio Calabria, che nei mesi scorsi ha iscritto nel registro degli indagati Adriana Musella, scrive Carlo Macrì il 19 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". I soldi che servivano per le attività antimafia finivano nel cassetto dello studio della presidente dell'associazione Riferimenti, Adriana Musella, che li spendeva per viaggi, hotel, ristoranti, gadget e compensi per familiari. Dopo l'avvio dell'indagine della procura della Repubblica di Reggio Calabria, che nei mesi scorsi ha iscritto nel registro degli indagati Musella con l'accusa di malversazione e appropriazione indebita, martedì è arrivato il sequestro dei beni. Alla presidente di Riferimenti le sono state sequestrate 75 mila euro. Riferimenti è l'associazione che ogni anno, tra le altre cose, finanzia la Gerbera Gialla, una manifestazione antimafia, che chiama a raccolta il mondo della scuola e le istituzioni. Tra i presenti, ogni anno, anche il Presidente del Senato Piero Grasso, il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e alte figure dell'Arma e della Polizia e giornalisti. Il procuratore aggiunto Gerardo Dominijanni contesta a Musella il fatto che solo parte dei 450 mila euro, destinati all'associazione antimafia da parte di numerosi enti pubblici, dal 2002 al 2016, sarebbero stati destinati alle attività antimafia. La Guardia di Finanza, in una nota, sostiene che 55.000 euro sono stati utilizzati per finalità ritenute estranee all'associazione.  Inoltre, gli accertamenti bancari sui conti dell'associazione ha evidenziato che circa 20 mila euro, destinati a Riferimenti, sono stati «utilizzati» da Musella per fini privati. Un anno fa era stato il Corriere della Calabria a far scoppiare la «bomba» sui conti dell'associazione Antimafia. L'inchiesta giornalistica aveva accertato, infatti, che il figlio della presidente, Francesco Tortorella, aveva incassato 16 mila euro. Il Consiglio regionale, per molti anni, aveva provveduto a pagare le bollette del telefono fisso della sede di Riferimenti. Tra il 2011 e il 2013, poi, le spese per omaggi floreali e addobbi ammontano a 11 mila euro. Ventitremila euro, invece, sono state spese per magliette da distribuire nella giornata della Gerbera Gialla. Nell'inchiesta della procura di Reggio Calabria sono finite anche le spese per quasi tremila euro per taxi, alberghi e ristoranti in varie città italiane. All'Apple Store di Roma Est sono finiti 1,778,95 euro. All'Ikea di Milano duemila euro, mentre è di 339,89 la somma pagata per una contravvenzione del 2007.

Reggio Calabria, malversazione: sequestrati beni presidente associazione antimafia. La guardia di Finanza ha dato esecuzione a un decreto di sequestro preventivo di beni per 75 mila euro emesso in via d'urgenza nei confronti di Adriana Musella, fondatrice di Gerbera gialla-Riferimenti: "Voglio un processo subito", scrive Alessia Candito il 19 settembre 2017 su "La Repubblica". Sulla carta, quei fondi avrebbero dovuto essere utilizzati per contrastare l'influenza dei clan in terre martoriate dalla loro ingombrante presenza. Ed invece non solo sono stati sperperati in attività che con l'antimafia non hanno nulla a che fare, ma si sono anche trasformati in un "tesoretto" personale di Adriana Musella, fondatrice e presidente della presidente dell'associazione Gerbera gialla - Riferimenti. Per questo motivo, per ordine del procuratore aggiunto Gerardo Dominijanni e del pm Sara Amerio, questa mattina la Guardia di finanza ha sequestrato beni per 75mila euro riconducibili alla presidente della nota associazione antimafia, attualmente indagata per malversazione. "Voglio un processo e lo voglio in tempi brevi. Porterò le carte ai magistrati per difendermi da questo castello di accuse", ha detto Musella, che si è definita profondamente scossa. "Posso solo dire - ha dichiarato in lacrime all'Agi - che ho lavorato per 25 anni in cui ho dato molto e che non merito questo trattamento. Posso aver commesso qualche errore; presiedevo un'associazione e non una banca. Errori posso averne fatti. Dovrò riguardare tutte le fatture, portare le carte al processo per difendermi. Sono tranquilla e in buona fede. È chiaro che se la Guardia di Finanza acquisisce i documenti relativi a 10 anni di attività, qualche irregolarità può emergere, ma non può trattarsi delle somme che mi vengono contestate. Tutti mi conoscono - aggiunge - e sanno come ho lavorato". Secondo quanto emerso dalle indagini, dal 2002 ad oggi, la Gerbera gialla avrebbe ricevuto fondi per oltre 450mila euro per finanziare le proprie attività. Sui suoi progetti, hanno nel tempo investito numerosi enti pubblici, fra cui il Consiglio regionale della Calabria, le Province di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Verona, Salerno, i Comuni di Santa Maria Capua a Vetere, Bollate, Gioia Tauro, il M.I.U.R., il Consiglio Ordine degli Ingegneri di Salerno e la Camera di Commercio di Reggio Calabria. Ma - ha svelato la guardia di Finanza - non tutti i contributi generosamente elargiti sono stati destinati alla "costruzione della cultura antimafia" promessa dall'associazione. Dal 2010 al 2015 parte di quei fondi hanno preso strade diverse. Oltre 55mila euro sono stati utilizzati per finalità ritenute estranee a quelle associative, mentre altri 20mila euro sono diventati strumento di liquidità "personale" aggiuntivo, cui la presidente dell'associazione faceva ricorso. Un tesoretto personale, insomma. Interrogata a lungo nei mesi scorsi dai magistrati, Musella ha sempre negato ogni addebito e si è sempre detta "serena" riguardo l'inchiesta in corso. Già in passato erano però emerse alcune criticità nella gestione dei generosi finanziamenti ricevuti e utilizzati anche per incarichi assegnati a figli e familiari, pranzi e cene organizzati presso locali di parenti, tasse, parcheggi, acquisti, viaggi in taxi, soggiorni in albergo e pranzi e cene al ristorante. Tutte circostanze - inclusi gli incarichi assegnati ai figli - confermate e difese con una serie di post pubblici e lettere aperte da Musella, che ha sempre bollato come "pesante attività di delegittimazione" la diffusione di notizie al riguardo. Un'interpretazione con cui la Procura di Reggio Calabria - alla luce del provvedimento eseguito oggi - non sembra essere d'accordo.  

Calabria, sequestrati 75mila euro a presidente del coordinamento antimafia: Malversazione e appropriazione indebita. Nel corso del quinquennio 2010-2015, stando alle indagini delle fiamme gialle, circa 55mila euro sono stati utilizzati dalla presidente di Riferimenti per finalità ritenute estranee a quelle dell'associazione antimafia: tra queste "settimane bianche dell'antimafia", pagamenti al figlio grafico e pasti nel ristorante del cognato, scrive Lucio Musolino il 19 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sequestro all’antimafia con la partita iva. La procura di Reggio Calabria, diretta da Federico Cafiero De Raho, ha disposto un sequestro preventivo di 75 mila euro nei confronti di Adriana Musella, presidente del Coordinamento nazionale antimafia Riferimenti. Malversazione e appropriazione indebita sono i reati contestati dalla guardia di finanza a quella che veniva considerata una paladina dell’antimafia. Secondo la ricostruzione degli investigatori, guidati dal colonnello Flavio Urbani con il coordinamento del procuratore aggiunto Gerardo Dominijanni e del sostituto Sara Amerio, a partire dal 2002 la Musella avrebbe ricevuto e gestito diversi finanziamenti, anche pubblici, per un importo complessivo di circa 450mila euro, il cui impiego sarebbe dovuto essere vincolato alla divulgazione della cultura antimafia. Così non è stato e a farne le spese sono i numerosi enti pubblici che hanno elargito fondi all’associazione Riferimenti: dal consiglio regionale della Calabria, alla provincia e il Comune di Reggio passando per la provincia di Vibo Valentia, il comune di Verona, il comune di Santa Maria Capua a Vetere, la provincia di Salerno, la provincia di Verona, Il Ministero dell’Università e della Ricerca, il Consiglio dell’ordine degli Ingegneri di Salerno, la Camera di Commercio di Reggio e i Comuni di Bollate e Gioia Tauro. Nel corso del quinquennio 2010-2015, stando alle indagini delle fiamme gialle, circa 55mila euro, sono stati utilizzati dalla presidente di Riferimenti per finalità ritenute estranee a quelle dell’associazione. Dall’esame dei conti bancari, inoltre, è emerso che parte dei fondi disponibili, quantificabili in circa 20mila euro, sarebbero stati utilizzati dalla Musella come uno strumento di liquidità personale aggiuntivo: una sorta di bancomat con soldi pubblici. A fine marzo, la Musella aveva ricevuto un avviso di comparizione ed è stata interrogata dal procuratore aggiunto Dominijanni e dal pm Amerio che volevano vederci chiaro sull’utilizzo dei finanziamenti destinati all’attività antimafia. Dalla contabilità dell’associazione, infatti, spuntano non solo convegni istituzionali e incontri nelle scuole, ma anche “settimane bianche dell’antimafia” a Folgaria. Diverse decine di migliaia di euro, infatti, stando alla documentazione in mano alla procura sono state spese in tipografia per la realizzazione di calendari e di un libro, 11mila euro per omaggi e addobbi floreali, quasi 5 mila euro di targhe e 23 mila euro per le magliette distribuite durante la manifestazione “Gerbera Gialla” alla quale partecipavano le più importanti autorità locali e nazionali, a partire dal presidente del Senato Piero Grasso. Con i soldi della Regione, inoltre, sono stati pagati 1.778 euro all’Apple Store di Roma, le bollette dei cellulari (5mila e 900 euro), quelle del telefono fisso (2mila euro) e dell’energia elettrica (844 euro). 16mila euro, inoltre, sono stati pagati al grafico Francesco Tortorella che è anche figlio di Adriana Musella.  Infine, ci sono pranzi per 7mila e 200 euro di cui 2mila spesi alla Locanda di Molinara e 1.500 al ristorante “I Tre Farfalli” all’epoca di proprietà di Salvatore Neri, cognato della presidente Musella.

Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestati due funzionari comunali. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale al Bilancio, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica". Con 2 milioni di euro di finanziamenti pubblici avrebbe dovuto aprire tre sportelli a Lecce, Brindisi e Taranto per assistere le vittime dell'usura e del racket. Quei soldi invece, attraverso assunzioni fittizie, false missioni, fatture e rendiconti creati ad arte sono finiti - secondo l'accusa - nella tasche della presidente dell'associazione antiracket Salento, Maria Antonietta Gualtieri, leccese di 62 anni. Un video girato dalla guardia di finanza di Lecce documenta quanto accadeva nell'ufficio della presidente antiracket: c'era un viavai di persone, ritenute complici del raggiro, che portavano alla donna buste piene di contanti che Gualtieri apriva, contava e metteva in borsa. Dalla disinvoltura con la quale tutti agivano si capisce che era un'operazione di routine. La bufera giudiziaria si è abbattuta sull'amministrazione comunale salentina nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. L'inchiesta sui presunti illeciti ha portato in carcere una stretta collaboratrice della presidente, Serena Politi, e due funzionari del Comune di Lecce: Pasquale Gorgoni dell'ufficio Patrimonio (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari) e Giuseppe Naccarelli dell'ufficio Ragioneria. Gli sportelli aperti solo sulla carta. Gualtieri, secondo gli investigatori, avrebbe promosso a Lecce, Brindisi e Taranto l'apertura degli Sportelli antiracket, ma soltanto sulla carta. In realtà gli sportelli, secondo quanto emerge dall'indagine, sarebbero fittizi: attraverso una falsa rendicontazione di spese sostenute per il personale, acquisizione di beni e servizi o di trasferte mai sostenute, attestavano falsamente la loro operatività relativa al servizio di assistenza fornito alle vittime e al numero di denunce raccolte, alterando anche il raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto.

Le somme restituite in contanti. L'associazione antiracket gestita da Gualtieri, secondo l'accusa, con l'appoggio di professionisti compiacenti - avvocati, commercialisti, esperti del settore bancario - avrebbe anche stipulato contratti di collaborazione fasulli con dipendenti esistenti soltanto sulla carta, emettendo buste paga fasulle per prestazioni mai effettuate. Le somme indebitamente percepite dai fittizi collaboratori grazie alle false rendicontazioni presentate all'ufficio del commissario Antiracket - secondo quanto accertato dagli investigatori - venivano successivamente restituite in contanti alla stessa presidente dell'associazione.

Gli altri indagati. Politi è agli arresti domiciliari. Gli altri tre sono stati condotti in carcere dopo aver assistito alle perquisizioni nei rispettivi uffici e abitazioni. Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale al Bilancio, Attilio Monosi (anch'egli coinvolto nell'inchiesta sugli alloggi popolari), candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti: Monosi si è dimesso, ma correrà comunque per le comunali.

Sequestrati 2 milioni di euro. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro.

Il coinvolgimento del Comune. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire da un funzionario pubblico che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione.

I lavori mai ultimati. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.

Antiracket Lecce, da anni polemiche accuse e sospetti sulla presidente dell’associazione arrestata. “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi e oggi arrestata per truffa aggravata, scrive Luisiana Gaita il 12 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlavaMaria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi. Eppure, secondo la procura di Lecce, che ha lavorato all’indagine sulla presunta truffa finalizzata a ottenere un finanziamento da due milioni di euro destinato alle vittime del racket e dell’usura, molto era già accaduto. Tanto che già in passato si era gettata qualche ombra sull’operato dell’associazione, ben prima dell’operazione della Guardia di Finanza scattata oggi nel Salento. Ma negli ultimi anni l’Antiracket Salento è stata al centro di polemiche, accuse, sospetti e anche inchieste che, in un modo o nell’altro, l’hanno coinvolta.

LA POLEMICA – A giugno 2013 a fare andare su tutte le furie Maria Antonietta Gualtieri furono le parole del presidente della Camera di Commercio di Brindisi Alfredo Malcarne che annunciava l’apertura presso l’ente di uno sportello antiracket. “Solo noi siamo l’unico sportello riconosciuto dal ministero dell’Interno finanziato con i fondi Pon sicurezza” si affrettò a chiarire la presidente, ricordando che l’associazione era l’unica ad aver firmato un protocollo con la Procura della Repubblica. “Vorrà pur dir qualcosa – aggiunse – ci sono associazioni che sono cattive imitazioni”. Poi le accuse ad altre realtà del territorio: “Ce ne sono alcune dalle quali ho subito pressioni – disse – perché non vogliono che cambino le cose. Con il loro atteggiamento favoriscono il consenso sociale alla criminalità, non aiutano le vittime di racket e usura. Tanto da pensare che ci possano essere delle infiltrazioni”. Inevitabili le reazioni. Come quella del presidente antiracket di Mesagne (Brindisi) Fabio Marini: “Una cosa è certa, noi siamo un’associazione non profit composta da vittime del racket e dell’usura che hanno deciso di lottare e aiutare gli altri, facciamo volontariato, mentre lo sportello antiracket Salento vive perché ha ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro”.

L’INDAGINE DELLA CORTE DEI CONTI DI NAPOLI – E a proposito di quel finanziamento, a gennaio 2014 si diffuse la notizia che la Corte dei Conti di Napoli stava indagando sul trasferimento di fondi pubblici a favore di alcune associazioni antiracket. Al centro i 13 milioni e 433mila euro stanziati dall’Unione Europea e arrivati agli inizi del 2012 che facevano parte del Pon-Sicurezza, il Programma Operativo Nazionale finanziato per lo sviluppo del Mezzogiorno. E al Sud nell’albo prefettizio risultavano attive oltre cento associazioni antiracket. I fondi, però, furono destinati solo a tre di esse, tra cui l’Antiracket Salento, che ha ottenuto qualcosa come un milione e 862mila euro. Già a marzo del 2012, in realtà, le associazioni ‘La Lega per la Legalità’ ed ’S.O.S. Impresa’ avevano inviato una lettera all’allora ministro Anna Maria Cancellieri, denunciando l’esistenza di una vera e propria “casta dell’antiracket”. Lino Busà, presidente di S.O.S Impresa, commentando l’indagine fece proprio il suo nome: “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Alfredo Mantovano”. La presidente smentì di essere coinvolta nell’indagine della Corte dei Conti, sottolineando la correttezza dell’iter che aveva portato al finanziamento degli sportelli antiracket. Di fatto l’associazione non ha partecipato ad alcun bando pubblico. E Busà ricordava che sia le norme italiane che quelle europee prevedono, invece, “bandi ed avvisi pubblici”, arrivando a parlare di “una trattativa privata”.

LO SCANDALO DEI CONSULENTI CHE CHIEDEVANO SOLDI – Un anno dopo, nel luglio 2015, un’altra inchiesta della procura di Lecce ha coinvolto l’associazione. Un avvocato e un commercialista sono finiti nel registro degli indagati, accusati di avere estorto denaro durante la loro attività di consulenti allo sportello Antiracket di Lecce. Nel fascicolo del procuratore Cataldo Motta si parlava di parcelle che andavano dai 100 ai 900 euro per gli imprenditori che si rivolgevano all’associazione per chiedere pareri sui tassi di interesse dei mutui accesi con le banche. In quella occasione, però, le accuse partirono proprio dalle denunce presentate da un imprenditore, dalla presidente dell’associazione Maria Antonietta Gualtieri e da altre due persone. Il rapporto di collaborazione tra i due consulenti e lo sportello antiracket si interruppe, ma i consulenti depositarono una una querela per calunnia contro la presidente Gualtieri.

Parma, usavano associazione anti-usura per portare soldi all'estero e non pagare le tasse: 8 arresti. Coinvolta anche l'ex candidata sindaco della città Wally Bonvicini. I patrimoni occultati in Slovenia, Croazia e Senegal per un giro di decine di milioni di euro, scrive Raffaele Castagno il 18 settembre 2017 "La Repubblica". La Guardia di Finanza di Parma ha scoperto un'associazione a delinquere specializzata nell’occultare, in società estere, i patrimoni di coloro che erano in debito con l’erario per evitare che fossero sequestrati. L’operazione è scattata tra sabato e domenica scorsi per il concreto pericolo di una fuga all’estero degli indagati: due, infatti, sono stati bloccati per strada a Reggio Emilia ed uno alla frontiera con la Slovenia. Gli arrestati sono sette cittadini italiani a cui si aggiunge una persona originaria del Senegal tuttora latitante. Il gruppo faceva parte dell'associazione antiusura Federitalia con sede a Parma. Tra loro anche Wally Bonvicini, candidata a sindaco di Parma nel 2012 e nota per le sue continue denunce contro la pressione fiscale alle imprese. La donna si trova in carcere a Modena, altri due imprenditori parmigiani sono ai domiciliari. Nel complesso è stato smantellato un gruppo criminale composto da 26 persone, tutte indagate, specializzato nell’occultare i patrimoni immobiliari e mobiliari di soggetti che, seppur solvibili, avevano deciso di non pagare le imposte verso l’erario a loro carico o i prestiti contratti. I reati di cui sono accusati spaziano dalla sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alla mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, fino alla calunnia. Le ingenti disponibilità economiche - per un valore di circa 7 milioni di euro - sono state sequestrate dai finanzieri che hanno anche notificato a un notaio e un imprenditore l’interdizione allo svolgimento di attività professionali e di impresa. La Finanza ha calcolato decine di milioni di euro spostati su società estere, in particolare in Slovenia, Croazia e Senegal, attraverso l'apertura di trust o l'affitto di rami d'azienda o la cessione di quote societarie. Le attività economiche, tuttavia, continuavano senza soluzione di continuità agli occhi dei clienti: una volta creata sulla carta la società estera, infatti, veniva contestualmente aperta una unità locale in Italia che, ovviamente, coincideva con la sede della società o azienda originaria. L'indagine, coordinata dalla Procura di Parma e durata due anni, è scattata dopo la denuncia di una imprenditrice raggirato dalla stessa associazione: a fronte di u debito con l'erario ha versato 350 mila euro che non ha più visto rientrare nella sua disponibilità nonostante gli fosse stato garantito una sorta di vitalizio. Il sistema di frode, infatti, mirava anche ad approfittare della debolezza psicologica di taluni imprenditori in difficoltà economiche, al fine di incassare, da quest’ultimi, non solo laute parcelle per l’avvio della procedura criminale offerta dall’associazione ma anche le risorse economiche ancora a loro disposizione, illudendoli di una restituzione nel tempo. È emerso anche il caso di un’azienda di pavimenti in legno che non aveva versato l’iva per 60 mila euro, pur avendo un patrimonio aziendale di 240mila euro. Tra le pieghe dell'inchiesta è emerso che a ricevere le notifiche del fisco era un membro del gruppo domiciliato in Slovenia che controfirmava gli atti con nomi fittizi: Renato Pozzetto e John Wayne i più ricorrenti. Nel corso dell'operazione, denominata "Parola d'ordine", sono stati impiegati un centinaio di finanzieri che hanno eseguito anche sequestri di immobili, aziende, quote societarie e autovetture e perquisizioni ad Arezzo, Pordenone, Trieste, Savona, Padova, Verona, Milano, Pistoia, Ravenna, Reggio Emilia, Salerno, Chieti e Ferrara. Individuati ben 49 trust nonché riscontrati 71 cessioni di quote societarie, 12 affitti immobiliari, e 3 cessioni di rami di azienda, a fronte di debiti tributari non pagati per milioni di euro. L'associazione copriva la propria attività promuovendo denunce e querele davanti a disparate Procure nazionali nonostante finissero sistematicamente in archiviazione per infondatezza; da qui la calunniosità delle accuse: le denunce, infatti, venivano riproposte identiche pur nella perfetta consapevolezza dell’innocenza dei soggetti accusati di usura ed estorsione. Il Gip Parma Mattia Fiorentini ha disposto l’emissione otto ordinanze di custodia cautelare di cui 4 in carcere e 4 ai domiciliari, nonché l’interdizione dall’esercizio di attività professionali e di impresa per un notaio e per una imprenditrice, il sequestro della sede dell’Associazione Antiusura, 7 società, 3 conti correnti nonché partecipazioni societarie di 41 persone giuridiche, 16 immobili, 2 siti internet e disponibilità liquide per quasi 7 milioni di euro. Le intercettazioni - "Si può fallire ma ciò che è nel trust non può essere aggredito" - Questa una delle frasi colte dalle intercettazioni, ripetuta da Wally Bonvicini, che gli inquirenti considerano la figura principale dell’organizzazione.  La 65enne imprenditrice è nota a Parma per le sue continue denunce contro la pressione fiscale, tanto da farne uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale nel 2012.  "Conviene aprire una società all’estero - commenta un altro indagato - basta che non fosse l’Europa". Particolarmente apprezzata la scelta del Senegal: “Basta che diamo 500 euro a un ufficiale giudiziario e non verranno a cercarci per i prossimi dieci anni".

Ed ancora…

Taranto, minacce sessuali a giornalista: indagato il capo dello sportello antiracket. Michele Cagnazzo è accusato di aver inviato una lettera minatoria rivolta anche contro se stesso: secondo gli investigatori lo scopo era quello di accreditarsi come paladino antiusura, scrive l'8 settembre 2017 "La Repubblica". Era a capo dello Sportello antiracket Casartigiani di Taranto e in questa funzione aveva svolto diverse iniziative contro le estorsioni, invitando imprenditori e cittadini a ribellarsi e offrendo loro assistenza legale. Ora è accusato, ed è stato chiesto il rinvio a giudizio per aver simulato minacce e avvertimenti pur di essere sotto i riflettori della cronaca. Nel mirino anche una giornalista, collaboratrice del Quotidiano di Puglia. Dovrà affrontare un processo, perchè ritenuto responsabile di minaccia aggravata, Michele Cagnazzo, 50enne residente a Taranto con precedenti specifici e "da sempre autoreferenziatosi quale paladino di onestà e giustizia per le sue campagne antiracket e antiusura", dicono dalla questura di Taranto in una nota. "A tradirlo - secondo gli investigatori - è stata proprio la sua eccessiva e malcelata voglia di protagonismo attraverso una tanto inquietante quanto maldestra strategia". "Nello scorso marzo il quotidiano pubblicava un articolo a firma in cui veniva presentata l'istituzione dello sportello antiracket di Casartigiani Taranto, di cui Cagnazzo era responsabile. Pochi giorni dopo la pubblicazione, nella sede di Taranto della testata fu recapitato un plico al cui interno vi erano pesanti minacce di morte ai referenti dello sportello antiracket e di stupro alla redattrice dell'articolo se non avesse smesso di occuparsi di tali fenomeni criminosi". La denuncia delle minacce violente e sfondo sessuale, in particolare a ridosso della giornata dell'8 marzo, ha allarmato la Digos di Taranto, che, nel giro di pochi giorni è riuscita a individuare il presunto colpevole delle intimidazioni". E' stato così appurato che le minacce non provenivano da esponenti della malavita organizzata, ma da chi voleva costituirsi una posizione meritoria all'interno dello sportello antiracket. Secondo gli investigatori, la lettera avrebbe generato un tale clamore mediatico da cui poter trarre vantaggi "visto che conteneva anche minacce contro lo stesso Cagnazzo". Chiuse le indagini, il sostituto procuratore Enrico Bruschi ha avanzato la richiesta di rinvio a giudizio sulla base di "chiari e concreti elementi di colpevolezza". "Apprendo dalla stampa con sconcerto, ma con animo tranquillo, lo scempio e l'indecenza della notizia che mi riguarda e cercherò nei prossimi giorni non solo di capire ma di chiarire nelle sedi opportune la mia posizione, totalmente estranea nel merito dell'accaduto", replica Cagnazzo in una nota sostenendo che si sta cercando di delegittimarlo. "Quello che mi preme rimarcare da uomo, marito, padre e poi professionista, impegnato da circa vent'anni nella lotta alla criminalità organizzata e mi dispiace se qualcuno non lo abbia compreso - afferma ancora Cagnazzo - che l'obiettivo era fermarmi, fermarci. E' notoria l'azione che stavamo svolgendo sul territorio in ambito antiracket e antiusura, abbiamo subito attacchi e abbiamo risposto in maniera inequivocabile ed incontrovertibile. Abbiamo cercato di risvegliare coscienze ponendo sul campo strategie contro racket e usura, che qualcuno continua ad affermare che a Taranto questi fenomeni non esistono".

«Zitta o ti violentiamo», sotto inchiesta direttore antiracket. Le minacce a una giornalista di Quotidiano, scrive Alessandra LUPO su "Il Quotidiano di Puglia" Giovedì 7 Settembre 2017. Credeva di raccontare una cosa bella, Alessandra Macchitella, giornalista tarantina trentenne, collaboratrice del Nuovo Quotidiano di Puglia che dalle colonne del giornale aveva scritto dell’istituzione di un nuovo sportello antiracket nella città di Taranto, nato in seno a CassaArtigiani. Ma purtroppo quell’articolo le è costato caro: pesanti minacce anonime e mesi di ansia che l’hanno costretta a farsi accompagnare anche negli spostamenti più banali, condizionando pesantemente il suo lavoro. Fino alla svolta delle indagini, del tutto inattesa, arrivata ieri. Tutto era iniziato nel marzo scorso, infatti, dopo che la collega aveva scritto del nuovo ente, di cui era responsabile Michele Cagnazzo, intervistando il cinquantenne tarantino promotore di numerose campagne antiusura e antiracket. Pochi giorni dopo la pubblicazione degli articoli, però, nella sede tarantina del Quotidiano giunse una lettera contenente minacce di morte non solo contro i responsabili dello sportello ma anche rivolte alla giornalista. In un plico, infatti, le fotocopie di due articoli, uno sullo sportello e l'altro riguardante la diffusione di droga nel quartiere. In entrambi i volti e la firma cerchiati con mirini e frasi minacciose. Alla giornalista, però, è stato riservato anche un altro trattamento: quello della minaccia di violenza sessuale qualora si fosse occupata ancora di lotta all’usura e al racket delle estorsioni. “Ti stupriamo: lascia droga, racket e usura: sei avvisata”, si legge accanto al suo nome e in un’altra lettera una sua fotografia con una scritta a penna sul volto. Immediata la denuncia, con l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Taranto e l’avvio delle indagini affidate alla Digos. Indagini condotte in maniera «eccellente», tanto dal punto di vista umano che professionale, ha spiegato la vittima. E che hanno portato alla svolta decisiva: secondo gli inquirenti a inviare la missiva non sarebbe stata affatto la malavita tarantina, come si credeva in un primo momento, bensì lo stesso Cagnazzo - allora responsabile dello sportello antiracket - evidentemente a caccia di visibilità per la sua attività. Nei suoi confronti la Procura tarantina, nella persona del sostituto procuratore Enrico Bruschi, ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di minaccia aggravata. I poliziotti sono arrivati a lui attraverso le immagini di videosorveglianza dell’ufficio postale, dove l’uomo si era recato a inviare la raccomandata. A confermare i sospetti è stata poi la perizia calligrafica sui fogli. Ora sarà il giudice delle indagini preliminari a decidere nell’udienza che si terrà a novembre. Ma intanto il caso fa riflettere per vari motivi: il primo, senza voler generalizzare, è che un reato come la minaccia di morte e stupro possa maturare in un’associazione antiracket. Il secondo, ancora più odioso, riguarda il sessismo strisciante nella maldestra vicenda: tutti sono minacciati di morte ma la giovane donna anche di stupro. Alessandra, che si occupa spesso di tematiche di genere, dev’essere sembrata la vittima ideale tanto più che la lettera è stata spedita alla vigilia della festa della donna. Un tempismo perfetto insomma, tra gli elementi di una miscela mediatica potenzialmente esplosiva che secondo chi indaga avrebbe voluto richiamare sullo sportello solidarietà e interesse. Il giornale, però, decise di non divulgare le lettere minatorie ma di sporgere invece denuncia. «Io venni contattata dalla redazione per il plico - racconta Alessandra - ma per tutelare le indagini non ne scrivemmo mantenendo il massino riserbo». Ora, se l’uomo sarà riconosciuto colpevole - lei potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo e tornare alla vecchia vita. «La cosa più brutta è stato essere bloccata - racconta ancora -: per un po’ non ho potuto occuparmi per precauzione di alcune tematiche, ma quello che mi ha davvero ferita delle minacce è stato il riferimento alla violenza sessuale, un modo di colpirmi non solo come giornalista ma come donna».

Taranto. Una lettera di minaccia per tutti. Questa vicenda dovrebbe far riflettere un pò di più i cittadini di Taranto, le forze dell’Ordine, ma soprattutto i giornalisti locali, che hanno notoriamente. e non soltanto secondo il sottoscritto un brutto vizio: dare troppa visibilità alle persone, quando invece nel nostro lavoro si dovrebbe concentrare l’attenzione sui fatti, scrive Antonello de Gennaro l'8 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". Alessandra Macchitella, è una giornalista tarantina trentenne, una persona molto educata che e soprattutto una collega che rispetta il prossimo, ed i suoi colleghi, ed è per questo che la stimiamo. Alessandra è una collaboratrice del Nuovo Quotidiano di Puglia e sulle pagine di questo giornale aveva scritto un articolo sull’apertura di un nuovo sportello antiracket nella città di Taranto, nato in seno a Confesercenti-Confartigianato, associazioni alle quali Michele Cagnazzo ha fatto causa per ottenere un assunzione a tempo indeterminato, per poi passare armi…e bagagli sotto le insegne di Casartigiani-Confcommercio insieme ai quali operava, come questi video dimostrano.

Cagnazzo con precedenti specifici e da sempre autoreferenziatosi quale paladino di onestà e giustizia per le sue campagne antiracket e antiusura, si è tradito proprio per la sua eccessiva e malcelata voglia di “protagonismo” attraverso una tanto inquietante quanto maldestra strategia. Nessuno meglio del sottoscritto può capirla avendo ricevuto per oltre un anno lo stesso trattamento, a mezzo di atti vandalici sulla macchina, lettere diffamatorie rigorosamente “anonime” diffuse in lungo e largo per la città, lettere di minacce, culminato con l’incendio della mia autovettura nello scorso marzo avvenuto lo scorso marzo a Taranto. Avvenimento questo, le cui indagini ancora sono in corso, che ha indotto il nuovo Prefetto di Taranto a disporre l’alzamento del livello di tutela sulla mia persona affidato alla Polizia di Stato che vigila sulla mia incolumità in occasione dei miei soggiorni nel capoluogo jonico. Anche la vicenda che ha coinvolto la giovane collega Macchitella era iniziata nel marzo scorso, a seguito di un articolo che la collega aveva scritto sul Quotidiano del nuovo sportello antiracket, di cui era responsabile il cinquantenne tarantino Michele Cagnazzo, promotore di numerose campagne anti-usura e antiracket intervistandolo. Articolo che è costato molto caro alla Macchitella. Infatti le sono subito arrivate pesanti minacce anonime ed ha dovuto vivere mesi di tensione e preoccupazione che l’hanno costretta ad essere sempre accompagnata anche negli spostamenti più brevi, condizionando pesantemente la sua vita personale ed il lavoro che ha sempre svolto diligentemente. Qualche giorno dopo la pubblicazione arrivò presso la redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia una lettera piena di minacce di morte non solo contro i responsabili dello sportello ma anche nei confronti della giornalista. All’interno della busta vi erano le fotocopie di due articoli, uno sulla la diffusione della droga e dei volti cerchiati con mirini e minacce esplicite. Alla collega Macchitella, invece, era stato scelto anche un altro “metodo”: quello della minaccia di violenza sessuale se si fosse occupata nuovamente di lotta all’usura e del racket delle estorsioni. Con delle pesanti minacce molto esplicite: “Ti stupriamo: lascia droga, racket e usura: sei avvisata” scritto accanto al suo nome, ed in un’altra lettera una sua fotografia con una scritta minacciosa a penna sul volto. Chiaramente venne presentata una querela, con l’apertura di un’inchiesta da parte e l’avvio delle indagini affidate alla Digos dalla Procura di Taranto.

Il capo della redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia, decise con saggezza ed intelligenza, di non divulgare le informazioni ma di sporgere invece denuncia. “Venni contattata dalla redazione per il plico – racconta la Macchitella – ma per tutelare le indagini non ne scrivemmo». Ora, se l’uomo sarà riconosciuto colpevole – lei potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo e tornare alla vecchia vita. «La cosa più brutta è stato essere bloccata – racconta ancora – per un po’ non ho potuto occuparmi per precauzione di alcune tematiche, ma quello che mi ha davvero ferita delle minacce è stato il riferimento alla violenza sessuale, un modo di colpirmi non solo come giornalista ma come donna». Ma ieri vi è stata una svolta nelle indagini “condotte in maniera eccellente, tanto dal punto di vista umano che professionale”, ha commentato questa mattina la Macchitella sul Quotidiano, Infatti le indagini sono arrivate alla svolta decisiva: secondo gli investigatori ad inviare la lettera non sarebbe stata responsabile la malavita tarantina, ma lo stesso Cagnazzo – all’epoca dei fatti  responsabile dello sportello antiracket – il quale evidentemente è una delle tante persone di Taranto a caccia di uno stipendio e di visibilità per la propria attività che sopravvive esclusivamente grazie a contributi e fondi “pubblici”.  Secondo la Polizia di Stato la lettera, inviata il 7 marzo e che sarebbe dovuta pervenire alla destinataria proprio il giorno della “festa della donna”, avrebbe generato un tale clamore mediatico da cui poter trarre vantaggi, visto che conteneva anche minacce contro se stesso riconducibili all’asserita attività di contrasto ai fenomeni criminali estorsivi quale responsabile dello sportello Antiracket.

La procura di Taranto ha chiesto il   rinvio a giudizio del Cagnazzo con l’accusa di “minaccia aggravata” sulla base quindi di chiari e concreti elementi di colpevolezza grazie all’ulteriore supporto di accertamenti tecnico-scientifici. Gli investigatori della Digos sono arrivati alla sua identificazione infatti attraverso le immagini filmate del sistema di videosorveglianza dell’ufficio postale, da cui era partita la raccomandata dalle quali si vede il Cagnazzo mentre spedisce la lettera di minacce. I sospetti sono stati confermati dalla perizia calligrafica disposta sui fogli scritti a mano. Adesso sarà quindi il giudice delle indagini preliminari a decidere per la fissazione nell’udienza che potrebbe tenersi a novembre. Questa vicenda dovrebbe far riflettere un pò di più i cittadini di Taranto, le forze dell’Ordine, ma soprattutto i giornalisti locali, che hanno notoriamente. E non soltanto secondo il sottoscritto un brutto vizio: dare troppa visibilità alle persone, quando invece nel nostro lavoro si dovrebbe concentrare l’attenzione sui fatti. E’ questo malvezzo che porta poi delle persone mitomani desiderose di uscire dal torpore del loro anonimato e spesso di un’esistenza insulsa e squallida, e fare qualsiasi cosa per apparire, di vedere il suo none e la sua fotografia pubblicata sulla carta stampata o online pur di “esserci”. Forse un pò di autocritica e di maggiore attenzione e riflessione servirebbe alla stampa locale a riprendersi dal torpore in cui vegeta ed a ritrovare la voglia di fare giornalismo, che non si fa solo con le interviste o le conferenze stampa, ma con la cronaca fatta per strada, con le inchieste che fanno scaturire indagini e provvedimenti della magistratura. Tutto ciò cari lettori è il “vero” giornalismo. Il resto è noia per chi legge e spesso anche per chi scrive ricevendo quando va bene… somme che oscillano fra i 5 ed i 10 euro netti ad articolo. Concludendo non possiamo che essere felici che questa amara vicenda sia finita, e che finalmente il sorriso possa ritornare sul viso della splendida collega Alessandra Macchitella, e complimentarci con la Polizia di Stato per l’efficienza dimostrata nel corso dell’indagine. Restiamo in attesa di poter scrivere qualcosa di simile sulla vicenda dell’incendio dell’autovettura. Chi ha scritto quelle volgari minacce ad Alessandra Macchitella ci auguriamo possa ricevere una pesante punizione dalla Giustizia, e non solo, ma anche dalla città, emarginando lui e chi ha avuto fiducia nello “strumentale” operato di quella specie di uomo che si chiama Michele Cagnazzo.

Ma di lui si è già parlato sul giornale di Antonello De Gennaro. Il 27 febbraio 2015. Aggredito da 3 uomini il responsabile dello sportello antiracket, scrive "Il Corriere di Taranto". Michele Cagnazzo, responsabile di uno sportello antiusura ed antiracket di Taranto, 48enne originario di Bari ha denunciato ai Carabinieri di essere stato avvicinato e spintonato mentre si trovava in viale Magna Grecia da dei malviventi subito dopo essere uscito da una banca, venendo aggredito da tre uomini. Cagnazzo a seguito dell’aggressione è caduto per terra, e quindi si è rialzato rifugiandosi all’interno della banca, per poi recarsi in ospedale e sottoporsi a degli accertamenti, a seguito delle quali sono state riscontrate lesioni all’omero giudicate guaribili in 30 giorni. I tre ignoti aggressori si sono immediatamente dileguati. I Carabinieri del Nucleo Operativo Radiomobile dopo aver raccolto la sua testimonianza, hanno quindi avviato le indagini per identificare i responsabili ed accertare se l’aggressione sia riconducibile all’attività professionale della vittima.

Caso della giornalista minacciata: interviene il responsabile dell'associazione antiracket. Michele Cagnazzo: «Sono estraneo a quanto mi è stato contestato», scrive "Manduria Oggi" l'8/09/2017. «Apprendo dalla stampa con sconcerto ma con animo tranquillo, lo scempio e l’indecenza della notizia che mi riguarda e cercherò nei prossimi giorni non solo di capire ma di chiarire nelle sedi opportune la mia posizione, totalmente estranea nel merito dell’accaduto». A parlare è Michele Cagnazzo. «Magari questa può sembrare un’autodifesa, ma non lo è se si va a guardare oltre la becera notizia, ovvero nel merito, che nulla ha d’interesse pubblico se non un unico obiettivo: delegittimarmi. Nel merito ci ritornerò più avanti. Quello che mi preme però sottolineare da uomo, marito, padre e poi professionista, impegnato da circa vent’anni nella lotta alla criminalità organizzata e mi dispiace se qualcuno non lo abbia compreso, che l’obiettivo era fermarmi, fermarci. E’ notoria l'azione che stavamo svolgendo sul territorio in ambito antiracket e antiusura, abbiamo subito attacchi e abbiamo risposto in maniera inequivocabile ed incontrovertibile. Abbiamo cercato di risvegliare coscienze ponendo sul campo strategie contro racket e usura che qualcuno continua ad affermare che a Taranto questi fenomeni non esistono. Ritornando nel merito, qualcuno dovrà spiegarmi quale interesse abbia avuto a disincentivare l’attività giornalistica in materia di mafia, usura ed estorsioni con squallide minacce che non mi sono mai appartenute? L’attività della stampa e dei giornalisti rappresenta l’essenza del nostro stesso lavoro? Poi chiunque volesse inviare una minaccia, credo che non lo farebbe entrando in una posta munita di videosorveglianza e per di più facendo una raccomandata con nome e cognome e manoscrivendola? Questo credo che equivalga a fare una rapina e lasciare il proprio documento d’identità. Credo che tutti dovremmo porci questi interrogativi, come credo che non avessi bisogno di tale ingiustificata e becera pubblicità. La mia storia di uomo è molto chiara, a torto o ragione. La mia storia è stata costellata di minacce di vario tipo e genere, ma ho sempre continuato mettendoci la faccia a rischio continuo della mia incolumità fisica (vedasi aggressione subita nel 2015). Questa ne è un’incancellabile ed eterna testimonianza. Come diceva il compianto G. Falcone: “Quando si entra in un gioco grande o ti ammazzano o ti delegittimano”».

Chi è Michele Cagnazzo? Lo scopriamo dal suo blog e da quello che lui scrive di se stesso.

MICHELE CAGNAZZO NOMINATO RESPONSABILE "UFFICIO ANTIRACKET-ANTIUSURA" A TARANTO. Lunedì 13 aprile 2015. Un ufficio antiracket-antiusura è l’iniziativa presentata questa mattina dalla Confesercenti e dalla Confartigianato di Taranto. Presenti all’incontro il Presidente di Confesercenti Taranto Vito Lobasso, Fabio Paolillo per Confartigianato, Michele Cagnazzo, criminalista ed esperto in Scienze criminologiche applicate, nominato coordinatore e responsabile dell’Ufficio. La promozione dell’apertura dell’Ufficio Antiracket–usura da parte delle due associazioni, con annesso Centro di ascolto, vuole offrire ai soggetti che denunciano usura ed estorsioni una completa assistenza per la soluzione dei problemi economici e finanziari, per affrontare le situazioni di crisi delle piccole e medie aziende associate. Il fenomeno dell’usura a Taranto e provincia è estremamente insidioso, anche alla luce dell’attuale crisi economica. Di conseguenza, le risposte al fenomeno sono affidate alla messa in atto di strumenti di contrasto e di repressione da un lato e di sostegno e di prevenzione dall’altro. Ed è proprio su questi aspetti che si concentrerà l’attività del nuovo Ufficio Antiracket – usura. L’obiettivo dello sportello è quello di assicurare una necessaria azione di sostegno nei confronti delle piccole e medie imprese che sono vittime del racket. “Avremmo preferito non aver bisogno di creare questa attività – afferma il Presidente di Confesercenti Vito Lobasso – purtroppo però il nostro territorio ha questa esigenza. Il messaggio che ci preme veicolare ai piccoli e medi commercianti è di fare sempre affidamento sulla nostra presenza, in quanto perseguiamo tutti lo stesso scopo: la tutela della legalità”. Lobasso mette in evidenza un’iniziativa presentata precedentemente che mira ad allontanare questi fenomeni, Operazione ripresa, un’intesa a quattro tra Interfidi, BCC di San Marzano, Confartigianato e Confesercenti per sostenere il rilancio dell’artigianato e del commercio sul territorio tarantino. Confesercenti e Confartigianato hanno stipulato una convenzione con il consorzio di garanzia collettiva fidi Interfidi con lo scopo di assistere le piccole e medie imprese nell’accesso al credito. “A Taranto la situazione non è allarmante ma preoccupante – specifica il criminalista Michele Cagnazzo – il 42% delle imprese sono sotto estorsione ed usura e circa 8.600 famiglie, per un giro d’affari complessivo di 300 milioni di EURO. Dobbiamo fare i conti con una tipologia di reati subdoli perché vivono di silenzio e omertà. L’ufficio si rivolgerà a tre categorie, in fase preventiva alle imprese che hanno un sovraindebitamento e difficoltà economiche, quindi a rischio usura; una seconda categoria a chi è già sotto usura e racket ma non ha ancora maturato la decisione di denunciare e una terza categoria per chi ha già fatto denuncia, a cui forniremo assistenza amministrativa e tutoraggio in fase di ripresa dell’azienda per portare ad accedere ai fondi di solidarietà. Vogliamo far recuperare la normalità alla vittima”. Oltre ai dati numerici che derivano dall’Osservatorio statistico nazionale Confesercenti, il messaggio di Cagnazzo si riassume in una frase: “Ci siamo, non siete più soli”. Il responsabile dell’ufficio Cagnazzo lancia anche una provocazione al sindaco di Taranto: “Perché il Comune attraverso un regolamento interno non propone sgravi fiscali per le imprese che denunciano fenomeni di racket ed usura?”. “Molti problemi non sono denunciati per paura – afferma Fabio Paolillo di Confartigianato – ma si può uscire da questi fenomeni mostrando fiducia allo Stato”. Presente all’evento anche il Questore di Taranto Giuseppe Mangini che dichiara: “Abbiamo il dovere di affiancarvi. Tutte le iniziative che servono ad aumentare la sensibilità verso questo problema trovano il nostro sostegno”.

Michele Cagnazzo ex IDV, l'Italia dei Valori di Di Pietro, il partito della sedicente legalità.

Si legge sempre dal blog di Michele Cagnazzo.

CAGNAZZO E ZAZZERA (IDV): “TUTTI CON UN’AGENDA ROSSA TRA LE MANI". Venerdì 17 luglio 2009. “Sarà un modo per ricordare Paolo Borsellino e la sua scorta, un modo migliore però per ricordarlo sarebbe anche trovare l’agenda rossa che Paolo aveva con sé nella strage di Via D’Amelio. Colui che ancora oggi possiede questa agenda si nasconde, ricattando mezza classe politica nei Palazzi della vecchia e cattiva politica”. A parlare sono Pierfelice Zazzera e Michele Cagnazzo, rispettivamente Segretario Coordinatore Regionale e Responsabile dell’Osservatorio Regionale sulla Legalità – Dipartimento Antimafia-Prevenzione-Sicurezza. Pertanto Lunedi 20 luglio invitiamo davanti alla Procura della Repubblica di Bari associazioni e cittadini che ancora oggi tengono alle sorti di questo Paese, per restituirgli un volto nuovo e credibile, e per chiedere semplicemente delle risposte allo Stato. Dove l’agenda rossa di Paolo Borsellino sottratta nella strage di Via D’Amelio rappresenta una probabile chiave di soluzione in riferimento alla famosa trattativa tra i nuovi referenti politici e Cosa Nostra. Continuano Zazzera e Cagnazzo “dopo 17 anni riteniamo che nulla sia cambiato. Anzi la mafia si è trasformata da associazione a delinquere in sistema democraticamente rappresentato. E questo riteniamo costituisca la prima ed autentica emergenza del nostro Paese, oltre all’impressione che, ai piani alti del potere, quelle verità indicibili le conoscano in tanti, ma siano tutti d’accordo nel tenerle coperte da una spessa coltre di omissis, per sempre. Tutto ciò concludono Zazzera e Cagnazzo “perché l’agenda rossa costituisce la scatola nera della seconda Repubblica”.

E poi...

Di Stanislao indagato nella rimborsopoli pugliese, scrive il 19 gennaio 2016 Barbara Orsini su "Rete 8". Secondo la procura di Bari l’ex parlamentare dell’Idv, Augusto Di Stanislao, avrebbe percepito indebitamente rimborsi per benzina e alberghi: è indagato insieme ad altre due persone. Guai giudiziari per l’ex parlamentare dell’Idv ed ex consigliere regionale Augusto Di Stanislao: il suo nome, insieme a quello di altre due persone, è finito nel registro degli indagati nell’ambito di un’inchiesta della procura della Repubblica di Bari su rimborsi indebitamente percepiti. Una sorta di rimborsopoli pugliese che vede Di Stanislao indagato nella veste di commissario regionale dell’Idv in Puglia: l’arco temporale passato al setaccio è quello che va da giugno 2011 a marzo 2013. Un’inchiesta innescata dalla denuncia di un dirigente del partito di Antonio Di Pietro, tal Michele Cagnazzo, che ha fatto finire nel ciclone giudiziario l’ex tesoriera regionale del partito in Puglia e un suo braccio destro. L’accusa per tutti, incluso Di Stanislao, è di appropriazione indebita: si parla, nello specifico, di rimborsi per oltre 8500 euro divisi tra spese di carburante, ristoranti e alberghi. Un caso in particolare è balzato agli occhi degli inquirenti: un rifornimento di benzina per un pieno alla ‘Maserati 3200′ di Di Stanislao a cui ci si domanda se l’ex dell’Idv avesse diritto oppure no. Accuse ancora tutte da provare in sede dibattimentale.

Idv, spunta il sex-gate. Prestazioni sessuali in cambio di una promessa di lavoro in Parlamento. A Bari una denuncia contro il senatore Pedica e l'onorevole Zazzera. La donna parla apertamente di ricatti, ovviamente tutti da dimostrare, scrive Riccardo Bocca su "L'Espresso" il 16 giugno 2011. Non bastavano le recenti amarezze elettorali, a guastare il trionfo dell'Italia dei Valori ai referendum. Adesso c'è anche la denuncia presentata il 14 giugno alla Procura di Bari da Michele Cagnazzo, esperto di criminalità organizzata ed ex responsabile per l'Idv dell'Osservatorio pugliese sulla legalità. La storia che emerge da queste pagine è un misto di sesso e politica, segreti e fragilità umane. Uno scenario tutto da dimostrare, naturalmente, al centro del quale si trova C. M., una donna di 31 anni che Cagnazzo incontra nell'aprile 2010 negli uffici baresi dell'Italia dei Valori. "Dopo alcune frequentazioni", scrive nella denuncia, "mi accorsi del fatto che versava in uno stato di non indifferente alterazione emotiva", tant'è che in seguito, acquisita maggiore familiarità, "mi confidava di essere stata vittima di insistenti avances e ricatti da parte del senatore della Repubblica Stefano Pedica e del deputato Pierfelice Zazzera, entrambi iscritti all'Idv". Personaggi non secondari. Zazzera, 43 anni, all'epoca dei fatti era parlamentare Idv e coordinatore regionale del partito in Puglia. Mentre il senatore Pedica, 53 anni, ha una storia che parte dalla Democrazia cristiana, continua nell'Udr di Francesco Cossiga, e sfocia dopo la fondazione del Movimento cristiano democratici europei nel partito dipietrista. "La stessa M.", scrive Cagnazzo, "mi riferiva che, avendo partecipato in qualità di simpatizzante a diversi dibattiti e conferenze, aveva conosciuto entrambi gli esponenti". E che tutti e due avrebbero iniziato, in tempi diversi, "a compulsarla con insistenti inviti e richieste di appuntamenti al di fuori dell'ordinaria attività politica". L'intenzione della donna ("Laureata in giurisprudenza e inoccupata") nell'accettare una serie di inviti, è a detta di Cagnazzo "comprendere se ci fossero opportunità di lavoro". Tant'è che Zazzera, "avendone carpito lo stato di necessità (...) continuò a tempestarla di telefonate e sms con ripetuti inviti a incontri clandestini", svoltisi all'hotel A. di Massafra (Taranto) "dal maggio 2009 all'ottobre 2009". Circostanze, recita la denuncia, che "si possono evincere benissimo dai registri presenze del suddetto albergo", e che comprenderebbero la promessa di Zazzera a M. "di farle ottenere un posto di lavoro presso l'ufficio legislativo del Parlamento ". In cambio, si legge, l'onorevole "chiedeva favori sessuali", e M., "per quanto mi ha riferito, proprio perché versava in gravi difficoltà (...) accettò di accondiscendere alle richieste". In questo contesto, dunque, va ambientata la seconda parte della vicenda. A un certo punto, Cagnazzo racconta che Zazzera avrebbe invitato "M. a Roma presso il proprio alloggio privato dicendole che era necessaria la presenza di lei, sia perché consegnasse il curriculum, sia per sottoscrivere (...) documenti finalizzati a perfezionare un rapporto di lavoro". L'onorevole, anche in quei giorni, avrebbe chiesto alla donna "insistentemente prestazioni sessuali, promettendole in cambio il proprio definitivo interessamento per la stipula di un contratto". Dopodiché, scrive Cagnazzo, "M., per quanto mi ha riferito, accettò di avere ancora un rapporto sessuale". Sentendosi però precisare da Zazzera che, "se avesse voluto guadagnare definitivamente il ruolo, avrebbe dovuto dedicare le medesime attenzioni sessuali al senatore Pedica"; il quale, "secondo quanto disse Zazzera, avrebbe anche lui messo la buona parola". Il resto è presto sintetizzato. Pedica, denuncia Cagnazzo, avrebbe raggiunto la donna all'hotel M. di Brindisi. Un incontro in cui "il senatore disse che per avere determinati benefici, avrebbe dovuto avere rapporti sessuali con lui". Da parte sua, si legge nella denuncia, "M. accettò ed ebbe, nel dicembre 2009, un rapporto sessuale con il senatore". E sarebbe stato il preludio di un ulteriore appuntamento, "sempre a fini sessuali, nel gennaio 2010". Finché, "constatando che nulla si muoveva sul fronte del lavoro, M. interruppe i rapporti anche telefonici con i due". Scoprendo in seguito, "con somma sorpresa, di risultare tra i candidati alle elezioni regionali 2010 per la Puglia, nella lista Idv, pur non avendo mai proposto né tantomeno accettato la propria candidatura". Per quest'ultimo aspetto, riferisce Cagnazzo assistito dall'avvocato Renato Bucci, la signora "mi disse di essersi rivolta a un legale". E sempre Cagnazzo, a seguito di questa vicenda, dichiara di essersi autosospeso da responsabile dell'Osservatorio Idv pugliese sulla legalità: "Cosa che avvenne nel maggio 2010". Ora tocca agli inquirenti il non facile compito di scoprire che cosa sia veritiero, e cosa eventualmente no, in questa brutta vicenda. Una verifica che, per evidenti ragioni, si spera avvenga al più presto.

Sempre dell’IDV.

Lecce, “shopping coi soldi di una vittima della strada”. Arrestato l’avvocato dello Sportello diritti. Francesco D'Agata, già coordinatore dell'Italia di valori in Salento e paladino dei consumatori in diverse trasmissioni tv nazionali, è accusato di aver truffato una donna senegalese, trattenendo 283mila euro su un risarcimento di oltre 600mila riconosciuto dal Fondo vittime della strada, scrive Tiziana Colluto il 12 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Si è fidata. Perché lui da sempre è stato al fianco dei più deboli, dei consumatori, dei migranti. Lei, ambulante senegalese, il sospetto di poter essere truffata lo ha anche avuto, una volta, ma è stata rassicurata con tanto di sentenza, poi risultata falsificata. Nella bufera finisce Francesco D’Agata, avvocato leccese di 39 anni, noto in tutta Italia per essere attivo nello “Sportello dei diritti” fondato dal padre Gianni, oltre che per essere stato ospite non di rado di trasmissioni televisive sulle reti nazionali e già coordinatore provinciale dell’Italia dei Valori nel Salento.  Per lui, il gip Cinzia Vergine ha disposto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ai domiciliari l’ex collega di studio, l’avvocato Graziano Garrisi, 38 anni. Non è detto che il cerchio sia già chiuso, perché le indagini vanno avanti e molto potrebbe emergere dai documenti sequestrati nelle scorse ore durante le perquisizioni. “D’Agata ha potuto usare il suo background di assistenza nei confronti dei più deboli, approfittando della condizione di minorata difesa della vittima” è l’atto di accusa lanciato in mattinata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta (nella foto). Un porto sicuro lo studio legale di Francesco D’Agata, nella stessa sede dello Sportello dei diritti, in città. La 34enne senegalese, residente nel Salento, non ci ha pensato due volte, anche perché a presentarglielo è stato un connazionale, cognato dell’avvocato. L’uomo giusto, insomma, a cui affidare il suo caso, decisamente serio: nell’aprile 2010, a San Cesario di Lecce, è stata travolta da un’auto, riportando lesioni gravissime. Il responsabile di quel terribile incidente non è mai stato scoperto. Ha intentato, dunque, la causa per il risarcimento danni: il 22 giugno 2015, il Tribunale Civile di Trieste ha imposto al Fondo vittime della Strada di versare a suo favore la somma di 636mila euro, comprensivi di spese. Allianz, la compagnia designata, lo ha fatto in due tranche, con bonifici su un conto corrente intestato alla donna, con domiciliazione presso lo studio legale e sul quale Francesco D’Agata, secondo gli inquirenti, ha operato “a insaputa della signora e senza informarla delle numerose operazioni e movimentazione di denaro”. Alla vera vittima è arrivata solo una parte di quei soldi: 353mila euro. Anche a lei dev’essere sembrato poco, a fronte dei danni patiti. “A richiesta della medesima e per comprovare la bontà del suo operato, D’Agata ha esibito copia conforme all’originale della sentenza falsificata, in quanto alterata negli importi”, è ricostruito nell’ordinanza di custodia cautelare. Nel provvedimento che sarebbe stato ritoccato, la cifra riportata è di 335.565 euro, oltre 22.800 di compensi e 3mila di spese. Stando alle indagini, condotte dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di finanza, D’Agata ha taciuto “la effettiva liquidazione della somma di 636mila euro in favore dell’assistita trattenendo per sé la restante parte di 283mila euro”. Di questi, 160mila euro erano già stati incassati e 122mila euro “bloccati in extremis”, dopo che la vera titolare del conto corrente lo ha congelato in seguito ad un primo colloquio con la polizia giudiziaria. Al caso, infatti, si è giunti indagando su altro. A carico di D’Agata, come di altri due avvocati leccesi ora indagati, è arrivato un anno fa un esposto. Una donna torinese, la cui storia ha fatto il giro d’Italia per gli episodi di mobbing denunciati, lamentava l’infedele patrocinio: nonostante le rassicurazioni e 4mila euro già versati, il suo ricorso in Cassazione non è mai stato depositato. È stata lei a fornire il numero di conto corrente, che ha fatto da filo d’Arianna. “Abbiamo capito che c’era sotto qualcosa quando abbiamo visto che quel conto era intestato alla signora senegalese, che ha dichiarato di non saperne nulla”, ha spiegato il pm Massimiliano Carducci. I movimenti bancari ricostruiti dagli investigatori hanno consentito di tracciare il corso dei soldi: acquisti di mobili, viaggi, la cabina al mare. Ma a pesare non è questo shopping, bensì quello residuale, 43mila euro impiegati in spese professionali. È per questi che si contesta il reato più grave, quello di autoriciclaggio, che si affianca a quello di truffa aggravata continuata, falso in atto pubblico e infedele patrocinio aggravato dall’aver approfittato delle condizioni personali, di disagio culturale e sociale della vittima. “Francesco D’Agata è sereno”, ribadisce il suo legale Luigi Rella. Risponde di concorso negli stessi reati Graziano Garrisi, assistito dall’avvocato Giancarlo Dei Lazzaretti. Al primo sono stati sequestrati conti correnti e beni per il valore complessivo di 203mila euro; al secondo, invece, 15.500 euro, soldi che avrebbe speso utilizzando indebitamente la carta prepagata rilasciata alla donna senegalese, presentandosi al bancomat opportunamente incappucciato.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

Non mi sento italiano…ma per fortuna o purtroppo lo sono…A proposito dello sgombero dell’immobile occupato abusivamente da stranieri a Roma: Perché gli organi di informazione ideologizzati, che hanno perso ogni forma di credibilità, esaltano una frase detta sotto pressione e tensione da un solo poliziotto e sottacciono le violenze a danno degli altri agenti di polizia? E perché gli scribacchini si indignano dello sgombero di un immobile occupato abusivamente e pagato con i fondi pensione dei cittadini italiani, mentre tacciono spudoratamente, quando ad essere cacciati di casa sono quei cittadini italiani vittime di sfratti o esecuzioni forzate, frutto di usure bancarie impunite o di sentenze vendute?

Immobili occupati illegalmente. Il Governo catto comunista, anziché ristabilire l’ordine, spiega che prima dello sgombero, bisogna pensare a trovare una casa agli occupanti criminali. Si pensa di assegnare ai mafiosi occupanti le case confiscate (spesso illegalmente) ai mafiosi o presunti tali. Un vero esproprio proletario a danno dei cittadini onesti italiani (chi mafioso non è ma si vede confiscato un bene e chi, cittadino onesto indigente non occupante, che non si vede assegnare una casa di cui ha diritto.

Finisce in ospedale a 71 anni Gli stranieri le occupano casa. A Milano una pensionata perde l'alloggio popolare Il racket spadroneggia e intimidisce chi alza la testa, scrive Alberto Giannoni, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale".  Rosa non ha più una casa. Era un piccolo alloggio popolare di 23 metri in via Salomone, periferia est di Milano, ma lei - che ha quasi 71 anni - ci aveva lasciato tutto: i vestiti, i pochi mobili, le medicine. Il suo piccolo mondo che adesso non esiste più. «Rosa», così l'abbiamo chiamata noi, è stata ricoverata più di un mese fa per gravi problemi di salute e sei persone hanno occupato abusivamente il suo appartamento, passando da un balcone comunicante. L'invasione è stata denunciata alla polizia il 16 gennaio da un'operatrice delegata del Comune ma il «blitz» è di molto precedente. Il presidente del Consiglio municipale Oscar Strano ne ha avuto notizia circa una settimana fa e l'ha denunciato pubblicamente. «Se chiami per denunciare l'occupazione di un appartamento di una signora ricoverata - scriveva domenica - ti senti rispondere cosa possiamo fare?». L'irruzione risalirebbe addirittura ai giorni fra Natale e Capodanno, secondo una vicina di casa che ha lamentato - anche alla locale Caritas - piccole e grandi intimidazioni. E ha visto portar via della roba dalla casa di Rosa. «Possibile che nessuno si sia premurato di verificare lo stato dell'alloggio per tutto il periodo di degenza?», chiede Strano. L'esponente di Forza Italia in via Salomone è nato e cresciuto. E continua a sollecitare interventi più decisi al Comune e alla prefettura, che decide sugli sgomberi. Chiede controlli degli ispettori e della polizia locale. «Siamo in un contesto non ordinario - spiega - disagio forte e conclamato». Illegalità, omertà, paura. È un mondo a sé quello di via Salomone, una periferia fisica ed «esistenziale» come le chiama il Papa. Anche per questo le Case Bianche sono state scelte poco meno di un anno fa come prima tappa della visita milanese di Bergoglio, accolto come un liberatore, in un girone infernale di disagio e povertà. Dieci mesi dopo le Case Bianche restano un buco nero: i 477 alloggi di proprietà di Aler (l'Azienda lombarda di Edilizia residenziale) in buona parte sono occupati abusivamente: a metà 2017 il dato delle occupazioni illegali toccava quota 95. Qualche anno fa parevano destinati alla demolizione questi casermoni bianchi della Trecca (così i milanesi chiamano il quartiere, a metà strada fra lo scintillante centro e l'aeroporto di Linate). Oggi, nonostante gli sforzi collettivi, sembra una terra di nessuno, sottratta al controllo delle istituzioni. Al civico 36, dove abitava Rosa, si tocca il record dell'abusivismo: sei appartamenti per nove piani, il totale fa 54 alloggi, e il 40% è in mano agli abusivi. Non solo: le «assegnazioni» sarebbero su base etnica. Il comitato «Salomone Rinasce» (fondato da Strano) attribuisce l'irruzione di Natale a sei senegalesi, anche se oggi nell'alloggio si troverebbe una coppia con cittadinanza italiana e origini rumene. Una staffetta gestita dal racket. «Manovalanza» dicono in questo caso. Ma un clan familiare spadroneggia e intimidisce chi si azzarda ad alzare la testa. Gli slanci positivi a dire il vero non mancano: la parrocchia, la Caritas, la Zona, il comitato, hanno acceso i riflettori sulla Trecca. L'Aler, che a Milano gestisce 68mila alloggi, è intervenuta tre volte nelle ultime settimane per riparare l'ascensore, che continua a fermarsi. A quanto pare qualcuno vuole che non funzioni. E vuole che non funzioni l'illuminazione. Chi fa affari loschi predilige il buio. E non vuole nessuno fra i piedi.

Boldrini e Minniti cedono alle occupazioni abusive. Il Viminale: stop sgomberi se non c'è un'altra casa. La presidente contro gli agenti: "Violenza gratuita", scrive Antonio Signorini, Domenica 27/08/2017, su "Il Giornale". Non c'è pace per la maggioranza e il governo. Ogni fatto di cronaca si trasforma in un motivo per divisioni e cambiamenti repentini di linea. A tenere banco ieri, sulla scia dei disordini in Piazza Indipendenza a Roma, l'operato delle forze dell'ordine. A farne le spese ieri e stato il ministro dell'interno Marco Minniti al quale il senatore Pd Luigi Manconi ha attribuito la volontà di diramare una circolare ai prefetti per metterle un freno agli sgombri degli immobili occupati. Senza sistemazioni alternative, chi occupa un immobile pubblico o privato, deve poterci rimanere. Minniti, da unico uomo d'ordine nello schieramento del centrosinistra, si è trasformato nell'esponente che - di fatto - permette le occupazioni a danno dei proprietari. Che sono privati. Poco tempo fa, quando a tenere banco erano gli sbarchi degli immigrati e l'atteggiamento da tenere quando le navi delle Ong che scaricano clandestini e richiedenti asilo nei nostri porti, Minniti aveva sposato la linea dura, in aperta contrapposizione con il collega Graziano del Rio. Ieri la svolta pro immigranti del ministro dell'Interno. In realtà, niente di nuovo. Le norme pro occupanti già ci sono (anticipate dal Giornale l'11 aprile) Il decreto sicurezza prevede che, anche con una sentenza di sgombero del giudice, sindaco e prefetto possano rinviare l'esecuzione. Lo ha ricordato ieri il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa. Il decreto attribuisce ai Prefetti poteri di interdizione «del tutto discrezionali», la valutazione di «possibili turbative per l'ordine e la sicurezza pubblica» e anche la «tutela dei nuclei familiari». Lo stesso decreto limita la portata del decreto Lupi che vieta agli occupanti di prendere la residenza e fare allacci alle utenze dagli immobili occupati. La circolare Minniti potrebbe non arrivare mai. Ma l'annuncio sembra un osso gettato alla sinistra del Pd e anche un tentativo di una risposta ai media che stanno cavalcando i fatti di Roma. Ma la sostanza della misura anti occupazioni e già una legge in vigore. Per di più ieri la presidente della Camera ha parlato dell'azione di polizia a Roma come «violenza anche gratuita». Un quadro politico che ha provocato la reazione del centrodestra. Per Giorgia Meloni (Fdi) il governo cede alla mafia. «Se occupi illegalmente, lo Stato ti garantisce una casa; se invece rispetti la legge puoi continuare a dormire sotto i ponti». Renato Schifani (Fi) parla di una resa all'illegalità. Un attacco alla proprietà privata «che spesso nasconde sottotraccia anche gravi episodi di racket e delinquenza. Ci auguriamo che si tratti soltanto di una pausa di riflessione da parte di un rappresentante dell'esecutivo che ha dimostrato, su altri fronti, fermezza e determinazione». Per Barbara Saltamartini della Lega così si favoriscono «fantomatici movimenti antagonisti per il diritto alla casa e sedicenti organizzazioni umanitarie che incentivano arrivi di immigrati ringraziano! Vergogna!». Il caso dello sgombero romano ha avuto echi anche al Meeting di Rimini. Il Segretario di stato Vaticano Pietro Parolin, subito incalzato dai giornalisti sui fatti di Roma ha parlato di immagini che «non possono che provocare sconcerto». Ma la violenza «non è accettabile da nessuna parte». Poi, incalzato dai giornalisti: si poteva fare di più? «Probabilmente sì ma è tutta una polemica e questo a me spiace. Se ci mettessimo a pensare alle cose in modo tranquillo forse riusciremmo a risolverle. Le soluzioni ci sono». Speriamo non a danno di cittadini e privati o, come nel caso dell'immobile di Roma, dei fondi dei pensionati.

Sgomberi, riunione al Viminale: “Trovate 600 strutture”. La destra: “Follia utilizzare i beni confiscati alla mafia”. Un primo tavolo tecnico del ministro Minniti per mettere in pratica il principio "nessuno sfratto senza una nuova casa". I Comuni però chiedono fondi per "ristrutturare gli immobili confiscati e pagare i dormitori". Critiche da Forza Italia: "Viene istituito il diritto a occupare". Lega e Fratelli d'Italia: "Pazzia", scrive il Fatto Quotidiano" il 28 agosto 2017. Il principio è ormai definito: ad ogni sgombero effettuato dovrà corrispondere una soluzione abitativa accettabile. Dopo le polemiche scoppiate a Roma per gli scontri tra la polizia e i migranti che si erano radunati in piazza Indipendenza e che vivevano nel vicino palazzo occupato di via Curtatone, il Ministero dell’Interno è già al lavoro per mettere in pratica la nuova linea che comprende il possibile utilizzo di beni confiscati alla mafia. Nella riunione al Viminale sono state individuate le prime 600 strutture potenzialmente utilizzabili per le emergenze abitative nelle grandi città, ma non mancano le polemiche. Se da una parte infatti erano arrivate le censure allo sgombero di via Curtatone, in primis dal Vaticano, ora è soprattutto la destrapolitica a criticare il nuovo principio, definito “diritto ad occupare”. “Fratelli d’Italia si batterà in ogni sede contro questa follia del Governo”, ha commentato Giorgia Meloni. Marco Minniti si è riunito con i suoi collaboratori per un tavolo tecnico sul tema delle occupazioni e dell’emergenza abitativa. “Un primo confronto”, dicono dal Viminale, in attesa di una definizione nel dettaglio dei singoli casi, per evitare il ripetersi delle scene viste a Roma. E per trovare le alternative da offrire alle famiglie che saranno sfrattate dagli edifici occupati, o almeno a quelle che ne hanno diritto. L’ultima idea del Viminale è sfruttare gli edifici confiscati alla mafia, e in quest’ottica sarebbero già state individuate circa 600 strutture, tra le province di Roma, Milano e Napoli. Soluzioni che non sarebbero riservate esclusivamente ai migranti sfrattati, viene precisato, ma a tutte le situazioni di precarietà. Al centro ci sarà il ruolo dei prefetti. Saranno questi ultimi, in cooperazione con i sindaci, a individuare le soluzioni più adatte per assicurare un sereno svolgimento degli sfratti e lo spostamento nelle nuove sistemazioni abitative. Quello di destinare beni confiscati alla mafia a persone senza casa, “è un caso previsto dalla legge e in parte si fa già, per esempio a Palermo”. Lo ha sottolineato Ennio Mario Sodano, direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. “Questa destinazione è conforme alla legge che dice che i beni possono essere destinati ai Comuni, che hanno una sorta di prelazione, per fini istituzionali o sociali”, ha spiegato Sodano. “A Palermo ne abbiamo destinati circa 400 al disagio sociale e abitativo, facendo un protocollo con il Comune. Altri centinaia sono stati destinati a tal fine tra Puglia e Calabria”, ha detto il direttore citando solo esempi relativi all’ultimo anno. Sodano ha denunciato però anche un problema: servono dei fondi per poter intervenire con lavori e ristrutturazioni. L’argomento sarà proprio al centro dell’incontro tra il ministro Minniti e Antonio Decaro, in programma la prossima settimana. Il presidente Anci chiede al Governo l’istituzione di due fondi: uno per pagare gli investimenti nella ristrutturazione degli immobili pubblici, come quelli confiscati, che possono essere messi a disposizione ma necessitano di alcuni lavori, e un altro per pagare i dormitori. Martedì è previsto già un primo incontro al Viminale con l’Associazione dei comuni italiani proprio sul tema dell’emergenza abitativa. Ma non manca anche la polemica politica sull’uso degli immobili sequestrati alla mafia per dare un tetto agli sfrattati. Il centrodestra sostiene che le nuove linee del ministero “in un colpo solo, abrogano de facto i reati derivanti dalla occupazione della proprietà privata altrui e contemporaneamente istituiscono un nuovo diritto, quello ad ottenere una soluzione alternativa all’occupazione stessa”. Le parole sono del deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, ma condivise da gran parte della destra. “Nel caso dei beni confiscati, da sindaco preferirei che venissero messi a disposizione delle famiglie italiane in difficoltà e in lista per le case popolari, prima che a chi occupa abusivamente degli immobili”, ha detto all’Adnkronos Ilaria Caprioglio, primo cittadino di Savona. “La proposta è sbagliata e rischia di scaricare sul Mezzogiorno il grosso del problema dei rifugiati: il 70% degli immobili confiscati alle mafie sono infatti tra Sicilia (6916), Campania (2582) e Calabria (2500). Queste tre Regioni già sopportano una pressione di richiedenti asilo che le ha portate quasi al collasso, non possono reggere questi numeri”, ha dichiarato Mara Carfagna, portavoce del gruppo di Forza Italia alla Camera. Sia per la Lega Nord che per Fratelli d’Italia, la nuova linea del Viminale “è una follia”. “I centri sociali e i movimenti per la casa che fanno affari con la mafia delle occupazioni abusive rivendicano il copyright sulla proposta del Ministero dell’Interno di utilizzare i beni confiscati alla criminalità organizzata: è una nostra idea. C’è altro da aggiungere?, scrive su Facebook Giorgia Meloni.

Giorgia Meloni, scrive il 28 agosto 2017Con sospensione sgomberi Governo Pd si arrende a mafia occupazioni abusive. Il Governo Pd sospende tutti gli sgomberi delle occupazioni abusive perché prima di intervenire “servono soluzioni abitative alternative”. Tradotto: se occupi illegalmente, lo Stato ti garantisce una casa; se invece rispetti la legge puoi continuare a dormire sotto i ponti. La sinistra al governo si arrende ancora una volta alla mafia delle occupazioni abusive e lascia le nostre città in balia di zone franche, prepotenti e illegalità diffusa. La posizione di Fratelli d’Italia è opposta: se hai diritto a una casa popolare, ti metti in fila come tutti gli altri e aspetti il tuo turno; se occupi illegalmente ti sgombero con la forza e ti sbatto in galera e, se sei straniero, ti caccio dall’Italia. Perché la legge e le regole servono a difendere i più deboli, gli anziani, le famiglie, i disabili che non si metteranno mai a occupare illegalmente e a fare gli scontri con la Polizia.

Clandestini occupanti abusivi: Italia spaccata. Abbiamo paura perfino dei cinghiali…scrive "Blitz Quotidiano" il 28 agosto 2017. C’è del comico nella vicenda degli sgomberi e dei migranti clandestini e occupanti abusivi. Sarebbe da ridere se non fosse da piangere, scrive Cronaca Oggi. Siamo in piena confusione mentale, abbiamo paura anche di offendere i cinghiali. A Savona hanno persino fatto una battuta anticinghiali senza armi per allontanarli dalle spiagge e spingere verso le colline il branco di cinghiali che da settimane raggiunge il litorale savonese seminando terrore fra i bagnanti. Intanto l’ex sindaco di Sestri levante, Lavarello si è scontrato in moto con un branco di cinghiali e si è ferito. Ha ragione Laura Boldrini quando dice che stiamo dando una “pessima immagine del nostro paese”. Però non nel senso che intende lei. La pessima immagine è quella di un Paese e di un Governo incapaci persino di affrontare un problema di ordine pubblico relativamente modesto come quello del palazzo occupato abusivamente a Roma da un gruppo di immigrati, clandestini e no, in forte odore di illegalità e violenze. Nel palazzo dei migranti, subaffitti a irregolari a 10 euro.

Il racket delle occupazioni: nel palazzo soldi, estorsioni violenze. Minniti sperava nel gran colpo e ha mandato i poliziotti a sgomberare. Come giustamente dice Roberta Lombardi del M5s, “la reazione della polizia fa parte della gestione dell’ordine pubblico ed era tutto sommato prevedibile davanti alla resistenza”. Il Movimento 5 stelle è diviso fra i sostenitori di Luigi DI Maio che difende Virginia Raggi e Roberto Fico, in corsa per la leadership. Le reazioni sono state forti, da dentro il Pd e dal Vaticano, per non parlare del coro delle Boldrini. Così Minniti cambia le regole: niente sgomberi degli abusivi se non hanno casa. I prefetti potranno requisire edifici. Si studia utilizzo beni delle mafie. Il dietro front, se tale è, costituirebbe fonte di imbarazzo anche per Paolo Gentiloni, che poche ore prima della clamorosa rivelazione aveva fatto sapere di essere totalmente a fianco di Minniti sulla linea della fermezza. L’unica, bisogna ricordare, che può fare sperare al Pd un minimo di tenuta elettorale.

Hanno aspettato 4 anni. e hanno combinato un bel pasticcio fra Prefetto e Comune. Ora ci spiegano che Prefetto, donna e Sindaco, donna, non corre buon sangue nemmeno si parlano. Francesco Grignetti sulla Stampa di Torino scrive di “manifesta incomunicabilità tra prefetto Paola Basilone e sindaco Virginia Raggi, le due primedonne di Roma, al Viminale è considerata come il vizio d’origine di questa storia”. Virginia Raggi si affida alla Stampa. Si fa intervistare e rivela che metà degli sgomberati non ha accettato le sistemazioni proposte dal Comune. Conferma il Messaggero. Preferiscono stare accampati in strada. Vogliono vedere prima le fotografie degli alloggi.

Ma il cupio dissolvi che corrode l’anima della sinistra da quando è morto il Pci sta minando le basi. Il presidente del Pd Matteo Orfini parla per tutti: “Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico». E ancora: «A essere inadeguata è stata anche la gestione da parte delle forze dell’ordine. Non si esegue uno sgombero con quelle modalità e non lo si fa senza una adeguata soluzione alternativa. Soprattutto, non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti”. La povertà giustifica ogni illegalità. È la via italiana al socialismo. Ditelo a Stalin. Sullo sfondo il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che sfrutta l’occasione per un po’ di visibilità, dopo avere lanciato l’allarme bufala di bloccare l’acqua a Roma perché un lago sembrava prosciugato. C’è un po’ meno acqua, è vero, ma il lago è ancora quasi tutto lì.

Il racket delle occupazioni, riprende Giorgio dell’Arti su "Il Corriere della Sera" un articolo de "La Gazzetta dello Sport del 27 agosto 2017. Ieri un cinquemila persone hanno sfilato per le vie di Roma, tra piazza dell’Esquilino e piazza Santa Maria di Loreto (piazza Venezia) per reclamare il diritto alla casa. La manifestazione era stata indetta da tempo dai comitati per il diritto all’abitare, ma i fatti di piazza Indipendenza di giovedì scorso l’hanno improvvisamente caricata d’ansia. Gli organizzatori hanno pensato bene di dare un posto d’onore, nel corteo, a etiopi ed eritrei che stavano nel palazzo di via Curtatone. La polizia, a sua volta, ha imposto controlli rigidissimi: niente aste, niente bastoni, niente bottiglie di vetro. Striscioni: «Via Curtatone, Indipendenza, siamo rifugiati non terroristi», «Vogliamo un tetto», «Vogliamo una casa», «Vogliamo vivere come i romani», «Libertà. Libertà». I manifestanti hanno marciato con il conforto delle parole pronunciate dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Le immagini dell’azione di polizia in piazza Indipendenza, ha detto il monsignore, «non possono che provocare sconcerto e dolore, soprattutto dalla violenza che si è manifestata. E la violenza non è accettabile da nessuna parte. Però credo che, da quello che ho visto e da quello che ho letto, ci sia la possibilità di fare le cose un po’ meglio, fare le cose bene, perché ci sono le regole. Adesso, per esempio, ho visto che ci sarà questo impegno a trovare per queste persone delle abitazioni alternative prima di arrivare a questi estremi».

Sì? Minniti non parla, ma il senatore Manconi, che presiede la commissione Diritti umani, ha fatto sapere che, per quanto ne sa lui («non posso virgolettarlo»), «il ministro dell’Interno Minniti non autorizzerà altri sgomberi a Roma senza che vi siano pronte soluzioni abitative». Un’altra fonte del Viminale, anonima, conferma: «La prossima settimana scriveremo nuove linee guida per effettuare gli sgomberi ordinati dai giudici, e le invieremo a tutti i prefetti d’Italia. Tra le disposizioni ci sarà sicuramente quella di non autorizzarli se prima non è stata concordata una sistemazione dove alloggiare chi ne ha diritto. È una regola di buon senso, e non sarà l’unica». Il ministero, sempre in via ufficiosa, fa sapere di non avere avuto alcun ruolo nello sgombero di giovedì scorso, e richiama l’articolo 11 del decreto Minniti-Orlando sul decoro urbano, decreto convertito in legge a febbraio (Disposizioni in materia di occupazioni arbitrarie di immobili). L’articolo in questione prevede «la tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale» e stabilisce che in ogni caso i livelli assistenziali «devono essere garantiti dalle Regioni e dagli enti locali». Alla fine si afferma che «il sindaco, in presenza di persone meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto a tutela delle condizioni igienico-sanitarie». Per il nostro gusto c’è troppa gente coinvolta nelle decisioni da prendere. Ma tant’è. Gli uomini di Minniti stanno preparando la circolare da inviare ai prefetti con le linee guida di applicazione della legge. La Raggi e il governatore della Regione Lazio intanto si scambiano accuse per i fatti di giovedì scorso.

Che succede se io offro una casa al povero rifugiato occupante via Curtatone e il povero rifugiato la rifiuta? E già, è quello che è successo, e il rifiuto rende il rifugiato un po’ meno rifugiato di prima. Sospetta è anche l’esibizione delle donne incinte e dei bambini infelici, decorazioni simili a quelle che esibiscono le mendicanti che si mostrano col bambino in braccio per intenerirci il cuore. Il fatto è che la palazzina di via Curtatone era soprattutto un problema di malavita.

Vale a dire? Gli interni erano stati trasformati in alloggi piuttosto confortevoli, camere da letto, televisori anche al plasma, divani e frigoriferi, tavoli e poltrone, quadri alle pareti, immagini della Madonna e del cuore di Gesù (etiopi ed eritrei sono in genere cattolici) col solo problema delle cucine, per farle funzionare bisognava far ricorso alle bombole del gas. Gli appartamenti così ricavati venivano affittati a 10, 15 o persino 30 euro al giorno, a seconda dello spazio impegnato e della durata del soggiorno. La polizia ha trovato pacchi di ricevute che rendono inequivocabile lo sfruttamento del palazzo. Si spacciava droga, si dava ospitalità a trafficanti di uomini, si vendevano le aree-soggiorno anche per dodicimila euro. La resistenza ad andare da un’altra parte nasce dal desiderio di riconquistare via Curtatone, così centrale e conveniente. Calmate le acque, proveranno di certo a rioccuparlo.

C’è un racket dietro tutto questo? Naturalmente. Per esempio, un Comitato di lotta per la casa, capeggiato da una cinquantottenne Maria Giuseppa Vitale, detta Pina, messo sotto inchiesta dalla Procura risultò composto da gente che, qualificandosi come antagonista e schierata in difesa dei poveri, costringeva in realtà i poveri a occupare edifici, poi estorceva loro denaro o prestazioni lavorative gratuite «utilizzando il Comitato come uno strumento di potere proiettato a ottenere profitti».

È una situazione solo romana o il caso è nazionale? A Roma i palazzi da liberare sono cento, con una top list di quindici edifici indicata dall’ex sindaco Alemanno. A occupare sarebbero almeno 4.000 persone. Federcasa sostiene che gli alloggi detenuti illegalmente in tutta Italia sono 48 mila, in gran parte di proprietà pubblica. Di questi 48 mila, 40 mila sono stati occupate a forza, gli altri sarebbero abitati da gente a cui è scaduto il contratto e che non se ne va. Può in questa terra di nessuno annidarsi anche il pericolo di uno sviluppo dell’azione jihadista? Purtroppo, sì. È vero che allo sgombero di via Curtatone s’è proceduto in tutta fretta per la preoccupazione determinata dai fatti di Barcellona? Al ministero negano, ma la voce corre e con una certa forza.

Immigrati liberi di occupare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 27/08/2017, su "Il Giornale". Il ministro Minniti ha dimostrato di sapersi muovere con fermezza e buon senso e gliene abbiamo sempre dato atto. Ma sulla gestione del dopo sgombero degli immigrati di Roma qualche cosa si è inceppato al vertice del ministero dell'Interno e della polizia. Peggio del «non fare» c'è solo il fare e poi pentirsi di averlo fatto. Così come a disorientare i soldati sono i generali che danno ordini e contrordini creando solo caos, così i cittadini rimangono disorientati da uno Stato che smentisce se stesso. Qualcuno deve avere pur deciso - per fortuna e finalmente diciamo noi - di intervenire per sloggiare gli abusivi di piazza Indipendenza. E quel qualcuno doveva pur sapere che uno sgombero è una operazione in sé violenta, anche se condotta in guanti bianchi. Perché a volte fare rispettare la legge è cosa violenta. Sono violente le cartelle di Equitalia, lo sono i pignoramenti, lo sono un avviso di garanzia e un arresto preventivo, lo è una sentenza di divorzio che toglie l'agibilità dei figli a uno dei due genitori. La democrazia è violenta perché deve imporre a tutti, senza distinzioni di censo, sesso e credo, il rispetto delle regole e l'unico spartiacque è se qualcuno, investito dell'ingrato compito, abusa di questo enorme e delicato potere. Non risulta - salvo un eccesso verbale rimasto senza seguito - che a Roma i poliziotti abbiano commesso abusi. Anzi, semmai è stato documentato il contrario. Minniti, quindi, si sta pentendo non di un fatto ma del fatto: «Mai più sgomberi senza prima aver individuato soluzioni alternative». Che è come dire: la legge va fatta rispettare solo quando è possibile e il farlo non crea complicazioni. Quindi - il ministro mi passi la semplificazione - se non trovo parcheggio posso lasciare la macchina in divieto di sosta, se non ho soldi non pagare le tasse, se ho fame rubare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno. Che, come purtroppo tutti i politici, nel momento critico diventa culturalmente succube di tre giornali, quattro opinionisti salottieri e qualche vescovo che gli danno del fascista. Mi perdoni, signor ministro, non si lasci intimidire: violento è chi, immigrato o no, le case le occupa, non lei che, per una volta, aveva deciso di liberarle come prevedono le legge e la Costituzione.

La mossa shock del Governo: così potranno rubarci casa. Con le nuove norme addio sgomberi. E chi occupa può anche chiedere la residenza e allacciare luce e gas, scrive Antonio Signorini, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale".  Se occupi un immobile il massimo del rischio sarà che le istituzioni ti trovino casa. Oppure - versione più estrema e improbabile - che il proprietario dell'immobile occupato debba trasformarsi in agente immobiliare per trovarti un'alternativa.

Il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa ha già detto che valuterà se impugnarla. Oggi il vertice del ministro dell'Interno e forse chiarirà un po' i dettagli, ma è già chiaro che si tratterà di un contentino alla sinistra, sull'onda emotiva dello sgombero di Roma. Un'altra stratificazione di norme e intralci burocratici che renderà più difficile e pesante per un proprietario di immobile tornare in possesso del suo bene. Una norma irrazionale, che allungherà ancora i tempi biblici della giustizia civile italiana. Ma anche senza la direttiva, basta la normativa in vigore a tutelare chi viola la legge e penalizzare il legittimo proprietario di un immobile. Ad esempio la norma approvata pochi mesi fa, dentro il decreto «sicurezza delle città» del ministero dell'Interno (decreto 14 del 2017), più volte segnalato da Confedilizia come un grimaldello pro occupazioni. In sintesi il decreto non prevede direttamente che si debbano trovare alternative abitative per gli occupanti. Ma stabilisce che siano i prefetti e i sindaci gli arbitri del come e del quando i proprietari di immobili potranno rientrare in possesso dei loro beni. Se il giudice ordina uno sgombero, da aprile scorso, si deve passare dal prefetto per renderlo esecutivo. Sta a lui decidere, tenendo conto di «possibili turbative dell'ordine e la sicurezza» se mandare le forze dell'ordine. Un incentivo per i movimenti di lotta per la casa (ex autonomia operaia) a minacciare disordini. Più difficile fare intervenire le forze dell'ordine. Il prefetto deve decidere tenendo conto della «tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale». Comuni e regioni devono farsi carico di garantire «livelli assistenziali». Contro le decisioni del prefetto si potrà fare ricorso. Ma il massimo che si potrà ottenere è fare procedere con lo sgombero. Nella legge, insomma, ci si premura di evitare cause civili dei proprietari. Che saranno presumibilmente tante. Un regalo agli occupanti, arriva anche attraverso i sindaci. I caso di «presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela» oppure per motivi di tutela delle condizioni igienico sanitarie, i primi cittadini potranno non applicare il decreto Legge 47 del 2014. È la legge Lupi che stabiliva il divieto di alloggiare le utenze di energia, acqua, gas e anche telefonia a chi occupa abusivamente. I sindaci potranno anche decidere di riconoscere agli occupanti il diritto a stabilire la residenza nell'immobile occupato oppure di avere una casa assegnata dal comune. Magari la stessa che hanno sottratto a chi ne aveva diritto, se si trattava di edilizia popolare, Prima del decreto c'era un divieto espresso. Insomma, una mano consistente agli squatter organizzati. Dietro chi occupa per bisogno, come noto, ci sono organizzazioni che traggono illegalmente vantaggio, sia in termini di proselitismo sia economico, come dimostrato dalle ricevute trovate nell'immobile liberato dagli occupanti a Roma. Il decreto era già il risultato di compromessi tutti politici e attenzione nulla al merito della policy. Quella delle occupazioni - più o meno politiche - è una piaga che le cifre ufficiali non riescono a fare emergere. È uno dei tanti casi che rendono l'Italia un paese poco competitivo per gli investimenti esteri. Bruxelles punta il faro da anni sui tempi lunghissimi della giustizia civile italiana e sulla impossibilità per i privati di avere giustizia. Il decreto, e probabilmente la successiva direttiva, peggioreranno questa situazione.

E Veltroni pagava l'affitto al "Salam Palace" nel nome del filo rosso tra okkupanti e Pd. Da D'Erme a «Tarzan» Alzetta, gli antagonisti sbarcati al governo di Roma, scrive Massimo Malpica, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". C'è sempre stato un filo rosso, talvolta occulto, talvolta palese, tra le giunte romane di centrosinistra - almeno fino a Walter Veltroni - e i movimenti capitolini di lotta per la casa. Che a Roma erano già attivi con Francesco Rutelli al Campidoglio, ma che moltiplicano sigle e attività quando è il futuro fondatore del Pd che, nel 2001, comincia a governare la Città eterna. Non è un caso che proprio nel 2002 comincia un'ondata di «okkupazioni» alcune delle quali ancora in essere, ormai «storiche», come la caserma del Porto fluviale, a Ostiense, da qualche anno decorata dal coloratissimo murales dello street artist Blu. O il celebre «Salam Palace» all'Anagnina. Quest'ultimo, diventato poi un (imbarazzante) caso internazionale per le precarie condizioni in cui vivono gli occupanti, tra i quali numerosi stranieri con lo status di rifugiato, era stato persino «legittimato» da Veltroni, che nel 2006 decise di contattare la proprietà - l'Enasarco - e di cominciare a pagare con i soldi del Campidoglio, quindi dei romani, affitto e bollette all'ente. Il tentativo di «alleanza» non finì comunque bene, perché quando l'anno successivo il comune di Roma propose lo sgombero con contestuale trasferimento degli ospiti in altre sistemazioni, quasi tutti si guardarono bene dal fare armi e bagagli, restando nell'edificio - che infatti è ancora occupato, come dimostra la sua presenza nella top 15 delle sgomberi della prefettura - nonostante il ritorno del degrado e, va da sé, del totale abusivismo. Quelli furono anche gli anni in cui, appoggiandosi alla sinistra radicale che, a sua volta, sosteneva la maggioranza in Campidoglio, si affacciarono alla politica e nelle istituzioni i leader del movimento di lotta per la casa. Se ora uno dei volti noti è quello di Luca Fagiano (già agli onori delle cronache perché secondo il decreto di sgombero del palazzo di via Curtatone era stato tra gli organizzatori della clamorosa okkupazione), è difficile per i romani dimenticarsi di Nunzio D'Erme, primo consigliere comunale arrivato al governo della città partendo dai movimenti antagonisti, nel 2006. E ancora più difficile è non ricordarsi di Andrea Alzetta, detto «Tarzan», che si candidò nelle liste di Rifondazione (ma nel segno di Action) con tanto di cover di «Tarzan lo fa», ovviamente modificata nel testo per adattarsi alla lotta per la casa, e che si ritrovò nel 2008 in consiglio comunale con la rispettabile dote di 2.192 preferenze, il più votato della lista. «Tarzan» ci riprovò nel 2013, risultando eletto nuovamente con poco meno di 2mila preferenze salvo, poi, essere il primo dichiarato «non proclamabile» secondo la legge Severino che era appena entrata in vigore, per una condanna per scontri di piazza passata in giudicato, e respinto sulla soglia dell'Aula Giulio Cesare nonostante il ricorso al Tar, che gli diede torto.

Festival no global illegale e fuochi d'artificio abusivi. Per l'evento-beffa dei centri sociali a San Siro il «gran finale» è uno spettacolo pirotecnico, scrive Alberto Giannoni, Martedì 18/07/2017, su "Il Giornale". Un finale col botto per i centri sociali di San Siro. Uno spettacolo pirotecnico non autorizzato ha concluso il festival dell'illegalità nel cuore del quadrilatero che vanta il poco invidiabile record degli alloggi occupati abusivamente. E in piazzale Selinunte ormai sembra abusiva anche la speranza, visto che altri cinque alloggi sono stati presi di mira dal racket delle occupazioni. È il consigliere comunale Alessandro De Chirico (Fi) a denunciare il finale-beffa di questa vicenda surreale. E ne ha parlato anche in Consiglio comunale, il vice capogruppo di Forza Italia, preannunciando un'interrogazione, che arriva dopo giorni e giorni di segnalazioni sue. E denunce, finora inascoltate. Tutto è iniziato il 13 luglio, quando in piazza Selinunte è partita l'ottava edizione del «San Siro Street Festival» una manifestazione che viene organizzata dal centro sociale «Il Cantiere», l'ala dura del movimento anarchico antagonista che ha base in piazzale Stuparich. De Chirico riferisce di aver ricevuto numerose segnalazioni sulla vendita di alcolici nel corso dell'evento, «senza autorizzazione né rilascio di ricevuta fiscale». E ancora; «Imbrattamento di muri di una palazzina privata, musica a tutto volume fino alle 4.30 del mattino, fuochi d'artificio in violazione delle norme comunali». «Se vietano i bastoni per i selfie in Darsena - spiega - non penso che possa fare fuochi d'artificio il primo che passa, anche per evidenti ragioni di sicurezza». Il 10 luglio, in occasione della presentazione dei vigli di quartiere proprio in piazzale Selinunte, De Chirico ha parlato con il sindaco Sala «per avvisarlo - dice - dell'organizzazione di tale festival e l'11 luglio ho presentato un esposto presso il commissariato Bonola di Polizia dello Stato». De Chirico nell'interrogazione ricorda anche che «la mattina del 13 luglio i vigili di quartiere posizionati in piazzale Selinunte con unità mobile, assistevano al montaggio delle strutture per la manifestazione», mentre «operai di Unareti spa (A2A, ndr) hanno allacciato a una colonnina elettrica gli impianti». Non è tutto: «Nella mattina di sabato 15 luglio, un centinaio di attivisti No sgomberi inscenava un corteo per le vie di San Siro per manifestare contro gli sgomberi degli alloggi indebitamente occupati». E, per marcare la coerenza fra idee e azioni, nelle stesse ore vengono occupati abusivamente alcuni alloggi Aler fra piazzale Selinunte, via Maratta e via Gigante. De Chirico ora chiede al sindaco la richiesta e l'autorizzazione rilasciata al festival, domanda se è vero «che l'autorità comunale abbia richiesto a Unareti l'allacciamento elettrico» e vuol sapere «chi ha sostenuto le spese per l'occupazione di suolo pubblico, per la luce elettrica e la pulizia del piazzale e delle vie limitrofe». E pensando ai militanti di estrema destra denunciati pochi giorni fa per aver manifestato senza autorizzazione davanti a Palazzo Marino, De Chirico si chiede e chiede se, in questa Milano, «con Sala qualcuno è più non autorizzato di altri».

COSTRETTI A PAGARE PER LE STANZE. LE «FATTURE» DEL RACKET. Di Ilaria Sacchettoni per "Il Corriere della Sera" del 26 agosto 2017. Pagava Jodit. E pagava Mohamed. Alla fine pagavano tutti. Perché nella città delle emergenze abitative si paga anche per occupare un alloggio. Dieci euro a persona ogni giorno. Che alla fine, moltiplicato per circa 700 persone, quanti erano (a pieno regime) gli occupanti di via Curtatone, fa settemila euro al giorno. A chi andavano quei soldi? Tra i documenti agli atti degli investigatori c' è anche un plico leggero ma importante che ieri la Sea srl, assistita dall' avvocato Carlo Arnulfo, ha sottoposto ai carabinieri. Una massa di ricevute firmate dai profughi alloggiati nel palazzo. Fogli su cui spiccano cifre e sigle. Dieci euro. Trenta euro. Venti. Cinquanta. Soldi versati ad altri immigrati, a quanto pare, intermediari di cui non sono chiari ruolo e contatti. Una somma discreta per garantire che cosa? Che a Jodit e alle centinaia di disperati precariamente alloggiati in quegli spazi non se ne aggiungessero altre? Erano legati a qualche frangia dei movimenti di occupazione? Non si può escludere. Possibile che qualcuno sfruttasse l'ennesima emergenza cittadina. Non sarebbe una novità. Grande è la confusione riguardo alle fughe di informazioni che precedono le occupazioni in città. Mentre alcune inchieste - e fra tutte quella sull' ex centro sociale «Angelo Mai» (poi rinato) - hanno dissipato una serie di dubbi sullo sfruttamento della categoria «immigrati» da parte di movimenti e politici. Era il 2014. E lo stesso reparto della Digos che oggi indaga sullo sgombero di piazza Indipendenza, rintracciò in casa di alcuni leader dei movimenti di occupazione banconote per migliaia di euro, ricevute e, soprattutto, l'elenco di nomi e delle somme versate dalle famiglie in occupazione. L' inchiesta andò oltre fotografando un quadro di «desolante e diffusa illegalità, con profili di responsabilità di carattere non esclusivamente penale e civile ma anche amministrativo, sociale e politico» per usare le parole del gip Riccardo Amoroso. Uno scenario in cui erano anche diffusi «contatti e rapporti con esponenti politici per individuare alloggi da occupare».

IL BUSINESS DELLA CASA: 2000 EURO AL MESE AGLI ORGANIZZATORI. Di Camilla Mozzetti e Adelaide Pierucci per " Il Messaggero" del 26 agosto 2017. Dieci euro per coricarsi una notte nel palazzo occupato. Anche se su giacigli improvvisati o su brande accatastate in stanzette e corridoi. Sulla pelle dei disperati c'era chi provava a fare fortuna. Poteva fruttare migliaia di euro al mese il palazzo occupato da migranti e rifugiati sgomberato giovedì, in via Curtatone in piazza Indipendenza, dopo una mattinata da guerriglia urbana, chiusa con centinaia di sfollati e cinque arresti, con gli occupanti, per lo più rifugiati, che lanciavano bombole, sedie, bottiglie e sassi agli agenti in tenuta antisommossa. Durante le fasi di sgombero sono state trovate delle ricevute con tariffe anche giornaliere. «Tre giorni al quinto piano, stanza 22. Trenta euro». A conti fatti per ogni famiglia, il gruppo di stranieri che per primo ha occupato l'edificio nel lontano 2013 richiedeva ad ogni nucleo familiare in cerca di sistemazione, anche temporanea, dieci euro al giorno. Ogni mese, con questo sistema, il gruppo non ancora identificato, riusciva a guadagnare una cifra variabile ma comunque compresa tra i 1.500 e i 2.000 euro. La documentazione è stata ritrovata durante lo sgombero. Al momento il materiale è nella mani dei carabinieri. Che da ieri si sono messi a caccia dei primi riscontri. Una ricevuta è intestata a un certo Gebru e risale all'aprile del 2016. La firma di chi ha incassato è illeggibile. I giorni di occupazione tassata è di tre. Due, tre e quattro aprile. Il pagamento all'uscita. Non una novità in città. Dove all'opera ci sono gruppi di finti benefattori che mascherano associazioni a delinquere organizzate allo scopo di compiere occupazioni abusive di immobili e quindi estorsioni ai bisognosi collocati. Come quella capeggiata da una leader storica del Comitato di lotta per la casa Maria Giuseppa Vitale, 58 anni, nota come Pina. In questo caso accusata di «aver pianificato ed attuato l'occupazione» di uno stabile in via Terme di Caracalla trasformato nel centro sociale Angelo Mai, dell'ex scuola Amerigo Vespucci e dell'ex clinica San Giorgio. Un'accusa pesante a cui vanno aggiunte le contestazioni di furto di risorse energetiche, di estorsione, violenza privata, ingiuria, e minacce. Secondo la procura infatti i rappresentanti del Comitato avevano messo in piedi un'associazione che, con la scusa di trovare un alloggio per i bisognosi, «li costringeva a occupare gli edifici, per poi estorcergli denaro e prestazioni lavorative gratuite, sotto minacce, ingiurie e violenze». Nel palazzo di via Curtatone, nove piani un tempo sede della Federconsorzi, intanto, si contano i danni. Nell'immobile di proprietà del Fondo Omega Immobiliare, gestito dalla SeA, Servizi Avanzati srl, i lavori di restauro potrebbero durare mesi. Le finestre al primo piano vanno messe in sicurezza. Gli infissi pericolanti rimossi. L'impianto elettrico con una serie di allacci volanti realizzati dagli occupanti va ripristinato. I lavori d'urgenza, in attesa del dissequestro, sono stati sollecitati ieri in procura dal legale della SeA, l'avvocato Carlo Arnulfo, che nella richiesta di autorizzazione ha parlato di «lavori indifferibili». Provvedimento ora al vaglio del procuratore aggiunto Francesco Caporale. Il decreto di sequestro preventivo era stato emesso nel dicembre 2015 dal gip Monica Ciancio, su richiesta del pm Eugenio Albamonte. Ma lo sgombero era sempre slittato. Il palazzo, soggetto a vincolo della soprintendenza dei beni architettonici, era stato «invaso», come aveva scritto il gip nel provvedimento, «il 12 ottobre 2013 da Luca Fagiano», altro leader del Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa, «insieme ad altre duecento persone», che a stretto giro sono raddoppiate, fino a triplicarsi. Il sequestro preventivo avrebbe dovuto evitare «il progressivo deterioramento dell'immobile». Interrotto di fatto solo l'altra mattina. Il Campidoglio ora prova a correre ai ripari. Il primo atto riguarda i migranti sloggiati dal palazzo occupato. È stata firmata una dichiarazione di intenti con la stessa SE.A che metterà a disposizione sei villette a Gavignano Sabina, in provincia di Rieti, per i rifugiati politici, anche con bambini al seguito. «Per ottemperare alla necessità di accoglienza di sei mesi», ha sottoscritto l'atto l'assessore alle politiche abitative Rosalia Alba Castiglione. La domanda potrebbe suonare retorica, ma per quale motivo una società che prova a recuperare un edificio occupato riesce dopo anni a riaverlo offre poi gratuitamente al Comune di Roma altri alloggi?  «Il Comune spiega l'avvocato Arnulfo, rappresentante la Sea, ci ha chiesto un contributo di solidarietà. Le villette sono a disposizione per sei mesi e sono emerse dopo che in passato era stata rifiutata dagli occupanti una sistemazione in un'altra struttura che la Sea gestisce senza esserne proprietaria a Tivoli».

GLI ERITREI CACCIATI SONO PIÙ RICCHI DI TANTI ITALIANI. Di Franco Bechis per "Libero Quotidiano" del 26 agosto 2017. Nemmeno dopo tutto quel che è accaduto il Fondo Omega di Idea Fimit ha potuto riprendere possesso del palazzo di sua proprietà occupato da più di 500 eritrei dal 2013. Le chiavi non sono ancora state restituite al legittimo proprietario perché lo sgombero non è ancora terminato: fino al tardo pomeriggio di ieri erano ancora asserragliate dentro alcune donne incinte, e la polizia non ha voluto ovviamente forzare la mano. Donne e bambini sono stati più volte utilizzati sia dagli occupanti che dalle associazioni per il diritto alla casa e da alcune onlus che non raramente li hanno manovrati, ed è probabile che siano esposti in prima fila oggi nel corteo di protesta ad altissimo rischio organizzato alle 16,30 a Roma, con partenza in piazza dell'Esquilino in una città blindata per l'occasione con paura di nuovi scontri. Movimenti antagonisti e ong che sono spuntati come funghi durante lo sgombero per cavalcare anche politicamente la vicenda degli scontri con la polizia hanno arringato fin dai primi giorni gli occupanti perché rifiutassero le soluzioni abitative loro proposte sia dall' assessorato ai servizi sociali di Roma che dalla società Sea che quell'immobile dovrebbe prendere in affitto dal Fondo Omega appena liberato. Per altro quella soluzione provvisoria (alcune villette a Forano, in provincia di Rieti) è stata sbarrata dal sindaco Pd del paese, Marco Cortella, che ieri non ha voluto sentire ragioni. «Sono contrario», ha detto Cortella, «perché siamo il comune nella provincia di Rieti con il numero più alto di richiedenti asilo. Ne abbiamo già 40 su 3168 cittadini, oltre la percentuale del 3 per mille per ogni Comune prevista dal Ministero dell'Interno. Invece di gratificarci, ci mortificano». Al momento gli sfollati dall' immobile di via Curtatone si sono dispersi per la città, alcuni convogliati da alcune associazioni (Baobab in testa) in ricoveri di emergenza, altri andati in una sorta di rifugio provvisorio vicino alla stazione Tiburtina, altri ancora presi comunque in gestione dalle strutture comunali. E tutti pronti a tornare appena verrà allentata la tensione e la vigilanza in quel palazzo dove ormai si erano insediati da anni. C' è un rarissimo video - girato nel novembre scorso da Rete Zero, una tv privata di Rieti- che in pochi minuti fa capire come si svolgeva la vita all' interno del palazzo occupato, e che tipo di sistemazione avevano trovato gli eritrei. Ormai non era un accampamento come ci si potrebbe immaginare, ma un ufficio trasformato in un vero e proprio palazzo residenziale. Nell' androne interno chi vi abitava lasciava in modo ordinato biciclette, passeggini e carrozzine. Poi lungo le scale si arrivava ai corridoi degli uffici che erano stati unificati e trasformati in veri e propri alloggi, con tutto l'arredamento che era necessario. L' unica cosa artigianale - mancando gli allacciamenti al gas - erano le cucine, con i forni alimentati da quelle bombole al Gpl che avevano tanto preoccupato i vigili del fuoco nell' unica parziale ispezione fatta. In casa non mancava nulla: parte giorno e parte notte, letti e divani, tavoli, poltrone, tende per difendere la propria privacy, quadri e immagini religiose (crocifissi e madonnine, perché erano quasi tutti cristiani gli abitanti). Poi frigoriferi, lavatrici, elettrodomestici vari (forni a micro onde, macchine per il caffè) e in non poche abitazioni anche televisori al plasma di grande dimensioni e decoder per ricevere la tv satellitare collegati alle parabole installate dagli stessi migranti sul tetto dell'edificio. Entrando in quel palazzo occupato si ha dunque l'impressione di un certo benessere di chi vi abitava, e che gli eritrei fossero ben al di sopra della soglia di povertà si capisce bene anche dalle immagini scattate sia nel giorno degli scontri che ieri quando sono tornati lì vicino a spiegare la loro protesta alla stampa: molti hanno in mano smartphone di ultima generazione del valore di centinaia di euro. Avevano uno stile di vita compatibile anche con una abitazione regolarizzata da un affitto a Roma, magari non in zone così centrali. Che non fossero poveri in canna viene confermato informalmente dai rappresentanti della comunità eritrea in Italia che abbiamo sentito in queste ore, che confermano l'esistenza di lavori regolarmente retribuiti per buona parte degli occupanti. Altri elementi informativi invece fanno capire che non poche fossero le infiltrazioni in quel palazzo, anche di tipo criminale. Non tutti quelli che vi abitavano erano eritrei: molti etiopi, qualche somalo. Eritrei si sono tutti dichiarati al momento dello sbarco in Italia proprio per potere godere della protezione internazionale, e non avendo documenti per molti di loro l'attesa delle verifiche è stata talmente lunga da potersi imboscare con facilità. Dentro il palazzo - secondo le stesse fonti ufficiali della comunità eritrea in Italia - accanto a una vita normale ce ne era una parallela, con cui ci si arrangiava e si otteneva qualche guadagno extra. La più banale veniva dalla sistemazione di alcune stanze con il minimo necessario che venivano affittate a 15 euro a notte agli eritrei di passaggio a Roma. Una sorta di bed and breakfast. Esisteva anche un altro tipo di commercio: quello delle abitazioni permanenti ricavate in quegli uffici. Se qualcuno di loro trovava regolare sistemazione in città, vendeva i diritti di abitazione in via Curtatone per cifre di una certa importanza, "anche 12 mila euro". Le forze di polizia erano già intervenute all' interno in poche occasioni per stroncare altri tipi di commercio assai più irregolari: sette inquilini arrestati per traffico di migranti, e altri identificati e fermati per traffico di stupefacenti.

Roma, «Vuoi occupare una casa abusivamente? Devi fare la tessera dell’associazione». Così funziona il mercato delle occupazioni abusive. E il Comune costruisce case che lascia vuote, scrive il 10 febbraio 2016 Antonio Crispino su Corriere TV. Tre giorni dopo la sentenza di sfratto si sono presentati a casa i soliti due italiani. La signora Norma gli ha aperto, li ha fatti accomodare e offerto il caffè. Dicevano di avere una soluzione al suo problema. A 73 anni, con nessun parente ad aiutarla, senza soldi (se non la pensione da 600 euro), le è sembrata manna dal cielo. Del resto la proprietaria diventava sempre più insistente: «Devi lasciare la casa, è un anno che non paghi». E poco le importavano gli acciacchi fisici che impediscono a Norma di lavorare ancora, dopo 40 anni a servizio come badante. I due italiani con accento calabrese le dicono che non deve più preoccuparsi, avrebbero trovato una sistemazione nel giro di due giorni. Le danno appuntamento fuori a un bar per vedere la zona in cui si trova la sua nuova casa, al Quarticciolo. Ma è sempre chiusa, non si può mai entrare. Perché si tratta di un appartamento da occupare. Un dettaglio che i due italiani le dicono solo in un secondo momento. All’alba del giorno dopo sarebbero venuti, avrebbero sfondato la porta e sarebbero entrati. Anche al trasloco avrebbero pensato loro. Le chiedono 5mila euro subito, poi mille euro al mese per circa un anno. In totale fanno diciassettemila euro. Di casi come questi ce ne segnalano tanti. Tutti accomunati da un particolare: le visite di queste persone avvengono sempre dopo qualche giorno dalla sentenza di sfratto. «Abbiamo notizie di un fiorente racket delle occupazioni abusive - denuncia Fabrizio Ragucci, dell’Unione Inquilini di Roma -. Si va dai diecimila ai cinquantamila euro per occupare una casa. La gente paga con la speranza di un condono o una sanatoria». Il Comune stima che le case occupate in questo modo siano circa 750. E non ci sarebbero solo quelle dell’edilizia residenziale pubblica ma anche quelle di proprietà del Campidoglio. Il sistema delle occupazioni a Roma è ben organizzato. Va dai procacciatori che sono fin dentro i tribunali e arriva ai manovali, disposti a sfondare porte in cambio di pochi euro. «Mi proposero 400 euro per aiutarli ad aprire una porta, erano magrebini, si occupavano della zona di Centocelle. A Roma ogni quartiere ha la sua gestione» racconta Gianni, un ragazzo rom che la casa l’ha occupata per sé. E’ in una palazzina in via Santa Croce di Gerusalemme, a due passi dalla basilica di San Giovanni in Laterano. Era dell’Inpdap, abbandonata dal 2006. Oggi l’ingresso è presidiato 24 ore su 24. Quelli che una volta erano uffici sono diventati monolocali per 180 famiglie. «Quando siamo arrivati c’era una guardia giurata, l’abbiamo mandata via e poi ci siamo preoccupati di ripristinare acqua ed energia elettrica. In questi anni di crisi economica sono state colpite tante famiglie di muratori, elettricisti, idraulici che hanno perso casa. Ci hanno aiutato. Ognuno ha offerto la propria competenza». Un vero e proprio “caso” quello di Action che ha attirato anche l’attenzione del Santo Padre, come racconta Paolo Perrini, tra i responsabili del movimento: «Non solo ci ha incoraggiati ad andare avanti ma ci ha anche inviato la benedizione apostolica. Ormai non siamo più illegali ma un esempio». Insomma è tutt’altra cosa rispetto al racket di Primavalle. Nel popolare quartiere romano, cosa si deve occupare e chi deve farlo è stabilito dai clan. E quasi tutti sono fiancheggiatori e affiliati, come emerso lo scorso marzo in occasione dell’arresto, tra gli altri, di Massimiliano Crea, il boss di Stilo (Reggio Calabria) che, secondo gli inquirenti, ha il controllo di questo mercato. Ma anche nei casi dei movimenti con scopi sociali resta poco chiaro il sistema delle assegnazioni degli spazi occupati. Una sorta di paradosso. Chi occupa lo fa perché non è riuscito a entrare nelle graduatorie comunali. A sua volta, nel girone parallelo illegale, deve attrezzarsi per risultare in cima alla lista di quelli che andranno a occupare abusivamente una casa al prossimo turno. E l’elenco delle famiglie in attesa è altrettanto lungo. «La precedenza viene data a chi ha fatto la tessera dell’associazione. Inoltre si vede la partecipazione ai cortei, alle manifestazioni, ai picchetti, ai comizi». E’ la risposta di uno dei tanti capi dei movimenti quando ci presentiamo a chiedere una residenza. La rilevanza non è data tanto dal costo della tessera (pochi euro) ma dalla strumentalizzazione politico-elettorale. Non è un caso, infatti, che ogni movimento abbia il proprio consigliere, assessore, onorevole di riferimento. Ne fece un elenco Sergio Marchi quando fu candidato alla presidenza del Municipio Roma I per La Destra: «Action ha fatto eleggere in Campidoglio un campione dell’occupazione abusiva, Andrea Alzetta, detto Tarzan… L’estrema sinistra con il presidente del X Municipio Sandro Medici ha occupato gli alloggi dismessi degli enti pubblici… Andrea Catarci nel XI Municipio ha capitanato l’occupazione dell’ex deposito Atac sull’Appia Nuova». Dimenticandosi però di citare quelli ad opera della parte politica opposta, come Casapound che in via Napoleone III non solo ha occupato un intero edificio ma ci ha fatto la sede nazionale del partito. Eppure le case vuote a Roma ci sono. Le andiamo a vedere in via San Giovanni Reatino. Sono bei caseggiati ma quasi tutti vuoti. Tant’è che il Campidoglio è stato costretto a installare degli allarmi anti-intrusione. Da anni si attendono le assegnazioni. “Ho aspettato diciassette anni per avere questa casa, feci domanda nel ’95, avevo tre figli piccoli, ora ho quattro nipoti” ci dice una delle poche residenti. Nella scala dove abita ci sono dodici appartamenti, la metà è vuota. Ha la figlia nei cosiddetti residence, ossia i centri per l’assistenza alloggiativa temporanea. “Sono undici anni che mia figlia sta lì e non si sa che fine farà”, si sfoga la signora. E ha ragione, perché sono veri e propri tuguri. Tant’è che la settimana scorsa il commissario Francesco Paolo Tronca ha disposto la chiusura di sette centri su ventisei. “Il Comune ha sostituito i residence con i bonus casa. Nella sostanza è una buona idea ma nella pratica è fallimentare perché i proprietari dovrebbero essere pagati non dall’inquilino ma dal Comune. Nessuno si fida della pubblica amministrazione, ritengono che sia un cattivo pagatore e per questo non danno in fitto le case” chiosano dall’Unione Inquilini. Il sindacato di base Asia Usb, invece, stima che ogni anno si liberano dai 1000 ai 1300 alloggi che però non vengono riassegnati, motivo per il quale le graduatorie non avanzano. Nel 2014 la Regione stanziò 192 milioni di euro per reperire abitazioni libere ma, secondo il prefetto Gabrielli “ci furono divergenze tra gli uffici regionali e comunali sul come darvi attuazione”. Intanto i più disperati occupano qualunque cosa. Andiamo in via Tor de’ Schiavi. Ci accoglie Roudi, un etiope che parla benissimo l’italiano. Ci porta a vedere quello che era uno spogliatoio per gli operai dell’Acea (società per le forniture di acqua, luce e gas). Era in disuso da quasi dieci anni. “Quando entrammo la prima volta c’era l’erba talmente alta che non si vedeva niente”. Sono tutti stranieri: badanti, muratori, agricoltori. Tutti lavorano in nero. I tetti sono in amianto. Le pareti in cartongesso. Le stanze talmente piccole che fatichiamo a entrare con la telecamera. Per ottimizzare gli spazi hanno creato dei soppalchi con materiali di fortuna. Ci vivono intere famiglie, anche di sette persone. Tra loro incontriamo un rifugiato dalla Colombia: “Avevo una casa in campagna. I guerriglieri me l’hanno incendiata e sono scappato”. Ci mostra la stanza da letto, la divide con la compagna. Si deve salire su una scala in legno su un soppalco malfermo. Non si riesce a stare in piedi tanto è basso, non ci sono finestre o bocche d’aria. Lui è sorridente. “Non potrei chiedere di meglio, non mi manca niente, ho un posto dove mettere la testa e dormire”.

Case occupate, i numeri del fenomeno in Italia. Non solo Roma. Nel Paese ci sono 48 mila alloggi detenuti illegalmente. Specialmente da extracomunitari. A Milano ne viene preso uno ogni due giorni. Racket, danno economico, rischio per i privati: i dati, scrive Carlo Terzano su Lettera 43 il 25 agosto 2017. Il giorno dopo la guerriglia urbana di Roma, rimangono a terra i segni degli scontri tra gli occupanti e la polizia. Sull'asfalto e nelle aiuole giacciono gli stracci con i quali i disperati avevano provato a costruire delle tende di fortuna, le assi di legno brandite per difendersi dalle cariche, resti di cibo. Sembra una periferia degradata, invece è piazza Indipendenza, a 300 metri dalla centralissima stazione Termini e ad altrettanti dal ministero dell'Economia. E mentre ci si indigna per le frasi pronunciate da un agente, ci si chiede quanti altri palazzi di via Curtatone esistano in tutta Italia, quante altre battaglie per la casa saranno inscenate in autunno, quanti altri feriti finiranno in ospedale.

L'ex sede romana di Federconsorzi e Ispra di via Curtatone era occupata dal 2013. Il piano per lo sgombero è scattato sabato 19 agosto 2017, a stretto giro dagli attentati di giovedì 17 a Barcellona e Cambrils. Il prefetto della capitale, Paola Basilone, la definisce «operazione di cleaning», ma resta il dubbio che i fatti spagnoli abbiano spinto le autorità romane ad agire quasi di impulso, senza prima predisporre altre strutture di accoglienza e rischiando che l'intera azione di polizia si risolvesse in quei tafferugli ripresi dalle telecamere. Nell'enorme palazzo grigio, in una situazione di assoluto degrado, vivevano 800 persone (dimezzate nelle ultime settimane, ma 40 di loro dovrebbero trovare una nuova sistemazione), quasi tutte eritree e somale. La situazione andava avanti da così tanto tempo che molti si erano iscritti alle Asl e i bambini dello stabile frequentavano normalmente la scuola del quartiere. Perché l'ordine di sgombero è arrivato all'improvviso? Perché, di colpo, si è avvertita l'urgenza di ripristinare la legalità? Se le autorità temono che in posti simili possa annidarsi il germe jihadista, quanti altri palazzi di via Curtatone esistono in tutta Italia?

Per l'ex sindaco Gianni Alemanno «a Roma c'è una situazione insostenibile, una bomba sociale che rischia di esplodere in qualsiasi momento: ci sono troppi immigrati che nessuno sa dove mettere e che stanno diventando sempre più incontrollabili e aggressivi». Il prefetto oggi minimizza, ma ammette dalle pagine del Corriere che nella capitale ci sono altri 15 palazzi da sgomberare con altrettanta urgenza (parla infatti di una «top list 15») su di un totale di 100, nella medesima situazione. Gli occupanti, per la prefettura, sarebbero 4 mila. Il prefetto chiosa: «Mi fa una certa impressione [parlare di numeri tanto grandi, ndr] perché quando ero a Torino di palazzi occupati ce n'era uno solo». In realtà la situazione è cambiata anche a Torino. E la sensazione è che ora i prefetti delle più grandi città italiane lottino contro il tempo per evitare che interi quartieri diventino territori di nessuno, in cui possano germinare l'odio per la società occidentale o addirittura il jihad, come è accaduto nelle banlieue parigine. Pare impossibile, eppure non esiste un “catasto delle abitazioni occupate”. Molte infatti appartengono all'edilizia pubblica, una minima parte sono invece di privati, e questo ha reso più difficile censirle. Ci si deve affidare ai singoli dati nelle mani dei vari enti. Nel 2016 Federcasa, in collaborazione con Vpsitex e Nomisma, ha promosso un’analisi sul tema delle occupazioni abusive delle case popolari in Italia: gli alloggi dell'Erp (Edilizia residenziale pubblica) occupati sono circa 48 mila, su di un totale di oltre 750 mila. Il 6,4% delle abitazioni gestite dagli Enti associati a Federcasa. Di queste 48 mila, 40 mila (l'81%) sarebbero state occupate con la forza, mentre 9 mila sarebbero detenute da soggetti cui è venuto meno il titolo (scadenza del contratto).

Secondo i dati, il fenomeno è progressivamente aumentato negli ultimi anni: +20,9% tra il 2004 e il 2013. Le aree maggiormente interessate sono il Mezzogiorno (53,4%) e il Centro Italia (36,5%).

Dopo l'emergenza del 2014, sembrava terminato il periodo degli sgomberi a Milano. Invece le occupazioni hanno ripreso ad aumentare. Secondo i dati di giugno, sono circa 3.500 gli appartamenti detenuti in modo illegale, su di un totale di 38 mila che fanno capo ad Aler. L'emergenza si è spostata dal quartiere Giambellino – che resta, assieme a Corvetto e Lorenteggio, uno dei fronti caldi - a San Siro. Una omologa milanese della palazzina romana di via Curtatone si trova in via Civitali, a due passi dallo Stadio Meazza. Aler denuncia che è occupata quasi per intero da egiziani: una coincidenza un po' strana per non destare qualche sospetto, che rivela il tam tam tra le varie comunità, soprattutto nordafricane, che avviene quando si individua un possibile alloggio. Il danno economico è enorme: la sola morosità (ammontare degli affitti non pagati) nel quartiere di San Siro supera i 14 milioni di euro. A fine 2015 gli immobili occupati erano 3.010; a fine 2016 3.263: questo vuol dire che a Milano l'occupazione selvaggia procede al ritmo di oltre un appartamento ogni due giorni. Il 5 giugno 2017, durante una commissione consiliare congiunta Casa e Periferie, il presidente di Aler, Angelo Sala, ha spiegato: «Ad agire sono bande criminali, agenzie immobiliari gestite dal racket che fanno arrivare gente dall'estero perché a Milano troveranno la casa». Rispetto a qualche anno fa, si è infatti invertita la tendenza: «Oggi non c'è più l'occupazione d'urgenza dell'italiano, ma è un'occupazione degli immigrati, e difatti le richieste regolari per entrare in graduatoria da parte degli stranieri diminuiscono».

A Torino, dopo gli sgomberi dell'ex quartiere operaio Falchera, resta aperta la questione dell'ex villaggio olimpico, che versa in una situazione di totale abbandono ed è occupato da circa un migliaio di persone. Le quattro palazzine, che un tempo ospitavano atleti di tutto il mondo, sono detenute da 4 anni da extracomunitari, molti dei quali in Italia regolarmente.

Nel 2017 sono state attaccate da un gruppo di ultras. Per evitare ciò che è successo a Roma, prima di procedere con lo sgombero, l’amministrazione ha scelto la via dell'integrazione: contratti di lavoro nei cantieri navali di Fincantieri in Liguria, Veneto e Friuli per chi collaborerà. Molti hanno già aderito e stanno lavorando.

Visti i numeri, sarebbe sbagliato credere che chi occupa lo faccia con le sue sole forze e gratuitamente. Negli anni si è infatti sviluppato un racket che fornisce un servizio completo: forzare le porte, montare nuove serrature e provvedere agli allacci abusivi nel caso vengano disattivate le utenze. Si fanno chiamare “mediatori” e, come gli enti per l'edilizia popolare, stilano una lista di possibili inquilini. Come per gli enti che operano alla luce del sole, danno la precedenza ai più bisognosi: extracomunitari, famiglie con bambini o anziani disabili. Non per carità cristiana, ma perché si tratta di soggetti più facilmente ricattabili e le loro condizioni sono utili a rallentare la giustizia civile.

Il racket delle occupazioni non si ferma davanti a niente e da tempo ha preso di mira anche gli alloggi dei privati. Come difendersi dunque da una occupazione abusiva? A rispondere è l'avvocato Andrea Brunelli, del Foro di Genova: «Se al ritorno dalle ferie trovate la vostra abitazione occupata da sconosciuti è sconsigliabile risolvere la questione con la forza. Il rischio è una denuncia per esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.) o sulle persone (art. 393)». Quindi come comportarsi? «La strada maestra è quella di azionare un giudizio civile, chiedendo al giudice di tutelare il nostro “possesso” dell’immobile occupato con un’azione possessoria, più rapida della causa civile ordinaria. Il magistrato valuterà se l’immobile è nel legittimo possesso del ricorrente e ordinerà agli abusivi di lasciare l’edificio, disponendo l’uso della forza pubblica per procedere allo sgombero». Quanto tempo occorre prima di rientrare in possesso dell'immobile? «Purtroppo le tempistiche, che variano da tribunale a tribunale a seconda del carico di lavoro da smaltire, e i costi - che verosimilmente rimarranno in capo a chi ha ragione, in quanto l’abusivo difficilmente avrà beni aggredibili - fanno sembrare tutto questo procedimento come una “beffa” per il danneggiato. Si può allora aggiungere anche una denuncia penale per “invasione di terreni o edifici” (art. 633 c.p.) e cercare almeno la soddisfazione, quasi esclusivamente di principio, di veder condannato penalmente l’abusivo».

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x, dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011, n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

 IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

La notte del terremoto di Ischia: non volevano pagare il ticket dell’aliscafo, dopo aver dimenticato…di pagare l’albergo! Scrive il 27 agosto 2017 "Il Corriere del Giorno". Un gesto miserabile dei turisti la notte del terremoto di Ischia: oltre 400 mila euro di conti non pagati. Un comportamento al livello di quelli sciacalli che predano le case distrutte dal terremoto approfittando del fuggi fuggi. Mentre si discute dell’abuso edilizio, e mentre si parla delle vittime degli abusi, emerge lo squallore l’abuso nella maestria della truffa. Lo ha reso noto l’Associazione Albergatori di Ischia svelando il comportamento truffaldino di persone che con la scusa dell’emergenza hanno scelto la via della fuga dagli hotels senza pagare il conto. Un gruppo senza dignità di squallide persone hanno fatto i bagagli con la scusante della paura, approfittando della tragedia per evitare di aprire il proprio portafoglio. I racconti giornalistici del giorno dopo della scossa di terremoto sull’ Isola di Ischia, ci avevano riferito dei diecimila turisti in vacanza sull’isola durante il terremoto, che avevano preferito fare un rapido ritorno nelle loro case d’origine, la mattina dopo la scossa sismica. La ragione, scriveva la stampa, ignara, sembrava comprensiva. In molti se ne erano andati annullando la vacanza, facendo in realtà anche danno a se stessi, o almeno così era sembrata. Ma l’associazione albergatori di Ischia ha reso noto che questi “turisti-vigliacchi-truffatori”, se ne sono andati lasciando oltre 400.000 euro di conti non saldati nei loro alberghi e residences turistici ove alloggiavano. Quindi non siamo di fronte ad un caso isolato dunque, non si è trattato di una dimenticanza dettata dalla fretta o dalla paura, ma un comportamento collettivo, quasi un comune intento truffaldino. Con le forze dell’ordine completamente impegnate nei soccorsi e nello sgombero dalle aree maggiormente colpite, e contando anche sull’immancabile clima di confusione generale, per tanti turisti-truffatori l’esodo anticipato di qualche giorno ha fornito l’alibi perfetto per abbandonare senza pagare anche le case prese in fitto per le vacanze di agosto. O quanto meno, senza completare il pagamento, dopo aver versato solo la caparra all’arrivo. Non si sono riuniti per concordare un’azione comune, ma in tanti hanno pensato e fatto la stessa cosa. Si son detti “per fortuna che ci sono le macerie, così non si accorgeranno che me ne vado senza essere scoperto, e soprattutto senza pagare il conto”. Dei veri e propri vigliacchi-truffatori quindi per minimo due motivi: Primo. Si sono comportati come i predoni-avvoltoi che rubano nelle case distrutte dal terremoto approfittano di una condizione necessità per trarne profitto. Secondo. Solo dei miserabili mentre si discute degli abusi edilizi, e mentre si parla delle vittime degli abusi, fanno dell’abuso il loro stile di vita, e manifestando la loro “maestria” nella truffa. La vicenda dei fitti non pagati fa il paio con quella relativa alla pretesa, avanzata sempre l’altra notte dai tanti in fuga dall’isola, di non pagare il biglietto del traghetto, perchè “evacuati dal terremoto” “L’altra notte si sono pure presi a botte sulle banchine pur di trovare un posto sulle navi, e adesso sappiamo perché. Non era il panico per nuove scosse di terremoto, quanto piuttosto la paura di non riuscire a scappare in tempo senza aver pagato il conto” raccontano non senza ironia i poliziotti in servizio presso il Commissariato P.S. di Ischia, dove alla fine qualcuno dei creditori beffati e truffati si è rivolto. La prima furbizia è andata bene. Ma dopo il lauto pranzo gratis, i soliti furbi almeno il caffè sono stati costretti a pagarlo. Le compagnie marittime infatti si sono fatte pagare regolarmente il trasporto e al massimo hanno convertito senza costi di transazione i biglietti prenotati per fine agosto, anticipandoli alla data dell’altra notte. Non è questa certamente la prima volta che villeggianti o clienti d’albergo in vacanza a Ischia, si dileguano prima di aver saldato il conto della vacanza. È sicuramente però la prima volta che i furbetti della vacanza hanno trovato nel terremoto un complice che ne ha avallato la fuga.  Fredda, seppure sconsolata e rabbiosa la considerazione di Ermando Mennella, presidente della Federalberghi delle isole di Ischia e Procida. “La quantificazione non si regge su basi scientifiche, è ovvio, ma su una serie di fattori comunque chiari. Sono cinquemila le persone che hanno lasciato le strutture alberghiere prima della conclusione della vacanza, in seguito alla paura generata dalla scossa. E altrettante sono andate via dalle seconde case, dalle abitazioni di proprietà o da quelle prese in affitto per questo periodo. Poi bisogna aggiungere un migliaio di pendolari della nuotata che non stanno più affollando traghetti e aliscafi secondo lo schema classico del mordi e fuggi”. Un turista, una famiglia di turisti, che se ne vanno dagli alberghi senza pagare il conto, in un’isola come Ischia che vive di turismo, che è stata letteralmente messa in ginocchio da una catastrofe naturale, secondo noi è paragonabile ad una persona che trovandosi sul luogo di un incidente d’auto, vedendo una vittima a terra, ferita, gli si avvicina -, ma non per prestarle soccorso, ma solo con il fine vergognoso di rubarle il portafogli.

Questi sono dei veri e propri miserabili. Ora sono tornati nelle proprie case, staranno contando i soldi risparmiati, ma non sanno che rischiamo di essere inseguiti dalla sfortuna. E’ noto che quello che la vita regala, per un destino fatale, prima o poi la vita toglie…

La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità. Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo in cerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche. Con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto. Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo. Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale. Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…

Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!” Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare e da mungere tributariamente. 

Antonio Giangrande, turismo e risorse ambientali: “Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”. 19 settembre 20016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: “Prospettive a Mezzogiorno”. Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.

Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un’isola e non lo sanno – dice Briatore alla platea del convegno – pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L’80 per cento degli amministratori – aggiunge ancora Briatore – non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».

Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l’offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco – ha affermato Briatore – ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere – ha continuato l’imprenditore – io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece…

Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.

I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.

L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».

Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».

Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».

La visione di Briatore proprio non piace a Sergio Blasi, altro esponente eterno del Pd che si è detto disponibile a concorrere alla primarie del centrosinistra a Lecce: «Briatore punta alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica ad altissima qualità di spesa, nei quali conta chi sei prima di entrare e non quello che sarai diventato alla fine del tuo viaggio o della tua vacanza. Io la ritengo una prospettiva poco interessante per il Salento. E lo dico da persona che ha criticato fortemente la svolta “di massa” di alcune attrazioni, che a furia di sbandierare numeri sempre più alti finiscono per rovinare più che per valorizzare le opportunità di crescita. Ma esiste un mezzo – ha proseguito nel suo post l’ex segretario regionale del Pd – nel quale collocare un’offerta turistica che sia in grado di valorizzare le potenzialità inespresse, e sono tante, garantendo al contempo una “selezione” non in base al ceto sociale quanto agli interessi e alle aspettative del turista. Noi dobbiamo guardare ad un turismo che apprezza la cultura, anche quella popolare, la natura e il paesaggio. Che apprezza i musei e i centri storici tanto quanto il buon vino e il buon cibo. Che sia in grado di apprezzare e rispettare la terra che visita e di non farci perdere il rispetto per noi stessi».

Per Albano Carrisi: “La Puglia piace così!”

Naturalmente l’Italia degli invidiosi, che odiano la ricchezza, quella ricchezza che forma le opportunità di lavoro per chi poi, senza quell’occasione è costretto ad emigrare, non ha notato la luna, ma ha guardato il dito. Il discorso di Briatore non è passato inosservato sul web dove alcuni utenti classisti, stupidi ed ignoranti hanno manifestato subito il loro disappunto. “Tranquillo Briatore, i parassiti milionari che viaggiano e non pagano non ce li vogliamo in Puglia”, ha commentato un internauta, “Noi vogliamo musei e prati perché vogliamo gente che ami cultura e natura. Gli alberghi di lusso fateli a Dubai”, ha ribattuto un altro.

Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi. E’ chiaro che il Salento quello ha come risorsa: sole, mare e vento. E quelle risorse deve sfruttare: in termini di agricoltura, ma anche in termini di turismo, essendo l’approdo del mediterraneo. E’ lapalissiano che le piccole e le grandi realtà turistiche possono coesistere e la Puglia e il Salento possono essere benissimo l’alcova di tutti i ceti sociali e di tutte le esigenze. E se poi le grandi strutture turistiche incentivano opere pubbliche eternamente mancanti a vantaggio del territorio, ben vengano: il doppio binario, strade decenti al posto delle mulattiere, aeroporti, collegamenti ferro-gommati pubblici accettabili per i pendolari ed i turisti, ecc.. Ma il sunto del discorso è questo. Salento: sole, mare e vento. Ossia un luogo di paesini e paesoni agricoli a vocazione contadina con il mito tradizionale della “taranta” e della “pizzica”. E da buoni agricoltori, i salentini, da sempre, la loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna od ulivi ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. Ed i contadini poveri ed ignoranti, si sa, son sottomessi al potere dei politicanti masso-mafiosi locali.

Stesso discorso va ampliato in tutto il Sud Italia. Gente meridionale: Terroni e mafiosi agli occhi dei settentrionali, che invidiano chi ha sole, mare e vento, e non si fa niente per smentirli, proprio per mancanza di cultura e prospettive di sviluppo autonomo della gente del sud: frignona, contestataria e nel frattempo refrattaria ad ogni cambiamento e ad una autonoma e propria iniziativa, politica, economica e sociale.

Allora chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

IL RACKET DEGLI APPALTI.

Il racket degli appalti e le pubbliche amministrazioni, scrive nella sua Tesi Sara Spartà il 29 agosto 2017 pubblicata su “La Repubblica”. Sara Spartà - Università di Bologna, relatrice Stefania Pellegrini, correlatore Marco Dugato. Il settore degli appalti pubblici rappresenta un punto nevralgico nell’economia di un Paese. La fetta di investimenti in appalti in Italia, è di circa 169.8 miliardi di euro annui, corrispondenti al 10.5% circa del Pil. Questo settore, sebbene regolamentato e protetto dallo Stato, rappresenta uno snodo strategico per assicurare alle organizzazioni criminali profitti ingenti, controllo del territorio, consenso sociale, riciclaggio e occultamento di attività illecite. Attraverso importanti disponibilità di liquidità, le mafie “dialogano” con l’uso di tangenti con la cosiddetta “area grigia”, cioè funzionari pubblici, imprenditori e professionisti che gravitano nel settore degli appalti o, in via residuale, si avvalgono della forza intimidatrice e di assoggettamento per scoraggiare la concorrenza e controllare le procedure di aggiudicazione. Negli anni le tecniche di infiltrazione si sono evolute e affinate in relazione all’evolversi della normativa, da un sistema pianificato di ripartizione delle gare, il famoso “metodo Siino”, si è passati al “tavolino” con la “tassa Riina” (lo 0.8% sul valore dell’appalto da convogliare direttamente nelle casse di Cosa Nostra) per approdare ad azioni più pervasive idonee ad intaccare tutte le varie fasi dell’affidamento. In questo quadro, per sviluppare una risposta istituzionale adeguata, è essenziale individuare l’eventuale “effetto criminogeno della norma”, ossia le opportunità criminali prodotte dalla legislazione stessa nell’intento di perseguire obiettivi specifici. L’Emilia-Romagna è stata la cornice ideale in cui sviluppare questo tipo di analisi, sia da un punto di vista sociologico, con la graduale penetrazione di gruppi mafiosi nel tessuto sociale, sia giuridico con la L.R.3/2011 per la promozione della cultura della legalità e la L.R.11/2010 riguardo al settore dell’edilizia. Risulta imprescindibile inquadrare criticità classiche del Codice Appalti (quali varianti in corso d’opera, massimo ribasso, subappalto) e dall’altro lato offrire la risposta in termini di strategie di prevenzione e contrasto da parte della Regione seppur nella limitata competenza in materia. L’obiettivo raggiunto è stato quello di dimostrare quanto l’azione responsabile delle pubbliche amministrazioni possa sopperire a mancanze legislative. Alcuni esempi: il sistema di “Registrazione delle Presenze Autorizzate” ha garantito maggiore sicurezza nei cantieri; la verifica dei contratti cosiddetti sensibili e i “sotto soglia” che interessano il ciclo del contratto pubblico è stata possibile attraverso la stipula di Protocolli di Legalità; l’Elenco di Merito, accessibile dal sito internet della Regione, ha permesso di certificare le imprese con la contestuale possibilità di un collegamento diretto alle “white list” delle Prefetture. In via sperimentale sono stati realizzati interventi unici in Italia, quali l’Anagrafe degli esecutori un sistema ad interrogazioni che collega diverse banche dati con l’obiettivo di creare una anagrafica completa degli operatori economici; gli “indicatori sintomatici di anomalia degli appalti” un progetto che utilizza i dati e gli elementi raccolti dalle gare pubbliche e dai contratti da parte dell’Osservatorio Regionale al fine di individuare ex ante possibili irregolarità. Da ultimo, si è osservata l’implementazione di queste disposizioni nella fase di ricostruzione post terremoto 2012 in Emilia-Romagna: il caso di necessità e urgenza non ha derogato a cruciali disposizioni del Codice degli Appalti in modo da garantire sempre e comunque i principi dell’evidenza pubblica.

Borsellino, Di Pietro: "Mi disse "c'è poco tempo". Scoprì il vero volto della mafia", scrive il 19 luglio 2017 Andrea Barcariol su "Intelligo news". E' il giorno della memoria nella guerra alla mafia. L'Italia ricorda Paolo Borsellino, a 25 anni di distanza dalla strage di via D'Amelio, quando una Fiat 126 imbottita di tritolo esplose sotto la casa della madre del giudice, uccidendolo insieme a 5 uomini della sua scorta (a 57 giorni di distanza dalla morte di Giovanni Falcone). Tra le tanti voci, una fuori dal coro, quella di Fiammetta Borsellino che, in un'intervista a Il Corriere della Sera ha parlato di "25 anni di schifezze e menzogne" sottolineando la grande solitudine della famiglia. Su questo IntelligoNews ha intervistato Antonio di Pietro, ex Pm di Mani Pulite.

"Nessuno si fa vivo con noi, non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato, né un poliziotto. Si sono dileguati tutti". Che effetto le fanno queste frasi pronunciate da Fiammetta Borsellino?

"Capisco la sua amarezza, la comprendo e sono convinto che sia vera e sentita. Vedo in giro anche tanta ipocrisia, il giorno della ricorrenza tutti a fare dichiarazioni e poi il giorno dopo si ricomincia come prima e peggio di prima. Fiammetta ha tutta la mia solidarietà. L'isolamento di chi ha fatto il proprio dovere lo vivo sulla mia pelle tutti i giorni, ma io sono stato molto fortunato rispetto a loro. Io ero uno di quelli che era segnato nella lista, ma me la sono cavata grazie all'operazione di delegittimazione effettuata nei miei confronti. Fui costretto a dimettermi per potermi difendere in tribunale perché accusato di tante nefandezze".

Tanto del lavoro svolto da Falcone e Borsellino è rimasto sulla carta perché nessuno ha continuato quel filone di indagine. Perché?

"L'inchiesta su mafiopoli come quella su tangentopoli sono state interrotte violentemente, tangentopoli anche fraudolentemente. Sono state interrotte perché proprio in quel periodo stavano combaciando e confrontandosi tra di loro e hanno scoperto cose gravi. Falcone e Borsellino hanno scoperto il nuovo volto della mafia, non solo rubare e coppola ma mondo degli affari in commistione con il mondo della politica gestiti da personaggi mafiosi che ormai avevano il colletto bianco e le mani sporche di sangue".

E' stata proprio questo tipo di svolta a determinare la morte di Falcone e Borsellino?

"Io dissi una volta che avevo la fila degli imprenditori che venivano a confessare, ma tutti mi dicevano fino al Rubicone. Dal Rubicone in poi preferisco la galera alla morte certa".

Come funzionava?

"Il sistema degli appalti attraversava tutto il Paese, con la differenza che al nord era un rapporto a due, tra politica e imprenditori che compravano gli appalti con le mazzette, al sud invece era un rapporto a tre perché c'era un intermediario che garantiva da una parte la pace nei cantieri e dall'altro l'accesso alla politica. Quello era il vero potere che avevano sofferto, più di me, sia Falcone sia Borsellino. Tanto che Falcone fu il primo a stabilire un ponte per fare le rogatorie all'estero. Borsellino mi incontrò al funerale di Falcone e mi disse: "Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo".

E' questo un ricordo particolare che ha di Borsellino?

"Sì è anche l'ultimo che ho, ormai si era stabilito un contatto nelle inchieste. Basta rileggere le confessioni del pentito Mutolo per trovare questa connessione tra sistema degli appalti e sistema della nuova mafia. Su questo loro due stavano indagando e iniziarono i nostri rapporti che poi proseguirono con Caselli. Lui potrà testimoniare che molte volte ci incontrammo per uno scambio di atti. Poi personaggi particolari lanciarono gravissime accuse contro il pool in generale e in particolare contro di me, tanto che io dovetti dimettermi e correre alla Procura di Brescia per difendere il mio operato".

Che idea si è fatto in riferimento alla famosa agendina rossa del giudice Borsellino, scomparsa subito dopo l'attentato?

"Non lo so, se esiste veramente vorrei che un giorno, più presto possibile, venisse trovata perché evidentemente doveva contenere qualche appunto. A quei tempi anche io prendevo appunti perché erano talmente tante le notizie di reato che ricevevamo e non potevamo averle tutte online. Sarebbe ora che almeno dal punto di vista storico ci fosse una ricostruzione reale di quello che è successo".

Di Pietro, Contrada e la cena del 1992. Il tentativo di farle sparire, ne esistevano altre otto. L’ex pm: spy story che non esiste, scrive Felice Cavallaro il 2 febbraio 2010 su "Il Corriere della Sera". Antonio Di Pietro (terzo da sinistra) a cena con il funzionario del Sisde Bruno Contrada (secondo da sinistra), in una delle foto scattate il 15 dicembre del 1992, nove giorni prima dell’arresto dello stesso Contrada. Alcune foto che era stato ordinato di distruggere inquietano Antonio Di Pietro. Sono quattro foto scattate il 15 dicembre del 1992 con il futuro leader di Italia dei valori seduto a tavola, durante una cena conviviale in una caserma dei carabinieri, fra alcuni ufficiali arruolati nei servizi segreti, uno 007 eccellente come Bruno Contrada e un altro James Bond vicino alla Cia, arrivato da Washington per una targa ricordo della famosa «Kroll Secret Service» all’ospite d’onore, appunto Di Pietro. Solo una cena. Niente di male, come ha già fatto sapere lo stesso Contrada attraverso il suo avvocato. Solo una occasionale e innocua chiacchierata prenatalizia fra amici e colleghi, fra investigatori e soltanto un magistrato. Una cena immortalata da una macchina fotografica senza pretese che salta fuori giusto per un ricordo, appena qualche scatto, dodici per l’esattezza, come si accerterà nove giorni dopo, quando tutti si preoccupano e a tutti fanno giurare di bruciare ogni copia. Tante le telefonate incrociate quel maledetto giorno, il 24 dicembre del 1992. Il giorno dell’arresto di Bruno Contrada, allora numero 3 del Sisde, funzionario sotto mira dei colleghi di Paolo Borsellino sin dalla strage di via D’Amelio, cinque mesi prima. E scatta una gara a farle sparire. Ognuno assicura che lo farà. Forse per evitare di ritrovarsi un giorno davanti al funzionario mascariato dalle rivelazioni di alcuni pentiti come Gaspare Mutolo, scagliatosi in ottobre contro ‘u dutturi e contro Domenico Signorino, pm con Giuseppe Ayala al primo maxi processo. Un giudice antimafia nelle mani dei Riccobono, secondo i primi scoop. Seguiti dal suicidio di Signorino, il 3 dicembre. Un drammatico evento del quale non si può non parlare alla cena organizzata con i vertici dei Servizi nella caserma del comando Legione di via In Selci dal capo del reparto operativo dei carabinieri di Roma, Tommaso Vitagliano, allora colonnello, oggi generale di brigata. Ma le storiacce di mafia non sono l’unico argomento di conversazione perché quel 15 dicembre, a metà giornata, l’Ansa ha ufficializzato con un dispaccio l’avviso di garanzia contro Bettino Craxi per concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. È il provvedimento firmato con Saverio Borrelli e gli altri colleghi del pool di Milano proprio da Tonino Di Pietro la sera precedente, il 14. E, ventiquattro ore dopo, il giudice per il quale mezza Italia ormai tifa sta lì a tavola, Contrada seduto accanto a lui, l’agente americano pronto con la targa premio.

IL COLPO - Se la storia non fosse rimasta top secret per 17 anni forse qualche domanda, anche fra gli stessi sostenitori di Di Pietro, sarebbe stata posta prima. Avvertì Di Pietro di quelle curiose coincidenze i suoi colleghi? Se lo chiede anche chi adesso tira fuori le foto considerate tessere di un mosaico chiamato «Il ‘colpo’ allo Stato», per dirla col titolo di un libro quasi ultimato da un ex amico sganciatosi da Di Pietro, l’avvocato Mario Di Domenico, cultore di statuti medievali e, guarda un po’, cooptato dieci anni fa dal magistrato per redigere proprio lo Statuto di Italia dei valori. Un’amicizia clamorosamente interrotta. Come quella di Di Pietro con Elio Veltri, oggi in sintonia con Di Domenico. Al di là dei rancori che spaccano il micro mondo dell’Italia dei valori, adesso le foto che il Corriere pubblica oggi e quelle che si troveranno nel libro edito da Koinè stimolano qualche riflessione. Al di là di impropri retro pensieri sul versante «americano», Di Pietro non avrebbe informato di quella cena con Bruno Contrada né i suoi colleghi del pool di Milano né i magistrati di Palermo che il 24 dicembre disposero l’arresto. Anzi, quel giorno scatta la caccia alle foto per distruggerle. Vivono tutti un forte imbarazzo e si affanna soprattutto Francesco D’Agostino, il maggiore dei carabinieri che accompagna Di Pietro alla cena, e che in una istantanea compare di fronte a Contrada, a sua volta seduto vicino a Di Pietro. Provando a soffocare le prime voci sulle foto da una manina salvate, adesso l’ex magistrato ricorda di avere incontrato lì per caso Contrada. E forse lo stesso dirà D’Agostino, l’ufficiale soprannominato «El tigre», amico e frequentatore del banchiere italo-svizzero Pier Francesco Pacini Battaglia che uscì indenne dagli interrogatori avvenuti prima delle scenografiche dimissioni di Di Pietro. Con soddisfazione del maggiore, in seguito al centro di un discusso prestito di 700 milioni elargito dallo stesso Pacini Battaglia. Quel 15 dicembre del 1992 D’Agostino è un fidatissimo collaboratore per Di Pietro. E con lui va alla cena romana lasciando tornare a Milano da solo Gherardo Colombo, dopo la notte dell’avviso e dopo avere trascorso insieme la mattina a Roma, al Csm, per un convegno. Di Pietro è così l’unico magistrato presente al vertice enogastronomico con gli alti gradi dei Servizi e con l’«americano» Rocco Mario Modiati, a tutti presentato come il responsabile della cosiddetta «Cia di Wall Street», la Kroll, la più grande organizzazione di investigazione d’affari del mondo fondata nel ’72 da Jules Kroll, tremila dipendenti fissi, una quantità di collaboratori, corsia preferenziale per chi arriva da Cia e altri servizi, Mossad compreso, uffici in 60 città di 35 Paesi, stando anche a una inchiesta pubblicata dal New Yorker il 19 ottobre scorso.

LA BUFALA - Manca la foto con la consegna della targa premio. E forse serve a poco interrogarsi sull’impatto che tutte avrebbero potuto avere nel pieno e nella piena di Mani pulite. Anche nelle scelte degli stessi colleghi di Di Pietro e di Borrelli che «avrebbe potuto cambiare mano nella guida delle inchieste», come teorizza Di Domenico. Oggi Contrada è il primo a minimizzare il peso dell’incontro, parlando attraverso il suo avvocato Giuseppe Lipera, tappato com’è ai domiciliari per motivi di salute: «Un incontro casuale e cordiale. "Siamo quasi colleghi perché anch’io sono stato per il passato funzionario di polizia", mi disse Di Pietro quando capì chi ero...». Molti considerano inattendibile Contrada per definizione. Altri sono certi di un errore giudiziario a suo carico. Ma il punto non è questo. Bisognerebbe semmai capire perché di quell’incontro non si sia fatto mai cenno successivamente e perché l’evidente imbarazzo portò tutti a cercare di far sparire le foto, anche se lo stesso Contrada dice di possederne una copia e altri le hanno conservate. Di Pietro, davanti a sospetti o insinuazioni, passa al contrattacco, inserendo qualche errore fra i suoi ricordi: «Si vuol fare credere, attraverso un dossier di 12 foto mie con Mori, Contrada e funzionari dei servizi segreti, che io sia o sia stato al soldo dei servizi segreti deviati e della Cia per abbattere la Prima Repubblica perché così volevano gli americani e la mafia». Una citazione errata quella di Mori, estraneo alla cena derubricata da Di Pietro al rango di «bufala o trappola»: «Soltanto menti malate possono pensare che ho fatto quel che ho fatto per una spy story e non come umile manovale dello Stato, che quando faceva il muro cercava di farlo dritto». Ma non basta per convincere Bobo Craxi, da tempo interessato a scavare sull’ipotesi dell’aggancio americano: «Una teoria che sarebbe verosimile perché dopo l’89 c’erano interessi internazionali a cambiare il quadro europeo».

ANNOZERO - Le foto documentano solo una cena. Ma è anche vero che il ruolo di Contrada era già discusso e che non sfuggiva a Di Pietro il quadro insidioso dei misteri legati alla strage di via D’Amelio. Dopo 17 anni è stato lui l’8 ottobre scorso a rivelare durante una puntata di Annozero, presente Massimo Ciancimino, di essere stato informato alcuni giorni prima della strage di una relazione dei Ros su un attentato preparato contro lo stesso magistrato e contro Paolo Borsellino. Con una differenza. Che a Borsellino la nota fu inviata per posta e mai recapitata. Mentre a lui fu consegnato un passaporto con nome di copertura, Mario Canale, per rifugiarsi all’estero. Come fece andando in vacanza con la moglie in Costa Rica, ma lasciando i figli a casa. Per chi indaga da vent’anni sui pasticci italiani è scontato cercare di mettere a fuoco la controffensiva di potentati allarmati dall’eventualità di un incrocio fra le inchieste di Palermo e Milano sui grandi affari. Proprio quel che rischiava di accadere dal febbraio ’92 in poi, con Falcone e Borsellino vivi e con il pool di Milano al lavoro. Da qui l’importanza di quella minaccia della mafia su Di Pietro e Borsellino insieme. Eppure, anche la storia della fuga del «Signor Canale» è venuta fuori solo a 17 anni di distanza. Sull’asse Milano-Palermo si incrocia una cronologia parallela da vertigine. E ogni volta salta fuori anche il nome di Contrada che alcuni considerano un mostro, a cominciare da un fan di Di Pietro come Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso in via D’Amelio: «Paolo considerava Contrada un assassino e lo stesso considero io. Paolo disse più di una volta ai suoi familiari parlando di Contrada "Solo a fare il nome di quell’uomo si può morire"». Posizione oggi ufficialmente condivisa da Di Pietro, stando a quel «finalmente condannato» che lanciò nel suo blog il 19 luglio di due anni fa. Parole che stridono per i suoi ex amici più che con la cena con i silenzi successivi. D’altronde per il pool di Palermo, diffidente nei confronti del capo, Piero Giammanco, e in attesa di Giancarlo Caselli, arrivato il 15 gennaio ’93, è una estate infuocata quella del ‘92.

UN VORTICE - Il 12 settembre, vengono estradati dal Venezuela i fratelli Cuntrera, il 17 viene ucciso a Palermo Ignazio Salvo, il 15 ottobre a Catania il giudice Felice Lima fa arrestare 22 persone fra imprenditori, politici, progettisti coinvolti dal geometra Giuseppe Li Pera e il 4 novembre tuona il pentito Giuseppe Marchese su Contrada accusandolo di aver avvisato Totò Riina prima di una perquisizione nella villa-covo di Borgo Molara, rivelazione preceduta dagli strali di Gaspare Mutolo contro il dirigente del Sisde e il giudice Signorino. In quei giorni Di Pietro non lavora solo su Craxi, ma anche sulle storie siciliane. Segue l’asse appalti-mafia come farà nei mesi successivi andando a trovare con l’allora capitano Giuseppe De Donno a Rebibbia «don» Vito Ciancimino. Un incontro che sarà poi dimenticato. Fatti senza seguito. Fino ad arrivare alla deposizione dello stesso Di Pietro, il 21 aprile 1999, davanti ai giudici del «Borsellino ter» ai quali ricorderà di avere collaborato con Paolo Borsellino fino alla morte di Falcone e di «avere interrotto il rapporto con la Sicilia» (argomento mafia-appalti) dopo la bomba di via D’Amelio «perché non mi ritrovavo nel metodo d’indagine degli altri magistrati». Gli stessi ignari di foto e incontri eccellenti. Felice Cavallaro 02 febbraio 2010

«Giustizia milanese affidata a società dei paradisi fiscali», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 giugno 2017 su "Il Dubbio".  Lo storico cronista di giudiziaria Frank Cimini ha rivelato per primo il caso che scuote Palazzo di Giustizia: le gestione dei fondi Expo da parte dei magistrati. Ora pronostica: “La verità verrà fuori grazie allo scontro fra le correnti”. Intanto l’Ordine dei Milano sceglie la procedura più trasparente per la gara sui servizi di supporto, finanziati dall’avvocatura. “Solo le correnti della magistratura sono in grado di fare chiarezza sul modo in cui sono stati spesi al Palazzo di giustizia di Milano i fondi governativi assegnati in occasione di Expo2015”. Non usa mezzi termini Frank Cimini, lo storico cronista di giudiziaria del Mattino che per primo, già nel 2014, raccontò sul sito giustiziami.it le “anomalie” nelle procedure di spesa dei 16 milioni di euro stanziati per informatizzare il Tribunale del capoluogo lombardo. Affidamenti senza gara ai quali fa da contrappunto la procedura con “gara europea” adottata dall’Ordine forense di Milano per scegliere il servizio di supporto agli uffici. Sulle spese di competenza delle toghe, finite nel mirino dell’Anac, l’altro giorno il gruppo di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice dei giudici, ha chiesto formalmente al Csm di fare chiarezza “per salvaguardare il prestigio e la credibilità dell’Ordine giudiziario”. “L’Anac di Cantone – dice Cimini arriva con anni di ritardo. Molti affidamenti, fin da subito, presentavano aspetti poco chiari”. Ad esempio quelli alla Ediservice del gruppo Edicom, società che si occupa fra l’altro della pubblicità accessoria dei procedimenti esecutivi o fallimentari che i giudici della seconda e della terza sezione civile impongono ai loro delegati. Questa società fornisce anche il personale per le cancellerie. “Oltre ad aver vinto la gara – dice Cimini – con un ribasso da brivido del 72%, è normale che una società che lavora per il Tribunale abbia la sede nel Delaware, un paradiso fiscale, e nessuno ad oggi sia in grado di dire di chi sia la proprietà?”. I servizi offerti dalla Ediservice hanno fatto storcere la bocca a diversi magistrati. “Inutili e dispendiosi” disse in una riunione il giudice della terza civile Marcello Piscopo. Su queste vicende, prima dell’intervento dell’Anac che ha trasmesso il dossier alla Procura ed alla Corte dei Conti, un procedimento penale a Milano era stato comunque aperto. Nel 2016 il pm Paolo Filippini, dopo aver scritto che “lo sviluppo dell’indagine deve passare necessariamente dalle condotte dei magistrati milanesi fruitori di questi servizi resi dalla ditta Edicom”, trasmise gli atti ai om bresciani. I quali, dopo 8 mesi, restituirono gli atti ai colleghi di Milano in quanto “il mero sospetto” non era sufficiente per determinare la loro competenza che scatterebbe solamente se si iscrivesse un magistrato nel registro degli indagati. “Ripeto, questa vicenda potrà essere risolta solo con l’intervento delle correnti delle toghe e Mi ha in questo momento la forza per farlo”, aggiunge Cimini. Il riferimento è al fatto che Magistratura indipendente ha avuto solo di recente un exploit a Milano: 51 voti nel 2008, 181 alle elezioni dello scorso maggio per l’Anm. Milano è poi il feudo del togato di Mi Claudio Galoppi, alle ultime elezioni per il Csm il magistrato più votato in Italia. Da quanto emerso fino ad oggi, furono soprattutto le toghe di Unicost e Area ad essere coinvolte nelle procedure di affidamento dei fondi Expo. Da qui, forse, il desiderio di Mi di regolare qualche conto. Ed a proposito di risorse economiche destinate al funzionamento della giustizia milanese, si segnala dunque la decisione dell’Ordine degli avvocati di Milano di fornire anche per i prossimi 2 anni il personale di supporto agli uffici. Un servizio affidato con gara europea, per maggiore trasparenza e nel rispetto della più recente normativa in tema di concorrenza e appalti. “Continuiamo ad offrire il nostro contributo al funzionamento del sistema giustizia milanese, sia pure nel quadro di un graduale ridimensionamento da tempo annunciato e concordato con i capi degli uffici”, ha dichiarato il presidente dell’Ordine Remo Danovi.

Appalti con i fondi di Expo collaudati dai magistrati contro la legge. Le procedure di affidamento da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari. La segnalazione della Guardia di Finanza: «Violato il codice su chi deve verificare le commesse», scrive Luigi Ferrarella l'11 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, al pg della Cassazione e alla Corte dei Conti, c’è un problema non solo sul «prima», cioè sulle violazioni-deroghe-frazionamenti-conflitti di interesse che nel 2010-2015 avrebbero viziato le procedure di cui si è qui riferito ieri, ma anche sul «dopo», e cioè sul momento dei collaudi. I finanzieri del generale Gaetano Scazzeri hanno infatti segnalato a Cantone come la verifica della conformità o del funzionamento delle commesse appaltate risulti essere stata svolta in 13 occasioni da commissioni di collaudo delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge, posto che il Codice degli appalti, in tema di collaudi, alla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del drp 207/210 stabilisce: «Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati ai magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori dello Stato, in attività di servizio». Tra funzionari comunali e dirigenti ministeriali e consulenti, i ruoli non appaiono sempre chiari all’Anac. È il caso della già trattata presenza informale e tuttavia operativa nei tavoli tecnici di Giovanni Xilo quale apparente consulente del Tribunale (ma forse pure della Camera di Commercio, e comunque anche, rileva ora l’Anac, socio unico di un’azienda in rapporti diretti e indiretti con una delle società assegnatarie degli appalti). Ed è il caso anche di un aspetto collaterale alla fornitura da 2,8 milioni che nel giugno 2015 venne fatta convogliare su Maticmind spa e Underline spa argomentando come giustificazione l’«opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze. Qui la principale doglianza dell’Anac resta che non vi fosse invece alcun nesso tra l’appalto per l’hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici; ma, oltre a ciò, all’Anac non appare comprensibile né che il direttore del settore Gare Beni Servizi del Comune di Milano, Nunzio Paolo Dragonetti, sembri aver compiuto atti in qualità di Responsabile unico del procedimento (Rup), incarico invece ufficialmente del direttore comunale della Gestione Uffici giudiziari, architetto Carmelo Maugeri; né che nella commissione di collaudo degli hardware figuri poi il dirigente del Cisia di Milano (terminale locale dell’informatica del ministero), Gianfranco Ricci, che come referente per la stazione appaltante aveva già partecipato proprio al progetto di potenziamento dei centri dati gestiti dal Cisia. Un ulteriore capitolo di anomalie investe le forniture informatiche sottoposte all’adesione al Mepa-Consip, cioè al Mercato elettronico della Pubblica amministrazione. Qui, quando arrivano le offerte delle varie società, la stazione appaltante deve per legge rispettare il termine minimo di 10 giorni per la ricezione: invece in 5 gare, del valore totale di 600.000 euro nel 2010 e 2012 e 2014 e 2015, il Comune di Milano non ha rispettato questo termine, aggiudicando le forniture già dopo 5, 7 o 8 giorni a Telecom Italia, Itm Informatica Telematica Meridionale srl, Dottcom srl. In altre due gare sul circuito MePa-Consip, inoltre, l’Anac critica l’artificioso frazionamento della spesa con il quale una commessa unitaria sarebbe stata divisa in due procedure da 47.890 euro (i progetti «Udienza facile» e «Orientamento interattivo») aggiudicate entrambe alla Eway Enterprise Business Solutions.

Appalti informatici al tribunale di Milano. E’ giallo nel giallo. Non solo commesse assegnate a sigle e imprese in odore mafioso, ma addirittura, per svariati lotti, poi collaudate da magistrati. E contro la legge. Ai confini della realtà. Invece, ben dentro il pianeta giustizia di Casa nostra, scrive il 12 giugno 2017 Paolo Spiga su “La Voce delle Voci”. Scrive il Corriere della Sera del 12 giugno: “magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, c’è un problema non solo sul prima ma anche sul dopo e cioè sul momento dei collaudi”. Commissioni di collaudo “delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge che stabilisce: ‘Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati a magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori di Stato, in attività di servizio’”. Se succede addirittura al Tribunale di Milano, per appalti giudiziari, e con la presenza di magistrati nelle stesse commissioni di collaudo, figurarsi cosa può succedere in altre parti d’Italia. Sorge spontanea la domanda: ma quella normativa così pomposamente recitata dalla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del DPR numero 207/210 cosa ci sta a fare? Al solito, facciamo le norme inondate da codici e codicilli che non vengono rispettate da nessuno, tantomeno dagli stessi magistrati? Uno dei casi più eclatanti di giudici-collaudatori fu, negli anni ’80, quello delle toghe incaricate di verificare i lavori del dopo terremoto in Campania, sisma che si è trasformato in una grande occasione per il decollo della camorra spa, di faccendieri e imprese di partito, ma anche un ottimo ingranaggio per tanti professionisti, in pole position i magistrati. Resta storico un documento presentato da alcuni magistrati contro altri magistrati nel 1989 davanti al Csm nel quale veniva puntato l’indice contro le toghe collaudatrici, un folto numero in Campania, chiamate a suon di milioni di lire, all’epoca, per verificare la congruità – non si sa con quale perizia tecnica – di opere pubbliche costate una barca di soldi. Opere sulle quali avrebbero caso mai indagato in un momento successivo, come è successo con l’inchiesta sul dopo terremoto, dieci anni di carte e processi buttati al vento, e a loro volta costati altre palate di milioni allo Stato. Un processo – quello del post sisma ’80 – ovviamente morto di prescrizione, tanto per cambiare…

Cantone: con i fondi Expo 18 appalti illeciti del Tribunale di Milano. L’Anac su Comune, magistrati e ministero: 8 milioni tra gare aggirate e conflitti d’interesse, scrive Luigi Ferrarella il 10 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Almeno 18 delle 72 procedure d’appalti per l’informatica del Tribunale di Milano, per oltre 8 dei 16 milioni di euro di fondi Expo 2015 stanziati da un decreto legge nel 2008, per l’Anac sono stati viziati fra il 2010 e il 2015 da violazioni del codice degli appalti, da illeciti affidamenti diretti senza bando con la scusa dell’unicità del fornitore per straordinarie ragioni tecniche, da artificiosi frazionamenti pianificati o da accorpamenti privi di senso, da immotivate convenzioni con enti esterni come la Camera di Commercio, e da potenziali conflitti di interesse nei tavoli tecnici. È una radiografia-choc l’esposto che l’«Autorità nazionale anti corruzione» di Raffaele Cantone ha inviato — sulla scorta di un rapporto del Nucleo della GdF del generale Gaetano Scazzeri — non solo alla Corte dei Conti (per i danni all’erario), ma anche alla Procura Generale della Cassazione (per eventuali profili disciplinari a carico di magistrati), e alla Procura della Repubblica di Milano per gli impliciti rilievi penali di turbative d’asta. Benché solo cartolare, la ricostruzione Anac è impietosa sul quinquennio dei tecnici del Comune stazione appaltante (era Moratti e Pisapia); dei vertici del Tribunale (con la presidenza di Livia Pomodoro e l’Ufficio Innovazione dell’attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli); dei dirigenti Dgsia/Cisia (braccio informatico del ministero della Giustizia di Alfano-Severino-Cancellieri-Orlando); della Camera di Commercio di Carlo Sangalli; di singole toghe e consulenti. La conclusione dell’Anac, nutrita anche dalle mail pre-contratti, è infatti che i membri del «Gruppo di lavoro per l’infrastrutturazione informatica degli uffici giudiziari di Milano» in molti casi avessero già deciso di non fare gare pubbliche e di affidare invece in via diretta, nel preteso nome di una più spedita efficienza, gran parte delle commesse a società già “mirate” come Net Service e Elsag Datamat; e che il Comune-stazione appaltante, oltre a individuarle preliminarmente, incaricasse poi il ministeriale Dgsia/Cisia di trovare di volta in volta cosmetiche giustificazioni tecniche. Nel 2015, ad esempio, «urgenti migliorie» a un pezzo del processo civile telematico sono suddivise in due contratti da 256.000 e 835.000 euro assegnati, su richiesta della ministeriale Dgsia, alla Net Service nel presupposto riguardassero «lo stesso codice sorgente (il cuore del software, ndr) mantenuto dalla società», e si trattasse quindi di un affidamento diretto per eccezionalità tecnica del fornitore (II comma art. 57). Ma in realtà, proprio in base ai precedenti contratti con la società, il suo codice sorgente era già diventato proprietà del Ministero, dunque libero di rivolgersi ad altri fornitori meno onerosi, e di così sottrarsi all’altrimenti monopolio di fatto. Analogo meccanismo, prospettato dal comunale responsabile unico del procedimento, arch. Carmelo Maugeri, nel 2013 porta ad esempio 323.000 euro alla Guerrato spa per la centrale elettrica di una sala server.

Altro esempio nel giugno 2015, quando la ragione per convogliare su Maticmind spa e Underline spa una fornitura da 2,8 milioni viene addotta nella «opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze: peccato, nota l’Anac, che non vi fosse alcun nesso tra l’appalto per hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici giudiziari. Singolare, poi, la convenzione del maggio 2013 che, per potenziare il sito Internet e la rete Intranet del Tribunale, il Comune stipula con la Camera di Commercio in quanto «gli Uffici giudiziari hanno comunicato che da tempo è in essere un rapporto consolidato con la Camera di Commercio in ordine all’esecuzione di attività varia», e quindi «risulta opportuno» andare avanti così. Un prolungamento che vale in due rate 250.000 euro. Sui quali ora l’Anac esprime «forti perplessità», vista anche la facile reperibilità sul mercato di quelle competenze. Per tacere dell’infelice precedente dell’autunno 2012, quando il presidente della Digicamere scarl (controllata da Camera di Commercio) non aveva segnalato di aver patteggiato il reato di omesso versamento dell’Iva.

Pur senza un ruolo formale, al tavolo tecnico partecipava come consulente del Tribunale un esperto di organizzazione (già per Camera di Commercio e Ordine Avvocati), Giovanni Xilo, che però l’Anac ora lamenta fosse anche altro. Nel 2012 e 2014 la sua società C.O. Gruppo srl aveva avuto rapporti economici (in qualità di fornitore) con la Net Service, una delle aziende assegnatarie degli appalti del Tribunale; Net Service nel 2012-2013-2014 aveva retribuito incarichi a tre persone; e nel giugno 2014 queste tre avevano comprato da Xilo l’82% della sua società C.O. Gruppo srl, continuando a lavorare per Net Service. Collegamenti diretti o indiretti tra Xilo e Net Service — li riassume ora l’Anac — tali da aver potuto «influenzare», anche solo potenzialmente, il ripetuto ricorso del Comune alla norma sul fornitore unico a favore di Net Service.

L’accusa del funzionario del Comune: «Gli appalti irregolari dell’Expo li gestivano i magistrati», scrive il 16 giugno 2017 "Il Dubbio". La vicenda era stata tirata fuori qualche giorno fa dall’Anac di Raffale Cantone che aveva rilevato 18 irregolarità su 72 procedure di appalto relative all’informatizzazione del Tribunale milanese. I bandi dei fondi Expo destinati all’informatizzazione del tribunale venivano gestiti dai magistrati. Lo dice al Dubbio Carmelo Maugeri, un architetto che seguiva la gestione degli uffici giudiziari per conto del comune. Ma andiamo con ordine. Non più tardi di due settimane fa, l’Anac di Raffale Cantone ha rilevato 18 irregolarità su 72 procedure di appalto relative all’informatizzazione del Tribunale milanese per un valore di 8 milioni di euro (su 16) di fondi governativi stanziati per Expo2015. Il dossier è stato trasmesso la scorsa settimana alla Corte dei Conti (per eventuali danni erariali), alla Procura di Milano (perché valuti eventuali aspetti di carattere penale) e alla Procura Generale presso la Cassazione (per la valutazione, sotto il profilo disciplinare, delle condotte dei magistrati che si sono occupati di queste procedure). Fra le toghe prese di mira da Cantone, in particolare, l’ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, ora in pensione, e l’ex presidente dell’Ufficio Gip Claudio Castelli, attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia. La contestazione principale è quella di aver speso senza gara ma con affidamenti diretti la maggior parte dei fondi a disposizione. “L’escamotage” usato è stato l’articolo 57 comma due del vecchio codice sugli appalti, quello che consente di fare affidamenti diretti allo stesso fornitore già in precedenza individuato dall’amministrazione. Il sito giustiziami. it, gestito dal celebre cronista giudiziario Frank Cimini e dalla collega Manuela D’Alessandro, già due anni fa, prima di essere ripreso da tutti i quotidiani, aveva segnalato che qualcosa nelle procedure d’informatizzazione del Tribunale di Milano non andava nel verso giusto. Roberto Bichi, attuale presidente del Tribunale di Milano e all’epoca dei fatti vicario di Livia Pomodoro, mercoledì ha convocato una riunione con i suoi 25 presidenti di sezione per fare il punto della situazione. Alcuni partecipanti hanno descritto un clima teso dove l’imbarazzo era palpabile. Al termine un comunicato che “scarica” tutte le responsabilità sul comune di Milano: «Non risulta che il Tribunale abbia mai assunto il ruolo di stazione appaltante». «Se ci sono state irregolarità – prosegue Bichi – auspico che emergano al più presto per dirimere dubbi, evitare illazioni, e non ledere l’immagine del Tribunale». All’epoca direttore del Settore Uffici Giudiziari per il comune era l’architetto Carmelo Maugeri. Fino allo scorso anno, prima della riforma voluta dal Ministro Andrea Orlando che ha affidato questo compito al dicastero di via Arenula, i comuni avevano in carico la gestione degli uffici giudiziari. Maugeri, tirato indirettamente in causa, non ci sta e ribatte. «Si sta facendo grande confusione in questa vicenda, cercando di scaricare le responsabilità», dice al Dubbio. In particolare «è vero che il comune di Milano in questa vicenda ha svolto il ruolo di stazione appaltante, ma è anche vero che erano i magistrati milanesi e i dirigenti della Dgsia (Direzione Generale per i Sistemi Informativi del Ministero della Giustizia) coloro che decidevano in che modo dovessero essere spesi i fondi Expo 2015. L’autonomia degli uffici del comune di Milano era molto limitata. Parole pesanti alla quali Maugeri aggiunge: «Ci sono le mail fra gli uffici del comune e i magistrati che provano ciò. Io non sapevo – prosegue Maugeri nemmeno cosa fosse, per fare un esempio, il processo civile telematico: il comune di Milano ha sempre fatto quello che dicevano i magistrati. Anzi, quando si decise di non procedere più con gli affidamenti diretti ma con una gara europea per l’automatizzazione dell’Unep (Uffici Notificazioni Esecuzioni e Protesti), un progetto che doveva rendere elettroniche le notifiche dei provvedimenti giudiziari, ci fu un “irrigidimento” da parte di alcuni magistrati», aggiunge Maugeri. «Alle riunione operative – sottolinea l’architetto – partecipavano tutti i vertici degli uffici giudiziari milanesi dell’epoca, nessuno escluso. Io, comunque, ritengo di aver fatto tutto correttamente, anche per quanto attiene i vari affidamenti diretti», precisa Maugeri sottolineando come «nei mesi scorsi la Guardia di Finanza ha sequestrato tutti gli incartamenti relativi ai fondi Expo. Compresi i vari verbali delle riunioni operative». Su come andrà a finire questa vicenda Frank Cimini è tranchant: «Ci sono di mezzo magistrati, la verità non la sapremo mai».

I nemici del generale dalla Chiesa. Non soltanto terroristi e mafiosi. «Dalla Chiesa» (prefazione di Aldo Cazzullo, Mondadori, pagine 324, euro 20). La biografia di Andrea Galli (pubblicata da Mondadori) ripercorre le vicende che portarono all’omicidio del 1982. C’è un vuoto di verità che va colmato, scrive Giovanni Bianconi il 28 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa (1920-1982), assassinato a Palermo da Cosa nostra. Si respira un’atmosfera da Giorno della civetta, quando un giovane capitano dei carabinieri sbarcato a Corleone il 3 settembre 1949 fa emergere a fatica i contorni di un misterioso delitto, nonostante latitanze e assoluzioni a protezione dei colpevoli. E non si fa scrupolo di denunciare le interferenze dei politici che «cercano di sopraffarsi affinché l’uno tragga vantaggi a scopi elettorali a danno dell’altro». Quel capitano — non il Bellodi creato da Leonardo Sciascia, ma l’ufficiale dell’Arma in carne e ossa Carlo Alberto dalla Chiesa — ha toccato con mano la mafia e gli intrecci che la proteggono, e sembrano inseguirlo fino a Milano, dove nella prima metà degli anni Sessanta si trova a indagare sulle propaggini lombarde della guerra fra cosche che ha rotto gli equilibri tra gli «uomini d’onore», con tanto di omicidi in trasferta. Poi dalla Chiesa, divenuto colonnello, torna sull’isola per comandare la Legione della Sicilia occidentale, ed eccolo alle prese con inchieste sui funzionari regionali legati a Cosa nostra, anticamera dei rapporti tra mafia e pubblica amministrazione; e con le calunnie di un Corvo ante litteram, impegnato a spargere veleni contro il comandante che con la sua fissazione per il rispetto delle regole rischia di mettere in pericolo il quieto vivere sul quale i boss hanno costruito il loro potere. Se ne andrà ma tornerà ancora, il carabiniere promosso generale e infine prefetto di Palermo, incaricato di guidare una battaglia che non farà in tempo neppure a cominciare: la mafia chiude i conti ammazzandolo a colpi di kalashnikov, insieme alla giovane moglie e all’inerme guardia del corpo. Era il 3 settembre 1982, trentatré anni dopo il primo incarico a Corleone. E stavolta non c’è lo sfondo arido e assolato da Giorno della civetta, bensì la determinazione cupa e sanguinaria de Il padrino. Tutto questo e molto altro, insieme alla sintesi di un lungo tratto di storia criminale e politica d’Italia, affiora dalle pagine in cui Andrea Galli ha ricostruito la vicenda del «generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia» (Dalla Chiesa, Mondadori, con prefazione di Aldo Cazzullo). Una parabola che comincia e finisce in Sicilia, ma in mezzo attraversa la lunga e drammatica parentesi della lotta armata, contro la quale lo Stato schierò dalla Chiesa due volte: prima agli albori delle Brigate rosse e poi, dopo l’inspiegabile scioglimento del suo Nucleo speciale, all’indomani del sequestro Moro. Il racconto di Galli, ricco di dettagli, suggestioni e episodi inediti o poco conosciuti, aiuta a ricordare che il capitolo più tragico del terrorismo rosso si apre e si chiude con le indagini di dalla Chiesa e dei suoi carabinieri, che tra il 1974 e il 1975 quasi arrivano a smantellare le Brigate rosse e in seguito, fra il 1978 e il 1981, avviano il percorso investigativo che porterà alla loro definitiva sconfitta. Un metodo innovativo più che una struttura organizzata, grazie al quale gli uomini del generale (un manipolo di fedelissimi selezionati e votati alla causa) riescono a infiltrare le bande armate e gli ambienti nei quali reclutano militanti, studiandone abitudini e obiettivi per anticiparne le mosse e riuscire a neutralizzarle. Fino al decisivo aiuto fornito dai terroristi «pentiti», primo fra tutti quel Patrizio Peci che proprio con dalla Chiesa decide di saltare la barricata e passare dall’altra parte. I successi del generale e del suo modo di lavorare — accompagnati dalle perplessità mai nascoste nei confronti di uno Stato che non sembra reagire compatto alla sfida del terrorismo rosso, e soprattutto non usa la stessa determinazione contro l’eversione di marca neofascista — lo trasformano in un obiettivo per i suoi avversari sul «campo di battaglia», ma determinano inquietanti preoccupazioni anche all’interno delle istituzioni, nonché gelosie e attenzioni poco benevole dentro l’Arma. Un quadro poco limpido, nel quale s’inserisce il ritrovamento del suo nome nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, che accompagna la nomina di dalla Chiesa a vice-comandante dell’Arma e poco dopo, nella primavera del 1982, a prefetto di Palermo, chiamato a contrastare l’emergenza della mafia che ha sferrato un attacco senza precedenti alle istituzioni, con una raffica di «omicidi eccellenti». Lui accetta anche per provare a sfuggire all’isolamento nel quale si sente confinato con il precedente incarico «privo di contenuti», come scrive lui stesso. Pur nella consapevolezza di essere strumentalizzato: «Mi sono trovato al centro di uno Stato che usa il mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti e non ha nessuna volontà di debellare la mafia», pronto a «buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati e compressi», annota nel diario. Al generale promosso prefetto non viene concesso il tempo di verificare la sua amara profezia. I killer mafiosi entrano in azione su ordine di Totò Riina e della Cupola prima ancora che dalla Chiesa possa cominciare a incidere su quegli interessi. Un particolare che ha pesato e continua a pesare sul reale movente del delitto, come avevano già sentenziato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri giudici istruttori del maxi-processo a Cosa nostra: «Persistono zone d’ombra sia nelle modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia nella consistenza di specifici interessi, anche all’interno delle istituzioni, volti all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A trentacinque anni di distanza dall’omicidio, il libro di Andrea Galli aiuta a riempire, almeno parzialmente, quel vuoto di verità.

Indagini, veleni e guai: ecco cosa sta scuotendo l'Arma dei Carabinieri. Vertici sotto inchiesta. Litigi tra ufficiali. E rapporti opachi con la politica. La Benemerita vive il suo momento peggiore. Ecco cosa sta succedendo e chi potrebbe essere il prossimo comandante generale, scrive Emiliano Fittipaldi il 22 agosto 2017 su "L'Espresso". Chiunque arriverà, «dovrà rimboccarsi le maniche. Perché troverà macerie: erano decenni che l’Arma dei Carabinieri non soffriva di una crisi così grave». Il militare che lavora al Comando Generale di Roma forse esagera, ma non è l’unico a pensare che la Benemerita stia vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente. Una crisi latente da tempo, esplosa con l’indagine Consip. Uno scandalo che ha tramortito, in un domino di cui ancora non si vede la fine, tutti. Dal comandante generale Tullio Del Sette (indagato per favoreggiamento) ai capi di stato maggiore, ascoltati come testimoni; passando ai comandanti di reparti specializzati, accusati di depistaggio; e ai carabinieri iscritti nel registro per falso ideologico e materiale; per finire con la caduta di eroi simbolo dell’Arma come il colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Capitano Ultimo” per aver arrestato Totò Riina, allontanato su due piedi lo scorso mese da una delle nostre agenzie di intelligence perché considerato improvvisamente «non più affidabile». Leggendo le carte e le accuse dei magistrati - tutte ancora da provare - sembra che sul caso Consip l’Arma si sia spaccata a metà. Con il vertice della piramide impegnato a rovinare attraverso fughe di notizie insistite un’indagine giudiziaria che rischiava di compromettere l’immagine del Giglio magico di Matteo Renzi, e la base - rappresentata dagli investigatori del Noe - concentrata al contrario a costruire prove false pur di inchiodare Tiziano Renzi, il padre del segretario del Pd. Un cortocircuito mai visto nel Corpo, un disastro giudiziario e mediatico che ha indebolito ancor di più la posizione del numero uno Tullio De Sette, indagato dallo scorso dicembre a Roma per favoreggiamento e divulgazione di segreto istruttorio, con l’accusa di aver fatto trapelare a soggetti terzi (come l’ex presidente della Consip Luigi Ferrara) l’indagine sulla stazione appaltante dello Stato su cui stavano lavorando i pm di Napoli. Per lo stesso reato sono iscritti anche il ministro Luca Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia: il comandante della Legione Toscana, è stato accusato di aver spifferato informazioni segrete sia da Luigi Marroni (l’ex ad di Consip ha detto che era stato anche Saltalamacchia, suo amico, a dirgli «che il mio cellulare era sotto controllo») sia dall’ex sindaco Pd di Rignano sull’Arno Daniele Lorenzini. «Durante una cena a casa di Tiziano», ha specificato in una deposizione, «sentii Saltalamacchia» suggerire al papà dell’ex premier «di non frequentare un soggetto, di cui tuttavia non ho sentito il nome, perché era oggetto di indagine». Se gli ultimi mesi sono stati difficilissimi, va evidenziato che Del Sette, nato 66 anni fa in Umbria, a Bevagna, era inviso a pezzi dell’Arma anche prima dell’iscrizione nei registri della procura, e che fonti del Comando generale non negano come molti generali, davanti ai guai giudiziari del loro capo, non si siano certo stracciati le vesti.

Già: il comandante generale, arrivato al posto di Leonardo Gallitelli all’inizio del 2015, è infatti stato giudicato fin da subito “troppo” vicino alla politica: anche se la lunga carriera dell’Arma ne faceva un candidato autorevole, in molti non gli perdonavano (e non gli perdonano) i sette anni in cui è stato capo ufficio legislativo del ministero della Difesa, sotto governi sia di destra sia di sinistra; né la scelta, nel 2014, di accettare la chiamata del ministro Roberta Pinotti, per diventarne capo di gabinetto. Non era mai accaduto prima che un carabiniere assumesse quell’incarico fiduciario. A Del Sette viene poi contestato un carattere non facile. Se Gallitelli, mente fredda e raffinata, ha puntato su una guida inclusiva e meritocratica, seppur giudicata da alcuni troppo “curiale”, Del Sette ha preferito un comando verticistico, che per i critici ha finito con l’essere divisivo. «Del Sette è persona di grande valore, molto leale con le istituzioni. Ha lavorato bene con i ministri di ogni partito, come Martino, Parisi, anche con Ignazio La Russa. Molte delle leggi vigenti portano la sua “firma”, compreso l’accorpamento del Corpo forestale ai carabinieri», spiega chi lo stima e ha lavorato con lui al dicastero della Difesa. «Cosa lo ha penalizzato negli ultimi tempi? Su Consip credo si sia trattato di un’ingenuità, e la sua posizione sarà archiviata. Al comando generale invece, non l’ha mai aiutato il suo carattere fumantino. È un uomo capace, che però si arrabbia facilmente. Soprattutto quando si convince che il suo interlocutore non rispetta le gerarchie e i ruoli che lui ha definito». Del Sette viene definito sia dai suoi estimatori (che sono molti) sia dai suoi nemici (che sono ancor di più) un uomo schivo, persino timido, ma poco propenso alla mediazione. Appena nominato dai renziani a numero uno dei carabinieri, ha deciso in effetti di spazzare via la vecchia nomenclatura costruita in sei anni dal suo predecessore, scegliendo di andare allo scontro frontale con alcuni generali fedelissimi di Gallitelli. Molto stimati, però, dalla base dell’Arma.

Così, se il Capo di Stato maggiore Ilio Ciceri è stato sostituto da Vincenzo Maruccia (anche lui sentito come testimone dai pm di Roma per la vicenda Consip), e il generale Marco Minicucci è stato sottoutilizzato, un altro pezzo da novanta come Alberto Mosca ha dovuto cedere la poltrona di comandante della Legione Toscana a uno dei pupilli di Del Sette, proprio Saltalamacchia, dovendosi accontentare del comando della Legione Allievi Carabinieri. Clamorosa poi la scelta del colonnello Roberto Massi: l’ex comandante dei Ros considerato uno degli ufficiali più brillanti dell’Arma, e promosso da Gallitelli capo dell’ufficio legislativo nel 2014, dopo una breve convivenza con Del Sette ha preferito fare armi e bagagli e trasferirsi all’Anas nel 2016. All’ente nazionale per le strade Massi ricopre l’incarico di “responsabile della tutela aziendale”. L’unico gallitelliano che è riuscito a stringere un patto di ferro con il comandante umbro è stato Claudio Domizi, ancora influente capo del personale del primo reparto. «Le tensioni interne sono iniziate fin dal suo arrivo, ma sono peggiorate nel tempo. La crisi Consip le ha fatte solo esplodere», ragiona preoccupato un militare con le stellette, che considera i colleghi gallitelliani veri responsabili della spaccatura, perché nostalgici e incapaci di accettare il nuovo corso. Tutti, però, mettono sul banco degli imputati anche il sistema della rotazione obbligatoria degli ufficiali (che costringe pure i carabinieri più esperti e capaci a cambiare reparto dopo due anni) e l’assenza di una vera meritocrazia interna. «Qualche tempo fa a Reggio Calabria durante un giuramento a passare in rassegna i reparti, oltre agli ufficiali, è stato anche un appuntato del Cocer, il sindacato interno dei carabinieri a cui Del Sette si è molto appoggiato dall’inizio del suo mandato», racconta uno degli scontenti «Forse a voi civili sembra una sciocchezza, ma nell’Arma è una cosa inverosimile, che ha fatto accapponare moltissime divise». Ottimi rapporti con Maria Elena Boschi e lo stesso Lotti, qualche incontro con l’imprenditore renziano Marco Carrai (tra cui una cena a casa del compagno di Mara Carfagna, Alessandro Ruben, che ama invitare mimetiche e stellette nel suo salotto), Del Sette ha dovuto gestire anche la patata bollente del colonnello Sergio De Caprio, “Ultimo”. L’attivismo “anarchico” dell’ex vice comandante del Noe (che ha collaborato con il pm John Woodcock a quasi tutte le inchieste più delicate degli ultimi anni su politica e potere, da quelle sulle tangenti di Finmeccanica alla P4 di Luigi Bisignani, passando dalle tangenti della Lega Nord a quelle sulla Cpl Concordia) non è mai stato amato dai piani alti della Benemerita.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è caduta proprio nel luglio del 2015, quando una delle intercettazioni del fascicolo sulla Cpl (una telefonata privata tra il generale della Finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi in cui il segretario del Pd definiva il suo predecessore Enrico Letta «un incapace») è finita in prima pagina sul “Fatto Quotidiano”. Del Sette, dopo un mese di buriane politiche e polemiche infuocate, deciderà di firmare una circolare che toglie ai vicecomandanti dei reparti le funzioni di polizia giudiziaria. Una norma considerata da molti “contra personam”. «Continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che le sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere», polemizzò senza mezzi termini “Ultimo” in una lettera di saluto ai suoi uomini. Poi grazie alla mediazione dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti e del capo dell’Aise Alberto Manenti, De Caprio a fine 2016 viene distaccato ai servizi segreti. Per la precisione all’ufficio Affari interni, quello che controlla gli 007 italiani che righino dritto. Se malumori e dissapori sono una costante di ogni struttura gerarchica, la crisi dell’Arma supera i livelli di guardia a inizio del 2017. Alle indagini sulla fuga di notizie si aggiungono prima quelle sul capitano Gianpaolo Scafarto del Noe, accusato dai pm di Roma di aver falsificato le prove nell’informativa. Poi quelle al suo capo Alessandro Sessa, numero due del reparto, incolpato nientemeno per “depistaggio” per non aver detto la verità (questa l’ipotesi della procura) durante un’audizione con i magistrati. Infine il tentativo di ritrattazione dello scorso giugno di Luigi Ferrara, il manager Consip che aveva tirato in ballo Del Sette come colui che lo aveva messo sull’avviso in merito a un’indagine giudiziaria sull’imprenditore Alfredo Romeo e la stessa Consip: dopo un confuso interrogatorio, in cui probabilmente il manager ha cercato di proteggere proprio Del Sette, i pm hanno iscritto anche Ferrara nel registro degli indagati. Per falsa testimonianza.

La crisi strutturale del corpo “Nei Secoli Fedele” ha toccato nuove vette qualche giorno fa, quando i pm romani hanno scoperto che Scafarto mandava documenti riservati sull’inchiesta Consip a ufficiali ex Noe traslocati con “Ultimo” ai servizi segreti. L’ipotesi investigativa è che questi stessero ancora collaborando alle indagini su Consip portate avanti dagli ex colleghi. “Ultimo” e tutti i suoi uomini (De Caprio aveva portato con se due dozzine di fedelissimi, di cui la gran parte provenienti dal Noe) sono stati così allontanati dal nuovo incarico, e sono rientrati nell’Arma. Un allontanamento avvenuto senza accuse formali da parte della magistratura, e senza una richiesta esplicita di Manenti. È stato Marco Mancini, un alto funzionario del Dis (il dipartimento che coordina le agenzie d’intelligence) coinvolto in passato nel sequestro dell’imam Abu Omar a chiederne la testa. Dopo aver scoperto che Scafarto e gli investigatori del Noe, sempre nell’ambito dell’inchiesta Consip, lo avevano seguito e fotografato, mandando ai collaboratori di “Ultimo” all’Aise le risultanze dei loro appostamenti. L’incarico di Del Sette terminerà il prossimo gennaio. Ed è probabile che il suo successore verrà nominato non dal governo Gentiloni, ma da quello che entrerà in carica dopo le elezioni politiche, previste per la prossima primavera. In pole position ci sono il numero uno del comando interregionale Ogaden Giovanni Nistri (romano, tre lauree, giornalista pubblicista, ex comandante del comando per la Tutela del patrimonio e direttore del Grande Progetto Pompei, che ha ottimi rapporti con il Pd) e il generale Riccardo Amato, numero uno della divisione Pastrengo ed esperto di antimafia, che gode dell’appoggio del Quirinale. Subito dietro c’è Vincenzo Coppola (chiamato “il paracadutista”, una vita in prima linea nelle missioni di peacekeeping e da marzo promosso numero due dell’Arma), mentre il generale Ilio Ciceri e Riccardo Galletta, capo della Legione Sicilia, sembrano avere tutti i titoli necessari, ma meno chance. Il primo, considerato il miglior uomo macchina possibile, sconta il peccato di essere considerato un gallitelliano, mentre il secondo - all’inverso - un uomo di Del Sette. A chiunque toccherà, risollevare l’Arma non sarà impresa facile.

Il caso Saguto non finisce più. In ballo un'altra toga antimafia, scrive Riccardo Lo Verso il 20 febbraio 2017 su “Live Sicilia”. Il caso Saguto non è chiuso. Ci sono due informative che tirano in ballo un altro giudice che lavora a Caltanissetta. Con tutta probabilità il nuovo filone investigativo dovrebbe essere già approdato, per competenza, a Catania. Nelle intercettazioni dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sono finiti i dialoghi fra Giovanbattista Tona, Silvana Saguto e Carmelo Provenzano. Tona oggi è consigliere della Corte d'appello nissena, in passato da gip si è occupato anche delle stragi del '92, ed è uno dei magistrati più impegnati sul fronte antimafia. Saguto è l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo travolta dall'inchiesta nissena, il perno di un sistema che, secondo l'accusa, aveva trasformato la gestione dei beni confiscati alla mafia in un affare di famiglia. Provenzano è uno degli amministratori giudiziari che di quel sistema avrebbe fatto parte. Secondo i pm di Caltanissetta, Provenzano era stato scelto da Saguto per prendere il posto di Gaetano Cappellano Seminara, quando quest'ultimo iniziò ad essere troppo chiacchierato. Passaggi delicati di cui Tona sarebbe stato a conoscenza. L'ingresso di Provenzano nel sistema sarebbe coinciso con l'incarico nella gestione degli impianti di calcestruzzo degli imprenditori Virga di Marineo. Una procedura inizialmente assegnata a Giuseppe Rizzo che, secondo i pm, poteva contare su un big sponsor, il colonnello della Dia Rosolino Nasca. Saguto considerava Rizzo "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò". E gli venne affiancato Provenzano perché "è un docente e non può dire niente nessuno". Professore alla Kore di Enna, Provenzano è finito sotto inchiesta assieme alla Saguto. Si sarebbe speso, tra le altre cose, per agevolare la carriera universitaria, laurea inclusa, del figlio del giudice. Ad un certo punto, però, la coabitazione Rizzo-Provenzano divenne impossibile. Provenzano aveva un piano per sbarazzarsi del concorrente e ne parlò con Tona. L'esautorazione di Rizzo, per essere indolore, doveva apparire come la conseguenza della sua inefficienza. Dovevano “trovare un modo per dire che lui, la minchiata l'aveva fatta così grossa che lui scatti in piedi”. Bisognava fare emergere “tutto quello che ha fatto male. Il problema non è prendere incarichi, ma uscire con onore dagli incarichi”. Lo stesso Rizzo, sentito dal pm Cristina Lucchini, ha dichiarato di avere capito che tra Saguto e Provenzano c'era un rapporto confidenziale. Era Provenzano ad avere influenza sul giudice e non viceversa, tanto che Rizzo fu costretto a mandare a casa tutti i collaboratori che aveva scelto per fare spazio a quelli del professore. Ed è nel contesto di questo rapporto di forza sbilanciato a favore di Provenzano che si inserisce la figura di Tona e le due informative consegnate dai finanzieri ai pm di Caltanissetta alla fine del settembre sorso. Vi sono annotate le registrazioni dei dialoghi fra Provenzano e Tona di cui si fa cenno nell'avviso di conclusione delle indagini notificato nei giorni scorsi a Saguto e agli altri indagati. È ipotizzabile che sia avvenuta la trasmissione di questa parte dell'inchiesta a Catania, competente quando in ballo ci sono magistrati i servizio a Caltanissetta. Tona e Provenzano erano “amici”. Sarebbe stato il giudice a indicare al professore la strategia per scalzare la concorrenza di Rizzo. E il professore lo aggiornava passo dopo passo. Dalle conversazioni trasmesse a Catania sembrerebbe emergere che il magistrato nisseno era bene informato del modus operandi dei colleghi palermitani e anche dell'operato di Cappellano Seminara.

L'ANTIMAFIA E' MORTA. VIVA L'OLTREMAFIA.

L’antimafia è morta, viva l’oltremafia, scrive il 15 febbraio 2017 Salvo Vitale su "Telejato". Marco Travaglio sostiene che, non dovrebbero essere i politici a parlare dei giornalisti, ma i giornalisti a parlare dei politici, ma quando politici e giornalisti si mettono assieme e ci metti pure qualche magistrato, la frittata è fatta: sono capaci di farti credere che Cristo è un criminale, Galilei è un ignorante, Martin Luther King un terrorista, la Merkel è una spinellara e persino che Trump sia un filosofo. Queste tre categorie hanno decretato a tavolino la morte dell’antimafia, diventata scomoda, partendo dal fatto che nell’antimafia c’era qualcuno che si faceva i fatti suoi, e hanno inventato, coniato nuovo di zecca il termine “oltremafia”. Sono stati tirati in ballo ex magistrati diventati politici, come Pietro Grasso o semplici avvocati, come Ingroia, per sostenere, anche con questo nuovo termine, che ci sono i soliti “professionisti” che sostengono che bisogna andare oltre la mafia, dopo essere andati contro l’antimafia. Il che, in parole povere significa che la mafia non c’è più, perché siamo andati oltre, o che c’è ancora, ma noi la superiamo, la sorpassiamo, la cancelliamo, la ignoriamo e la lasciamo indietro come una malformazione del passato. Non cito il giornalista che ha proposto questa amenità e che ha orientato il suo lavoro in una crociata contro la magistratura, dietro la convinzione che oggi in Italia non c’è più la tradizionale divisione dei poteri tracciata da Montesquieu, ma che il potere giudiziario prevale su quello esecutivo e sul legislativo. In parte ha ragione. Non cito nemmeno l’altro giornalista che, con un’amarezza degna di miglior causa, si è scagliato “contro l’antimafia” decretandone l’inutilità e vaneggiando sulla presunta vittoria di Matteo Messina Denaro. L’antimafia è una cosa seria: dentro ci sono scelte di coraggio, paure, sangue, morte, voglia di vita, delusioni, entusiasmi, sconfitte, vittorie, ma sempre impegno civile e scelte di vita. È vero, può esserci anche opportunismo, agevolazioni, scelta della corsia più favorevole per conseguire un obiettivo, ma sono ombre che appartengono a ogni settore delle istituzioni. Può capitare di trovare un giudice Saguto, ma non tutti i giudici sono come la Saguto. Il solito vizio di scambiare il tutto per la parte o la parte per il tutto non autorizza nessuno a fare di tutta l’erba un fascio.

Quindi, ai becchini dell’antimafia il mio messaggio è questo: mettetevi il cuore in pace, l’antimafia c’è e ci sarà fino a quando c’è e ci sarà la mafia, fino a quando c’è e ci sarà gente che non vuole saperne, che vuole sentirsi libera di costruire il proprio futuro e quello di coloro che verranno. Solo dopo potremo parlare di “oltremafia”.

Ingroia capofila, Grasso a seguire. I professionisti dell'Oltremafia, scrive Giovedì 9 Febbraio 2017 Giuseppe Sottile su "Il Foglio". Dispiace dirlo, soprattutto per chi ci ha creduto veramente, ma l’antimafia non tira più. Non va più di moda, non è più glam. Ha perso lo smalto e ha perso soprattutto la credibilità. Pensate a tutti quelli che, a Roma, si sono armati di penna e trombone per cantare urbi et orbi le lodi di Mafia capitale. Pensate agli editorialisti e ai cronisti che già vedevano la cupola sopra er Cupolone, le lupare dentro il Campidoglio, le coppole storte dentro ogni delegazione municipale. Pensate ai romanzieri, che finalmente vedevano specchiate dentro un fascicolo della procura le loro trame e le loro suburre. Pensate alla stampa straniera e a tutti quelli che, felici e boccaloni, c’erano cascati. Che cosa resta di quella mafia? Nulla. Tutto azzerato, tutto archiviato: non era un’inchiesta ma una fiction, non era un processo ma una sceneggiatura, non era una realtà criminale ma un fumosissimo teorema. Che beffa per i professionisti dell’antimafia. Che smacco per tutte le Rosy Bindi, sempre pronte a spendersi, con i petti in fuori, per amplificare ogni sussurro inquisitorio, per conferire dignità politica a ogni sussulto manettaro, per alzare in quattro e quattr’otto i palchetti della gogna e macinare lassù carrettate di indiscrezioni e di intercettazioni, di linciaggi e di sputtanamenti. Il crollo rovinoso della mastodontica inchiesta romana non è che l’ultimo capitolo di un mito che, ormai da qualche anno, non veleggia più trionfalmente verso gli esaltanti orizzonti di gloria. Nell’aula bunker di Palermo si affloscia, udienza dopo udienza, il monumentale processo sulla fantomatica Trattativa, cioè su quel patto scellerato tra pezzi dello Stato e i boss di Cosa nostra. Mentre a Caltanissetta vengono a galla ogni giorno nuovi dettagli sulle nefandezze messe a segno da quella particolare cosca togata che faceva capo a Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale e regista di tutti i traccheggi che consentivano a lei e ai suoi compari di spolpare senza pudore i patrimoni sequestrati, in nome del popolo italiano, ai mafiosi e agli imprenditori che con i mafiosi avevano avuto comunque a che fare. Chi se la sente ancora di legare la propria militanza o il proprio destino agli oracoli provenienti dai palazzi di giustizia? No, essere un professionista dell’antimafia di questi tempi proprio non conviene. Ed è per questo, probabilmente, che i più scaltri della compagnia vanno lentamente spostandosi verso una militanza più sofistica, capace di garantire nuovi traguardi ma senza il pericolo di contraccolpi improvvisi e devastanti. Tramontano i professionisti dell’antimafia e s’avanzano i professionisti dell’Oltremafia: quegli alti pensatori per i quali oltre alla mafia c’è sempre un mondo oscuro da disvelare, una inconfessabile verità da scoprire, una losca complicità da dipanare, un mandante occulto da smascherare, una misteriosa “entità” difficile da acciuffare perché, quasi certamente, vive nascosta e protetta dentro le istituzioni. Di fronte all’antimafia che si appanna, il valore dell’Oltremafia diventa ancora più prezioso specie per chi vuole giocare quella carta sul banco sempre verde della politica. E per averne conferma basta leggere l’intervista concessa da Pietro Grasso, presidente del Senato, al Corriere della Sera: una conversazione nata per ricordare la sentenza di 25 anni fa con la quale la Corte di Cassazione rese definitive le condanne del maxiprocesso, quello istruito da Giovanni Falcone e che costò l’ergastolo a boss come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Luciano Liggio, Leoluca Bagarella e altri trecento malacarne. Grasso, che di quel maxiprocesso fu giudice a latere, di carriera ne ha fatta. E tanta. E’ stato procuratore capo di Palermo e poi procuratore nazionale antimafia. I mezzi per combattere efficacemente Cosa nostra non gli sono certamente mancati. E non gli è mancata neppure la possibilità di affinare nuovi strumenti legislativi perché nel 2013, quando era ancora a capo della procura nazionale, fu chiamato da Pierluigi Bersani a candidarsi sotto il simbolo del Pd e le cose gli andarono, come si suole dire, benissimo: diventò, nel giro di un mese, senatore e subito dopo presidente del Senato. Eppure – nonostante la sua storia sia di tutto rispetto e nonostante la sua carriera sia costellata di innegabili successi, come la cattura di Bernardo Provenzano, latitante da 43 anni – anche Pietro Grasso, l’altro giorno, davanti al giornalista del Corriere, ha sentito il bisogno di iscriversi al promettente filone dell’Oltremafia. “Si intuisce – ha detto – che Cosa nostra possa essere stata il braccio armato di altri interessi: di una strategia politica di tipo economico legati agli appalti pubblici; o di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali. Purtroppo non è stato possibile trovare le prove. Gli elementi per raggiungerle sono a conoscenza solo dei vertici dell’organizzazione, che non hanno collaborato con la giustizia. Né abbiamo avuto collaborazioni da altri settori, esterni a Cosa nostra”. La caverna delle verità inafferrabili è profonda, profondissima. Ma Grasso, che in quarant’anni di onorata carriera ha pure avuto la possibilità di scandagliarla in lungo e in largo, dice che “non dobbiamo mai perdere la speranza di trovare la verità, e continuare a cercare”. I cercatori di verità occulte somigliano tanto a cercatori d’oro. Perché l’oro, guarda caso sta quasi sempre in quella terra di mezzo che dalle segrete stanze della procure porta fin dentro i palazzi della politica. Un percorso che affascina e che abbaglia. Ricordate Antonio Ingroia che, da procuratore aggiunto di Palermo, non ebbe più che cosa inventarsi e che cosa inventare pur di rendere sicura e inarrestabile la sua discesa in campo? S’inventò Massimo Ciancimino, spacciato per una “icona dell’antimafia” e poi naufragato nel mare merdoso delle bugie e delle patacche; s’inventò la missione speciale in Guatemala, sotto l’egida dell’Onu, che durante la vigilia elettorale gli consentì di rilasciare interviste a raffica sulla Trattativa senza mai correre il rischio di violare il segreto istruttorio. E non si fece mancare nemmeno uno scontro con il Quirinale sull’opportunità di acquisire agli atti e di rendere di conseguenza pubblica la registrazione di certi colloqui che il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, aveva avuto con Nicola Mancino, l’ex ministro democristiano trascinato alla sbarra per falsa testimonianza. No, essere semplici antimafiosi non è più sufficiente. Per conquistare le praterie della politica bisogna montare ogni giorno un teatro delle evanescenze e alzare sempre più il tiro dei sospetti. Fino all’Oltremafia. Allora è probabile che la politica corra verso di te. O per fermarti, o per offrirti come trofeo a un elettorato sempre bisognoso di nuove bandiere. Soprattutto in Sicilia. Non è un caso che i professionisti dell’Oltremafia, con i loro arzigogoli e i loro ricami giudiziari, proliferino per la maggior parte dentro i tremori e i bollori di un’isola fiammeggiata dal sole. Quella è la terra del dire e del non dire, dell’essere e dell’apparire, degli uomini e dei mezzi uomini; e soprattutto delle domande alle quali si risponde con altre domande. “Qui si vive in pieno Seicento, col barocchismo, le raffinatezze e l’ignoranza di allora”: così scriveva Ippolito Nievo alla madre, Adele Marin, in una lettera spedita da Palermo il 24 giugno 1860. E ancora non aveva conosciuto né i professionisti dell’antimafia né quelli dell’Oltremafia.

Mafia capitale è una fiction. Può bastare un Carminati per certificare che la Capitale d’Italia è la nuova Corleone? Tra accuse che cadono, prove che sfumano e rischio flop, il processo del secolo è diventato solo un film alla Pulp Fiction. Contro inchiesta del Foglio, scrive Massimo Bordin il 20 Luglio 2017. Si è concluso oggi il processo di primo di grado del cosiddetto processo Mafia Capitale. Buzzi e Carminati sono stati condannati a 19 e 20 anni, la procura aveva chiesto per i due "capi" dell'organizzazione 26 e 28 anni. E' caduta l'accusa di associazione mafiosa. Riproponiamo la contro inchiesta che Massimo Bordin aveva realizzato il 22 maggio 2017. Il processo “Mafia Capitale” è giunto nella sua fase finale. La pubblica accusa ha tirato le somme, dal suo punto di vista, del dibattimento svoltosi nell’aula bunker del carcere di Rebibbia e sono state somme pesanti in anni di carcere richiesti soprattutto per gli imputati gravati dall’imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, reato che nel com - puto della pena richiesta ha un ruolo preponderante rispetto agli altri, numerosi, capi di accusa. Sarà dunque l’articolo 416 bis, inserito nel codice penale nel 1982 con una pena massima che nel corso degli anni è stata più che raddoppiata, la pietra angolare in base alla quale la sentenza del tribunale sarà commentata. Del resto, a imporlo è il titolo stesso con il quale il processo è ormai passato alla storia giudiziaria, attraverso una campagna mediatica tutta centrata sull’impatto della parola mafia in relazione alla vita politica della capitale. Può apparire sorprendente dunque che il procuratore capo Giuseppe Pignatone abbia dichiarato in una recente intervista-forum su Repubblica, dedicata alla strategia antimafia complessivamente intesa, che “l’esperienza giudiziaria di questi anni dimostra che a Roma esiste una questione mafia, ma che, come abbiamo sempre detto, non è il più grave dei suoi problemi”. Difficile non considerare una affermazione del genere come una pietra tombale sull’enfasi giornalistica, e populisticamente politica, che ha accompagnato l’intera inchiesta ma è al contempo irragionevole pensare che la procura romana abbia inteso, proprio nel momento in cui sta prendendo la parola la difesa, svalutare la propria indagine. Dire “non è il più grave dei problemi”, di per sé non derubrica il processo in “un processetto” – come lo aveva polemicamente definito all’inizio del dibattimento l’avvocato Bruno Giosuè Naso, difensore del principale imputato Massimo Carminati – piuttosto sembra volerne circostanziare l’oggetto, utilizzando una sorta di minimalismo che in realtà contiene una notevole ambizione. Non sarà il più grave, ma certo un qualche problema c’è stato, e non piccolo, se due amministrazioni comunali, di opposto segno politico, sono accusate di essere state infestate da un’organizzazione mafiosa che ne determinava, a suo vantaggio, le scelte in alcuni fra i più importanti capitoli di spesa. Solo in alcuni però, perché l’organizza - zione mafiosa sembra essere stata presente nel settore delle politiche sociali per l’immigrazione e nella gestione dei rifiuti ma assente da altri potenzialmente lucrosi settori come la politica edilizia o quella energetica. Per di più era concentrata, secondo l’ipotesi dell’accusa, solo sul comune, appena lambendo, a quel che risulta senza successo, le assai più munite finanze gestite dalla giunta regionale. In parole povere, pur in un quadro di evidente corruzione, il comune di Roma esce dall’in - chiesta lontano dai fasti criminali di Palermo all’epoca di Lima e Ciancimino e anche l’organizzazione mafiosa, divisa per bande, che secondo la stampa pervade l’intera città, nel processo non è nemmeno citata. Ci si limita a uno spicchio di Roma nord compreso fra corso Francia e via di Vigna Stelluti, con brevi escursioni nella borgata di Casalotti e nel vicino comune di Sacrofano. Completano il quadro del radicamento territoriale un paio di pestaggi isolati, uno davanti al bar più chic dei Parioli, l’altro nel quartiere Prati. Questo è il quadro che, sostanzialmente, esce dal processo ed è stato magistralmente sintetizzato, secondo i rispettivi punti di vista, sia dal pubblico ministero Giuseppe Cascini, quando nella requisitoria ha descritto il percorso della organizzazione criminale “dai pollici spezzati dietro a un distributore al sindaco della città”, sia dal principale accusato, Carminati, quando ha risposto al suo difensore: “Io credevo che mi intercettassero per altre storie, per Finmeccanica. Chi ci pensava che questi s’erano inventati la mafia del benzinaro?”. Se l’evocazione della mafia è centrale, sia per la suggestione contenuta nella presentazione giornalistica del processo sia per la pesantezza del capo di imputazione contestato a un gruppo di imputati, lo svolgimento del processo, e la requisitoria hanno ulteriormente chiarito come la procura intenda fondare la sua tesi per qualificare il percorso descritto nella frase di Paolo Ielo appena citata. In estrema sintesi tutto si fonda su tre parole: “Riserva di violenza”. C’è naturalmente un aspetto giuridico, ma prima occorre considerare che l’espressione “riserva di violenza”, in questo processo, ha una sua ipostasi, si incarna nel principale imputato, Massimo Carminati. Tutto comincia da lui e su di lui si regge tutto il peso dell’imputazione di mafia che poi avvolge altri imputati. E’ forse utile vedere dunque, a dibattimento concluso e nel momento in cui si tirano le somme, come la storia sia iniziata. Occorre partire da una sera dell’estate 2009 a Roma nord – e dove se no? – a viale Tor di Quinto, vicino a piazza Euclide, tradizionale luogo di appuntamento dei giovani romani di estrema destra, dove nel corso di un controllo di routine i carabinieri fermano tre uomini e una donna. Dai documenti, due di loro risultano ex appartenenti ai Nar con precedenti per rapina. I documenti comunque sono in regola e i quattro vengono lasciati andare. I carabinieri però si insospettiscono quando, mesi dopo, una filiale Unicredit dove lavorava come cassiera la donna identificata con i due ex Nar viene rapinata, e a metà giugno 2010 inviano una nota alla procura in cui ipotizzano un tentativo di ricostruzione di un gruppo di estrema destra autofinanziato con le rapine. Elencano una serie di nomi conosciuti come estremisti fascisti con precedenti per rapina. Nell’elenco c’è Carminati che sta finendo di scontare la pena, in affidamento fuori dal carcere, per il furto al caveau della banca del tribunale romano. La procura affida l’indagine a un reparto del Ros e apre un fascicolo dove si dispongono intercettazioni telefoniche per alcuni citati nell’elenco, ma non per Carminati del quale ci si limita ad acquisire i tabulati telefonici. Torneranno comunque utili. A marzo 2011 il Ros dà conto alla procura che l’ipotesi del gruppo di destra che si riorganizzava per fare rapine non aveva trovato alcun riscontro e a settembre lo ribadisce in un nuovo rapporto nel quale però di fatto propone di mantenere aperta l’indagine sul solo Carminati su una nuova ipotesi di reato. I carabinieri parlano nel rapporto di una loro fonte anonima, un confidente in parole povere, che gli ha raccontato di una organizzazione dedita al riciclaggio e guidata appunto da Carminati, in relazione con due persone, Gianluca Ius e Maurizio Iannilli, implicate in indagini per tangenti relative a Fastweb e ad alcune società partecipate di Finmeccanica. I tre personaggi sono seguiti dal Ros con diversa attenzione, a quanto si capisce dalle informative inviate alla procura. A essere “osservati”, cioè pedinati, sono solo Carminati e Iannilli e solo per Carminati si chiede che sia sottoposto a intercettazione telefonica. L’oggetto principale dell’indagine sta nella provenienza del denaro fatto girare dai tre. In particolare insospettisce i carabinieri il fatto che la villa di Sacrofano di proprietà di Iannilli risulti abitata in realtà da Carminati, ormai libero anche dall’affida - mento, che risulta in possesso di un regolare contratto d’affitto. In sostanza nel periodo che va dalla seconda metà del 2009 all’ottobre 2011 c’è un filo che collega due diverse ipotesi di indagine del Ros, la prima su rapine in banca e terrorismo nero e la seconda su riciclaggio di denaro di provenienza illecita. Il filo, abbastanza esile, è Massimo Carminati. Sembra, ed è abbastanza verosimile, che i carabinieri vogliano capire cosa sta combinando, una volta uscito dal carcere, l’uomo del misterioso furto al caveau del tribunale. Il ruolo della procura, il cui vertice è in quel momento in una delicata fase di transizione, in tutto questo periodo è sostanzialmente passivo. Del resto il materiale investigativo è ancora molto grezzo, anche se a ben vedere il secondo filone d’indagine, più di quello parecchio aleatorio della ricostituzione di un gruppo di rapinatori politici, vede comparire nelle inchieste che allora erano le principali per la procura, quella su Fastweb e quella su Finmeccanica, personaggi, come Gennaro Mokbel, che in qualche modo potrebbero essere messi in relazione proprio con Carminati. Quel filone di indagine resterà inesplorato, eppure, come abbiamo già visto, proprio Carminati ha detto in aula di aver attribuito le attenzioni dei carabinieri all’inchiesta su Finmeccanica piuttosto che a quello che gli viene contestato nel processo. Del resto ad averlo affermato esplicitamente ancora prima di lui era stato, sempre in aula, il suo principale coimputato, Salvatore Buzzi, che aveva raccontato come Carminati gli avesse espresso i propri timori su quelle indagini, aggiungendo che gli aveva anche detto di avere svolto un ruolo come distributore per conto terzi di tangenti nel giro di Finmeccanica, immediatamente smentito da Carminati su quest’ultimo punto. Sta di fatto che nell’ultima parte del 2011 i carabinieri cominciano a seguire e osservare Carminati h24, come dicono loro. Si fissano così i luoghi dove si svolgono i principali fatti dell’indagine, soprattutto la stazione di servizio di corso Francia ormai famosissima. Il distributore è il palcoscenico dell’inchiesta. Carminati lo frequenta quotidianamente insieme al suo amico Riccardo Brugia, altro reduce della lotta armata nera divenuto poi uno dei più bravi rapinatori di banche di tutta Roma, come lo definisce Carminati in una intercettazione. Nel distributore girano soldi, non solo per la benzina e il cambio olio e gomme. Il gestore accetta di cambiare assegni e non si formalizza se sono postdatati. In cambio chiede interessi – sui quali il tribunale dovrà pronunciarsi – non proprio equi e solidali. In caso di ritardo nei pagamenti interviene il giovanotto che i giornali hanno ribattezzato “spezzapollici”, anche se lui sostiene di avere un soprannome meno truce. Si tratta di tutti gli episodi con i personaggi già citati, nei quali Carminati non sempre ha un ruolo attivo ma si limita a dare pareri e consigli. Anche su questi fatti deciderà il tribunale e certo l’atteggiamento in aula delle parti lese, la loro reticenza evidente, facilmente spiegabile con la paura, non aiuta la difesa. Qualche atto violento effettivamente si verifica, per di più sotto gli occhi dei carabinieri. C’è la vicenda citata dal pm Giuseppe Cascini nella requisitoria dei “pollici spezzati dietro il distributore”. Si tratta di un debitore che ha tirato un po’ troppo la corda. “Vallo a menà dietro al barshop, che qua pò esse che quelli ce fotografano”, suggerisce Carminati che ha capito come il controllo del Ros su di lui si sia fatto più stretto, ma in questo caso lo sottovaluta. Agli atti non ci sono foto ma un filmato, col sonoro che permette qui di usare le virgolette. Al momento di questo episodio, che riguarda uno dei pochi atti di violenza nel fascicolo processuale, e gli altri sono simili, il distributore è già diventato come un set cinematografico. Ma questa storia avviene un po’ più avanti nel tempo e il suo racconto è servito a dare un’idea sulla caratura criminale non eccelsa del sodalizio del distributore. Torniamo al settembre 2011, quando il Ros ottiene dalla procura una delega all’indagine su Carminati con mezzi incisivi. Proprio a settembre c’è un incontro che la pubblica accusa ritiene decisivo per la sua tesi. Avviene all’Eur, ex quartiere residenziale ai cui servizi provvede un ente ad hoc partecipato dal comune. Nel 2011 sindaco di Roma era da tre anni Gianni Alemanno: originariamente, anch’egli viene imputato tre anni dopo di 416 bis, ma nell’inverno dell’anno scorso l’imputazione è stata fatta cadere dal gip, che pure lo ha rinviato a giudizio per finanziamento illecito e corruzione, per cui l’ex sindaco ora si trova a essere giudicato in un processo stralcio. Alemanno, come si intuisce dall’imputazione originariamente proposta dai pm, è una figura molto importante nell’impianto accusatorio rispetto alla questione dell’associazione mafiosa. E’ lui come sindaco a mettere alla testa dell’Ente Eur Riccardo Mancini, che da giovane era stato un militante del gruppo extraparlamentare di destra Terza Posizione ed era stato in carcere con Carminati. Con Mancini, Alemanno “piazza” un altro camerata di quell’ambiente, Carlo Pucci, che pure Carminati conosce benissimo dagli anni Settanta. Si incontrano a settembre 2011 al bar Palombini, a cento metri dalla sede dell’ente e seduto con loro c’è quello che sarà l’altro principale imputato del processo, Salvatore Buzzi. Politicamente sono male assortiti. Buzzi, capo della più grande cooperativa sociale del Lazio, è comunista di formazione e ora se la fa col Pd, gli altri sono fascisti. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono stati in carcere. Carminati viene praticamente imposto a Buzzi come socio alla pari per avere un appalto di manutenzione del verde. Non metterà un euro, ma a Buzzi va bene così. Per la procura sarà quello il momento in cui l’organizzazione fa il salto di qualità. Passano alcuni mesi e i carabinieri del Ros hanno una larga messe di intercettazioni. Carminati si divide fra il distributore e i nuovi contatti che lo portano a occuparsi degli affari della cooperativa di Buzzi. Si accorgono che comunica con Buzzi, Mancini, Pucci e Testa, segretario del consigliere regionale Luca Gramazio, con telefonini che quelli usano solo per parlare con lui che glieli ha forniti. Parlano di gare d’appalto e di delibere comunali ed esce fuori uno spaccato molto vivido della vita politico-amministrativa del comune di Roma ai tempi di Alemanno, ma probabilmente anche prima e dopo. La parte relativa alle tangenti è forse quella meno controversa del processo. Buzzi nei suoi interrogatori le ha francamente ammesse, così come i finanziamenti tracciabili, dunque legali fino a prova contraria, e quelli in nero, tutti oggetto di giudizio. La coop 29 Giugno non si limitava a foraggiare quelli del Pd, e anche di Sel, con assunzioni e cene elettorali, ma pagava un po’ tutti, anche gli amici del sindaco. Il 2012 è comunque l’anno decisivo per il processo. Succedono due cose che non possono non essere messe in relazione. La prima riguarda la procura di Roma, che a marzo finalmente ha un nuovo procuratore capo. Arriva da Palermo, via Reggio Calabria, dove alla guida della procura ha messo a segno diverse operazioni importanti scatenando qualche polemica: Giuseppe Pignatone è un magistrato che tutti ritengono molto competente ma che non tutti amano. E’ particolarmente inviso al gruppo di magistrati palermitani che hanno all’epoca come punto di riferimento Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato. Non gli perdonano di avere sostenuto l’allora procuratore Pietro Grasso nella gestione del caso Cuffaro. Si chiedeva a gran voce una incriminazione per concorso esterno nei confronti dell’allora governatore ancora in carica, per ottenere il massimo effetto politico possibile. Grasso e Pignatone sostennero l’imputazione di favoreggiamento con aggravante mafiosa, avendo a cuore più il risultato del processo che l’effetto politico dell’imputazione. La sentenza dette loro ragione. Il precedente va tenuto ben presente rispetto a quello che poi è successo a Roma con Mafia Capitale. A settembre 2012, un anno dopo la nota del Ros alla procura che muta l’angolazione investigativa su Carminati, e sei mesi dopo l’arrivo di Pignatone in procura, vagliate le intercettazioni telefoniche, si decide di aumentare la pressione su Carminati. Alle intercettazioni telefoniche si aggiungono quelle ambientali. Si piazzano microspie nella stazione di servizio e nel bar vicino, in via di Vigna Stelluti, si piazza anche una microspia nella macchina che usa, oltre a un gps per seguirne i movimenti, e le fotografie sono sostituite dai filmati. Il raccolto è massiccio. A fine anno c’è la svolta. Tre intercettazioni la caratterizzano, almeno secondo gli inquirenti. Una ambientale al bar nel dicembre 2012. Carminati parla con Fabrizio Testa da un telefono pubblico, poi spiega a Brugia e a un altro che sta con loro la faccenda dei telefonini che fa usare solo per parlare con lui. Dice che bisogna cambiare metodo. Poi c’è un’intercettazione ambientale al bar di via di Vigna Stelluti in cui Carminati espone a Brugia e a un imprenditore, il quale poi sarà accusato di estorsione, la ormai famosa teoria del “mondo di mezzo”. Infine c’è una terza intercettazione ambientale, questa volta nella macchina di Carminati, in cui parlando con un imprenditore che poi sarà anche lui imputato gli espone il suo nuovo metodo. Gli parla di Salvatore Buzzi, Fabrizio Testa e Carlo Pucci. Li definisce “una bella squadra”. Siamo nel gennaio 2013. Sulla base di queste tre intercettazioni, a metà febbraio il Ros invia una nota in procura nella quale rinnova le richieste di intercettazione, stavolta ai sensi dell’articolo 416 bis. E’ il momento in cui l’indagine cambia nome da “Catena 2” – “Catena” era quella nata dal controllo documenti dei due ex Nar e della cassiera di banca – a “Mondo di mezzo”. Tre inchieste, condotte dagli stessi investigatori con continuità, nelle quali cambiano via via l’oggetto dell’indagine e tutti i protagonisti. Tranne uno, Massimo Carminati. Quello che succede dopo, fino al dicembre 2014 con l’arresto di Carminati, ripreso dalla tv con la regia dei carabinieri, e il nuovo nome dell’inchiesta che solo allora diventa “Mafia Capitale”, per il problema che qui si vuole affrontare, è relativamente interessante. L’inchiesta dipana un reticolo di gare truccate, di sovvenzioni dubbie e di autentiche corruzioni. Quando a giugno 2013 ad Alemanno subentra Ignazio Marino, tutto sommato poco cambia. C’è l’ingresso in Consiglio di un Radicale, Riccardo Magi, contro cui Buzzi inveisce nelle intercettazioni con i suoi e poi ci sono i 5 stelle che sparano nel mucchio. La giunta Marino probabilmente sarebbe caduta anche senza quegli arresti. E’ semmai politicamente rilevante che il procuratore Pignatone, proprio alla vigilia degli arresti, partecipi come ospite a una conferenza del Pd romano praticamente preannunciando l’operazione. La scelta di Pignatone di parlare da quel palco, mentre le volanti sono già in fila in garage per andare a prendere esponenti anche del partito a cui si sta rivolgendo, può essere interpretata in vari modi, nessuno dei quali però coincide con l’immagine che lo aveva preceduto a Roma. Comunque da allora, da quando l’inchiesta cambia nome per la quarta volta, non si è fatto che discutere sul senso dell’imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso a quell’aggregato di imputati. La procura naturalmente è molto decisa sulla sua scelta processuale e la stessa intervista a Repubblica del procuratore Pignatone, e del suo aggiunto con delega alla direzione distrettuale antimafia Michele Prestipino, lo conferma. Ancor più vigorosamente lo ha ribadito del resto l’altro procuratore aggiunto Paolo Ielo nell’aula bunker di Rebibbia nella sua premessa alla requisitoria, poi svolta insieme ai due sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli. Sia detto fra parentesi, la scelta di far seguire il dibattimento all’aggiunto con delega ai reati finanziari piuttosto che a quello con delega all’antimafia, che è uscito di scena con la conferenza stampa successiva agli arresti, forse è un indizio del modo innovativo col quale la procura intende applicare l’articolo 416 bis. Ielo in ogni caso è stato molto deciso di fronte al tribunale. “Il preteso sgonfiarsi dell’azione giudiziaria è una pura fandonia!”, sono state le sue prime parole, per poi proseguire: “Gli imputati di 416 bis sono quasi tutti qui. Non si è sgonfiato il resto di niente!”. Notevole, come impatto oratorio, scalfito però da quel “quasi” che finisce comunque per indicare che almeno qualche resto c’è. La caduta dell’imputazione per l’ex sindaco Alemanno, per esempio, non è proprio un dettaglio marginale per l’impianto accusatorio in tema di mafia così come non sono secondari altri dettagli. Negli ultimi mesi la Corte d’appello di Roma ha ridotto le pene per quattro persone condannate per corruzione nell’ambito del processo di Mafia Capitale. Tra queste, anche Emilio Gammuto, collaboratore di Salvatore Buzzi, considerato uno dei capi dell’organizzazione mafiosa, per il quale la Corte d’appello ha escluso l’aggravante mafiosa. A Ostia, la terra dei nuovi padrini, lo scorso settembre la Corte d’appello ha detto che la mafia non esiste e nella sentenza di secondo grado contro il clan Fasciani i giudici hanno trasformato l’associazione mafiosa in semplice associazione a delinquere, riducendo la durata di molte delle condanne inflitte, evidenziando la mancanza di una prova che potesse certificare la presenza della “pervasività mafiosa” nella Corleone di Roma (ricordando che nel caso specifico non è provato “il diffuso clima d’intimidazione proprio del metodo mafioso”, che le dichiarazioni del principale pentito del processo sono fragili e “non possono ritenersi riscontrate nel presente procedimento” e che anche se vi sono stati, a Ostia, “singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti”, ma restano dei singoli atti –usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi, acquisizione di attività economiche in modo occulto – bisogna dire che “l’atteggiamento tenuto dai test escussi nel corso del dibattimento di primo grado non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie o comunque a uno stato diffuso di soggezione”). Ci sono questi e molti altri dettagli ma mettiamoli per un attimo da parte e vediamo l’aspetto principale che riguarda il merito della imputazione di 416 bis in questo processo. Se la figura di Carminati è il filo conduttore perché incarna la “riserva di violenza” necessaria al sostanziarsi del reato, pur definendolo un personaggio-cerniera, come è stato fatto nella requisitoria, da solo non basterebbe. Occorre, per i pm, che Carminati possa svolgere il suo ruolo di uomo cerniera fra mondi diversi, la sua fama terribile è certo importante, e vedremo fra poco in che modo dal punto di vista dei pubblici ministeri, ma deve interagire con altre realtà diverse, altrimenti resta davvero solo la “mafia del benzinaio” beffardamente definita in aula dal principale imputato. Nella parte in cui hanno esaminato la questione dal punto di vista del diritto i pm sono arrivati per la verità a cautelarsi fino a questa ipotesi estrema. Da parte loro è stato ricordato come un certo numero di sentenze della Cassazione abbia tenuto a chiarire che l’articolo 416 bis può essere applicato anche a piccoli aggregati criminali, capaci di assoggettare un ambiente anche ristretto con una forza intimidatoria che può fare a meno dell’uso delle armi ma limitarsi a minacciarlo. La credibilità della minaccia per chi la subisce sostanzia la forza di intimidazione tipica della mafia. Anche il numero degli aderenti al sodalizio non necessariamente impedisce la qualificazione del reato di mafia. L’accusa ha ricordato al tribunale che per definire il reato associativo il codice si accontenta in fondo di sole tre persone. Alcune sentenze della Cassazione parlano di “piccole mafie” non necessariamente collegate alle grandi e storiche organizzazioni di quel tipo, basta che ne ripropongano il modo di operare sia pure in ambiti ristretti. Più volte, citando sentenze sul reato di associazione mafiosa, l’accusa, nel corso della requisitoria, ha usato l’espressione “soglia minima” riferendosi al suo sicuro raggiungimento per la contestazione a un certo numero di imputati del capo d’accusa più grave. Non c’è dubbio però che per una intestazione così impegnativa come Mafia Capitale, un ragionamento del genere non può bastare. La procura se ne è resa perfettamente conto perché ha inserito due altri temi, oltre la “soglia minima”, per giustificare l’impatto politico mediatico del processo. Da un lato il collegamento di ambiti diversi grazie al quale l’organizzazione processata compie il salto di qualità. Nel corso dell’inchiesta, come abbiamo visto, viene molto valorizzato il cosiddetto mondo di mezzo evocato da Carminati in una strapubblicata intercettazione ambientale che i carabinieri sentiti come testimoni chiamavano, un po’ enfaticamente “il documento programmatico”. Nella parte in cui hanno esaminato la questione dal punto di vista del diritto i pm sono arrivati per la verità a cautelarsi fino a questa ipotesi estrema. Da parte loro è stato ricordato come un certo numero di sentenze della Cassazione abbia tenuto a chiarire che l’articolo 416 bis può essere applicato anche a piccoli aggregati criminali, capaci di assoggettare un ambiente anche ristretto con una forza intimidatoria che può fare a meno dell’uso delle armi ma limitarsi a minacciarlo. La credibilità della minaccia per chi la subisce sostanzia la forza di intimidazione tipica della mafia. Anche il numero degli aderenti al sodalizio non necessariamente impedisce la qualificazione del reato di mafia. L’accusa ha ricordato al tribunale che per definire il reato associativo il codice si accontenta in fondo di sole tre persone. Alcune sentenze della Cassazione parlano di “piccole mafie” non necessariamente collegate alle grandi e storiche organizzazioni di quel tipo, basta che ne ripropongano il modo di operare sia pure in ambiti ristretti. Più volte, citando sentenze sul reato di associazione mafiosa, l’accusa, nel corso della requisitoria, ha usato l’espressione “soglia minima” riferendosi al suo sicuro raggiungimento per la contestazione a un certo numero di imputati del capo d’accusa più grave. Non c’è dubbio però che per una intestazione così impegnativa come Mafia Capitale, un ragionamento del genere non può bastare. La procura se ne è resa perfettamente conto perché ha inserito due altri temi, oltre la “soglia minima”, per giustificare l’impatto politicomediatico del processo. Da un lato il collegamento di ambiti diversi grazie al quale l’organizzazione processata compie il salto di qualità. Nel corso dell’in - chiesta, come abbiamo visto, viene molto valorizzato il cosiddetto mondo di mezzo evocato da Carminati in una strapubblicata intercettazione ambientale che i carabinieri sentiti come testimoni chiamavano, un po’ enfaticamente “il documento programmatico”. In un processo dove alla fine, chiamati a deporre davanti al tribunale sono gli stessi carabinieri, e perfino il dottore Cantone, a dire che nelle gare d’appalto hanno trovato molti imbrogli ma nessuna intimidazione, il rovesciamento del circo mediatico come utilità degli imputati e non degli inquirenti è, da parte della procura un azzardo non privo di raffinatezza. Basterà a fare di Roma la nuova Palermo?

LA MAFIA, L’ANTIMAFIA, L’OLTREMAFIA: CHI POTREGGE MATTEO MESSINA DENARO?

Matteo Messina Denaro, e la Castelvetrano sulla cresta dell’ "Onta"..., scrive Egidio Morici su TP24 il 28/07/2017. L’onta dello scioglimento del Comune, l’onta delle operazioni antimafia, l’onta delle trasmissioni televisive sul superboss latitante, l’onta della locale squadra di calcio che non ha i soldi per partecipare al campionato della serie D. In questi giorni, l’unico antidoto all’onta sembra essere l’atleta castelvetranese Loreta Gulotta, che ha portato alto il nome della città vincendo, insieme alla sua squadra, il mondiale di sciabola a Lipsia. Insomma, la scherma contro lo scherno. Ma la stilettata più dolorosa continua ad essere la mancata cattura di Matteo Messina Denaro, che da tempo è ancora un asintoto. E’ quella curva che si avvicina sempre di più all’asse senza mai raggiungerlo. Gli arresti dei fiancheggiatori non si contano più, sono ormai una decina all’anno: imprenditori, insegnanti, impiegati, politici, pizzinari, picchiatori. Oltre ai parenti, che stanno arrestando uno dopo l’altro. Lui però no. I numerosi, ormai troppi, anni di terra bruciata non sono ancora serviti a stanarlo. Pare che la sua voce non sia mai stata ascoltata da nessun investigatore. Sempre che sia ancora vivo, consenso sociale, coperture istituzionali e massoniche (ovviamente deviate) sarebbero alla base di questa infinita latitanza, che stride con i nuovi strumenti tecnologici potenzialmente in grado di accorciare i tempi dilatati del passato. Ci sono domande che non hanno ancora avuto una risposta. Come faceva Patrizia Messina Denaro a comunicare con il fratello latitante, senza che nessuno degli investigatori se ne fosse mai accorto? La storia comincia nel 2011, quando l’ex re dei supermercati Giuseppe Grigoli, in carcere per mafia, aveva detto di essere stato vittima del sistema estorsivo di Matteo Messina Denaro, accusando il fratello Salvatore e i cognati Vincenzo Panicola e Filippo Guttadauro. In carcere, molti avevano sospettato un possibile pentimento. E siccome nell’ambiente carcerario i pentiti non godono di grande ammirazione, la cosa monta ed arriva al 2013, quando un gruppo di “appassionati” dissuasori aspettava solo un cenno per potergli dare una lezione. Il tentennamento scaturiva dal fatto che Grigoli aveva motivato quelle sue dichiarazioni con una sorta di autorizzazione concessa dallo stesso capomafia di Castelvetrano. Ecco perché il Panicola, cognato di Matteo Messina Denaro, durante una visita in carcere da parte della moglie Patrizia, le chiede di accertare presso il vertice come stessero le cose. La richiesta è del 24 aprile 2013 e la risposta (in cui gli dice che Grigoli non era stato autorizzato a dire nulla, ma ciononostante non avrebbero dovuto torcergli un capello, se no sarebbe stato peggio, “una catastrofe”) arriva il 3 maggio successivo. Nove giorni! Un record. Altro che pizzini che passano di mano in mano. Come ha fatto a parlare col fratello latitante? L’ha incontrato? Gli ha parlato con un sistema informatico a prova di intercettazione? Mistero. E gli altri? Insomma, i pizzini hanno un mittente ed un destinatario. Possibile che quando alla fine della “filiera” c’è Matteo Messina Denaro, non si riesca mai a beccarlo? Evidentemente sì. E non è soltanto una difficoltà da parte di inquirenti e magistratura. Non ci riescono nemmeno i servizi segreti, che ci avevano tentato quando a capo del Sisde c’era Mario Mori, ingaggiando Antonio Vaccarino (ex sindaco di Castelvetrano, condannato in passato per traffico di stupefacenti, ma prosciolto dall’accusa di mafia). Due anni di scambio epistolare per “convincerlo a costituirsi” non sono bastati. Nel 2007 il Sisde, che riceveva da Vaccarino (nome in codice Svetonio) le missive del boss (che invece si firmava Alessio), alla fine le invia alla magistratura e dopo un po’ finisce tutto: Messina Denaro capisce il tradimento. E non la prende bene. Anche perché dell’ex sindaco di Castelvetrano si fidava, visto che era in buoni rapporti col padre don Ciccio. Ecco perché gli invia una lettera scrivendogli di aver “buttato la sua famiglia in un inferno”, di far parte del suo testamento e che “in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti”. Questa volta si firma “M. Messina Denaro”. Fine della corrispondenza tra Alessio e Svetonio. Ma perché in due anni nessuno dei servizi segreti riesce a seguire i pizzini per arrivare al destinatario? Sono le stesse difficoltà che ha incontrato fino ad oggi la magistratura? Mistero. Eppure un pizzinaro doc, che avrebbe potuto condurre al padrino di Castelvetrano c’era: Leo Sutera di Sambuca di Sicilia. Ci stavano addosso, anche qui da due anni, il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo ed il procuratore aggiunto Teresa Principato. Nel maggio del 2012, la Principato stava monitorando i suoi spostamenti, dal momento che tra un po’ avrebbe dovuto incontrare proprio Matteo Messina Denaro. Ma dalla procura di Agrigento arriva a Messineo una richiesta di arresto ed ecco scattare l’operazione “Nuova Cupola”. Sutera va in carcere. Fine degli spostamenti e fine del monitoraggio. E intanto Castelvetrano ha un componente della commissione parlamentare antimafia regionale, l’onorevole Giovanni Lo Sciuto che, a parte le sue frequentazioni passate con i Messina Denaro, non è che abbia mai eccelso in quanto a posizioni contro la mafia. La mafia al singolare, quella di Castelvetrano. Non le mafie, la criminalità, il malaffare, che vogliono dire tutto e niente.

Colpisce che da membro della commissione antimafia della Regione Siciliana, pochi giorni prima del commissariamento, abbia dichiarato: “Io non sono convinto che questo comune sarà commissariato. Sono fiducioso. Non penso che ci siano intrighi che possano colpire la nostra città”. Colpiscono le sue parole dell’aprile 2014, quando su Santo Sacco, politico castelvetranese condannato per mafia a 12 anni proprio nel marzo precedente, aveva affermato: “Io penso che questa città è stata tormentata negli ultimi tempi da tanti episodi. Sicuramente Santo Sacco lo conoscevo come consigliere provinciale e addirittura abita pure vicino a me. C’è ancora un processo in corso (il riferimento era al processo di Appello, dal momento che quello in primo grado si era appena concluso, ndr), speriamo che alla fine lui possa dimostrare la sua estraneità. Se non è così mi dispiace, per lui e per questa città”. Lo Sciuto era in prima fila in un corteo di una manifestazione intitolata “Castelvetrano libera Castelvetrano”, per la legalità e la vicinanza ai lavoratori della Gruppo 6, rimasti senza lavoro dopo la fallimentare amministrazione giudiziaria in seguito alla confisca dell’azienda di Giuseppe Grigoli, il re dei supermercati condannato per mafia. E da quella prima fila, alla domanda se non sarebbe bene che l’antimafia sociale prendesse le distanze anche dai comportamenti e non solo dalle sentenze, aveva risposto: “Ma sicuramente, si deve prendere le distanze da tutto, bisogna sapersi comportare. Ma, ripeto, è importante che… Noi siamo oggi qua per testimoniare che cosa? Che questa non è la città dei mafiosi, ma una città di persone per bene, che sono a qua a testimoniare con la loro presenza che questa città vuole andare avanti, vuole riscattarsi e vuole avere un percorso di legalità. Bisogna smetterla di parlare di questa città come la città dei mafiosi. E’ una città di persone per bene che vogliono lavorare onestamente”. Era il 2014. Sacco era già stato condannato in primo grado. Nel luglio del 2015, Sacco viene condannato anche in Appello, seppur con una riduzione della pena da 12 anni a 8 anni e 7 mesi. E nel maggio del 2016 la condanna viene confermata anche dalla Cassazione. Insomma, un dispiacere. “Per lui e per questa città”. Una Castelvetrano aiutata a reagire di pancia all’etichetta di città mafiosa dalle stesse persone che, come l’onorevole Lo Sciuto, dovrebbero invece spiegare bene ai cittadini che cos’è la mafia, come si trasforma, come si infiltra nelle pubbliche amministrazioni. Oggi Lo Sciuto, in piena coerenza col 2014, dice che la città è piegata dal “marchio mafia”. Una mafia che però, aggiunge, “non ha quelle pesanti propaggini che alcuni vorrebbero far apparire”. Che sia il marchio, più che la mafia, ciò che si vorrebbe cancellare, era emerso con chiarezza perfino nel programma elettorale di un singolare candidato sindaco alle amministrative recentemente saltate a causa dello scioglimento del comune: Maurizio Abate. Al punto 14 del suo programma si leggeva chiaramente: “Cancellare il marchio ‘mafia’ che hanno dato a questo meraviglioso territorio pieno di risorse, con tantissima gente onesta che non ha nulla a che vedere con la criminalità”. Ma chi? Chi sono questi nemici del territorio che dispensano etichette? I magistrati che arrestano decine di fiancheggiatori? I giornalisti che ne parlano? La Commissione Antimafia Nazionale? Mistero. Intanto, sembra che a parlare contro la mafia dei Messina Denaro sia solo la famiglia del pentito Cimarosa, morto nel gennaio scorso. Una famiglia che però sperimenta in questo senso una solitudine particolare. Perché da un lato ha la diffidenza di quei pochi che avanzano dubbi sulla genuinità della loro posizione. E dall’altro ha il disprezzo di una gran parte di compaesani che ancora oggi considera il pentito come un infame. Egidio Morici

Matteo Messina Denaro al riparo di una superloggia deviata, scrive Roberto Galullo il 19 maggio 2017 su "Il Sole 24ore". “Sua latitanza” da Castelvetrano Matteo Messina Denaro, in chissà quale eremo, il 26 aprile ha compiuto 55 anni, gran parte dei quali trascorsi nella clandestinità mafiosa. Correva l'estate 1993 quando, dopo una dorata vacanza a Forte dei Marmi (Lucca), diventò uccel di bosco per lo Stato, che continua a dargli la caccia senza (finora) alcuna fortuna. Mai come in questo anniversario delle stragi di Capaci e via D'Amelio il suo fantasma volteggia sul futuro di Cosa nostra e – di conseguenza – su quella quota parte di misteriosa evoluzione criminale. Proprio su quest'ultimo aspetto si concentrano le attenzioni di investigatori e inquirenti che stanno lavorando da tempo ad un'ipotesi investigativa alla quale trovare riscontri. E così, mentre c'è chi gioca a diffondere le voci sulla sua morte e chi, al contrario, propala ai quattro venti di averlo visto nei posti più improbabili del globo terracqueo, le carte sui tavoli della Procura della Repubblica di Palermo e Caltanissetta riportano le lancette indietro di 10 anni esatti. In quel periodo Matteo Messina Denaro avrebbe dato vita – con alcuni fuoriusciti da alcune obbedienze – alla loggia coperta e itinerante “La Sicilia”, nata “per” la segretezza e “nella” segretezza. Nel 2007 il Maestro venerabile ufficiale era il preside di un liceo scientifico ma, secondo questa ipotesi al vaglio, il vero Maestro venerabile era uno studioso trapanese, esoterista, iniziato massone, attento conoscitore della sana ritualità scozzese, deceduto nel 2012.

25 ANNI DOPO. 18 maggio 2017. Strage di Capaci, errori e veleni affossano la rivolta delle coscienze. La convinzione del boss trapanese – sostengono le ultime ipotesi al vaglio della magistratura – è che bisogna rafforzare quella tela che finora lo ha protetto a dispetto di ogni tentativo di scovarlo, separando il piano della criminalità mafiosa da quello della borghesia professionale, imprenditoriale e politica per trarre benefici senza intralci burocratici. La massoneria deviata serve per avere quello che serve, senza spargimenti di sangue e la pubblica amministrazione fa da collante. Questa super loggia politica, per ordine espresso di Messina Denaro, deve affiliare in tutta la regione solo imprenditori, ingegneri, architetti, avvocati, commercialisti e professionisti in generale (giornalisti compresi), membri della polizia giudiziaria e – molto verosimilmente – magistrati e giudici. Oltre a fidatissimi politici e amministratori della cosa pubblica. Verrebbe quasi da dire: indaga sulla massoneria (come del resto sta facendo la stessa Commissione parlamentare antimafia che proprio da Trapani è partita per giungere il 1° marzo di quest'anno all'ordine di sequestrare gli elenchi di quattro obbedienze in Sicilia e in Calabria) per trovare i “fratelli” che tradiscono le logge e gli garantiscono la latitanza. E' questo del resto il senso inequivocabile dell'interrogazione presentata il 2 febbraio 2016 dal senatore Beppe Lumia (Pd) all'allora ministro dell'Interno Angelino Alfano. Nell'interrogazione – finora senza alcuna risposta e che verosimilmente resterà inevasa – Lumia scrive che «un altro lato del sistema Messina Denaro è costituito, secondo quanto risulta all'interrogante, al rapporto con la massoneria che, a Trapani, avrebbe svolto un ruolo storico nel legame con Cosa nostra, come è stato dimostrato dalla vicenda della loggia “Scontrino”; andrebbe posta l'attenzione, secondo l'interrogante, sulla famosa loggia massonica segreta di via Carreca, denominata “Iside 2” del gran maestro Gianni Grimaudo, cui sarebbero stati iscritti “colletti bianchi” e mafiosi e, oggi si è scoperto, anche politici. Inoltre, è sempre stato vivo il tentativo di avvicinarsi alla magistratura che si occupa di indagini antimafia» e Lumia chiede «se risultino fondati i sospetti di collegamento sia con la vecchia massoneria, a tal fine monitorando l'attuale posizione degli appartenenti alle logge menzionate, sia quelli con la nuova massoneria, attraverso una capillare verifica delle attuali adesioni».

La loggia Scontrino. Facciamo un salto indietro. E' l'11 aprile 1986 quando Saverio Montalbano, vicequestore di Polizia e capo della Squadra mobile di Trapani, entra nell'immobile di via Carreca dove ha sede il circolo culturale Scontrino. Sequestra fogli manoscritti, appunti, carte, agende e rubriche fitte di numeri di telefono, nominativi e annotazioni tra le quali gli elenchi degli affiliati a sette logge massoniche attive: Iside, Iside2, Osiride, Hiram, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, più una misteriosa loggia C. Negli elenchi degli affiliati, i nomi dei potenti locali: funzionari pubblici, politici, imprenditori, professionisti e boss mafiosi. Gli elenchi non erano mai stati comunicati alla Questura, sebbene il 7 febbraio 1981, Natale Torregrossa, componente del supremo consiglio del 33° grado scozzese antico e accettato, avesse segnalato alla stessa Questura che, nell'appartamento di via Carreca 2, secondo piano, era stato allestito un tempio massonico con le 51 spade rituali. Misteriosamente – dall'oggi al domani – il capo della squadra mobile di Trapani venne trasferito. Per continuare a conoscere ciò che gravita intorno a Trapani basta leggere le 3.039 pagine di motivazioni depositate il 27 luglio 2015 dalla Corte di Assise di Trapani (presidente Angelo Pellino, giudice Samuele Corso, oltre ai giudici popolari), della sentenza relativa all'omicidio di Mauro Rostagno, avvenuto il 26 settembre 1988 a Lenzi (la sentenza di primo grado, pronunciata il 15 maggio 2014 ha visto le condanne di Vincenzo Virga e di Vito Mazzara e la prima udienza dell'appello si è svolta il 13 maggio 2016 presso la seconda sezione della Corte di assise di Palermo). Ebbene, in quelle 3.039 pagine di una sentenza che si lega all'ostinazione e alla competenza con la quale la magistratura ha seguito il caso, si legge un potere devastante dei poteri marci, della borghesia mafiosa, della massoneria deviata, dei Servitori infedeli dello Stato che governavano (e governano) Trapani (e non solo). Con riflessi inquietanti che – trascorsi quasi 30 anni – sono sempre vivi e più che mai attuali.

Il circuito di relazioni. Leggiamo cosa scrive – da pagina 682 in avanti – la Corte di Assise a proposito della loggia Scontrino e del circuito di relazioni: «Nel cono d'ombra di una loggia massonica coperta, al sicuro da sguardi indiscreti, si coltivano reazioni e si allacciano contatti altrimenti impensabili o difficilmente praticabili; e si sugellano accordi di interesse tra soggetti che appartengono a mondi diversi. In particolare, la compresenza nello stesso circuito massonico trapanese di soggetti di così diversa estrazione e levatura – politici, alti burocrati, funzionari pubblici, magistrati, imprenditori e mafiosi, inclusi semplici gregari – ben poteva spiegarsi sia con la funzione assegnata agli uomini di Cosa nostra di custodi armati del rispetto di accordi collusivi stipulati in altra sede; sia con la destinazione dei vincoli di fratellanza massonica a luogo protetto e sede in cui poter compensare i loro servigi con adeguati favori o negoziare o scambio di favori indicibili, anche al di là dell'appoggio elettorale a candidati graditi (…)

(…) Uno spaccato inquietante in tal senso è offerto invero dalla documentazione acquisita e dalle fonti compulsate già nelle indagini compendiate nei vari rapporti giudiziari dell'epoca – e segnatamente quelli della Squadra Mobile di Trapani del 5 settembre '86, della Criminalpol del 20 febbraio 1987, della Squadra Mobile e della Gdf del 26 maggio 1977, dei Carabinieri del Reparto operativo di Trapani del 22 giugno 1987, acquisiti tutti al fascicolo del dibattimento – e dalle ulteriori risultanze emerse nel processo a carico dei presunti promotori e organizzatori dell'associazione segreta sorta dietro la copertura delle attività culturali del circolo Antonio Scontrino. E ciò va rimarcato, sebbene il processo , definito con sentenza del Tribunale di Trapani i data 5 giugno 1983, sia stato celebrato solo a carico di otto degli oltre sessanta inquisiti) inclusi i 35 attinti dalle iniziali comunicazioni giudiziarie emesse dall'Ufficio istruzione del Tribunale di Trapani, che rigettò la richiesta di contestare con mandato di cattura i reati per i quali si procedeva), in quanto le posizioni degli altri indagati, a parte alcune posizione stralciate furono definite in istruttoria con proscioglimenti nel merito o per prescrizione o per intervenuta amnistia (relativamente alle imputazioni per il reato di partecipazione ad associazione segreta e per altre imputazioni afferenti a reati contri la p.a.). E non può non darsene conto, sia pure sommariamente, nel momento in cui deve ribadirsi che uno dei filoni tematici che con maggiore evidenza si intravedono nei materiali assemblati da Rostagno – riguarda proprio il tema della massoneria (deviata) e dei suoi rapporti con la politica e con la mafia: con particolare riguardo, per la realtà trapanese, all'inchiesta sul circolo Scontrino».

Gli episodi a catena. Ciò che si legge da pagina 718 fa seguito al racconto di una serie di incredibili episodi di tracotanza, spavalderia da parte di alcuni indagati. «Angelo Voza – si legge nella sentenza e del quale è stata raccolta la testimonianza in dibattimento – fu uno dei militari della Gdf più impegnati nelle indagini successive alla perquisizione del Centro Scontrino (ha spiegato che il coinvolgimento di tutti i corpi di polizia, inclusi Guardia di Finanza e Carabinieri fu motivato anche dall'esigenza di evitare che eventuali ritorsioni si accentrassero solo sulla Polizia, considerato ciò che era successo al commissario Saverio Montalbano, praticamente trasferito d'ufficio dopo la perquisizione del Centro Scontrino). Voza sostiene di aver ricevuto diverse minacce per questo suo impegno (tra l'altro fu vittima di uno strano “scherzo” e cioè di una domanda di trasferimento in Sardegna che ovviamente lui non aveva mai presentato). E una volta fu minacciato personalmente da uno degli indagati, che pretendeva la restituzione di alcuni libretti al portatore sequestrati nel corso di una perquisizione. Si presentò al corpo di guardia e gli intimò di restituirgli quei libretti se non voleva passare un guaio (“Io mi rivolgerò al ministro. Le farò vedere”) (…) (…) Ma soprattutto lo sviluppo delle indagini portò alla luce una serie di episodi dai contorni illeciti in relazione ai quali presero corpo plurime imputazioni per reati contro la p.a., truffa, tentata estorsione e persino rivelazione di segreti d'ufficio, con riferimento all'essere stati alcuni degli inquisiti messi a conoscenza delle indagini a loro carico. In particolare, le imputazioni per il reato di interesse privato in atti d'ufficio caddero già i istruttoria, con una raffica di proscioglimenti per intervenuta amnistia (al pari delle imputazioni per rivelazioni di segreti d'ufficio), previa derubricazione ad abuso d'ufficio. Tuttavia, i fatti accertati erano d'innegabile gravità o tali da gettare pesanti ombre sulla capacità della cricca di inquinare o insidiare il corretto funzionamento delle istituzioni locali».

La perseveranza della magistratura. L'ex procuratore aggiunto di Palermo Maria Teresa Principato il 20 ottobre 2015, nel corso di un convegno a Salemi (Trapani), puntò il dito proprio contro la rinnovata rete di protezione della politica, della borghesia mafiosa e della massoneria deviata. Giunse poi il capo della Procura palermitana Francesco Lo Voi, che il 4 novembre 2015 in Commissione parlamentare antimafia rispose così sulle coperture, alle sollecitazioni dei commissari Claudio Fava (Mpd) e del solito Lumia (Pd): «Non sono idoneo a fare l'interpretazione autentica delle indicazioni fornite dalla collega Principato, ma so da dove nascono. Nascono da una serie di ipotesi investigative su cui si è lavorato e si sta lavorando, che fanno ritenere che sia difficile reggere ventidue anni di latitanza (risaliamo al 1993) senza un appoggio che non deve essere necessariamente di altissimo livello se ci riferiamo alle istituzioni, e contestualmente, sulla base di elementi su cui si sta lavorando, ci fanno ritenere che non siano neanche di basso livello dal punto di vista dell'origine sociale e delle caratteristiche di inserimento nel territorio e nella società. Si tratta quindi di professionisti, imprenditori, persone collegate a determinati ambienti, non esclusa la massoneria in ragione non soltanto territoriale (è stato indicato in una delle domande dal senatore Lumia), ma anche perché qualche spunto a questo riguardo, specificamente con riferimento al territorio di Trapani, emerge dalle indagini. È un'attività di ricerca che non è semplice e che spero possa portare a risultati, ma vi prego di credere che non si stanno risparmiando energie e risorse in questa attività». Dunque Lo Voi si lascia sfuggire che – quanto alla massoneria - «qualche spunto a questo riguardo, specificamente con riferimento al territorio di Trapani, emerge dalle indagini». Sta alla magistratura indagare ma è certo che la pista della massoneria deviata viene battuta con ogni forza possibile e immaginabile. Per capire fino in fondo il bozzolo mortale (per la democrazia italiana) che avvolge e protegge Matteo Messina Denaro e i suoi sodali, si deve tornare ancora alle 3.039 pagine di motivazioni depositate il 27 luglio 2015 dalla Corte di Assise di Trapani della sentenza relativa all'omicidio di Rostagno. In un territorio complesso e devastato da una miscela esplosiva in cui gli ingredienti principali sono Cosa nostra, politica marcia e servitori infedeli dello Stato, non è casuale imbattersi in quelle che Natale Torregrossa, membro autorevole del (fu) circolo Scontrino di Trapani, ha definito «logge selvagge». Dalle motivazioni della sentenza, leggiamo quanto scrivono i giudici da pagina 793 nel paragrafo intitolato “Le menzogne di Torregrossa”: «Al presente dibattimento, Torregrossa ha negato tutto quello che poteva negare senza eccessivo rischio, per non essere stato (ancora) processualmente accertato. E ha fatto parziali ammissioni solo rispetto ad evidenze non oppugnabili. Ma su più di un punto è stato smentito da risultanze dibattimentali; e soprattutto è smentito da Rostagno e da se stesso, avendo reso una deposizione che si segnala per le numerose reticenze, incongruenze o palesi falsità da cui è costellata. Egli ha ammesso di aver partecipato alla fondazione praticamente di tutte le logge del Centro Scontrino che facevano capo come rito massonico, alla Comunione di Piazza del Gesù, ma, come lui stesso ha precisato, erano “autonome”: che è una sua personale interpretazione del fatto che si trattava di logge selvagge, cioè non riconosciute dagli organismi centrali (…)».

Logge selvagge. Logge selvagge rende perfettamente l'idea di un'associazione segreta, occulta, senza regole. Un concetto sul quale i giudici torneranno da pagina 821, allorché ripercorrono le tappe dei notiziari, dei redazionali, dei programmi di approfondimento e delle interviste nelle quali Rostagno aveva affrontato e dibattuto il tema del rapporto mafia-massoneria o poteri occulti o malaffare. Rostagno denunciava con attenzione e preoccupazione «la pervasiva infiltrazione di poteri occulti negli apparati istituzionali, quale fattore di corrosione e inquinamento del tessuto democratico; la compresenza delle logge massoniche che facevano capo la centro Scontrino di uomini delle istituzioni e funzionari pubblici (oltre a professionisti, banchieri e imprenditori) da un lato e noti sponenti mafiosi dall'altro: i possibili legami della massoneria trapanese e segnatamente delle logge “selvagge”…con la P2 di Licio Gelli (anche in relazione alle presunte visite dello stesso Gelli nel Trapanese); il possibile coinvolgimento di circoli massonici nel traffico di droga, se non anche nel traffico d'armi. È allora lecito ricavare, anche dalla parte “sommersa” dell'attività giornalistica di Rostagno, indicazioni, in ordine al più probabile movente del delitto e alla sua matrice mafiosa, che, senza essere perentori e concludenti, tuttavia convergono perfettamente con quelle desumibili dalla parte “emersa” di quell'attività. In sostanza, nella primavera del 1988, a partire dal momento in cui i primi arresti provano che dietro tanto fumo c'era anche molto arrosto ed era un arrosto che faceva male, per usare la metafora di un suo redazionale, Rostagno esce allo scoperto, ma al contempo continua a scavare nell'ombra, tessendo contatti con fonti interne alle vicende di cui parla per saperne di più e documentarsi, come lui stesso ha dichiarato nei verbali che per 25 anni sono rimasti sepolti tra le carte del processo “Scontrino”. Egli comincia cioè a martellare quelli che oggi si definirebbero, con espressione un po' abusata, i poteri forti che dominavano la città di Trapani attraverso strutture di potere occulti come quella venuta alla luce proprio nell'inchiesta sul circolo Scontrino, che intreccia il malaffare con l'inquinamento delle istituzioni e le collusioni politico-mafiose».

La protezione extralarge. Il 23 novembre 2016 la Commissione parlamentare si è nuovamente dedicata all'audizione di Maria Teresa Principato. Messina Denaro, dirà il magistrato, gode nell'ambito della città di Trapani di una protezione che spesso sconfina nella connivenza e addirittura nella condivisione di certi valori e nella contrapposizione «rispetto ad uno Stato in cui nessuno crede». Principato ricordò i grandi manifesti “Matteo torna, abbiamo bisogno di soldi” e quando una sola volta, nel 2014, lesse su un cartello posto al centro della città di Castelvetrano “Matteo sei un pezzo di merda”. Li il magistrato capì che «qualcosa forse stava cambiando». Principato pensava che questo potesse suscitare nell'uomo una reazione «ma l'uomo non è un uomo normale – dirà in Commissione – è un uomo molto freddo, molto particolare. Scusate se mi riferisco a questa persona come se l'avessi conosciuta, ma in realtà dopo otto anni di studio approfondito della materia è quasi normale che si ragioni come dopo aver conosciuto una persona». Ecco che accanto alla strategia del prosciugamento dell'acqua criminale nella quale nuota, la Procura di Palermo, contemporaneamente, porta avanti quella dell'impoverimento del portafoglio del latitante. E qui Principato condisce la strategia anche con una nota di colore: «Essendo lui, come tutti gli altri trapanesi, così profondamente legato al denaro, agli affari e ai propri interessi, ho ritenuto di effettuare un'azione convergente rispetto alla sezione misure di prevenzione di Trapani e provvedimenti di sequestro e confisca che abbiamo effettuato sulla base delle nostre operazioni che equivalgono a milioni di euro, se pensate che solo una catena di grande distribuzione è stata oggetto di confisca per 850 milioni». Anche il nipote del cuore, Francesco Guttadauro, colui che era destinato ad essere il suo successore e che quanto a violenza, dirà Principato, «lo aveva già eguagliato, se non superato», è stato arrestato e sottoposto al 41-bis. Tutto questo «per ottenere un affievolimento del consenso da parte di tutti nei confronti di questo latitante – dirà Principato – perché a mio avviso era intollerabile, ed ecco perché ho dedicato anni della mia vita a questo, che lo Stato rinunciasse alla cattura di un latitante che dal 1993 sfugge e che rappresenta per la città di Trapani una primula rossa, quindi una persona da imitare, una persona da ammirare, verso la quale provare, più che una condiscendenza, una vera e propria connivenza». 

Un parassita della società. Questi sistemi hanno sortito dei risultati – non quelli sperati dirà Principato che evidentemente si riferisce alla cattura – ma si è rotto il muro di omertà che tradizionalmente ha circondato la famiglia di Matteo Messina Denaro. Pur non richiedendo di essere inquadrato come collaboratore di giustizia, ha cominciato a rompere questo muro del silenzio sulla famiglia il cugino Lorenzo Cimarosa, già detenuto per tre anni per favoreggiamento nei confronti del cognato, reato per il quale si è sempre proclamato del tutto innocente. Dopo un'iniziale timida collaborazione Cimarosa ha aiutato investigatori e inquirenti a inquadrarlo meglio, a capirne quantomeno la struttura mentale. Cimarosa, deceduto l’8 gennaio di quest’anno, ha definito Matteo Messina Denaro «un parassita», cioè un personaggio che si nutriva del lavoro degli altri senza peraltro dare niente in cambio. Quando sono stati arrestati il cognato Vincenzo Panicola, marito di Patrizia Messina Denaro, la stessa Patrizia Messina Denaro, Filippo Guttadauro, marito di Rosalia Messina Denaro e padre di Francesco, Giovanni Filardo, figlio di Rosa Santangelo e cugino di Matteo, Matteo Filardo, fratello di Giovanni e il nipote del cuore, Francesco Guttadauro, tutti pensavano che ci dovesse essere una reazione. «Fu il tempo in cui io fui minacciata di essere destinataria di una partita di tritolo – ricorda Principato - che coincise con l'arresto dei suoi familiari, ma soprattutto con l'ablazione di tanto denaro che per uno come Matteo Messina Denaro come per ogni altro, soprattutto in un periodo come questo, era estremamente importante. Non c'è stata solo questa conseguenza positiva, ma, come avrete letto su tutti i giornali, hanno cominciato a collaborare altre due persone, Attilio Fogazza e Nicolò Nicolosi che, arrestati insieme a Giovanni Scimonelli per un omicidio, hanno cominciato a parlare. Anche questo è stato un momento di rottura del muro dell'omertà, ma c'è di più: dalle intercettazioni che man mano sentivamo, perché non ci siamo limitati con questo preziosissimo strumento di indagine, emergevano delle vere e proprie lagnanze, delle valutazioni negative da parte dei sodali nei confronti del latitante. Ne abbiamo riportate alcune in una richiesta di custodia cautelare e sono state poi riportate in un'ordinanza, sono di due persone che dicono: “ma questo ha tutta la famiglia dentro, io al suo posto farei scoppiare qualsiasi cosa!”, e sostanzialmente il significato è “ma se non pensa alla sua famiglia, come può pensare ai trapanesi, a tutti noi, all'organizzazione da lui capeggiata?”. Questa è la cosa che più ha preoccupato tutti, questo è stato il primo commento di cui ho parlato perché è pubblico. Di altri non parlerò, però ce ne sono stati altri e molto efficaci sempre contro Matteo Messina Denaro, di grande delusione per la sua lontananza e il disinteresse nei confronti dei suoi». La magistratura ha dunque agito sulla perdita di consenso attraverso arresti, provvedimenti ablativi e azioni di disturbo nei confronti di persone che anche in passato lo avevano agevolato (ad esempio con perquisizioni di immobili e fermi di auto con conseguenti perquisizioni).

Nella testa del boss. Principato spiega poi il modo di ragionare della primula rossa trapanese e rivela che per capire le sue elucubrazioni ci ha messo un po' di tempo. E racconta di quando Matteo Messina Denaro, in un pizzino ritrovato, parla di Leo Sutera come «di una brava persona della quale ci si può fidare». «Sutera nel 2012 stava per farci prendere Matteo Messina Denaro – dirà il pm – e il suo arresto è stato troncante, cioè ha eliminato ogni possibilità di arrivare con soddisfazione a questa operazione. È una cosa che molto difficilmente riuscirò a dimenticare, perché Matteo Messina Denaro, che è abituato a tutti gli artifici della latitanza, ricordiamo che ha vissuto con il padre Francesco latitante per tantissimi anni, dopo un arresto, dopo che anche i sospetti, le attenzioni di un investigatore si soffermano su una persona, immediatamente cambia strada, immediatamente investe su qualcosa di diverso. Immediatamente cambia strada, va all'estero con tutta probabilità; non gli mancano le occasioni, le modalità e i luoghi in cui rifugiarsi in tutta sicurezza. Questa è una caratteristica di questo latitante, cioè il fatto che procedere a degli arresti, quindi la strategia della cosiddetta “terra bruciata” per lui non è una strategia adeguata. L'ho capito dopo un po' di tempo». 

Lo Stato fa la pace con se stesso. E qui Principato ricorda che nel dicembre 2014 «riuscì in un'operazione», cioè a firmare un protocollo (che oggi sembra lasciato nel cassetto) con il generale Mario Parente, all'epoca a capo del Ros dei Carabinieri e Raffaele Grassi dello Sco della Ps per un'indagine comune, «affinché Carabinieri e Polizia, abbandonando le rivalità tradizionali ormai diventate oggetto di ilarità e di barzellette, lavorassero insieme, non ostacolandosi e dividendosi, da me coordinati, gli obiettivi. Ecco perché abbiamo potuto realizzare tutto questo». 

Ecco, forse questo è l'aspetto paradossale: che per catturare un criminale di questo tenore si siano (verosimilmente) persi anni per diatribe, incomprensioni, litigi, scaramucce, gelosie (nel migliore dei casi) tra organi investigativi e sia dovuto arrivare un pm che – contando sulla disponibilità di due comandanti dei Carabinieri e della Polizia intelligenti – abbia potuto finalmente siglare una tregua. Domanda: scontato il merito a Principato, Parente e Grassi, a qualcuno sembra normale che per catturare questo rifiuto della società lo Stato debba firmare la pace con se stesso?

La rete oltreoceano. Matteo Messina Denaro risulta avere gradi di parentela con importanti famiglie mafiose newyorkesi, come i Gambino, i Lucchese, i Bonanno, i Genovese. La ragnatela delle coperture finanziarie e delle protezioni parte e arriva (la direzione è biunivoca) dagli Stati Uniti (segnatamente da New York), dove Cosa nostra trapanese è fortissima e vanta collegamenti internazionali anche con le centrali dei Paesi nevralgici per il narcotraffico e il traffico illecito di ogni genere (come la stessa Tunisia dove Cosa nostra ha radici solide). Visto che lo stesso ex procuratore aggiunti della Procura di Palermo Maria Teresa Principato non si era sbilanciato sulla possibilità che il super boss potesse trovarsi all'estero, già il 4 novembre 2015 Lumia aveva chiesto al capo della Procura di Palermo Francesco Lo Voi, ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia, «se anche questo livello venga monitorato e quali risultati siate riusciti a ottenere, visto che anni fa, quando come Commissione ci recammo negli Stati Uniti, mi fu spiegato che c'erano diversi gradi di parentela dell'universo familiare di Matteo Messina Denaro con le tradizionali famiglie newyorkesi». Sul punto, comprensibilmente, Lo Voi non rispose per non svelare nulla sulle indagini in corso ma è bene ripercorrere quelli che sono i fortissimi (e influenti) addentellati finanziari e politici statunitensi della famiglia “allargata” di Messina Denaro.  Alcuni dei capi delle cinque famiglie di New York, come Carmine Galante e Joe Bonanno, erano originari di Castellammare e alcuni importanti processi celebrati già nel 1956 e nel 1963 comprovarono che all'epoca esistevano già stretti legami, anche in ragione dei vincoli parentali, tra le cosche di Alcamo, Salemi e Castellammare del Golfo e le famiglie mafiose radicatesi negli States. In particolare, molti castellammaresi emigrarono nel New Jersey e questo spiega la solidità dei legami con le famiglie mafiose di New York ma anche il peso della mafia castellammarese, che si faceva forte di una naturale alleanza su base parentale con la mafia a stelle e strisce, che ben prima delle organizzazioni criminali europee aveva scoperto il business della droga. Un'utilissima e attualissima lettura di quanto accade all'interno dei quattro mandamenti (che comprendono complessivamente 17 famiglie, tra le quali ovviamente quelle di Castellammare, Alcamo e Salemi) sui quali sarebbe strutturata attualmente Cosa nostra trapanese, giunge dall'ultimo rapporto della Dia presentato a fine gennaio al Parlamento. «Il modello verticistico-piramidale consente l'imposizione di strategie unitarie – si legge a pagina 33 dell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia – comunque protese a coprire e sostenere la latitanza di Matteo Messina Denaro, ritenuti punto di riferimento del sistema criminale, non solo provinciale». I soldi – si sa – sono in grado di corrompere dovunque e non è superfluo sottolineare che dalle agende sequestrate fin dalla prima perquisizione presso il Centro Scontrino di Trapani, emersero annotazioni che alludevano o lasciavano intendere il dispiegamento di attività volte a interferire, o comunque ad interessarsi, anche di vicende più delicate – in Italia e all'estero – come ad esempio procedimenti penali o per l'applicazione di misure di prevenzione a carico di pregiudicati o di indiziati mafiosi. Tra le carte della perquisizione fu trovato questo appunto: “Falcone Giovanni-Rosario Spatola-John Gambino”.  John (Giovanni) Gambino è proprio quel John Gambino che nel 1988 venne arrestato a New York insieme ai suoi fratelli nell'ambito dell'operazione antidroga Iron Tower, coordinata proprio da Falcone e da Rudolph Giuliani. Spatola era parente (cugino per la precisione) dei Gambino. Così come non vanno sottovalutati i rapporti e le trame oscure che questa ragnatela italo-statunitense (per la precisione trapanese-newyorchese) è stata nel passato capace di tessere e di cui sarebbe errato non credere che ancora oggi sia viva e vegeta, anche se con altri attori protagonisti. Nelle motivazioni depositate il 27 luglio 2015 dalla Corte di assise di Trapani della sentenza relativa all'omicidio di Rostagno c'è uno spunto straordinario, da questo punto di vista. Si legge da pagina 1.265, che «il gruppo di potere insediatosi tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta al vertice del Sismi (il vecchio Servizio segreto militare, ndr) faceva parte il faccendiere Francesco Pazienza legato alle famiglie mafiose italo-americane e in particolare a John Gambino e in rapporti d'affari con Pippo Calò, componente della Commissione provinciale di Cosa nostra. Mediatore tra i due era stato il costruttore siciliano Luigi Faldetta, uomo di Cosa nostra, ma legato anche alla Banda della Magliana. E Francesco Pazienza era altresì interessato ad un giro d'affari – e di speculazione e intrallazzi – di cui erano partecipi Flavio Carboni, legato al banchiere Roberto Calvi ed elementi della Banda della Magliana». Pazienza, che nel 1980 divenne consulente del Sismi, fu raggiunto da una prima richiesta di estradizione nel 1984 ma non fu arrestato fino al 4 marzo 1985, prima di essere consegnato alle autorità italiane nel giugno 1986. L'arresto, per la cronaca, avvenne, guarda caso, a New York.

L'attacco al patrimonio della famiglia “allargata”. Da quando Gdf, Dia e Carabinieri – delegati dalle Procure – hanno messo nel mirino il portafoglio del super boss latitante, sono stati definitivamente confiscati o sequestrati beni mobili e immobili per oltre tre miliardi. Eppure il mondo che gravita intorno a Matteo Messina Denaro sembra non interessarsi di sequestri e confische miliardarie oltre che di decine e decine di arresti di operai, quadri, funzionari e dirigenti della cosca e continui a condurre una vita al limite. «Anche i familiari di Matteo Messina Denaro – metterà Lumia nero su bianco nella sua interrogazione – pur subendo il sequestro di beni, sfoggiano ancora un altissimo tenore di vita, tanto da fare sposare i loro figli nella famosa e stupenda Cappella Palatina di Palermo». Il riferimento è al matrimonio celebrato nel pomeriggio del 12 settembre 2014 tra una nipote di Matteo Messina Denaro (che si presentò all'altare senza il padre, Filippo Guttadauro e il fratello Francesco, all'epoca al carcere duro, oltre che, ovviamente, senza lo zione Matteo) e un nipote di Gaetano Sansone, il quale ospitò Totò Riina nel suo residence. È un matrimonio che unì i Guttadauro e i Sansone, la provincia di Trapani e quella di Palermo. 

Mani sicure sul tesoro. E' impressionante la lista degli interessi della famiglia Messina Denaro, che copre ogni settore dell'economia: il campo dell'eolico, la grande distribuzione, il settore delle cave, quello del calcestruzzo, il movimento terra, l'agroalimentare e il settore alberghiero. 

Solo in Sicilia? Figurarsi... Il Gup di Milano Alessandra Del Corvo, il 3 febbraio di quest'anno ha condannato Giuseppe Nastasi, ritenuto amministratore di fatto di Dominus arl, la società consortile che ha lavorato con Nolostand, società controllata dalla Fiera Milano, a 8 anni e 10 mesi nel processo con rito abbreviato. Secondo le motivazioni costui ha preso pure in considerazione, si legge a pagina 194, «la possibilità di porre tale attività a disposizione ed al servizio di un soggetto del calibro mafioso di Matteo Messina Denaro e ciò nella piena consapevolezza del Nastasi di poter essere indagato per favoreggiamento o per appartenenza all'associazione mafiosa». Ma la vicenda non sembra finita qui perché il Gup a pagina 200 scrive che Nastasi, anch'egli di Castelvetrano come Messina Denaro, ha «una palesata capacità di infiltrazione nella realtà imprenditoriale lombarda - e nel settore degli appalti legati a Fiera Milano spa - anche grazie ad una ramificata serie di contatti ed appoggi davvero trasversali e ancora tutti da chiarire». La vicenda portò prima al commissariamento di Nolostand e poi all'amministrazione giudiziaria del settore allestimento stand della stessa Fiera. Commissariamento ampliato ad altri settori del gruppo, anche se è stata respinta la richiesta di amministrazione giudiziaria totale formulata dalla Dda, anche sulla base di un nuovo filone su presunte tangenti pagate da alcune imprese per lavorare. Il gup con la sentenza ha anche riconosciuto a Fiera Milano e Nolostand, rappresentate dal legale Enrico Giarda, e al Comune di Milano, rappresentato dall'avvocato Maria Rosa Sala, risarcimenti come parti civili da quantificare. Ma chi tiene la cassa di Messina Denaro? Una risposta parziale giunge dall'indagine della Procura di Caltanissetta. I pm Lia Sava e Gabriele Paci, che hanno delegato le indagini alla Dia guidata dal colonnello Giuseppe Pisano (Gip Alessandra Bonaventura Giunta) hanno individuato Matteo Messina Denaro come mandante delle stragi di Capaci e via D'Amelio. A Messina Denaro è contestato il concorso morale, per aver aderito al piano stragista e alla sua attuazione, partecipando ad un «gruppo riservato» creato da Totò Riina e alla sue dirette dipendenze. Un gruppo di “riservati” disposto a tutto pur di uccidere i nemici giurati di Cosa nostra: in primis Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di cui, dopo l'assassinio del giudice, veniva temuta l'ascesa alla Procura nazionale antimafia.

La super Cosa Nostra. Una “super Cosa nostra” composta da due gruppi di pretoriani di Riina che non doveva conoscere le mosse dell'altro. Di uno – oltre a Giuseppe Graviano, Fifetto Cannella, Lorenzo Tinnirello, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci – faceva parte proprio Messina Denaro. Fu questo gruppo – secondo la ricostruzione di investigatori e inquirenti coadiuvato ad un certo punto dal clan camorristico Nuvoletta – a partecipare alla missione romana (dal 24 febbraio al 5 marzo '92, un mese dopo la sentenza nel maxiprocesso emessa il 30 gennaio) impegnata ad uccidere Falcone o, in subordine, l'allora ministro Claudio Martelli o personaggi invisi come Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo. Una “super Cosa nostra” che era il sintomo dell'ansia parossistica con la quale Riina perseguiva l'eliminazione di Falcone, strettamente collegata alla strategia di guerra allo Stato. Nelle carte del provvedimento spicca il ruolo di Francesco Geraci, gioielliere e amico d'infanzia del boss latitante. Costui non è mai stato ritualmente affiliato a Cosa nostra ma – ugualmente – faceva parte della cerchia strettissima di cui Messina Denaro si fidava ciecamente. A Geraci venne affidato il delicato compito di gestire la cassa di famiglia, che amministrò per anni, custodendo il denaro nel caveau della propria gioielleria. Ed è proprio lui a raccontarlo in un interrogatorio sostenuto dalla 12.45 del 5 ottobre 1996: «L'episodio nel quale è coinvolto mio fratello è quello che concerne la gestione di “conti” ce io tenevo in gioielleria nell'interesse di Messina Denaro Matteo: il Matteo avendo notato un caveau particolarmente protetto, mi aveva chiesto se potevo custodirgli del denaro in contanti, ed io mi ero messo a disposizione senza alcuna difficoltà. Tale denaro, in pratica confluiva in quattro conti: uno era quello personale di Matteo che ebbe al massimo un saldo di 35 milioni; un altro che ha avuto anche la consistenza di 100-150-200 milioni; l'altro ancora ammontava a 100 milioni e che, come mi disse Matteo, erano soldi di sua madre; un ultimo invece fu fatto in occasione dell'acquisto di terreni, di cui parlerò appresso, di cui la S.V. mi invita a fare. Ero stato io a confidare a mio fratello l'esistenza di quei conti anche per consentire che in mia assenza Matteo potesse effettuare operazioni di deposito o prelievo di denaro rivolgendosi direttamente a lui. Il Matteo veniva assiduamente a compiere queste operazioni, le quali venivano annotate in dei bigliettini in cui sostanzialmente veniva riportato soltanto il saldo e che venivano successivamente strappati. Mio fratello si occupava anche della gestione di questa contabilità ma ero io di fatto che mantenevo i rapporti con Matteo (…) Prima del mio arresto ricordo che il conto personale del Matteo era stato azzerato e ciò in concomitanza con l'inizio della sua latitanza; quello degli “affari correnti”, per così dire, era stato assottigliato (…) Aggiungo che per un certo periodo, sempre tramite il Matteo, anche …omissis…ci aveva portato in custodia 200 milioni che erano dei soldi di cui egli si era appropriato in banca. Mi risulta inoltre che …omissis…si fece custodire una certa somma, forse circa 70 milioni, anche da…omissis…Mi sovviene che ho custodito anche i soldi di…omissis…, circa 20 milioni, che mi furono portati da…omissis». L'ulteriore passaggio evolutivo di tale rapporto – annota il Gip a pagina 21 del provvedimento – fu l'affidamento a Geraci di numerosi lingotti d'oro e di una valigia piena di monili e oggetti preziosi, beni tutti appartenenti a Totò Riina, consegnati da Geraci agli inquirenti all'inizio della sua collaborazione. «Nella terza occasione – proseguirà Geraci nell'interrogatorio del 5 ottobre 1996 – Riina si presentò nel negozio accompagnato da Matteo, con la moglie e le due figlie, affidandomi una borsa con i gioielli della famiglia perché li custodissi; si trattava di orecchini, monili ed altro che io ho occultato in un nascondiglio segreto nella mia abitazione unitamente ai lingotti d'oro che in un'altra occasione mi aveva portato il Matteo dicendomi che erano di Riina. A proposito di Riina ricordo che per due estati in due occasioni ho fatto fare insieme al Matteo delle gite in barca a tutti e quattro i suoi figli, unitamente alle figlie di Pietro…omissis…e di tale “vartuliddu” di Corleone, entrambi all'epoca dimoranti a Triscina. Aggiungo ancora che una volta il Matteo regalò un Rolex modello Daytona in oro ed acciaio al figlio di Totò Riina a nome Gianni e nell'occasione anche io volli donare un identico orologio all'altro figlio a nome Salvatore. Un giorno Messina Denaro Matteo mi chiese se mediante un'operazione “pulita” potevo intestarmi un terreno che da quello che capiì apparteneva alla famiglia mafiosa di Castelvetrano: si trattava di un terreno di tre salme e mezzo sito alle spalle della grande costruzione di Genco cui si accede da viale Roma. Non sono in grado di dire se quel terreno intestato formalmente a …omissis…di fatto apparteneva già a Messina Denaro Matteo ed ai suoi amici mafiosi oppure se di fatto costoro ne diventavano proprietari a seguito della vendita nella quale io figuravo come formale acquirente. L'acquisto avvenne, se mal non ricordo, tra i 1990 e il '91 (…) Successivamente alla compravendita, il terreno acquistato da …omissis….fu un compromesso rivenduto ai Sansone di Palermo per la somma di 550 milioni. Il Sansone mi versò 450 milioni in assegni ma prima che saldasse completamente il debito venne arrestato per cui rimase in debito di 100 milioni. Ricordo che si diceva che quel terreno doveva diventare edificabile e che anzi il Sansone doveva realizzare un grosso insediamento edilizio, tipo “Castelvetrano due”; infatti attualmente il terreno vale svariati miliardi. Con il guadagno di 250 milioni previsto a seguito di quella compravendita, il Matteo mi aveva detto che dovevo intestarmi un terreno di Riina…».

La collegialità mobile. «Non è in discussione la struttura unitaria di Cosa nostra – dirà Lo Voi in Commissione antimafia – recenti acquisizioni ci confermano che le regole anche con riferimento alla struttura continuano ad essere rispettate. Regole con riferimento alla struttura significa nella nostra lettura contatti tra uomini di diversi mandamenti o addirittura di diverse province per la soluzione di determinate questioni, il che vuol dire che la struttura è unitaria. Da ciò a dire che esista un'unica autorità, come è avvenuto in passato attraverso non solo la commissione di cosa nostra, che di tanto in tanto si prova a ricostituire (recentemente le cronache ne hanno dato notizia), ma con riferimento al personaggio maggiormente carismatico che assume la veste di leader, forse ce ne corre. Probabilmente in questo momento non c'è il capo assoluto (attenzione, dico “forse” e lo sottolineo tre volte), però questo per certi versi rafforza la struttura storica di cosa nostra, che prevede non il capo assoluto, ma l'incontro delle espressioni dei vari territori. C'è una collegialità mobile (chiamiamola così) apparentemente senza un capo assoluto, posizione che non sembra (anche qui “sembra” sottolineato tre volte) in questo momento essere rivestita da Matteo Messina Denaro. Qui ci si trova di fronte a un latitante decisamente diverso da quello a cui eravamo abituati prima. Mi sono occupato di ricerca di latitanti anche con qualche positivo risultato, da Bagarella a Brusca ad altri che non nomino, ma qui siamo in presenza di un latitante decisamente sui generis. È un latitante che controlla il suo territorio, ma che non per questo, dalle acquisizioni che abbiamo di questi ultimi anni, sta permanentemente sul suo territorio, siamo in presenza di un latitante che, come la recente operazione del 3 agosto ha dimostrato, continua a utilizzare i pizzini per lo scambio delle informazioni, ma allo stesso tempo non escludiamo che utilizzi sistemi di comunicazione molto più moderni, tecnologici e meno controllabili. Siamo in presenza di un latitante evidentemente mobile sul territorio, non solo sul suo territorio d'origine, perché alcuni elementi di valutazione ce lo danno mobile sul territorio nazionale e al di fuori del territorio nazionale, quindi siamo in presenza di una serie di attività finalizzate alla sua cattura che sono estremamente complesse, che vedono impegnate attualmente il meglio delle forze di polizia presenti in Italia, le eccellenze in un gruppo interforze appositamente costituitosi tra raggruppamento operativo speciale dei carabinieri e servizio centrale operativo dalla polizia, con il parallelo, periodico affiancamento in determinate attività della Dia o della Guardia di finanza, a seconda delle varie emergenze investigative, che sta lavorando senza tralasciare nulla». 

PORTAFOGLI PIÚ POVERI. Sequestri e confische alle mafie nel I° semestre 2016. Totale sequestri: 175.397.390 euro; totale confische: 719.157.510 euro (Fonte: DIA, I° semestre 2016).

LA TORTA ECONOMICA. Valori dei sequestri e delle confische dal 1992 al 31/12/2016. In euro (Fonte: DIA, I° semestre 2016). Organizzazioni, Sequestri (art. 321 cpp), Confische (D.L. 306/1992 art. 12 sexies), Sequestri (DLgs 159/2011), Confische (DLgs 159/2011):

Cosa Nostra 1.887.460.080, 86.472.690, 9.757.175.127, 4.632.491.578;

Camorra 2.752.656.923, 438.806.856, 2.755.624.273, 945.375.666;

Ndrangheta 639.110.959, 330.389.926, 2.116.366.628, 1.703.285.880;

Crim. Org. Pugliese 74.855.293, 39.230.129, 121.934.561, 103.311.126;

Altre 787.336.000, 31.392.427, 474.440.142, 261.489.377;

Totali 6.141.419.255, 926.292.028, 15.232.540.731, 7.645.953.627

 IN CARCERE. Dati complessivi ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31/12/2016 (Fonte: DIA, I° semestre 2016). Organizzazioni, Valori:

Cosa Nostra 2.077;

Camorra 3.082;

Ndrangheta 2.696;

Crim. Org. Pugliese 791;

Altre 1.533;

Totale 10.179. 

 ‘NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

PER IL CULO SI PRENDONO LE SUPPOSTE, NON LE PERSONE.      

Ci sono più pentiti che boss: la vera follia dell’antimafia. Costano 100 milioni l’anno ma non fanno nomi nuovi. Che dirà Salvini nella relazione? Scrive Errico Novi il 10 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Sarà interessante sentire Matteo Salvini alla sua prima relazione sui pentiti. Tecnicamente, la “Relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione”. L’ultima l’ha presentata Marco Minniti. Il nuovo ministro dell’Interno non ha ancora esordito su tale terreno. Sappiamo solo che vuole «togliere anche le mutande, ai bastardi mafiosi». Ma come? Attraverso le confessioni dei collaboratori di giustizia? Non che tocchi a lui, certo, la prima linea della lotta alla mafia, presidiata da magistrati e forze di polizia. Eppure spetta al Capo del Viminale riflettere sulle decisioni della Commissione centrale, che decide se e a chi applicare i programmi di protezione. È al ministro dell’Interno che è giusto chiedere conto dell’efficacia del sistema. Ed eventualmente, di predisporre modifiche alle norme. A oggi le collaborazioni sono regolate dalla legge 82 del 91 così come modificata dalla legge Amato, la 45 del 2001. Naturalmente sono decisive le azioni e le valutazioni dei magistrati, compresi quelli della Direzione nazionale Antimafia, che presentano relazioni e pareri su ciascun aspirante pentito. Ma sarà Salvini a dover riflettere su due dati: il numero totale dei collaboratori di giustizia, che secondo l’ultima statistica disponibile, quella presentata appunto dal predecessore Minniti nel giugno 2017, è di 1.277 unità; l’altro dato è il numero dei boss in carcere, che si può desumere semplicemente dai detenuti in regime di 41 bis: in tutto, 730 persone. I secondi, cioè i capimafia, sono poco più della metà di chi è “beneficiato” e protetto affinché aiuti a scovare nuovi boss. Ha senso tutto questo?

Il regime speciale di detenzione resta uno dei vulnus giuridici più gravi, in Italia, ed è stato scientificamente liquidato come incostituzionale dall’ultima commissione Diritti umani del Senato. Ma qui interessa ragionare sul meccanismo che consente di decapitare le cosche. E chiedersi se i collaboratori di giustizia siano davvero ancora utili allo scopo. La domanda, peraltro, viene suggerita da una fonte riservata dello stesso ministero dell’Interno: «I programmi di protezione sono costosi. Sono anche una scelta giudiziaria. Negli ultimi anni l’impegno complessivo dello Stato su questo fronte non è mai sceso al di sotto degli 80 milioni di euro. E se si considera il costo degli immobili messi a disposizione dei pentiti, si arriva sicuramente ai 100 milioni annui. Adesso», continua la fonte, «i collaboratori di giustizia propriamente detti dovrebbero aver superato quota 1.300. Ma se un magistrato riconosce il valore delle dichiarazioni di un mafioso, o di un camorrista, e se riferisce alla Commissione centrale che quel soggetto va ammesso al programma, ritiene che l’aspirante pentito possa servire ad accertare la verità. Ecco, per esempio, dovrebbe consentire di portare al 41 bis almeno un paio di soggetti di spessore. Non può limitarsi ad additare qualche gregario, né ad attribuire il novantesimo omicidio a Riina, cioè a chi tanto è già al 41 bis o è morto». È chiaro che se al 41 bis c’è un numero di criminali pari a poco più della metà di chi si pente, i conti non tornano. «E forse le direzioni distrettuali antimafia su questo dovrebbero riflettere», chiosa l’interlocutore del Viminale. Da una delle Dda più impegnate quanto a collaboratori di giustizia, quella di Napoli, viene poi fatto notare l’altro aspetto del problema: «Molti di coloro che sono ammessi al programma di protezione sono ormai figure di bassissimo spessore. Piccoli criminali che non hanno capacità di direzione strategica. Vanno protetti, ma non sono in grado di dare informazioni di peso. Ciononostante portano dietro costi enormi». Quello di Napoli è il distretto di Corte d’appello che produce più pentiti. Sui 1.277 totali, quasi 800 vengono da lì. I “collaboratori” dell’area che fa capo al capoluogo campano hanno famiglie numerosissime. Da proteggere a loro volta. Non solo mogli (le donne pentite restano pochissime, 63 in tutta Italia conto 1.214 uomini). Spesso si aggiungono le nuove compagne, magari con rispettivi figli nati da precedenti relazioni. Delle comunità complesse, diciamo così, che fanno lievitare in modo impressionante l’altro dato significativo dell’affare “collaboratori”: i congiunti a cui si estende il programma. A livello nazionale sfiorano l’astronomica cifra delle 5.000 unità: sono, precisamente, 4.915. C’è solo un’annata, nella cronologia del pentitismo, in cui si è andati oltre: il 1996. L’apice di una fase del tutto particolare, descritta dal libro di Paolo Cirino Pomicino, "La Repubblica delle giovani marmotte" di cui diamo ampia “rilettura” in queste pagine. Ventidue anni fa si registrò il picco delle persone protette: se nell’ultimo score disponibile se ne contano 6.525, nel ’ 96 si arrivò a 7.020 persone. Grazie soprattutto al record dei familiari dei pentiti, 5.747, mentre i collaboratori veri e propri restarono comunque di poco al di sotto del primato recente: se ne contarono 1.214 (alla somma vanno aggiunti i testimoni di giustizia, poche decine). Ma si era nel pieno della rivincita da parte dello Stato nei confronti della criminalità organizzata, in particolare siciliana. Parliamo degli anni in cui furono acquisite collaborazioni come quella di Giovanni Brusca. Oggi non si riesce a individuare più pentiti di quel “calibro”. Ed ecco perché nella lotta alla mafia, il governo, prima di ogni altra ambizione, dovrebbe coltivare quella di riconsiderare il sistema della protezione.

Pentiti di mafia, logge deviate e pezzi di Stato. Quegli strani intrecci dietro l'omicidio Scopelliti. Il ritrovamento dell'arma del delitto apre scenari inediti. C'è qualcuno che parla con i magistrati? Analisi di un assassinio che coinvolge ben più delle strutture militari del crimine, scrive Consolato Minniti, giovedì 9 agosto 2018, su lacnews24.it. Ha scelto una giornata simbolica il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri. Aveva la notizia già da un po', ma ha preferito attendere perché il giorno del ricordo non fosse solo tale, ma diventasse anche quello della speranza. Così come avvenne qualche anno fa, per i carabinieri Fava e Garofalo, i cui congiunti ascoltarono dalla viva voce dell'allora capo della Procura, Federico Cafiero de Raho, una frase sibillina: «Presto arriveremo alla verità». Fu una promessa, mantenuta solo pochi mesi dopo, quando il gip di Reggio Calabria emise un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per i presunti mandanti di quel duplice omicidio. Una verità ancora da scrivere con una sentenza, certo, ma che dimostrò il grande lavoro svolto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.

La novità investigativa. Oggi Bombardieri fa di più e annuncia il ritrovamento di un fucile calibro 12, ritenuta l'arma utilizzata per uccidere il giudice Antonino Scopelliti. Non è un'ipotesi campata in aria. Prima di pronunciarsi, il procuratore ha atteso i primi accertamenti della Squadra mobile di Reggio Calabria, ossia un gruppo di investigatori di primissimo livello che raramente sbagliano un colpo. E gli esiti dicono che ci sono altissime probabilità che quel fucile sia quello da cui partirono i colpi all'indirizzo del magistrato Antonino Scopelliti. Non staremo certo qui a ricordare chi fosse il giudice “solo”: dalle inchieste sul terrorismo e mafia, passando per quelle riguardanti l'omicidio di Aldo moro, Scopelliti rappresentò un punto fermo per la Corte di Cassazione della quale era sostituto procuratore generale.

Il maxi processo e l'omicidio. La sua vita cambiò decisamente nel momento in cui sulla sua scrivania arrivò un fascicolo con su scritto “Maxi processo a Cosa nostra”. Quello istruito dai giudici Falcone e Borsellino. Alla sbarra c'erano tutti i più grandi boss che rischiavano di essere sommersi da centinaia di ergastoli. Scopelliti non fece una piega. Per lui quelle carte erano lavoro. Come sempre, come ogni processo. Così, con la meticolosità che gli era propria, se le portò persino in vacanza, nella sua amata Campo Calabro. Era solito girare sempre senza scorta, accadde anche il pomeriggio del 9 agosto del 1991. Pochi chilometri più a sud, sulle strade di Reggio Calabria i cadaveri si contavano a centinaia. Circa 700 morti ammazzati con la seconda guerra di mafia. Il clima era rovente fra i due casati più importanti. Scopelliti, però, aveva in testa solo i boss siciliani. Ignorava che nel tragitto che l'avrebbe ricondotto a casa, lo stavano attendendo due sicari. L'auto finì in un dirupo. Si pensò ad un incidente. Poco dopo la scoperta: il giudice era stato ucciso con più colpi di fucile. Ma da chi e perché?

Il processo a Reggio. Iniziò a circolare con sempre maggiore insistenza la voce che a volerlo morto sarebbe stata Cosa nostra con la complicità della 'ndrangheta. Una voce che divenne presto ipotesi processuale che vide alla sbarra i maggiori boss siciliani ed anche un presunto killer. Era Gino Molinetti “la belva”. Lui, che in diverse indagini emerse come sicario senza scrupoli, finì sotto processo per poi essere definitivamente assolto così come tutti i grandi nomi della mafia siciliana. Non si riuscì a provare la loro colpevolezza e l'omicidio del giudice rimase di fatto senza responsabili. Quale mandante del delitto, fu condannato in primo grado Pietro Aglieri, boss palermitano implicato anche nell'omicidio di Salvo Lima. Poi, però, pure per lui giunse l'assoluzione. Ma è un particolare che oggi torna di particolare attualità.

Le parole dei pentiti. La ragione? Va ricercata nelle dichiarazioni vecchie e nuove dei collaboratori di giustizia. Sono stati tanti, tantissimi quelli che hanno parlato di un continuo scambio di favori fra 'ndrangheta e cosa nostra. Scambio di killer, di omicidi, di affari. Ed il delitto Scopelliti rientrerebbe proprio in questa logica: la 'ndrangheta – hanno riferito numerosi collaboratori di giustizia – uccide il giudice su mandato dei siciliani, in cambio questi ultimi intervengono per far cessare le ostilità a Reggio, dove il business è fortemente in crisi a causa di quella guerra iniziata nel 1985. Sta di fatto che, proprio l'omicidio del magistrato segna la fine delle ostilità. Di recente, nel processo “'Ndrangheta stragista”, che sta facendo luce sui presunti mandanti dell'omicidio Fava-Garofalo e sugli attacchi ai carabinieri, ha deposto il pentito Francesco Onorato, killer siciliano ed esecutore materiale dell'omicidio di Salvo Lima. Stesso delitto per il quale fu chiamato a rispondere Aglieri. E cosa ha raccontato Orlando al pm Lombardo? Che l'omicidio Scopelliti fu un favore fatto dalla 'ndrangheta a Cosa nostra e nello specifico una questione di cui si fecero carico i Piromalli ed i Mancuso. Parole che sembrano segnare qualcosa più di una mera novità. Perché se è vero che da sempre sono stati ritenuti gli arcoti coloro che hanno organizzato l'esecuzione del delitto, è altrettanto vero che una decisione del genere non poteva essere presa – in costanza di conflitto interno di tale portata – senza l'avallo delle famiglie più rappresentative della 'ndrangheta. Ed allora ecco che le parole di Onorato acquistano ancor più vigore. La ragione risiede in una indissolubilità delle inchieste. Non si può pensare di comprendere la genesi dell'omicidio Scopelliti se non si analizza bene il contenuto dell'inchiesta “'Ndrangheta stragista” che ne rappresenta una naturale evoluzione con i suoi fitti legami fra Sicilia e Calabria.

Mafia, 'ndrine e massoneria. Ecco allora che se ciò è vero, non può sfuggire come il contesto nel quale maturò l'omicidio del giudice “solo” è qualcosa più di un humus meramente mafioso. Chiama in causa anche quei grumi di potere, al cui interno vi sono pezzi deviati dello Stato, senza i quali le mafie oggi non sarebbero quelle potenti organizzazioni che abbiamo imparato a conoscere. Sono processi come “Gotha” a rivelare l'esistenza di una componente riservata della 'ndrangheta, quella in grado di dettare le linee guida della strategia criminale, poi messa in atto dalla componente militare. Risulta evidente come un simile delitto non possa essere stato deciso solo da coloro che avevano il potere di sparare. Del resto, la storia dei legami fra Sicilia e Calabria è ben più risalente nel tempo. Non si dimentichi quanto hanno riferito gli storici pentiti calabresi Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca in ordine ad una super loggia segreta costituita a Reggio Calabria dal terrorista nero Franco Freda, nel periodo in cui la città dello Stretto divenne il laboratorio prediletto dell'eversione. Un capitolo che il giudice Scopelliti conobbe anche piuttosto bene. E cosa dissero i pentiti? Che una loggia gemella fu costituita anche a Catania. Sì, nella stessa città dove oggi il Procuratore Bombardieri ritiene di aver individuato l'arma che sparò a Scopelliti. Una pura coincidenza? Può darsi. O forse no. Forse, invece, quei legami inconfessabili fra lo Stretto e la città dell'Etna sono qualcosa di più profondo. Forse quegli scambi, continui e costanti, nascondevano una compenetrazione criminali ben più strutturata. Sta di fatto che aver individuato oggi un'arma, sotterrata e rimasta segreta per ben 27 anni fornisce un preciso messaggio.

Cosa c'è dietro il ritrovamento? Che ci sia qualcuno che finalmente abbia iniziato una collaborazione seria sulla morte del giudice Scopelliti? Non siamo in grado di dirlo, ma, se così fosse, l'arma potrebbe rappresentare un formidabile riscontro. Del resto, si dice sempre che un pentito, per essere credibile, debba dimostrare ciò che dice. E chi poteva sapere dove era tenuta l'arma del delitto? Solo chi ne ha avuto piena conoscenza. Ecco allora che questa notizia è molto più che un fatto tecnico. Il riserbo del procuratore potrebbe celare qualcosa di simile. La capacità tecnica degli operatori di polizia, peraltro, è nota: da una mera arma potrebbero risalire a molto di più. Per esempio capire se la stessa fu utilizzata per altri delitti eccellenti, magari con imputati condannati in via definitiva. Bisognerà attendere e non sarà certo questione di poco tempo. Ma la sensazione è che, anche in questo caso, non bisogna certo andare troppo lontano per cercare la verità. Chissà che, una volta per tutte, non si riesca a scrivere una parola di verità su uno fra i delitti più indecifrabili della storia recente. La Procura di Reggio Calabria ci ha già dimostrato di essere perfettamente in grado di farlo.

Chi infanga la massoneria, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 10/08/2018, su "Il Giornale". Non avendo problemi, in Sicilia, se li creano. Non bastassero la mafia e l'antimafia, la disoccupazione e lo sconvolgimento del paesaggio, gli sfaccendati parlamentari dell'Assemblea regionale si trastullano con disegni di legge come quello che impone l'obbligo di dichiarare l'affiliazione dei deputati e degli assessori regionali a logge massoniche e similari. Il proponente è Claudio Fava, che si compiace di sovrapporre associazione a delinquere con le libertà di associazione religiosa, culturale, politica previste dall'articolo 18 della Carta Costituzionale. Un simile arbitrio era stato tentato nelle Marche e prontamente dichiarato illegittimo dal Consiglio di Stato. Infatti la norma discrimina l'appartenenza alla Massoneria da ogni altra per cui non è richiesta alcuna declaratoria. Le leggi speciali odorano di stato di polizia e di dittatura. E umiliano un'appartenenza come se essa stessa fosse un crimine. Il crimine presuppone una responsabilità individuale. La massoneria ha una storia gloriosa che non può essere infangata dai disturbi persecutori di un Fava, seguito da parlamentari distratti e opportunisti, privi di rispetto per la storia e per la libertà di idee, senza nulla fare di penalmente rilevante. Essere massoni non significa essere criminali. Gli iscritti al Grande Oriente d'Italia, anche per statuto interno, devono avere i medesimi obblighi di rispetto delle leggi dello Stato, con la «dovuta obbedienza e la scrupolosa osservanza alla Costituzione dello Stato democratico e alle Leggi che ad essa s'ispirino». La vera colpa è ignorarlo.

Rosanna Scopelliti: «Il Tg disse che avevano ucciso papà, avevo solo 7 anni ma ricordo tutto…». Rosanna Scopelliti è la figlia di Antonino Scopelliti, magistrato assassinato dalla mafia il 9 agosto 1991. Intervista di Simona Musco del 12 Agosto 2018 su "Il Dubbio".  Ma lui mi raccontava le cose come Benigni le raccontava a quello che interpretava suo figlio nel film “La vita è bella”. È così che ho saputo cosa fosse la mafia. Quando ero piccola papà mi trasportava in una valigia rossa, per paura che mi potesse succedere qualcosa». Oggi sulla morte del magistrato si è aperto un nuovo spiraglio. L’arma che ha sparato – un fucile calibro 12 – è infatti stata ritrovata nel catanese. Una scoperta che la Dda di Reggio Calabria ha tenuto nascosta fino al 9 agosto, anniversario di quel delitto. Ventisette anni dopo il suo omicidio, un nuovo spiraglio si apre per fare luce sulla morte del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro, suo paese natio, mentre studiava le carte del maxi processo contro Cosa Nostra, nel quale avrebbe dovuto rappresentare l’accusa in Cassazione. L’arma che ha sparato – un fucile calibro 12 – è stata ritrovata nel catanese. Una scoperta che la Dda di Reggio Calabria ha tenuto nascosta fino al 9 agosto, anniversario di quel delitto, quando ha annunciato pubblicamente il nuovo indizio. «È il segno che le indagini su mio padre stanno andando avanti», spiega al Dubbio Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato e componente, nella scorsa legislatura, della Commissione parlamentare antimafia. Che racconta la vita con suo padre, la mafia e la via per il riscatto del sud dalla criminalità organizzata.

Cos’ha provato quando ha saputo del ritrovamento dell’arma?

«È stata una notizia che non mi aspettavo in questo momento. Mi ha fatto molto piacere, soprattutto perché conferma ciò che ho più volte sostenuto, ovvero che la Procura stava proseguendo nelle indagini sull’omicidio di mio padre e che la promessa fatta dal procuratore Federico Cafiero De Raho e portata avanti dall’aggiunto Giuseppe Lombardo e ora dal procuratore Giovanni Bombardieri – dare verità e giustizia alla mia famiglia e a tutti i calabresi – non fosse solo parole, ma un fatto concreto. È stata un’emozione forte, si alternano vari stati d’animo, anche perché è arrivata nell’anniversario della sua morte, un momento molto particolare per noi. Ma mi ha confermato uno dei più grandi insegnamenti ricevuti da mio padre: bisogna avere fiducia nelle istituzioni e nella magistratura. Una fiducia evidentemente ben riposta. Non avevo dubbi, ma quando passano tanti anni, magari, si arriva a provare anche la sensazione di essere abbandonati. Io, invece, posso».

Questo ritrovamento cosa dimostra?

«Va a rafforzare la tesi da sempre portata avanti dalla procura di Reggio Calabria: sicuramente c’era un legame tra mafia e ‘ ndrangheta e sicuramente ci saranno dei diversi livelli, come più volte ipotizzato anche da Lombardo. Penso ad un quadro un po’ più ampio, nel quale si inseriscono l’omicidio Scopelliti e altri fatti di quel periodo. Lo ringrazio per l’attenzione che riserva ogni volta, all’interno delle sue indagini, a mio padre».

Chi era Antonino Scopelliti?

«Oltre ad essere un magistrato, era una persona molto umile, molto riservata, che riusciva a trasmettere i suoi valori a chiunque lo circondasse. Ma era soprattutto un calabrese, un uomo orgoglio- so, testardo, che credeva nelle potenzialità della Calabria. Si arrabbiava molto quando la sua terra non riusciva ad esprimere i suoi lati migliori. Credeva molto nei valori della Calabria e appena aveva un minuto libero si precipitava lì. È vero che era partito, ma era partito per tornare».

Cosa ricorda del suo omicidio?

«Avevo sette anni all’epoca. Ho un ricordo indelebile del momento in cui ho appreso la notizia. Io e la mia famiglia lo abbiamo saputo dal telegiornale: ci preparavamo per la cena, stavamo apparecchiando. Le informazioni correvano velocissime: la giornalista parlava di un attentato, di Campo Calabro, parole che ci hanno dato immediatamente il senso di quello che era successo. Il cuore di tutti noi si è fermato».

Avevate mai pensato che potesse accadere?

«Sapevamo che faceva un lavoro a rischio e che si trattava di un periodo non particolarmente tranquillo. Aveva con sé le carte del maxi processo ed era seduto su una polveriera. Era consapevole anche lui dei rischi, ma non credeva di correre pericoli giusto in Calabria, che era il luogo in cui si sentiva più al sicuro. E poi aveva un’idea particolare sulle scorte: non voleva che accanto a lui qualcuno potesse essere in pericolo, che potesse morire. A noi raccontava solo le cose belle del suo lavoro, non le preoccupazioni o quelle cose che gli sembravano cose più grandi di lui. Tendeva molto a rassicurare. Ricordo sempre il sorriso, quasi mai a chiedere aiuto. Papà caratterialmente era così. Raccontano alcuni amici che un giorno, mentre facevano il bagno sulla Costa Viola, videro galleggiare un sacco della spazzatura, senza capire subito cosa fosse. Papà pensò fosse una bomba destinata a lui, così si lanciò verso la busta per mettere al riparo gli amici. Aveva questa eccessiva protezione nei loro confronti, come nei miei. La sera precedente alla morte, però, sembrava quasi avesse avuto qualche sentore: ci tenne molto a parlarmi per telefono».

Riusciva sempre a mantenere quella apparente serenità?

«L’unica volta in cui l’ho visto non sereno è stato quando ha saputo dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. La cosa lo colpì molto e lo raccontava in modo teso. Ma a parte la telefonata la sera prima della sua morte, non avevamo molti motivi per credere che fosse preoccupato. Certo, sapevamo quanto fosse rischioso il lavoro per il maxi processo, ma non pensavamo che il pericolo fosse così imminente».

Lei, da bambina, percepiva i rischi che suo padre correva?

«Sapevo perfettamente che papà era in pericolo. Ma lui mi raccontava le cose come Benigni le raccontava a quello che interpretava suo figlio nel film “La vita è bella”. È così che ho saputo cosa fosse la mafia. Quando ero piccola papà mi trasportava in una valigia rossa, per paura che mi potesse succedere qualcosa. Qualche anno prima venne uccisa la figlia del giudice Alfonso Lamberti e quella notizia lo colpì molto: i killer spararono consapevoli che ci fosse la bimba in auto, ma incuranti della cosa. Così quando ero nella valigia sapevo che, nel mio piccolo, contribuivo ad aiutare papà a tenere al sicuro la famiglia dai delinquenti. E sapevo che quel rinunciare al gelato insieme o ad un bagno al mare era funzionale a trascorrere più tempo con lui. È stato molto bravo in questo racconto e a veicolarlo come se fosse un modo tutto nostro per tenere insieme e salvaguardare la nostra famiglia. Era molto protettivo».

Cosa sapeva una bambina di sette anni della mafia?

«Sapevo che c’erano delle persone cattive, senza dignità, senza onore, che facevano del male ai bambini, alle persone pulite, indistintamente. Forse le mafie erano per me quello che per un bambino normale è l’uomo nero. Ma papà mi diceva che c’era un modo per sconfiggere questo mostro: mi raccontava l’impegno dei suoi colleghi, mi diceva che molte persone lavoravano per questo e che c’erano i buoni, non solo i cattivi. Me ne parlava in maniera serena, come farò con mia figlia. Non nascondendo nulla della crudeltà della mafia, ma comunque veicolandola in un racconto. Avevo a fianco una persona che conosceva molto bene la sofferenza: era stato oggetto di minacce, aveva visto morire tanta gente, ma riusciva a raccontarla senza farsi prendere dal panico».

La mafia è ormai diventata oggetto privilegiato della narrazione del sud. Quale pensa sia il modo giusto per parlarne?

«Proprio quello utilizzato da mio padre con me. E credo che sia utile e necessario parlarne. Con la fondazione intitolata a papà ho promosso diversi progetti nelle scuole, dalle università alle scuole elementari. Questo perché non credo ci sia un’età giusta per iniziare a pensare cosa siano le mafie. Crescendo le vediamo anche nelle piccole cose, nel bullo a scuola, che può rappresentare quello che è il modo di fare del mafioso. Ma se tu, fin da piccolo, impari a fare squadra e a crescere coi valori della solidarietà, oggettivamente riesci a porre un limite alla mentalità mafiosa e a sapere come fare per sconfiggerla. Il grosso della mafia è violenza, ma c’è anche il comportamento, il modo di pensare, il mettere davanti la furbizia rispetto alla competenza, veicolando l’immagine del più forte e del più violento. Bisogna iniziare sin dai bambini a spiegare che c’è un modo per sconfiggere tutto questo, con l’esempio e opponendosi a questo mondo deviato».

Bastano le parole?

«La valorizzazione del territorio è un altro modo per opporsi alle mafie. Bisogna far rimanere in Calabria le sue energie positive, con il ritorno al territorio delle persone oneste, che devono pretendere le cose giuste. Non dalla mafia, ma dai politici per bene. Bisogna far capire che il territorio è impegnato e far valere le persone oneste, senza raccomandazioni. La nostra terra è in grado di reagire e ha la consapevolezza di se stessa. Ma siamo abituati ad una narrazione deviata della Calabria, tanto che spesso siamo noi stessi ad accollarcela e a farla nostra con i comportamenti. La prima cosa successa dopo essere state eletta, esclusi i complimenti di rito, è stato chiedermi una marea di raccomandazioni. Io mi impegno per il territorio, ma non posso farlo per il singolo, perché sarebbe sbagliato. La comunità deve riuscire a fare squadra per pretendere dalle istituzioni ciò che è giusto. Poi, ovviamente, deve esserci una classe politica attenta, una classe dirigente che deve avere coraggio e mettere da parte le mele marce, senza basarsi solo sui titoli di giornale, ma facendo distinzione tra chi ha sbagliato e chi no, senza fare di tutta l’erba un fascio. Lo stesso vale per le realtà che si occupano di antimafia: tante lo fanno in maniera sana e non si può sprecare tutto il lavoro fatto per colpa di qualcuno che ha sbagliato. L’antimafia deve essere una cosa seria».

Quali sono i passi avanti fatti rispetto a quel periodo?

«C’è grande consapevolezza, cosa che nel 1991 non c’era. Mafia e ‘ ndrangheta, all’epoca, erano parole sussurrate, tradotte soltanto in occhiate e varie smorfie del viso. Nel corso degli anni, grazie anche, purtroppo, al sangue versato dalle numerose vittime della criminalità organizzata, il territorio si è dimostrato più pronto a fare autocritica e a schierarsi dalla parte delle persone oneste. C’è un ragionamento importante, fatto anche dagli inquirenti: i risultati raggiunti, specie in Calabria, sono importantissimi. Da quando la parola ‘ ndrangheta è entrata prepotentemente nel vocabolario quotidiano c’è stata un’accelerazione diversa. Il paese ha visto il problema come prioritario e per fortuna molti calabresi, specie dopo il clamore mediatico dell’omicidio del vicepresidente della Regione, Francesco Fortugno, nel 2005, hanno avuto il coraggio di dire no alla ‘ndrangheta e ad opporsi».

E quali sono ancora oggi gli aspetti in cui non si riesce a cambiare?

«Sono ottimista, ma voglio ricordare la storia di Tiberio Bentivoglio, che da reggina conosco bene. Abbiamo un’icona della reazione alla violenza delle mafie. Ha un negozio in centro, in un bene confiscato, con la macchina dell’esercito sempre davanti all’ingresso, costretto ad andare in giro con la scorta, avendo subito attentati non solo contro il suo negozio ma anche personalmente. Quando lo invito a raccontare la sua storia fuori dalla Calabria ha un risalto immenso e a Reggio Calabria e dintorni viene visto come un baluardo della legalità. Ma quello che denuncia spesso è che il suo negozio – una sanitaria – fatica a decollare. Allora noi dobbiamo metterci d’accordo: o lo aiutiamo, non solo come istituzione ma come comunità, quindi facendo acquisti nel suo negozio senza aver paura di farci vedere, o lasciamo stare le strette di mano. Se dovesse fallire quel negozio allora avremo fallito tutti. Se c’è un dato negativo che percepisco è proprio questo: al pensiero bisogna far seguire necessariamente delle azioni. Sono contenta quando lo applaudono, ma lo sarei molto di più se andassero a spendere anche solo cinque euro nel suo negozio. Sarebbe un segnale, per lui e per le persone come lui, a sentirsi meno sole. È questo quello che dobbiamo imparare a fare: agire».

Il pentito della super loggia massonica segreta: "C'erano anche capi di Stato ed esponenti di governo", scrive Ignazio Dessì il 26 settembre 2017 su "Tiscali". Che rapporto esiste tra le mafie e la Massoneria? Ha tentato di chiarirlo la Commissione Parlamentare Antimafia presieduta dall'onorevole Rosy Bindi che, dopo aver impattato contro il diniego delle organizzazioni massoniche italiane a consegnarli, ha deliberato il sequestro degli elenchi degli iscritti. Così a inizio marzo scorso gli uomini dello S.C.I.C.O., il Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata, hanno sequestrato le liste degli affiliati alle quattro principali associazioni massoniche italiane: il Grande Oriente d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia, la Serenissima Gran Loggia d’Italia e la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori. La reazione delle obbedienze massoniche non si è fatta attendere. Il Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, ha dichiarato: “Noi cerchiamo di utilizzare tutti gli strumenti che la legge consente per respingere l’atto (secondo noi illegale) che la commissione parlamentare antimafia ha fatto. La nostra non è lotta contro lo Stato”. Ma Rosy Bindi ha risposto spiegando che “la mancanza di collaborazione con le Istituzioni parlamentari, arrivata al diniego di consegnare i nominativi alla Commissione, ha portato al sequestro perché è stata lanciata una sorta di sfida. Ha fatto nascere alcuni dubbi sull’organizzazione massonica, assolutamente legittima nella sua esistenza, che non può tuttavia presentarsi come un ordinamento separato rispetto allo Stato rifiutando la collaborazione per proteggere i propri iscritti e il buon nome dell’organizzazione. Eppure non stiamo facendo una inchiesta sulla Massoneria, stiamo facendo una inchiesta sui mafiosi massoni”.

Il Gran Maestro del Goi Stefano Bisi e Rosy Bindi. Si tratta insomma di gettare un fascio di luce sulla nuova organizzazione delle mafie. Per la commissione presieduta dalla Bindi la questione è fondamentale. E’ importante cercare di far chiarezza su una realtà che vede “insieme pezzi delle mafie con pezzi delle massonerie, dello Stato e delle classi dirigenti del nostro Paese”, precisa la presidente della commissione.

"Indizi concreti". La esigenza di chiarezza del resto non è ingiustificata, si basa su indizi concreti. “Le conclusioni cui siamo giunti non sono definitive – spiega la Bindi nella puntata di PreasaDiretta intitolata I Mammasantissima mandata in onda lunedì su Rai3 - ma i primi risultati del nostro lavoro dimostrano che fra i nominativi degli iscritti di alcune logge della Calabria e della Sicilia vi sono alcuni condannati in via definitiva per 416 bis, quindi per associazione mafiosa, e un numero considerevole di situazioni giudiziarie in itinere di imputati rinviati a giudizio sia per reati di mafia, sia per quelli che comunemente chiamiamo reati spia, ovvero comportamenti mafiosi o comunque di collusione con la mafia”. Sono stati scoperti effettivamente dei mafiosi all’interno di logge regolari? Alla domanda della giornalista di PresaDiretta la presidente dell’Antimafia risponde di sì. Ma i Gran Maestri hanno detto seccamente no alla consegna degli elenchi. Anche se la Bindi precisa che “nessun nome è circolato e circolerà proprio perché non vogliamo rivelare un dato riservato che è quello dell’iscrizione alla massoneria”. La situazione sembra ormai a tinte fosche. “I dati quantitativi che stanno emergendo – afferma la Bindi - sono obbiettivamente ed effettivamente preoccupanti, si dimostra che alcune teorie sulle nuove organizzazioni della mafia, per cui questa starebbe assumendo nuove connotazioni che passano anche attraverso le organizzazioni massoniche sono in qualche modo convalidate”.

"Quali i nuovi varchi delle mafie". E' allora fondamentale comprendere bene e fino in fondo “quali sono i nuovi varchi delle mafie oggi”, quelle che “sparano meno ma corrompono di più, condizionano l’economia legale, la politica, la Pubblica Amministrazione e riescono a piegare ai loro voleri e interessi le classi dirigenti del Paese”. Per l’onorevole Bindi è indubitabile, “dopo i primi risultati, poter dire che anche le associazioni massoniche rischiano di essere un varco o addirittura una nuova forma di organizzazione attraverso cui le mafie creano relazioni con il potere”.

L'aderente alla massoneria pentito e la super loggia segreta. Particolarmente istruttiva l’intervista fatta da Raffaella Pusceddu di PresaDiretta ad un aderente pentito della massoneria, Cosimo Virgilio, imprenditore calabrese legato alla ‘ndrangheta e massone d’alto livello. Virgilio inizia col ricordare il suo ingresso in Massoneria, nel Goi (Grande Oriente d’Italia), negli anni ’90, a Messina. Poi il trampolino di lancio per arrivare a Roma: “L’ordine dei Templari, dove si ambiva ad essere riconosciuti dalla Santa Sede, dal Vaticano”, racconta. La loggia dove approdò dopo però non era una loggia delle obbedienze ufficiali. “Era una massoneria diversa”. In sostanza, sintetizza Virgilio, si trattava “dell’accorpamento del vero potere. C’erano Capi di Stato, esponenti del governo, alcuni dei quali ancora in carica”. Descrive anche il suo rito di iniziazione alla loggia segreta. “Un rito molto crudo – afferma – teso a significare la morte della vita terrena, in cui si doveva stare per ore a fianco di quella che rappresentava la morte del profano, ovvero lo scheletro”. Una Super Loggia in definitiva, “al di sopra di leggi e governi che decideva le sorti del Paese e non solo”. Il fine ultimo era sempre il solito: “Il denaro e il potere”. Per questo si arrivava alla “costituzione di banche per raccattare i capitali”. E altro. “Per fare un esempio, all’epoca era in ballo la fornitura in Turchia di elicotteri Agusta, mi sembra, e si andava a decidere lì” il da farsi.

"Anche esponenti della criminalità organizzata". E nella Super Loggia segreta c’erano “anche – a detta del massone e imprenditore – esponenti della criminalità organizzata. Ad esempio, per la ‘ndrangheta si gestivano proventi illeciti, si faceva riciclaggio insomma. Una nostra missione era inoltre quella di accorpare sempre più avvocati, perché gli avvocati avevano i rapporti con i magistrati, e se un ‘ndranghetista ha bisogno di aggiustare un processo non può andare a parlare direttamente con un magistrato”. Ma si tratta di una “’Ndrangheta al servizio della massoneria o di una massoneria al servizio della ‘ndrangheta? “Io lo definisco un sistema di mutuo scambio”, risponde Virgilio nell’intervista. Il punto di vista di uno che sa quello di cui parla. Virgilio infatti, oltre a far parte della loggia massonica segreta faceva parte anche di una loggia ufficiale. Era maestro venerabile della Loggia dei garibaldini, spiega il servizio. E a questo proposito la domanda dell’intervistatrice è puntuale: si trattava di una copertura o esiste un rapporto tra le logge segrete e quelle ufficiali? La risposta dell’imprenditore calabrese fa davvero riflettere: “C’è un riconoscimento universale, ogni massone non può rifiutare il riconoscimento di un altro massone. E’ inutile distinguere tra massoneria riconosciuta e non, con questa super loggia i maestri venerabili avevano grossi interscambi culturali. Diciamo così, culturali”. La giornalista di LineaDiretta a questo punto approfondisce non senza un moto di sorpresa: “Quindi lei mi dice – incalza - che esistevano rapporti tra obbedienze della massoneria ufficiale e quella dove c’era la ‘ndrangheta?”. La risposta: “Si, siamo fratelli comunque”.

I lavori della Commissione. Diventa allora ancor più comprensibile lo sforzo portato avanti dalla Commissione Antimafia per acclarare quali siano i rapporti reali tra mafie e massoneria. Davanti alla presidente Rosy Bindi hanno sfilato i nomi più importanti delle obbedienze italiane. Si sono domandati chiarimenti tesi a verificare possibili rapporti con ndrangheta e mafia. Si è chiesto se i Gran Maestri fossero a conoscenza di talune inchieste e rapporti. Si sono infine richiesti i nomi degli iscritti.  Ma tutti i responsabili si sono barricati dietro il diritto alla privacy. Il 17 gennaio il Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi, ha chiarito che “la consegna degli elenchi dei circa 23mila fratelli non può avvenire, perché si compirebbe noi stessi un reato”. La Bindi gli ha detto a quel punto: “Vi siete chiesti perché in Sicilia e Calabria vi è una sproporzionalità tra abitanti di quelle regioni e iscritti alla massoneria rispetto alle altre regioni italiane?”. E Bisi ha risposto: “Sì, conosco i fratelli di quei territori e non sono peggiori di altri, sono come altri. Noi finché non c’è un documento penale non possiamo agire come organi di polizia giudiziaria”.

Trasparenza e rifiuto degli elenchi. Inevitabile per la giornalista autrice del servizio porre una domanda al Gran Maestro del Goi intercettato durante una riunione della sua organizzazione. “Come si concilia con la sua annunciata politica della trasparenza il fatto di non voler fornire i nomi dei vostri elenchi alla commissione parlamentare?”. E’ semplice, ad avviso del Gran Maestro: “Nessun’altra organizzazione umana di persone fornisce l’elenco dei propri iscritti, nessuna”. In soldoni, tutte le grandi obbedienze rifiutano di consegnare l’elenco degli iscritti. E la difesa si è fatta strenua. Schiere di avvocati sono state mobilitate perché – ha detto Bisi ai suoi – “Non si può continuare con le pesche a strascico. Ci opporremo con tutte le forze a chi sta trasformando in una caccia alle streghe una caccia all’uomo”. Inevitabile per la Commissione Antimafia e per Rosy Bindi deliberare per il sequestro degli elenchi attraverso la Guardia di Finanza.

Calabria: Platì è mafiosa? Già, ma ha eletto Rosy Bindi, scrive Ilario Ammendolia su Il Dubbio, il 7 giugno 2016. In questi giorni di vigilia elettorale, Platì, paese di tremila abitanti della Locride, in Calabria, è andato sulla prima pagina di tutti i più importanti quotidiani nazionali. Domenica s'è votato ed i candidati a sindaco sono due normalissime persone del luogo: Ilaria Mittica, funzionaria regionale e Rosario Sergi assicuratore. Elezioni normali come in tutti i paesi d'Italia ed, a tratti, quasi noiose. Ma per gli inviati speciali che per tutta la giornata si sono aggirati ai seggi con penna e taccuino, quella di ieri non è stata una normale manifestazione di libertà e di democrazia. A Platì, dietro ogni cosa, c'è sempre la ndrangheta anche se non è spuntata la lupara né il coltello. Anche se uomini e donne sono andati gioiosamente ai seggi e senza pistola alla tempia. Inutile. Qui si è colpevoli a prescindere. L'inviato di un importante quotidiano nazionale dinanzi alla gente che va al voto scrive che a "Platì siamo al Medioevo. Questa è una terra che è Italia solo sulla carta geografica". (La Repubblica)

Ed è vero. Questa è una Terra che non è Italia gli ospedali somigliano tremendamente ai lazzeretti. Non è Italia perché ha il tasso di disoccupazione più alto di Europa. Perché la garanzie costituzionali sono state sospese da tempo. Perché uno Stato intriso di mentalità mafiosa si arroga di sciogliere i consigli comunali democraticamente eletti. Non è Italia perché le classi dirigenti hanno seminato per decenni la malapianta della ndrangheta trasformando un popolo di lavoratori in popolo di emarginati. Non è Italia perché i parlamentari e la classi dirigenti regionali ha scambiato per mezzo secolo i voti della ndrangheta con favori accordati ai mafiosi. Infatti, la ndrangheta per decenni è stata uno di strumento di governo cresciuta persino (o soprattutto) nelle caserme e nei tribunali. Non è Italia perché le disuguaglianze sono più evidente che altrove. Non è Italia perché qui è stata eletta Rosy Bindi che, chiusa in una caserma di Locri, e debitamente a distanza dai "lebbrosi" che l'hanno eletta, pontifica come una vestale del tempio sulla mafiosità dei calabresi. Non è Italia perché il presidente del consiglio dei ministri indica il candidato a sindaco di Platì dal palco della Leopolda. Perché l'on. Fava si è permesso di affermare che i candidati di Platì pur essendo in regola con i criteri dell'antimafia sono comunque sospetti, ci mancherebbe altro! Non è Italia perché l'indegno spettacolo che in occasione del 2 giugno del 2015 il PD ha messo in scena a Platì, ha dimostrato la consistenza e la serietà dei partiti calabresi. Sostanzialmente uguali! Non è Italia perché il procuratore della Repubblica di Reggio, ha dichiarato che sarebbe utile affiancare al nuovo sindaco di Platì un funzionario per controllare ogni atto della futura amministrazione. Un super controllo a Platì mentre le classi dirigenti fanno sparire nel nulla i miliardi che sarebbero destinati alla sanità o all'ambiente. Si vuole una Calabria ridotta tout-court alla sola dimensione criminale (che esiste) perché ciò fa molto comodo alla "catena di comando". I mafiosi ci sono e vanno fieri dell'attenzione che ricevono dai giornali, dai "partiti", dalle istituzioni. In questa nottata in cui tutti i gatti sono neri, loro ci sguazzano come pesci nel mare. In tutta la Calabria il voto è stato espressione di un disagio estremo. Ovunque si notano segnali di una rivolta strisciante contro lo Stato e che solo Dio sa come potrebbe andare a finire. A Cosenza più che per il "buongoverno" del sindaco uscente si è votato contro gli oligarchi del potere. A Napoli De Magistris, che in Calabria, si è mosso come rigoroso custode dell'ordine costituito, è diventato il Masaniello che agita il "Sud ribelle" contro il Gran Ducato di Toscana. Napoli e Platì sono distanti solo in apparenza. Per usare il linguaggio di Sciascia è la linea della Palma che avanza. Chi vuole ridurre la questione meridionale che oggi si allarga sino a diventare una "questione Mediterranea" a mera questione criminale o di ordine pubblico si assume sulle spalle e per intero le responsabilità storiche di quanto potrebbe accadere. Nel Mezzogiorno, probabilmente la rabbia, lungamente repressa, non troverà sbocco nel movimento "5 Stelle" ma potrebbe sbucare come un fiume carsico nei luoghi più impensati con conseguenze che nessuno in questo momento è in grado di prevedere.

Bindi a capo dell'Antimafia: sfruttò i sindaci anti boss per farsi eleggere alla Camera. Il Pd la candidò in Calabria: ma una volta presi i voti, non s'è più fatta vedere, scrive Felice Manti, Giovedì 24/10/2013, su "Il Giornale". A Siderno la stanno ancora aspettando. Eppure a Rosy Bindi la Locride dovrebbe esserle cara, visto che quei voti raccolti alle primarie Pd in Calabria sono stati decisivi per la sua elezione come capolista. Da febbraio invece l'ex presidente Pd i calabresi la vedono solo in tv. D'altronde la Bindi non ha fatto un solo incontro sulla 'ndrangheta durante la campagna elettorale, ammettendo «di non sapere niente di mafia». «Doveva venire anche il 2 agosto, ero lì ad attenderla», dice al Giornale Maria Carmela Lanzetta, ex sindaco antimafia di Monasterace. Per la cronaca, allora Rosy preferì un talk show su La7. La Lanzetta è amareggiata, ma non lo ammette per orgoglio. Aveva resistito alla tentazione di dimettersi dal Comune stritolato dalla mafia, quando i boss le hanno bruciato persino la farmacia di famiglia. Poi era arrivato Pier Luigi Bersani, l'aveva eletta icona della sua campagna elettorale, e tutto lo stato maggiore del Pd in Calabria si era convinto che alla fine sarebbe stata lei la capolista del Pd nel feudo bersaniano. E invece il commissario bersaniano Alfredo D'Attorre - ça va sans dire - anziché rilanciare il partito si è fatto eleggere e ha dato l'ok al paracadute pure per Rosy, tra lo sconcerto dei sindaci antimafia: «Avevamo scritto a Bersani - dice ancora la Lanzetta - per chiedere una candidatura simbolica, del territorio, per un segnale di cambiamento». Poteva essere la Lanzetta oppure Elisabetta Tripodi, sindaco di Isola Capo Rizzuto (feudo degli Arena, quelli che elessero l'ex senatore Pdl Nicola Di Girolamo in Germania) o Carolina Girasole (bersaniana poi arruolata con Monti). Alla fine la Lanzetta ha perso tutto: niente scranno e niente fascia tricolore. Si è dimessa dopo il «no» del suo votatissimo assessore democrat alla richiesta del Comune di costituirsi parte civile in un processo nato da un'inchiesta antimafia che coinvolgeva due funzionari. Clelia Raspa, medico alla Asl di Locri dove lavorava il vicepresidente Pd del Consiglio regionale Franco Fortugno, ucciso in un seggio delle primarie nell'ottobre del 2005, forse non voleva mettersi contro il capoclan della cittadina della Locride, Benito Vincenzo Antonio Ruga. «Ma alla fine ce l'ho fatta a costituire il Comune parte civile per difendere l'integrità dell'istituzione», sorride amara la Lanzetta. In fondo il povero Bersani non aveva scampo. La Bindi era a un passo dalla rottamazione, travolta dal ciclone Matteo Renzi. Solo delle primarie «blindate» avrebbero potuto salvarla, come successo con Anna Finocchiaro, siciliana ma eletta a Taranto. Esclusa la «renziana» Toscana, quale posto migliore della Calabria? Anche nel 2008 il Pd di Walter Veltroni aveva piazzato Daniela Mazzucconi dalla Brianza, guarda caso protegée della stessa Bindi. A stenderle il velo rosso al debutto di Rosy c'era tutto lo stato maggiore del Pd. Il cronista di Report Antonino Monteleone venne cacciato in malo modo da un congresso al quale partecipavano tutti i colonnelli locali, come la vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà o il potentissimo signore delle tessere Gigi Meduri, sponsor dell'ex consigliere regionale Mimmo Crea, beffato da Fortugno che gli scippò il seggio e beneficiario «politico» della sua morte. Che c'entra Crea, oggi travolto da pesantissime accuse, con la Bindi? Quando entrò nella Margherita, come scrive Enrico Fierro nel suo Ammazzati l'onorevole, Crea «fu festeggiato a Torino in una cena. Meduri, intercettato al telefono, si lasciò scappare: «Sedici erano a tavola, sedici deputati. C'era Franceschini, la Bindi. Quando è arrivato il conto ho detto a D'Antoni provvedi a nome del compare Crea. Una scena che mi si mori... (una scena che a momenti morivo dalle risate, ndr)». Sai che risate con la Bindi all'Antimafia.

Bindi vuole il diritto di sputtanare i massoni, scrive Simona Musco il 23 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La presidente dell’Antimafia vuole vietare il diritto alla segretezza degli iscritti alle associazioni. Bisi: “Vogliono reintrodurre le leggi fasciste”. In 26 anni sono state 193 le persone indagate per fatti di mafia, in circa 350 procedimenti penali, tra gli iscritti alle logge massoniche di Calabria e Sicilia. Ma tra questi, solo sei sono quelli condannati in via definitiva, mentre per altri 25 i procedimenti penali sono ancora in corso. Sono questi i numeri emersi dalla relazione conclusiva su “Mafia e massoneria”, illustrata ieri a palazzo San Macuto dalla commissione parlamentare antimafia. Numeri che, stando alle conclusioni del presidente Rosy Bindi, destano allarme e necessitano un intervento legislativo che vieti categoricamente la segretezza delle associazioni, elemento comune alle due associazioni e dunque terreno fertile per l’infiltrazione. L’analisi si è limitata a Calabria e Sicilia e ha interessato quattro fratellanze, per un totale di poco superiore ai 17mila iscritti. Su sei persone condannate, solo due (un pensionato e un commercialista) sarebbero tuttora iscritti e attivi. «Non è un’inchiesta sulla massoneria – ha precisato Bindi – ma sulla presenza della mafia nella massoneria». Un’inchiesta che parte dalle recenti indagini antimafia nelle due regioni e caratterizzata da «una mancanza di collaborazione dei gran maestri ostentata fin dall’inizio», denuncia la presidente. «Gli elenchi ufficiali – ha spiegato – presentano una certa opacità e impossibilità piena di individuare gli iscritti», circostanza che il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, ha smentito al termine della conferenza stampa. La mafia sarebbe interessata alla massoneria, si legge, «perché consente di incontrare la classe dirigente del paese», utile alla mafia per riciclare denaro sporco in attività legali. Di fronte a questa volontà, le logge si sarebbero dimostrate «arrendevoli» e avrebbero dimostrato «mancanza di volontà a dotarsi di strumenti» in grado di chiudere le porte alle mafie, «tollerando» la doppia militanza a mafia e massoneria, «spesso nota ad entrambe le organizzazioni» e «quasi ricercata». Le indagini giudiziarie, ammette però la relazione, non sono «mai giunte» ad un giudicato definitivo «circa una relazione stabile e continuativa» tra le due parti, ma il quadro complessivo rivelerebbe, in ogni caso, «una pericolosa e preoccupante contiguità», iniziata in Sicilia alla fine degli anni ‘70 e grazie alla quale sarebbe stato possibile «interferire in qualche modo sulle indagini giudiziarie». Più complessi, invece, i rapporti con la ‘ndrangheta, che ha dato vita ad una carica di livello superiore – la “Santa” – in grado «di creare un collegamento stabile tra l’associazione mafiosa e i vari centri di poteri presenti nella massoneria». Dura la replica di Bisi, che si è detto «preoccupato» dalla possibilità di reintrodurre «leggi fasciste», che in un passaggio della relazione vengono definite, al di là delle «volontà illiberali», come garanzia «di conoscenza e di trasparenza». Leggi che, ricorda Bisi, «hanno prodotto un regime repressivo violando ogni libertà».

Quei massoni mafiosi che sussurrano ai potenti. Sacerdoti, politici, magistrati, professionisti, imprenditori. E padrini delle cosche. La commissione parlamentare antimafia ha presentato la relazione sulle infiltrazioni dei clan nella massoneria. Tra Sicilia e Calabria 17 mila iscritti alle 4 obbedienze ufficiali distribuiti in 389 logge. 193 "fratelli" sono collegati a cosa nostra e 'ndrangheta, uno ogni due templi. I nomi restano top secret, scrivono Federico Marconi e Giovanni Tizian il 22 dicembre 2017 su "L'Espresso". Sacerdoti, magistrati, consiglieri comunali e regionali, assessori, sindaci, imprenditori, studenti, professionisti. E mafiosi, calabresi e siciliani. Al gran ballo della massoneria ci sono tutti, non manca proprio nessuno. Alle danze tra Sicilia e Calabria partecipano in 17 mila. In fondo, una loggia non si nega a nessuno. Insomma, tutti pazzi per il grembiule. Il dato inquietante è però un altro: in queste due regioni del Sud c'è un mafioso o un suo complice ogni due logge massoniche. Sono 193, infatti, i “fratelli” collegati ai clan. C'è chi è stato condannato, chi è stato prosciolto, chi ha festeggiato l'assoluzione e chi si sta ancora difendendo nelle aule dei tribunali. Gli iscritti totali alle quattro obbedienze, solo in Sicilia e Calabria, sono oltre 17mila. Una popolazione in grembiule numerosa come quella dell'isola di Capri. La commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha terminato l'indagine sull'intreccio tra massoneria e mafie. La relazione, approvata il 22 dicembre, è un viaggio nel lato oscuro della massoneria italiana. Un mondo di mezzo nel quale boss e insospettabili professionisti, padrini e rispettabili imprenditori, criminali e politici, si scambiano favori e appoggi. Dei 193 nomi sporchi la commissione precisa che «nove risultano condannati in via definitiva per reati vari, quali il traffico di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta, o destinatari, in via definitiva, di misure di prevenzione personali, come tali indicative di pericolosità sociale». Poi per altri quattro è in corso il processo di appello con l'accusa di associazione mafiosa o di reati aggravati dal metodo mafioso. Uno di questi in primo grado ha subito già una condanna a 12 anni. L'obbedienza con la maggiore presenza di iscritti dal profilo equivoco è il Goi, il Grande Oriente d'Italia. Il Gran Maestro è Stefano Bisi, il massone che più degli altri si è opposto al lavoro della commissione antimafia bollandolo come un atto fascista. Ora che l'indagine si è conclusa e la riservatezza è stata rispettata- nel documento non è presente alcun nome- si scopre che più di qualche boss ha frequentato i templi. Nella Gran Loggia regolare d'Italia i sospetti sono 58, nella Gran loggia d'Italia sono 9 e nella Serenissima solo 4. «Le risultanze illustrate nella relazione hanno fornito conferme in ordine alla rilevanza del fenomeno, a fronte di una sua negazione da parte dei gran maestri, indice o di un’inconsapevolezza o di una sua sottovalutazione, se non di un rifiuto ad ammettere la possibile permeabilità rispetto a infiltrazioni criminali», osserva l'Antimafia. La commissione, tuttavia, precisa che gli investigatori che hanno collaborato ai risconti sugli elenchi sequestrati nelle sede delle obbedienze hanno indicato solo «i soggetti iscritti per reati di mafia in senso stretto, restando pertanto non segnalati tutti i casi in cui il nominativo risulta essere stato, invece, indagato o condannato per altri reati, taluni certamente di non minore gravità». Come a dire: attenzione, i 193, che possono sembrare poca cosa, potrebbero aumentare sensibilmente se si sommassero a questi i massoni con precedenti per corruzione, abuso d'ufficio, reati economici e tributari. Tutti reati spia di una criminalità mafiosa che si insinua nei centri di potere locali: municipi, assessorati, aziende sanitarie, assemblee regionali e provinciali. «A tal proposito, si segnala che il 17,5 per cento degli iscritti presenti negli elenchi acquisiti dalla Commissione non sono identificabili o compiutamente identificabili». Questo significa che molti nella lista sono indicati con le iniziali, oppure con dati anagrafici errati. Il che ha reso impossibile risalire alla loro identità. «Nell’ambito dei 193 soggetti segnalati vi sono, come risulta dall’anagrafe tributaria, numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono quelle dei professionisti, come avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti pure in numero rilevanti i soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori nei più diversi settori, in primis quello edile. Così pure, non mancano coloro i quali hanno rivestito cariche pubbliche». Sono ben 9 gli amministratori, tra sindaci, assessori o consiglieri comunali. «Uno spaccato professionale denotante soggetti di un livello di istruzione medio-alto e, di tutta evidenza, in grado di stringere relazioni anche nel mondo della criminalità e in quello della società civile», si legge nella relazione.

Logge e politica. Un focus la commissione lo ha dedicato alla presenza della massomafia all'interno degli enti locali sciolti per mafia. Caso emblematico l'Asl di Locri, commissariata undici anni fa. «Fra i soggetti a vario titolo menzionati nella relazione della commissione di accesso e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria, figurano 306 nominativi. Di questi, 17 risultano censiti in logge massoniche. Tra essi, 12 soggetti figurano negli elenchi sequestrati dalla Commissione il 1° marzo 2017; 4 figurano solo negli elenchi (della massoneria ndr) sequestrati dalla Procura della Repubblica di Palmi nel 1993-94 (uno nel frattempo è deceduto); mentre un altro è presente in entrambi gli elenchi. Appare significativo che i 4 soggetti presenti negli elenchi del 1993-94 ma non in quelli del 2017, risultano essere stati raggiunti da provvedimenti cautelari personali o a carattere detentivo, uno dei quali per il reato di cui all’art 416-bis c.p». Ma chi sono questi mafiosi armati di compasso? «Uno è il figlio di un noto capo mafia; un altro, il nipote di un controverso personaggio ritenuto molto influente nell’ambiente mafioso; un altro ancora, figlio di un condannato in primo grado per mafia ma assolto in appello e, comunque, indicato come referente di una nota cosca calabrese, nonché in stretti rapporti con un capo indiscusso di una cosca del mandamento ionico della provincia reggina». Detto dei criminali o presunti tali, nella relazione si evidenzia un altro aspetto: «Deve ritenersi non occasionale, la significativa presenza di massoni in posti apicali dell’azienda sanitaria, nelle società presso la medesima accreditate e nelle pubbliche amministrazioni interessate dall’indagine penale. Di rilievo è il fatto che tali personaggi, di cui si è accertata l’appartenenza a logge massoniche regolari, hanno interagito con altri “fratelli” della stessa loggia o di altre per affari riconducibili a persone indagate e, in taluni casi, condannate per associazione mafiosa». Insomma, non è tanto la quantità di mafiosi presenti nelle logge, ne basta uno per usufruire dei vantaggi che il circolo di amicizie può garantire. Anche la Azienda sanitaria provincia di Cosenza è stata sciolta. Incrociando i risultati emersi nella relazione prefettizia con gli elenchi sequestrati, la commissione ha concluso che «su 220 nominativi individuati, presenti a vario titolo nella relazione conclusiva, 23 persone risulterebbero iscritte a logge massoniche».

A casa del padrino. Nel paese di Matteo Messina Denaro pullulano compassi e grembiuli. Undici logge di varie obbedienze per 31 mila abitanti. Una vera città della massoneria, Castelvetrano. Tanto da essere rappresentata degnamente in consiglio comunale, sempre e comunque. Nell'ultima consiliatura, 2007-2012, «8 consiglieri su 30 appartenevano, o avevano chiesto di entrare in logge massoniche. Tra i componenti del consiglio comunale eletto nel 2012, vi sono 11 iscritti ad associazioni massoniche (anche diverse da quelle in esame), uno dei quali è stato anche assessore e componente della giunta comunale, quest’ultima poi revocata il 28.01.2015. Nella nuova giunta nominata l’11.02.2015, il numero di assessori massoni aumenta considerevolmente, diventando cinque su dodici membri complessivi della giunta, cioè poco meno della maggioranza. In sintesi, considerando le ultime due consiliature del comune di Castelvetrano hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro obbedienze. A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri 4 - per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici. Negli elenchi massonici di una obbedienza (GLRI), vi sono infatti omonimi di altri quattro consiglieri comunali di Castelvetrano tra i soggetti che risultano privi del luogo e della data di nascita in quanto depennati. Il tutto distribuito in 11 logge quasi tutte presenti nella città di Castelvetrano e dintorni».

Capi e massoni. Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra.” Lo stesso concetto è stato ribadito alla Commissione, con riferimento ai primi anni del 2000, da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Campanella. Anche lui politico, massone e mafioso. Scrive la commissione: «Nelle più recenti indagini giudiziarie, calabresi e siciliane, ricorre la medesima affermazione che appare ancor più vera alla luce del mutamento delle mafie, ormai propense, come è noto, al metodo collusivo/corruttivo seppur collegato alla propria capacità di intimidazione...Anzi, proprio in questo peculiare momento in cui la mafia tende più ad “accordarsi che a sparare”, deve altresì considerarsi il dato oggettivo del continuo aumento del numero degli iscritti alla massoneria». Del resto le inchiesta recenti dell'antimafia di Reggio Calabria puntano a svelare proprio quel sistema criminale fatto di padrini e insospettabili uomini di potere, che spesso si ritrovano in circoli massonici, non per forza ufficiali.

Un favore al “fratello” boss. Nella loggia “Rocco Verduci” di Gerace, a Locri, si sono verificati fatti inquietanti. «Un magistrato onorario, appartenente alla predetta loggia, aveva chiaramente denunciato, ma soltanto in ambito massonico, una prima vicenda, risalente al dicembre 2010, riguardante le pressioni da egli subite ad opera di due suoi confratelli affinché si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del Tribunale di Locri al fine di ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a un procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato. Vale la pena aggiungere che il massone che sollecitava l’intervento del magistrato onorario in favore dei propri figli indagati, era un medico della ASL di Locri, poi sciolta per mafia, nonché figlio di un noto boss ‘ndranghetista, mentre il massone che lo accompagnava, per sostenerne la richiesta, era un soggetto che, all’epoca di fatti, svolgeva un ruolo direttivo nell’ambito della “Rocco Verduci”». Allo stesso magistrato onorario viene chiesto successivamente un secondo favore: «Intorno al mese di aprile 2012, fu ulteriormente sollecitato, da un altro dei suoi fratelli di loggia, affinché intervenisse ancora, riservatamente, presso i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria al fine di perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, in quel momento, nell’ambito di una indagine antimafia, naturalmente coperta dal più rigoroso segreto, si stava vagliando la sua posizione». In questo caso la vicenda assume contorni molto più oscuri. Sia perché è evidente la fuga di notizie che giungono all'orecchio di massoni borderline, sia perché si trattava di indagine in corso. «Vale la pena aggiungere, anche in questo caso, che il massone che si stava prodigando, presso il magistrato onorario, in favore del politico, già si era prestato, nei confronti di quest’ultimo per far ammettere nella loggia un nuovo bussante, figlio incensurato di un soggetto tratto in arresto per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Saggezza” dell'antimafia di Reggio Calabria».

Tonaca e grembiule. Nello sterminato elenco di personalità, non potevano mancare i sacerdoti delle logge. La chiesa lo vieterebbe, ma questo non ha evidentemente fermato le aspirazioni dei religiosi. «Non è questa la sede per affrontare la questione plurisecolare del rapporto tra Chiesa cattolica e massoneria, tuttavia appare utile ricordare che, in base alla Declaratio de associationibus massonicis emanata dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede il 26 novembre 1983 - presieduta dal Prefetto cardinale Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI - vi è inconciliabilità tra l’adesione alla Chiesa cattolica e alla massoneria», scrive la Commissione. Di recente, tra l'altro, papa Francesco ha respinto le credenziali di un ambasciatore straniero presso la Santa Sede perché iscritto alla massoneria.

Logge segrete e sconosciute. L'indagine della Commissione è stata effettuata sulle obbedienze conosciute, quelle più note e ufficiali. Tuttavia nel variegato mondo massonico esistono numerosi gruppuscoli più o meno noti, più o meno legali. Il tempo per analizzare anche quel mondo non sarebbe stato sufficiente. Per questo la commissione invita i prossimi membri della futura legislatura a proseguire nell'opera di inchiesta: «È stato evidenziato dallo stesso mondo massonico come in Italia, e in particolar modo nelle regioni del centro-sud, sia presente un florilegio di numerose piccole obbedienze, con dichiarate finalità lecite, considerate alla stregua di massonerie irregolari o di logge spurie. Così come è stato segnalato che esistono canali di dialogo tra queste entità associative e la massoneria regolare». E quindi: «L’insieme di queste dichiarazioni, dunque, proprio perché provenienti dall’interno del circuito massonico, e peraltro da chi lo rappresenta, acquistano particolare valenza in quanto pongono le premesse, unitamente ad altri elementi raccolti da questa Commissione, sulla necessità che il lavoro d’inchiesta avviato in questa Legislatura debba proseguire. Non potrà, infatti, essere trascurato l’approfondimento del mondo magmatico delle massonerie irregolari, del loro potenziale relazionale, dell’atteggiarsi delle mafie nei loro confronti». Interessante a questo proposito i particolari forniti dal gran maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia: «Una cosa che accade spesso è che gli iscritti alla massoneria, alla libera muratoria, sono contemporaneamente iscritti anche ad altre forme associative. Parlo del Rotary, dei Lions, dei Kiwanis. In queste associazioni i massoni di varie obbedienze – ed è l'unico posto dove avviene – si incontrano. Quindi, sarebbe ancora più interessante, secondo me, analizzare queste realtà, perché sono le uniche realtà all'interno delle quali la massoneria irregolare e regolare va a incontrarsi. Spesso, quindi, i presentatori incontrano i presentati all'interno del Rotary o del Kiwanis. Molti iscritti alla massoneria ne sono presidenti».

Gli elenchi? No, grazie. La Commissione pensava di trovare una sponda nei vertici delle obbedienze massoniche. Così non è stato. Nelle audizioni dei vertici delle organizzazioni negavano la presenza di infiltrazioni mafiose e sottolineavano l’esistenza di regole e prassi massoniche – come la richiesta dei carichi pendenti e del certificato antimafia ai nuovi membri – in grado di fronteggiare il possibile ingresso di “personalità problematiche”. Si aggiunge poi il rifiuto, in nome della segretezza, di fornire alla Commissione gli elenchi degli appartenenti alle logge, che una volta consegnati sono risultati parziali e incompleti. Le obbedienze hanno sottovalutato, minimizzato e a volte persino negato la presenza di massoni “problematici” all’interno delle logge. Basti pensare che l’infiltrazione mafiosa non è mai esplicitata nei documenti formali con cui ne viene decretata la chiusura delle logge infiltrate. Piuttosto vengono utilizzati l’espediente della “morosità degli iscritti” o questioni di mero rito massonico.

Massoneria, la Commissione antimafia: "Rilevate infiltrazioni delle cosche nelle logge". La relazione dopo le audizioni e i contestati sequestri delle liste di affiliati: quasi 200 'fratelli' sono stati coinvolti in inchieste sulla criminalità organizzata. E non tutti i condannati sono stati espulsi, scrive Alessia Candito il 22 dicembre 2017 su "La Repubblica". Quasi 200 "fratelli" toccati o lambiti da indagini di mafia. Sei condannati per associazione mafiosa, di cui due ancora attivi. Più di 130 logge calabresi e siciliane abbattute dal 1990 dalle quattro principali obbedienze massoniche in Italia, il Goi, la Gran Loggia degli Alam, la Gran Loggia regolare d'Italia, la Serenissima Gran Loggia d'Italia-Ordine generale degli Alam. Sebbene l'analisi del fenomeno sia stata solo parziale e nessun nome venga esplicitamente fatto, è un quadro inquietante quello ricomposto dalla Commissione parlamentare antimafia nella relazione appena approvata su "Mafia e massoneria". "L'esistenza di forme di infiltrazione delle organizzazioni criminali mafiose nelle associazioni a carattere massonico - si legge - è suggerita da una pluralità di risultanze dell'attività istruttoria della Commissione, derivante dalle audizioni svolte, dalle missioni effettuate e dalle acquisizioni documentali". I rapporti fra mafie e massonerie ci sono. E la Commissione ne ha la prova concreta. Dalle audizioni dei magistrati calabresi e siciliani sono emersi dati allarmanti. Gli inquirenti  trapanesi e palermitani hanno infatti evidenziato "un filo conduttore che ipotizza come le logge coperte si annidino ancora all'ombra delle logge ufficiali; come gli uomini, pur risultati iscritti alle logge coperte, abbiano continuato a far carriera sia nel mondo politico, sia nel mondo degli affari, non essendoci mai stata un'efficace reazione delle Istituzioni per isolarli anche dopo che i loro nomi e la loro appartenenza fosse divenuta palese; come vi sia riscontro che già appartenenti a logge segrete e irregolari siano poi trasmigrati in altre logge; di come sia possibile passare da una loggia regolare a una coperta e viceversa". Una situazione delicata soprattutto nel trapanese, "regno" di Matteo Messina Denaro. Nell'area, in cui si concentra un numero di iscritti, soprattutto provenienti dalla borghesia cittadina, assolutamente sproporzionato rispetto ad altre zone d'Italia - hanno riferito in commissione i magistrati -  c'è il rischio che le logge si trasformino in comitati d'affari. Ancor più compromessa, se possibile, sembra la situazione in Calabria, dove - hanno riferito i magistrati - la massoneria, tramite la Santa (la direzione strategica dell'organizzazione, ndc) "si è piegata alle esigenze della 'ndrangheta, così creando all'interno di quel mondo in cui convivevano mafiosi e società borghese professionale, all'ombra delle logge, un ulteriore livello ancor più riservato formato da quei soggetti che restano occulti alla stessa massoneria. Si tratta di coloro che, dovendo schermare l'organizzazione ed essendo noti soltanto a determinati appartenenti ai vertici più elevati, non si possono esporre a nessuna forma evidente, quali possono essere le organizzazioni massoniche". Indicazioni importanti, sebbene necessariamente generiche a causa di indagini e accertamenti in corso. Ma la commissione non si è fermata qui. Il lavoro principale è stato fatto sugli elenchi sequestrati alle quattro obbedienze con decreto firmato dalla presidente della commissione Rosy Bindi e affidati allo Scico per i controlli sulla fedina penale degli iscritti. Un'indagine che dimostra come i Gran Maestri, che si sono avvicendati in Commissione per giurare di non avere condannati o indagati per mafia tra i propri ranghi, abbiano mentito.  Sono 193 - è emerso dal lavoro dei parlamentari - gli affiliati alle logge massoniche di Sicilia e Calabria coinvolti o lambiti da inchieste di mafia. In molti casi, si tratta di procedimenti conclusi con decreto di archiviazione, proscioglimento o sentenza di proscioglimento per morte del reo, ma si tratta - si sottolinea nella relazione - di "un consistente numero di iscritti che è stato coinvolto in procedimenti per gravi delitti". Non per tutti però le inchieste si sono concluse con un nulla di fatto. In 6 sono stati condannati per associazione mafiosa piena, mentre altri 8 sono stati puniti per traffici di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta o sono stati destinatari in via definitiva di misure di prevenzione personali e dunque indicative della pericolosità sociale (semplice o qualificata). E non tutti sono stati espulsi dalle logge a cui appartenevano. Tanto meno sono stati tutti allontanati gli ulteriori 25 massoni che risultano condannati per altri reati gravi o sono tuttora sotto processo per associazione mafiosa o per intestazione fittizia di beni. Al contrario, 12 sarebbero ancora iscritti e attivi, di cui "10 presso logge del Grande oriente d'Italia, uno con una domanda di regolarizzazione presentata presso una loggia calabrese del Goi e membro del consiglio regionale della Calabria dal 2005 al 2010, il che fa desumere che fosse a quei tempi quantomeno pienamente iscritto ad altra obbedienza; uno, imprenditore agricolo, presso una loggia calabrese della Glri". E fra i fratelli che frequentano regolarmente le logge ci sarebbero anche i due, un commercialista e un pensionato, condannati definitivamente per mafia. "Tale dato - si legge nella relazione - che si riferisce ai soli nominativi compiutamente identificati assume significativi profili di inquietudine considerato che 193 soggetti, così come segnalati dalla Direzione nazionale antimafia, hanno avuto modo di operare nelle obbedienze massoniche e così segnalando una mancata o quanto meno parziale efficacia delle procedure predisposte dalle varie associazioni per la selezione preventiva dei propri membri".  Ma per i parlamentari c'è un altro dato preoccupante. "Al di là delle condanne o dei procedimenti in corso per gravi reati e al di là dell'appartenenza alle singole obbedienze - si legge nella relazione non può sottacersi che nell'ambito dei 193 soggetti segnalati, molti dei quali incensurati, a fronte di 35 pensionati e otto disoccupati, vi sono numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti in numero rilevante anche soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori dei più diversi settori, in primis quello edile".

Massoneria: Antimafia, mafia interferisce su giustizia, scrive il 22 dicembre 2017 "Il Giornalelavoce.it". “Con il sequestro non è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono” e comunque “non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti, occulti grazie a generalità incomplete, inconsistenti o generiche. Il vincolo di solidarietà tra fratelli consente il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia, legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi e impone il silenzio” come emerge “in un caso di estrema gravità”. Lo scrive l’Antimafia. In particolare nella relazione presentata oggi dalla presidente dell’Antimafia Rosy Bindi si evidenzia il caso di un magistrato onorario che nel 2010 aveva denunciato, solo in ambito massonico, di aver subito pressioni ad opera di due confratelli perchè si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del tribunale di Locri per ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato. Nel 2012 il magistrato fu ulteriormente sollecitato da un altro dei suoi fratelli di loggia, perchè intervenisse presso i magistrati della procura distrettuale di Reggio Calabria per perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, nell’ambito di una indagine antimafia coperta da segreto, si stava vagliando la sua posizione. L’ex consigliere regionale è stato poi arrestato insieme ad altre 13 persone e condannato a 12 anni di reclusione. L’antimafia critica il fatto che non siano state avvertite le autorità civili “degli evidenti indizi di violazione delle norme penali. Nemmeno dal magistrato onorario risulta alcuna denuncia. L’agire massonico si è pericolosamente atteggiato ad ordinamento separato dallo Stato. Probabilmente un atteggiamento diverso gioverebbe alla massoneria: si abbatterebbe il pregiudizio nei suoi confronti e si ridurrebbe il rischio di pericolose zone grigie”, conclude la relazione Bindi.

Antimafia, legge Anselmi va modernizzata. E’ opportuno “modernizzare la legge Spadolini-Anselmi” ed necessaria una previsione di legge che chiarisca che le associazioni segrete, “anche quando perseguono fini leciti, sono vietate in quanto tali perché pericolose per la realizzazione dei principi di democrazia”. E’ quanto scrive la Commissione antimafia nella relazione sulla massoneria. “Una norma del genere attuerebbe, finalmente, la volontà dei costituenti finora rimasta ignorata anche dalla legge Spadolini Anselmi”. Una norma che vieti la segretezza di tutte le formazioni sociali, massoniche e non, che celino la loro essenza – ragiona la presidente Bindi nella relazione sulla massoneria, presentata oggi alla stampa – non potrebbe ritenersi discriminatoria e nemmeno persecutoria nei confronti della massoneria, come più volte paventato dalla stessa”. L’Antimafia suggerisce di estendere ad alcune categorie – magistrati, militari di carriera in servizio attivo, funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti consolari all’estero – oltre all’iscrizione ai partiti politici, già previsto, anche “il divieto ad aderire ad associazioni che richiedano, per l’adesione, la prestazione di un giuramento che contrasti con i doveri d’ufficio o impongano vincoli di subordinazione”, cosa che si oppone alla fedeltà assoluta alle istituzioni repubblicane. Infine la Relazione dell’Antimafia evidenzia come la legge Spadolini-Anselmi “non ha offerto uno strumento adeguato” nemmeno per perseguire quanto prevede all’articolo 2, dove si dice che “Chiunque promuove o dirige un’associazione segreta o svolge attività di proselitismo a favore della stessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La condanna importa la interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Chiunque partecipa ad un’associazione segreta è punito con la reclusione fino a due anni. La condanna importa l’interdizione per un anno dai pubblici uffici”.

Massoneria: Antimafia, per alcuni tutt’uno con mafia. C’è un persistente “interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria fino a lasciare ritenere a taluno che le due entità siano divenute una cosa sola”. Lo scrive l’Antimafia. “Ciò non significa criminalizzare le obbedienze”; l’Antimafia si chiede se si siano “dotate di anticorpi”. Dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (medici, avvocati, ingegneri, commercialisti). C’è una certa presenza delle forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, di magistrati e politici. La presidente Bindi evidenzia tuttavia come in diversi casi non venga coltivato dalle obbedienze “il primario interesse alla impermeabilità dalle mafie” e come spesso il preteso rispetto delle leggi da parte della massoneria “si è rivelato più apparente che reale”. In particolare la relazione della Commissione parlamentare antimafia bacchetta “la segretezza, che permea il mondo massonico (e quello mafioso) il segreto costituisce il perno di alcune obbedienze”. Il documento parla di “un senso di riservatezza a dir poco esasperato”. L’insieme di queste regole viene “suggellata da una sorta di supremazia riconosciuta alle leggi massoniche rispetto a quelle dello Stato”. “Peculiare appare il giuramento del Goi, il Grande oriente d’Italia, in cui l’affiliato è tenuto a osservare la Costituzione “quasi si riservi un giudizio di legittimità costituzionale massonico sulle leggi che dunque non sono da rispettare sic et simpliciter ma solo se da essi ritenute conformi al dettato costituzionale”. Sul fronte dei numeri emerge che degli oltre 17 mila iscritti nelle obbedienze esaminate nelle regioni Sicilia e Calabria, la gran parte, oltre 9 mila, insiste nelle logge calabresi; in Sicilia gli iscritti sono 7.819. Per uno su sei nominativi presenti negli elenchi (quasi 3 mila nomi) non è stato possibile procedere alla completa identificazione poichè mancavano dati anagrafici essenziali. Oltre mille di questi 3 mila soggetti sono risultati anagraficamente inesistenti, altri 1800 privi di generalità complete, altri 80 indicati con le sole iniziali del nome o del cognome.

Bindi, pentito racconta importanza adesione a mafia e massoneria. “C’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati (..) la massoneria aveva (..) importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico, decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione”. E’ quanto dichiara il collaboratore di giustizia, Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, e riportato nella relazione conclusiva su “mafia e massoneria” presentata oggi a Roma dalla presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi. Campanella “sin da giovane si era dedicato alla politica, alla massoneria – si legge nella relazione -, aderendo alla loggia palermitana del GOI “Triquetra”, ma anche alla mafia, ponendosi al servizio del noto capomafia Nicola Mandala il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano. La contemporanea adesione, quasi contestuale temporalmente (fine anni ’90), alle due diverse associazioni, non era osteggiata nè dall’una nè dell’altra parte. Mandala, infatti – si legge nella relazione dell’Antimafia -, aveva ritenuto che potesse essere “una cosa interessante e che … sarebbe potuta tornare utile in qualche maniera”. Utilità, in effetti, giunte all’occorrenza. Attraverso i fratelli a lui più vicini, infatti, aveva acquisto informazioni utili dai Monopoli di Stato per la gestione delle sale Bingo (facente capo all’associazione mafiosa) nel momento più delicato in cui era intervenuto l’arresto di Mandala, e si temeva che tali esercizi potessero essere sequestrati”. Le sue dichiarazioni confermano – conclude l’Antimafia -, innanzitutto che l’appartenenza alla massoneria crea un vincolo esclusivo e permanente, che, come avviene in Cosa nostra, si dissolve solo con la morte”.

Massoneria: Bindi, pentito dice Provenzano aveva info da loro. “Esisteva un terzo livello di soggetti in relazione direttamente con Bernardo Provenzano, all’epoca, che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazione da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti, ecc. (..) Informazioni di prim’ordine. (..) a un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria”. E’ quanto dichiara il collaboratore di Giustizia, Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, e riportato nella relazione conclusiva su “mafia e massoneria” presentata oggi a Roma dalla presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi. Francesco Campanella, pur dichiarando che non ebbe “il tempo di capire come funzionavano, per dirla con tutta franchezza”, ha riferito di uno specifico episodio di “fughe di notizie” che potette constatare personalmente: “in quel momento specifico in cui Mandala era nelle grazie di Provenzano e gestiva la latitanza, (..) Provenzano comunica a Mandala, esattamente la settimana prima che sarà arrestato, che si deve fare arrestare, che cambierà covo, quindi di non parlare, di mettere tutto a posto. Mandala lo comunica a me: “mi arresteranno, fai riferimento a mio padre Tutta questa serie di informazioni arrivavano”. Un gioco a fare il massone (così Campanella ha definito la sua partecipazione alla “Triquetra”) ma che, tuttavia, corrispondeva all’interesse dello stesso collaboratore di giustizia, della sua famiglia mafiosa e della massoneria. Va ricordato che è stato sentito dalla Commissione Antimafia anche Cosimo Virgiglio, collaboratore calabrese, già più volte ascoltato dai magistrati di Reggio Calabria ai quali aveva reso un ampio resoconto sui meccanismi propriamente massonici.

“Davanti alla Commissione ha sostanzialmente confermato le sue ampie dichiarazioni, peraltro riportate in diversi giudiziarie. Tra queste si ricorda, come nota di colore, che dopo il suo arresto, l’obbedienza lo fece raggiungere in carcere da un avvocato incaricato di dirgli di tacere il nome dei fratelli. Un segreto dunque ancor più valido anche per chi sta dietro le sbarre di un carcere. Anche lui confermava, come Campanella, che il vincolo massonico e perpetuo: si estingue solo con la morte”, si legge nella relazione.

Gli interessi di ‘ndrangheta e mafia per la massoneria: la relazione dell’Antimafia, scrive il 22 dicembre 2017 "Qui Cosenza". Sono 193 i soggetti indicati dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo come iscritti in procedimenti penali ed è consistente il numero di soggetti che, pur non indagati, imputati o condannati per delitti di natura mafiosa, hanno collegamenti diretti con esponenti della mafia e possono costituire un anello di collegamento tra mafia e massoneria. La presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ha presentato oggi la relazione finale sulla massoneria dalla quale emerge come “Cosa Nostra siciliana e la ‘ndrangheta calabrese da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria”. “Da parte delle associazioni massoniche si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia. Sono i casi, certamente i più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza che si rivelano i più preoccupanti”. Un persistente “interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria lasciano ritenere che le due entità siano divenute una cosa sola. Ciò non significa criminalizzare le obbedienze”; l’Antimafia si chiede se si siano “dotate di anticorpi”. Dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (medici, avvocati, ingegneri, commercialisti). C’è una certa presenza delle forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, di magistrati e politici. Dunque “il tema del rapporto tra mafia e massoneria “affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti in connessione sia con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e in Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione”.

Un “rapporto” emerso dopo la missione effettuata a Palermo e a Trapani. “In quell’occasione è stato ripetutamente affrontato il tema del rapporto tra Cosa nostra e la massoneria in Sicilia anche in relazione alla vicenda dell’appartenenza a logge massoniche di alcuni assessori del comune di Castelvetrano (Tp) luogo di origine del noto latitante Matteo Messina Denaro”. Nel documento si ricorda che attualmente nel trapanese sono presenti 200 “fine pena” già detenuti per reati di mafia e di traffico di stupefacenti che, scontata la pena, ora sono in stato di libertà. Nel comune di Castelvetrano insistono 6 logge massoniche su 19 che operano nell’intera provincia di Trapani e nell’amministrazione comunale della cittadina, nel 2016, 4 su 5 assessori erano iscritti alla massoneria e 7 su 30 tra i consiglieri. Nella relazione si evidenzia anche che i fatti di Castelvetrano fanno il paio con le indagini delle autorità siciliana e calabrese, queste ultime sfociate nei procedimenti “morgana mammasantissima e Saggezza. In tutti i casi si evidenziano recenti episodi di infiltrazione mafiosa nella massoneria e si attualizzano gravi fatti del passato “che lasciavano supporre l’esistenza delle infiltrazioni di Cosa nostra e della ‘ndrangheta nella massoneria”. “Con il sequestro non è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono” e comunque “non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti, occulti grazie a generalità incomplete, inconsistenti o generiche. Il vincolo di solidarietà tra fratelli consente il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia, legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi e impone il silenzio” come emerge “in un caso di estrema gravità”.

Servizi segreti, massoni e politici: ecco tutti i legami della 'ndrangheta in Emilia Romagna. Nuovi pentiti svelano i contatti delle cosche padane. Tra cene elettorali, 007 "amici di Bisignani" e "grembiuli" bolognesi. A parlare sono soprattutto i boss, che fanno tremare un sistema di potere. E così gli 'ndranghetisti riprendono a uccidere, in una guerra di mafia che non sconvolge la Calabria. Ma la pianura emiliana, scrive Giovanni Tizian il 07 dicembre 2017 su "La Repubblica". Il lato oscuro della 'ndrangheta emiliana. Popolato da 007, forze dell’ordine, politici e massoni. L’intreccio tra potere e clan nella narrazione di quattro nuovi pentiti rivela scenari inediti in una terra che rifiuta l’etichetta di preda delle cosche. Sospetti per ora, che affiorano però negli interrogatori di alcune gole profonde. Un intrigo padano, dai contorni nebulosi, reso ancor più inquietante da un omicidio. La settimana scorsa in provincia di Reggio Emilia è stato ucciso un giovane di 31 anni, originario della Calabria. Persona perbene, lo descrivono tutti. Due figli piccoli e nessun precedente. Nella stessa via erano state bruciate due auto in quindici giorni. Oltre alla procura ordinaria si è attivata anche l’Antimafia. Si scava nel privato, senza tralasciare piccoli dettagli che portano all’attività del padre della vittima, un edile con una partecipazione in un consorzio dove sono presenti personaggi vicini ai clan. Il delitto è «come sale su una ferita aperta», ha detto il questore nei giorni in cui anche a Ostia le pistole sono tornate a far paura. Il timore che avessero ragione i pentiti però è forte. Alcuni di loro hanno avvertito i magistrati di Bologna di una possibile lotta interna alla ’ndrangheta. Non in Calabria, ma nella pianura emiliana. E come in tutti i conflitti la possibilità che muoiano anche gli innocenti è concreta. Sintomi di questa fibrillazione sono comparsi fin dentro i penitenziari, dove si sono verificati duelli tra ’ndranghetisti di opposta fazione. A nove mesi dell’inizio del più grande maxi processo alle ’ndrine del Nord, c’è chi teme un ritorno agli anni Novanta, quando a Reggio le cosche non esitavano a usare le bombe e le lupare. Sembrava la Corleone di Salvatore Riina, eppure era ed è la provincia di Reggio Emilia. Lungo la via Emilia si sta abbattendo un ciclone giudiziario, alimentato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che stanno rivoltando il passato di complicità che molti davano per sepolto. C’è chi prega in segreto per salvarsi, chi riflette come prevenire il colpo e chi, invece, contrattacca nelle aule di tribunale dove lo Stato sta fronteggiando la cosca Grande Aracri - originaria di Cutro, nel Crotonese - ma trapiantata dagli anni Ottanta al di là della Linea Gotica. Una cosa è certa: calato il sipario su questo processo dimenticato dalla stampa nazionale, nulla sarà più come prima in questa pianura trasformata in Far West. Tanto che il gruppo di ’ndranghetisti finiti in carcere ha trasformato le celle in hotel a 5 stelle. Tablet, cellulari, droga, caffè in cella preso con i poliziotti penitenziari, in stile don Raffaè. Pestaggi e accordi con la camorra. Tutto questo nella sezione alta sicurezza, da dove partivano persino pen drive con gli audio che servivano a istruire i testimoni del maxi processo. Episodi emersi grazie ai collaboratori. Il contagio più temuto dalla ’ndrangheta si è ormai diffuso: in meno di un anno cinque nuove richieste di collaborare con la giustizia. Quattro super pentiti affidabili e un altro che la procura antimafia di Bologna non ha ritenuto credibile, nonostante sia il braccio destro del capo dei capi Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, e reggente del clan a Reggio Emilia. Gli altri che hanno ottenuto la patente di collaboratori credibili non sono, però, da meno. Nell’ordine: Nicola Femia, “Rocco” per gli amici, col grado di boss dell’omonimo gruppo mafioso; Pino Giglio, imprenditore e cassaforte della cosca Grande Aracri; Antonio Valerio, affiliato del cerchio magico del padrino “Manuzza”; Salvatore Muto, uomo d’affari del gruppo criminale cutrese. Insomma, per l’impenetrabile mafia calabrese è un colpo durissimo. Una tragedia epocale per l’organizzazione che vanta il minor numero di pentiti rispetto alle mafie tradizionali. Il primo ad alzare bandiera bianca, sotto i colpi della procura antimafia di Bologna è stato Nicola Femia. A febbraio scorso “Rocco” ha chiesto di incontrare i magistrati. Dieci giorni dopo i giudici bolognesi lo condanneranno in primo grado a 26 anni per mafia. Nell’ambiente del gioco d’azzardo legale è conosciuto come il signore delle slot. Uno dei primi a investire nel settore allo scoccare del nuovo millennio. Affondano qui le radici del suo impero economico e criminale. Stringe alleanze commerciali con imprese note del gaming, diventa partner di affermati imprenditori del Nord Italia e sfrutta la complicità di ingegneri informatici. Regista di joint venture tra mafie con fatturati a sei zeri. Oggi è un super pentito, che ha già riempito migliaia di pagine di verbali di interrogatorio. Carte scottanti, per gli argomenti che svela e per i nomi citati. Dichiarazioni che hanno permesso di aprire fascicoli in diverse procure antimafia e di rafforzare inchieste che sono in corso. Di certo, Femia, non ha mostrato alcuna remora di fronte ai pm: già al primo confronto ha ammesso di aver ucciso una persona quando aveva 15 anni. Fu assolto. L’omicidio era stato ordinato dal vecchio patriarca della mafia calabrese Vincenzo Mazzaferro. Quello fu l’inizio della sua carriera. In segno di riconoscenza il padrino lo battezzò «riservato» dell’organizzazione. In pratica Nicola Femia non aveva dovuto affiliarsi formalmente: «Sapeva (il boss ndr) che poteva contare su di me per qualsiasi cosa, non aveva interesse a rendere ufficiale una mia affiliazione». Da allora Femia inizierà la sua ascesa. Era uomo dei Mazzaferro, e questo bastava a spianargli la strada verso il successo. In Calabria come in Emilia. Nipote, peraltro, di un pezzo da novanta della cosca processato assieme a Michele Sindona, il banchiere della mafia pre Riina. Femia, insomma, qualche segreto lo custodisce. Anche perché da quando ha lasciato la carriera di narcos per diventare re delle slot ha conosciuto figure di un certo peso. Come quel tale, descritto nei verbali come uomo dei servizi segreti, che si vantava di essere amico di Luigi Bisignani, «quello della P4, P5...», ha spiegato con una battuta. Non è l’unico 007 da lui frequentato. Le indagini hanno documentato diversi incontri con un agente segreto. Chiamato dai pm non ha voluto fornire spiegazioni. Il collaboratore Femia sta illuminando con le sue dichiarazioni zone buie di questo territorio che sono collegate anche alla politica. Svela ai magistrati le richieste ricevute dai clan della Lombardia per organizzare cene elettorali in Emilia in favore di alcuni politici i cui nomi sono ancora coperti dal segreto. Riferisce anche di un ex deputato, sempre emiliano, che gli aveva fatto chiedere voti tramite il suo faccendiere. Rivela, poi, i rapporti con professionisti iscritti alla massoneria bolognese, delle mazzette per comprarsi le sentenze e il rapporto con un avvocato già parlamentare. Le storie trapelano dall’ambiente giudiziario dove però vige un grande riserbo. Tutto quello che emerge dagli interrogatori fa vedere come in questo territorio si riesce con facilità a mettere in contatto un ex narcos diventato re dell’azzardo legale con pezzi delle istituzioni locali e nazionali. Basta pensare che nell’arco di sei mesi Femia con una sola società di gaming online è stato in grado di incassare fino a 40 milioni. Don “Rocco” non è tra gli imputati del maxi processo Aemilia contro la cosca Grande Aracri, ma in quell’aula è andato a testimoniare, perché con alcuni emissari di quella ’ndrina aveva stretto una partnership.

UNA QUESTIONE POLITICA. Il “pentito” Salvatore Muto ripercorre adesso l’intreccio politico mafioso in Emilia, partendo dal 1994 quando sostiene che venne impartito l’ordine dai clan di far votare Forza Italia. «Quelli che si diedero da fare erano tutte persone appartenenti alla ’ndrangheta o in qualche modo legate... mi occupavo del volantinaggio, appendevo i manifesti». Secondo Salvatore Muto a distanza di ventitrè anni la passione per il partito di Berlusconi non si è affievolita. Il primo politico condannato in Emilia per complicità con i clan si chiama Giuseppe Pagliani, consigliere comunale e provinciale di Forza Italia. Condannato in appello a 4 anni, assolto in primo grado, nel filone politico del maxi processo. In un altro stralcio della medesima inchiesta è tuttora indagato per rivelazione di segreto il senatore Carlo Giovanardi, in passato nel Pdl. Muto dopo la campagna elettorale per Berlusconi racconta di essere partito per Reggio Emilia. Accolto nella corte del padrino Nicolino Grande Aracri. Fu proprio don Nicolino a confidargli la formula del successo criminale: «Le guerre le ho fatte al Nord e le ho vinte io». Il collaboratore di giustizia custodisce segreti anche sull’attività politica attuale. Questioni di voti e potere. Ricorda quando il suo capo gli raccontò di aver ricevuto da un affiliato la richiesta di raccogliere voti per il candidato a sindaco del Pd di Reggio Emilia. Si tratta dell’attuale primo cittadino Luca Vecchi, successore dell’attuale ministro Graziano Delrio. Un sostegno interessato, che però non è stato ricambiato: «Il sindaco non era a favore nostro, si è messo contro di noi», precisa Muto nel verbale del 17 novembre scorso. La moglie di Vecchi, Maria Sergio, è stata per anni dirigente dell’ufficio urbanistica del Comune guidato da Delrio. La coppia Vecchi-Sergio è stata presa di mira dal boss Pasquale Brescia, volto imprenditoriale dell’organizzazione e vicino a diversi poliziotti. In una missiva inviata alle redazioni di giornali dal carcere ha lanciato accuse pesantissime sia al sindaco che a sua moglie. Lettera dai toni minacciosi, che ha portato la procura antimafia di Bologna a indagare Brescia e l’avvocato che lo difendeva. Il pentito Muto sta svelando ulteriori particolari di quella vicenda: sostiene che l’autore della lettera si vantava di sapere molte cose del sindaco Vecchi ma che non poteva parlarne. La lettera, dice un altro pentito che si chiama Antonio Valerio, «fu scritta per far muovere il sindaco Vecchi a prendere le parti dei cutresi... visto che anche sua moglie Maria Sergio è cutrese e aveva un parente capo di Cutro negli anni ’60-’70... sapendo questo si cercava a livello psicologico di assoggettarlo». In questo modo la 'ndrangheta emiliana messa alla sbarra ricatta. Per difendere ciò che ha costruito in trent’anni di colonizzazione.

CATASTO È POTERE. I carabinieri hanno acquisito documenti e sentito alcuni funzionari in Prefettura a Modena. È l'ultimo clamoroso sviluppo dell'indagine sui clan emiliani. Tutto questo mentre il maxi processo contro gli oltre 200 imputati è in corso. E al ministero dell'Interno giace una richiesta di scioglimento per il Comune di Finale. Potito Scalzulli è un ex dirigente del demanio di Reggio Emilia. Oggi fa politica in Romagna, lontano dalla città in cui tutto è cominciato. La prima denuncia porta la data del 23 novembre 2010, in tempi non sospetti, dunque. Quando, cioè, il bubbone 'ndrangheta emiliana non era esploso pubblicamente. Scalzulli nei suoi esposti non ha mai usato mezzi termini: all’interno dell’ufficio che dirigeva si era incancrenito un sistema, «il sistema catasto», lo definisce. Sette anni di esposti che non hanno smosso alcunché. Per questo, adesso, con il maxi processo in corso ha deciso di inviare il malloppo di documenti e denunce raccolte negli anni alla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi. «Prove documentali che certificano la collusione e la connivenza con il gruppo organizzato di pubblici dipendenti fautori del malaffare, il cosiddetto sistema catasto», si legge nell’incipit del documento inviato alla Commissione. Alla spartizione avrebbero partecipato, secondo l’ex dirigente, funzionari di vertice dell’Agenzia, politici interessati alla tenuta del “Sistema” per garantirsi la continuità del consenso «determinante per fare la differenza sugli equilibri politici elettorali». Al centro delle denunce di Scalzulli anche un politico locale del Pd nonché dipendente dell’Agenzia del territorio, Salvatore Scarpino. Consigliere comunale di riferimento della numerosa comunità calabrese a Reggio Emilia e in ottimi rapporti con l’attuale ministro Delrio. Su Scarpino oltre alle denunce di Scalzulli pesano le dichiarazioni in aula di un testimone durante il processo alla ’ndrangheta emiliana. Renato Maletta, in passato candidato a sostegno di Delrio sindaco e sottoposto di Scarpino all’Agenzia, ha raccontato di aver fatto campagna elettorale per il consigliere Pd. Sorprendenti, tuttavia, le frequentazioni di Maletta: invitato al matrimonio, in Germania, del figlio di un boss e proprietario di un cavallo nel ranch reggiano di un imputato per ’ndrangheta. Non il massimo per chi aspira a ruoli politici. D’altronde, però, l’Emilia non è neanche più la roccaforte etica di un tempo.

Saguto e la nomina di Virga jr. "Non è il solo parente di giudici", scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 20 Dicembre 2017 su "Live Sicilia". Fabio Licata, uno dei magistrati imputati, si difende. Difende il suo operato di ex giudice delle Misure di prevenzione, ma anche l'organizzazione stessa della sezione del Tribunale di Palermo travolta dallo scandalo. Licata, oggi al Tribunale di Patti, è uno dei magistrati finito sotto accusa nell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge anche l'ex presidente Silvana Saguto. È imputato in abbreviato di abuso d'ufficio in concorso con Saguto e Tommaso Virga, pure lui giudice, in merito alla nomina di Walter Virga, figlio di Tommaso, in alcune importanti amministrazioni giudiziarie. Licata si è sottoposto all'esame del giudice per l'udienza preliminare Marcello Testaquatra. Che è andato subito al punto cruciale. E cioè la nomina di Virga jr. Non provò alcun imbarazzo per il fatto che fosse il figlio di un collega? Licata risponde con un “no” secco. Lo motiva con il fatto che nel corso degli ultimi vent'anni in tutti gli uffici giudiziari di Palermo - non solo misure di prevenzione, ma anche nei settori civile, penale e fallimentare - sono sempre stati dati incarichi a parenti di magistrati. Licata ne cita alcuni - Roberto Murgia, Vittorio Teresi, Gioacchino Natoli, Antonio Balsamo - senza alcun intento polemico, ma per spiegare che nessuno ha mai sollevato scandali o ragioni di opportunità. E secondo Licata è giusto che sia andata così perché il parente di un magistrato si presume che offra garanzie di “affidabilità e moralità”. Licata non rinnega la scelta di Virga, convinto che il giovane avvocato abbia svolto bene il suo incarico. E il fatto che la stessa Saguto lo volesse cambiare perché lo riteneva, come emerge dalle intercettazioni, “un ragazzino”? Il riferimento sarebbe stato non alle sue capacità, su cui Saguto non aveva espresso perplessità, ma all'incapacità di gestire la pressione mediatica. Licata, assistito dagli avvocati Roberto Mangano e Marco Manno, è anche imputato di falso perché avrebbe apposto la firma apocrifa dell'allora presidente Saguto sul provvedimento di sequestro dei beni degli imprenditori Rappa. Licata disconosce di avere apposto quella firma. Lui mise la sua e lasciò l'atto sul tavolo della collega Saguto che all'indomani, giorno di emissione del provvedimento, era presente in ufficio. L'ultima imputazione per Licata riguarda la presunta rivelazione, giunta all'orecchio di Saguto, della notizia del trasferimento da Palermo a Caltanissetta del fascicolo aperto sulla gestione del patrimonio Rappa. Sul punto il magistrato ha negato la circostanza.

Intreccio fra toghe e prof. Quelle caste nascoste, scrive Riccardo Lo Verso Sabato 23 Dicembre 2017 su "Live Sicilia". Non solo i palazzi della politica. I casi Saguto, Nivarra e Virga obbligano a guardare nei Tribunali e nelle Università. È nelle stanze della politica che bisogna stanare i corrotti. Per anni è stato un assioma investigativo, che ha finito per divenire un paravento. Il paravento che ha nascosto le malefatte consumate in altri palazzi. E cioè nelle sedi delle università dove la legalità si insegna sotto forma di diritto e nei Tribunali dove i principi del bene comune si applicano in nome del popolo italiano. Servirebbe un mea culpa generale. Quanto meno per tentare di trovare una giustificazione alla miopia dilagante. Alcune recenti inchieste giudiziarie hanno svelato l'esistenza di veri potentati: la magistratura e il mondo accademico, con una commistione di interessi quanto meno sospetta. Più che di potentati in realtà si dovrebbe parlare di protettorati nel senso tecnico del termine. Lo Stato ha protetto due sistemi di potere eliminando la barriera dei controlli, fino a provocare la necrosi della legalità e del merito. A Palermo è scoppiato il bubbone della Sezione misure di prevenzione, quella che sequestra e confisca i patrimoni dei mafiosi e degli imprenditori sospettati di essere in combutta con i boss. Alle cronache è ormai passato con la definizione “sistema Saguto”, dal nome di Silvana Saguto, ex presidente oggi sotto processo a Caltanissetta e sospesa dal Csm. Stipendio decurtato fino a un terzo, in attesa che venga definito il procedimento disciplinare. Saranno i giudici di Caltanissetta a stabilire se il magistrato sia colpevole dei reati di corruzione, riciclaggio, falso e abuso d'ufficio. Sin d'ora, però, anche il più inguaribile degli ottimisti, è obbligato a confrontarsi con la fotografia di un intreccio malsano che va oltre le misure di prevenzione. Nelle scorse settimane è finito agli arresti domiciliari Luca Nivarra, ordinario di Diritto civile della facoltà palermitana di Giurisprudenza, al quale è stato poi concesso di tornare a casa. Per garantire le esigenze cautelari basta l'interdizione dall'esercizio delle funzioni di amministratore di patrimoni e fondazioni. Un giurista molto impegnato Nivarra, politicamente schierato a sinistra. Componente della consulta giuridica della Cgil nazionale, in prima linea nella difesa dei diritti civili. Nel 2012 è stato candidato al consiglio comunale di Palermo nella lista che univa Rifondazione comunista e Verdi e che appoggiava il sindaco Leoluca Orlando. Pochi mesi dopo Claudio Fava lo aveva designato come assessore al Territorio qualora fosse divenuto presidente della Regione. Ha fatto carriera Nivarra, all'Università e nel dorato mondo delle consulenze assegnate dal Tribunale di Palermo. Fino a quando non è scivolato nella gestione del patrimonio di un facoltoso possidente. Se i parenti non avessero impugnato il testamento non sarebbe mai venuto a galla un ammanco di trecento mila euro. Soldi pagati per l'affitto di una cinquantina di immobili e finiti, così sostiene l'accusa, nelle tasche di Nivarra e dell'avvocato Fabrizio Morabito, suo braccio destro prima e successore poi. Ed ecco l'intreccio. A nominare Nivarra, nel 2006, amministratore provvisorio dell'eredità di Bartolomeo Sapuppo, questo era il nome del possidente, era stato il collegio del Tribunale civile allora presieduto da Tommaso Virga, pure lui rinviato a giudizio e trasferito da Palermo a Roma quando è finito sotto inchiesta assieme a Saguto. Ora è imputato per abuso d'ufficio. Da qui l'ipotesi che ci fosse “un accordo corruttivo”, seppure prescritto, tra il magistrato e il professore Nivarra, che in cambio avrebbe favorito la carriera accademica di un giovane avvocato, Walter Virga, figlio di Tommaso. Nivarra aveva dapprima nominato Virga jr “cultore della materia nel 2003”, poi era stato relatore della sua tesi di dottorato nel 2007 e infine era stato membro interno nella commissione che nel 2014 gli assegnò il titolo di ricercatore. Le loro strade si erano già incrociate un anno prima, quando Nivarra era il presidente dell'Accademia di Belle Arti di Palermo che assunse Virga jr con un contratto di docenza a termine, rinnovato per due anni, in “Diritto, economia e legislazione dello spettacolo”. Il 2014 è l'anno della svolta professionale del giovane Virga, finito sotto l'ala protettiva del giudice Saguto e scelto come amministratore giudiziario di due grossi sequestri. Virga non si è dimenticato del professore Nivarra e gli affida consulenze legali per 45 mila euro che sono costate ad entrambi un'incriminazione per falso e truffa. Sarebbero state un inutile duplicato del lavoro fatto da altri e già pagato. Virga jr è ormai lanciatissimo, nonostante la stessa giudice Saguto lo considerasse un ragazzino da niente”. La sua nomina “era volta all'esclusivo scopo di compiacere Tommaso Virga da cui essa si attendeva autorevole sostegno presso il ministero della Giustizia, il Csm, l'Associazione nazionale magistrati e la stampa”. Una nomina che non suscitò imbarazzo né perplessità sugli altri giudici del collegio. Come Fabio Licata, pure lui sotto processo, che qualche giorno fa in aula lo ha descritto come un fatto normale. Non solo alle misure di prevenzione, ma anche nei settori civile, penale e fallimentare, nell'ultimo ventennio sono sempre stati assegnati incarichi a parenti di magistrati senza che si sia mai gridato allo scandalo. Licata ha fatto i nomi di alcuni suoi colleghi per dare forza ad un ragionamento che può essere così sintetizzato: si presume che il parente di un magistrato offra garanzie di “affidabilità e moralità”. Il problema è che nel passaggio dalla teoria alla pratica, almeno così pare emergere dalla vicenda Saguto, l'amministrazione della giustizia ha finito per diventare una personale riserva di caccia, mandando in frantumi la presunzione sull'integrità morale di un'intera categoria. La carriera nelle amministrazioni giudiziarie del giovane Virga è stata speculare a quella accademica. I titoli universitari sono divenuti un vestito da cucire addosso al rampante avvocato affinché nessuno potesse mettere in discussione i suoi meriti e la scelta di nominarlo nelle gestioni patrimoniali. È un cliché che, d'altra parte, si è ripetuto con un altro prof entrato nelle grazie di Saguto. E cioè Carmelo Provenzano, docente all'Università Kore di Enna, affiancato dal Tribunale ad un altro amministratore nella gestione di un colosso del calcestruzzo. La prima nomina rispondeva ad una logica spartitoria, tanto che era l'ex presidente a rammaricarsi di avere scelto "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò...". La scelta cadde su Provenzano che aveva nel frattempo indossato, pure lui, il vestito buono del mondo accademico. “È un docente e non può dire niente nessuno", diceva Saguto. Come era già accaduto per Nivarra-Virga jr, le fortune del Provenzano amministratore giudiziario si incrociano con la carriera di uno studente universitario. Si chiama Emanuele Caramma ed è il figlio del giudice Saguto e del marito Lorenzo Caramma, ingegnere e consulente di Gaetano Cappellano Seminara, recordman di incarichi nelle amministrazioni giudiziarie assegnate dai Tribunali siciliani. Il giovane Caramma nel 2015 ottenne il massimo dei punti dalla magnanima commissione di laurea della facoltà di Scienze economiche e giuridiche dell'Università di Enna presieduta da Roberto Di Maria. La tesi non era farina del suo sacco. Gliela aveva scritta Provenzano. Persino il giovane Caramma ebbe un rigurgito di pudore se è vero che i genitori intercettati di lui dicevano che “è disperato perché sa che questa laurea è una farsa. Gli altri sgobbano per prenderla e lui invece non ha faticato". La carriera di Provenzano come amministratore giudiziario prese il volo. Si sarebbe adeguato in fretta piazzando parenti qua e là nelle amministrazioni. La moglie psicologa, ad esempio, si occupava di banche e informatica. Ma nessuno l'avrebbe mai vista a lavoro. La cognata invece “lavorava” da casa per gentile concessione di un altro amministrazione, Nicola Santangelo, che il professore della Kore presentò a Saguto per alcuni incarichi. Ormai, d'altra parta, era un “docente” su cui “non può dire niente nessuno". Più di qualcosa ci sarebbe da ridire anche sul mondo universitario. E non solo per le vicende di Virga jr e Provenzano. Una recente inchiesta della Procura di Firenze ha svelato “il vile commercio dei posti” per l'abilitazione all'insegnamento di Diritto tributario nelle università italiane. Si è partiti dal capoluogo toscano per finire in Sicilia. In particolare dentro l'Ateneo di Palermo. Gli atti giudiziari ricostruiscono lo scontro fra due cognomi pesanti nel mondo accademico siciliano. I professori Salvatore Sammartino e Andrea Parlato sponsorizzavano i loro candidati. Il primo è ordinario di Diritto tributario. Il secondo, oggi in pensione, lo è stato di Scienza delle finanze. Alla fine “l'abilitazione a coppie” accontentò entrambi i contendenti, obbedendo al principio del “do ut des” applicato su scala nazionale: i prof si scambiavano i favori. Oggi a me, domani a te. Chi faceva ritirare un candidato sapeva che l'anno successivo qualcun altro avrebbe fatto la stessa cosa, alimentando la catena di favori. La logica della spartizione avrebbe spazzato via ogni concorrenza. “Così è il discorso, uno a uno e palla a centro”, ammettevano i docenti. Parlato esprimeva giudizi pesanti su un candidato della fazione opposta che si presentava “sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore”. Sammartino lanciava il suo aut aut: “O passano questi o noi diciamo no a tutti ed allora gli altri dovranno per forza cadere”. Finì che agli esami di Bologna passarono i candidati di entrambi gli schieramenti. Forse è anche per questo che nessuno si mostrò particolarmente sorpreso quando l'anno scorso uno studio di due ricercatori italiani dell'Università di Chicago fece emergere il nepotismo imperante negli atenei italiani dove il ripetersi di certi cognomi fra docenti e aspiranti tali è patologico. "Il nepotismo segnala un problema più generale nel reclutamento. Se un professore può mettere in cattedra il figlio, allora potrà mettere in cattedra chiunque", commentava uno dei due autori della ricerca, il biologo Stefano Allesina. Nessuno può impedire che i figli di professori ambiscano essi stessi alla carriera universitaria. Ci mancherebbe. Una maggiore rigidità servirebbe innanzitutto a loro per sgombrare il campo dai sospetti. Nel frattempo il tema della meritocrazia potrebbe essere messo all'ordine del giorno di uno dei tanti convegni organizzati dalle attivissime università siciliane. Giusto una parentesi, ad esempio, nell'eterno dibattito fra mafia e antimafia che appassiona, e parecchio, l'ateneo palermitano specie nella declinazione della Trattativa Stato-Mafia. Dibattiti su dibattiti in cui le voci critiche sono subito catalogate alla voce negazioniste o giustificativiste del presunto patto fra i boss e pezzi delle istituzioni durante a cavallo delle stragi di mafia. Un patto la cui esistenza viene postulata, anche e soprattutto nei convegni, ancora prima delle sentenze processuali.

 ‘Ndrangheta, il collaboratore di giustizia: “I servizi segreti ci mangiavano con i sequestri di persona”. “Dottori, queste sono cose delicate perché questi sono uomini di legge…”. Interrogato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Simona Ferraiuolo, il pentito Nicola Femia sa che le sue dichiarazioni rischiano di riaprire storie vecchie e mai del tutto chiarite, scrive Lucio Musolino il 19 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Con la stagione dei sequestri di persona gestiti dalla ‘ndrangheta, ci mangiavano tutti: le cosche calabresi ma anche pezzi delle istituzioni che con le famiglie mafiose più potenti della provincia di Reggio non avrebbero esitato a sedersi allo stesso tavolo. Servizi segreti, poliziotti e mediatori che, in un modo o nell’altro, si sono spesi per dare un’immagine di uno Stato che reagisce all’Anonima sequestri. Anche a costo di entrare nelle sanguinarie dinamiche dell’Aspromonte non esitando a scarcerare boss della ‘ndrangheta come Vincenzo Mazzaferro e a far circolare, per tutta la Locride, una valigetta con dentro 500 milioni di vecchie lire. Erano i soldi che lo Stato ha pagato per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò al termine di un processo nelle cui pieghe, forse, ancora si nasconde il resto di una storia che, se confermata, dimostrerebbe come lo Stato non ha trattato solo con Cosa nostra per fermare le stragi del 1993. Lo ha fatto ancora prima, in Calabria, avventurandosi tra i sentieri dell’Aspromonte con i boss della ‘ndrangheta.

L’archiviazione della Procura di Brescia. “Dottori, queste sono cose delicate perché questi sono uomini di legge…”. Interrogato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Simona Ferraiuolo, il collaboratore di giustizia Nicola Femia sa che le sue dichiarazioni rischiano di riaprire storie vecchie e mai del tutto chiarite, nonostante i rapporti tra uomini in divisa e clan siano stati oggetto di un’indagine poi archiviata dalla Procura di Brescia per la quale – riportava un’Ansa del 1996 – “restano semplici sospetti insufficienti a sostenere delle accuse davanti a un tribunale”. Quei sospetti, oggi, sono confermati dal boss Femia arrestato nell’inchiesta “Black monkey” sugli affari delle cosche calabresi in Emilia Romagna. Condannato in primo grado, Femia ha deciso di pentirsi. Ai magistrati della Procura di Reggio ha raccontato di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta. Io praticamente ero un uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”. I pm lo interrogano a giugno e il verbale finisce nel fascicolo del processo “Gotha” che vede alla sbarra la componente “riservata” della ‘ndrangheta, tra cui gli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Non è un caso che nei capi di imputazione contestati nel processo ci sia anche il riferimento alla famiglia mafiosa dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica. Ai magistrati, Femia descrive gli anni in cui viveva in Calabria, sempre al fianco del boss Vincenzo Mazzaferro. Racconta di quando lo accompagnava a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: “Sono andato dentro le mura praticamente. – dice -Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui”. Lui era un “certo Antonio” che aveva il compito di andare in Colombia dove i miliardi delle cosche si trasformavano in tonnellate di droga.

Una trattativa Stato-‘ndrangheta per liberare l’ostaggio. Ma è la seconda parte del verbale, quella dedicata ai sequestri di persona degli anni 80 e 90, che ha spinto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo (nella foto) e il pm Stefano Musolino a inserire numerosi “omissis” per coprire i nomi pronunciati da Femia sulla trattativa Stato-‘ndrangheta per la liberazione di Roberta Ghidini. Fascicoli che, adesso, la Dda sta rispolverando per incrociarli con le dichiarazioni di Femia secondo cui quel sequestro “lo aveva fatto Vittorio Jerinò”. Per convincere quest’ultimo a rilasciare l’ostaggio, entrano in gioco i servizi segreti che – ricorda Femia – “si muovono con i soldi”. Ma i soldi non bastano: servono anche contatti, numeri di telefono, persone disposte a stare nel mezzo. In una parola, mediatori capaci di entrare in contatto con Jerinò. “E hanno trovato Vincenzo Mazzaferro” che però, in quel momento, era detenuto e doveva “uscire dal carcere”. Detto fatto: “I soldi tramite loro (i servizi, ndr) sono arrivati, so che si sono mossi ed è uscito Vincenzo Mazzaferro dal carcere. Era detenuto a Regina Coeli, a Roma, ed è uscito”. Quando la ‘ndrangheta prende un impegno, non ci sono dubbi che lo porti a termine: il boss parla con Vittorio Jerinò e gli dà i soldi che gli deve dare, liberano l’ostaggio e tutti amici. “Vincenzo Mazzaferro ritorna in carcere? – domanda il procuratore aggiunto Paci – Cioè come esce?”. “No, che ritorna. Esce. Femia ricorda tutto quello che gli ha confidato Mazzaferro ma non ha le risposte a ogni domanda: “Farete le indagini voi per vedere che cosa è successo, io non vi posso dire niente perché sono fatti di Stato”. Fatti di Stato e ‘ndrangheta. Servizi segreti e cosche che, almeno per quanto riguarda Mazzaferro, si parlavano attraverso un confidente, un informatore del quale Nicola Femia fa anche il nome: “Isidoro Macrì. Basta che vi informate alla questura di Reggio Calabria. Era l’autista… l’autista perché Vincenzo Mazzaferro era strano… questo Isidoro portava l’imbasciata avanti e indietro, faceva pure la persona normale… perché lui lo mandava… i rapporti con i marescialli glieli faceva tenere direttamente a lui e non a persone che magari erano di fiducia per non sputtanarsi”. A un certo punto, le cose cambiano. La ‘ndrangheta lascia stare i sequestri e il suo core-business diventa il traffico internazionale di droga.

Così la ‘ndrangheta decise di chiudere con i sequestri. “Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri”. Per il pentito Femia è stato un vero e proprio accordo tra le famiglie della Locride: “All’epoca – dice – erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo”. Con i sequestrati in Aspromonte e i controlli della polizia non si poteva trafficare in droga. Ecco perché ci fu un summit di ‘ndrangheta in cui si decise di chiudere con la stagione dei sequestri. Una strategia voluta dai boss Peppe Nirta, Vincenzo Mazzaferro e Pepé Cataldo, tutti morti ammazzati da lì a qualche anno e tutti in periodi in cui le loro famiglie non erano coinvolte in faide: “Di smettere con i sequestri. – fa mettere a verbale Femia – non gli è stato bene a qualcuno… a personaggi che lavorano con i servizi, non lo so a chi”. Il pentito: “I servizi ci mangiavano con i sequestri”. Il collaboratore ha paura, il pm Musolino lo capisce e lo tranquillizza: “Non sia timoroso”. Femia continua e lascia intendere che dietro quegli omicidi potrebbero esserci moventi diversi da quelli esclusivamente mafiosi: “Chi lo doveva ammazzare Vincenzo Mazzaferro? – si domanda – Aveva la macchina blindata e non la prendeva più, con gli Aquino (clan rivale, ndr) aveva fatto la pace, chi lo doveva toccare?”. Le risposte il pentito non ce l’ha. Sa solo che “i servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi”.

I sequestri di persona? Affari per 'ndrine e servizi. La procura distrettuale antimafia di Reggio ha depositato nel processo Gotha i recenti verbali di interrogatorio del pentito Nicola "Rocco" Femia. «Un accordo tra Mazzaferro-Cataldo-Nirta e “Tiradritto” per passare al più redditizio business della droga», scrive Francesco Tiziano il 20/10/2017 su "La Gazzetta del sud". L’evoluzione della ’ndrangheta reggina. È ancora argomento di analisi investigativa la trasformazione degli affari criminali nella Locride, quando si decise di mettere la parola ne all’industria dei sequestri di persona privilegiando il narcotraffico. Un tema (tra gli altri) affrontato dal pentito Nicola “Rocco” Femia, l’imprenditore delle slot-machine che dalla Locride (è originario di Marina Gioiosa Jonica, classe 1961) con trascorsi nell’importazione di cocaina dal Su America. È il 15 giugno scorso quando Nicola “Rocco” Femia si sottopone ad interrogatorio davanti al procuratore aggiunto della Dda di Reggio, Calogero Gaetano Paci, e ai sostituti Stefano Musolino e Simona Ferraiuolo. Parte da lontano il collaboratore di giustizia, ritornando agli anni bui del sequestro di Roberta Ghidini (dicembre 1991): «Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri... Hanno fatto un accordo.. Perchè all’epoca erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1.000, 2.000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e otto, la dava a tutte le famiglie, alle persone che diceva a lui vicino a dieci milioni al chilo, però si faceva le somme anticipate, lui non perdeva niente, incassava, partivano mille chili, li pagava un milione e mezzo e incassava dieci milioni, incassava prima, investiva con i soldi degli altri e magari 200, 300 chili li faceva arrivare pure per lui». Il procuratore Paci prova ad approfondire l’argomento: «Quindi, diciamo, si è deciso di non fare più i sequestri di persona perchè questi avrebbero attirato troppa polizia, troppi controlli e avrebbero messo in difficoltà quanto meno i traffici di stupefacenti».

“Rocco” Femia non ha dubbi: «Si, sì. E difatti quelli che hanno deciso tipo Peppe Nirta è la buonanima il vecchio, quello che hanno deciso … Peppe Nirta è morto, Vincenzo Mazzaferro è morto, Peppe Cataldo è morto, Peppe Cataldo aveva fatto la pace qualche mese prima, non gli è stato in bene... non gli è stato bene il fatto dei sequestri, di smettere con i sequestri non gli è andato bene a qualcuno». A chi? Il pentito, seppure «timoroso», prova a spiegare: «A personaggi che lavorano con i Servizi, però non lo so a chi... i Servizi ci mangiavano con i sequestri... se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendono i Servizi... è una parte invece andava a chi gestiva il sequestro». Il cambio di strategia sarebbe stato la conseguenza di un accordo tra «Tiradritto-Catalado Nirta-Mazzaferro: dopo il casino... la mamma di quel ragazzo,.. quella che andò a Locri, si incatenò a San Luca... dopo quel casino là hanno fatto la riunione, che all'epoca era latitante Mazzaferro, hanno fatto una riunione e si è deciso di non fare più sequestri. Una riunione al vertice che secondo le indicazioni del pentito sarebbe stata tenuta da «Nirta, lo so sicuro al 100% Peppe e ’Ntoni il fratello, Vincenzo Mazzaferro, Tiradritto, Cataldo e Jerinò Peppe, e Alvaro Mico quello che ha la faccia tipo femmina (perchè non aveva la barba)». In questa fase epocale al collaboratore di giustizia non torna l’origine di alcuni omicidi di ’ndrangheta eccellenti: «Peppe Nirta chi è che aveva bisogno di ammazzarlo? A 100 anni, 90 anni l’hanno ammazzato... Cataldo... ehm adesso praticamente là aveva fatto una “pace a trucco” che c'entrava Gambazza Pelle... La pace tra i Cataldo e i Cordì a Locri... un mese prima hanno fatto la pace, avevano fatto la pace un mese, due mesi prima che me lo aveva detto Vincenzo Mazzaferro, perchè dopo che è morto Vincenzo Mazzaferro io con Peppe Mazzaferro sono stato da Cataldo, 15 giorni, io dopo di allora non ho voluto sapere niente che ho visto tante cose che non andavano e me ne sono andato». Concludendo: «Ho visto che la morte che ha fatto, chi lo doveva ammazzare a Vincenzo Mazzaferro? Aveva la macchina blindata e non la pendeva più, con gli Aquino aveva fatto la pace, chi lo doveva toccare?». Un colloquio sintetizzato dal sostituto antimaa Stefano Musolino: «Quindi lei dice che per quello che sa lei, da persona riservata di Mazzaferro, da persona vicinissima a Mazzaferro, nell'ambiente criminale non c'era nessuno che poteva volere ammazzare Mazzaferro». Nicola Femia: «Sì». La cupola Anche i verbali di interrogatorio del collaboratore di giustizia Nicola “Rocco” Femia (classe 1961, originario di Marina di Gioiosa Jonica, imprenditore del settore delle slot machine con base operativa in Emilia Romagna, ma soprattutto - come accertato dalle Procure di Reggio, Catanzaro e Bologna - narcotrafficante di buona levatura e “affiliato riservato della ’ndrangheta” come voluto dal suo mentore Vincenzo Mazzaferro (il boss della Locride deceduto) sono stati di recente depositati dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio nel processo “Gotha” (il filone con rito abbreviato). Anche i suoi verbali di interrogatorio - come quelli dei collaboratori di giustizia Arcangelo Furfaro, Carlo Mesiano e Candeloro Claudio Ficara - per rafforzare la tesi dell’accusa che punta ad fare mergere il suolo della “cupola” mafioso-politico-imprenditoriale-istituzionale e la parallela associazione segreta che avrebbe stretto in una morsa asfissiante la città di Reggio - soprattutto - decidendo nell’ultimo decennio i destinatari, o meglio i privilegiati, degli appalti pubblici e chi avrebbe occupato le poltrone chiave della politica, delle istituzioni e della società civile.

 “Magistrati in odore di mafia”, tre toghe indagate per aver rivelato notizie riservate. Due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro e un giudice del tribunale di Vibo Valentia sono accusati dalla procura di Salerno per aver dato informazioni coperte da segreto a un avvocato legato alla cosca dei Mancuso. L'indagine del Ros calabrese ha fatto emergere un centro di potere composto anche da massoni e contiguo alla 'ndrangheta, scrive Davide Milosa il 10 gennaio 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Il casolare sta in località agro di Limbadi. Il boss della ‘ndrangheta Pantaleone Mancuso, alias don Luni, chiacchiera con Francesco Barbieri, imprenditore calabrese che da anni vive e lavora a Milano. E’ il 7 ottobre 2011. Qualcuno ha appena stappato una bottiglia di Ferrari. L’ambientale del Ros registra rumori e parole. Dice Mancuso: “La puttana della Napoli voleva mandargli l’ispezione, perché mi aveva mandato all’ospedale (…) che potevo fare quello che volevo (…) dopo la Napoli l’ha saputo e ha fatto un’interpellanza parlamentare”. I carabinieri, così, riannodano i fatti di una vicenda che risale al 2005, quando il giudice del tribunale di Vibo Valentia Giancarlo Bianchi dispose il “ricovero provvisorio” di Pantaleone Mancuso, all’epoca rinchiuso nel carcere di Tolmezzo, all’ospedale civile di Vibo. Un provvedimento, annotano i militari, che il magistrato firmò “in assenza delle condizioni previste dalla Legge (…) creando una oggettiva condizione di vantaggio rappresentata dalla conseguente accresciuta possibilità di comunicazione con l’esterno”. Il boss resterà in corsia per 27 giorni, nonostante il termine imposto fosse di una sola settimana. Una bella vacanza interrotta solo grazie a un’interrogazione dell’onorevole Angela Napoli.

MAGISTRATI, MAFIOSI E MASSONI. L’episodio non resta isolato. Dal maggio 2011, infatti, il Ros di Catanzaro indaga su “una consolidata rete di relazioni, in parte palese e in parte occulta, cui partecipano stabilmente magistrati del distretto di Catanzaro e due funzionari di polizia”. Un intreccio di relazioni, che dimostra “la sistematica contiguità (…) con la cosca Mancuso”. A fare da collante la comune appartenenza a logge massoniche. In questa storia, infatti, molti hanno la tessera in tasca. A partire dal boss Mancuso che all’imprenditore milanese rivela: “La ‘ndrangheta non esiste più, la ‘ndrangheta fa parte della massoneria (…) Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari”. E massone è anche il magistrato Giancarlo Bianchi.

L’INGRANAGGIO DELLA ‘NDRANGHETA. L’inchiesta Purgatorio inizia nel 2010 seguendo i movimenti di alcuni capitani del clan. Un anno dopo le indagini fotografano i rapporti tra i boss e diversi rappresentanti delle istituzioni. La svolta avviene quando sulla scena compare la figura di Antonio Galati, l’avvocato dei Mancuso e nome noto alle recenti cronache giudiziarie calabresi. Galati, infatti, è stato coinvolto, assieme all’ex giudice del tribunale di Vibo Patrizia Pasquin, nell’indagine Do ut des del 2005, accusati, assieme a un bel gruppo di imprenditori e professionisti, di corruzione in atti giudiziari, concorso in truffa aggravata in danno della Regione Calabria e dell’Unione europea. Per quella inchiesta, l’avvocato dei boss è stato assolto in primo grado. Una sentenza cui i pm si sono appellati. Torniamo allora all’operazione Purgatorio. E così intercettazione dopo intercettazione, gli investigatori dispongono sul tavolo una serie di pedine che compongono quello che lo stesso legale definisce “l’ingranaggio” a disposizione della ‘ndrangheta. Un sistema perfetto di relazioni, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Patrolo. A completare il gruppo, due importanti dirigenti della squadra Mobile di Vibo Valentia: Maurizio Lento ed Emanuele Rodanò. Il quadro è chiaro, gli obiettivi anche. Il Ros ne snocciola alcuni: condizionare l’esito di processi in cui sono coinvolti i Mancuso, violare il segreto d’ufficio, alimentare una “guerra interna” contro altri magistrati del distretto di Catanzaro, anche attraverso un’opera di “dossieraggio” orchestrata dallo stesso Galati.

MAGISTRATI INDAGATI: “RIVELARONO NOTIZIE RISERVATE”. Primo risultato: la posizione dei tre magistrati passa alla Procura di Salerno competente. Bianchi, Boninsegna e Petrolo vengono accusati di aver rivelato informazioni coperte da segreto. L’accusa ne propone l’interdizione. Richiesta che sarà negata dal giudice per le indagini preliminari. Sul caso, però, ora pende il ricorso al riesame. Un atto dovuto da parte della procura campana che ha provocato, in parte, la discovery dell’inchiesta del Ros di Catanzaro con il deposito di un’informativa di oltre mille pagine.

LA DISTRAZIONE DEI GIORNALI CALABRESI. La notizia è clamorosa. Eppure i media nazionali non la registrano. Mentre i quotidiani calabresi la depotenziano. E così, mentre il Ros annota “i concreti e rilevanti contributi, volontariamente forniti dal giudice Bianchi alla cosca Mancuso”, i giornali locali definiscono l’importante magistrato “un togato senza macchia” che “contro la malavita ha usato sempre la mano pesante”. Un rigore che non emerge quando il giudice autorizza Filippo Fiarè, sorvegliato speciale vicino ai Mancuso, a recarsi più volte a Vibo Valentia per sostenere visite odontoiatriche nello studio del figlio. E del resto Bianchi, non pare particolarmente solerte, nel momento in cui l’amico Galati gli rivela che lo stesso Fiarè è il mandante di un omicidio di mafia. Il particolare è tanto vero che mesi dopo il caso sarà risolto. Ma quando Bianchi riceve la confidenza, però, gli investigatori sono ancora in alto mare. Cosa fa il magistrato? Si tiene in tasca la notizia “violando i doveri della sua pubblica funzione”. Un’omissione che, secondo il Ros, favorisce Fiarè, capo dell’omonima cosca alleata con i Mancuso.

LE PRESSIONI DELLA COSCA SUL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA. La zona grigia così si allarga e mentre Bianchi, sostengono i carabinieri, rassicura i Mancuso su future assoluzioni, i professionisti della ‘ndrangheta tentano di influenzare le decisioni del Csm a favore dello stesso giudice. Succede tutto alla fine dell’ottobre 2011, quando Antonino Daffinà, già vicesindaco Udc di Vibo, parente dello stesso Bianchi, nonché commercialista di Pantaleone Mancuso interpella l’onorevole Roberto Occhiuto anche lui dell’Udc. Obiettivo (poi fallito), intervenire sul vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Michele Vietti (Udc), affinché il Csm sposti Bianchi al tribunale di Palmi. Un nomina che però non appare scontata, visto che oltre a Bianchi c’è in ballo il nome di un magistrato di Paola (Cosenza) Silvia Capone. Galati ne parla con una toga amica. I due concordano sul fatto che la Capone non avrebbe “proprio i titoli per questo posto”. Quindi sostengono che la Capone “probabilmente è sostenuta da Magistratura democratica”. Per questo, entrambi consigliano a Bianchi di sentire il giudice Massimo Lento (fratello del poliziotto inserito nell’ingranaggio), importante esponente di Md. Obiettivo: “Vedere se in commissione c’è qualcuno di Md per denunciare la porcata”. 

GUERRA INTERNA, TOGHE CONTRO TOGHE. La questione del Csm introduce così il tema della “guerra interna” al distretto giudiziario di Catanzaro che Galati e compagnia scatenano contro un giudice e un procuratore di Vibo Valentia. Ancora una volta si mette in moto l’ingranaggio che ormai è ben oliato. L’avvocato dei Mancuso ne parla con Petrolo, sostenendo che anche un importante magistrato di Cosenza, pur essendo di Md, si è messo con loro “per creare questa frattura, anche all’interno di Md”. C’è di più: l’avvocato dei boss, intercettato, confida di aver incontrato un sostituto procuratore generale in grado di fornire notizie su uno dei due magistrati. Particolare inquietante: l’incontro viene mediato da un imprenditore legato ai Mancuso. Il magistrato contatto da Galati viene identificato dal Ros in Salvatore Librandi. Galati ne parla al sostituto procuratore Boninsegna. “Ieri ho avuto un colloquio… un incontro con una persona… un magistrato… Sostituto Procuratore Generale (…) che dice: ma com’è sta situazione al Tribunale di Vibo Valentia? Ho detto: mah… un po’ ingarbugliata! Perché? Dice: ma voi non prendete provvedimenti su questa sezione fallimentare? Il giudice delegato ai fallimenti che dà incarichi al fratello?”. Gli investigatori ci mettono poco a capire di chi stanno parlando. Si tratta del giudice Fabio Regolo. Annotano i carabinieri: “In questa circostanza venivano espressi analoghi riferimenti nei confronti di altri magistrati, che gli interlocutori indicavano come legati al giudice Regolo, ovvero il Presidente del Tribunale di Vibo Valentia, Roberto Lucisano, il Procuratore della Repubblica, Mario Spagnuolo, il giudice Alessandro Piscitelli”. Gli uomini del Ros di Catanzaro registrano, dopodiché accertano che in effetti Fabio Regolo ha un fratello che lavora a Milano in un studio di commercialisti che negli anni ha avuto diversi incarichi giudiziali dal Tribunale di Vibo Valentia.

L’AVVOCATO RASSICURA IL BOSS: “QUEL PM SE NE FOTTE”. Favori reciproci e rapporti pericolosi. Il gruppo si tiene insieme così. Il magistrato Giampaolo Boninsegna, ad esempio, non mostra imbarazzo a salutare in aula il boss Luigi Mancuso. Oppure a intrattenere rapporti di amicizia con l’avvocato Galati. Lui, a detta del legale che vuole rassicurare il boss, “è uno che se ne fotte”. Boninsegna è coinvolto nella rivelazione di un’inchiesta a carico del genero di Pantaleone Mancuso. Il suo collega, Paolo Petrolo, chiacchierando sempre con Galati, addirittura, fa i nomi di alcuni indagati che da lì a pochi mesi saranno arrestati per un enorme traffico di droga. Torniamo allora al casolare in località agro di Limbadi. L’imprenditore e il boss hanno finito la bottiglia di Ferrari. La microspia registra le ultime parole del padrino: “Bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole, il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose”.

Mafia e ’ndrangheta unite dalle stragi: «Così lo Stato scenderà a patti». L’uccisione nel ‘94 di due carabinieri collegata agli attentati decisi da Cosa nostra. La procura di Reggio Calabria: «Gli attentati del 1993-1994 non vanno letti in maniera isolata», scrivono Giovanni Bianconi e Carlo Macrì il 27 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". A Gaspare Spatuzza, soldato fedele che aveva già partecipato alla strage di Firenze del 1993 e si preparava a far saltare in aria un camion di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma (progetto poi fallito), il capomafia Giuseppe Graviano l’aveva detto chiaro: «In Calabria si sono già mossi». A colpi di mitraglietta: la stessa M12 che aveva ucciso due militari dell’Arma - Antonino Fava e Giuseppe Garofalo - e ferito altri quattro in tre diversi agguati fra il 18 gennaio e il 1° febbraio 1994. A sparare andarono due giovani ‘ndranghetisti, uno all’epoca minorenne, che subito dopo l’arresto dissero che trasportavano armi e non volevano essere fermati e controllati; un depistaggio per coprire il disegno che la Procura di Reggio Calabria, nove anni dopo la traccia delle prime dichiarazioni del pentito Spatuzza, ritiene di avere svelato: un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, con l’avallo di massoneria e spezzoni di servizi segreti deviati, per aggredire le istituzioni e costringere lo Stato a norme meno severe contro il crimine organizzato.

La presunta trattativa con le istituzioni, insomma, si estende anche alle cosche calabresi, e ieri è arrivato un nuovo ordine d’arresto per il boss stragista Giuseppe Graviano e per il capo ’ndrangheta Rocco Filippone, oggi settantasettenne, che secondo l’accusa all’epoca dei fatti fece da tramite tra i capi dei clan e delle ‘ndrine nelle riunioni riservate in cui si decise il ricatto allo Stato. Un’indagine avviata su impulso della Procura nazionale antimafia al tempo della gestione di Pietro Grasso, basata sulle dichiarazioni di decine di pentiti delle due organizzazioni e sulle indagini della polizia, Servizio centrale operativo e Servizio centrale antiterrorismo; ai mandanti degli omicidi e dei ferimenti dei carabinieri viene contestata anche «la finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico».

Il disegno stragista che doveva condurre alla trattativa fu infatti figlio — secondo questa ricostruzione — dei mutamenti politici che caratterizzarono il biennio 1992-1994, ma in un certo senso cercò anche di orientarli. Perché dopo la fine dei partiti tradizionali, sia la mafia che la ‘ndrangheta si misero alla ricerca di nuovi referenti, e i boss dell’isola avevano in testa la creazione di un gruppo chiamato Sicilia Libera. I pm calabresi (il procuratore Federico Cafiero De Raho, l’aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto Di Bernardo) hanno acquisito e aggiornato l’inchiesta sui cosiddetti «Sistemi criminali» archiviata dai colleghi palermitani, che avevano scritto: «I vertici di Cosa nostra cambiarono cavallo abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che in effetti poi avrebbe vinto le elezioni) sicché a questo nuovo movimento, Forza Italia, andò il loro appoggio». All’esito della nuova indagine il pm Lombardo precisa che la strategia stragista «si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la `ndrangheta e altre organizzazioni criminali trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi».

A confermare questa impostazione sono arrivate le ultime registrazioni dei colloqui in carcere di Giuseppe Graviano, in cui il boss si lascia andare (consapevole o meno di essere intercettato) a espressioni di risentimento nei confronti di Silvio Berlusconi, «al quale rimprovera di non aver rispettato sostanzialmente i patti», sottolinea il giudice nel provvedimento di arresto. Che si sofferma anche sulla «straordinaria anomalia, davvero macroscopica» sull’allentamento del «carcere duro» introdotto dopo le stragi palermitane del 1992 con l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Se nel ‘92 ci fu una sola revoca e una sola mancata proroga, che nel ‘95 diventarono 2 e 2, nel 1993 si ebbero 122 revoche e 358 mancate proroghe, mentre nei primi mesi del ‘94 ci furono 9 mancate proroghe. Numeri che per il giudice segnano una coincidenza «non casuale» tra le stragi del ‘93 e gli omicidi dei carabinieri di inizio ‘94 con quei provvedimenti, «sintomatici del fatto che lo Stato aveva recepito le rimostranze degli stragisti, che avevano così perseguito con successo il loro obiettivo».

Essenziale, perché il messaggio lanciato da mafia e ‘ndrangheta alle istituzioni andasse a buon fine, era che la vera matrice delle bombe e delle sparatorie restasse coperta. Ecco allora le firme della fantomatica sigla Falange armata, utilizzata anche da appartenenti al servizio segreto militare rimasto spiazzato dallo svelamento della struttura clandestina di Gladio, che pure erano alla ricerca di nuovi referenti politici. Le indagini dell’Antiterrorismo hanno portato alla luce tre rivendicazioni calabresi per gli attacchi all’Arma, mentre il pentito Tullio Cannella ha ricordato che dopo le bombe del luglio ’93 a Roma e Milano il boss corleonese Leoluca Bagarella «era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, e disse con soddisfazione e ironia: “Vedi che ora queste cose le appioppano alla Falange armata”, poi disse ancora con tono compiaciuto: “Vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!».

Mafie, massoneria e servizi segreti deviati: la congiura per rovesciare lo Stato. Le stragi calabresi e siciliane con il marchio della Falange Armata. Dal 1990 nacque la "Cosa sola". 'Ndrangheta, Cosa nostra e le altre mafie decidono di fare la guerra allo Stato, scrive Guido Ruotolo il 26 luglio 2017 su "Tiscali Notizie". Quando il maresciallo della stazione dei carabinieri di Polistena aprì la busta, quella fredda mattina del 4 febbraio del 1994, rimase di stucco. Imprecò ma non capì. Lesse anche la firma «Falange Armata» e rimase disorientato. «Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi - era scritto con il normografo, con un carattere tremante su quel foglio di carta stropicciato - uccisi sull'autostrada. È un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine…cornuti e bastardi e figli di puttana». Non capirono i carabinieri, e neppure gli inquirenti quella rivendicazione. E neppure quelle tre telefonate tutte dello stesso tenore: «Questo non è che l'inizio di una strategia del terrore».

Era il 18 gennaio del 1994 quando sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, furono uccisi i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo. E prima, nella notte tra l'1 e il 2 dicembre del 1993, e dopo, il 1 febbraio del 1994, altri quattro carabinieri rimasero feriti. Tutti colpiti da una stessa mitraglietta M12. Uno dei due esecutori materiali degli attacchi ai carabinieri spiegò che quegli omicidi o tentati omicidi furono fatti per impedire che quelle pattuglie intercettassero tre distinti carichi di armi. Anche per la mancata strage di via Fauro a Roma, l'autobomba che doveva uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, il 14 maggio del 1993, e poi per le stragi di Firenze, Roma e Milano, arrivarono rivendicazioni telefoniche della Falange Armata. Mai la Ndrangheta e Cosa nostra avevano rivendicato un omicidio, una strage. E ora, leggendo le 976 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Reggio Calabria, contro il boss di Brancaccio, Palermo, Giuseppe Graviano, della cupola di Cosa nostra, e Rocco Santo Filippone, esponente di spicco della Ndrangheta dei Piromalli, quali mandanti dei tre attentati contro i carabinieri, si scopre che furono proprio Cosa nostra e la Ndrangheta a rivendicare le stragi e gli attentati firmandosi Falange Armata.

L'ipotesi (che sarà approfondita da nuove indagini) della Procura reggina, del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha coordinato le indagini della squadra mobile e dell'Antiterrorismo, è che furono uomini dell'ex Sismi, in particolare esponenti «del VII Reparto cosiddetto “OSSI” che, fino a pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) si occupava di Stay Behind, (Gladio, l'organizzazione paramilitare che doveva fronteggiare una eventuale invasione comunista, ndr) che, evidentemente, volevano destabilizzare il Paese creando un nuovo allarme terroristico. Costoro, che per anni avevano operato agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla “Falange Armata”. Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatta propria anche da Cosa nostra, nel corso della riunione di Enna (1991)».

Le indagini reggine aprono squarci e scenari mai coltivati prima, né a Reggio Calabria né a Palermo, Firenze e Caltanissetta, dove le procure hanno indagato sulle stragi di Palermo e del Continente e sulla trattativa Stato-Mafia. E questi scenari in sostanza ipotizzano che le varie mafie, anche la camorra e la Sacra corona unita, oltre che la Ndrangheta e Cosa nostra abbiano deliberato una strategia comune di attacco eversivo e terroristico contro lo Stato.

Per non essere equivocati, il gip ricorda che «la matrice stragista (il riferimento è ai tre attacchi alle tre pattuglie di carabinieri, ndr) frutto di un accordo tra Cosa nostra e la Ndrangheta, ha l'obiettivo di rompere con la vecchia classe politica e colpire le istituzioni e la società civile, nell'ottica di ottenere benefici a proprio favore in specie in relazione all'applicazione del 41 bis». Forse è giunto il momento di mettere in archivio vecchie «certezze». Intanto, dobbiamo retrodatare, e di molto, all'agosto del 1990, la riunione in cui la Ndrangheta che parla con Cosa nostra (un summit tra Ndrangheta e Cosa nostra si era già svolto a Milano) comunica al suo “popolo” che la strategia comune in via di definizione prevede una offensiva mia vista prima contro lo Stato.

Antonino Fiume, l'autista del boss (“capo crimine”) reggino, Giuseppe De Stefano, mette a verbale che nell'estate del 1990 al Villaggio Blu Paradise, in provincia di Vibo Valentia, già si parlava di adesione alla strategia stragista di Cosa nostra. E una conferma l'abbiamo con la decisione di rivendicare gli attentati con la firma di Falange Armata. «Sul finire del 1990 la Ndrangheta utilizza la rivendicazione falangista in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile (Lodi, 11 aprile 1990), compiuto dal gruppo di fuoco lombardo dei Papalia perché l'educatore aveva scoperto i rapporti che lo stesso Papalia aveva intessuto con gli apparati di sicurezza». In conferenza stampa, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha ricordato che i pentiti attribuiscono a Antonio Papalia la decisione di rivendicare l'omicidio Mormile con la sigla Falange Armata: «L'indicazione di utilizzare la sigla in questione - sostiene il gip - veniva dai servizi di sicurezza, Il Papalia, infatti, era persona scarsamente scolarizzata e del tutto priva di strumenti culturali, pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo».

Quella presentata ieri in conferenza stampa dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, dal procuratore di Reggio Federico Cafiero De Raho e dagli investigatori della questura di Reggio guidata da Raffaele Grassi, è solo un frammento di una inchiesta che deve ancora esplorare nuovi territori. A partire dall'omicidio del sostituto procuratore generale presso la Cassazione, Antonino Scopelliti, che doveva sostenere l'accusa contro i capi mafia condannati all'ergastolo nel maxi processo a Cosa nostra. Le carte reggine lasciano intravedere anche scenari politici che maturano alla fine delle stragi del 93, cioè dell'inizio del '94 con il fallito attentato e contro i carabinieri. Ci sono pentiti che raccontano che ben prima della stagione delle leghe meridionali di Cosa nostra (Sicilia libera che si presentano alle elezioni provinciali di Palermo e Catania nell'autunno del 1993), c'era stata quella della Ndrangheta con Calabria libera. E i magistrati reggini vogliono capire perché la famosa riunione tra i movimenti indipendentisti e leghista meridionali a cui aderiscono Livio Gelli e lo stesso Vito Ciancimino si svolge a Lamezia Terme. E perché Totò Rina sceglie l'aula del Tribunale di Reggio Calabria per pronunciare il proclama contro i «tragediatori», i Lentini, Caselli, Violante. Insomma, l'inchiesta di Reggio sembra un trattore diesel. Cammina piano ma vuole arrivare molto lontano.

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni: "Strategia comune di 'ndrangheta e Cosa nostra per le stragi mafiose". Blitz condotto dalla Direzione distrettuale antimafia. In manette due elementi di vertice: sono tra i mandanti degli attacchi contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994. Le tre riunioni "preparatorie" e il racconto di Spatuzza su un fallito attentato a Roma, scrivono Fabio Tonacci ed Alessia Candita il 26 luglio 2017 su "La Repubblica". Se la procura di Reggio Calabria ha visto giusto, un pezzo di storia d'Italia va riscritto. Un pezzo delicatissimo e cruciale, a cavallo tra il 1993 e il 1994, quando l'assetto dei partiti fu rivoluzionato dalla discesa in campo di Forza Italia e nacque la Seconda Repubblica. Secondo i magistrati, infatti, non furono solo i Corleonesi a compiere le "stragi continentali", con le bombe in via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma: alla strategia terroristica di destabilizzazione dello Stato partecipò, su richiesta di Cosa Nostra, anche la 'ndrangheta, con tre attentati in Calabria che lasciarono a terra i due carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo (18 gennaio 1994) e ne ferirono gravemente altri due. L'inchiesta si chiama, non a caso, "'ndrangheta stragista". E' il frutto di un lavoro durato più di quattro anni, a cui si sono dedicati principalmente il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto procuratore della Dna Francesco Curcio, e i poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria. Sono stati riascoltati decine di pentiti e collaboratori di giustizia, tra cui Antonino Lo Giudice e Giovanni Brusca. Decisive per rileggere i fatti di quel biennio sono state le dichiarazioni rese in altri processi da Gaspare Spatuzza, protagonista degli anni di sangue. Questa mattina è stato arrestato nella sua casa di Melicucco Rocco Santo Filippone, 77 anni, a capo del mandamento tirrenico della 'ndrangheta ai tempi delle stragi e tuttora "vertice della cosca Filippone, collegata alla più potente famiglia dei Piromalli di Gioia Tauro, al quale è demandato il compito di curare le relazioni con gli altri capi clan". Sono in corso una ventina di perquisizioni in tutta la regione. Un mandato di arresto è stato notificato in carcere anche a Giuseppe Graviano, il capo del mandamento palermitano di Brancaccio detenuto a Terni e "coordinatore" delle stragi continentali. L'alleanza 'ndrangheta-Cosa Nostra per mettere in ginocchio lo Stato e sostituire la vecchia classe politica "divenuta inaffidabile" si consolidò attraverso loro due.

Fu il boss dei boss Totò Riina, secondo gli inquirenti, a decidere di chiedere alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia del terrore. Dopo il suo arresto nel gennaio 1993, seguito alle stragi di Capaci e Via D'Amelio, si tennero nell'autunno di quell'anno almeno tre importanti riunioni in Calabria tra mafiosi e 'ndranghetisti: una in un villaggio turistico in provincia di Vibo Valentia, cui parteciparono tutti i capi delle cosche; una a Melicucco (alla presenza forse dello stesso Giuseppe Graviano); l'ultima a Oppido Mamertina. Territorio dei clan Mancuso, dei Pesce, dei Mammoliti ma soprattutto dei Piromalli, quelli che più avevano stretto i rapporti con i Corleonesi. I calabresi decisero di aderire al piano dei siciliani. E per questo organizzarono tre attentati contro i carabinieri, cioè contro quell'istituzione dello Stato che aveva materialmente arrestato Totò Riina. Il primo, nella notte tra il 1 e il 2 dicembre 1993, quando il commando composto da Giuseppe Calabrò, Consolato Villani (entrambi già condannati) e Mimmo Lo Giudice (deceduto), tentarono di uccidere due carabinieri a Saracinello con un mitra M12, senza riuscirsi e senza neanche ferirli; il secondo, il 18 gennaio 1994, quando con la stessa arma furono ammazzati sulla Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, gli appuntati Fava e Garofalo; il terzo, l'agguato ai due carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, che non morirono ma rimasero gravemente feriti.

E' in questo contesto che si inseriscono le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, affiliato della famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano. Ai magistrati ha raccontato di un suo incontro con Giuseppe Graviano al cafè Doney di via Veneto, a Roma, durante il quale il boss gli fece capire che dovevano riprendere l'iniziativa, con qualcosa di sconvolgente. "Abbiamo il Paese in mano, si deve fare per dare il colpo di grazia", mette a verbale Spatuzza. "Graviano mi dice che dovevamo fare la nostra parte perché i calabresi si sono mossi uccidendo due carabinieri e anche noi dovevamo dare il nostro contributo. Il nostro compito era abbattere i carabinieri e quello era il luogo dove potevano essercene molti, almeno 100-150". Quel luogo era lo Stadio Olimpico di Roma. Il giorno fissato, secondo Spatuzza, era "il 22 gennaio 1994". Un sabato. La macchina, una Lancia Thema riempita con 120 kg di tritolo, 30 kg in più rispetto a quello usato in via D'Amelio. Ma il telecomando non funzionò. Nonostante lo stesso Spatuzza premette più volte il pulsante, l'auto (che era posizionata in viale dei Gladiatori, vicino alle camionette dei carabinieri) non esplose.

Nell'indagine "ndrangheta stragista", cui hanno partecipato anche il procuratore capo Federico Cafiero de Raho, il pm Antonio De Bernardo, i poliziotti del Servizio centrale operativo, dell'Antiterrorismo della polizia di Prevenzione, sono diversi "i fili" che vengono tirati dagli inquirenti. Nelle mille pagine dell'ordinanza cautelare, infatti, si ricostruisce l'intera strategia di destabilizzazione dello Stato, a cui erano interessati in quei primi anni Novanta non solo 'ndrangheta e Cosa nostra: vengono approfonditi i legami delle cosche con la massoneria, gli apparati deviati dei servizi segreti (possibili ispiratori della strategia stragista) e l'appoggio che le mafie offrirono alle leghe meridionali. Emergono anche gli interessi della galassia dell'eversione nera e l'influenza che tutto ciò ebbe sul nascente assetto politico dei partiti. "Sullo sfondo delle stragi - scrivono i magistrati - appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2 ancora in cerca di rivincite".

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni contro la guida comune di 'ndrangheta e mafia. L'inchiesta di Dda, Ros e Sco, anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco ai carabinieri fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Tra gli arrestati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'inchiesta anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco all'Arma a cavallo fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, in una fase delicatissima della storia della Repubblica italiana: il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. In territorio reggino le aggressioni ai carabinieri furono tre, dal dicembre 1993 al febbraio del 1994, con un bilancio di due morti (Fava e Garofalo) e due feriti gravi (Musicò e Serra). Il passaggio successivo avrebbe dovuto essere ancora più devastante con la strage dello stadio Olimpico a Roma, fallita per un malfunzionamento del telecomando. Fra le tre richieste di arresto il nome più famoso è quello di Giuseppe Graviano, palermitano di 53 anni. Il mafioso di Brancaccio, insieme al fratello maggiore Filippo e all'affiliato Gaspare Spatuzza, sono da anni al centro delle inchieste che cercano di fare luce sulla stagione delle stragi. Della sua statura criminale non è lecito dubitare. Gli indagati calabresi (Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio), invece, sono meno conosciuti, nonostante la lunga anzianità di servizio. Rocco Santo Filippone, 77 anni, è nato ad Anoia, un paesino di 2 mila persone nell'entroterra di Rosarno confinante con Melicucco dove Filippone è stato arrestato. È la culla della 'ndrangheta, la piana di Gioia Tauro, dove le affinità strutturali fra crimine calabrese e mafia siciliana dei feudi sono assolute. Il volto contadino di questa 'ndrangheta non deve ingannare. I clan della Piana sono in prima linea quando si tratta di rapporti con la politica e di esportazione dell'impresa mafiosa verso il nord. Negli anni Settanta, il trentenne Filippone si fa strada nelle gerarchie partendo dalla guardiania di un terreno del Bosco in contrada Acquabianca. Il Bosco è la grande zona verde di ulivi e agrumeti fra Rosarno e Gioia Tauro dove il governo Colombo, a seguito dei Moti di Reggio del 1970-1971, ha deciso di impiantare il quinto centro siderurgico. Filippone si trova coinvolto come mediatore nella principale saga criminale di quel periodo. È la faida di Cittanova fra il clan Facchineri, già sbarcato nella capitale dove ha stretto rapporti con il cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, e il gruppo rivale Gullace-Raso-Albanese. La furia dello scontro è però inarrestabile. Ci saranno oltre 30 morti. Nel frattempo, le vicende politiche si evolvono. Il centro siderurgico viene abbandonato per la crisi dell'acciaio e sostituito con il progetto del porto di Gioia Tauro sul quale presiedono gli uomini della famiglia Piromalli, la cosca più potente della zona, se non la più potente in assoluto. Con il beneplacito dei re della Piana Filippone organizza il suo gruppo che controlla l'area di Cinquefrondi con i Bianchino e i Petullà e si federa con i Bellocco di Rosarno. È una cosca satellite, non di primo piano, una delle tante che reggono quel territorio con una dittatura feroce e che, come dimostrano gli arresti di un mese fa ordinati dalla Procura di Roma, sbarca il lunario con il traffico di droga. Il dinamismo di Filippone si esercita anche attraverso i nipoti, figli della sorella che vivono a Reggio. Sono Giuseppe e Francesco Calabrò. Il primo diventa un pistolero: è lui che aprirà il fuoco sui carabinieri Fava e Garofalo. Il secondo si dà all'edilizia insieme al primo cugino, Giovanni detto il marchese, e finirà sepolto con la sua macchina in fondo al porto di Reggio. Di Filippone non si avranno tracce fino al 2011 quando l'operazione Artù della Dda di Reggio, guidata al tempo da Giuseppe Pignatone, manda in carcere un gruppo di 'ndranghetisti che avevano tentato di cambiare un certificato di deposito falso da 870 milioni di dollari al Credito Svizzero. Filippone viene arrestato e poi rilasciato. Il processo è trasferito a Bologna per competenza territoriale, visto che il consorzio finanziario-criminale aveva centro in Emilia. Alla fine del 2016 ci sono stati i rinvii a giudizio, con Filippone a piede libero. Nella riunione plenaria delle 'ndrine all'hotel Sayonara, quando i mafiosi calabresi decisero di ritirarsi dalla strategia stragista, Filippone avrebbe svolto un ruolo di tipo logistico ricevendo i siciliani sbarcati in Calabria per discutere con i colleghi della 'ndrangheta l'attacco allo Stato. La parte qualificante dell'inchiesta sta però nei contatti con il mondo dell'eversione unificata fra massoneria segreta (loggia P2), servizi di informazione e quell'eversione nera che, dagli ordinovisti fino alla Falange Armata, prese la laurea proprio con i Moti di Reggio del 1970 e divenne, a braccetto con la 'ndrangheta, un interlocutore di spessore per chi desiderava pregiudicare il processo democratico nella fase della strategia della tensione. È questa la cosiddetta componente riservata della 'ndrangheta dove i confini fra criminali e uomini dello Stato sono troppo spesso spariti. L'operazione della Dda di Reggio, da questo punto di vista, è ancora incompleta, come gli stessi magistrati lasciano trapelare. Per mettere le mani sui traditori, gli uomini dell'intelligence che hanno aiutato i criminali a insanguinare l'Italia, si rimanda a una fase successiva dell'indagine.

Strategia comune 'ndrangheta e mafia, l'atto di accusa dei giudici. Dopo il blitz dell'Antimafia che ha portato agli arresti degli organizzatori degli omicidi dei carabinieri del '94, ecco la ricostruzione degli investigatori, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'ordinanza di custodia cautelare che accusa Giuseppe Graviano, Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio, di 45 anni, inizia la sua ricostruzione dalla pagina oscura dei tre assalti ai carabinieri nella zona di Reggio fra dicembre 1993 e febbraio 1994. Questa vicenda è stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale firmato dall'allora aggiunto Gianfranco Donadio. Le dichiarazioni del killer dei carabinieri, Giuseppe Calabrò, incaricato dallo zio Rocco Filippone, rappresentano una sostituzione del movente tipica dei depistaggi. Calabrò disse che Fava e Garofalo erano stati uccisi perché seguivano l'automobile carica di armi di Calabrò, guidata da Consolato Villani, imparentato con la famiglia Lo Giudice, al tempo minorenne e oggi pentito. In realtà, le tre aggressioni condotte in quaranta giorni segnalano il coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista di Cosa Nostra che aveva colpito a Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e Velabro), di Firenze (via dei Georgofili) e di Milano (via Palestro).

I Graviano di Brancaccio erano già legati per affari di droga alle 'ndrine della Tirrenica e chiesero ai calabresi di partecipare alle stragi volute da Totò Riina in modo da “garantire e realizzare i desiderata di Cosa Nostra” nel contesto del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica con le elezioni fissate il 28 marzo 1994 e la discesa in campo di Silvio Berlusconi che in Calabria farà eleggere Amedeo Matacena junior, primula rossa della latitanza a Dubai dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Bisognava sostituire, dicono i magistrati: “una vecchia ed ormai inaffidabile classe politica con una nuova, diretta emanazione delle mafie”. E aggiungono: “i tre delitti, nella la loro apparente incomprensibilità, come si vedrà, avevano dei tratti e delle tracce comuni, presentavano delle simmetrie tali, da indurre a ritenere, ragionevolmente, che i loro autori non agissero a caso o per sanguinaria imperizia, ma, piuttosto, seguissero un copione ben studiato, un preciso cliché, che, per la verità, avrebbe potuto consentire, già all'epoca dei fatti, a chi indagava su quelle vicende, di poterle ricondurre ad un medesimo disegno criminale di stampo mafioso/ terroristico”. E più oltre: “Sia l'opinione pubblica, sia la classe dirigente del paese, sia gli appartenenti all'Arma, dovevano intendere che il solo fatto di indossare una divisa rappresentava un rischio che trasformava il militare in un bersaglio. Ed è qui, proprio qui, attraversando questa linea di confine, che si passa dalla logica criminale a quella terroristica. E venendo ad un episodio più risalente nel tempo, in questa logica terroristica, come sarà poi analizzato, a dimostrazione dell'ampiezza del disegno criminale di cui ci si occupa, si poneva, anche, l'omicidio dell'Ispettore di PS Giovanni Lizzio in servizio presso la Questura di Catania. Tale delitto avvenne il 27.7.1992 a Catania per mano di sicari della famiglia Santapaola che così, all'epoca, intesero aderire alla richiesta dei Corleonesi di attacco frontale allo Stato”.

“L'elaborazione di tale disegno eversivo (servente rispetto a quello "politico") manifestò i suoi primi segnali di esistenza ben prima dell'inizio della cd stagione stragista in un periodo che può essere ricompreso fra due eventi determinanti nella presente ricostruzione, e cioè fra la prima rivendicazione ( avvenuta nell'autunno del 90) a nome delle sedicente organizzazione eversiva "Falange Armata", avvenuta in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile, delitto consumato vicino Milano, nell'Aprile del 1990, per mano di sicari della potentissima cosca calabro-lombarda dei Papalia che su richiesta di non identificati esponenti dei servizi di sicurezza utilizzò quella sigla per rivendicare il delitto, e le riunioni di Enna, dell'estate-autunno 1991, in cui i vertici di Cosa Nostra iniziarono a elaborare la strategia stragista programmando che le rivendicazioni dei futuri attacchi allo Stato sarebbero, pure, state eseguite con la ancora sostanzialmente sconosciuta sigla "Falange Armata". Giova, ribadire nuovamente, e sottolineare che, anche in relazione agli episodi oggetto della presente trattazione risulta la rivendicazione "Falange Armata"... la stessa sigla Falange Armata — poi utilizzata per rivendicare gli attentati materialmente eseguiti dalle mafie - è stata ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose... il fatto che lo stesso Paolo Fulci, già direttore del Cesis (proveniente però da una carriere diversa, quella diplomatica) in quegli anni fu vittima (precisamente in un periodo immediatamente successivo al disvelamento della struttura Gladio, ma precedente alla stagione stragista) di gravissime minacce da parte di soggetti riconducibili ai servizi di sicurezza (e, in particolare, come vedremo, riconducibili alla cd VII Divisione del Sismi — struttura che istituzionalmente si era occupata di organizzare e sovraintendere a stay behind e, quindi alla struttura Gladio)”.

“Per il numero e lo spessore dei soggetti intervenuti quella di Nicotera Marina fu sicuramente la più importante e tuttavia, altri incontri (che per comodità possiamo definire "satellite") su questo tema messo sul tavolo dai corleonesi, si svolsero in Calabria come risulta da numerose dichiarazioni acquisite sul punto. Ed è importante dire che in nessuna delle riunioni in questioni la `Ndrangheta prese, ufficialmente, una posizione netta. Risulta che non vi fu mai, all'interno della `Ndrangheta unitaria, una unanimità di vedute e che almeno all'epoca ed ufficialmente (parliamo di un periodo che va dal 1990, passando per il 1991- in coincidenza, sostanzialmente, con la riunione di Enna di cui si è detto, fino all'estate del 1992, cioè subito dopo la strage di Via D'Amelio, epoca in cui si svolse l'incontro plenario di Nicotera Marina) venne in sostanza presa - salve alcune eccezioni che poi vedremo - una posizione attendista. Insomma la `Ndrangheta nel suo complesso, intesa come forza unitaria, cioè, per motivi tattici, sia esterni (non si poteva opporre un rifiuto agli amici siciliani) che interni (si è detto che non vi era unanimità di vedute) fece intendere ai siciliani di essere pronta a collaborare se specificamente richiesta e se necessario, senza, però, attivarsi motu proprio. La partita, in realtà, come vedremo, si giocava sottobanco. Infatti, nel complessivo attendismo (quando non scetticismo) della `Ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti, invece, quelle che ruotavano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri - che, non a caso, avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata ( che in Italia aveva un nome e cognome, certificato da sentenze e da atti di di Commissioni Parlamentari d'Inchiesta : Licio Gelli ) —si muovevano nell'ombra, all'insaputa del resto della consorteria. Davano rassicurazioni agli amici siciliani fino a organizzare la riunione conclusiva di Melicucco a ridosso degli agguati ai Carabinieri, in cui si dava il via operativo agli attacchi armati per cui è richiesta cautelare”.

Madre contro figlio. Il ruolo di Filippone Maria in relazione alla ritrattazione di Calabrò Giuseppe. La correttezza dell'assunto appena riportato trova conferma nel contenuto della nota informativa della locale Squadra Mobile, del 15 maggio 2015 (successivamente integrate con ulteriori note informative di completamento e rettifica parziale, che si allegano alla presente) che, ad evasione di specifica delega verbale di questa Direzione Distrettuale Antimafia, ha collazionato e documentato alcuni specifici passaggi dichiarativi, registrati in sede di intercettazione telefonica e ambientale audio-video in carcere, riferibili a CALABRO' Giuseppe54 (operazioni autorizzate nell'ambito del presente procedimento penale, giusta R.I.T. 262/14 D.D.A., in data 10.02.2014). Giova precisare, peraltro, che nel corso della disposta attività di intercettazione, gli operatori di Polizia Giudiziaria hanno avuto modo di appurare fattivamente tutta una serie di criptici rimandi lessicali caratterizzati spesso da toni allusivi che, interfacciati con le risultanze probatorie già evidenziate nel corpo degli ulteriori atti di indagine, hanno consentito di mettere in evidenza le evidenti pressioni esercitate dai familiari del CALABRO', ed in particolare dalla di lui madre FILIPPONE Maria Concetta, al fine di costringere lo stesso a ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in merito ai fatti per cui si procede, interamente ricavabili dal verbale di trascrizione dell'interrogatorio dal predetto reso in data 07 maggio 2014 presso la Casa Circondariale di Tempio Pausania (Olbia), in qualità di testimone. Tale programma delittuoso non risulta in alcun modo privo di rilevanza per il sol fatto che la prima missiva di timida ritrattazione sia stata inviata a questo Ufficio in data 10 maggio 2014 e, quindi, in data antecedente alle conversazioni di seguito riportate. Tale primo accenno del CALABRO' alla sua intenzione di ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in data 7 maggio 2014 va letto, invero, alla luce della precedente missiva dell'8 maggio 2014 in cui il CALABRO' aveva comunicato a questo Ufficio di voler confermare e rafforzare il suo contributo narrativo a favore della condivisa strategia stragista di `Ndrangheta e Cosa Nostra. La ritrattazione del 10 maggio 2014 è, quindi, il frutto della fortissima tensione emotiva che vive il CALABRO' nel periodo immediatamente successivo alle dichiarazioni gravemente accusatorie rese a questo Ufficio. Appare fisiologico, invero, che il predetto dichiarante oscilli tra i propositi collaborativi e il timore di coinvolgere i propri prossimi congiunti in vicende di elevatissima rilevanza penale: tale assunto trova conferma letterale nelle parole che il CALABRO' pronuncia in data 8 maggio 2014: "Sono cosciente che, al termine delle mie affermazioni, molti miei congiunti saranno a rischio e, qualora ciò non dovesse avvenire, comunque tutti si allontaneranno da me rinnegando il ‘grado di parentela'. Appare evidente che il dichiarante senta un peso enorme sulle proprie spalle, che si traduce in un proposito collaborativo ancor più forte il giorno successivo alle dirompenti dichiarazioni del 7 maggio 2014 per poi trasformarsi dopo qualche giorno in un ritorno al desiderio di non provocare ricadute pesantissime sui soggetti chiamati in correità. Solo quando si registra l'intervento minaccioso e deciso della madre, FILIPPONE Maria Concetta, il detenuto, come di seguito documentato, abbandona definitivamente i suoi propositi collaborativi a favore dell'Autorità Giudiziaria — destinati a fornire ulteriori elementi di prova utili nell'ambito della presente indagine — per adottare nuovamente la scelta di scontare il lungo periodo di detenzione ancora residuo nel più assoluto silenzio. La palese condotta intimidatoria consumata da FILIPPONE Maria Concetta è da ricondurre in primo luogo alla voluta e programmata delegittimazione processuale del CALABRO', in grado di pregiudicare il corretto inquadramento delle complesse dinamiche criminali sottostanti alle azioni delittuose consumate in provincia di Reggio Calabria ai danni di appartenenti all'Arma dei Carabinieri e, quindi, di individuare nella figura del fratello FILIPPONE Rocco Santo e nel nipote FILIPPONE Antonino le ulteriori figure a cui riconoscere un ruolo di assoluto rilievo causale nella consumazione dei gravissimi delitti oggetto di contestazione in questa sede... Sin dal suo esordio "tutto dietro…di ritornare tutto indietro.." la donna condiziona le decisioni operative del figlio, esortandolo a tenere fede — nell'interesse comune, quale elegante accezione della comune appartenenza alla organizzazione di tipo mafioso — "fede... fedeltà...fedeltà", a comportarsi stoicamente in un certo modo: "bocca chiusa... e non sbagli mai".

Stragi di mafia, l'altra verità sui veri piani della 'ndrangheta. La malavita organizzata calabrese insieme a Cosa Nostra siciliana nell'attacco allo Stato. Ma solo per pochi mesi: poi gli interessi e le strategie sono cambiate. Ecco cosa svela un'inchiesta che riscrive il passaggio alla Seconda Repubblica, scrive Gianfrancesco Turano il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Aggiornamento del 26 luglio 2017. La strategia stragista della ’ndrangheta dura appena due mesi: dicembre 1993, gennaio 1994. Il 2 febbraio è tutto finito». Parla Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Non c’è altro che il magistrato possa dire riguardo all’inchiesta di importanza colossale sui tre attentati contro i carabinieri risalenti a 23 anni fa che, secondo quanto risulta all’Espresso, sta per giungere alla conclusione. Partita come una sorta di “cold case” dalle intuizioni di investigatori etichettati come visionari ed emarginati per la loro determinazione ad andare in fondo, questa indagine è diventata la chiave d’accesso ai misteri d’Italia nei sessanta giorni che portano alla Seconda Repubblica. È una rilettura che investirà posizioni di potere e personaggi rimasti attivi per decenni e, fino a oggi, nella zona d’ombra dove i confini fra crimine organizzato e istituzioni non esistono più per una tragica tradizione del potere in Italia iniziata ai tempi della strategia della tensione, quasi mezzo secolo fa. Il lavoro che ha preso forma a Reggio è frutto di un impegno collettivo durato anni fra Calabria e Sicilia perché alla fine si è capito che la distinzione fra ’ndrangheta e Cosa nostra ha senso solo a livello territoriale o mandamentale e non nella componente riservata, quella legata con filo diretto alla politica in una fase di passaggio delicatissima quale è stata la lunga e cruenta transizione dalla Prima Repubblica, fra discese in campo e spinte autonomistiche estese dal Lombardo-Veneto alle due regioni più a sud d’Italia. Sui nomi interessati dall’inchiesta il riserbo è ovviamente assoluto. Ma il quadro può essere delineato ricostruendo le attività di magistrati come Vincenzo Macrì e Gianfranco Donadio, ex aggiunti della Dna, o come Francesco Curcio, attuale sostituto alla direzione nazionale antimafia, e Giuseppe Lombardo, pm reggino titolare dei fascicoli più delicati del rapporto ’ndrangheta-politica confluiti da poco nel maxiprocesso battezzato Gotha. Tassello dopo tassello le parole dei pentiti, fra i quali Gaspare Spatuzza, Consolato Villani e suo cugino Antonino “il Nano” lo Giudice, potrebbero comporre lo scenario chiaro e definitivo nel quale la cosiddetta ’ndrangheta ha agito come tecnostruttura terroristica, per citare un’espressione di Donadio, in compartecipazione con gli apparati dello Stato.

Il primo attentato avviene il 2 dicembre 1993. Dal punto di vista criminale, è un fallimento. Il commando apre il fuoco contro una pattuglia di carabinieri in servizio nei quartieri della periferia sud di Reggio Calabria ma non centra il bersaglio. Il fatto rimane nelle cronache locali.

Il secondo episodio è un salto di qualità terrificante sotto il profilo militare. Il 18 gennaio 1994, poco dopo le feste natalizie, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo, 33 anni di Scicli, sposato con due figli, e Antonino Fava, 36 anni di Taurianova, capoequipaggio, anch’egli sposato con due figli, scortano fino al tribunale di Palmi un magistrato in arrivo dalla Sicilia. Attendono di riaccompagnarlo ma l’incontro negli uffici giudiziari si prolunga e la centrale operativa manda l’Alfa 75 dell’Arma in pattugliamento sull’autostrada. Una decina di chilometri a sud di Palmi, in un tratto in discesa e con varie gallerie fra gli svincoli di Bagnara e Scilla, i carabinieri notano un’auto sospetta. Prima che possano intervenire, vengono affiancati da un’altra macchina e investiti lateralmente da decine di colpi di Beretta M12, un’arma automatica. L’Alfa 75 finisce contro il guard rail. Gli assassini scendono e sparano ancora, stavolta frontalmente, dal parabrezza. Infieriscono con una valanga di piombo a compensazione del fallimento del 2 dicembre. Una telefonata rivendica l’azione. Si saprà dopo che a chiamare è Villani, autista del commando. Pentito del clan De Stefano, Villani ha dichiarato al processo Meta otto mesi fa: «Dovevamo fare come la Uno bianca». Il riferimento è alla catena di delitti commessi dai fratelli Savi, poliziotti, a Bologna e dintorni. Il massacro dell’A3 provoca un effetto enorme. A Reggio arriva il comandante dell’Arma Luigi Federici e annuncia la mobilitazione generale. Il cronista di Repubblica scrive senza mezzi termini che il massacro dell’autostrada è «il tassello di un disegno criminale terroristico-mafioso». Ci vorranno anni perché la definizione trovi riscontro giudiziario. E lo trova in Sicilia nell’autunno 2009, grazie alle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza a Caltanissetta.

«Spatuzza aveva notizie frammentarie sulle operazioni contro i carabinieri desunte da colloqui con il suo boss Graviano», dice Antonio Ingroia che da pubblico ministero ha raccolto le parole del pentito insieme al collega Nino Di Matteo e che oggi da avvocato è difensore di parte civile delle vedove di Fava e Garofalo. «Sa però che il duplice omicidio dell’autostrada fa parte di una reazione concertata contro l’Arma». Dopo il massacro di Scilla Graviano dice a Spatuzza che i calabresi si erano mossi e che adesso toccava a loro. Inizia così la preparazione della strage dell’Olimpico, dove un’autobomba deve esplodere in una domenica di calcio vicino a un pullman dei carabinieri. Una prima versione, definita dal procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, fissa l’attentato al 31 ottobre 1993 durante Lazio-Udinese, dunque prima delle operazioni in Calabria. Successive indagini spostano la data al 9 gennaio 1994 (Roma-Genoa) e infine al 23 gennaio (Roma-Udinese). L’attentato non va a segno per un malfunzionamento del telecomando dell’autobomba. L’operazione non sarà ripetuta perché i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati il 27 gennaio 1994, quattro giorni dopo la partita di Roma e circa un anno dopo Totò Riina. Il 26 gennaio 1994, mercoledì, Silvio Berlusconi annuncia in televisione la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito-azienda organizzato in pochi mesi da Marcello Dell’Utri.

Ma in Calabria non è ancora finita. Alle 20.35 del primo di febbraio 1994 una pattuglia in servizio sulla tangenziale di Reggio, nei pressi dello svincolo di Arangea, nota una macchina ferma. È l’ora di punta e il veicolo in sosta è un rischio per la circolazione. I militari, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, scendono per un controllo e vengono accolti da una tempesta di proiettili: fucile a canne mozze e machine pistol Beretta M12, la stessa dei delitti precedenti. Feriti in modo grave, i carabinieri si salvano soltanto perché i killer, a differenza di quanto accaduto a gennaio sull’autostrada semideserta, non possono fermarsi per il colpo di grazia. Rischiano di finire incastrati nel traffico. I due soldati si salveranno. L’Arma non tarda a reagire. Il 5 maggio 1994 vengono arrestati per gli assalti ai carabinieri Giuseppe Calabrò, Consolato Villani, ancora minorenne, e i presunti armieri. Calabrò e Villani incominciano a collaborare. In sostanza, confessano. Hanno sparato loro ed erano solo loro due quella notte d’inverno sull’autostrada: Villani guidava, Calabrò sparava. Ma operano una sostituzione del movente che condizionerà l’esito del processo: l’assassinio di Fava e Garofalo sarebbe stata la reazione d’impulso per evitare un controllo a un’altra auto di mafiosi che trasportava un carico di armi da guerra prelevate a Gioia Tauro. Gli investigatori seguono la pista del M12. Si scoprirà che la mitraglietta è un’arma prodotta per esigenze sceniche del cinema o della tv, senza marchio né matricola. Esce dalla catena di montaggio devitalizzata e viene rimessa in condizioni di normale funzionamento senza troppo sforzo dagli armieri delle ’ndrine. Pochi mesi dopo il massacro, gli uomini della Dia di Milano trovano anche il deposito dal quale provengono le armi sceniche. È in un capannone in Val Trompia nel bresciano, nel distretto produttivo della Beretta. Poi la traccia viene abbandonata. Le acque si calmano, salvo gli ultimi fuochi della banda della Uno bianca che arriva al capolinea con gli arresti di Roberto e Fabio Savi nel mese di novembre. Il 7 dicembre 1994 viene inaugurata a Reggio la scuola allievi carabinieri, intitolata a Fava e Garofalo. Le due vedove ritirano la medaglia d’oro al valor militare. Oltre quindici anni dopo sarà Donadio a riprendere la pista delle armi sceniche con l’aiuto di Francesco Piantoni e Roberto De Martino, i colleghi della procura di Brescia che si sono occupati della strage di piazza della Loggia.

Villani ha 17 anni. È un debuttante del crimine ma la sua famiglia ha solide tradizioni di ’ndrangheta ed è imparentata con i Lo Giudice, un clan di Reggio nord schierato con i Condello-Imerti-Serraino e contro i De Stefano-Tegano-Libri nella guerra da 700 morti finita nell’estate 1991, a ridosso dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Calabrò, che al tempo ha 22 anni, ha invece già una storia di sangue alle spalle. Si propone come uomo d’armi alla cosca di Reggio sud Ficara-Latella, schierata con il clan De Stefano-Tegano-Libri nella guerra. Viene accettato con riluttanza perché ha un profilo poco ortodosso. Gli piace esibire la sua mafiosità. Ama ’ndranghetiare, come si dice in Calabria. In compenso ha il grilletto facile tanto che viene soprannominato “Scacciapensieri” per la leggerezza d’animo con la quale esegue gli incarichi dei capi. Senza troppe domande ha sparato quindici colpi in pieno giorno e in centro per ammazzare un vigile urbano, Giuseppe Marino. Qualche giorno prima Marino aveva osato multare l’auto di un boss per divieto d’accesso alla zona pedonale del corso Garibaldi. La cosca tiene Calabrò a distanza di sicurezza perché lo considera instabile, come il fratello Francesco, coinvolto anch’egli nell’assalto ai carabinieri, pentito e subito bollato come psicopatico da una perizia ad hoc. Quando il processo inizia, Giuseppe Calabrò collabora. Il tribunale decide che è credibile quando si accusa ma non è credibile quando accusa gli altri. Il verdetto (febbraio 1997) condanna all’ergastolo il killer mentre Villani viene affidato al giudice del tribunale dei minori Domenico Santoro, poi gip nel processo Mammasantissima. Nel 1998 Calabrò viene spedito agli arresti domiciliari a Bologna. Lì evade e in mezzo alla folla del Natale ammazza due bangladeshi che, secondo lui, avevano stuprato la sua ragazza due anni prima. Il processo chiarirà che nel 1996 le vittime non erano neppure in Italia. Condannato all’ergastolo, stavolta in via definitiva, nel 2011 Calabrò pubblica il libro-memoriale “Una scia di sangue” con la prefazione di uno dei giudici più potenti del tribunale di Reggio, Giuseppe Tuccio, allora garante dei diritti dei detenuti su nomina del governatore regionale Giuseppe Scopelliti. Quando esce il libro di Calabrò, il fratello Francesco, che nel frattempo è diventato imprenditore, è già scomparso da cinque anni (2006). I suoi resti saranno trovati ad aprile del 2013, dentro una Smart gialla affondata nel porto di Reggio. Anche il primo cugino di Giuseppe Calabrò, Giovanni detto “il marchese”, diventerà un imprenditore, ma di notorietà internazionale con appoggi in Russia, Kazakhistan e un rapporto diretto con il presidente turco Tayyip Erdogan. Amico del governatore della Liguria Giovanni Toti e debitore del Comune di Roma per 36 milioni di euro, Calabrò ha fatto parlare di sé l’anno scorso grazie al tentato acquisto del Genoa calcio da Enrico Preziosi, prima di essere condannato in secondo grado a sei anni per la bancarotta dell’Algol dal tribunale di Busto Arsizio nell’aprile del 2016.

A cavallo fra il 1993 e il 1994 matura un mutamento politico di grande importanza a livello nazionale. È in arrivo Forza Italia, che troverà in Calabria il suo coordinatore in Amedeo Matacena junior, oggi latitante a Dubai per sfuggire a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e per le sue frequentazioni con il clan De Stefano, ribadite di recente in aula dal pentito Nino Fiume. Di qua e di là dello Stretto, stanno crescendo le proposte autonomistico-secessioniste con le Leghe del Sud. L’ipotesi investigativa è che l’attacco all’Arma sia inquadrato in un’ipotesi di autonomismo eversivo. A decidere la strategia è una commissione ristretta dove i siciliani, autori delle stragi del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e del 1993 (Roma, Firenze, Milano) concordano la linea con i rappresentanti dei due principali clan calabresi: i De Stefano di Reggio e i Piromalli di Gioia Tauro. Dopo gli assalti ai carabinieri, però, le famiglie della ’ndrangheta chiedono una riunione plenaria di tutta la provincia nel luogo dove per tradizione si svolge questo tipo di summit: il santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte. Il dissenso delle altre famiglie verso la strategia stragista è netto ed esplicito. La ’ndrangheta ha interesse a crescere e a prosperare economicamente, non a guerreggiare con la Repubblica italiana. Bisogna smetterla subito di attaccare l’Arma per rientrare nei ranghi e amministrare il nuovo potere all’orizzonte dall’interno, come la vera mafia ha sempre fatto, individuando referenti politici nell’ordine emerso dalle elezioni politiche del 28 marzo 1994 dove, fra gli altri, è eletto anche Matacena. La mozione di maggioranza è accolta, e forse con sollievo, anche da parte di chi aveva iniziato a seguire i siciliani sulla via dello scontro totale.

I Piromalli e i De Stefano non sono gente nuova al protagonismo politico. Già nel 1970, con i Moti per Reggio capoluogo, hanno strumentalizzato la rivolta popolare in parallelo con l’estrema destra del golpista Junio Valerio Borghese (Fronte nazionale) e del fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Ma anche lì hanno saputo tirarsi indietro quando i finanziamenti statali sono piovuti su Reggio città e su Gioia Tauro per il centro siderurgico, poi diventato il porto. Dal febbraio 1994, il crimine calabrese tornerà sott’acqua per diventare in pochi anni l’organizzazione più ricca e potente del mondo. Che poi sia davvero ’ndrangheta è una questione nominalistica. Il boss Pasquale Condello “il Supremo”, al momento del suo arresto nel 2008 ha dichiarato: «Chiamatela come volete: ’ndrangheta, se siamo in Calabria. Ma se eravamo in Svezia si chiamava in un altro modo». E Giuseppe De Stefano, erede al 41 bis del clan reggino protagonista dei Moti e di due guerre da mille morti, ha affermato in udienza al processo Meta: «Noi non siamo ’ndrangheta». E non voleva dire: siamo pacifici cittadini. Intendeva: siamo ben altro, siamo molto di più.

Il caso dei carabinieri rimane chiuso dalla sentenza del 1998 fino al 2011, quando in Dna lavora come aggiunto Macrì, poi sostituito dall’altro reggino Alberto Cisterna. Macrì è il primo e forse il più acuto analista dei legami fra la ’ndrangheta e lo Stato. È lui a inquadrare la figura di Calabrò nel contesto dei legami fra la cosiddetta ’ndrangheta e gli apparati dello Stato. In questo ambito sta già prendendo forma l’intuizione investigativa di Donadio, anch’egli alla Dna, su “Faccia da mostro”, il poliziotto coinvolto nell’omicidio del collega Antonino Agostino. Prima delle ferie estive del 2012, l’aggiunto di Reggio Michele Prestipino manda in Dna un’informativa con una lettera anonima che inquadra gli assalti ai carabinieri del 1993-1994 in una riedizione dell’eterna strategia della tensione italiana. Il 18 settembre 2012 un ex compagno di cella di Calabrò dice che la lettera è del killer. L’11 ottobre Donadio interroga in carcere Villani che, alla fine di un colloquio senza sostanza, mentre il magistrato sta uscendo dalla stanza, lo ferma: «Dottore, non ve ne andate». E racconta i fatti allineandosi ai contenuti della lettera. Calabrò viene interrogato a Bollate il 27 novembre 2012. Esordisce dicendo a Donadio: «So perché mi avete contattato». Conferma il contenuto della lettera, ammette che è sua ma si blocca quando sente parlare dei De Stefano.

Un terzo collaboratore entra in scena. È Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni (14 dicembre 2012) sono fondamentali per identificare Faccia di mostro ossia il poliziotto Giovanni Aiello, che si gode la pensione dello Stato a Montauro Lido, poco a nord di Soverato. Il Nano dice fra l’altro di essere in contatto con il capocentro del Sismi (i servizi militari) Massimo Stellato e che Aiello gli è stato presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, uomo della Dia arrestato a dicembre del 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in secondo grado a 10 anni nel maggio del 2016 insieme a Luciano Lo Giudice, fratello di Nino il Nano. Consapevole del rischio che corre, Lo Giudice si dà malato al colloquio successivo, fissato prima di Natale, poi scrive alcuni memoriali dove calunnia Donadio, Cisterna, Prestipino, lo stesso procuratore capo del tempo Giuseppe Pignatone, e a giugno 2013 scompare dalla località delle Marche in cui vive sotto il programma di protezione. Il caos organizzato di Lo Giudice ottiene risultati notevoli. Il 6 settembre 2013, il nuovo procuratore capo della Dna, Francesco Roberti, entrato in carica da un mese, ritira le deleghe a Donadio che, sotto procedimento disciplinare, si trasferisce alla Commissione Moro. Ma l’indagine procede a Reggio con Cafiero e Lombardo che lavorano su un arco temporale molto ampio. I primi risultati si vedono nel 2016, quando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati come Matacena per concorso esterno, tornano in carcere con nuove accuse che non configurano un ne bis in idem. Lo stesso accade con il fascicolo sulle stragi dei carabinieri. Condannati gli esecutori materiali, l’inchiesta riparte dai mandanti e dai moventi reali, molto diversi dalle follie individuali di un pistolero. «Siamo stati manipolati», conclude il pentito Villani. Stavolta sono i traditori dentro lo Stato a tremare.

La 'ndrangheta stragista che voleva attaccare lo Stato. In carcere i boss Filippone e Graviano, mandanti dell'omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo. Quei delitti, svela la Dda, erano parte di una strategia mirata a destabilizzare l'Italia. Gli incontri con gli emissari di Riina e il sì dei clan al progetto di aggressione alla democrazia. Le rivelazioni "calabresi" di Spatuzza, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". Negli anni Novanta c’era un piano per destabilizzare l’Italia ma a portarlo avanti non è stata solo Cosa Nostra. Anche la ‘ndrangheta ha fatto la sua parte. Per questo motivo, questa mattina la Squadra Mobile di Reggio Calabria ha stretto le manette ai polsi di due elementi di spicco dei clan calabresi e siciliani. In carcere è finito Rocco Santo Filippone, elemento organico al potentissimo clan Piromalli di Gioia Tauro, ed è stata notificata una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere a Giuseppe Graviano, capomafia del mandamento di Brancaccio, Palermo. Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo della Dda di Reggio Calabria, sono loro i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo, trucidati nei pressi dello svincolo di Scilla il 18 gennaio 1994, e dei due agguati che nei giorni successivi sono quasi costati la vita ad altri quattro loro colleghi, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, feriti alla periferia sud di Reggio Calabria il 1 febbraio, e Vincenzo Pasqua e Salvo Ricciardo, rimasti miracolosamente illesi dopo l’attentato subito il 1 dicembre del ’93. Tutti delitti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore Lombardo insieme al sostituto della Dna, Francesco Curcio – che si inscrivono in una strategia di attacco allo Stato, che dopo i brutali attentati costati la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha continuato a mietere vittime anche fuori dalla Sicilia. E non solo a Firenze, Roma e Milano. C’è stata una tappa calabrese nella strategia degli “attentati continentali”, concordata dai vertici delle mafie tutte. Un piano funzionale alla costruzione dello Stato dei clan. Sono in corso di esecuzione anche numerose perquisizioni in diverse regioni d’Italia. Alle operazioni eseguite dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, dal Servizio Centrale Antiterrorismo e dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, partecipano anche i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella sala convegni della Questura di Reggio Calabria, alla presenza del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Franco Roberti dei magistrati inquirenti e degli investigatori. A oltre vent’anni di distanza dal brutale omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e dal ferimento rimasto senza perché dei loro quattro colleghi, si ricompone in un quadro inquietante quello che all’epoca fu considerato un delitto da balordi. Per arrivarci, i magistrati hanno ascoltato centinaia di boss, pentiti e non, hanno fatto sopralluoghi, cercato riscontri, incrociato informative. Perché fra le pieghe di indagini del passato, più di un’indicazione era già affiorata. Oggi però, tutti quegli elementi sparsi trovano unità in un quadro inquietante che tiene insieme le mafie tutte, pezzi deviati dei servizi, ambienti piduisti e galassia nera. Tutti responsabili – affermano i magistrati di Reggio Calabria – di aver tentato di sovvertire l’ordine repubblicano in Italia. Un piano che in Calabria è stato oggetto di almeno tre riunioni, la prima al villaggio turistico Sayonara di Nicotera, controllato dal clan Mancuso di Limbadi, legato a doppio filo al potentissimo casato mafioso dei Piromalli, le altre due a Oppido Mamertina. Al tavolo, c’erano i massimi esponenti dell’epoca della ‘ndrangheta calabrese e gli “emissari” siciliani di Totò Riina. Storicamente legato ai Piromalli, storico casato di ‘ndrangheta che vanta legami con la Sicilia fin dalle prime decadi del Novecento, il boss siciliano si era rivolto a loro per “convincere” i massimi vertici delle ‘ndrine ad aderire alla strategia degli attacchi continentali.

IL PROGETTO Questo tuttavia – emerge dall’indagine della Dda reggina – non era che un aspetto parziale di un piano ben più ampio e complesso, da maturare in più fasi, iniziato a maturare qualche anno prima. A svelarlo negli anni scorsi erano stati collaboratori di giustizia come Antonio Galliano e Pasquale Nucera, che avevano parlato ai magistrati del progetto delle mafie di «destabilizzare lo Stato». Un progetto cui la ‘ndrangheta non ha lavorato da sola.

«Parallelismo inquietante tra politica e strategia stragista». Il procuratore aggiunto di Reggio, Lombardo, durante la conferenza stampa sugli arresti di Filippone e Graviano. «Dopo la vittoria Forza Italia diventa il referente delle mafie». Curcio: «Vittime scelte perché simboli dello Stato». Roberti: «Con l’indagine si è aperto uno squarcio di verità importante per la giustizia, le vittime e la democrazia», scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". «Oggi collochiamo la ‘ndrangheta nel suo giusto ruolo». È soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. A poche ore dall’esecuzione dell’indagine “Ndrangheta stragista”, dalle sue parole traspare l’orgoglio per un’inchiesta complessa, da più parti osteggiata perché considerata “visionaria” o “romanzata” ma in cui tanto la Dda reggina, come la Procura nazionale antimafia, hanno sempre creduto. Un’inchiesta che oggi riscrive un pezzo della storia dell’Italia repubblicana. Non è vero, come per anni è stato da più parti sostenuto, che la ‘ndrangheta abbia detto no alle richieste di partecipazione alla strategia stragista. Al contrario, vi ha partecipato attivamente. E per una motivazione molto semplice. Quella lunga scia di sangue voleva essere prodromica a un mantenimento dell’influenza delle mafie tutte sullo scenario politico italiano. L’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e il tentato omicidio di altri quattro militari dell’Arma in quei tumultuosi anni Novanta dovevano essere un messaggio, o meglio parte di un messaggio. «Le vittime di quegli attentati non sono state scelte, al contrario di quanto successo in passato, perché avessero svolto una particolare indagine o avessero particolari meriti, ma perché - spiega il sostituto procuratore della Dna, Francesco Curcio - erano un simbolo dello Stato». E quello Stato, che all’epoca aveva il volto di una classe politica che proprio in quel momento cadeva sotto i colpi di Tangentopoli, per i clan era sempre stato “cosa loro”. E doveva continuare ad esserlo, nonostante i cambiamenti di facciata. «Uno degli aspetti più inquietanti di questa ricostruzione – dice al riguardo il procuratore aggiunto Lombardo - è la presenza di un parallelismo inquietante fra vicende politiche di quegli anni e strategia stragista». Le bombe e i morti degli anni delle stragi continentali, cui oggi si aggiungono anche gli attentati ai carabinieri in terra calabrese, non sono dunque stati semplicemente espressione della feroce reazione dei corleonesi all’arresto di Totò Riina. Per le mafie tutte – e questo è uno dei più importanti dati che emerge dall’inchiesta – erano funzionali ad un piano di lungo periodo. E che interessava tutti i clan che già da tempo avevano iniziato a parlarsi e a consorziarsi, soprattutto in territori di nuova colonizzazione come la Lombardia. Per non pestarsi i piedi vicendevolmente, lì i clan avevano iniziato a parlarsi. E in questo modo avevano capito di essere più forti insieme. Per questo, quando gli storici referenti istituzionali del loro dominio iniziano a venir meno è insieme che decidono di reagire. Si tratta di una strategia decisa ai massimi livelli. È stata definita in una serie di incontri, organizzati in Calabria e non solo, che hanno visto al tavolo i massimi vertici delle mafie. Ma soprattutto si tratta di una strategia che doveva rimanere segreta. Non a caso, molti di quegli omicidi e di quegli attentati sono stati firmati come “Falange armata”. E non a caso la base, i picciotti, i piccoli capi di ‘ndrangheta non ne hanno mai saputo nulla per scelta cosciente della direzione strategica dei clan. «La logica – spiega Lombardo - era quella di gestire un discorso di livello molto alto, dunque come aveva fatto Cosa Nostra, anche la ‘ndrangheta doveva mantenere il segreto su quale fosse stato il suo ruolo in quella stagione». Perché la “strage lenta” doveva rimanere segreta? In primo luogo, perché per essere efficace doveva provocare un diffuso sentimento di instabilità e paura, secondo perché solo in pochi, ben selezionati referenti dovevano essere in grado di cogliere la portata e il reale messaggio sotteso a quell’attacco. «Ci troviamo di fronte – dice Lombardo - a un’organizzazione criminale che tiene conto delle evoluzioni politiche, che aderisce prima ai movimenti autonomisti, fino alla riunione di Lamezia Terme del ’93, quindi abbandona il progetto autonomista nel momento in cui la nuova formazione politica, quindi Forza Italia diventa il referente di determinati ambienti e si avvia una stagione del tutto nuova». Gli attentati si fermano, in Italia torna la pace, le mafie sembrano ritirarsi in buon ordine. E non solo loro. Perché anche altri attori hanno partecipato alla strategia stragista. Per i magistrati, anche settori dei servizi di informazione un tempo legati a Gladio e al piano Stay behind, ben conosciuti e comodi in ambiente piduista, nei tumultuosi anni Novanta stavano vedendo crollare le fondamenta del loro potere. Il blocco sovietico si stava liquefacendo, gli assetti internazionali stavano cambiando, dunque anche le condizioni alla base del loro straordinario potere. Per questo, si ipotizza nell’inchiesta della Dda reggina, anche loro, insieme alla galassia dell’eversione nera con cui hanno sempre avuto contatti, hanno avuto interesse a lavorare con le mafie alla strategia di destabilizzazione. A rivelarlo non sono soltanto innumerevoli collaboratori che hanno presenziato agli incontri fra uomini dei clan e agenti dei servizi, ma anche la stessa sigla Falange armata. Presa in prestito forse dalla falange di franchista memoria. «Quando abbiamo chiesto ad un collaboratore che aveva partecipato all’omicidio Mormile se sapesse il significato della parola Falange, se il suo capo Domenico Papalia, glielo avesse spiegato – ricorda Curcio - lui ci ha risposto “mi hanno detto di rivendicare così”. Attraverso una serie di ulteriori dichiarazioni, abbiamo scoperto che risultano contatti fra questo Domenico Papalia con soggetti appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca». E non isolati ad un unico caso o un unico omicidio. La conferma viene dall’interno degli stessi apparati di intelligence. «Una straordinaria conferma è arrivata dall’ambasciatore Fulci, capo del Cesis proprio in quel periodo storico, minacciato dalla Falange Armata – spiega al riguardo il sostituto procuratore della Dna - Lui si convinse che queste minacce provenissero proprio dall’interno dei servizi. Per questo il tema di ulteriori indagini dovrà essere proprio questo: individuare i soggetti che si sono incontrati con esponenti della criminalità organizzata, quanto meno per suggerire strategie». Ma non è l’unico filone che i magistrati intendono seguire. «Con quest’indagine – dice il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti – è stato aperto uno squarcio estremamente importante di verità ed è estremamente importante per la giustizia, per le vittime e per tutto il nostro Paese e gli assetti democratici del nostro Paese. Fare chiarezza continuerà ad essere nostro obiettivo e nostro dovere anche in riferimento ad altre vicende che sono oggi oggetto di indagine e che si iscrivono in quella stagione, come l’omicidio del collega Scopelliti». Per il procuratore capo della Dna «fu ucciso in prevenzione, come alcuni anni prima era stato ucciso il collega Saetta». Tutti tasselli – promette – «che vanno anche oltre la stagione stragista e si vanno componendo».

Perquisizione per Bruno Contrada. Il provvedimento rientra nell'inchiesta della Procura di Reggio Calabria sugli attentati ai carabinieri Fava e Garofalo. Per l'ex numero due del Sisde la Cassazione aveva revocato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, "Il Corriere della Calabria". La Procura di Reggio Calabria ha disposto una perquisizione in casa di Bruno Contrada, ex numero 2 del Sisde condannato per concorso in associazione mafiosa per cui, nelle scorse settimane, la Cassazione aveva revocato la condanna. La perquisizione rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla. Nelle oltre mille pagine di ordinanza di custodia cautelare, non appaiono rifermenti diretti all’ex numero 2 del Sismi. Ma il suo nome c’è ed è legato a quello di Giovanni Pantaleone Aiello, ex agente della Squadra Mobile di Palermo «legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati». Di Aiello hanno parlato dopo anni di esitazione per serio timore di ritorsioni i collaboratori di giustizia Nino Lo Giudice, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani. «Lo Giudice era preoccupato non di un fantasma, ma di un soggetto (e di tutti i collegamenti che a questo facevano capo) in carne ed ossa che lui ben conosceva la cui pericolosità, evidentemente, considerava ben maggiore di quella di tutti gli altri soggetti (che non erano propriamente delle mammole) che, fino a quel momento, aveva chiamato in correità». Per il collaboratore - si legge nelle carte - Aiello «risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate». L’ex agente – indagato e perquisito nell'ambito di questo procedimento – è stato indicato da Villani e Lo Giudice come “Il mostro”, uomo legato ad ambienti dei servizi che avrebbe avuto un ruolo in una serie di fatti di sangue. 

A caccia di prove in casa Contrada. Controlli e misteri: esito negativo, scrive di Riccardo Lo Verso Mercoledì 26 Luglio 2017 su "Live Sicilia". I poliziotti della Squadra mobile di Reggio Calabria sono piombati a casa palermitana di Bruno Contrada nel cuore della notte. Quaranta minuti dopo le quattro. A caccia della prova dei rapporti oscuri fra l'ex poliziotto e Giovanni Aiello, soprannominato "faccia da mostro" per la profonda cicatrice che ne deturpa il viso. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello, oggi in pensione, presenza costante nei misteri d'Italia, avrebbe convinto l'ex carabiniere Saverio Tracuzzi Spadaro a mentire ai pm sul suo rapporto con Aiello e sul ruolo del poliziotto nelle file della 'Ndrangheta. La perquisizione a casa Contrada, che ha avuto esito negativo, rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. Diversi i punti che hanno condotto i pm fino a casa dell'ex numero tre del Sisde a cui la Cassazione ha di recente revocato gli effetti della condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Contrada è risultato in contatto con l'ex agente di polizia Guido Paolilli che lo aveva chiamato per commentare le sue dichiarazioni ai pm su Aiello. Sia "faccia da mostro" che Paolilli sono stati indagati a Palermo per l'omicidio dell'agente Nino Agostino, ucciso insieme alla moglie nel 1989. Per Paolilli, che rispondeva di favoreggiamento, la Procura chiese ed ottenne l'archiviazione. Fu uno dei primi a indagare sul delitto Agostino, privilegiando la pista passionale. Aiello, accusato di omicidio, è ancora indagato dopo l'avocazione del fascicolo da parte della procura generale, decisa dopo diverse richieste di archiviazione da parte dei pm di Palermo. Contrada viene indicato dai magistrati reggini come la persone “più strettamente legata ad Aiello nella polizia di Stato”. Fonte dell'informazione sarebbe "una persona pienamente attendibile che non si nomina per evidenti motivi di cautela processuale". In passato è stato il pentito Nino Lo Giudice, detto il nano, a raccontare che Aiello gli fu presentato dal capitano Tracuzzi della Dia, condannato in appello a 10 anni perché considerato colluso con la 'Ndrangheta. Lo Giudice aggiunse che Aiello schiacciò il telecomando che innescò l'esplosione per la strage di via D'Amelio, e di avere saputo dallo stesso Aiello del suo ruolo nell'omicidio di Agostino e della moglie. Solo che quando iniziò a riferirlo ai magistrati sarebbe stato minacciato dagli uomini dei servizi segreti. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, l’avv. Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla.

Sbatti la faccia di mostro in prima pagina, scrive "Il Foglio" il 27/07/2017. Il passato che non passa e l’eterno ritorno delle accuse a Contrada. Avrà pensato a un incubo, o forse a mente sarà corsa alla vigilia di Natale del 1992, quando venne arrestato dai suoi colleghi con l’infamante accusa di essere un amico della mafia. Ma ormai quella dovrebbe essere storia passata, dopo venticinque anni di Calvario giudiziario fatto di condanne e assoluzioni, conclusosi poche settimane fa con la revoca della condanna da parte della Cassazione ma dopo che la pena di 10 anni di carcere è stata già pagata in pieno. E invece il suo non era un Calvario, ma una fatica di Sisifo: ogni volta che riesce a spingere il masso fino in cima al monte, il masso rotola giù e Bruno Contrada deve andare a riprenderselo. Anche a 86 anni. È successo infatti che l’ex numero due del Sisde è stato svegliato in piena notte per una perquisizione nella casa in cui vive con la moglie malata. Il blitz è stato ordinato dalla procura di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta – parallela a quella palermitana sulla Trattativa – sulla “ndrangheta stragista”, per gli attentati ai carabinieri dei primi anni Novanta. Ma cosa c’entra Bruno Contrada? Nell’ordinanza che accusa i boss Giuseppe Graviano e Rocco Filippone quali mandanti della strategia stragista di attacco, l’ex poliziotto non compare direttamente. È coinvolto attraverso Giovanni Aiello, alias “faccia di mostro”, un ex poliziotto ultimamente accusato senza finora alcuna dimostrazione di ogni strage e nefandezza, dagli assassini di poliziotti e carabinieri alle stragi di Capaci e via D’Amelio fino alle bombe sui treni e l’omicidio di un bambino. Ebbene “Faccia di mostro” – che ultimamente ha sostituito il fantomatico Signor Franco nel ruolo di agente segreto supercattivo – sarebbe “legato a Bruno Contrada, sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata e apparati statali deviati”. È l’abbondanza di aggettivi che giustifica il blitz notturno. Ma cosa pensavano di trovare gli inquirenti, a distanza di oltre 20 anni dai fatti, a casa di un vecchio che è stato ingiustamente recluso per 10 anni in carcere? La perquisizione ha portato al sequestro di nulla, niente, nisba. Ma è servita a sbattere, ancora una volta, le facce di mostro in prima pagina.

Bruno Contrada, l'ultimo linciaggio. Il Paese dovrebbe avere la decenza di chiedergli almeno scusa: invece dobbiamo sentire i commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa, scrive Giorgio Mulè il 14 luglio 2017 su Panorama. Ci sono alcuni principi elementari del diritto che non necessitano di una laurea per essere compresi. Se cercate su Wikipedia, appunto, la massima "nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali" troverete questa spiegazione: "Rappresenta una massima fondamentale per il diritto moderno. L'espressione si fonda sull'assunto che non può esservi un reato (e di conseguenza una pena), in assenza di una legge penale preesistente che proibisca quel comportamento". Elementare, appunto. Dal che non si capisce perché questo Paese non abbia la decenza di chiedere scusa a Bruno Contrada, che dopo 25 anni di calvario giudiziario si è vista revocata la condanna a 10 anni di carcere (interamente scontata) per concorso esterno in associazione mafiosa: un reato che all'epoca dei fatti contestati (1979-1988) era sconosciuto al codice penale. Per esser chiari: non poteva essere arrestato, non poteva essere giudicato, non poteva essere condannato, non doveva soprattutto scontare neanche un giorno di carcere. C'è voluta nel 2015 la Corte europea dei diritti dell'uomo per riportarci a forza dalla bara del diritto alla culla e la Corte di Cassazione, finalmente, ha ora emesso un vagito e revocato la condanna. Ma a Contrada, poliziotto palermitano di gran lignaggio e successivamente alto funzionario dei servizi segreti, nessuno chiede scusa e nessuno ha la parvenza di un rossore: deve invece subire un ulteriore, odioso supplemento di linciaggio. Che consiste in particolare nei commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa. Sono analisi figlie di una visione di "parte" che rimane spesso senza argomenti e si rifugia nel bollare come sconcertante o stupefacente (Antonio Ingroia dixit) la pronuncia della Cedu e della Suprema Corte e arriva a spingersi in una sorta di mascariamento degli operatori del diritto laddove sostiene (Gian Carlo Caselli dixit) che "negare la configurabilità del concorso esterno, nerbo della mafia, equivale in pratica a negare la stessa mafia". A costo di passare per negazionista affermo convintamente che quella del concorso esterno, in verità, è un'enorme impostura perché presuppone che chi aiuta la mafia per nove anni come nel caso di Contrada lo possa fare a intermittenza un po' come quando leggete nelle ricette "q.b.": quanto basta. Si fa un favore a Totò Riina e poi si torna a fare il poliziotto, come se le "famiglie" fossero delle onlus di beneficenza che ricevono ogni tanto delle donazioni e non piuttosto delle schifose e crudeli macchine criminali fondate su un principio assoluto e invalicabile: o sei mafioso o non lo sei, non puoi mafiare a giorni alterni. O si aveva il coraggio (l'ardire) di processare Contrada per associazione mafiosa oppure, come finalmente ha riconosciuto la Cassazione, non si poteva condannare per un reato che non esisteva. Questo pacifico ed elementare principio è lo stesso che proprio alcuni magistrati invocano in questi giorni a proposito di una querelle godibilissima che loro stessi stanno mettendo in scena. La questione è legata alla promozione di un ex parlamentare del Pd, già ministro della giustizia ombra di quel partito, a presidente del Tribunale di Pordenone. Al Consiglio superiore della magistratura stanno volando gli stracci. Piercamillo Davigo e la sua corrente hanno abbandonato per protesta la giunta dell'Associazione nazionale magistrati perché sostengono l'assurdità di promuovere un ex parlamentare mentre si discute di una legge che regolerà in maniera severa le porte girevoli tra politica e toga. La risposta del presidente dell'associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte è stata: "Questa norma più severa al momento non esiste e noi, visto che siamo dei giuristi, ci dobbiamo muovere nel solco del diritto positivo. Pretendere che il Csm faccia un atto illegittimo è veramente una mostruosità logica e giuridica". Bene, esimi giuristi che rivendicate giustamente come insuperabile il diritto a essere giudicati in forza di una norma esistente: prendete il numerino, mettetevi in coda e chiedete scusa a Bruno Contrada.

Perquisito Contrada: «Sono venuti a casa mia alle 4 del mattino e non mi hanno detto perchè», scrive Giulia Merlo il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Accanimento o campagna elettorale? La procura di Reggio ordina il blitz nell’abitazione dell’86enne ex numero due del Sisde: cercavano carte e documenti di 25 anni prima. Alle 4 del mattino del 26 luglio, i poliziotti si sono presentati a casa sua a Palermo, con un ordine di perquisizione della procura della Repubblica del tribunale di Reggio Calabria. Ad aprire la porta hanno trovato Bruno Contrada, 86 anni, Capo della Mobile di Palermo ed ex numero 2 del Sisde, 10 anni scontati tra carcere e arresti domiciliari per un’accusa di concorso in associazione mafiosa poi revocata da una sentenza di Cassazione del luglio di quest’anno.

Che cosa ha pensato, quando ha sentito suonare il campanello alle 4 del mattino?

«Ero a letto con mia moglie, immobilizzata ormai a tre anni e cardiopatica. La Polizia ha citofonato e, quando si sono presentati, il mio debole cuore ha sobbalzato. Sa, io ho due figli: in quel momento ho pensato che era successo qualcosa a uno di loro. Fino a quando non sono saliti, mi ripetevo «Si tratta di Antonio o di Guido?». Solo quando mi hanno mostrato quel foglio intestato Procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria, Direzione Nazionale Antimafia, mi sono un po’ rasserenato».

Come ha fatto a rassicurarla il pensiero che la Procura di Reggio cercasse proprio lei?

«Mi ha calmato il pensiero che i miei figli stessero bene. Subito dopo è subentrato l’interrogativo: perché? Era così lontana da me l’idea che potessi ricevere un ordine di perquisizione da Reggio Calabria. Lei deve sapere che io non ho mai prestato servizio in Calabria nè conosco nulla di quella regione. Nella mia carriera professionale mi sono occupato di crimine organizzato e di mafia, ma mai di fatti di ‘ndrangheta».

E quando ha letto l’ordine di perquisizione lo ha capito?

«Leggendo, ho visto che la perquisizione veniva effettuata nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ‘ndrangheta risalenti agli anni Novanta, in particolare con riguardo all’omicidio di due carabinieri nel 1994».

Lei ricorda quei fatti?

«Ne ho avuto notizia quando ero detenuto in custodia cautelare nel carcere militare e so ciò che sanno tutti i cittadini che in quel periodo leggevano i giornali. Voglio ricordare che dalla vigilia di Natale del 1992 al 31 luglio del 1995, per trentuno mesi e sette giorni, io sono stato detenuto: per sedici mesi a Forte Boccea e per 15 mesi e sette giorni nel carcere militare di Palermo. A Palermo hanno addirittura riaperto una struttura dismessa da anni esclusivamente per me, per ricavarci una sola cella per la mia prigionia e i locali per il comando e per gli alloggi dei vigila- tori, trasferendo appositamente 25 uomini dell’organizzazione penitenziaria militare».

Quindi lei non sa nulla? Si parla di una sua connessione con Giovanni Aiello, soprannominato “faccia di mostro”, implicato nelle stragi degli anni Novanta.

«Io so solo che la procura sta indagando sui collegamenti tra mafia e ‘ndrangheta e che la perquisizione è stata disposta per un presunto mio rapporto con Giovanni Aiello risalente a circa 40 anni fa, quando dirigevo la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. In quegli anni Aiello prestò servizio per circa otto mesi e io lo ricordo vagamente: era uno dei tanti. Io con Aiello non ho mai avuto rapporti, nè personali, nè telefonici, nè tantomeno epistolari».

E quindi per questo è stata disposta la perquisizione…

«Sì, per il fatto che io ero dirigente della Mobile quando lui era stato lì. Le aggiungo che la Polizia ha perquisito anche casa di mio fratello, a Napoli, dove ho ancora la residenza anagrafica. Anche lì sono piombati alle 4 del mattino, spaventandolo moltissimo: mio fratello ha 80 anni ed è anche lui molto malato».

E hanno trovato qualcosa?

«A casa mia l’esito della perquisizione è stato negativo. Hanno cercato fino alle 7 del mattino, io li ho solo pregati di non fare troppo rumore per non svegliare mia moglie, che era sotto effetto di tranquillanti. Si sono concentrati sul mio archivio, in cui conservo le carte di 25 anni di processo e una raccolta stampa di migliaia di giornali. A casa di mio fratello, invece, hanno sequestrato qualche giornale».

Che tipo di giornali?

«Dei ritagli che parlavano di me nei primi tempi della mia carcerazione. Uno parlava di una perizia che mi era stata fatta, dove il consulente del tribunale, il primario della cattedra di psichiatria di Palermo, aveva stabilito che non era il caso che io venissi rimesso in libertà dalla custodia cautelare perchè, essendomi abituato al carcere, la libertà mi avrebbe creato uno squilibrio psicologico e sarei andato incontro a un trauma. Un fatto che suscitò l’indignazione del professore e psichiatra Cassano, dell’università di Pisa: quando ne venne a conoscenza telefonò a mio figlio per dirgli che avrebbe preso il primo volo per Palermo per farmi una nuova perizia, perchè non poteva accettare che si stabilisse che un uomo al quale viene ridata la libertà possa andare incontro a un trauma».

Insomma, non hanno trovato nulla.

«Ma che cosa dovevano trovare? Io gli ho anche detto di dirmi che cosa cercavano e che gli avrei messo tutto a disposizione. Tuttora non ho capito il perchè di questa perquisizione: il contesto calabrese non è il mio, non è quello in cui ho operato e non è quello per cui ho subito la carcerazione e i processi».

E ora che cosa succederà?

«Mi creda quando le dico che non so nulla di questa inchiesta calabrese. Non so neppure se sono indagato, persona informata dei fatti, sospettato… Ora l’avvocato se ne sta occupando e io cerco di riordinare le idee e di fare ricorso ai miei ricordi. Lei immagini quanti agenti, quanti carabinieri e quanti criminali un poliziotto ha conosciuto in 20 anni di squadra Mobile, 6 di Criminal Pol e altri 4 nell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia e per 10 anni nei servizi di sicurezza, fino al mio arresto».

E come si sente, ora, dopo la perquisizione?

«Secondo lei cosa deve pensare un uomo che ha combattuto per un quarto di secolo in un processo, che ha ottenuto una sentenza della Cedu che stabilisce che non solo non doveva essere condannato ma nemmeno processato, e che dopo tutto questo si vede irrompere la polizia in casa alle 4 del mattino? Sono turbato e confuso, con un interrogativo martellante: Che cosa vogliono da me?»

Dopo la perquisizione è stato convocato?

«No, nessuno mi ha chiamato per chiedermi se mai avessi avuto rapporti con questo Aiello. Anche per questo mi chiedo che bisogno c’era di fare questa perquisizione, ben sapendo tra l’altro che sarebbe poi andata su tutti i giornali».

Dopo tutto questo, rifarebbe tutto ciò che ha fatto nella sua vita in Polizia?

«Se dovessi pentirmi del mio passato dovrei dichiarare il fallimento della mia vita. Io sin da ragazzino quando ero un balilla mi sono considerato un uomo dello Stato: nei bersaglieri ho giurato fedeltà alla bandiera e alla Repubblica, poi nella Polizia di Stato ho giurato un’altra volta. Sono sempre stato un servitore dello Stato e delle sue istituzioni. Posso dichiarare io il fallimento di questa vita? Io ho fatto il poliziotto per passione, perchè ho sempre voluto servire la Patria, difendendo l’ordine e la sicurezza pubblica».

Ma si immaginava, a 86 anni, di dover combattere contro questo stesso Stato?

«Nei primi anni Ottanta temevo che qualcuno mi avrebbe sparato quattro colpi di pistola, come fecero con il mio collega e amico fratello Boris Giuliano, che fu ucciso a tradimento da un criminale. Ecco che cosa mi aspettavo. Non certo di venir colpito dalla calunnia, un veleno che forse è anche più atroce del piombo».

Accordo mafia-‘ndrangheta: nuova irruzione della Polizia reggina in casa di Contrada, scrive il 29 luglio 2017 "CN24".  La Dda di Reggio Calabria indaga su un presunto patto fra la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese per attuare la stagione delle stragi voluta da Cosa Nostra negli anni Novanta. Nell'ambito dell'indagine dei magistrati calabresi, volta a fare luce sull'uccisione di due carabinieri avvenuta nel '94 e sul ferimento di altri militari, nei giorni scorsi sono state emesse delle ordinanze di custodia cautelare a carico del boss mafioso di Brancaccio, Giuseppe Graviano, già detenuto al 41 bis, e di Rocco Santo Filippone, esponente della 'ndrangheta. L’indagine, rientrante nell’operazione ‘Ndrangheta stragista, si concentra adesso sui rapporti tra Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, e Giovanni Aiello, ex agente di polizia con un passato nei servizi segreti, conosciuto con il nome di “faccia da mostro”. Nella notte di giovedì scorso gli agenti della Questura reggina hanno effettuato una prima perquisizione nell’abitazione dell'ex funzionario del Sisde e stamane è avvenuta una seconda irruzione. Dal canto suo reagisce il difensore di Bruno Contrada, l'avvocato Stefano Giordano, che afferma: "E' una vicenda dai contorni inquietanti". Il legale prosegue annunciando che chiederà un incontro al capo della Polizia, Gabrielli, per raccontargli "alcuni particolari rilevanti anche dal punto di vista disciplinare che riguardano i funzionari della Squadra mobile di Reggio Calabria che oggi si sono presentati a casa di Bruno Contrada. Gli aspetti penali poi verranno approfonditi in altra sede". "La prima perquisizione, il 26 luglio scorso – aggiunge Giordano - fu di notte. Una perquisizione che a Palermo ha dato per altro esito negativo mentre nell'abitazione di Napoli, in cui vive il fratello, e' stato sequestrato un giornale del 1994 in cui si parlava di Contrada. Oggi invece - racconta - si sono presentati alle 8 di mattina. Solo alle 13 sono stato avvertito dallo stesso Contrada e mi sono precipitato a casa sua". Giunto nell'abitazione del suo assistito, il legale ha chiesto l'esibizione di una delega, dell'invito a comparire o del decreto di perquisizione mentre i poliziotti si apprestavano a redigere un verbale di interrogatorio. "Non avevano nulla di tutto ciò per cui - va avanti il difensore di Contrada - li ho invitati a lasciare immediatamente l'appartamento. Sottolineando che non potevano fare nulla di tutto ciò. Questo tira e molla e durato quasi un'ora. Sono stato costretto a chiamare i Carabinieri ai quali ho riferito l'accaduto". Contrada, che a dire del suo avvocato non aveva capito di essere sottoposto ad un interrogatorio ma, così come la volta precedente, non ha fatto alcun tipo di obiezione, anche per una forma di rispetto verso coloro che ritiene dei colleghi. Tuttavia l'avvocato Giordano parla di "aspetti inquietanti", di "abuso della pazienza altrui" e di uno "Stato di polizia". Anche per questa ragione ha deciso di utilizzare Facebook per denunciare questa seconda perquisizione.

Contrada perseguitato: chi ordina le irruzioni?, scrive Errico Novi l'1 agosto 2017. Terza perquisizione in pochi giorni per l’ex funzionario del Sisde: gli agenti impiegati sempre più autonomi dai pm. E l’avvocato Giordano denuncia la procura di Palermo. «Sabato il mio assistito Bruno Contrada ha ricevuto un’ulteriore visita da parte della polizia giudiziaria, stavolta alle 8 di mattina. Solo dopo 5 ore, quando mi sono precipitato a casa sua, ho potuto accertare che il mandato non esisteva. Contro questo abuso presenteremo un esposto alla Procura di Palermo, al Csm e ai ministri competenti». Lo dice al Dubbio l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex numero 2 del Sisde, dopo l’incredibile nuova irruzione degli agenti. Intanto Contrada ha incontrato i dirigenti radicali, che si sono presentati a loro volta a Palermo per una “perquisizione” dimostrativa, al termine della quale l’ex 007 si è iscritto al partito e ha tenuto una conferenza stampa con Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. Le perquisizioni sono addirittura tre. Una alle 4 di mattina del 26 luglio, mercoledì. Un’altra sabato, in orario appena meno teatrale, le 8 antimeridiane. Ma nell’intervista al Dubbio di sabato scorso, Bruno Contrada ha rivelato che un’ulteriore irruzione della polizia si era verificata sempre mercoledì 26 nell’abitazione napoletana in cui l’ex numero due del Sisde conserva la residenza anagrafica. Ha aperto suo fratello 80enne, sempre alle 8 del mattino. Di tutta la sconcertante vicenda si è occupato ieri anche il Corriere della Sera, con Pierluigi Battista che le ha dedicato la sua rubrica “Particelle elementari”. Di tutti, l’aspetto più grave è che la seconda visita fatta dagli agenti nella casa palermitana di Contrada non fosse accompagnata da formale autorizzazione. «Una irruzione senza titolo di perquisizione né delega», ha spiegato il difensore dell’ex 007, l’avvocato Stefano Giordano, «la polizia giudiziaria è stata fatta allontanare dal sottoscritto». Non è il primo caso recente di sfacciata disinvoltura delle forze dell’ordine che, in base all’articolo 109 della Costituzione, dovrebbero essere assoggettate all pubblico ministero. A parte la discutibile ipotesi, avanzata dalla Procura di Reggio Calabria, secondo cui Contrada potrebbe custodire informazioni illuminanti su “Faccia di mostro” Giovanni Aiello, e consentire così di scoprire se quest’ultimo fosse tra i mandanti dell’omicidio di due carabinieri avvenuto trentacinque anni fa, il dato allarmante è appunto la (tentata) irruzione illegittima di sabato scorso. Un arbitrio a cui il legale di Contrada è riuscito a porre fine solo quando ha composto il 112 per chiedere ai carabinieri di imporre la legge ai tre poliziotti. E che ora, come spiega il difensore, «sarà oggetto di un esposto che invieremo a Procura di Palermo, Csm, ministro della Giustizia e ministro dell’Interno, affinché siano valutati tutti i possibili profili penali e disciplinari». La Procura di Reggio Calabria non ha comunicato nulla sui fatti di sabato. Il questore Raffaele Grassi invece ha dichiarato che «non sono stati eseguiti perquisizioni o interrogatori». Affermazione che Giordano smentisce: «Sono in possesso di prove che è stato compilato un verbale di sommaria informazione». Sabato mattina i tre uomini della Polizia di Stato hanno indotto Contrada a consentire la copia di file e documenti dai suoi archivi in nome della “colleganza”. Cinque ore dopo, quando finalmente ha saputo di quanto avveniva a casa del suo assistito e si è precipitato sul posto, il difensore ha ottenuto che le copie digitali fossero cancellate. Nell’esposto si chiederà di valutare anche se «sussistessero i requisiti di urgenza per effettuare in orario notturno la perquisizione del 26 luglio». La legge prevede che debba appunto esserci una giustificazione per derogare agli orari ordinari. Il caso segnala ancora una volta un dato generale gravissimo: la polizia giudiziaria sembra muoversi sempre più spesso in un quadro di assurda autonomia dal- la stessa magistratura inquirente. Sempre nelle ultime ore, domenica scorsa, Matteo Renzi è tornato sulle «manomissioni» compiute, anche ai danni di suo padre, nel corso dell’indagine Consip. Anche in quella vicenda sono affiorati segni di probabile arbitrio da parte dei militari impiegati nell’attività investigativa. Indizi di un’azione sollecitata non solo dalle mere disposizioni della magistratura ma anche da tensioni e contrasti tutti interni ai carabinieri. Così come nel caso di Contrada è difficile tenere lontano il sospetto che antiche ruggini interne alla Polizia di Stato abbiano quanto meno favorito i modi spicci con cui è stata condotta la pseudo- perquisizione di sabato. L’interrogativo è se in Italia esista un problema di controllo delle forze dell’ordine impiegate nelle indagini penali. E se non sia opportuno rafforzare in tutte le maniere possibili l’assoggettamento di queste ultime alla magistratura.

La caccia infinita a Contrada. Stavolta l’ordine è di Scarpinato, scrive Damiano Aliprandi il 30 giugno 2018 su "Il Dubbio". Terza perquisizione a casa di Bruno Contrada nel giro di un anno. L’ordinanza è legata all’indagine sull’omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie. Terza perquisizione a casa di Bruno Contrada nel giro di un anno. Documenti sequestrati? Un album fotografico con foto della Polizia di Stato, alcuni atti processuali pubblici, degli appunti per una bozza di lettera da inviare al magistrato Nino Di Matteo per alcuni chiarimenti. Questa volta la perquisizione è stata disposta dalla Procura generale di Palermo. Le altre due precedenti, avvenute nel giro di pochi giorni a luglio dell’anno scorso, erano state disposte dalla Procura antimafia di Reggio Calabria nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ’ndrangheta risalenti agli anni Novanta. In particolare, su un presunto rapporto di Contrada con Giovanni Aiello risalente a circa 40 anni fa, quando dirigeva la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. Un rapporto, di fatto, mai dimostrato. L’ex agente Giovanni Aiello, meglio conosciuto come “faccia da mostro” e morto di crepacuore un anno fa, era considerato una sorta di “anima nera” che, a parere dei magistrati – o meglio secondo un teorema però rimasto senza prove – sarebbe stato dietro ad ogni strage di mafia degli ultimi decenni, e che era anche sotto accusa per l’omicidio, avvenuto nel 1989, del poliziotto Nino Agostino e della moglie. Le perquisizioni, comunque, si risolsero con un nulla di fatto. Ora è la volta della Procura generale di Palermo: visti i documenti sequestrati, che a una prima impressione non sembrano molto scottanti, c’è da chiedersi se qui l’affare si ingrossa. Il decreto – sono titolari il procuratore generale Roberto Scarpinato e i sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio – ha disposto la perquisizione non solo della attuale abitazione di Contrada, ma anche di altri due immobili, perché – scrive la Procura – «esiste fondato motivo di ritenere, sempre sulla base di elementi acquisiti in questo procedimento, che Contrada abbia ancora la disponibilità di documenti». L’ordinanza è legata all’indagine – i pm palermitani avevano chiesto l’archiviazione, respinta dal gip, e subito dopo la procura generale di Palermo aveva avocato l’inchiesta – relativa al duplice omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio. I documenti, che secondo la Procura avrebbe ancora a disposizione Contrada, servi- per dimostrare i rapporti che avrebbe avuto con lo stesso Agostino, con Aiello e con l’ex agente di polizia Guido Paolillo, indagato, e archiviato, proprio per il duplice omicidio. Ma quali sono le argomentazioni che la Procura generale di Palermo ha ritenuto di utilizzare per giustificare la perquisizione degli appartamenti? La prima argomentazione è una telefonata del gennaio scorso, in cui Contrada, padre, dice al proprio figlio di non mettere in disordine le sue carte che si trovano nella casa dove abita la moglie. Non solo, aggiunge, «me li sistemo io un po’ alla volta»; questa anche, la frase scatenante la motivazione di perquisire l’immobile di via dei Cantieri, in uso appunto alla moglie. Oltre alla conversazione con il figlio, c’è una seconda intercettazione che risale a pochi giorni fa, esattamente al 13 giugno, e che giustifica la perquisizione: quella in cui Bruno Contrada direbbe a un amico che lo accompagna, facendo ingresso in una di queste case, che «è pronto per il blitz, l’operazione»; poche ore prima alcuni testi, appartenenti alla Squadra Mobile che fu degli anni Settanta, erano stati sentiti dagli inquirenti. Due dunque sono gli elementi che sostengono il blitz della magistratura palermitana nelle dimore in uso a Contrada: entrambe sono conversazioni recenti, entrambe riguardano le sue carte e la loro conservazione. Ecco spiegato il motivo della perquisizione. È da qui che scatta il sospetto che «Contrada abbia ancora la disponibilità di documenti (appunti, fotografie, atti ufficiali, files, ed altro) riguardanti i rapporti intrattenuti dal Contrada con il Paolillo, l’Agostino stesso, l’Aiello ed altri soggetti a loro collegati, nonché il coinvolgimento di Agostino Antonino in attività di ricerca latitanti ed altre attività extraistituzionali». Una cosa è chiaramente indicata nell’atto: il sospetto si appoggia alle due intercettazioni; almeno cosi è motivato il decreto che ha permesso agli inquirenti di fare irruzione nelle abitazioni della famiglia Contrada alla ricerca delle sue “carte”. Alla fine del blitz, come detto, gli uomini della Dia hanno requisito atti processuali pubblici, un album fotografico con foto della Polizia di Stato, e degli appunti per scrivere una lettera che Contrada avrebbe indirizzato a Di Matteo per avere dei chiarimenti. Una certezza però sembra emergere, forse alla lettera non servirà più il francobollo per farla giungere al destinatario.

Chi mette ordine è mafioso. Bruno Contrada è un grande poliziotto perseguitato e condannato da magistrati ignoranti, come ha stabilito la Corte di giustizia europea. Ma ancora continuano a perseguitarlo, scrive Vittorio Sgarbi, Lunedì 2/07/2018, su "Il Giornale". Non mettete in ordine i vostri libri e le vostre carte. Potreste rischiare di essere considerati mafiosi o complici di assassini. Questo si ricava dalle indagini e dalle perquisizioni decise dalla procura di Palermo (quella che «non» ha individuato la trattativa Stato-mafia, limitandosi a fare condannare uno strumento, i carabinieri, senza riconoscere i mandanti) su Bruno Contrada (un grande poliziotto perseguitato e condannato da magistrati ignoranti, come ha stabilito la Corte di giustizia europea). Ancora continuano a perseguitarlo, con insolenti e disumane motivazioni: intercettato da una microspia, Contrada invitava il figlio «a non mettere in disordine. I fascicoli, le carte, i libri me li sistemo io, poco alla volta». Quello che ognuno fa, per propria attenzione e passione, e certamente anche molti magistrati. Non va bene. Quel dialogo ha insospettito gli investigatori fenomeni. Come è scritto nel decreto di perquisizione: «Esiste fondato motivo di ritenere che Contrada abbia ancora la disponibilità di (documenti, appunti, fotografie, atti ufficiali) riguardanti i suoi rapporti con Paolilli (poliziotto in passato indagato per il depistaggio delle indagini sul delitto Agostino, ex agente dei servizi, detto «faccia di mostro», morto un anno fa), nonché del coinvolgimento di Agostino in attività di ricerca di latitanti e altre attività extra istituzionali». Dunque: non mettete ordine in carte e libri. Lasciate perdere. Vivete come selvaggi. Sarete rispettati.

Se questa è giustizia…scrive Piero Sansonetti il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Secondo voi c’è qualcosa di anche vagamente ragionevole nella decisione di mandare la polizia, in piena notte, a casa di un signore di 86 anni, per tirarlo giù dal letto e realizzare una perquisizione – evidentemente molto urgente – che dovrebbe servire a gettare luce su delitti di circa un quarto di secolo fa? Sapendo per di più che questo signore non è un tale che in tutti questi anni era irreperibile, ma è un ex dirigente dei servizi segreti che è stato in prigione per dieci anni (ingiustamente), è stato perquisito e interrogato decine di volte, processato, messo a confronto con decine di pentiti e di testimoni, tenuto in isolamento per mesi e mesi in un carcere militare, e alla fine assolto dalla corte costituzionale, appena due settimane fa? Esiste qualche persona al mondo che ritiene che la perquisizione realizzata l’altra notte potesse portare a qualche risultato? Che fosse utile? E che fosse necessario farla a sorpresa, prima dell’alba, in modo da impedire al sospetto di far sparire eventualmente carte che negli ultimi ottomila giorni (trascorsi da quando fu arrestato la prima volta) aveva dimenticato sul tavolino? È una vicenda paradossale quella che è capitata al dottor Contrada. Paradossale oltre ogni limite. Della sua storia abbiamo parlato varie volte nelle settimane scorse. Contrada è stato negli anni settanta e ottanta, e nei primi anni novanta, un poliziotto molto importante e un dirigente dei servizi segreti. Poi una sciagurata sera della vigilia di Natale, anno 1994, lo andarono a prendere a casa, a Palermo, lo sbatterono in fondo a una cella e ce lo lasciarono per molti anni. Un gruppo di pentiti, al solito, lo aveva accusato di essere stato amico della mafia. Contrada fu prima condannato, poi assolto, poi condannato di nuovo, scontò per intero la pena di dieci anni, poi fu riabilitato prima dalla Corte Europea e, ai primi di luglio, anche dalla Cassazione. L’Italia è stata condannata a risarcirlo. Ma la sua vita, ormai, era distrutta. Nei giorni scorsi si è molto discusso sul perché ci fu l’accanimento su Contrada. E se fu accanimento. Ora mi pare che la discussione, almeno su questo punto, può dirsi conclusa. Il dottor Contrada può senza tema di smentita considerarsi un perseguitato dallo Stato italiano. O forse è meglio dire: da pezzi dello Stato italiano. Resta il grande interrogativo: perché? Sarà difficile trovare una riposata sul passato, bisognerebbe andare a scavare di nuovo nella storia delle lotte di potere che erano aperte in quegli anni, a Palermo – e non solo – tra gli apparati dello Stato. Bisognerebbe andare a controllare le posizioni e gli interessi dei vari pentiti e i loro collegamenti con le varie cosche. Non è semplice. Più semplice, forse, è dare una risposta sul perché la persecuzione prosegue anche oggi. C’è un pezzo, piccolo probabilmente ma molto vistoso, di magistratura che concepisce il proprio lavoro come attività politica e non giurisdizionale. Tutto qui. E considera il filone aperto in Sicilia delle inchieste sulla presunta trattativa Stato- mafia (che ha dato vita a un processo che ancora procede, ma senza più imputati e senza capi di imputazione…) come una miniera d’oro. Adesso a qualcuno è venuta l’idea di estendere le indagini alla Calabria (dove, peraltro, pare che Contrada non abbia mai messo piede). A che serve? Quanto costa? Non sappiamo quanto costa. Possiamo provare a indovinare a cosa serve. L’impressione è che serva a creare nuove visibilità in vista della futura campagna elettorale. Nell’aria c’è l’idea che il prossimo parlamento sarà molto rinnovato, e forse dominato da partiti nuovi, come i 5 stelle. E ci sia spazio per personaggi e forze nuove che provengono da quella che i politologi chiamano società civile. Chi ha voglia e filo da tessere si fa avanti, si mette in mostra. Va bene, fate pure. Ma almeno con un minimo di buonsenso. Svegliare alle quattro di mattina un signore di 86 anni, sua moglie cardiopatica e suo fratello ottantenne, buon dio, non ha nulla che assomigli al buonsenso. 

L’attacco allo Stato di ‘ndrangheta e mafia siciliana, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". Un progetto mafioso e terroristico, per attentare al cuore dello Stato, colpendo una delle istituzioni più amate, l'Arma dei Carabinieri. Un progetto messo in piedi da 'ndrangheta e mafia siciliana, con l'inquietante collaborazione di pezzi dello Stato: la Procura di Reggio Calabria prova a riscrivere la storia d'Italia, partendo dagli attentati tre attentati compiuti in danno dei Carabinieri di Reggio Calabria, in cui persero la vita, il 18 gennaio 1994, gli Appuntati Antonino Fava Fava e Giuseppe Garofalo; rimasero gravemente feriti, l'1 febbraio 1994, l'Appuntato Bartolomeo Musicò e il Brigadiere Salvatore Serra e rimasero miracolosamente illesi, l'1 dicembre 1994, il Carabiniere Vincenzo Pasqua e l'Appuntato Silvio Ricciardo. Due i mandanti, il boss siciliano, Giuseppe Graviano, e Rocco Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, con importanti collegamenti con la potente famiglia Piromalli. Omicidi e tentati omicidi che si inquadrano negli anni della strategia stragista portata avanti da Cosa Nostra, ma che ora vede anche la 'ndrangheta grande protagonista: un progetto eversivo, che infatti spinge la Procura retta da Federico Cafiero De Raho a contestare anche l'aggravante terroristica, oltre a quella mafiosa. La Dda di Reggio Calabria ha ricostruito – attraverso l'apporto di nuovi e fondamentali elementi raccordati e collegati tra loro – le causali degli attentati ai carabinieri, ma, soprattutto, matrici e scopi sottesi a tali delitti, che vanno a collocarsi nel contesto della strategia stragista nei primi anni '90 messa in atto dalle mafie, con il coinvolgimento oscuro e inquietante di schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2, ancora in cerca di rivincite nonostante l'ufficiale scioglimento nel 1982. Costanti e inquietanti i riferimenti investigativi alla figura del Venerabile Licio Gelli. A spingere gli inquirenti, il procuratore Federico Cafiero De Raho, l'aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto Antonio De Bernardo, nonché il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, e il sostituto della DNA, Francesco Curcio, sulla matrice unica e sul disegno volto in parte a destabilizzare e in parte a conservare lo status quo, una serie di caratteristiche comuni sui tre delitti, a cominciare dall'utilizzo dell'arma, un mitra M12. Si sarebbe trattato, dunque, di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione sarebbe maturata non all'interno delle cosche di 'ndrangheta, ma si sarebbe sviluppata attraverso la sinergia, la collaborazione e l'intesa di organizzazioni criminali, come Cosa Nostra e 'ndrangheta. Sulla scorta delle dichiarazioni di decine di collaboratori di giustizia, gli inquirenti avrebbero scoperto come numerose riunioni – quasi tutte nella zona tirrenica della provincia di Reggio Calabria – avessero ad oggetto l'inquietante joint venture tra le due mafie: a fare da collante, Rocco Santo Filippone, nonché Giuseppe Graviano, che con la sua famiglia ha avuto negli anni il compito di saldare legami e alleanze con i calabresi. Così, dunque, le mafie volevano partecipare a una vera e propria opera di ristrutturazione egli equilibri di potere sul territorio nazionale: e tale strategia appariva condivisa da pezzi deviati dello Stato, in contatto con il piduismo. Sul punto le indagini hanno evidenziato come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie sarebbe da far risalire a oscuri suggeritori appartenenti ai servizi segreti e, comunque, alla massoneria deviata. Il disegno terroristico mafioso era, dunque, servente rispetto ad una finalità "più alta", che prevedeva la sostituzione di una vecchia ed inaffidabile classe politica con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Si stava attraversando un periodo di grandi cambiamenti a livello nazionale (ma anche internazionale) di natura storica e politica, in cui tutte le organizzazioni criminali, dopo il tramonto della c.d. "prima Repubblica", intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando. Al culmine della strategia stragista del '93, a partire dal mese di settembre, e quindi in epoca immediatamente successiva agli altri attentati posti in essere nel continente (Roma, Firenze e Milano), era stata organizzata una strage di proporzioni immani facendo saltare in aria alcuni pullman dei Carabinieri in servizio a Roma allo stadio Olimpico in una delle tante domeniche calcistiche particolarmente affollate, attentato che doveva essere eseguito nella terza decade del Gennaio 1994 e che falliva soltanto per un guasto tecnico al telecomando che avrebbe dovuto innescare l'ordigno. Ad aprire squarci di luce agli inquirenti, un atto di impulso della Procura Nazionale Antimafia, che segnala alla Procura di Cafiero De Raho le dichiarazioni del collaboratore di giustizia siciliano, Gaspare Spatuzza, già capo mandamento di Brancaccio, il quale ha vissuto dall'interno ed in modo completo tutta la vicenda delle stragi del '93 e del '94, dai progetti condivisi ai momenti esecutivi. Da qui il lavoro di raccolta delle dichiarazioni di altri pentiti – alcune in parte già note, altre riattualizzate – e la costruzione dell'impianto investigativo, inquietante e affascinante, quanto, secondo gli inquirenti, solido. E subito, davanti agli occhi dei magistrati, appare come la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della 'ndrangheta tirrenica - d'intesa con esponenti reggini - diedero assicurazione ai Corleonesi, rappresentati da Graviano - di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone individuarono nel giovane Giuseppe Calabrò (nipote di Rocco Santo Filippone, poiché figlio della sorella Marina), l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, in quanto egli, dotato di una eccezionale preparazione militare ed una straordinaria dimestichezza con le armi, era privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale. Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (già condannati definitivamente come autori materiali dell'omicidio di Fava e Garofalo) vennero poi aizzati a scatenare la strategia di attacco contro i Carabinieri dal defunto Demetrio Lo Giudice classe 1937, emissario della cosca Libri per il quartiere Reggio Campi di Reggio Calabria che fece crescere da un punto di vista militare e criminale Calabrò e che infine lo spinse ad eseguire i delitti oggi contestati; tale dato risulta coerente in relazione alla posizione assunta dalle cosche di 'Ndrangheta di cui Filippone e Lo Giudice erano, all'epoca, eminenti rappresentanti (vale a dire quella dei Piromalli-Molè-Pesce, il primo e dei De Stefano-Libri-Tegano il secondo ) che, non a caso, erano le famiglie di 'ndrangheta che, all'epoca, avevano manifestato maggiore apertura nell'appoggio a Cosa Nostra nella strategia stragista. Un soggetto importante, Filippone, la cui figura è stata per anni sottovalutata e, con ogni probabilità coperta, anche dalla magistratura calabrese. E' lui l'uomo che salda i rapporti con Cosa Nostra: così dunque, si può affermare che mafia siciliana e 'ndrangheta non siano unite solo da progetti di natura economica, ma anche da progetti di natura politica, attraverso spinte autonomistiche, non solo in Sicilia, ma, ancor prima, in Calabria. Un'indagine su tre gravissimi fatti di sangue, tre complessi attentati alle istituzioni democratiche, che, quindi, apre scenari inquietanti almeno sugli ultimi 30 anni di storia d'Italia: la 'ndrangheta emerge non solo perché era in stretti rapporti con Cosa Nostra, ma in quanto risultava particolarmente inserita in quei rapporti con la destra eversiva e la massoneria occulta, proprio in quel periodo stragista in cui entrambe le organizzazioni (Cosa Nostra e 'Ndrangheta) sostennero il disegno federalista attraverso le leghe meridionali. "Oggi ricollochiamo la 'ndrangheta nel suo giusto ruolo" dicono gli inquirenti, che sottolineano inquietanti parallelismo tra le vicende politiche di quegli anni (nel 1994 verrà fondata Forza Italia) e la strategia stragista. Il partito di Silvio Berlusconi sarebbe così divenuto il referente di determinati ambienti, con l'abbandono del progetto autonomista. A tal proposito, nella complessiva ricostruzione dei fatti, assume inoltre particolare rilievo la vicenda della riunione intermafiosa di Nicotera Marina (VV), avvenuta dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, svolta all'interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (VV), come noto legatissima a quella dei PiromallI che aveva come tema proprio la questione stragista: non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, ciò a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta. Un'inchiesta che svela i contatti stabili tra le due organizzazioni, l'esistenza di componenti elevate e occulte e che si innesta nella seconda fase delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Consolato Villani e Nino Lo Giudice: questi, infatti, scompare dalla località protetta in cui si trovata (per poi essere catturato nuovamente dopo qualche mese) quando Villani inizia a parlare dei mandanti degli attentati ai carabinieri. Entrambi collaboratori, non avevano avuto il coraggio di rivelare i meccanismi in cui erano stati inseriti negli anni '90. Lo Giudice sparisce quando la parte più importante della sua carriera criminale sta per essere scoperta. "Perché, a distanza di 25 anni dalle stragi esistono ancora zone d'ombra?" si chiede il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Perché, come spiegano gli inquirenti, l'attenzione ora è posta sulle connivenze istituzionali, su agenti segreti infedeli, massoni che hanno controllato e controllano fette consistenti dell'Italia.

E il ruolo di Reggio Calabria e della 'ndrangheta ora, finalmente, appare per quello che è sempre stato: cuore pulsante di alcune delle vicende più oscure d'Italia.

Patto 'ndrangheta-mafia, il summit a Nicotera Marina dopo la morte di Falcone e Borsellino, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". Esponenti di Cosa Nostra e 'ndrangheta si incontrarono in Calabria dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo affermano i magistrati della Dda di Reggio Calabria, negli atti relativi all'operazione "'Ndrangheta stragista" di oggi. Il summit si tenne a Nicotera Marina (Vv), a all'interno del villaggio turistico "Sayonara", controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (Vv), legata a quella dei Piromalli, egemone nella piana di Gioia Tauro (Rc). Al centro dell'incontro, la strategia stragista inaugurata dai siciliani. Per interloquire con Cosa Nostra furono chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, "cio' - secondo la Procura antimafia - a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta". Sarebbe stato l'allora capo indiscusso della mafia siciliana, Salvatore Riina, il promotore della richiesta alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia di Cosa Nostra, con l'individuazione degli obiettivi istituzionali da colpire. Altre riunioni si sarebbero svolte nella zona del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta (Rosarno, Oppido Mamertina, Melicucco), in ambiti territoriali sottoposti alla giurisdizione criminale dei Mancuso, dei Piromalli, dei Pesce e dei Mammoliti. Cosa Nostra, ipotizzano i magistrati, aveva indirizzato proprio ai Piromalli/Molè, con i quali i rapporti erano strettissimi, la richiesta di promuovere gli incontri "in vista di una adesione generalizzata della 'ndrangheta alla strategia stragista che Cosa Nostra aveva deciso di intraprendere". Diversi collaboratori di giustizia, aderenti alle varie cosche di 'ndrangheta, avrebbero raccontato delle riunioni. Alle loro dichiarazioni la Squadra Mobile avrebbe cercato riscontro attraverso intercettazioni telefoniche, ambientali e di altra natura. (AGI)

Il patto 'ndrangheta-mafia: le strategie eversive e i "suggeritori" istituzionali, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". C'era un vero e proprio patto eversivo, suggellato da esponenti di Cosa Nostra e della 'ndrangheta reggina nel corso di diversi summit, dietro agli attentati subiti in Calabria dall'arma dei Carabinieri, costati la vita a due militari, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi a colpi di mitra il 18 gennaio 1994 lungo l'autostrada A3 nel tratto Bagnara-Scilla, nel Reggino, ed il ferimento di altri quattro militari. Queste le conclusioni a cui è' giunta la Dda di Reggio Calabria che stamani ha emesso due provvedimenti restrittivi a carico di due esponenti di spicco delle mafie calabresi e siciliana: Rocco Santo Filippone, 73 anni, di Anoia (RC), considerato capo del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta all'epoca degli attentati ai Carabinieri, e Giuseppe Graviano, 54 anni, palermitano, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, coordinatore riconosciuto con sentenze definitive delle cosiddette stragi "continentali" eseguite da Cosa Nostra. Graviano era già detenuto nel carcere di Terni. Gli omicidi e i tentati omicidi, commessi nella stagione degli attacchi mafiosi allo Stato, sarebbero, secondo la Dda reggina, aggravati dalle circostanze dalla premeditazione, in quanto pianificate nell'ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista "ideato, voluto ed attuato - scrivono gli inquirenti - dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e 'Ndrangheta". Gli inquirenti ravvisano anche finalità di terrorismo e di eversione dell'ordinamento democratico, perchè Cosa Nostra e 'ndrangheta intendevano costringere lo stato italiano a rendere meno rigorose sia la legislazione che le misure antimafia, ma soprattutto puntavano alla sostituzione della vecchia classe politica, ormai giudicata inaffidabile, con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Dunque, dopo il tramonto della "prima Repubblica", i boss mafiosi intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica "proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando". Secondo la ricostruzione dei magistrati, elementi importanti della 'ndrangheta tirrenica, d'intesa con esponenti reggini, diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Queste componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone avrebbero individuato nel giovane Giuseppe Calabrò, nipote di Rocco Santo Filippone, l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, essendo dotato di un'eccezionale preparazione militare e di una straordinaria dimestichezza con le armi, ma anche perchè era, nelle valutazioni della Dda, "privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale". Filippone e Graziano sono accusati di essere i mandanti, in concorso fra loro e con Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (entrambi già condannati in via definitiva come esecutori di dei delitti) e Demetrio lo Giudice, detto Mimmo, del tentato omicidio ai danni dei carabinieri Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo, commesso in località Saracinello di Reggio Calabria nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1993; dell'omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e del tentato omicidio di altri due militari dell'Arma, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, contro i quali furono sparati numerosi colpi utilizzando un mitra M12 ed un fucile calibro 12. Serra e Musicò rimasero feriti gravemente. Serra rispose al fuoco con l'arma d' ordinanza. Anche quest'ultimo attentato avvenne a Reggio Calabria, in località Saracinello, il primo febbraio 1994. I tre attacchi all'Arma, si sottolinea negli atti dell'inchiesta, presentavano caratteristiche comuni. In primo luogo perchè furono compiuti nella cintura periferica di Reggio Calabria, ma anche perchè, in tutti gli episodi, era stata usata la stessa arma automatica (un mitra M 12), ai danni di pattuglie automontate, che, di notte, erano impegnate in normali turni di controllo del territorio. Sullo sfondo del patto stragista stretto da Cosa Nostra e 'ndrangheta negli anni '90 "appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate a loro volta collegate a settori del piduismo ancora in cerca di rivincita". Lo scrive la Dda di Reggio Calabria negli atti relativi all'inchiesta "'Ndrangheta stragista" nell'ambito della quale la Polizia ha notificato oggi due ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di un boss della 'ndrangheta e di uno, già detenuto, della mafia. L'uccisione di due militari dell'Arma sull'autostrada A3 nel gennaio del 1994 ed il ferimento di altri militari sempre in Calabria, dunque, "vanno a collocarsi - scrivono i magistrati reggini - nel contesto della strategia stragista che ha insanguinato il Paese nei primi anni 90' e in particolare in quella stagione definita delle "stragi continentali". Secondo l'impostazione accusatoria, l'obiettivo strategico delle azioni contro i Carabinieri, al pari di quello degli altri episodi stragisti verificatisi nel Paese, "era rappresentato dalla necessità, per le mafie, di partecipare a quella complessiva opera di vera e propria ristrutturazione degli equilibri di potere in atto in quegli anni. E tale strategia - secondo gli inquirenti - appariva condivisa, da schegge di istituzioni deviate, da individuarsi in soggetti collegati a servizi d'informazione che ancora all'epoca mantenevano contatti con il piduismo". Dalle indagini sarebbe emerso come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie, fra cui quelli per cui è stata emessa l'ordinanza eseguita oggi, "è da farsi risalire a suggeritori da individuarsi in termini di elevatissima gravità indiziaria, in appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca, nei cui confronti, comunque, le indagini proseguiranno". (AGI)

L'accorduni tra 'ndrangheta e Cosa Nostra: attacco coordinato per le stragi degli anni '90, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". "Cade in maniera netta l'assunto secondo cui la 'ndrangheta, o cosche di primo piano di essa, sia stata totalmente estranea alla svolta stragista impressa da Cosa nostra negli anni '90. Molti aspetti di queste torbide vicende saranno chiariti". É quanto si apprende in ambienti investigativi che hanno coordinato l'inchiesta che ha portato all'arresto di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano. Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza hanno avuto l'effetto di un colpo di maglio su oltre venti anni di storia criminale da cui la 'ndrangheta emerge come "alleato" affidabile di Cosa nostra "nell'attacco coordinato allo Stato ed alle sue istituzioni più rappresentative, come l'Arma dei Carabinieri". Gli inquirenti parlano senza mezzi termini di "progetto di disarticolazione della democrazia e delle istituzioni", in un quadro politico, come quello degli anni '90, caratterizzato dall'instabilità istituzionale e dalla chiusura della Prima Repubblica. "Sfuma così il tentativo - dicono gli inquirenti - di depotenziare le responsabilità della 'ndrangheta, per come raccontato finora, a seguito del rifiuto del boss Giuseppe De Stefano agli emissari di Cosa nostra negli anni '90 durante un incontro nella zona di Nicotera, che avrebbe sancito la contrarietà della 'ndrangheta alle stragi. E invece l'accorduni prese corpo proprio con gli autori dell'assassinio di don Pino Puglisi, ucciso dai Graviano a Brancaccio perché 'disturbava' taluni equilibri e complicità in quel quartiere di Palermo". Nel mosaico ricostruito dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria appaiono anche molti spunti di indagine chiuse frettolosamente negli anni '70 e negli anni '80, omicidi e intimidazioni contro personaggi pubblici che alla luce di quanto sta emergendo troverebbero una diversa valutazione, un filo di interessi economici e di potere tra parti deviate di istituzioni, estremismo di destra e, appunto, la 'ndrangheta.

Sinergie sempre più forti all’ombra della massomafia. La stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione. Il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta vertiginosamente con il crescente astensionismo. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”, scrive Paolo Pollichieni, Sabato 15 Luglio 2017, su "Il Corriere della Calabria". Funziona e regge. In una Calabria che si presenta devastata nel suo reticolo produttivo e ridotta a mal partito in quanto a rappresentanza politica, funziona e regge, anzi conosce una stagione di grande prosperità, quell’area che ha ormai smesso di essere “grigia” per diventare organica alla ‘ndrangheta nella gestione del territorio. Funziona e regge, in sostanza, quella camera di compensazione allestita al riparo da logge massoniche spurie dove potere criminale e potere politico si incontrano ed elaborano strategie tese al consolidamento del loro potere. Funziona e regge, quel modello criminale che affonda le radici già nelle cronache della prima indagine sulla massoneria deviata, quella di Agostino Cordova. Modello che ricompare sull’asse Lamezia-Vibo dieci anni più tardi, con la stagione delle “leghe” come veicolo per il traghettamento verso la seconda repubblica. Modello cristallizzato nell’indagine reggina denominata “Olimpia”, alla quale lavorarono Macrì e Mollace, Cisterna e Pennisi, Verzera e Di Palma. Carte oggi riscoperte e rivisitate ma che hanno stroncato più di una carriera e “mascheriato” più di un magistrato inquirente. Oggi quel “modello criminale” appare scolpito e scontornato nelle indagini di una magistratura meno aggredibile che, in uno con una polizia giudiziaria più autonoma, ci consegna una serie di indagini che a Vibo come a Lamezia, a Crotone come a Locri, a Gioia Tauro come a Reggio Calabria, evidenziano sempre più come la stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione e della sinergia criminale. Ci sarebbe materia per una riflessione attenta da parte di quel che rimane in Calabria di un ceto politico non cooptabile da parte della ‘ndrangheta. Anche il crollo della partecipazione democratica conosciuto in queste ultime tornate elettorali, oggi, si appalesa come funzionale agli interessi della massomafia: il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta di peso vertiginosamente in presenza di un altrettanto vertiginoso calo delle percentuali dei votanti. C’è questa voglia di riflettere da parte di quel che resta della Politica con la P maiuscola, in Calabria? Dobbiamo imporci di crederlo. Anche quando ti trovi a sbattere contro vicende come quelle reggine, dove l’isolamento di un assessore viene motivato con la sua irriducibilità davanti all’applicazione della legge. Anche quando devi prendere atto che la transumanza delle baronie politiche, lungi dall’essere bandita, diventa oggetto di adulazione da parte delle segreterie regionali più blasonate. Anche quando la sottovalutazione regna sovrana nella mente di chi fa incetta di deleghe e potere ritenendo che sigillare significa decidere. È questo lo scenario che abbiamo davanti in Calabria. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”; le indagini in corso, e quelle che arriveranno, possono creare la precondizione per ripulire la casa e renderla agibile ma sono ben altri i soggetti che debbono incaricarsi di evitare che venga nuovamente sporcata sino all’inagibilità. Non lo si otterrà nominando qualche magistrato in pensione al vertice della Stazione unica appaltante. Questo semmai è il segno di un senile ricorso all’imbellettamento. Serve lasciar spazio alle energie migliori e nella misura in cui questo si cercherà di fare chiaramente lo spazio selettivo si restringe. Fino a fare apparire asfittici i confini dettati dalla militanza storica in questo o quel movimento politico. È tutta qui la vera lotta alla ‘ndrangheta ed è tutta qui la battaglia per il cambiamento.  Le cosche sono attrezzate per sostenerla. Gratteri lo ha ripetuto anche di recente: investono meno in armi e più in settori di controllo sociale. Dai media alla clientela, dall’imprenditoria al controllo del consenso. Figurarsi che investono anche in “antimafia”.

Massoneria, coop rosse e consulenze: su cosa indaga Catanzaro. Gli incroci con Consip sono solo una piccola parte delle inchieste in corso. E riguardano gli affari della “Sviluppo srl” e di Rocco Borgia. Nel mirino di due Procure i legami con Cmc e aziende in procinto di chiudere affari con Regione, Anas e Sorical, scrive Martedì, 25 Luglio 2017 Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria". Rocco Borgia è un distinto signore, i suoi 74 anni li porta che è uno splendore. Merito, assicura ai suoi potenti amici, della “dieta calabrese” alla quale resta fortemente fedele, pur avendo lasciato la natia Melicucco da molti decenni. Oggi, infatti, vive a Roma, si definisce imprenditore e non fa mistero del suo alto grado in massoneria. Rimosso, invece, il suo passato da militante del vecchio Partito comunista italiano. È un maniaco della riservatezza, il che però non lo ha salvato da continue apparizioni nelle cronache giudiziarie del nostro Paese. L’ultima lo vede, nel febbraio scorso, perquisito nell’ambito delle indagini sulla Consip e sugli appalti da destinare al “Gruppo Romeo”. Una perquisizione giustificata dal fatto che gli inquirenti messi alle calcagna di Alfredo Romeo lo fotografano mentre va a pranzo con i vertici dell’Inps e poi a colloquio con il tesoriere del Pd, al Nazareno. In Calabria due Procure si occupano di lui ed entrambe seguendo il filo della cosiddetta “massomafia”, una “supercupola” che si incarica di mediare affari miliardari selezionando la classe dirigente locale, utilizzando le cosche per il controllo del territorio, garantendo i patti con le maggiori imprese nazionali. Anche nel nuovo assetto delle logge calabresi e nel voto per il rinnovo dei vertici nazionali, la “massomafia” avrebbe avuto un ruolo di primo piano. Così, nel 2015, quando una “cooperativa rossa” affidataria di lucrosi appalti pubblici sull’asse Catanzaro-Cosenza deve scegliersi un “ambasciatore” che poi garantisca gli accordi, avrebbe puntato proprio su Rocco Borgia. Vero? Falso? È quanto stanno cercando di chiarire le indagini delle procure distrettuali di Reggio Calabria e di Catanzaro. Quel che appare accertato è che la ingombrante figura del massone Rocco Borgia spacca la sinistra italiana. Il suo nome, infatti, figura in due articolate e durissime interrogazioni parlamentari. La prima risale alla scorsa legislatura e vede come primo firmatario Elio Lannutti. Siccome rimase senza risposta, ecco che viene riproposta nell’attuale legislatura, prima firmataria Laura Castelli. Gli interroganti chiedono lumi sul ruolo avuto dal Borgia alla guida di una missione italiana in Somalia. In particolare chiedono al ministro degli Esteri chi aveva accreditato il Borgia nella Ong italiana Cins. Chiedono anche di sapere se «l’alter ego apicale nel Cins, tale Umberto Santich sia lo stesso Santich sotto processo a Roma per lo scandalo che costò il posto al capo di Finmeccanica Orsi». Infine intendono sapere se i due, Borgia e Santich, fossero consulenti della Farnesina. Il nostro ministero degli Esteri rispondere che in effetti Umberto Santich lo è stato e anche Rocco Borgia, aggiungendo però che «Rocco Borgia era tra i rinviati a giudizio per reati di cui agli articoli 54, 110 e 640bis del codice penale per truffa ai danni del ministero degli Esteri».

In Calabria, a radicare attenzioni e competenze delle locali Procure, opererebbe oggi la “Sviluppo Srl”, in cui il Borgia, pur non comparendo come socio, avrebbe consolidati interessi, utilizzandola anche per una serie di sinergie con le “cooperative rosse”. In questo contesto è proprio l’indagine delle Procure calabresi a dar manforte all’inchiesta Consip, per un motivo molto semplice: dimostrerebbe un rapporto stretto tra Rocco Borgia e la Cmc, al punto da curarne le proiezioni e gli interessi in Calabria. La Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, è un colosso della cooperazione rossa e in Calabria costruisce di tutto. Alfredo Romeo teme che il nuovo assetto ai vertici dell’Inps possa nuocergli. Ne coglie le prime avvisaglie anche rispetto a interessi che la sua azienda ha nella gestione del patrimonio immobiliare dell’Inps in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Lazio. Lo dice chiaramente l’imprenditore amico di Tiziano Renzi, Francesco Russo mentre parla con il Romeo: «A me mi stanno martellando, sono quelli di Cmc, incontrali, incontrali, incontrali». E lui per “incontrarli” si rivolge a Rocco Borgia concordando con lui una lauta consulenza attraverso, appunto, la Sviluppo Srl. Chiacchiere? Non pare proprio, visto che nelle perquisizioni condotte salta fuori una fattura intestata a Sviluppo Srl di 24.400 euro, versati dalla Romeo Gestioni in un conto corrente acceso presso la Banca Popolare di Bari, per «attività di consulenza e assistenza in merito a possibilità di sviluppo commerciale e partenariato in materia di efficentamento energetico». Identica dizione e identica casuale di altre “consulenze” che le inchieste calabresi troveranno nel corso delle loro indagini. Ovviamente cambiano i contraenti, non più la “Romeo Gestioni” ma altre aziende in procinto di concludere affari con la pubblica amministrazione e in particolare con Anas, Sorical e Regione Calabria. Da ultimo, la Guardia di finanza, nel sequestrare un parco eolico da 300 milioni di euro in quel di Isola Capo Rizzuto, perché riconducibile al clan ‘ndranghetistico degli Arena, rinviene e cataloga altre “consulenze” riconducibili alla Sviluppo Srl. Comprensibile la furiosa reazione del procuratore distrettuale Nicola Gratteri davanti a una “fuga di notizie” che appare solo artatamente giustificata con le inchieste dei carabinieri del Noe sulla Consip e sugli amici, veri e presunti, di Babbo Renzi. 

Omicidio Mormile, "Umberto ucciso dalla ‘ndrangheta con il nulla osta dei servizi segreti", scrive Antonella Beccaria il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia”. A parlare è Vittorio Foschini, ‘ndranghetista pentito che il 26 aprile 2015 ha detto anche altro: Mormile sapeva di un patto tra criminalità organizzata calabrese e servizi segreti. L’educatore carcerario lo disse chiaramente: “Io non sono dei servizi”, quando gli venne chiesto un favore per il boss Domenico Papalia, e per questo – anche per questo – morì. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile”, spiega infatti Foschini.

Vediamo di capire meglio. Umberto Mormile, 37 anni, era un educatore in servizio nel carcere di Opera dopo essere stato a Parma. Fu ammazzato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, mentre andava al lavoro. Gli furono sparati sei colpi di 38 specialesplosi da un’Honda 600 che aveva affiancato la sua Alfa 33. L’omicidio venne rivendicato dalla Falange Armata – Falange Armata Carceraria, per la precisione – sigla che esordì proprio con questo delitto (e sul punto torneremo). In via definitiva per l’omicidio Mormile sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Nel corso del processo, la memoria dell’educatore carcerario fu sporcata da insinuazioni secondo cui avrebbe avuto una “condotta non specchiata” e troppo propensa a prestare favori ai boss detenuti, sia a Parma che a Opera. Falso, tanto che già nella stessa sentenza di condanna non lo si dava per certo, non c’erano elementi per sostenerlo. Perché tornare a parlare adesso di tutto questo? Per due ragioni. La prima è che il 19 luglio scorso, sul palco allestito a Palermo, in via D’Amelio, per la commemorazione della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino 25 anni fa, sono saliti per la prima volta Stefano e Nunzia Mormile, fratelli di Umberto. Insieme ad Armida Miserere, la direttrice di carcere legata sentimentalmente all’educatore assassinato e morta suicida a Sulmona il 19 aprile 2003, i fratelli hanno portato avanti per anni ricerche in proprio e sono giunti a una conclusione: Umberto fu assassinato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e amministrazione penitenziaria per entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis, il regime di carcere duro. Stefano e Nunzia Mormile lo hanno ripetuto pubblicamente pochi giorni fa in via D’Amelio e lo hanno fatto in modo tanto vigoroso da essere stati avvicinati da Nino Di Matteo, il pm palermitano oggi alla Direzione nazionale antimafia. La seconda ragione per cui tornare a parlare di Umberto Mormile si lega alla prima, l’esistenza di un antesignano del Protocollo Farfalla noto a Umberto e possibile causa (o almeno concausa) del suo omicidio. Di questo si parla nell’ordinanza ‘Ndrangheta Stragista, quella che ipotizza (in realtà conferma aggiungendo nuovi elementi rispetto a quelli già conosciuti) l’esistenza di un patto terroristico tra malavita calabrese e Cosa nostra per destabilizzare lo Stato. Proprio nelle 970 pagine dell’ordinanza compaiono le parole di Foschini e a pagina 914 c’è un paragrafo che si intitola “Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni Falange Armata. L’omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola. Il copyright della ‘ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale”. Sul delitto Mormile, che aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia e stava rifiutando il secondo favore, intervennero anche – scrive la gip di Reggio Calabria Adriana Trapani – i servizi segreti o, più precisamente, “non identificati esponenti” degli apparati di sicurezza, che suggerirono ai Papalia di usare la sigla Falange Armata per rivendicare il delitto. Così successe e nell’ordinanza reggina si legge ancora (a parlare è sempre Foschini): “Antonio Papalia, come ci disse (a me, a Flachi, a Cuzzola, a Coco Trovato e altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione ‘Falange Armata’ dell’omicidio Mormile”. A questo proposito ha aggiunto il collaboratore di giustizia Antonino Fiume: “Tutti gli omicidi di un certo tipo venivano decisi dal ‘consorzio'”. Certo, affermazioni da riscontrare ancora, ma ce ne sarebbe abbastanza per tornare a indagare sul delitto Mormile e sulle complicità di uomini dello Stato in quell’omicidio. Per questo, forse, a processo ci fu chi puntò sulla sua inesistente “condotta non specchiata”.

La Falange Armata: quell'abbraccio tra mafie e servizi segreti, scrive Claudio Cordova giovedì 27 luglio 2017 su "Il Dispaccio". La vicenda della Falange Armata, collegata a centinaia di minacce, rivendicazioni, illecite inframmettenze nello svolgimento di funzioni pubbliche di governo, ha generato lo svolgimento di approfondite e complesse investigazioni in diversi Uffici Giudiziari. Va detto, è questo è un dato giudiziariamente accertato, che, mai, seppure ipotizzata, è stata trovata prova dell'esistenza di una vera e propria cellula terroristica-eversiva, inquadrabile in una fattispecie associativa – con una sua gerarchia interna, con una sua struttura, con un sua logistica, con armi, con dei suoi mezzi economici, delle sue basi - che rispondesse al nome Falange Armata. Essa è stata una sigla con la quale si sono, per un verso, rivendicati stragi, delitti ed attentati fra il 1990 ed il 1994 organizzati e materialmente eseguiti da soggetti non inquadrabili nella sedicente struttura in questione (mafie, delinquenti comuni, ecc) e, per altro verso, anche, minacce, pressioni, intimidazioni, calunnie, commesse in danno di esponenti istituzionali con telefonate, missive, queste si confezionate da chi era intraneo alla sedicente Falange. Dietro questa sigla, ovviamente vi erano persone. Più esattamente, un gruppo - o forse, più di un gruppo - di soggetti che la utilizzavano per raggiungere proprie finalità di natura politica e di destabilizzazione. Le rivendicazioni avevano oggettivamente un fine chiaro ed evidente: colorando della natura politico/terroristica fatti che non erano tali e la cui vera finalità non poteva essere apertamente dichiarata (quella di ricattare le istituzioni) servivano a creare un certo clima nel paese, evidentemente favorevole alle finalità di chi poneva in essere le azioni criminali e dello stesso gruppo che si nascondeva ed aveva intentato la sigla stessa. E il clima che voleva crearsi era un clima di terrore. Dunque, più nel dettaglio, l'intenzione di attribuire ad una organizzazione terroristica la responsabilità di una serie di fatti anche gravissimi di sangue, aveva un duplice ordine di ragioni: la prima, scontata, ragione (strumentale alla seconda) – che è inevitabile conseguenza degli atti terroristici - era quella, come si è detto, di creare paura nel paese. Che già conosceva il terrorismo e ne temeva la ferocia. Tutto ciò per ottenere qualcosa.

Falange Armata – o almeno quel gruppo che aveva inventato la sigla e la utilizzava secondo un preciso disegno – da un punto di vista materiale, si limitava a rivendicare, minacciare, calunniare. La falange armata, insomma, utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità. Finalità che, stando alle risultanze investigative, sarebbero esclusivamente di natura politica, quale espressione di una (sordida) lotta per il potere. C'è un inquietante filo rosso che lega le vicende stragiste. Alla fine del 2013, Tullio Cannella, le cui dichiarazioni sono importanti con riferimento alla ricostruzione dei rapporti anche di rilievo politico intercorrenti fra Cosa Nostra siciliana e 'Ndrangheta, dichiarava: "...A questo punto della lettura del verbale si richiede al Cannella se è in grado di meglio precisare cosa ebbe a sapere, nel contesto mafioso, degli attentati del 92/93. Il Cannella dichiara: era il Luglio del 93, Leoluca Bagarella era con me al villaggio Euromare di Buofornello. Era ora di pranzo ed era accesa la televisione. Andò in onda il tg e diedero la notizia degli attentati di Roma e Milano. A questo punto Bagarella che era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, disse con soddisfazione e con ironia:"vedi che ora queste cose le "appioppano" alla falange armata" poi disse ancora con tono compiaciuto: "...vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!". Io gli dissi " ma perché tu hai a che fare con i terroristi?". Bagarella rispose: "...Diciamo che abbiamo avuto qualche contatto". La sera ricordo che Bagarella era di ottimo umore. Gli avevo offerto i suoi sigari preferiti, i Barmorall. Se ne stava compiaciuto a fumare. Ad un certo punto ritornò il discorso sugli attentati e disse con tono serio "il "mio amico" ci ha a che fare con questi terroristi. Ma devono fare quello che diciamo noi. Se sgarrano gli tagliamo la testa". Quando Bagarella parlava con me del "suo amico" si riferiva univocamente a Provenzano Bernardo. Di ciò sono certo. In particolare lui, come ho già detto, quando doveva prendere una decisione importante mi diceva anche che ne doveva parlare con il "suo amico". Capivo, intuitivamente, che l'unico amico che era al di sopra di Bagarella, all'epoca (siamo dopo la cattura di Riina) era Provenzano. Poi ne ebbi la certezza. Una volta, in quel periodo, mi disse che dovevo risolvergli un problema del "suo amico" o meglio della moglie del suo amico e mi diede dei documenti, non ricordo ora di che genere, che riguardavano Saveria Palazzolo, moglie di Provenzano Bernardo. Insomma quando parlava del suo amico era chiaro fra noi che si riferiva a Bernardo Provenzano. Quando con me parlava dei Graviano, diceva: " quei cornuti dei Graviano". Diceva ciò in quanto sapeva del mio rapporto conflittuale con i Graviano stessi.

ADR: dalle notizie che in quel momento passava il tg, mi riferisco a quello di ora di pranzo che sentii con Bagarella, non si faceva alcun riferimento alla Falange Armata. Dunque fu sicuramente Bagarella ad introdurre il discorso sulla Falange Armata...omissis".

Cannella è stato il soggetto più vicino al boss di Cosa Nostra Leoluca Bagarella nel periodo delle stragi. E' colui che, in quell'epoca agevolava la latitanza del Bagarella, e, dunque, è colui che meglio e più di qualsiasi altro collaboratore di giustizia è in grado di riferire le reazioni, le frasi, i contatti, avuti dal Bagarella nel periodo della stragi continentali. In primo luogo, dalle dichiarazioni di Cannella emergeva che lo stesso Bagarella aveva affermato di avere rapporti con gli estremisti di destra. E che tali rapporti, in particolare, erano riferibili (oltre che a lui stesso) a Provenzano (il suo "amico"). In ogni caso gli estremisti dovevano fare quello che dicevano "loro". Le carte dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" si soffermano sul fatto se i legami fra Cosa Nostra e la destra estrema - davvero esistessero, in quanto gli ambienti deviati da cui derivava la sigla Falange Armata, erano collegati e connessi alla destra eversiva. Nota la convergenza fra Cosa Nostra, la destra eversiva di Stefano Delle Chiaie, la massoneria controllata da Licio Gelli (i cui rapporti con la destra eversiva sono pure stati ampiamente dimostrati) che si realizzò nei movimenti autonomisti-separatisti, nei quali non a caso, proprio Bagarella e il suo uomo, Tullio Cannella, ebbero ruolo significativo. E in effetti la sera del 14 Maggio 1993 e nella notte/mattina del 15 Maggio 1993, alcune ore dopo l'attentato di via Fauro (che aveva come obbiettivo il giornalista Maurizio Costanzo) vennero effettuate telefonate di rivendicazione "Falange Armata"; la mattina del 27.5.1993, dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze, più telefonate all'Ansa rivendicarono l'attentato a nome Falange Armata; dopo gli attentati di Roma e Milano del Luglio 1993, furono effettuate rivendicazioni a nome Falange Armata. E, tuttavia, il fatto che le gravissime attività stragiste in esame, poste materialmente in essere da Cosa Nostra nel continente, fossero poi rivendicate "Falange Armata", non sembra sia stato il frutto di un caso, di una serie d' iniziative eterogenee e scoordinate fra loro che, però, hanno portato ad un risultato omogeneo. Appare dimostrato, sulla base di convergenti (e perfettamente sovrapponibili) dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, Salvatore Grigoli e Pietro Romeo, che Cosa Nostra, in persona di un uomo dei Graviano, Giuliano Francesco detto "Olivetti", ebbe a rivendicare (anche se non in tutti casi) con la sigla Falange Armata, gli attentati continentali. Questo spiega agevolmente la ragione per la quale Bagarella sapesse di tale imminente rivendicazione. E, come vedremo, si pone in perfetta coerenza e continuità con quanto, già anni prima, Cosa Nostra, e prima ancora la 'Ndrangheta, avevano concepito, programmato ed attuato. In particolare, Grigoli, il 26.3.2015, nel riferire degli intensi rapporti fra la famiglia di Brancaccio ed i calabresi, dichiarava:

"...A.D.R: Giuliano Francesco detto Olivetti - durante un incontro a cui eravamo presenti io, il predetto, Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e forse altri, incontro durante il quale stavamo preparando, in un sito di Palermo dalle parti di Corso dei Mille, l'esplosivo per lo Stadio Olimpico - ad un certo punto, ci disse che era stato proprio lui a fare le rivendicazioni "Falange Armata" relative ai precedenti attentati sul continente. Se non erro disse che queste rivendicazioni le faceva da Roma. Ma non sono sicuro.

A.D.R: il Giuliano Francesco, di carattere è un po' chiacchierone e a volte dice cose che non dovrebbero dirsi secondo le regole di Cosa Nostra. Io ad esempio delle rivendicazioni al suo posto non ne avrei parlato.

A.D.R: Ovvio che tale iniziativa, quella della rivendicazione, era così delicata che il Giuliano (che seppure era chiacchierone non era bugiardo) non poteva che averla presa se non a seguito di un ordine superiore che non poteva che venire da Giuseppe Graviano (più che da Filippo). Questo il Giuliano non lo disse espressamente o meglio non ricordo se lo disse o no, ma è certo, in base alle nostre regole interne, che dovesse essere stato Graviano Giuseppe che coordinava in modo puntuale tutta l'attività stragista a dare questo ordine.

A.D.R: Effettivamente non so neanche io - e certamente neppure lo sapeva il Giuliano - cosa fosse esattamente la "Falange Armata". Io ritenevo fosse una sigla terroristica tipo Brigate Rosse ovvero altra sigla anche di estrema destra, per me era lo stesso. Prendo atto ed informazione dalla SV, che si tratta di una sigla che venne usata per la prima volta in Spagna in epoca franchista. Se è così, e non ne dubito, si tratta di una cosa molto raffinata e neppure Graviano Giuseppe, aveva una simile cultura. Direi che in Cosa Nostra quello che aveva più cultura era Matteo Messina Denaro che io ho personalmente conosciuto.

A.D.R: Io ho sempre pensato che fosse scontato che la rivendicazione Falange Armata servisse a depistare le indagini e sono convinto sia così anche in considerazione della vicenda Contorno. Non bisognava capire, o almeno non doveva apparire una immediata riconducibilità degli attentati di Roma, Firenze, Milano e dell'Olimpico a Cosa Nostra, mentre era inevitabile pensare che l'attentato a Contorno era riconducibile a noi. Per tale ragione, mentre facevamo uso di tritolo per gli attentati precedenti e fra questi l'Olimpico, per l'attentato a Contorno usammo della gelatina ed un esplosivo bianco, granuloso che noi chiamavamo dash, assai diverso dal tritolo. Preciso a sua richiesta che, ovviamente, qualcuno doveva capire che c'entravamo noi con questi attentati continentali, altrimenti che li facevamo a fare, ma non doveva essere immediatamente visibile la nostra presenza, la nostra mano. Chi di dovere doveva capire e venirci incontro riducendo il carcere duro e le altre misure contro il crimine organizzato. Erano discorsi che facevamo sempre all'interno del gruppo di Brancaccio che si occupava di queste vicende. Dovrei avere parlato di questi fatti anche con Nino Mangano.

A.D.R: Vidi di persona, per una delle ultime volte (o forse era anche l'ultima volta, ma a distanza di anni non posso essere sicuro) Giuseppe Graviano a Roma più esattamente lo vidi in una villetta vicino al mare in una località nei pressi di Roma che si chiama Torvajanica. Era un giorno o forse due giorni (propendo più per due giorni) prima dell'attentato fallito dell'Olimpico. Non ricordo esattamente l'ora in cui arrivò il Graviano ma era buio, forse era sera o pomeriggio inoltrato. A vostra domanda escludo di essere stato presente, sempre in quel giorno o anche il giorno prima o il giorno dopo, in un locale di via Veneto a Roma di nome Donnay unitamente al Graviano Giuseppe e allo Spatuzza. Escludo di essere mai stato con Graviano in locali di Via Veneto. A sua domanda non posso escludere che prima o dopo il suo arrivo a Torvajanica il Graviano si sia visto con lo Spatuzza nel predetto locale. Non conosco la circostanza. Nel villino di Torvajanica quella sera iniseme a me e Giuseppe Graviano c'erano Spatuzza, Giuliano, Lo Nigro, Benigno Salvatore, Giacalone e forse altri. Forse, ma non sono sicuro, vi era anche Vittorio Tutino ovvero Cristoforo, detto Fifetto, Cannella, unitamente al Graviano quali suoi accompagnatori. A sua domanda preciso che non posso assolutamente escludere che il Graviano giunse a Torvajanica anche insieme allo Spatuzza o con lo stesso. Dato il tempo trascorso, di questi dettagli non ho ricordo preciso. A vostra ulteriore domanda rispondo che non ricordo che nel villino, ovvero in altre circostanze legate all'attentato alla FFOO dello Stadio Olimpico, si sia fatto riferimento a vicende calabresi più o meno simili.

ADR: Ricordo che nel corso dell'incontro nel villino in questione Giuseppe Graviano nel dire che bisognava concludere e portare a conclusione, immediatamente, l'attentato all'olimpico da subito (già il giorno dopo o forse quello ancora successivo) disse che bastavano quattro persone per fare l'attentato, per cui invitò me e se non sbaglio il Giuliano a ritornarcene in Sicilia. In effetti la mattina successiva partimmo per la Sicilia io e probabilmente come ho detto il Giuliano...

ADR: Era il Lo Nigro che aveva stretti rapporti con la 'ndrangheta come la vicenda del traffico di "erba" con la 'ndrangheta e la sua partecipazione a cerimonie che si svolsero in Calabria, tipo matrimoni, dimostrano (sono fatti di cui ho ampiamente già parlato). Ricordo che in questa occasione di viaggio in Calabria il Lo Nigro venne anche fermato dalla polizia. Può darsi, non posso escludere, che pure i Graviano avessero questi rapporti in Calabria, ma non sono in grado di dire fatti specifici.

ADR: Non sono in grado di riferire di viaggi dei Graviano in Calabria. Ricordo, invece, che Giacalone nel corso del 93/94, talora andava a Milano, presso un Ristorante di cui non ricordo il nome su diretta richiesta di Giuseppe Graviano e/o di Mangano per consegnare delle lettere al proprietario di questo ristorante che non so dire chi sia. Forse potrebbe essere anche un calabrese come la SV mi chiede. Giacalone che era mio socio in una rivendita di auto e che era con me in grande confidenza, mi raccontava di questi viaggi milanesi o spesso partiva organizzando proprio davanti a me il viaggio. Mi disse che una volta si era trovato in mezzo ad una sparatoria in un bar o comunque in un locale milanese in cui casualmente si trovava nel corso del viaggio che aveva fatto per recapitare queste lettere. Non conosco il contenuto di queste lettere.

ADR: La mia conoscenza dei fatti stragisti si limita a ciò che avvenne in Cosa Nostra nel gruppo in cui operavo quello del mandamento di Brancaccio in cui era inclusa la famiglia di Corso dei Mille cui io appartenevo. Non so dire se vi furono condivisioni della strategia stragista con entità criminali diverse da Cosa Nostra..."

A sua volta, il collaboratore di giustizia, Pietro Romeo, il 26.3.2015, anche lui rimarcando i rapporti fra la famiglia di brancaccio ed i calabresi, riferiva: "...A.D.R. Mi chiedete se nel contesto della mia partecipazione ai fatti stragisti continentali ho avuto informazioni sulle rivendicazioni "Falange Armata". Vi rispondo di sì. Premetto che io sono uscito dal carcere tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994. Quando uscii dal carcere – ero detenuto per delle rapine che avevo fatto - non ero uomo d'onore e, per la verità, non lo sono mai diventato. Tuttavia partecipai alle attività del gruppo di Brancaccio. In pratica quando, dopo la mia scarcerazione incontrai Giuliano Francesco, che io conoscevo come appartenente a Cosa Nostra, che faceva capo a Tagliavia Francesco di Corso dei Mille/Via Messina Marina, figlio di Giuliano Salvatore, esponente di rilievo della famiglia di Corso dei Mille. Del gruppo del Tagliavia facevano parte anche il Cosimo Lo Nigro ed il Barranca Giuseppe. Ebbene il Giuliano Francesco mi propose di entrare nel gruppo di fuoco guidato all'epoca da Nino Mangano. Si tenga presente che all'epoca erano in carcere sia i Graviano (capi di Brancaccio ma molto legati alle famiglie di Corso dei Mille e via Messina Marina) che il Tagliavia. Io accettai e così andai dalle parti di Roma ad aggregarmi al gruppetto che in quel momento doveva fare l'attentato a Contorno in località Formello, vicende tutte su cui ho reso ampie dichiarazioni. Venendo alla sua domanda le dico che il Giuliano che era persona molto loquace, di sua iniziativa, non solo mi parlo degli attentati precedenti (quelli di Roma, Firenze e Milano) ma mi raccontò anche che era stato proprio lui a telefonare, dopo gli attentati, rivendicando gli stessi a nome Falange Armata. Non ricordo a chi telefonò per fare le rivendicazioni. Mi disse, comunque, che così gli avevano ordinato di fare e lui così fece ed anche se lui non mi ha detto chi gli diede questo ordine, io penso che a darlo possano essere stati solo i Graviano o il Tagliavia perché Giuliano prendeva ordini da loro e comunque non poteva prendere una iniziativa così importante senza che i capi lo autorizzassero. Il Giuliano mi spiegò che, seppure le stragi erano state volute per affievolire il regime di carcere duro contro la criminalità organizzata e per avere, più in generale, dallo Stato, un migliore trattamento, tuttavia non si voleva – evidentemente da parte chi gli aveva dato l'ordine di fare le rivendicazioni in questione (e quindi da chi stava sopra a chi gli aveva dato tali ordini) - che fosse immediatamente ricollegata la strategia stragista a Cosa Nostra. Insomma queste rivendicazioni servivano a "depistare". Per la verità io dissi a Giuliano: ma tu pensi che facendo così lo Stato si arrende? Non ricordo la sua risposta ma certo non mi disse nulla di significativo se no lo ricorderei, almeno penso.

A.D.R: Giuliano, come ho detto era un chiacchierone. Dunque parlava spesso di questi argomenti. Non posso dirle dove esattamente mi disse queste cose. Direi sia in Sicilia che in Continente quando eravamo insieme.

A.D.R: Era Cosimo Lo Nigro, che aveva rapporti privilegiati con i calabresi. Ricordo che il Lo Nigro addirittura andava a dei matrimoni o battesimi o comunioni, non ricordo, di questa famiglia di 'ndrangheta che si celebravano in Calabria, non ricordo dove. La cosa me la disse lo stesso Lo Nigro. Inoltre come ho già ampiamente raccontato (su questi fatti sono stati celebrati dei processi) Lo Nigro faceva affari di ogni genere, sia nel settore della droga che delle armi, con i calabresi ed, in particolare, con la famiglia di questo Peppe presso cui era anche andato in occasione delle ricorrenze sopra indicate. Ho partecipato in prima persona e quindi rinvio alle dichiarazioni rese an suo tempo in quanto ovviamente ricordavo meglio i dettagli, a queste operazioni di traffico di droga e armi svolte insieme ai calabresi. Il fatto più eclatante che ricordo fra i tanti è che il Lo Nigro, sotto i miei occhi, mise 500 milioni in contanti all'interno dello sportella della sua vettura smontando un pannello. Tali soldi li portò in Calabria da Peppe o dai suoi amici per investirli in un ulteriore carico di droga. Erano i calabresi che avevano i contatti con i produttori e dunque a loro ci si rivolgeva. Tutto ciò avveniva subito dopo i fatti di Formello fra il 1994 ed il 1995. Ricordo anche di avere visto con i miei occhi il Peppe a Palermo vicino la casa di famiglia di Cosimo Lo Nigro, con una Renault Clio Williams blu. Era una vettura particolare dunque la ricordo. Portammo noi di Cosa Nostra, nel 94, dal Marocco, "fumo" dei calabresi fino a Palermo. In cambio avemmo una parte del carico ed il restante lo consegnammo alla famiglia di Peppe. Ricordo che tale carico lo portarono a Milano, con un camion, Piero Carra e Cosimo Lo Nigro. Nel traffico era implicato un altro calabrese, Giovanni detto "Virgilio", calabrese.

A.D.R: Non sono in grado di dire come il Lo Nigro avesse stretto in modo così significativo i rapporti con i calabresi. Mi chiedete se si trattava di amicizie dei Graviano ed io vi dico che non sono in grado di rispondere.

A.D.R: Non sono in grado di riferirle se la strategia delle stragi continentali ebbe un consenso anche da parte di altre organizzazioni di tipo mafioso. Io non avevo rapporti con i capi di tali organizzazioni. Neppure il Giuliano era all'altezza di avere questi rapporti i vertici di altre entità criminali...omissis".

La sigla Falange Armata, che Cosa Nostra decise di adottare ad Enna e che, quasi contestualmente (leggermente prima) la 'Ndrangheta decise di adottare, richiamava coordinate e conoscenze storico/politiche piuttosto ricercate . Il precedente più vicino (anzi, l'unico, per la verità, nella storia contemporanea, moderna e medievale) ed anche più congruo, era quello dei cd falangisti, della destra franchista spagnola del secolo scorso. In particolare, come è noto agli storici, la "Falange Espanola de las J.O.N.S." fu una formazione di ispirazione fascista fondata nella Spagna della Seconda repubblica da Josè Antonio Primo de Rivera nel 1933. Nel 1937, in piena guerra civile spagnola, si fuse con il movimento nazionalista e diede vita al partito "Falange Espanola Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista – FET y de las JONS", in cui confluirono le forze legate ai vecchi valori monarchici, clericali e conservatori. Il generale Francisco Franco ne assurse a leader indiscusso e, nel 1939, il "FET y de las JONS" diventa "Movimento Nacional", partito unico franchista. Se vogliamo andare più dietro nel tempo per trovare un altro riferimento alla Falange, è necessario affidarsi alle reminiscenze degli studi classici, evocando la cd Falange Macedone. Si tratta, come si vede, di riferimenti storici che, francamente, stridono con il livello culturale ed il grado di conoscenza della storia e della politica, antica e moderna, di Riina, Provenzano, Bagarella, Filippone, Papalia e compagni. E allora, forse, vi sono delle menti ancor più sopraffine dietro. Squarci di luce arrivano, ancora una volta, dalle dichiarazioni messe nero su bianco in fase di indagine. A cominciare da Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu". Egli, nel corso dell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava un dato fondamentale riguardante la genesi della strategia terroristica di cui Cosa Nostra fu massima artefice: la riunione, meglio, le riunioni "strategiche" di Enna della fine del 1991, in cui venne decisa la necessità di dare uno scossone allo Stato, innescando una spirale del terrore. Fatto di cui aveva riferito Leonardo Messina. E tuttavia, Malvagna, disvelava un particolare di non secondario rilievo relativo a tali riunioni: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...

A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...

A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace" (N.d.PM : si tratta esattamente della ricostruzione operata nelle sentenze fiorentine sulle stragi). Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla "Falange Armata"..."

Malvagna, quindi, veniva nuovamente escusso il 20.5.2015: "...A.D.R: Secondo il racconto di mio zio Malpassotu, furono i Corleonesi - ed in particolare Totò Riina - a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati "Falange Armata". Quando mio zio disse questa sigla in compresi che si trattava di un qualcosa che doveva rappresentare un riferimento ad una qualche organizzazione terroristica. Poi mio zio mi spiegò ancora meglio. Mi disse che bisognava confondere le acque. Non bisognava fare capire all'opinione pubblica e allo Stato che eravamo noi mafiosi a sviluppare questa strategia terroristica ma dovevamo gettare sconcerto e scompiglio fino ad indurre lo Stato a cercare una interlocuzione con noi. Mio zio mi disse per farmi comprendere a cosa alludesse che bisognava fare come in Colombia dove i trafficanti di cocaina quando erano stati duramente attaccati dallo stato colombiano che veniva supportato dalla DEA e dagli americani, iniziò a porre in essere, sotto mentite spoglie, una strategia di attentati terroristici che indussero lo Stato a scendere a compromessi con loro. Non so dire se questo esempio storico di mio zio sia corretto ma così mi disse. In ogni caso mio zio mi spiegò che bisognava da subito attivarsi anche con atti soltanto dimostrativi. Bisognava creare da subito un clima di paura. Fu così che immediatamente presi la palla al balzo e chiesi a mio zio se potevo fare giungere delle minacce all'allora sindaco di Misterbianco a nome Antonino Di Guardo che era un sindaco "antimafia" che ci dava fastidio denunciando pubblicamente il nostro sodalizio. Mio zio assentì e così io incaricai un giovane di mia fiducia tale Alfio Adornetto che faceva parte del gruppo che io dirigevo di telefonare a casa di questo sindaco e minacciarlo, rivendicando le minacce con la sigla Falange Armata. La cosa avvenne (siamo nella primavera del 1992) e se non sbaglio questo Sindaco è stato pure ascoltato come teste nel processo per la strage di Capaci nella quale pure io sono stato escusso. Ricordo anche che venne fatto un attentato dimostrativo davanti alla Caserma di Piazza Verga dei Carabinieri e anche in questo caso facemmo la rivendicazione Falange Armata. Di questo attentato si occuparono gli uomini di D'Agata. In quello stesso periodo erano in preparazione ma non ricordo se andarono ad effetto altre minacce o atti intimidatori con le stesse modalità ai danni del giornalista Claudio Fava, dell'avvocato Guarnera che difendeva i collaboratori di giustizia e il Sindaco Bianco (non ricordo se all'epoca fosse o meno in carica). Tutto ciò avveniva nello stesso periodo in cui il Santo Mazzei dava la disponibilità a fare attentati in continente. A proposito di ciò ricordo che mio zio il Malpassotu diceva che se il Mazzei fosse riuscito davvero ad eseguire gli attentati che si riprometteva di compiere avrebbe fatto una carriere fulminate superandoci nella gerarchia mafiosa. Ovviamente diceva ciò con preoccupazione in quanto temeva che noi perdessimo potere...omissis....

Le affermazioni di Malvagna, trovavano, poi, conferma nelle convergenti dichiarazioni di altro collaboratore di Giustizia catanese, Maurizio Avola, che aveva già parlato della riunione di Enna del 1991 nella quale i vertici di Cosa Nostra siciliana avevano deciso di attaccare lo Stato con atti terroristici in quanto i suoi rappresentanti non erano più affidabili con la conseguente necessità di creare una situazione di panico diffuso che avrebbe agevolato rivolgimenti politici favorevoli alle mafie. E tuttavia, anche Avola, peraltro in piena consonanza con sue pregresse dichiarazioni, nel corso dell'interrogatorio reso a questo Ufficio, in data 14.4.2015, dichiarava: "....ADR: Furono Aldo Ercolano e Marcello D'Agata che dissero a noi della famiglia Santapaola, quando già Santo Mazzei era divenuto un esponente di rilievo di Cosa Nostra catanese, in mia presenza, che laddove fossero stati eseguiti gli attentati contro lo Stato che avevano deciso i corleonesi, bisognava ricorrere a delle rivendicazione "di comodo" che non dovevano consentire di collegare gli attentati a Cosa Nostra, che, infatti, non rivendica mai le proprie azioni. Dissero che bisognava utilizzare la sigla Falange Armata. A vostra domanda vi dico che non sono in grado di dire come sia stata "inventata" questa sigla. Io pensavo che fosse una rielaborazione delle "Falangi" con cui si denominavano gli ultras del tifo calcistico. Ma si tratta di una mia ricostruzione e di una mia ipotesi. I miei capi non spiegarono l'origine della sigla. Faccio presente che allorquando nel 1992 venne collocato a Piazza Verga un ordigno di fronte ad una caserma dei CC da parte di Pippo Ercolano, venne fatta una rivendicazione Falange Armata. L'atto intimidatorio venne posto in essere dall'Ercolano perché all'epoca i CC indagavano su di una sua impresa. A vostra domanda preciso che non posso né escludere né affermare che fosse stato Santo Mazzei ad inventarsi questa sigla Falange Armata...".

Oscuri e inquietanti gli interrogativi su chi inventò la sigla Falange Armata, l'esatta individuazione e collocazione nel tempo delle modalità attraverso cui Cosa Nostra (e, soprattutto, la 'Ndrangheta) decisero di utilizzare la rivendicazione "Falange Armata" in occasione di eventi stragisti ovvero di delitti che, comunque, avevano come bersaglio figure istituzionali o politiche, e la individuazione del momento in cui le mafie, e non altri, iniziarono ad utilizzare concretamente la stessa. Oscuri e inquietanti gli interrogativi sui suggeritori esterni. L'idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato – il cui nucleo forte era costituito da una frangia del SISMI e, segnatamente, da alcuni esponenti del VII Reparto cd "Ossi" che, fino alla caduta del muro di Berlino (o, fino a pochi mesi dopo) si occupava di Stay Behind – che, evidentemente, volevano destabilizzare il paese creando un nuovo allarme terroristico; costoro – che non scordiamolo avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della 'Ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla "Falange Armata". Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatto proprio anche da Cosa Nostra, nel corso della riunione Enna. L'idea delle mafie di rivendicare le stragi con la sigla Falange Armata non era una trovata bislacca e cervellotica dei capi delle mafie, ma rispondeva perfettamente alle loro esigenze strategiche; era stata approvata da Cosa Nostra, nel lontano 1991, ad Enna, nello stesso periodo storico in cui Cosa Nostra e le altre mafie iniziarono a dare sostegno, con Gelli e l'estrema destra, alle cd liste autonomiste; il loro concreto atturarsi in occasione delle stragi continentali era noto e gradito al reggente di Cosa Nostra nel 1993 (Leoluca Bagarella) prima ancora che tali rivendicazioni fossero note. In tal senso, non è affatto secondario il rilievo di quanto, sempre sul conto di Bagarella, riferiva un collaboratore di giustizia siciliano, Emanuele Di Filippo, alla fine del 2013: "...A.D.R.: Ho fatto parte, originariamente, del gruppo di fuoco di Ciaculli nel corso dei primi anni 80'. Ero uomo d'onore ma non ritualmente "punto". Il mio capo, all'epoca, era mio cognato Marchese Antonino. Dopo il suo arresto avvenuto credo nel 1982, cominciai a prendere ordini da Giuseppe Lucchese detto "lucchiseddu" con il quale ho commesso numerosi omicidi per i quali sono già stato giudicato. Intorno alla metà degli anni 80', precisamente intorno al 1985, riuscii a "sganciarmi" dal ruolo "ingrato" di killer ed iniziai ad operare nel settore degli stupefacenti, delle estorsioni e del contrabbando di sigarette. Come ho già ampiamente spiegato, per svolgere tale mia ultima attività, nella quale sono stato impegnato fino al mio arresto nel 1994 ( ho iniziato a collaborare nel 1995, e grazie alle mie indicazioni e dichiarazioni venne catturato Leoluca Bagarella ) seppure rimanevo "inquadrato" nella famiglia di Ciaculli, operativamente mi sono "spostato" nella zona di Brancaccio/ Corso dei Mille, dunque, in tale contesto, facevo riferimento ai fratelli Graviano anche se costoro, ovviamente, non erano i miei capi.

ADR: Io avevo rapporti risalenti nel tempo e consolidati con Leoluca Bagarella dovuti a motivi di parentela. In particolare mia sorella si era sposata con Marchese Antonino che era il fratello della moglie di Leoluca Bagarella che si chiamava Vincenzina. A ciò si aggiunga che i rapporti fra i Graviano e Bagarella erano assai stretti e che io stesso facevo da tramite fra il mio predetto cognato, detenuto a Voghera, e Totò Riina – notoriamente vicinissimo a Bagarella di cui era cognato – facendogli pervenire dei pizzini di Riina stesso, pizzini che mi venivano consegnati, chiusi e sigillati, da Filippo Graviano...

ADR: Cesare Lupo era persona inserita in Cosa Nostra, molto vicina ai Graviano, anche se operava principalmente con la famiglia di Corso dei Mille (il cui territorio peraltro è limitrofo a quello di Brancaccio). Ho conosciuto il Lupo da libero nei primi anni 90', ma si è trattato di incontri occasionali. Mio fratello Pasquale, che pure collabora, ha avuto, invece, con il Lupo, rapporti più intensi e penso possa dirle su di lui qualcosa in più. Di seguito, in ogni caso, ebbi modo di rivedere ed incontrare il Lupo presso il Carcere dell'Ucciardone. Mi sembra alla sezione seconda. Eravamo nel 1994.

ADR: Mi si chiede se confermo quanto riferito alla DDA di Firenze nel già citato interrogatorio, sul fatto che il Lupo mi parlò di collegamenti fra il Leoluca Bagarella ed ambienti istituzionali deviati. Rispondo che lo confermo. In pratica il Lupo, proprio mentre ci trovavamo all'Ucciardone e parlavamo di pentiti, mi disse che Leoluca, prima o poi, li avrebbe individuati grazie ad informazioni che riceveva da qualcuno dei servizi segreti ....omissis".

Se, quindi, come risulta, vi erano rapporti o contatti fra il Bagarella ed esponenti dei servizi si ha una ulteriore traccia - coerente rispetto alle altre fonti di prova che consente di individuare in alcuni esponenti deviati dei Servizi di Sicurezza, suggerì a Cosa Nostra - in epoca antecedente e prossima alla riunione dell'estate 1991 ad Enna in cui la sigla venne adottata dal sodalizio mafioso - di utilizzare, per la rivendicazione delle stragi, la sigla Falange Armata. Specie se si considera che proprio il Bagarella era ben consapevole della funzione e delle finalità della strategia di rivendicazione delle stragi da parte di Falange Armata. Ed in questo ambito è ben possibile, oltre che coerente, che in più ampio quadro pattizio e, quindi, in un ambito in cui si erano individuati obbiettivi di comune interesse, si fosse proceduto ad una divisione di impegni e compiti fra i diversi partners, nel quale, le mafie, per la loro parte, si erano impegnate a "fare rumore". E, ovviamente, si badi bene, non deve affatto pensarsi che Cosa Nostra (e la 'Ndrangheta) avessero preso questi impegni controvoglia, sottomettendosi ad altri. Anzi. Le Mafie intendevano ricattare ed atterrire lo Stato con il terrorismo. Anche favorendo un ricambio della classe politica. In particolare, è noto che anche Licio Gelli – ed un suo vasto entourage - avevano preso parte, con ruolo di primario rilievo, al disegno di disgregazione del panorama politico istituzionale della Prima Repubblica. Ma tornando alle intelligenze fra Cosa Nostra e servizi deviati un importante elemento cognitivo, pienamente convergente rispetto a quelli fino ad ora evidenziati e che rafforza, quindi, la ricostruzione fino ad ora prospettata, proviene dalle affermazioni del collaboratore di Giustizia Armando Palmeri, legato alla mafia di Alcamo, che fin dall'inizio della sua collaborazione (nel 1998) aveva segnalato un episodio davvero inquietante. In particolare all'inizio del luglio 2016, Palmeri riferiva: "...ADR: Sono entrato in Cosa Nostra nel 1991. Nel 1995, avendo già preso le distanze da Cosa Nostra, con la quale era però rimasto in contatti, ho iniziato a collaborare informalmente con gli inquirenti, facendo in buona sostanza l'informatore e, poi, nel 1998 ho formalmente iniziato collaborare con la AG ottenendo il programma di protezione.

ADR: All'interno di Cosa Nostra non ero uomo d'onore ufficialmente, ma ero persona "riservata" di Milazzo Vincenzo, capo-mandamento di Alcamo. Mi spiego meglio: ero inizialmente e sono rimasto amico personale di Milazzo fino a quando non è stato ucciso nell'estate del 1992. Eravamo amici da alcuni anni, un paio circa. Io ero persona di fiducia del Milazzo, anche per gli affari di mafia del predetto. Spesso lo spostavo. Tenete conto che da quando io ebbi a conoscerlo era già latitante. Preciso che non ero stipendiato ma semplicemente molto legato al Milazzo. Ovviamente se e quando chiedevo dei soldi in relazione alle mie necessità, Milazzo me li dava. Ma in quel contesto più dei soldi contava la sincera amicizia. Io all'epoca ero istruttore di nuoto presso la piscina Camping El Baira di S.Vito lo Capo e alle Terme Segestane.

ADR: Con riferimento a contatti fra il Milazzo ed esponenti di apparati statali o sedicenti tali, posso dire che nel 1991 e, comunque, alcuni mesi prima dell'omicidio del Milazzo (non so dire se 1 anno, 6 mesi, 8 mesi prima o altro è passato troppo tempo) e comunque prima della strage di Capaci accompagnai il Milazzo ad un incontro che si tenne nelle campagne di Castellammare (svincolo che va a Scopello) in una villetta di pertinenza di tale Manlio Vesco. In effetti, precisamente, la villetta, era in contrada Consa. Costui, il Vesco, era un imprenditore amico del Milazzo, poi morto suicida, in circostanze molto particolari. Appresi, infatti, che stranamente il Vesco, prima di morire, aveva posteggiato la vettura lungo l'autostrada vicino lo svincolo di Alcamo per poi percorrere chilometri e chilometri a piedi, per poi, infine, lanciarsi nel vuoto. Ricordo che anche i mezzi d'informazione sottolinearono la stranezza del fatto.

ADR: Ricordo che Milazzo in occasione di questo primo incontro in contrada Consa, mi chiese di partecipare allo stesso. Io mi rifiutai, non volevo espormi e preferivo rimanere nell'ombra. Allora Milazzo mi disse di non entrare nella villetta ma di attenderlo fuori, rimanendo defilato ed invisibile, avendo cura di controllare i movimenti che potevano esserci intorno alla villa stessa. All'uopo mi diede anche un binocolo. Vidi arrivare due vetture dopo l'arrivo del Milazzo da cui uscirono, da una, due persone che non conoscevo (si trattava di persone ben vestite di circa 40 anni, che escluderei potessero essere dei "picciotti") accompagnate dal dott. Baldassarre Lauria, medico primario dell'Ospedale di Alcamo che io già conoscevo fisicamente e che li seguiva o precedeva con l'altra macchina. A seguito dell'incontro Milazzo mi apparve molto preoccupato e turbato. Lui aveva molta fiducia in me e senza che io chiedessi nulla (in Cosa Nostra non si chiede) mi raccontò che le due persone venute con il Lauria erano due dei servizi segreti i quali senza giri di parole avevano richiesto al Milazzo di fare una attività di tipo terroristico in continente per loro conto. Se non ricordo male gli chiesero di fare degli attentati in continente. Non sono sicuro se in questa occasione si parlò di Firenze, come uno dei luoghi in cui fare attentati o se invece con riguardo a questo stesso argomento la città di Firenze non venne in considerazione successivamente in quanto luogo ove si trovavano dei parenti della famiglia Ferro che avrebbero potuto fare da appoggio per la commissione dell'attentato. Su questo vi dirò in seguito procedendo con ordine. E' certo che, comunque, questi attentati andavano fatti in continente e in tale contesto in effetti, mi disse il Milazzo, che il dott. Lauria che partecipò alla discussione con quelli dei servizi, tirò fuori l'idea di procedere anziché con attentati dinamitardi con l'avvelenamento delle acque, a mezzo ii batteri. Insomma secondo il Lauria era più agevole avvelenare l'acquedotto (ubicato, forse, ma come ho detto non ricordo con certezza, a Firenze). Il Milazzo mi disse che l'idea del Lauria della guerra batteriologico venne tuttavia subito esclusa e rimase in campo solo l'idea degli attentati tradizionali con esplosivo.

ADR: Secondo quanto mi disse il Milazzo, negli intenti di costoro – e cioè di quelli dei servizi - vi era quello di destabilizzare lo Stato. Non so dirvi perché volessero destabilizzare lo Stato nel senso che Milazzo su questo aspetto nulla disse. Posso invece dirvi che il Milazzo, all'esito di questo primo incontro si riservò di dare una risposta. In ogni caso era davvero preoccupato e già mi disse che tendenzialmente non aveva intenzione di farsi coinvolgere anche se forse lo avrebbe anche fatto – se io non lo avessi dissuaso – perché, diceva di avere molta paura di questi soggetti dei servizi. Ricordo le sue parole testuali: sono loro la vera mafia.

Insomma pur trovando folle il progetto, Milazzo aveva timore di inimicarsi questi agenti dei servizi. Io, come ho detto, gli spiegai che doveva astenersi e non farsi coinvolgere perché rischiava di mettersi in guai ancora più grandi. Senza contare che afre attentati, uccidendo anche perone innocenti, fra cui donne e bambini, non è da vero uomo d'onore. Lui alla fine si convinse a non farsi coinvolgere ma nella consapevolezza che ciò gli sarebbe costato la vita. Disse: va bene cerchiamo di non farci coinvolgere ma moriremo. In effetti poi sia pure con cautela e con diplomazia riuscì a non farsi coinvolgere.

ADR: Mi chiedete se sono a conoscenza della vicenda del ritrovamento di un arsenale di armi nel 1993 nella villa di due carabinieri, nei pressi di Alcamo. Nulla ne so, anche se ricordo l'episodio che sicuramente non era ascrivibile a Cosa Nostra.

ADR: No so dirvi la ragione per la quale questi sedicenti esponenti dei servizi si rivolsero per questo "affare" proprio al Milazzo. Posso dirvi però che il Milazzo mi disse che questi due agenti sapevano di me, sapevano cioè che io ero legato al Milazzo e che, come dissero al Milazzo stesso, mi consideravano molto scaltro e capace verosimilmente in senso criminale.

ADR: A seguito vi furono altri due incontri fra il Milazzo con questi dei servizi (erano sempre le due stesse persone): uno si svolse sempre in contrada Consa ma mi sembra in una casa diversa dalla prima e l'ultimo, il terzo, nella casa di tale Senatore Corrao che si trova sulla cima di un monte che si chiama Bonifato, nei dintorni di Alcamo.In entrambi questi incontri si parlò ancora degli attentati in continente che quei due dei Servizi volevano fossero fatti. In entrambi gli incontri io rimasi fuori a vigilare e in un caso, addirittura, seguii e pedinai la vettura dei due agenti dei servizi fino a Palermo, senza però scoprire nulla in quanto li persi in una rotatoria di Via Belgio.

Fu quindi il Milazzo che mi raccontò lo svolgimento dei due incontri spiegandomi che si era destreggiato nel senso pur senza farsi direttamente coinvolgere come si era ripromesso, non rifiutò mai esplicitamente un suo apporto a tali attentati. Prendeva tempo dando una generica disponibilità. L'importante era non prendere impegni stringenti che potevano costringerlo a dare attuazione al progetto stragista. Milazzo, tuttavia, immaginava, per come mi disse, che quelli dei servizi potessero sospettare o addirittura ritenere che lui voleva "sgusciare via e fare il furbo". In proposito proprio l'incontro con Gioacchino Calabrò, che avvenne a seguito di questi tre incontri, in un baglio sito vicino Calatafimi, può trovare spiegazione proprio in questo atteggiamento attendista e ad un tempo apparentemente compiacente del Milazzo nei confronti di quelli dei servizi. In sostanza successe che io accompagnai il Milazzo a questo incontro e rimasi in disparte mentre Milazzo parlava con il predetto Calabrò che era uomo d'onore di Castellammare del Golfo. Tuttavia, io trovandomi a breve distanza dai due, riuscii, comunque, a sentire aspetti salienti dei loro discorsi. In particolare sentii che Milazzo ordinava a Calabrò di dire a Ferro Giuseppe (allora soldato del Milazzo, ma successivamente divenuto, dopo la morte di Milazzo, Capo-Mandamento) di ordinare ai suoi parenti che si trovavano a Firenze di "mettersi a disposizione" di Cosa Nostra. Sul momento non misi a fuoco esattamente il senso di quell'ordine. Quando, però, un anno e passa dopo vi fu l'attentato di Firenze di via dei Georgofili, pensai che l'attentato e l'ordine che aveva dato il Milazzo potessero avere un qualche oggettivo collegamento fra loro ( tenete conto nel frattempo il Milazzo era morto e Ferro era il nuovo capo-mandamento) e, quindi, in via logica, misi anche in collegamento gli incontri con quelli dei servizi, in cui si parlò di attentati in continente, con i due episodi in questione ( e cioè : ordine dato da Milazzo al Calabrò e l'attentato di Firenze).

ADR: I proprietari delle tre abitazioni in cui si svolsero gli incontri di cui ho parlato, non so se abbiano a meno partecipato agli incontri ed alle discussioni con questi agenti dei servizi. Viglio dire che io non li ho visti ma non posso escludere che nel momento in cui accompagnai presso tali abitazioni il Milazzo, gli stessi potessero essere già lì presenti per poi partecipare agli incontri. Preciso tuttavia che nella prime due occasioni il Milazzo aveva le chiavi di casa e preciso che ricordo che il Senatore Corrao di nome fa Ludovico. Ora che ricordo anche questo senatore è morto di morte violenta ucciso dal suo domestico straniero.

ADR: il pedinamento fino a Palermo non ricordo se fu mia iniziativa o se fu il Milazzo a dirmi di procedere in tale senso.

ADR: Ovviamente ho riferito di questa vicenda ai PPMM di Palermo non appena ho iniziato a collaborare. In effetti mi vennero anche sottoposti degli album fotografici ma fra le foto che mi sono state poste in visione non vi erano quelle dei due soggetti dei servizi di cui sopra. Certo è che almeno all'epoca avevo un ottimo ricordo delle fattezze dei due presunti agenti. Non so dire se oggi, dopo tanti anni, sarei in grado di riconoscerli...omissis".

Gli oscuri suggeritori sarebbero allora i Servizi Segreti. La 7 Divisione del SISMI (si trattava della Divisione dell'ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio), il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Le prime rivendicazioni "Falange Armata" fatte in Italia erano collegate all'omicidio dell'Educatore Carcerario Umberto Mormile, avvenuto a Lodi l'11.4.1990 proprio per mano della 'ndrangheta. In particolare varie telefonate venivano effettuate presso sedi Ansa e sedi di Istituti Penitenziari. In un primo momento, nell'immediatezza, il giorno dei fatti, con riferimenti alla riconducibilità ad azioni terroristiche dell'agguato al Mormile e, poi, con riferimenti specifici alla Falange Armata carceraria che diverrà, poi, ancora di seguito, semplicemente Falange Armata. Interessanti, allora, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. A cominciare da Vittorio Foschini, escusso a metà 2015: "...A.D.R: Sono entrato nella 'ndrangheta dopo avere lavorato, pur essendo calabrese, con Cosa Nostra ed i siciliani. Io avevo lavorato nella droga con Biagio Crisafulli, palermitano, e, quindi in collegamento con i Carollo e Luigi Bonanno, all'epoca contrapposti ai corleonesi. I Fidanzati erano invece alleati ai Corleonesi. Fu Antonio Papalia che decise di riunire tutti i calabresi, sia riggitani che catanzaresi, che stavano in Lombardia. Ciò determinò anche il riconoscimento – avvenuto a seguito di specifiche riunioni tenutesi in Calabria a Petilia Policastro fra componenti della 'ndrangheta reggina e "milanese" e catanzeresi – delle famiglie catanzaresi dalla "Madonna dell'Aspromonte" ciò significa l'ingresso ufficiale nella vera e propria 'ndrangheta. Dunque questa riunione dei calabresi lombardi sotto un'unica bandiera – eravamo tantissimi – determinò il sopravvento della 'ndrangheta in Lombardia. Fra i siciliani furono nostri alleati solo i Crisafulli e anche, ma in modo meno intenso, i Carollo/Bonanno.

A.D.R: Al vertice, in Lombardia, c'erano Antonio e Domenico Papalia, poi Coco Trovato. Con noi c'era anche il gruppo di Anacondia...omissis...

A.D.R: Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia. Anzi nel rifiutare ad Antonio Papalia il favore per Domenico Papalia (che se non sbaglio era detenuto per l'omicidio D'Agostino delitto nel quale secondo quanto appresi da Antonio Papalia erano coinvolti anche i servizi segreti), ancorchè ricompensato, disse ad alta voce, ad Antonio Papalia che lui "non era dei servizi", alludendo ai rapporti fra Domenico Papalia e i servizi che pure erano veri ed esistenti. Infatti nel carcere di Parma, in precedenza, il Papalia Domenico aveva rapporti e colloqui con i servizi. Ciò mi venne detto da Antonio Papalia che pure aveva rapporti con i servizi come pure lui stesso mi confidò. Proprio questo rifiuto con l'allusione ai servizi fu fatale per il Mormile. Insomma, questa allusione sui rapporti Servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile. Preciso meglio la sequenza dei fatti come raccontatami da Papalia Antonio: prima Domenico in carcere chiese il favore a Mormile, voleva una relazione addomesticata; Mormile rifiutò. Ciò avvenne in quanto Mormile aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia. Ci fu un diverbio. Domenico comunicò la cosa al fratello Antonio in un colloquio dicendo al fratello di convincere il Mormile. Antonio nei giorni successivi, subito fuori dal carcere, avvicinò il Mormile che si rifiutò di nuovo nonostante la promessa di 20 milioni dicendo che lui non era dei servizi. Dio seguito Antonio riferì al fratello Domenico, nel corso di un colloquio in carcere che il Mormile non cedeva e che anzi aveva fatto allusioni ai servizi. Domenico si preoccupò e deliberò l'omicidio. Antonio Papalia mi raccontò questo fatto subito dopo il colloquio in carcere di cui ho appena detto. Preciso che secondo il racconto fatto a me da Antonio Papalia, lo stesso Domenico Papalia, che disse che, secondo lui, Mormile andava ucciso, precisò anche che bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i servizi vista l'allusione che era stata fatta e visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia). Ne seguì che Antonio Papalia, come ci disse (a me a Flachi, a Cuzzola, a Coco trovato ed altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all'omicidio Mormile si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione "falange armata" dell'omicidio Mormile. Fu Antonio Papalia allora che ordinò a Brusca Totò (persona che comunque potrei riconoscere) di telefonare ad un giornale e fare la rivendicazione a nome di questa presunta organizzazione terroristica. Ciò avvenne sotto i miei occhi addirittura prima dell'omicidio. Il Papalia Antonio, infatti, disse a questo Brusca che appena eseguito l'omicidio, lui doveva fare la telefonata di rivendicazione...

A.D.R: La 'ndrangheta era contraria alla strategia stragista dei corleonesi, e lo erano anche i Papalia e Coco Trovato. O meglio divennero contrari quando si accorsero delle conseguenze che questa strategia comportava. Papalia Antonio si mostrava preoccupato. Per la verità Antonio Papalia brindò in occasione delle stragi, ma, lui e gli altri, poi, si sono preoccupati per le conseguenze. Si cominciò a vedere e a temere che lo Stato avrebbe svolto una azione repressiva assai dura......omissis".

Foschini svela che era stato lo stesso Antonio Papalia, mandante del delitto, a ordinare la rivendicazione di tipo terroristico "Falange Armata". Ma di più, Foschini chiariva che l'indicazione di utilizzare la sigla in questione veniva dai servizi di sicurezza, o meglio dagli appartenenti ai servizi che erano in contatto con i Papalia (Domenico ed Antonio). Dunque, i casi sono due: o Papalia ebbe ad inventarla, a crearla, o qualcuno lo imbeccò. La prima ipotesi è del tutto implausibile. Papalia era persona scarsamente scolarizzata (aveva frequentato le scuole dell'obbligo) e del tutto priva di strumenti culturali adatti a questo compito. Pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo. Salvatore Pace, escusso dalla Dda, afferma:

"... ADR:...Papalia Antonio era molto ignorante, rozzo, ma come ho detto un capo...."

E allora il suggeritore era in una posizione che, per qualsivoglia motivo, dobbiamo ritenere sovra-ordinata rispetto a Papalia, tale da poterlo determinare a seguire delle strategie che il suggeritore stesso riteneva necessarie in quel momento. Un contributo, ancora più significativo sia sulla causale del delitto che soprattutto, per ciò che rileva in questa sede, sulla sua rivendicazione, veniva da altro soggetto che aveva partecipato alla esecuzione del delitto agli ordini dei Papalia, Antonino Cuzzola: "...A.D.R: Sono stato detenuto dal febbraio 1992 al febbraio 1993. Sono stato nuovamente arrestato a Giugno 1993. Ho iniziato a collaborare nel 2004 da detenuto. Sono stato ininterrottamente detenuto dal 1993 al 2007. Quando sono uscito dal carcere nel 1993 (essendo stati arrestati Antonio Papalia e Franco Coco Trovato nel settembre 1992) il reggente della famiglia Papalia, in Lombardia, era Musitano di cui non ricordo il nome comunque era il nipote di Antonio Papalia, figlio della sorella, all'epoca aveva 25/30 anni. Durante la rilettura del verbale si dà atto che il collaboratore ricorda il nome di Musitano : Antonio. Più importante di lui era Domenico Paviglianiti che però era latitante e stava all'estero. Tenete presente però che Papalia Antonio era un "re" a San Vittore. Dava ordini da lì. E comandava dal carcere. Passava gli ordini a Musitano che andava a colloquio con lui. Le stesse guardie carcerarie avevano soggezione del Papalia Antonio. Gli facevano fare quello che voleva. Ad esempio teneva in carcere un congelatore tutto per lui. Cosa che non aveva nessuno.

A.D.R: In effetti come ho già detto in altri processi, Domenico Papalia, fratello di Antonio, aveva rapporti con i Servizi Segreti con i quali aveva colloqui nel carcere di Parma. Ciò appresi da Antonio Papalia in occasione della preparazione dell'omicidio dell'educatore carcerario Mormile. Mormile, a dire di Antonio Papalia, venne ucciso proprio perché si fece sfuggire con un detenuto di questi colloqui fra Domenico Papalia e i Servizi Segreti. Cuzzola ricostruisce nel dettaglio la dinamica dell'omicidio Mormile: "Mi fate il nome Falange Armata. Vi dico, ora che ci penso che è proprio il nome della formazione terroristica che avrebbe dovuto rivendicare l'omicidio Mormile. Penso di averlo detto anche sul processo Mormile. Ora mi sfuggiva il nome. Prendo atto che la prima telefonata fatta all'Ansa di Bologna in cui si parla di "terrorismo" risale allo stesso giorno dell'omicidio. Prendo atto che sono seguite altre telefonate di rivendicazione e che solo qualche mese dopo si fece per la prima volta il nome Falange Armata. Vi dico, allora, che escludo ancora che l'incontro al bar di Buccinasco si sia verificato il giorno stesso dell'omicidio. Sono certo. Ritengo, allora, le possibilità sono tre: o quando Papalia parlò della rivendicazione al bar di Buccinasco avrà detto che già aveva fatto la stessa ed io ho capito male, oppure disse che aveva fatto la rivendicazione ed io ricordavo male, oppure, ancora, disse, non so per quale ragione, che avrebbe fatto la rivendicazione ma in realtà già l'aveva fatta. Quanto alla sigla Falange Armata io ricordo di averla sentita fin dall'inizio. Può essere che sia stata ideata all'inizio e poi utilizzata in concreto, solo in un secondo momento, oppure può essere che io ricordi male sul momento esatto in cui si fece per la prima volta il nome di questa formazione. Sono certo, però che fu proprio Antonio Papalia a dirmi che le rivendicazioni sarebbero state fatte, per depistare, dalla Falange Armata. Ricordo che fra i Papalia e Cosa Nostra vi era un rapporto molto stretti. Posso dire, ad esempio, che con i Madonia ed i Fidanzati i rapporti erano molto stretti. Dopo l'omicidio di Corollo, eseguito su mandato di Riina o comunque di Cosa Nostra – Corollo era uno che gestiva per Cosa Nostra il traffico di stupefacenti in Lomabardi – tutto il traffico di stupefacenti che veniva gestito dal predetto Corollo venne affidato ai Sergi per richiesta di Cosa Nostra stessa. Ciò a dimostrazione della particolare vicinanza fra 'ndrangheta e Cosa Nostra. I Papalia diventarono i responsabili della 'ndrangheta per la Lombardia con l'avallo di tutta la 'ndrangheta calabrese. Si sapeva che i Papalia e, in particolare, Domenico papalia era in rapporti con i servizi segreti. Pino Piromalli me lo disse in carcere a Cuneo nel 2000. Mi spiegò che la sua cosca era entrata in possesso di documenti che comprovavano questo rapporto. Tuttavia nessuno contestò, all'epoca, questa circostanza al Papalia. Posso presumere che la cosa fosse gradita ai vertici della 'ndrangheta... Mi chiedete se il nome "Falange Armata", particolarmente inconsuete, fosse "farina del sacco" di Papalia Antonio. Rispondo che effettivamente Antonio Papalia non ha una grossa cultura. Io lo conoscevo bene. Parlava un italiano molto stentato. Aveva la licenza media inferiore. Il riferimento alla "Falange Armata" è troppo raffinato per lui. Sicuramente qualcuno deve avergli suggerito questo nome. Anzi le dirò di più: ricordo che Coco Trovato gli chiese, al Papalia, cosa fosse questa "Falange Armata". Papalia disse "Mi hanno detto di fare questo nome". Non specificò chi suggerì questa sigla....

ADR: In effetti Carmine e Peppe De Stefano dopo la morte del padre, a partire dal 1986/87, stavano più a Milano – con i Papalia e Coco Trovato – che a Reggio Calabria.

ADR: Ricordo che avevamo stretti rapporti anche con i pugliesi e in particolare con il gruppo Anacondia. Ricordo questa stretta frequentazione e alleanza a partire dalla fine degli anni 80'...

ADR: Ho assistito ad una visita fatta, intorno al 1989/90, dai Servizi Segreti a Domenico Paviglianiti a casa sua a Reggio Calabria San Lorenzo. Vidi arrivare queste persone distinte a bordo di una Uno. Non presenziai all'incontro. Quando se ne andarono chiesi a Paviglianiti chi fossero. Mi disse che erano gente dei Servizi mandata da Don Mico Libri. Gli avevano proposto di fare da confidenti in cambio di un aiuto che avrebbe avuto sui processi. Posso anche dire che Barbaro Francesco ha ammesso di avere contatti con i Servizi nel carcere dell'Aquila. Insomma era una cosa assai diffusa nella 'ndrangheta quella di avere rapporti con i Servizi Segreti...omissis".

Lo stesso Antonio Papalia, persona non istruita e non in grado di escogitare un nome come Falange Armata, aveva detto che gli avevano detto "di fare questo nome". Dal tenore delle dichiarazioni di Cuzzola e di Foschini, si evince che, seppure il Papalia avesse un proprio interesse a depistare le indagini e a confondere le acque, il suggerimento e, soprattutto, il modo con il quale il suggerimento era stato dato e supinamente accettato (...mi hanno detto di fare questo nome... ) davano conto di uno specifico e convergente interesse dei suggeritori a propalare e diffondere la sigla in questione come collegata ad una campagna terroristica che si andava avviando e di una sorta di subalternità dei Papalia ai suggeritori. Ancor più inquietante è collegare Falange ai servizi deviati e, in particolare, ad una frangia della 7 Divisione del Sismi, era quella che aveva rapporti operativi con Gladio e, quindi, con Stay Behind. Agli atti dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" c'è la deposizione resa dall'ex Ambasciatore Paolo Fulci che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario Generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d'informazione "operativi" dell'epoca (il Sisde ed il Sismi) - fra il Maggio 1991 e l'Aprile del 1993 e poi, dalla DNA. Poi veniva acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti alla AG dai servizi d'informazione e dal Cesis, che riguardano il medesimo oggetto. Fulci, come risulta dall'ampio carteggio in atti, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell'Arma dei carabinieri dell'epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Andreotti con l'avallo dell'allora Presidente della Repubblica Cossiga) dopo che nell'Aprile 1993 lasciò l'incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltre-oceano. Vennero sentiti, il suo capo-gabinetto – Generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, da quelle escussioni, emerse che il Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al Comandante Generale dei CC, di dare impulso ad attività d'indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo OSSI, una sorta di gruppo di elite della 7^ Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange Armata (che pure aveva minacciato il Fulci ) sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di "intossicazione", disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il Generale Russo, in particolare – che in tutta evidenza non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci – in via generale, nel corso della escussione del 3.7.1993 alla Digos di Roma, ribadiva che il Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Fulci riferirà di avere svolto interamente la sua carriera – fino al momento della nomina al Cesis – in diplomazia, dove da ultimo, prima era stato ambasciatore in Canada e, poi, rappresentante italiano presso il Consiglio Atlantico (dove erano rappresentati tutti i paesi Nato ; che nel contesto di tale incarico, dopo che Andreotti nell'autunno 1990 aveva confermato l'esistenza di Gladio, aveva brillantemente ricucito lo strappo fra il nostro paese e i partners atlantici, causato proprio dalla pubblica ammissione dell'esistenza della struttura, riuscendo ad ottenere una non-smentita delle dichiarazioni di Andreotti da parte della Nato; he a seguito di ciò venne contattato dall'allora Presidente Cossiga, che gli rappresentava che lui era pienamente d'accordo con Andreotti che lo voleva nominare a capo del Cesis; che dopo qualche riluttanza accettò la nomina; che senza ancora che la sua nomina avesse avuto una qualche risonanza mediatica ( in realtà, anche in seguito ne ebbe poca) mentre occupava ancora il suo vecchio incarico diplomatico, ebbe a ricevere la prime minacce Falange Armata; che tale attività intimidatoria nei suoi confronti ebbe a proseguire. Inoltre nei primi mesi si accorse che all'interno dell'abitazione dei servizi che lo ospitava a Roma era intercettato da impianti e microspie di tipo ambientale che avevano lasciato gli stessi servizi (Sismi) nonostante avesse chiesto una bonifica; che la sua gestione si caratterizzò per particolare rigore in quanto per la prima volta utilizzò i poteri del segretario generale di Cesis che permettono di bloccare nomine e promozioni dei servizi e soprattutto di bloccare fondi, cosa che fece in modo puntuale e sollecito; che continuando le minacce nei suoi confronti e imperversando, comunque, le minacce, le rivendicazioni e l'inquinamento informativo da parte di Falange Armata, delegò un suo dirigente di massima fiducia, il De Luca (deceduto) a svolgere penetranti accertamenti sulla provenienza di tali rivendicazioni/minacce Falange Armata; che all'esito di tali indagini svolte sui tabulati che tracciavano la cella di provenienza delle telefonate Falangiste, De Luca gli presentò due lucidi che contenevano due mappe d'Italia. In una erano localizzate le celle di provenienza delle minacce falangiste e nell'altra i luoghi d'incontro e le sedi periferiche ove operava il Sismi; che effettivamente aveva segnalato al Comandante Generale dei CC la vicenda in questione evidenziando che sulla base degli accertamenti svolti dal suo staff i soggetti che, all'interno del Sismi, potevano avere maggiore collegamento con le attività falangiste erano quelli inseriti nel Nucleo OSSI della Settima divisione del Sismi. Un dato di evidente interesse e di significato indiziario univoco è dato dalla circostanza che Fulci ebbe a ricevere le prime minacce Falange Armate nel Maggio 1991 quando ancora non solo non aveva preso servizio al Cesis, ma neppure era nota al pubblico la nomina. Evidente che solo un soggetto che avesse un qualche interesse a fare la minaccia e, al contempo, avesse l'informazione della nomina di Fulci, poteva essere l'ignoto falangista. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all'interno della 7^ Divisione (sciolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprire nei primi anni 90. Non sappiamo chi, all'interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordavano – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta l'utilizzazione della sigla falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Negli anni successivi, ci sarebbero stati sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l'accordo in questione era parallelo a quello politico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cd liste autonomiste ed andava oltre. Con riferimento agli attentati ai Carabinieri sul suolo calabrese, uno degli esecutori materiali, Consolato Villani, avrebbe ricevuto dal complice Giuseppe Calabrò l'incarico di rivendicare gli atti contro i militari dell'Arma per darne una coloritura di tipo terroristico. Una traccia di rilievo che consentiva di chiudere il cerchio e collegare gli assalti ai carabinieri, non solo alla strategia delle stragi continentali eseguite dai Graviano, ma più complessivamente alla strategia delle rivendicazioni falangiste, iniziate, a livello nazionale, proprio con il delitto Mormile commesso, non a caso, dalla cosca dei Papalia-Coco Trovato che era anche quella che, più delle altre spingeva, per appoggiare la strategia stragista di Cosa proveniva da scrupolosi accertamenti svolti nell'ambito dell'inchiesta. Almeno tre rivendicazioni erano state effettuate in occasione degli attacchi ai carabinieri del periodo dicembre 1993 – febbraio 1994 a Reggio Calabria. In particolare: una rivendicazione telefonica pervenuta ai CC di Scilla in data 20.1.1994 (in cui il telefonista prometteva altri agguati); una ulteriore rivendicazione telefonica ai CC del Rione Modena di RC in cui si parlava di fare "una strage" ; infine quella più significativa, a firma Falange Armata, inviata con missiva scritta con normografo ai CC di Polistena. Particolarmente di rilievo in quanto non solo, per l'appunto, vi era la rivendicazione Falngista ma perché inviata presso una Stazione dei CC che si trovava nella giurisdizione della 'Ndrangheta tirrenica che tanta parte aveva avuto nelle oscure vicende oggetto dell'inchiesta. In particolare, con riferimento a quest'ultima, si trattava di una lettera inviata tramite servizio postale ai Carabinieri della Stazione CC di Polistena (spedita da Polistena il 2.2.1994 e pervenuta in data 4.2.1994) e firmata "Falange Armata", in cui si esprimeva compiacimento per la morte dei due carabinieri e si auspicava che la stessa fine potessero fare tutti i militari in servizio presso la citata Stazione. Si riporta il testo della missiva: "Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull'autostrada è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine cornuti e bastardi e figli di gran puttana".

Il terrore di “faccia da mostro” e del passato con le istituzioni deviate: luce sulla fuga e i falsi memoriali di Nino Lo Giudice, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017, su "Il Dispaccio". La fuga, la ritrattazione, i video, i memoriali in cui infanga magistrati e forze dell'ordine che hanno segnato una svolta a Reggio Calabria. L'inchiesta "Ndrangheta stragista" si propone di fare luce anche sulla fin qui inspiegabile vicenda di Antonino Lo Giudice, ex boss dell'omonima cosca di 'ndrangheta, poi divenuto pentito e protagonista di un voltafaccia che farà discutere per le gravi accuse (totalmente infondate) nei confronti dell'allora capo della Procura, Giuseppe Pignatone, e di altri magistrati e membri delle forze dell'ordine della sua squadra. Gli accertamenti fornivano significative spiegazioni in ordine alla genesi dei suoi comportamenti culminati nell'abbandono del domicilio protetto e nell'invio delle farneticanti missive in cui ritrattava tutte le accuse. Rendendo così comprensibili condotte, quali la fuga e la ritrattazione, che, altrimenti, si dovrebbero considerare insensati atti autolesionistici, posto che, per un verso, non provocavano (e non potevano provocare ) alcun vantaggio né al dichiarante stesso né ad altri, e, per altro verso, determinavano la certa conseguenza della revoca del programma di protezione e degli altri benefici connessi alla collaborazione (così come si è puntualmente verificato, essendo ad oggi Lo Giudice privo di programma e mero dichiarante) . E ciò in una situazione nella quale Lo Giudice, aveva ottenuto anche gli arresti domiciliari in località protetta, dove scontava la custodia cautelare (e in prospettiva avrebbe potuto scontare le pene definitive che gli sarebbero state irrogate). In particolare da tali successivi interrogatori venivano in rilievo spiegazioni che - sul solco di quanto già evidenziato nella sentenza che si è appena riportata, che riconduceva, come si è detto, ad una situazione di vero e proprio terrore che aveva determinato le condotte scellerate del Lo Giudice – illuminavano ulteriori ed importanti dettagli della vicenda. Segnatamente il Lo Giudice, nel corso dell'interrogatorio del 29.9.2014 reso alla Dda di Reggio Calabria e alla Procura di Catanzaro, riferiva: "...ADR: In data 14.12.2012 ero con appartenenti alla Sezione Anticrimine (tale Stefano Meo e tale Gabriele) in quanto ero collaboratore di giustizia e mi stavo recando a Reggio Calabria per partecipare ad una udienza di persona. Arrivati nei pressi di Termoli, Stefano ricevette una telefonata che preannunciava "dei problemi" a Reggio. Ci siamo fermati presso un distributore di benzina e Stefano ricevette un'altra telefonata ma mi disse di stare tranquillo. Siamo poi andati in albergo a Roma e venne tenuta una video conferenza al posto dell'udienza tradizionale di cui vi ho detto; dopo tutto ciò mi dissero che dovevo andare alla D.N.A. Abbiamo atteso sino alle 17.00 in quanto ero atteso dal Dott. Donadio; il dott. Donadio mi formulò delle domande; non comprendevo cosa volesse apprendere. Mi fece delle domande su tale Giovanni AIELLO; io confermai di conoscerlo ma venni "tirato" nel discorso senza conoscerne il motivo. Preciso che il Dott. Donadio non mi ha costretto a dire nulla; mi ha solo "accompagnato" nel discorso suggestionandomi...

ADR: Io mi sono spaventato di quanto riferito da Donadio su Aiello, non mi sono fidato, seppi da Donadio che Aiello era uno dei Servizi Segreti, era presente in via D'Amelio e mi sono spaventato.

Il verbale viene sospeso alle ore 15.40.

L'interrogatori viene ripreso alle ore 15.42.

ADR: quando parlava il Donando, io anticipavo le risposte essendo intuitivo e pur non conoscendo l'Aiello ci azzeccavo, come voi mi fate rilevare sulla vicenda del suo addestramento e del fatto che abitasse sulla Ionica calabrese. Io mi sono anche preoccupato dopo l'accadere di diverse situazioni strane che si verificarono dopo il predetto colloquio investigativo; ricordo che una mattina, nel mese di febbraio 2013 e nel luogo di protezione, si fermò una Fiat Punto. Un uomo in borghese che si qualificò come Carabiniere, chiamandomi per nome, mi disse di salire a bordo. Con lui c'era un'altra persona. Mi portarono fuori Macerata presso una Bravo marrone dove c'erano altri due carabinieri, verosimilmente dei servizi, per come io ho capito. In macchina vi erano due persone; quello lato passeggero mi disse di "stare attento" dato che avevo parlato di Aiello di cui non avrei, invece, dovuto parlare. Nel discorso io riferii di avere delle registrazioni che avevo fatto dopo il colloquio con Donadio che dimostravano che io non avevo detto nulla su Aiello; queste persone vennero a casa e presero queste registrazioni che io gli consegnai. Ripeto: in quel giorno, io ero per strada, si avvicinò una Fiat Punto di colore grigio e mi portarono fuori città dove vi era anche una Fiat Bravo di colore marrone. La persona che mi agganciò, si qualificò come Carabiniere; era alto, dall'età apparente di 35 anni. Sul sedile posteriore, ricordo, vi era il lampeggiante. Ho notato, una volta salito in macchina, le due persone che erano armate con pistole Beretta. Voglio rappresentare che 4 mesi fa, a giugno circa, nel luogo di protezione, si sono presentate delle persone dove lavora la mia compagna ed hanno chiesto informazioni sulla mia persona al datore di lavoro di Laila come ho appreso nel corso di un colloquio anche telefonico...omissis...

Per tornare all'incontro preciso che i due sulla Fiat Punto mi accompagnarono dove vi era una Bravo. Su detta macchina vi era una persona pelata, con accento laziale, che formulava le domande di circa 40 anni. Questi mi disse prima di stare tranquillo. Mi disse che sapeva che io aveva parlato di Aiello e mi disse che dovevo stare attento specie nel futuro a parlare di certi argomenti. Io dissi che a Donadio non avevo raccontato nulla di Aiello; a questa persona io consegnai le registrazioni.

ADR: in quel giorno non avevo registratore e telefonino al seguito. Dopo il colloquio investigativo ho iniziato a registrare perché ero spaventato. Le udienze le registravo per comprendere, nell'immediatezza, quello che avevo raccontato. Mi pare che l'incontro di cui vi ho detto è occorso nel mese di febbraio. Preciso che in seguito successero altri fatti strani. Vennero delle persone che volevano entrare nella mia casa nella località protetta. Io non li conoscevo e disse che prima avrei chiamato ai miei referenti di zona e loro preoccupati se ne andarono.

ADR: Ho diffidato di Donadio perché ho pensato che il tutto, tutte le sue domande su Aiello, fossero correlate, una specie di ritorsione, alle mie dichiarazioni rese sul conto del Dott. Cisterna pure lui della Dna. Mi voleva mettere in difficoltà.

ADR: Mi chiedete se comunque io avevo mai sentito parlare prima di allora, prima che Donadio mi facesse simili domande di Aiello. Vi dico la verità: Aiello lo sentii nominare all'Asinara; ero stato lì detenuto nel periodo 1992/1995...omissis....

ADR: Nessuno mi ha detto di scrivere quanto ho scritto nei memoriali contro il Dott. PIGNATONE, PRESTIPINO e CORTESE. Mi sono spaventato dato che, dal mese di giugno 2011 in poi, ai miei figli hanno bruciato la macchina ed a mio fratello il furgone. Volevo ritrattare quanto già raccontato ma volevo, nel contempo, aiutarvi. Nei due memoriali che ho scritto ho cercato di fornirvi degli elementi che possano aiutarvi. Comunque le mie accuse ai predetti inquirenti erano del tutto capziose e dettate dal momento di sconforto.

ADR: I memoriali li ho scritti io. A conferma della falsità di quelle accuse non ho mai confermato a verbale quanto ho scritto su Pignatore e gli altri; ripeto li ho scritti perché avevo perso la fiducia...omissis...

ADR: La mia compagna Laila vive in località protetta; ho appreso da lei, al telefono, che pochi mesi fa a Giugno, si erano presentati dal datore di lavoro della stessa, due persone qualificatesi come Carabinieri. Questi hanno mostrato al datore di lavoro della mia compagna, delle foto che la ritraevano ed hanno chiesto il motivo per il quale lavorava in quel luogo. Per quanto mi è stato riferito, al datore di lavoro, che si intimorì, venne indicato che era la mia compagna e che io ero un appartenente alla 'ndrangheta...omissis....

ADR: non ho raccontato di Aiello, nella prima fase della mia collaborazione, perché avevo paura...mi è rimasta impressa la sua freddezza. Sembrava non avesse mai emozioni. Spontaneamente: io temevo Aiello ed ho paura anche ora, potrei morire anche in carcere, che ne so.

ADR: io chiesi ad Aiello della bruciatura che aveva in volto e lui mi disse che era stata provocata durante una operazione, dallo scoppio di un'arma, fucile o di una pistola, non ricordo...

ADR: nel terzo memoriale che io stavo scrivendo prima del mio arresto, parlavo di Rocco FILIPPONE; questi è il responsabile, il mandante, dell'omicidio dei Carabinieri eseguito da Villani e Calabrò. Ciò mi venne detto da Villani. Ad Oppido Mamertina, intorno al 1991, così come Villani mi raccontò nell'anno 2000 o 2001, si incontrarono Filippone, Giuseppe de Stefano, Giuseppe GRAVIANO ed altri, per definire che si dovevano uccidere nell'ambito di una strategia stragista, fra gli appartenenti alle FFOO, solo appartenenti all'Arma dei Carabinieri.

ADR: sapevo che Filippone, di Melicucco, era uno dei capi della Tirrenica.

ADR: preciso, a richiesta, che ho timore sia di Aiello che della famiglia dei Condello. Ho più paura di Aiello perché è esponente di un mondo che non conosco. Non so chi ci sia dietro...omissis..."

Nino Lo Giudice, il "Nano", è un boss della 'ndrangheta pentito. Che, però, scappa. E non lo fa nell'ambito della sua carriera criminale e nemmeno quando, da collaboratore, accusa parenti stretti, ma anche pezzi delle Istituzioni. Scappa quando la Direzione Nazionale Antimafia gli chiede di Giovanni Aiello, il poliziotto dei servizi segreti noto come "faccia da mostro". A quel punto, il "Nano" si terrorizza. Lo Giudice si terrorizza e inizia a svalvolare, quando si parla di Aiello e quando inizia a ricevere una serie di incursioni da soggetti ritenuti nell'orbita dei servizi segreti. Ora, però, è possibile fare degli ulteriori passi in avanti verso una più completa (anche se non ancora esaustiva) ricostruzione dei fatti che indussero il Lo Giudice a fuggire. Quelle accuse alla squadra di Pignatone erano false e attraverso le indagini sarà possibile comprendere quali ragioni, quali forze, quali intimidazioni condizionarono il Lo Giudice, ma non sarà, invece, possibile individuare e dare un nome ed un cognome a chi materialmente fece sentire il Lo Giudice in una condizione di pericolo imminente. Il colloquio investigativo svolto nel Dicembre del 2012 alla Dna, fu l'elemento, il fattore, che innescò la spirale che condusse Lo Giudice alla fuga, ma non fu il colloquio investigativo in sé, o meglio, le modalità di conduzione dello stesso da parte della Dna, a spaventare il Lo Giudice - uomo che, deve ragionevolmente ritenersi, per il suo passato e per la sua personalità, per terrorizzarsi, deve essere sottoposto a ben altro che ad un, sia pure serrato, colloquio investigativo. E invece si terrorizza.

Come si evince dallo stesso tenore delle dichiarazioni di Lo Giudice, lo stesso ruotava intorno a due questioni: la figura di Giovanni Pantaleone Aiello - ex poliziotto in servizio alla Squadra Mobile di Palermo legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati; le vicende degli assalti ai Carabinieri oggetto dell'inchiesta. Evidente che fossero questi i nervi scoperti di quella che, fino ad allora, era stata, invece, la regolare e apparentemente completa collaborazione di Nino Lo Giudice. Nervi scoperti che venivano colpiti non certo dalle modalità del colloquio investigativo in Dna, visto che Lo Giudice, come si è detto, non solo è stato un incallito criminale, ma aveva vasta esperienza di contro-esami particolarmente incalzanti nel corso della sua non breve carriera di collaboratore, ma, evidentemente, dagli argomenti, del tutto nuovi, che in quella sede venivano affrontati. Invero, il "Nano", fino a quel momento, aveva affrontato interrogatori e contro-esami assai spinosi, non solo su questioni e delitti legati alla sua appartenenza alla 'ndrangheta, ma anche sulla responsabilità ed il coinvolgimento di suoi congiunti in tali fatti, primo fra tutti quello di suo fratello Luciano. Ma non solo. In tale contesto aveva anche riferito dei contatti che lui e suo fratello Luciano avevano con appartenenti alla magistratura ed alle Forze dell'Ordine. Eppure mai aveva ritrattato. Mai aveva smesso di collaborare. E men che meno si era terrorizzato, aveva messo in guardia i congiunti ed aveva tentato di fuggire. Né, mai, aveva manifestato agli inquirenti, non solo espressamente, ma neppure per fatti concludenti, preoccupazione per la sua incolumità e per quella dei suoi cari. Tanto meno, lo aveva fatto in termini così drammatici. Evidente, allora, che Lo Giudice, fra i diversi argomenti "scottanti" da lui affrontati, riteneva davvero pericolosi (sia per lui che per i suoi cari) proprio quelli affrontati nel colloquio investigativo del Dicembre 2012 alla Dna. E cioè quelli che lo portavano sul terreno delle stragi e dei suoi possibili ulteriori protagonisti e quello dei suoi rapporti (confermati peraltro, non solo dal Villani, ma, anche, da altri elementi indiziari) con un soggetto quale Aiello, che sulla stessa base delle dichiarazioni del Lo Giudice, risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate.

E ciò, tuttavia, seppure poteva preoccupare il Lo Giudice in misura fuori dall'ordinario (per usare un eufemismo) di fatto, non era, ancora, sufficiente a terrorizzarlo e a fargli prendere le decisioni più drammatiche e definitive, cioè la fuga dal luogo di protezioni e l'invio delle missive di ritrattazione. Il turbamento del Lo Giudice, a seguito dello svolgimento del colloquio investigativo, peraltro, lo si comprende appieno, anche alla luce di un ulteriore fattore: la miscela fra gli argomenti trattati nel corso del colloquio investigativo e l'appartenenza del Magistrato che conduceva il colloquio – il dott. Gianfranco Donadio - alla Direzione Nazionale Antimafia. Invero si trattava dello stesso Ufficio del quale, fino a pochi mesi prima, aveva fatto parte il dott. Alberto Cisterna (che, come il dott. Donadio, era Procuratore Aggiunto della Dna). Ed il dott. Cisterna, proprio a seguito delle indagini seguite alle reiterate accuse dello stesso Lo Giudice - che attribuiva al Cisterna comportamenti ambigui e collusivi con suo fratello Luciano, indagato per gravissimi reati di criminalità organizzata – era stato trasferito dal CSM, dalla Dna ad altra sede. A ciò si aggiunga che dalle narrazioni di Lo Giudice, Cisterna e Aiello erano, sia pure indirettamente, legati fra loro dal fatto che entrambi erano in rapporti con il Capitano Spadaro Tracuzzi, Ufficiale di pg, condannato per avere concorso, da esterno, nell'associazione mafiosa denominata cosca Lo Giudice. Si comprende, allora la ragione per la quale Lo potesse essere impressionato e suggestionato dal colloquio in questione anche in ragione del timore che Donadio, per motivi di colleganza con il Cisterna e per una sorta di ritorsione contro lo stesso collaboratore, volesse, attraverso il colloquio, esporlo a due pericoli particolarmente gravi: quello derivante dall'evidenziare, dal rendere notori, per la prima volta, in un atto d'indagine, le connessioni del Lo Giudice con entità deviate dello Stato di eccezionale pericolosità, connessioni di cui, però, fino a quel momento, Lo Giudice stesso (pur dovendolo fare) non aveva mai riferito; metterlo nel mirino delle ritorsioni di Aiello e delle entità deviate cui lo stesso Aiello era collegato, avendo disvelato, Lo Giudice, circostanze di fatto pericolose proprio per i circuiti deviati in cui, l'Aiello, sarebbe inserito. Lo Giudice spiegava che, non solo, aveva notato presenze inquietanti nelle adiacenze della sua abitazione in località protetta e che vi erano stati dei tentativi di contattarlo da parte di soggetti non meglio identificati, ma che il contatto, infine, vi era stato e che, avvicinato e portato, manu militari, in una macchina da sedicenti carabinieri, verosimilmente in servizio presso qualche apparato di sicurezza, era stato ammonito a non parlare più di Aiello. Lo Giudice, all'esito del colloquio investigativo con il dott. Donadio, si era impegnato a fornire, non appena rientrato in località protetta, per il tramite di Ufficiali di pg delegati, al Procuratore Nazionale Antimafia, una copia cartacea di alcune foto di Aiello "faccia da mostro". Foto che aveva custodito nel suo pc, di cui, a suo dire, disponeva, in quanto consegnategli dal suo affiliato Antonio Cortese sottoposto a colloquio investigativo dal Pna). Cortese, sempre secondo il racconto di Lo Giudice, aveva avuto, a sua volta, la disponibilità di queste foto, in quanto, lo stesso Lo Giudice gli aveva ordinato di scattarle (all'insaputa di Aiello) durante un pedinamento dello stesso Aiello ordinato, sempre, dal Lo Giudice (che evidentemente non si fidava di Aiello, di cui aveva, già allora, un chiaro timore) per avere una traccia dei luoghi e delle persone frequentate da Aiello.

Così, dunque, nascono memoriali e video per screditare il corso palermitano a Reggio Calabria. E tale filmato, girato la sera del colloquio investigativo e cioè la notte fra il 14 ed 15 Dicembre 2012, veniva, poi, inviato, su opportuno supporto informatico, a chi di dovere, alcuni mesi dopo, in uno con i memoriali di ritrattazione. Che, peraltro, se, davvero, nulla avesse avuto a che fare con Aiello, non si capisce perché si sarebbe dovuto preoccupare tanto. Mentre, quella paura, quel terrore, quella concitazione, potevano spiegarsi ed avere una loro logica solo se fossero ricorse due condizioni: l'effettiva esistenza di tali rapporti e, al contempo, la loro straordinaria pericolosità che consigliava di occultarli per quanto possibile.

Nicola Calipari era nel mirino dei clan, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". In una intercettazione ambientale del 12 febbraio 2016, i colloquianti compiono espliciti riferimenti a soggetti di 'Ndrangheta di origine cosentina ed ai propositi omicidiari di questi nei confronti del dott. Nicola Calipari, all'epoca dirigente della Squadra Mobile di Cosenza. Da agente dei servizi segreti, Calipari, reggino, morirà nel marzo del 2005 a Baghdad, in Iraq, nell'operazione per liberare la giornalista Giuliana Sgrena. In sintesi Giuseppe Graviano spiegava ad Adinolfi che i calabresi avevano richiesto a Cosa Nostra, forti del legame ormai instaurato, di uccidere il funzionario della Mobile di Cosenza Nicola Calipari approfittando della circostanza che lo stesso si recava nella città di Palermo per ragioni di carattere sanitario (problemi di fertilità) riguardanti sua moglie; in tale contesto dopo un iniziale assenso ed una iniziale collaborazione fornita da Cosa Nostra, Graviano si vanta di aver bloccato la esecuzione del delitto salvando la vita al Calipari; di rilievo risulta anche la esatta indicazione della clinica presso la quale avvenivano le visite della moglie di Calipari. Particolari inquietanti che arrivano dalle affermazioni dei collaboratori di giustizia Nicola Notargiacomo e Dario Notargiacomo. Il primo, esponente della 'Ndrangheta cosentina, aveva beneficiato dell'ospitalità dei Graviano presso il Villaggio Euromare formalmente di Tullio Cannella, ma di fatto nella disponibilità dei Graviano di Brancaccio. Premesso che i rapporti dei Notargiacomo con esponenti di Cosa Nostra si estendevano anche a Leoluca Bagarella e Nino Marchese, per rimanere ai personaggi di maggiore spessore, risultava che Bagarella avesse stretto, durante le sue carcerazioni, strettissimi rapporti con esponenti della destra eversiva, fra i quali il Mario Di Curzio. Accertata la piena attendibilità del narrato dei Notargiacomo e cioè, in primo luogo, i comuni periodi di detenzione fra gli interssati, si rileva che il Di Curzio, pur non avendo precedenti per reati "politici" effettivamente, in corso di detenzione si era avvicinato agli ambienti della destra eversiva tanto che unitamente a Concutelli ea d altri, partecipava, in ambiente carcerario a manifestazioni contro l'Amministrazione. Alla luce del ruolo dei fratelli Notargiacomo, i riferimenti operati da Graviano alla vicenda Calipari sono divenuti meritevoli di riscontro. Si è reso necessario, in particolare, verificare i singoli passaggi del colloquio intercettato partendo dalla escussione del collaboratore di giustizia Giovanni Drago, per il ruolo di estremo rilievo dal predetto rivestito nel mandamento di Ciaculli/Brancaccio, il quale il 4 maggio 2017 ha dichiarato quanto segue: "Ricevo lettura del mio precedente interrogatorio del 22.11.2013:

"ADR: Per il tramite di Marchese Antonino e quindi mio, i Graviano e in particolare Giuseppe strinsero i rapporti con alcuni gruppi di 'ndrangheta. In particolare ricordo i fratelli Notargiacomo, certo Pino (non ricordo se era un nome o cognome) e due che sono morti per lupara bianca. Con loro trafficavamo in armi e droga. Ho riferito già a suo tempo di questi rapporti. Posso dire che nel 1988/90 li abbiamo ospitati presso l'Eurovillage di Buonfornello di Cannella. Erano scampati ad un agguato e, verosimilmente, o si stavano nascondendo dai nemici o erano (anche) latitanti..."

Confermo pienamente quanto dissi a suo tempo nel verbale sopra riportato. A vostra richiesta e domanda preciso che fu proprio Marchese Antonino, forse, ma non sono sicuro, unitamente a suo fratello Giuseppe, a conoscere per primo, fra noi di Cosa Nostra palermitana, i suddetti Notargiacono. Ricordo che tale conoscenza avvenne nel carcere di Trani dove Marchese Antonino, e forse Giuseppe, erano detenuti unitamente ai Notargiacomo. In seguito a questo periodo di co-detenzione con il (o i) Marchese, i Notargiacomo vennero scrarcerati prima del (o dei) Marchese suddetti (Marchese che, infatti, per quanto mi risulta, negli anni successivi sono rimasti detenuti). Fu quindi Gregorio Marchese, che invece era libero e non era stato detenuto a Trani (ma se non erro in quel periodo non è mai stato detenuto) fratello di Giuseppe e Antonino, nonché mio cugino, a presentarmi i Nortargiacomo che io stesso ho poi presentato a Giuseppe Graviano. In tutta evidenza, quindi, i Marchese detenuti (Antonino e, forse Giuseppe) avevano fatto da tramite con il fratello Gregorio per metterlo in contatto con i Notargiacomo e ritengo che ciò possa essere avvenuto nel corso di colloqui con i familiari nel suddetto carcere di Trani. Preciso che Gregorio Marchese era uomo a nostra disposizione, pur non essendo uomo d'onore. Egli faceva continuamente da tramite fra noi del Mandamento di Ciaculli, i suoi fratelli detenuti - che invece, a sua differenza, erano uomini d'onore - e altri esponenti anche di rilievo di Cosa Nostra. In tale contesto il Gregorio Marchese ci presentò i Notargiacomo. Si tenga presente che all'epoca ( siamo nella seconda metà degli anni 80') il Mandamento di Ciaculli comprendeva anche la famiglia di Brancaccio, oltre che quelle di Corso dei Mille e di Roccella, dunque per tale ragione è evidente che la conoscenza con i Notargiacomo venne immediatamente fatta anche dal Graviano Giuseppe che reggevano la famiglia di Brancaccio posto che io, come uomo d'onore, facevo parte della famiglia di Brancaccio ed avevo un rapporto quotidiano e fraterno con i Graviano stessi. Peraltro Giuseppe Graviano, dopo l'arresto di Lucchese Giuseppe, che era il capo Mandamento di Ciaculli, divenne colui che di fatto dirigeva il predetto Mandamento. Preciso che ero io stesso, in prima persona, che, unitamente a Giuseppe Graviano, anche quando Lucchese era libero, avevo rapporti con i Notargiacomo, dunque parlo di rapporti che ho vissuto direttamente. In tale contesto si colloca la vicenda di Buonfornello di cui ho detto e tutte quelle relative ai comuni traffici di armi e droga che avevamo noi di Brancaccio con i tre fratelli Notargiacomo. Rapporti di cui ho riferito ampiamente in precedenti verbali. A vostra richiesta, premesso che i fratelli Notargiacomo erano tre, preciso che i rapporti li avevo solo con Nicola e Dario Notargiacomo. Fra i loro sodali ho conosciuto anche i fratelli Bartolomeo e un tale Pino, tutti calabresi (di Cosenza) come i Notargiacomo. A vostra domanda vi dico che non ricordo con esattezza il nome del terzo fratello Notargiacomo, che non ho mia conosciuto, forse si chiamava Roberto, ma non sono sicuro. Colloco questi rapporti con i Notargiacomo ed i loro sodali in un periodo che si è sviluppato fra il 1985/86 (comunque dopo la scarcerazione dei Notargiacomo) fino all'inizio degli anni '90. Mi chiedete se i Notargiacomo si siano mai lamentati dell'azione investigativa o comunque del comportamento di qualche uomo dello Stato. Si ricordo bene questa circostanza. Mi pare di averne già parlato in qualche verbale. In ogni caso ricordo che i Notargiacomo si lamentavano, anche con me personalmente, sia del Direttore di un Carcere, che operava dalle loro parti (direttore che, se non ricordo male, poi, è stato ucciso) in quanto a loro dire pare fosse stato molto duro nei loro confronti ed aveva fatto, sempre a loro dire, degli abusi contro di loro, che di un funzionario di polizia, sempre operante delle loro parti, quindi a Cosenza, che indagava con molta capacità e decisione su di loro. Con riferimento a questo funzionario, ricordo che i Notargiacomo ci dissero che lo stesso veniva a Palermo, mi pare con cadenza mensile, in quanto aveva la moglie in stato di gravidanza che si faceva seguire da un noto ginecologo palermitano, mi pare, ma non sono sicuro, tale dott. Cittadini. Ricordo che questo nome, quello del ginecologo, è stato da me fatto ai PPMM, molti anni fa, a verbale, quando la mia memoria era più fresca. In ogni caso i Notargiacomo ci dissero e lo dissero in particolare a Graviano Giuseppe, essendo anche io presente, questo particolare delle visite ginecologiche della moglie di questo funzionario, in quanto volevano essere autorizzati dal Graviano Giuseppe ad uccidere detto funzionario quando, accompagnando la moglie, veniva a Palermo. Se non ricordo male ci dissero anche il tipo di macchina che utilizzava il funzionario per accompagnare la moglie dal ginecologo. Questo ginecologo aveva lo studio a Palermo in zona centrale, ma in territorio di competenza di mandamento diverso dal nostro. Mi pare di avere specificato bene il luogo dove il funzionario si recava con la moglie e quindi il luogo dove il predetto ginecologo faceva le visite alla moglie del funzionario di polizia. Se non ricordo male, tale luogo è dalle parti del Teatro Massimo e del Politeama. Questa richiesta o meglio questa richiesta di essere autorizzati a commettere il delitto, venne fatta dai Notargiacomo quando Lucchese Giuseppe era ancora libero. Ricordo che ricevuta la richiesta, il Graviano ne parlò con Lucchese e ricordo che io presi parte alla conversazione. Lucchese prese atto della richiesta e disse che ne doveva parlare a Riina e, quindi, in Commissione. In seguito Graviano Giuseppe mi disse che di quell'attentato al funzionario di polizia cosentino da farsi a Palermo non se ne faceva nulla perché non era il momento di fare "chiasso" con un atto così eclatante. Di seguito tale diniego venne comunicato dal Graviano ai Notargiacomo. Quindi in effetti l'attentato non venne fatto.

ADR: Non ricordo assolutamente il nome del funzionario di polizia che doveva essere ucciso dai Notargiacomo.

ADR: Non sono in grado di dire come i Notargiacomo sapessero di queste visite a Palermo del funzionario di polizia e della moglie. Forse avevano una talpa o forse qualcuno ne aveva seguito gli spostamenti.

ADR: questo episodio della richiesta di potere uccidere a Palermo il funzionario di polizia è sicuramente precedente al soggiorno dei Notargiacomo presso il villaggio Euromare di Buonfornello".

Le successive acquisizioni, provenienti dall'apporto dichiarativo dei fratelli Notargiacomo, confermavano in pieno il narrato di Drago. Il 4 maggio 2017, invero, Nicola Notargiacomo precisava: "Ricevo lettura di stralcio del verbale da me reso in data 28.6.2016:

ADR: Ho conosciuto Giuseppe Graviano nel 1988 quando mi recai a Palermo insieme a Bortolomeo Stefano e mio fratello Dario. Avevo rapporti con i siciliani in quanto in carcere a Trani, nel 1985 io e Bartolomeo Stefano avevamo conosciuto Nino Marchese. Io all'epoca ero inserito nel gruppo Perna operante nella zona del cosentino. La cosca Perna era contrapposta a quella Pino/Sena. Non eravamo riconosciuti, come cosca, dal crimine di Polsi, anche se eravamo operativi come locale di Cosenza ed avevamo rapporti molto intensi, anche grazie a me, con i Nirta, gli Aricò (Destefaniani di Reggio Calabria) e i Pelle.

ADR: Più precisamente fu Drago Giovanni che a sua volta ci era stato presentato da un fratello di Nino Marchese, a presentarci Giuseppe Graviano. Si instaurò un rapporto privilegiato proprio con Giuseppe Graviano. Iniziammo a scambiarci, armi, esplosivi, droga. Più precisamente noi vendevamo a Giuseppe Graviano e a tutta la famiglia di Brancaccio, armi automatiche (UZI, kalashnikov, ecc), acidi, loro vendevano a noi stupefacenti del tipo cocaina ed eroina, inoltre ebbero a regalarci del tritolo per un quantitativo di circa 25 kg. Tutto ciò avvenne fra il 1988 ed il 1989, anno nel quale, a seguito di un conflitto a fuoco nel quale Bartolomeo Stefano ebbe a subire gravissime ferite, ci rifugiammo nel villaggio Euromare di Buonfornello. Preciso che andammo presso questo villaggio in quanto Giuseppe Graviano ci aveva detto che aveva dei medici che potevano curare il Bartolomeo Stefano. Ed in effetti così fu. Al Villaggio Euromare abbiamo avuto rapporti diretti e frequenti con Giuseppe Graviano (che io sapevo essere il vero titolare del villaggio), Cristofaro Cannella, Tullio Cannella, Marcello e Vittorio Tutino, Cesare Lupo, vero factotum dei Graviano, ed altri ancora. Ricordo anche uno che faceva da supporto continuo a Bagarella Leoluca. Mi chiedete se questa persona fosse tale Calvaruso. Si, lui, Toni Calvaruso. Andai con lui in barca all'isola delle femmine.

ADR: In tale Villaggio rimanemmo fino ad Ottobre 1989 (eravamo arrivati nel Giugno dello stesso anno). Ricordo, circostanza che mi indisse ad andare via, che Graviano Giuseppe mi disse che secondo un "professore" che aveva visitato Stefano Bartolomeo, il predetto aveva oramai riportato a seguito delle ferite, sotto un profilo psicologico, gravi e permanenti conseguenze che lo avrebbero reso inaffidabile. Si erano, poi, determinate ulteriori situazioni incresciose che incrinarono i nostri rapporti con il Graviano. In particolare, a mia insaputa avevo intrecciato una relazione con una ragazza che solo in un secondo momento venni a sapere trattarsi di una cugina di Lupo Cesare. Poi Graviano reclamava (come mi disse Marcello Tutino nel ristorante Happy Days di Giovanni Lombardo) una parte di pagamento non ancora soddisfatto di un fornitura di cocaina.

ADR: Giuseppe Graviano è anche venuto a farci visita a Cosenza con sua moglie, sua cognata e con Marcello Tutino, nell'estate 1988. Andammo insieme a Camigliatello Silano per fare una gita. Pernottarono presso l'abitazione di Bartolomeo Stefano sita in Contrada Andreotta.

ADR: i nostri rapporti con Giuseppe Graviano, sia pure in modo non traumatico, in concreto, si interruppero, quindi, nel 1989 a seguito delle incomprensioni di cui ho detto.

ADR: Tutte le vicende relative ai rapporti illeciti fra noi e i Graviano hanno avuto uno sviluppo processuale, con condanne, a Palermo. Sono i processi cd "Ferryboat" che si sono chiusi più o meno nel 1997/98.

ADR: Non ho mai parlato con Giuseppe Graviano dei suoi rapporti con componenti della 'Ndrangheta diversi da noi. Certamente ne aveva. Non gli mancavano. Ma non ne parlammo mai espressamente. Ora che ricordo, per fare un esempio di quanto il Graviano potesse essere inserito in rapporti con esponenti della 'Ndrangheta, una volta, lo stesso mi chiese se, per le nostre esigenze a Cosenza, avessimo avuto bisogno di killer. In caso positivo, aggiunse, poteva farmi entrare in contatto con i Facchineri di Cittanova che, disse, erano suoi amici. Posso dire che Graviano aveva agganci ovunque...omissis". Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. Si tratta di episodio che non ho vissuto direttamente ma che mi è stato raccontato da mio fratello Dario. In effetti mio fratello Dario mi disse che era stato a Palermo con Bartolomeo Stefano ed aveva richiesto a Graviano Giuseppe di essere autorizzato ad uccidere un Ispettore di Polizia a nome Toni Provenzano, che faceva servizio alla Questura di Cosenza. Il Provenzano aveva sposato la sorella di una ex moglie di mio fratello Dario. Questa donna, cioè l'ex moglie, si chiamava Caloiero Stefania. Il Provenzano ci dava fastidio. Spesso fermava mio fratello, lo controllava. Abusava della sua divisa per motivi penso personali. Insomma dava noia. Eccedeva. Era troppo zelante. Mio fratello mi disse che il Provenzano per suoi motivi spesso andava a Palermo. Se non ricordo male il Provenzano aveva in cura a Palermo qualche suo parente. Non ricordo che parente fosse né di che tipo di cure avesse bisogno. A vostra domanda, che mi chiedete perché scomodare Cosa Nostra per uccidere un Ispettore di Polizia a Palermo, che facilmente avremmo potuto uccidere in Calabria, rispondo che comunque a noi sembrava che ucciderlo a Palermo fosse la cosa migliore perché in questo modo nessuno poteva sospettare di noi e soprattutto ci fidavamo dei palermitani e dell'appoggio che avrebbero potuto darci. Ricordo che mio fratello Dario mi disse che aveva chiesto l'autorizzazione a Giuseppe Graviano, che all'epoca era capo-mandamento per commettere l'omicidio in questione e che il Graviano, dopo essersi consultato con Riina, gli disse che non era il caso di commettere questo delitto a Palermo perché in quel momento un delitto eclatante avrebbe determinato conseguenze pregiudizievoli per cosa nostra. Questi fatti sono avvenuti nel 1998 (in realtà è il 1988, come ricavabile dal certificato storico di detenzione e dal fatto che lo stesso iniziò a collaborare con la giustizia nel 1993 – n.d. PM), subito dopo la nostra scarcerazione.

ADR: Io non ho mai conosciuto Giuseppe Lucchese. Conosco il nome, ma non l'ho mai visto. A vostra domanda chiarisco che, per quanto mi risulta, quello del Provenzano è l'unico omicidio in relazione alla cui esecuzione abbiamo richiesto l'autorizzazione a Graviano, ovvero la sua collaborazione. A vostra domanda preciso che non ricordo proprio che noi abbiamo richiesto la collaborazione di Cosa Nostra per uccidere un qualche Direttore di Carcere.

ADR: Non ho un fratello a nome Roberto siamo solo due fratelli io e Dario. Esiste un Roberto che è il fratello di Stefano Bartolomeo".

Analogo apporto proviene dalle dichiarazioni di Dario Notargiacomo, il quale sempre in data 4 maggio 2017 dichiarava: "Ricevo lettura del mio verbale del 6.7.2016. "A sua domanda preciso di aver iniziato a collaborare con la giustizia nel dicembre 1993, in un periodo in cui ero sottoposto alla misura della semilibertà che ho in seguito violato a seguito di alcuni episodi che mi hanno messo in allarme. Ho poi deciso di collaborare con la giustizia in quanto ha avuto paura per la mia incolumità: per tali ragioni mi sono trasferito a Roma, dove ho beneficiato dell'aiuto dei fratelli CARDELLI attraverso i quali ho mantenuto rapporti con persone vicine al clan SENESE. Ho conosciuto i fratelli GRAVIANO tramite Nino MARCHESE quando ci trovavamo tutti insieme nel carcere di Trani. In quel periodo ho conosciuto anche Leoluca BAGARELLA. I contatti con la famiglia MARCHESE erano tenuti anche da Stefano BARTOLOMEO che aveva rapporti molto stretti anche con Giovanni DRAGO. I rapporti con i GRAVIANO si instaurarono attraverso questo circuito e divennero particolarmente stretti nel tempo tanto che Giuseppe GRAVIANO venne a trovarci a Cosenza. A seguito di tali primi contatti, ai fratelli GRAVIANO abbiamo fornito numerose armi, corte e lunghe, che venivano acquistate dai PARADISO di Lamezia Terme. Le armi venivano vendute ai GRAVIANO ed ai MARCHESE: ricordo che i nostri rapporti si sono estesi anche a Fifetto CANNELLA. Le armi che vendevamo ai GRAVIANO, anche attraverso Stefano BARTOLOMEO ed il fratello Roberto, ci venivano regolarmente pagate. Dai GRAVIANO invece noi acquistavamo sostanza stupefacente del tipo eroina. Tutto questo si svolge nel periodo che va dal 1988 al 1990. A sua domanda confermo di essere stato ospite dei GRAVIANO in Sicilia nel 1989 presso un villaggio turistico nei pressi di Termini Imerese, che mi pare si chiamasse Euromare: tale villaggio era nella disponibilità di GRAVIANO Giuseppe. In tale località ho incontrato oltre ai fratelli GRAVIANO anche Giovanni DRAGO, Fifetto CANNELLA e Tullio CANNELLA. Il nostro soggiorno in Sicilia avviene dopo il ferimento di Stefano BARTOLOMEO, in quanto avevamo bisogno di un luogo tranquillo. Se non ricordo male lo spostamento in Sicilia venne programmato dal BARTOLOMEO che aveva rapporti diretti con i GRAVIANO. Intendo precisare che nel corso del soggiorno abbiamo avuto rapporti anche con Vittorio TUTINO e Cesare LUPO. Il rapporto tra me ed i fratelli GRAVIANO è sostanzialmente parificabile, anche se non sovrapponibile totalmente, a quello che aveva anche mio fratello con i predetti. Oltre a noi i GRAVIANO avevano rapporti con appartenenti alla 'Ndrangheta della zona di Polistena, di cui non ricordo il nome. Questo riferimento venne fatto in relazione alla situazione di Pino MARCHESE a cui non era stata riconosciuta la semi infermità mentale. Se non sbaglio fecero riferimento ad una avvocato o magistrato operante in Calabria che doveva interessarsi in Cassazione a favore del MARCHESE...omissis. Ricordo anche che Giuseppe GRAVIANO ci chiese la disponibilità di un alloggio in Sila da destinare alla latitanza di Totò RIINA: questo episodio è precedente al nostro soggiorno presso il villaggio Euromare. Intendo precisare che noi facevano parte del gruppo PERNA-PRANNO-VITELLI, in cui sono entrato nel 1981. Noi avevano una certa indipendenza che ci aveva affidato Franco PERNA: ciò valeva per il traffico di armi e di stupefacenti di cui parlavo prima. Questa indipendenza era stata guadagnata da noi per la capacità di gestire un gruppo di fuoco importante. È doveroso precisare, visto che me lo chiede, che Franco PERNA era a conoscenza dei nostri rapporti con i GRAVIANO: ricordo di aver informato il PERNA di tali rapporti nel corso della comune carcerazione in Pianosa nel 1986. Sono a conoscenza che i PINO/SENA avevano rapporti con la cosca BONURA di Palermo, come appresi da un certo Franco nel carcere di Cosenza nel 1990. Non ricordo se mi vennero riferiti altri particolari in merito a tale rapporto...omissis. I nostri rapporti con i GRAVIANO si interruppero nel 1990 con il nostro arresto. Nell'ultimo periodo i nostri rapporti si erano comunque rovinati. Ho saputo da Stefano BARTOLOMEO che tutto quello che i GRAVIANO facevano era conosciuto da Toto RIINA: mi disse in particolare che i GRAVIANO erano particolarmente rispettosi della linea di comando...omissis. Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. In effetti successe che io personalmente, accompagnato da Bartolomeo Stefano, parlai con Drago Giovanni - non ricordo con certezza, nell'occasione, la presenza di Graviano Giuseppe che non posso escludere, ma per noi era come se fosse presente perché era pacifico che quello che dicevamo a Drago, questi lo doveva riportare a Graviano - di un omicidio di un funzionario di Polizia, più esattamente di un Ispettore, tale Toni Provenzano. Toni Provenzano era il marito della sorella della mia ex moglie. La mia ex moglie si chiama Stefania Caloiero. Non ricordo il nome di sua sorella, moglie del Provenzano. In effetti il Provenzano non voleva imparentarsi, sia pure indirettamente, con un pregiudicato come me. Per questo mi aveva preso di mira e mi controllava di continuo abusando della sua funzione. Ciò sia prima della mia carcerazione a Trani (all'epoca ero già fidanzato con la mia ex moglie) che dopo ( io mi sono sposato con la mia ex moglie nel febbraio/marzo 1989 e mi sono separato di fatto da lei nel 1992) . Ricordo che era ossessivo, mi fermava per strada, mi perquisiva la vettura e così via con frequenza quasi quotidiana. Mi aspettava sotto casa. Insomma non ne potevo più. Senza contare che questo atteggiamento a mio avviso generato da motivi personali, arrecava danno alle attività criminali mie e del mio gruppo. Per questo, avendo saputo che il Provenzano si recava a Palermo per accompagnare la moglie da un noto ginecologo, chiesi (direttamente o indirettamente, non ricordo come ho detto) unitamente al Bartolomeo, l'autorizzazione al Graviano di commettere il delitto in questione. Ricordo che precisai ai siciliani che questo Provenzano era un poliziotto della Questura di Cosenza, presso la quale come capo della mobile operava dott. Calipari, buonanima. Ricordo che in un primo momento il Graviano ci diede l'assenso nel senso che disse o ci fece dire che se ne sarebbero "occupati loro". Una volta mi dissero, più esattamente fu il Drago a dirmelo, che avevano pedinato il Provenzano e che questo era entrato in una caserma per cui avevano interrotto il pedinamento. In un secondo momento Graviano, direttamente o indirettamente per il tramite del Drago ora non ricordo a distanza di tempo, mi disse o mi fece sapere che bisognava soprassedere alla esecuzione del delitto in quanto lo stesso Riina riteneva che il momento storico non era adatto, in quanto loro, dopo il delitto, avrebbero avuto la polizia addosso. In realtà io penso che Riina non voleva fare eseguire il delitto in questione in quanto rischiava di mettere in pericolo e quindi di bruciare il canale che aveva con noi e quindi la nostra preziosa collaborazione. Senza contare che vedeva a rischio anche la possibilità di avere rifugio nel cosentino nella casa sulla Sila che noi volevamo mettergli a disposizione. Ovvio che l'esecuzione dell'omicidio di un poliziotto cosentino a Palermo avrebbe potuto fare pensare ad una alleanza fra noi (si tenga conto che peraltro il Provenzano era quasi un mio parente) e Cosa Nostra e quindi il Riina.

ADR: Il dott, Calipari era un obbiettivo del gruppo Perna e in particolare di Franco Perna che lo voleva morto. Ciò fin da prima del nostro arresto e della nostra detenzione a Trani per l'omicidio Cosmai. Il Calipari era un poliziotto che dava "fastidio", molto tenace e, in particolare, aveva redatto dei rapporti indirizzati al Carcere di Cosenza e quindi al Cosmai, nei quali evidenziava la pericolosità di Franco Perna al fine di fargli revocare la semilibertà. Ciò in epoca antecedente e prossima al 1985. Insomma Calipari era in pericolo. A vostra domanda non escludo affatto che noi abbiamo parlato di queste intenzioni del Perna ai danni del Calipari anche con i siciliani. Tenete conto che questo tipo di delitti in danno di rappresentanti dello Stato, come il caso del Cosmai, agli occhi di Cosa Nostra era come se fossero delle "stellette" dei veri e propri segni distintivi della nostra capacità criminale e della nostra affidabilità. Dunque niente di più facile che parlando con i siciliani sia a Trani che a Palermo del delitto Cosmai, si sia fatto riferimento anche ai propositi del Perna (del cui gruppo abbiamo fatto parte fino al 1989) di uccidere il Calipari. Si tenga anche presente che, nel febbraio 1988, quando fummo scarcerati da Trani, il proposito del Perna di uccidere il Calipari era ancora attuale e noi eravamo ovviamente coinvolti in tale progetto posto che eravamo appartenenti alla cosca del Perna". La intervenuta conferma dei propositi omicidiari da parte dei collaboratori di giustizia ha imposto ulteriori approfondimenti di indagine attraverso la diretta escussione del V.Q.A. Antonio Provenzano, certamente individuato dai fratelli Notargiacomo come soggetto da uccidere in Palermo, e dell'On. Rosa Maria Villecco, vedova di Nicola Calipari.

Provenzano, escusso in data 17 maggio 2017, dichiarava: "ADR: Sono entrato in Polizia nel 1981. Ho preso servizio, nel 1985, presso la questura di Cosenza quale Vice Ispettore in servizio presso il dipendente Commissariato di Rossano Calabro. Nel 1985 ho preso servizio alla S. Volante di Cosenza che dipendeva dalla S. Mobile (all'epoca diretta dal dott. Nicola CALIPARI – n.d.P.M.). Sono stato due anni alle volanti (con intermezzi alla Digos) e nel 1988 sono stato spostato stabilmente alla Digos dove dirigevo una sezione. Sono rimasto alla Digos fino alla fine degli anni 90.

ADR: Mi sono sposato il 24.4.1983 con Caloiero Giuliana. La stessa tuttora è mia moglie. Abbiamo cercato di avere figli nostri nel 1983 e nel 1984. Mia moglie ha avuto due gravidanze ma – per interruzioni involontarie delle stesse - abbiamo perso i figli, per problemi riguardanti la salute di mia moglie. Infine abbiamo adottato.

ADR: Ovviamente abbiamo tentato di superare questo problema di salute di mia moglie che non riusciva a portare a termine le gravidanze facendoci assistere da specialisti. Ricordo in particolare che andammo a Palermo dal dott. Cittadini che ha una clinica, a nome Candela, alle spalle di piazza Politeama. Non ricordo esattamente le date delle visite. Certo iniziarono dopo le gravidanze interrotte e per alcuni anni continuarono fino alla fine anni 80', inizi 90'. Mi chiedete di essere più preciso sulle date ed io vi dico che consultando la documentazione a casa potrei risalire alle date esatte. Mi rappresentate che nel corso di questi miei viaggi a Palermo sono stato pedinato e ho rischiato un agguato. Mi chiedete di conseguenza di riferire chi fosse a conoscenza di questi miei viaggi a Palermo con mia moglie. Vi rispondo, in primo luogo, che non avevo mai sospettato di potere essere oggetto di tali attenzioni e poi che io non ho mai detto a nessuno, per ovvie ragioni di riservatezza, di questi miei viaggi a Palermo. A vostra domanda vi dico che non posso escludere che mia moglie abbia potuto riferire degli stessi a suoi congiunti, con particolare riferimento alla madre. Escludo che possa essersi confidata con le sorelle perché non si parlavano, se non con Anna Franca, con la quale aveva rapporti, invece.

ADR: In effetti la sorella di mia moglie, a nome Caloiero Stafania è stata sposata, per un breve periodo, con Dario Notargiacomo noto criminale della zona di Cosenza. Poi si sono separati.

ADR: E' vero che quando operavo alle volanti ho sottoposto in più circostanze i fratelli Notargiacomo a controlli anche molto puntuali e serrati. Preciso che questo era il mio modus operandi che attuavo in modo costante con tutti i pregiudicati. Faccio presente che avevo una mia tecnica particolare nel fare questi controlli. Ad esempio: notavo il pregiudicato x in una certa via e lo controllavo. Se lo vedevo tre ore dopo in altro luogo lo controllavo di nuovo. Era una cosa che faceva molto irritare i pregiudicati, non solo per il fastidio che procuravano, ma anche perché se il controllo evidenziava che più pregiudicati si accompagnavano fra loro, poteva scattare la diffida del Questore che poi poteva determinare il ritiro della patente. Per loro è una grave deminutio.

ADR: Mi chiedete se durante i miei viaggi a Palermo sia mai entrato in strutture militari o di polizia. Rispondo di sì. In una circostanza, non ricordo quando, per risparmiare, dormii in alcuni alloggi di servizio della Polizia di Stato (mia moglie era rimasta a dormire in Clinica) che si trovava dalle parti di una struttura sportiva. Il complesso era chiamato Le Tre Torri ed ospitava, mi sembra, più forze di polizia. Vi era sicuramente un posto di Polizia all'ingresso. Ricordo, inoltre, che in altre circostanze ho mangiato alla mensa utilizzata dalla PdS di Palermo. Non ricordo dove si trovava.

ADR: A Palermo io e mia moglie andavamo in automobile, la mia Fiat Uno. Partivamo la mattina presto da Cosenza in modo da arrivare lo stesso giorno in tempo per la visita del dott. Cittadini. In alcuni casi ritornavamo a Cosenza in giornata, ciò quando la visita era veloce e non richiedeva una presenza continuativa per un tempo apprezzabile di mia moglie. Quando invece era necessario che mia moglie si trattenesse per un tempo più lungo presso la Clinica del Cittadini, allora io pernottavo a Palermo. Come ho detto una volta presso un alloggio di servizio, altre volte in una pensione che stava a 50 metri dalla clinica, sullo stesso marciapiede.

ADR: Apprendo, più nel dettaglio, che la 'ndrangheta cosentina aveva richiesto, per il tramite dei Notargiacomo, a Cosa Nostra di procedere alla mia eliminazione quando soggiornavo a Palermo e che poi per ragioni indipendenti dalla volontà dei Notargiacomo l'attentato non ebbe luogo. Mi chiedete se sono in grado di spiegare questa volontà di eliminarmi da parte dei Notargiacomo e della 'ndrangheta cosentina. Mi chiedete se posso ricordare qualche specifico episodio che possa avere determinato tanto odio nei miei confronti. Rispondo che proprio il mio modo di fare ha determinato questo odio. Io ero "energico" con tutti nello stesso modo. Con i mafiosi, con i pezzi da 90 e con i ladruncoli da strada. Questo umiliava gli 'ndranghetisti che pretendono un rispetto anche formale dalla polizia anche per fare vedere alla popolazione che sono "importanti". Ritengo, per quella che è stata la mia esperienza, che, non molti, in Polizia a Cosenza, all'epoca, avevano il "fegato" per essere così inflessibili. Pochi si sottraevano alla debolezza di essere forti con i deboli e deboli con i forti. Io ero "forte" con tutti. Compreso con quelli della 'ndrangheta. Compreso con i Notargiacomo con cui evitavo accuratamente di avere rapporti e a cui riservavo un trattamento inflessibile come a tutti gli altri della 'ndrangheta.

ADR: Ero molto legato da un punto di vista professionale al dott. Calipari che è stato dirigente della Mobile a Cosenza anche quando le Volanti erano una sezione della S.Mobile. Ricordo che Calipari mi stimava molto. Non sono a conoscenza di progetti omicidiari in danno di Caliapari da parte della 'ndrangheta.

ADR: Tra i soggetti che ho controllato in modo inflessibile vi è stato anche BAROLOMEO Stefano. Non ricordo episodi particolari in relazione a tale soggetto". La definitiva conferma della reale situazione di pericolo vissuta da Nicola Calipari, la si otteneva in data 16 giugno 2017 da Rosa Maria Villecco, la quale a distanza di molti anni era in grado di fornire particolari certamente utili a riscontrare il contenuto dei colloqui di Graviano Giuseppe oggetto di intercettazione ambientale:

"ADR: Mio marito Nicola Calipari, è stato capo della Squadra Mobile di Cosenza fino al Maggio 1989. Aveva avuto l'incarico di funzionario della Mobile di Cosenza nel Luglio del 1982, ufficio che iniziò a dirigere nel 1984, dopo che il suo superiore aveva avuto un trasferimento.

ADR: In effetti mio marito a partire dall'estate del 1987 (ma potrei sbagliare di qualche mese) ebbe la scorta. Avevamo la volante fissa sotto casa (a Rende) e due uomini seguivano Nicola ovunque. Ebbe anche una vecchia blindata. Mio marito mi nascose inizialmente la situazione di pericolo. Mi disse, infatti, che tutti i capi delle Squadre Mobili calabresi avevano avuto precauzionalmente la scorta. Poi mi disse la verità. Aveva avuto minacce dalla 'Ndrangheta. Era una cosa che mi disse perché io venni avvicinata da una vicina di casa che mi disse che tutti sapevano che la scorta mio marito l'aveva avuta in quanto minacciato (peraltro la vicina mi fece intendere che sarebbe stato gradito un nostro trasferimento in altro condominio perché tutti, nel palazzo, erano preoccupati, specie per la sicurezza dei bimbi). A questo punto, come ho detto, chiesi conto a mio marito della effettiva situazione che riguardava la sua e la nostra sicurezza. Allora Nicola mi disse che era la 'Ndrangheta ad avercela con lui. Erano state spedite lettere di minaccia contro mio marito C'era stata una perquisizione fatta da mio marito al Perna Franco stesso o a qualche suo accolito nel corso della quale doveva essere successo qualcosa che aveva ulteriormente determinato o rafforzato il risentimento dei Perna contro Nicola. La situazione era diventata particolarmente pericolosa e così nel febbraio del 1988 mio marito, proprio per farlo allontanare da Cosenza, venne mandato in missione in Australia. Così per qualche mese andammo in Australia, dove c'era sto un caso di lupara bianca in danno un italiano. Era un fatto legato alla 'Ndrangheta. Lui doveva partecipare e partecipò ad una struttura interforze (tipo Dia, mi pare si chiamasse NCA) in cui erano presenti lui e alcuni funzionari di polizia australiani e un magistrato australiano. Ci trasferimmo in Australia, io, Nicola e nostra figlia, per alcuni mesi. Poi tornammo in Italia, ancora Cosenza (cosa inspiegabile da un punto di vista della sicurezza di mio marito) e poi, nel Maggio 1989, ottenemmo il trasferimento a Roma (dopo che a mio marito era stato anche proposto di andare a dirigere la Mobile di Reggio Calabria, ma in questo caso io mi opposi decisamente dicendogli che era non lo avrei seguito).

ADR: Mio marito era molto legato al povero dott. Cosmai, Rimase molto scosso per la sua morte. Nicola diceva che il Cosmai aveva cercato di innovare nella gestione del carcere di Cosenza eliminando privilegi che alcuni detenuti in precedenza avevano e facendo anche, all'uopo, del "repulisti" interno. Mi disse che Cosmai venne ucciso perché alcuni agenti della penitenziaria, infedeli, avevano sparso la voce che Cosmai nel carcere era molto duro con gli appartenenti alla cosca dei Perna (ovvero di altra cosca) mentre agevolava la cosca avversa. Insomma fecero ingiustamente credere che il Cosmai si era schierato con una delle cosche in quel momento in guerra.

ADR: Nicola non mi parlò mai di sue indagini su Cosa nostra, né dei rapporti fra Cosa Nostra e la Ndrangheta. Né mi risulta che Cosa Nostra ebbe a rivolgergli delle minacce.

ADR: Fatti salvi alcuni giorni a Taormina, non siamo mai stati in Sicilia altre volte, in quegli anni (gli anni 1982/89) né, tanto meno, a Palermo.

ADR: Ricordo il nome di Provenzano come collaboratore di mio marito, ma nulla più. Il funzionario e collega di cui più si fidava mio marito era l'Ispettore Pirozzidella sezione omicidi. Aveva un ottimo rapporto anche con l'Ispettore Pugliese. Inoltre era molto legato al dott. D'Alfonso Alfonso, che dirigeva la Criminalpol della Calabria ed il dott. Blasco che dirigeva la Squadra Mobile di Reggio Calabria".

“Bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato, i calabresi già si erano mossi”, scrive Claudio Cordova mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". La prima traccia pubblica delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia palermitano, Gaspare Spatuzza, sul coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista dei primi anni '90, si ha davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, il 18 giugno 2009. Sono proprio le dichiarazioni di Spatuzza il punto di partenza da cui muove la Dda di Reggio Calabria nell'inchiesta "Ndrangheta stragista", che ha portato all'arresto del boss siciliano Giuseppe Graviano e di Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Ecco la deposizione di Spatuzza, del giugno 2009: ...omissis...Avv. Gatto - senta signor Spatuzza lei ha mai sentito parlare dell'omicidio dei Carabinieri avvenuto nel 1994 sull'autostrada di Reggio Calabria e precisamente in località Scilla? Spatuzza Gaspare – e dottore guardi io purtroppo non posso rispondere perché su queste…su questi fatti in cui già ho reso abbondantemente dichiarazione, ci sono delle fasi uhm…delle indagini in corso per cui io intendo avvalermi della facoltà di non rispondere, quindi però in queste condizioni non posso farlo però ehm...mettetevi nelle mie condizioni..

Avv. Gatto - si, le chiedo scusa...

Spatuzza Gaspare – non posso rispondere...

Avv. Gatto - le chiedo scusa signor Spatuzza, tanto lo chiederà anche il Procuratore e il Presidente...ma lei è stato sentito da parte della Procura di Reggio Calabria in ordine a questo episodio?

Spatuzza Gaspare – in ordine a questo episodio direttamente diciamo che la Procura di Caltanissetta, Firenze e di Palermo e sono stato anche ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria...

Avv. Gatto – signor Spatuzza le chiedo scusa, lei ha avuto mai contatti con i fratelli Graviano?

Spatuzza Gaspare – i fratelli Graviano diciamo che sono i capi famiglia della famiglia di Brancaccio a cui io appartenevo...

Avv. Gatto - ed è il mandamento di cui faceva parte lei?

Spatuzza Gaspare – del mandamento io ho fatto parte e poi ho gestito il mandamento come reggente dal '96 al '97...

Avv. Gatto - senta le notizie che lei ha avuto dai fratelli Graviano, sono notizie che ho avuto in maniera diciamo da tutte e tre i fratelli oppure da uno specifico dei fratelli?

Spatuzza Gaspare – no da Giuseppe Graviano...

Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia?

Spatuzza Gaspare – come?

Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia dei Carabinieri, dell'omicidio dei Carabinieri?

Spatuzza Gaspare – la notizia entra in un contesto di cui io ho diciamo che...comunque in un contesto in cui mi è stata fatta questa confidenza che erano stati uccisi questi due Carabinieri...

Avv. Gatto - senta, le faccio la domanda secca...rientra questo omicidio nella strategia della tensione?

Spatuzza Gaspare – ehh...credo di si, in base alle mie... (pausa)

Avv. Gatto - Presidente io avrei altre domande da fare sull'attendibilità del teste però...

Dott. Finocchiaro – sì ma noi ancora…non sappiamo ancora con precisione che cosa gli ha detto Graviano, quando glielo ha detto, dove glielo ho detto...

Avv. Gatto - eh...

Dott. Finocchiaro – a noi queste cose qua interessano...

Avv. Gatto - eh, io potrei continuare però mi dovrei...

Dott. Finocchiaro – signor Spatuzza mi scusi...

Avv. Maffei – però Presidente io insi...

Dott. Finocchiaro – qua c'è qua...appunto dobbiamo stabilire un poco i termini...

Avv. Maffei – Presidente, il signor Spatuzza...nel mio modestissimo...

Dott. Finocchiaro – ...del...di questo esame...a noi interessa sapere soltanto le confidenze, il contenuto delle confidenze che il signor Spatuzza avrebbe ricevuto, questo a noi è noto diciamo soltanto sulla base delle notizie giornalistiche, avrebbe ricevuto in ordine a questo omicidio per cui lui non è imputato, non è nulla...per cui dovrebbe soltanto riferire quello che ha saputo da altre persone; non vedo quindi su queste circostanze perché si dovrebbe avvalere della facoltà di non rispondere..a noi soltanto questo ci interessa perché noi stiamo procedendo nei confronti di due minori che sono imputati per l'omicidio di questi Carabinieri; se lui ha saputo qualche cosa in ordine a questo omicidio, è tenuto a rispondere..ha capito avvocato?

Spatuzza Gaspare – e allora mi scusi...

Dott. Finocchiaro – avvocato...

Avv. Maffei – però parla con me Presidente immagino?

Dott. Finocchiaro – si, si parlo...parlavo con lei, si...visto che è intervenuta...

Avv. Maffei – Presidente...

Dott. Finocchiaro – ha capito quali sono i termini della questione?

Avv. Maffei – si ho capito, però se non è neanche assistito...

Dott. Finocchiaro – come?

Avv. Maffei – si, si io sono d'accordo, ho capito perfettamente ma se non è neanche assistito da un difensore, cioè voglio dire...e questa è anche una situazione un po'...un po' particolare...

Dott. Finocchiaro – guardi...

Avv. Maffei – o no?

Dott. Finocchiaro – lui oggi poteva anche essere sentito senza...senza difensore...se è stato dato avviso, è stato dato avviso soltanto per un massimo di garanzia proprio per evitare che possa andare incontro ad altre, però lei ben capisce che in questa situazione, lui ricopre la veste di teste puro e semplice...siamo d'accordo?

Dott. Di Landro – dovremmo esserlo...

Avv. Maffei – Presidente io mi rimetto alla sua decisione, non sono d'accordo però mi rimetto alla sua decisione, non...mi sembra che non posso fare diversamente; essere d'accordo no perché comunque è una persona che ha fatto...è stato capo di un mandamento cioè non è che ha saputo queste notizie diciamo fuori da un contesto mafioso, ha conosciuto…ha saputo questa notizia all'interno di un contesto mafioso, quindi...

Dott. Finocchiaro – ma guardi io non lo so come le ha avute le notizie, quindi...

Avv. Gatto - sinceramente a me non è mai successo però...

Dott. Finocchiaro – noi non sappiamo proprio nulla, abbiamo letto un articolo di giornale che ci è stato prodotto dalla difesa in cui si dice che il signor Spatuzza avrebbe anche...

Avv. Maffei – sì! sì, sì...

Dott. Finocchiaro – ...ricevuto delle confidenze in ordine a questo omicidio, stop…poi non sappiamo nulla...

Avv. Maffei – si...

Dott. Finocchiaro – se il signor Spatuzza ci chiarisce le idee, poi potremo essere in condizioni di dire se è un teste pure e semplice, un testimone assistito, se non...se si può avvalere della facoltà di non rispondere, tutte queste cose sono da...da verificare, non lo possiamo stabilire a priori. Procuratore Generale come...

Dott. Di Landro – niente, a me pare...a me pare che tutto quello che lei ha detto sia condivisibile al cento percento, volevo soltanto aggiungere una nota di chiarezza, qua si tratta soltanto di sapere se il signor Spatuzza sa e che cosa sa di questo omicidio, punto e basta; è inutile che facciamo tutta questa confusione...mandamento, non mandamento, chi era il capo, chi era il sottocapo, o…e tutti i contorni della vicenda...questi non ci interessano, è un teste e noi abbiamo bisogno di avere il suo contributo se ce lo può dare con riferimento a questo omicidio...se ce lo può dare, nessuno è qui né a tormentarlo, né a volere per forza una risposta perché non possiamo stare nemmeno appresso alle dicerie, a que...al sentito dire, noi abbiamo bisogno di fatti concreti con riferimento ad una situazione grave qual è quella di cui ci stiamo occupando, quindi se ha dati precisi, concreti, fattuali che possono essere utili ai fini della verità, li dica sennò tanti saluti, lo ringraziamo e...e via, andiamo avanti...

Dott. Finocchiaro – perfetto...

Avv. Priolo - Presidente se mi concede una parola solo un momento, perché mi pare che si sia tutti d'accordo, perché cosa principalmente il difensore del signor Spatuzza la interpretazione che lei ha fatto del tutto, quindi mi pare che allo stato si possa andare a fare...mi pare siamo tutti d'accordo compreso l'avvocato di Spatuzza, quindi...

Dott. Finocchiaro – va beh, allora avvocato...

Avv. Gatto - per me non ci sono problemi...

Dott. Finocchiaro – dico se lei fa le domande specifiche...

Avv. Gatto - si io le faccio specifiche...

Dott. Finocchiaro – ecco...

Avv. Gatto - per me non ci sono problemi, per questo...

Dott. Finocchiaro – sennò appunto...

Avv. Gatto - no, no per me non ci sono problemi, io...le domande sono specifiche, proprio...

Dott. Finocchiaro – perfetto...

Avv. Gatto - ...però voglio dire...signor Spatuzza senta, le fu...le ripeto la domanda in modo da riannodare i fili, lei ebbe notizia sull'attentato ai Carabinieri avvenuto nel gennaio '94 in Reggio Calabria, sulla...l'autostrada allo svincolo di Scilla?

Spatuzza Gaspare – a gennaio del '94 io ho..sono stato incaricato di portare un...di compiere un attentato su Roma contro a dei Carabinieri, quindi siccome io sto cercando di..di sospendere questo attentato contro i Carabinieri perché ho intenzione di colpire un altro obiettivo...

Dott. Finocchiaro – non ho capito...

Spatuzza Gaspare – ...di cui il Giuseppe Graviano capo del mandamento di Brancaccio mi dice che non può essere che…fare l'attentato che io ho in mente ma si devono colpire i Carabinieri anche perché in Calabria altre persone si erano mossi..difatti in quei giorni in Calabria erano stati uccisi due Carabinieri, ora non so se questo contesto dei Carabinieri di Calabria entra nel contesto della strage che dovevo compiere io su Roma...

Avv. Gatto – questa è stata sola ed unica notizia che lei ha avuto da Graviano?

Spatuzza Gaspare – si, si precisamente...

Avv. Gatto – dopo di questa vicenda non ne parlò più?

Spatuzza Gaspare – no perché tra l'altro poi lui è stato arrestato quindi...

Dott. Finocchiaro – è stato arrestato...

Spatuzza Gaspare – ...poi la nostra missione, un po' si...si conclude...

Avv. Gatto – è a conoscenza se Graviano avesse contatti in Calabria?

Spatuzza Gaspare – ma in Calabria nella nostra storia, noi abbiamo avuto diversi contatti con i calabresi...

Avv. Gatto - che ha detto?

Dott. Finocchiaro – non abbiamo sentito mi scusi, se può ripetere...

Spatuzza Gaspare – per la nostra storia, abbiamo avuto sempre diversi contatti con le famiglie calabresi...

Avv. Gatto - non ho altre domande, grazie Presidente...

Dott. Di Landro – nessun'altra domanda, la ringrazio (incomprensibile).

Dott. Finocchiaro – va beh signor Spatuzza lei è stato abbastanza ora...ora chiaro, quindi non abbiamo altre domande da porgerle perché lei in effetti ora si è limitato a dire soltanto che ha avuto questo...c'è stato questo richiamo, questo riferimento fatto da...dal Graviano e basta, non sa nient'altro su questo omicidio per cui la disturbiamo più e possiamo anche e...oncludere l'esame, la ringraziamo...avvocato arrivederci....omissis".

Agli inquirenti fiorentini, nisseni e milanesi, Spatuzza parla di vicende che non avevano mai incrociato sotto il profilo professionale essendo vicende che appartenevano alla competenza della AG reggina. Erano, episodi che, all'epoca delle appena riportate dichiarazioni, risalivano ad oltre 14 anni prima, a cui, peraltro, non solo, non era stato attribuito, in senso assoluto, il rilievo che meritavano, ma che, neppure, erano mai stati collegati al contesto delle attività stragiste di quegli anni e, quindi, ricollegate a quel programma criminale che Cosa Nostra siciliana aveva ispirato. Dunque, Spatuzza introduce, del tutto spontaneamente, una vicenda di cui, assolutamente, nessun collaboratore di giustizia siciliano aveva mai riferito prima, e, soprattutto, l'aveva riferita in una prospettiva del tutto nuova, per chiunque. E ciò senza essere, in alcun modo, sospettabile, per le ragioni sopra spiegate, di essersi determinato a riferirla per venire incontro ad aspettative degli inquirenti. Soprattutto, la fonte di Spatuzza era quella più qualificata fra tutte quelle ipotizzabili per deporre su queste vicende: invero, se esisteva – all'epoca – qualcuno, in Cosa Nostra, che poteva riferire dei fatti in esame ebbene questi era proprio Gaspare Spatuzza, per anni mafioso del quartiere Brancaccio. E ciò per un duplice ordine di ragioni: egli, in primo luogo, era stato, proprio nel periodo stragista, il vero e proprio punto di contatto e collegamento fra i vertici della famiglia di Brancaccio - e, dunque, i Graviano ed il loro "vice" Nino Mangano (che prenderà il posto dei Graviano dopo il loro arresto) e i gruppo degli esecutori delle stragi continentali – composto da persone di fiducia di Riina-Bagarella-Graviano, anche non formalmente "combinate". Ciò risulta pacificamente dalle sentenze emesse in primo e secondo grado dalle Corti fiorentine sule stragi di Via dei Georgofili, Velabro, San Giovanni in Laterano, Via Palestro, Stadio Olimpico, Formello tutte in atti allegate; ha dimostrato, come si è visto, specie in materia stragista, una prodigiosa memoria ed una particolare serietà ed attendibilità. L'uomo del quartiere Brancaccio, quindi, delinea uno scenario stragista intimamente connesso con gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra sul continente, che, come oramai pacificamente accertato dalle Corti fiorentine, tendevano – in un periodo storico caratterizzato da cambiamenti politici epocali, non solo in Italia, ma sull'intero scacchiere internazionale – a mettere alle corde lo Stato per indurlo a concessioni su particolari temi della giustizia quali il 41 bis OP, le leggi sui collaboratori di Giustizia, ed altro ancora. Concessioni, peraltro, che, a ben vedere, solo per uno strabismo valutativo, solo per un inspiegabile errore di prospettiva (che si è perpetuato nel tempo) sono state ritenute concessioni in favore di Cosa Nostra siciliana, laddove, invece, si trattava di concessioni, di aperture, che, ove accolte, avrebbero portato beneficio all'intero sistema criminale, e, dunque, fra le altre mafie, anche alla 'ndrangheta. Su questo specifico aspetto, ovviamente, torneremo in modo più ampio ed approfondito in seguito. In questa sede basterà anticipare che plurimi, eterogenei e convergenti elementi di prova, dimostrano, invece, che tutte le mafie nazionali, d'intesa, in quegli anni, perseguivano quell'obbiettivo. In tale scenario – alla stregua delle propalazioni di Spatuzza – la 'ndrangheta si era incaricata, attraverso un'intesa con Cosa Nostra, di mandare, anche lei, seppure in modo meno eclatante, come era più congeniale al suo modo di agire (e come, strategicamente, risulterà ben più remunerativo) un messaggio allo Stato, attaccando reiteratamente uno dei suoi simboli: l'Arma dei Carabinieri. Simbolo che, del resto, non era per nulla eccentrico rispetto alla complessiva strategia stragista posto che, proprio nel periodo in cui venivano eseguiti a Reggio Calabria i tre attacchi ai Carabinieri, Cosa Nostra stava organizzando quello che poteva essere il più grave degli attentati di quella tragica stagione: l'attentato, con auto-bomba, ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, attentato che avrebbe determinato decine e decine di morti. Circa un anno prima rispetto all'escussione a Reggio Calabria, nel luglio 2008, l'ex uomo dei Graviano rendeva dichiarazioni davanti alla Dda di Firenze:

P.M. DOTT. CRINI: Quindi siamo nel mese di gennaio.

P.M. DOTT. NICOLOSI: Ma quanto tempo, come eravate rimasti d'accordo con Graviano... cioè, Graviano sapeva il giorno in cui avreste fatto l'attentato?

SPATUZZA GASPARE: No, lui sa che ci stiamo spostando su Roma, quindi là poi teniamo un appuntamento su Roma. Quindi noi andiamo là per trovare l'obiettivo Carabinieri. Quindi quando lui viene già noi abbiamo detto: "Senti, l'abbiamo trovato, c'è il problema dell'Olimpico e siamo..." poi noi abbiamo scelto la data. Quindi lui siccome doveva transitare... e non lo so se sta venendo dalle Calabrie. Che là (incompr.) il discorso che già altri si erano mossi, che in Calabria erano stati uccisi due carabinieri. Quindi questi due carabinieri sono stati uccisi o in quel giorno o il giorno prima. Questo è anche...

P.M. DOTT. CRINI: Un ulteriore elemento.

SPATUZZA GASPARE: Un ulteriore elemento.

P.M. DOTT. CRINI: Perché parlate del fatto che c'è stato un altro...

SPATUZZA GASPARE: Perché io sto facendo leva...

P.M. DOTT. CRINI: ...uccisione di Carabinieri...

SPATUZZA GASPARE: Sto facendo leva io per Contorno.

P.M. DOTT. CRINI: Certo, sì, sì.

SPATUZZA GASPARE: E lui mi dice: "No."

P.M. DOTT. CRINI: "Ci sono altri impegni."

SPATUZZA GASPARE: Il problema dell'esplosivo. "Ci sono altri impegni e poi c'è il problema dell'esplosivo...omissis"

Pochi mesi dopo, siamo a dicembre, Spatuzza viene sentito anche dai magistrati di Caltanissetta: "...Attentato all'Olimpico. Per tale episodio delittuoso vi fu un incontro con Giuseppe Graviano in cui manifestammo il nostro disagio per aver ucciso una bambina nell'attentato a Firenze. In quell'occasione ci fin detto che dovevamo proseguire con la nostra strategia perché sollecitare "chi si doveva muovere". Nacque in quella riunione l'idea di colpire un pullman di carabinieri sicché pensammo di agire nuovamente a Roma che è luogo pieno di caserme. A Roma andammo io Lo Nigro, Giuliano Francesco, Giacalone Luigi, Salvatore Grigoli, Salvatore Benigno. Il supporto logistico ce lo diede ancora una volta Scarano ed un amico di quest'ultimo di nome Bizzoni. Ricordo che approntammo l'ordigno anche con dei tondini di ferro affinché si potesse fare più danno possibile e scegliemmo come obiettivo lo stadio Olimpico. Nel frattempo era salito a Roma anche Giuseppe Graviano, per discutere della possibilità di uccidere Contorno che avevo individuato a Roma. Il Graviano mi disse che non era possibile dovendosi utilizzare per Contorno un altro esplosivo e poi perché quello stesso giorno o il giorno prima erano stati uccisi due carabinieri in Calabria e, dunque, mi disse che già "gli altri si erano mossi". A Roma operammo io, Benigno, Lo Nigro e Giacalone, mentre gli altri erano riscesi a Palermo. L'attentato non andò a buon fine poiché non funzionò il telecomando...omissis".

Poi, proprio nel periodo in cui viene ascoltato in contraddittorio a Reggio Calabria, il collaboratore rende dichiarazioni anche davanti alla Dda di Milano: "...omissis... SPATUZZA – Noi abbiamo in cantiere, non dimentichiamo le torri(?) di via del Fante, Commissariato Brancaccio, l'autocivetta della Polizia; quindi siamo ben proiettati per fare veramente del male, però c'è questo cambiamento di rotta quindi andiamo su Roma, Milano, quello che sia. Abbiamo noi Napoli, c'è la questione dei Carabinieri in Calabria, che entra nel contesto dell'Olimpico. Quindi a questo punto... non so questa la ricollego io a questa situazione di quello che mi dice Giuseppe Graviano in quell'incontro che avviene a Campofelice.

P.M. – Cioè... Vada avanti e poi le farò delle domande.

SPATUZZA – Quindi il momento che io gli dico che siamo lì noi per mettere in cantiere l'attentato contro i Carabinieri, non contro l'Olimpico, quindi io lo colloco nel novembre/dicembre del '93, perché poi a gennaio sono stati arrestati i fratelli Graviano; quindi lo colloco a fine del '93. Quindi quando si mette in cantiere questo attentato contro i Carabinieri più ne possiamo prendere e meglio è, siccome il mio pensiero andava sempre a quella bambina, la piccola Nadia...

P.M. – Di via dei Gergofili.

SPATUZZA – Di via dei Gergofili, (inc.) si chiama... Quindi lì dico a Giuseppe Graviano che ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente, perché per la nostra mentalità è...possiamo sposare noi Capaci, per noi quella schifezza andava bene, via d'Amelio, per quella schifezza... secondo quella mentalità eravamo a posto, non siamo più a posto quando entriamo noi sul tessuto sociale, quando diventiamo dei terroristi. Quindi là c'è questa esternazione, esternazione parliamo, che io non potevo fare ma siccome mi potevo permettere di dire questa cosa a Giuseppe Graviano, anche perché tra i ragazzi c'era qualche tentennamento, che ci stiamo spingendo oltre. Quindi gli dissi che il mio pensiero andava pensando a questa cosa e gli dissi "Ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente".

Lui ha capito un po' questa mia debolezza, se così possiamo chiamare, quindi ci disse che è bene che ci portiamo dietro alcuni morti così si danno una smossa, una spinta. A quel punto ci chiede a me e a Lo Nigro se capivamo qualche cosa di politica. Io non ne ho capito mai niente, neanche ho avuto mai modo di avvicinarmi a questa cosa, la stessa cosa il Lo Nigro, e lui ci spiega che lui è abbastanza preparato di questa materia. Quindi ci spiega che c'è in atto una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a cominciare dai carcerati. Quindi lì si chiude la situazione e ci spingiamo per l'attentato all'Olimpico, che poi grazie a Dio è fallito.

P.M. – Attentato all'Olimpico che significava allo stadio?

SPATUZZA – Lo Stato...

P.M. – Lo stadio.

SPATUZZA – Lo stadio... No, le persone comuni.

P.M. – Le persone comuni?

SPATUZZA – I Carabinieri, però parliamo (inc.) dei Carabinieri.

P.M. – Cioè di fare molto danno, un'espressione... detto nella vostra...

SPATUZZA – Sì. E se noi pensiamo che il Totuccio Contorno è un nostro nemico, a me mi lega per una questione familiare quindi ho dedicato tutta la mia vita, disgraziatamente, per seguire a 'sti soggetti. Se noi accantoniamo il Totuccio Contorno, che quando c'è l'appuntamento su Roma con Giuseppe Graviano che vado a prendere (inc.) nella Capitale, io faccio pressione per dirci "Colpiamo Contorno e…una volta che siamo tutti". Lui disse che innanzitutto non si deve fare Contorno per due motivi: uno per l'esplosivo, che si deve fare con l'esplosivo diverso di quello che già si è adoperato, e poi perché si erano mossi i calabresi; infatti quel giorno e il giorno prima era stato commesso un attentato contro due Carabinieri a Reggio Calabria. Quindi se noi pensiamo Giuseppe Graviano c'ha un conto aperto, in sospeso con Totuccio Contorno, perché Totuccio Contorno ha ucciso il padre di Giuseppe Graviano. Quindi com'eravamo noi accaniti... ora se noi pensiamo che Giuseppe Graviano accantonare una questione perché persona... vai a vedere quello che c'è dietro.

P.M. – Quindi, per ricapitolare, lei dice "Oggi che leggo, che mi si dice per la prima volta qual è il contenuto di questa missiva", e cioè saranno collocate altre bombe, ci saranno centinaia di morti, lei dice "Non è che ora capisco, cioè questa è la riprova di quello che noi stavamo facendo"...omissis".

Spatuzza, dunque, del tutto spontaneamente, introduce riferimenti agli attentati in Calabria ai danni dei carabinieri. E lo fa in quel contesto in cui riferisce della programmazione (la cui esecuzione era prevista per il mese di gennaio 1994) dell'attentato (poi fallito per il mancato funzionamento del telecomando ovvero dell'innesco dell'ordigno, che impedì l'esplosione di 120 kilogrammi di esplosivo collocati all'interno di una vettura opportunamente posizionata) ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, che avrebbe comportato decine e decine di morti, fornendo, in tal modo, una causale comune di tale episodio con quelli avvenuti in Calabria. Tale matrice comune consiste proprio nella comunanza delle vittime, in qualità di rappresentanti dello Stato, ma anche nella comunanza temporale degli episodi, in quanto, nell'arco temporale in cui furono commessi i delitti in Calabria, era in fase di programmazione l'attentato allo Stadio Olimpico di Roma. Atteso il tenore dell'atto d'impulso, le indagini – che, per una parte, erano svolte in stretto collegamento investigativo con le DDA di Catania e Caltanissetta (e, per diversi motivi, con quella di Palermo) che, in quel periodo, pure svolgevano indagini su connessi episodi stragisti di matrice mafiosa – non potevano che partire da un nuovo ed approfondito esame di Gaspare Spatuzza (il rilievo della cui collaborazione è stato esaminato in precedenza). E così, in data 8.10.2013, si procedeva all'esame del collaboratore: "...Mi richiedete di ricostruire in sintesi il mio percorso criminale e collaborativo e rispondo che pur senza essere "combinato" negli anni '80 sono entrato in Cosa Nostra e, segnatamente, nella famiglia Graviano operante in Brancaccio agli ordini di Giuseppe GRAVIANO. Per tutti gli anni '80 ho operato nel descritto contesto criminale effettuando anche per conto della famiglia svariati omicidi. Solo agli inizi degli anni '90, fatto insolito fino a quel momento, sono stato incaricato di reperire materiale esplosivo senza che mi fosse spiegato il perché dal predetto GRAVIANO Giuseppe. Ovviamente in seguito compresi la ragione di tale attività in quanto, con un ruolo più defilato a Capaci e con un ruolo più incisivo a via D'Amelio partecipai alla stagione stragista avendo un ruolo anche nei successivi attentati nel Continente. A vostra domanda preciso che non sono in grado di stabilire con esattezza la ragione per la quale non ero stato ancora "combinato". Diciamo che siccome operavo sempre all'interno del Mandamento di Brancaccio non se ne sentiva la necessità. Indubbiamente, peraltro, questa circostanza mi consentiva di operare in maniera più efficace, cioè in modo coperto e discreto. Tornando alla concatenazione dei fatti che riguardano la mia biografia criminale preciso che il 27 gennaio 1994 furono arrestati Giuseppe e Filippo GRAVIANO nella città di Milano, essendo i predetti latitanti. Mi fu detto che da quel momento avrei dovuto prendere gli ordini da Nino MANGANO che diventava il reggente del Mandamento; nel 1995, precisamente a giugno, venne arrestato anche Nino MANGANO. Due mesi o tre mesi dopo ebbi un incontro nel trapanese con Matteo MESSINA DENARO, BRUSCA ed altri esponenti di Cosa Nostra. All'esito di questo incontro essendo stato deciso che toccava a me reggere il Mandamento di Brancaccio venni anche formalmente "combinato". Nel 1997 sono stato arrestato e il mio pensiero fu quello di collaborare con la giustizia. Resistenze e problemi familiari mi impedirono di concretizzare questa scelta. Nel 2000 incontrai in carcere Giuseppe GRAVIANO nella casa circondariale di Tolmezzo. Avendo maturato una forte ripensamento sul mio passato gli comunicai che da quel momento mi doveva considerare dissociato da Cosa Nostra. Nel 2008 mi sono finalmente deciso ed ho iniziato a collaborare con la giustizia essendo in seguito riconosciutomi il programma speciale di protezione. Mi chiedete se ho conosciuto Gioacchino PENNINO e vi rispondo che l'ho conosciuto egli era vicinissimo ai fratelli Graviano così come lo era Sebastiano LOMBARDO che era l'anello di congiunzione tra i Graviano ed il dott. PENNINO. Io stesso quando ebbi un problema di famiglia, dovevo far riassumere mia nipote che era stata licenziata dal dott. PENNINO, entrai in contatto con quest'ultimo tramite Iano LOMBARDO. Mi viene chiesto di riferire tutto quanto è a mia conoscenza, sia diretta che de relato, sui rapporti fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta calabrese. Rispondo che ebbi conoscenza dell'esistenza di tali rapporti a metà degli anni '80 in particolare venni a sapere dai fratelli Graviano che i "calabresi" ed in particolare sentii il nome di due fratelli mi sembra che di nome facciano Notargiacomo rifornivano di armi la nostra famiglia. Parliamo di un traffico di "armi pesanti" cioè mitragliatori ed altre armi da guerra. In questo contesto venni a sapere da Vittorio TUTINO che era ed è un componente della famiglia GRAVIANO, che peraltro partecipava in prima persona a questo traffico di armi, che i fratelli NOTARGIACOMO erano coinvolti in una faida in Calabria durante la quale uno dei fratelli era stato ferito. Il TUTINO mi disse che i due fratelli si erano rifugiati presso il villaggio "eurovillage" ubicato a Campo Felice di Roccella villaggio gestito da Tullio CANNELLA che alla fine di una complessa vicenda di cui ho già parlato divenne anche proprietario del villaggio che, comunque, era un bene della famiglia Graviano. Su questo traffico di armi potrà probabilmente riferirvi sia Emanuele DE FILIPPO che DRAGO Giovanni entrambi collaboratori di giustizia della famiglia di Brancaccio. Altro episodio che collega Cosa Nostra alla 'Ndrangheta, da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell'anno 1998. Successe che nell'ambito del noto procedimento Golden Market da cui sono derivati numerosi stralci dei diversi processi si era arrivati almeno per quello che riguarda il filone in cui ero imputato al grado di appello. All'epoca ero detenuto a Tolmezzo insieme a Giuseppe e Filippo GRAVIANO. In tale contesto i Graviano, da una parte, mi dissero che dovevo ricusare il presidente della Corte di Assise di Palermo proprio all'ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per associazione e qualche reato satellite con l'assoluzione per gli omicidi, dall'altra mi dissero che due tranche di 500 milioni di lire l'una per il tramite di AGATE Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che "avrebbero" aggiustato un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe GRAVIANO mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano AGATE. Mariano AGATE esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, così come mi spiegarono i fratelli Graviano e così come ho compreso stando in Cosa Nostra, l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta. Questa informazione che ho avuto a suo tempo mi è stata confermata nel corso degli anni durante i quali sono stato sottoposto al 41 bis. In particolare ho potuto rilevare come tutti indistintamente i capi 'Ndrangheta a partire da Mommo MOLE'avessero una venerazione per Mariano AGATE. Voglio anche ricordare come Pasquale TEGANO con me detenuto ad Ascoli Piceno unitamente a Mariano AGATE così come lo stesso Franco COCO TROVATO quando si rivolgevano a Mariano AGATE mostravano un rispetto che si riserva ai capi. Lo chiamavano "zu Mariano. Lo stesso ARENA detenuto ad Ascoli quando si rivolgeva a Mariano AGATE lo chiamava vossia. Mi chiedete se AGATE fosse massone vi rispondo che ho informazioni in questo senso. Segnatamente tra il 1995 ed il 1996 ebbi ad incontrarmi con Mariano ASARO. Eravamo entrambi latitanti e questa latitanza la trascorrevamo insieme dormendo negli stessi rifugi in località Marausa. Entrammo in grande confidenza e l'ASARO nel riferirmi delle grandi opportunità che derivavano da Cosa Nostra dai rapporti con la massoneria mi disse che Mariano AGATE massone ne era un esempio. Prima di riferirvi della vicenda degli attentati dei carabinieri in Calabria posso riferirvi di un altro episodio che evidenzia i collegamenti tra Cosa Nostra e la Ndrangheta. In particolare mi riferisco ad un traffico di armi e droga che nel corso del '93 la famiglia Graviano sviluppò in sinergia con i calabresi appartenenti della famiglia Nirta. Preciso che il contatto con NIRTA (ho conosciuto due fratelli NIRTA di circa trent'anni all'epoca di cui uno chiamato Pino) fu ottenuto grazie ai buoni uffici di SCARANO Antonio colui che si occupò di approntare le basi logistiche per gli attentati a Roma, persona di origine calabrese. Il traffico avviato dai GRAVIANO si concluse quando divenne reggente Nino MANGANO. Il trasporto dell'hashish che arrivava dalla Spagna giungeva via mare a Palermo grazie all'imbarcazione messa a disposizione da Cosimo LO NIGRO. A Palermo lo stupefacente veniva suddiviso tra noi ed i calabresi. Parliamo di quintali di hashish. Quanto alle armi era tale Pietro CARRA che mi risulta essere attualmente collaboratore di giustizia che ne curava il trasporto con un camion. Le armi erano da guerra mini uzi ed altro. Preciso che Giuseppe GRAVIANO mi disse di andarci piano con i Nirta in quanto noi avevamo un rapporto privilegiato con un'altra famiglia calabrese contrapposta ai Nirta che operava nel medesimo territorio. Venendo ora alla vicenda degli attentati, successe che verso la fine del '93 io e Cosimo LO NIGRO che era il "bombarolo" utilizzato da Cosa Nostra anche per precedenti fatti stragisti, fummo incaricati da Giuseppe GRAVIANO di individuare nella città di Roma un obiettivo che ci consentisse di uccidere molti carabinieri. Io e LO NIGRO iniziammo subito a preparare l'esplosivo. Ricorremmo al materiale esplodente che ci rifornirono i pescatori che reperivano con la pesca a strascico pescando vecchi ordigni bellici mentre come detonatori ci rifornimmo di un salsicciotto di gelatina e di un altro detonatore confezionato con un involucro di strisce rosse. Di seguito trasportammo il materiale esplodente in Roma ed iniziammo i sopralluoghi per individuare il luogo dove piazzare l'ordigno. Tenga presente che Giuseppe GRAVIANO ci aveva detto che dovevamo fare alla svelta ma che prima di muoverci dovevamo parlare con lui direttamente. La cosa era insolita perché normalmente quando partivamo per fare gli attentati il GRAVIANO ci indicava direttamente giorno, luogo ed ora in cui effettuare l'attentato. Dopo che individuammo lo stadio olimpico quale luogo ideale per fare la strage vi fu l'incontro nel Donay bar in via Veneto a Roma tra me e Giuseppe GRAVIANO. Da lì ci muovemmo per andare in un villino a Torvaianica dove c'era il gruppo di fuoco. Nel corso di questo incontro GRAVIANO Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all'accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in DELL'UTRI e BERLUSCONI, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato. Io cercai di convincere GRAVIANO, visto che avevamo ottenuto quello che volevamo, di lasciar perdere con l'attentato ai carabinieri e di procedere invece all'eliminazione di Totuccio CONTORNO che casualmente io e Cosimo LO NIGRO avevamo individuato in Roma località Formello riuscendo anche a capire quale era la sua abitazione. Feci leva sul fatto che il CONTORNO era un nemico mortale sia mio che di Giuseppe GRAVIANO in quanto ritenuto responsabile sia della morte di mio fratello che della morte del padre di GRAVIANO Giuseppe. Giuseppe GRAVIANO fu irremovibile. Mi obiettò in primo luogo che per ammazzare CONTORNO non si sarebbe potuto utilizzare l'esplosivo che avevamo preparato per i Carabinieri in quanto del tutto analogo a quello usato nei precedenti attentati sul continente sicchè si sarebbero immediatamente individuati nei nemici di CONTORNO gli autori delle stragi sul continente, poi mi disse, in secondo luogo, che bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell'attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria. Preciso che l'incontro con GRAVIANO Giuseppe di cui ho detto sopra si è svolto con certezza nella settimana precedente il giorno 22 gennaio del 1994. Ciò è certo in quanto il giorno dell'attentato programmato all'olimpico era proprio il 22 gennaio data che è stata anche individuata sulla base della circostanza che la targa da collocare sull'auto bomba venne rubata, come di consueto (vedi strage di Via d'Amelio) il giorno prima del programmato attentato e il giorno in cui venne rubata la targa è stato individuato proprio nel giorno 21 gennaio 1994. A vostra domanda preciso che non mi fu specificato dal GRAVIANO quale gruppo calabrese si fosse mosso, nè con chi lui avesse preso accordi. Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla 'Ndrangheta d'intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il GRAVIANO con quella frase che ho detto sopra - in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri. La conferma di un complessivo accordo tra Cosa Nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo Filippo GRAVIANO ebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla 'Ndrangheta ed alla Camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa Nostra. Filippo GRAVIANO mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro "padri"...omissis. Dei rapporti con i calabresi potrebbe forse riferire notizie utili Giovanni GAROFALO, mio uomo di fiducia, ed ora collaboratore di giustizia; era lui che curava i rapporti con i NIRTA.

Si dà atto che viene consegnato, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio ) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: riconosco la foto nr. 25 che rappresenta TEGANO Pasquale che ho conosciuto ad Ascoli Piceno nel 2007-2008 prima della mia collaborazione. L'Ufficio da atto che così è.

Adr: Il TEGANO, come mi sembra di aver già detto, aveva un totale rispetto verso Mariano AGATE. Entrambi facevano insieme i colloqui familiari circostanza significativa perché potevano così scambiarsi notizie ed informazioni...omissis..."

La pur Spatuzza raccolta da questo Ufficio sul punto specifico del tema degli attacchi in Calabria ai Carabinieri (...bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi...") secondo elementari principi di logica, che tengano conto sia del tenore letterale della frase che del contesto e del momento in cui la stessa venne pronunciata da Graviano, postula l'esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai Carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. Nel momento in cui Graviano pronunciava la frase in questione, per un verso, il suo gruppo aveva commesso in "continente", nei mesi precedenti, una serie di atti criminali di cui era evidente la finalità terroristica tesa a fiaccare la resistenza dello Stato e, per altro verso, il medesimo gruppo, stava per commettere un ulteriore atto terroristico a Roma, dove ci sarebbe stato un massacro di decine e decine di militari italiani appartenenti all'Arma, che non avrebbe avuto pari nella storia repubblicana, tanto che, per trovare precedenti analoghi, bisognava risalire all'ultimo conflitto mondiale. Dunque Graviano e i suoi uomini – su mandato dei vertici di Cosa Nostra – in quel periodo non solo si stavano muovendo, inequivocabilmente, in una direzione chiara, quella dell'attacco frontale allo Stato, ma agivano nell'ambito di una strategia (esclusivamente) terroristica, ancorchè di matrice mafiosa. In questo contesto Graviano, per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere, celermente, alla esecuzione dell'attentato allo Stadio Olimpico, faceva il (noto) riferimento alla consumazione (appena avvenuta) degli omicidi dei Carabinieri commessi in Calabria, atto che imponeva, per l'appunto, una rapida esecuzione dell'attentato romano. Dunque, alla stregua del riferimento fatto da Graviano, gli omicidi dei Carabinieri in Calabria erano un antecedente logico che fungeva da fattore di accelerazione di un altro e più eclatante delitto (l'attentato contro decine di carabinieri allo stadio olimpico) sicchè i due episodi (quello calabrese e quello romano) risultavano, alla stregua di una lettura logica e "contestualizzata" della frase del Graviano, programmati all'interno di una strategia omogenea ed unitaria ( e, del resto, a contrario, se gli episodi calabresi si fossero collocati in un contesto non omogeneo rispetto all'attentato dell'Olimpico e rispetto a questo fossero stati eccentrici e, quindi, estranei alla strategia terroristica in atto, il riferimento fatto dal Graviano a Spatuzza sarebbe stato privo di senso). Ne segue, già in via logica, che non appare neppure astrattamente ipotizzabile che tasselli di rilievo di tale strategia, quali (alla stregua della esposta ricostruzione) furono gli attentati calabresi - che, non a caso, erano sia perfettamente calibrati cronologicamente con l'eclatante attentato programmato a Roma che omogenei a questo quanto all'obbiettivo attinto o da attingere ( i Carabinieri) - fossero stati concepiti senza un previo concerto con chi aveva organizzato il predetto attentato romano e, cioè, con Giuseppe Graviano. Nel momento in cui Graviano parlava a Spatuzza degli omicidi dei carabinieri in Calabria (notizia, peraltro, che, di norma, sarebbe passata inosservata agli occhi di un mafioso di Brancaccio) e cioè il giorno dopo la consumazione del duplice omicdio Fava-Garofalo, nulla, concretamente, ancora si sapeva, da un punto di vista investigativo in ordine alla loro effettiva natura, alle loro esatte modalità, alla loro scaturigine, ai loro autori, ed in cui, addirittura, non solo, non era stato ancora fatto dagli inquirenti il collegamento fra quel duplice omicidio (di cui parlava il Graviano) ed il duplice tentato omicidio del 2.12.1993. Graviano, invece, nonostante questa assenza d'informazioni anche in capo agli inquirenti, mostrava di conoscere benissimo il contesto in cui era avvenuto il duplice omicidio, chi fossero gli autori (gli amici calabresi) e soprattutto che si trattava non di un "normale" anche se tragico, conflitto a fuoco fra forze dell'ordine e malviventi ma di una azione eversiva/terroristica contro i Carabinieri, omogenea a quella in programmazione a Roma. E solo chi (come evidentemente il Graviano) era stato in diretto contatto con gli organizzatori di quell'agguato, poteva immediatamente, il giorno dopo i fatti, e senza indugi, collocare tale vicenda in un contesto terroristico/eversivo, che, peraltro, solo oggi appare palese. Del resto, anche esaminando gli episodi calabresi e quello dello Stadio Olimpico, in modo asettico, senza tenere conto cioè delle propalazione di Spatuzza, non può non essere rilevata una loro perfetta e non casuale coerenza all'interno di un disegno criminale che, nella sua ferocia, era chiaro e lineare. E ciò si rileva già sul piano dell'uso della violenza. Che, simmetricamente ma in modo progressivamente più incisivo e grave, doveva colpire l'Arma dei Carabinieri. Prima in Calabria e, poi, al cuore, a Roma, dove ci sarebbe stato un vero e proprio massacro di militari italiani.

C'era una volta a Enna: così nacque la strategia stragista di Cosa nostra e 'ndrangheta, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017, su "Il Dispaccio".  Elemento di conferma sul diverso ma rilevantissimo versante della genesi della stagione stragista, proveniva dalle convergenti propalazioni di collaboratori catanesi che pure avevano riferito delle riunioni di Enna come quelle in cui, Cosa Nostra, deliberò la stagione stragista del '92-'93 nel contesto di una strategia "politico-eversiva". Come indicato da Leonardo Messina, Riina ed i suoi uomini soggiornarono per un periodo piuttosto lungo ad Enna, a cavallo fra la metà del 1991 e gli inizi del 1992.

Importanti le dichiarazioni di Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu" che nell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava la riunione "strategica" di Enna della fine del 1991, di cui aveva riferito Leonardo Messina: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...

A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...

A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace". Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia...omissis...

Tali dichiarazioni venivano confermate e dettagliate nel corso di un successivo interrogatorio svolto nel 2015.

"A.D.R: Sono in protezione dal marzo del 1994. Ho iniziato a collaborare più esattamente in data 11.3.94. Quando ho iniziato a collaborare ero detenuto presso il carcere Bicocca di Catania. Ero stato arrestato il 25.3.1993. In particolare da quel giorno sono stato detenuto prima a Rebibbia, poi a Catanzaro e infine a Catania. Fino al momento della mia collaborazione ho fatto parte di Cosa Nostra catanese ed in particolare della famiglia Santapaola/Pulvirenti. Io ero il nipote del noto Pulvirenti Giuseppe detto il malpassotu.

A.D.R: Girolamo Rannesi, era un uomo d'onore di Cosa Nostra catanese gruppo Pulvirenti, ed era stato "combinato" insieme a Santo Mazzei detto "O'Caccagnusu". La cerimonia in questione si svolse a Catania alla presenza dei corleonesi ed in particolare alla presenza di Nino Gioè di Altofonte e di Leoluca Bagarella. Ovviamente erano presenti anche gli uomini d'onore di Catania e fra questi in primo luogo Nitto Santapaola. Era presente anche un uomo d'onore di Trapani tale Giovanni Bastone, quest'ultimo molto amico di Mazzei. Tutto ciò mi venne raccontato dal Rannesi, che è colui che nella primavera del 1992 mi raccontò dei propositi stragisti di Santo Mazzei da attuarsi in Toscana e a Torino attraverso una serie di attentati. Mazzei vantava una serie di appoggi in Toscana e a Torino e per questo si era offerto ai corleonesi per compiere tali attentati.

A.D.R: La confidenza sulla disponibilità di Mazzei a fare attentati in Toscana e a Torino il Rannesi me la fece quando era già uomo d'onore.

A.D.R: Quando si tenne la riunione di Enna nella seconda metà del 1991/ fine 1991, di cui ho ampiamente riferito in altri verbali, la sentenza della Cassazione sul maxi-processo non era stata ancora emessa. Ricordo tuttavia che già si sapeva che il Maxi sarebbe andato male.

Infatti ricordo che proprio Nitto e Salvatore Santapaola ed Aldo Ercolano, non so sulla base di quali informazioni, dicevano in mia presenza che quel processo sarebbe andato male per Cosa Nostra. Più esattamente dicevano che non erano riusciti ad "aggiustarlo".

A.D.R: Nulla posso dire delle cd liste autonomiste ovvero delle Leghe Meridionali che all'inizio degli anni 90' si presentavano alle elezioni. Neppure ovviamente sono in grado di riferire sui rapporti eventualmente esistenti fra tali formazioni politiche e Cosa Nostra. Posso dire che poche settimane prima che io iniziassi a collaborare e comunque prima che a livello mediatico si sapesse con certezza della cd "discesa in campo" di Berlusconi – in ogni caso fra il Gennaio ed il Febbraio del 1994 – quando ero detenuto alla Bicocca, tale Marcello D'Agata che era "consigliere familiare" dei Santapaola, mi disse, allorchè io gli rappresentai che nonostante tutto quello che avevamo fatto ( mi riferivo implicitamente alla strategia stragista di Cosa Nostra) eravamo nei "guai" a livello giudiziario, lui mi rispose di stare tranquillo perché gli amici palermitani ci avevano fatto sapere che tutto si sarebbe risolto con l'avvento di una nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi. Mi invitò a fare sapere a tutti quelli che potevo raggiungere di votare per Berlusconi poiché il suo partito avrebbe risolto i nostri guai. Sempre in quel periodo alla Bicocca le parole del D'Agata mi furono confermate da Gaetano Asaro - che pur non essendo uomo d'onore era molto addentro al nostro gruppo tanto che era colui che si era occupato di garantire la latitanza di mio zio Malpassotu. Il Gaetano Asaro che veniva dalla libertà ed aveva notizie "fresche" mi confermò che bisognava appoggiare il nuovo partito che Berlusconi stava creando. Disse. "Berlusconi è la nostra salvezza". Avrebbe abolito il carcere duro e la legge sui pentiti.

A.D.R: Confermo integralmente quanto ebbi a dire nel verbale del 9.5.1994 di cui ricevo lettura...omissis.

A.D.R: Preciso che il vero episodio che aveva indotto i corleonesi e quindi il Riina a ritenere che erano venuti a mancare i nostri referenti politici e bisognava fare la guerra alla stato così come ho sopra detto, era il fatto che non eravamo riusciti o meglio che non riuscivamo ad aggiustare il Maxi-processo in Cassazione. Faccio presente che fino all'estate del 1991 Pulvirenti Malpassotu stesso mi diceva che il Maxi sarebbe andato bene. Nell'autunno si acquisì la consapevolezza contraria. Come sempre mi diceva mio zio il Malpassotu. Questo fu determinante...omissis.

A.D.R: Con riferimento ai rapporti che all'epoca, esistevano fra organizzazioni criminali e massoneria, posso dirvi solo un fatto preciso e netto: nella primavera del 1992, prima delle stragi, Aldo Ercolano in persona, mi convocò per darmi un incarico. Mi disse che bisognava convincere i proprieta000ri di una certa villa dalle parti di Taormina – villa che mi sembra di avere anche indicato quando feci i primi sopralluoghi investigativi - a cederla o in affitto o in vendita. Mi spiegò che questi proprietari erano riottosi e bisognava convincerli. Sempre l'Ercolano mi spiegò che questa villa doveva diventare la sede di una sorta di associazione – una specie di Rotary o di Massoneria – che doveva comprendere sia uomini insospettabili che uomini di Cosa Nostra. Lo scopo di questa associazione era quello di fare affari insieme e soprattutto di procurare sempre nuovi affari a Cosa Nostra. Mi disse che l'elemento di spicco di questa associazione era il Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto. A detta dell'Ercolano questo Cattafi era un uomo d'onore molto vicino a Bagarella. Io accettai l'incarico ed individuai anche la villa. Non avevo ancora avvicinato i proprietari che, in seguito, l'Ercolano Aldo quando io gli dissi che ero in difficoltà a muovermi poiché avevano arrestato il mio inseparabile amico Salvatore Grazioso mi disse che non serviva più quella villa perchè disse "avevano risolto il problema" Ciò avvenne sempre in epoca precedente alle stragi siciliane del 92. In seguito seppi da Aldo Ercolano che, sempre in zona di Taormina, e poi altrove, dalle parti di Barcellona Pozzo di Gotto, si erano svolti degli incontri di questa associazione del Cattafi. Non mi disse cosa si era detto o concluso in queste riunioni. Certo è che a dire dell'Ercolano queste riunioni riservate oltre a uomini di Cosa Nostra vedevano protagonisti imprenditori, politici e uomini delle istituzioni..."

Malvagna precisava anche che Cosa Nostra catanese aveva posto in essere, nel quadro della stessa strategia, atti intimidatori nei confronti del sindaco pro-tempore di Misterbianco Antonio Di Guardo, del giornalista Claudio Fava, e perfino un attentato avente come obiettivo il Palazzo di Giustizia di Catania. Né può essere sottovalutato un ulteriore rilevante profilo delle dichiarazioni rese dal Malvagna a questo Ufficio : il riferimento ai rapporti fra Cosa Nostra e Massoneria – ampiamente evidenziati in modo convergente dal Pennino e dal Gran Maestro Di Bernardo – e soprattutto il riferimento al ruolo chiave che in tale contesto aveva Rosario Cattafi, legato ad Ordine Nuovo, che – come pure risulta dagli atti dell'indagine "sistemi criminali" – anche il collaboratore di Giustizia Maurizio Avola indicava come soggetto "esterno", suggeritore delle strategie di Cosa Nostra. Anche nel caso di Maurizio Avola, la Dda di Reggio Calabria, il 14.5.2015, provvedeva ad una nuova escussione del collaboratore, nella corso della quale, il predetto, oltre a confermare pienamente quanto aveva a suo tempo riferito, e si è sopra riportato, evidenziava due circostanze di rilievo: come, da un punto di vista criminale, i rapporti fra 'Ndrangheta – e in particolare le famiglie De Stefano-Piromalli – fossero intensi, continui ed abituali; il ruolo di Sante Mazzei, uomo di Bagarella inserito nella famiglia di Catania di Cosa Nostra per agevolare le strategie corleonesi sulle stragi. Mazzei fu protagonista del fallito attentato del 1992 a Firenze nei giardini di Boboli:

"ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal giorno 8.3.1994 venni arrestato nel marzo 1993. Nel 1997 mi è stato revocato il programma per delle infrazioni comportamentali ma ho continuato a rendere dichiarazioni alla AG.

ADR: Facevo parte di cosa nostra catanese ed in particolare facevo capo a Nitto Santapaola.

ADR: Ho già reso dichiarazioni sui rapporti fra il gruppo Santapaola e la 'ndrangheta sia alla AG catanese che a quella reggina. In particolare ho riferito dei comuni traffici di stupefacenti che vennero organizzati da Paolo De Stefano ed Ercolano Salvatore. In particolare io stesso accompagnai Ercolano Salvatore a Reggio Calabria ad incontri con il predetto De Stefano. Ciò avvenne fra il 1983 ed il 1984. Poi Nitto Santapaola mi disse che non dovevo più occuparmi di queste faccende per cui mi sono astenuto. Il problema era fra Nitto Santapaola e Salvatore Ercolano. In sostanza i rapporti fra i Santapaola e i De Stefano continuavano, ma Nitto non voleva che tali rapporti fossero portati vanti da Salvatore Ercolano. Rappresento che in quel periodo il processo per la sparatoria avvenuta a Catania a via delle Olimpiadi era stato trasferito a Reggio Calabria, non ricordo per quale ragione. Poiché erano imputati Antonino Santapaola, Salvatore Pappalardo e Natale Di Raimondo (oggi collaboratore, Nd.PM: le cui dichiarazioni saranno viste a breve), Aldo Ercolano (rappresentante all'epoca della famiglia Santapaola) ebbe contatti con Paolo De Stefano affinchè quest'ultimo cercasse di fare "aggiustare" il processo. So di questa vicenda in quanto, di questo interessamento, me ne parlò lo stesso Aldo Ercolano. Non so dire come sia andato a finire questo interessamento. Certo è che nel 1986 i tre imputati vennero scarcerati. Posso dire, inoltre, che alcuni calabresi, non so chi, chiesero, nel 1990, a Nitto Santapaola il permesso di rapire Pippo Baudo. Nitto Santapaola negò il permesso. Questo fatto mi venne riferito da Samperi Claudio oggi collaboratore.

ADR: Non sono in grado di riferire della esistenza di eventuali rapporti fra Cosa Nostra e 'ndrangheta riguardanti la cd strategia stragista.

ADR: Conosco per averne letto in un secondo momento sui giornali (all'epoca io ero già detenuto) del fallito attentato alla stadio olimpico organizzato dai palermitani, attentato che doveva colpire i carabinieri. Nulla so, però, della contestuale serie di attacchi ai CC avvenuta in Calabria nel dicembre 93 e Gennaio –febbraio del 1994. Come ho detto ero detenuto.

ADR: Come ho spiegato nel corso di più verbali la strategia della tensione che Cosa Nostra aveva pianificato contro lo Stato risaliva al 1991 più esattamente al Settembre- Ottobre 1991. Ricordo che il vice-rappresentante provinciale di Catania di Cosa Nostra, Eugenio Galea, dopo un incontro con i corleonesi, venne a comunicarci a noi di Catania che era stata stabilita, con i corleonesi, questa strategia di attacco generalizzato allo Stato. Bisognava fare attentati a tralicci, traghetti, forze dell'ordine e tutto ciò che era ricollegabile allo Stato. Prima di iniziare, però, ci disse che bisognava aspettare il via. Insomma in quel momento bisognava solo prepararsi.

ADR: Dopo la morte di Paolo De Stefano, i referenti calabresi di Cosa Nostra catanese divennero le famiglie De Stefano-Piromalli. Preciso meglio: per un periodo successivo alla morte di Paolo De Stefano i rapporti si raffreddarono. Evidentemente attesa la guerra in corso non si sapeva con chi parlare, poi dai discorsi che facevano i miei capi, mi riferisco agli Ercolano ed ai Santapaola, capivo che se c'era un problema da risolvere in Calabria i referenti erano sia i De Stefano che i Piromalli. Non so specificare chi dei De Stefano e chi dei Piromalli. Si faceva riferimento a queste due famiglie. Ritengo che Natale Di Raimondo, collaboratore di giustizia, possa conoscere meglio queste dinamiche in quanto conosceva bene la Calabria ove era stato in soggiorno obbligato.

ADR: Santo Mazzei era molto vicino ai corleonesi più esattamente era un uomo di fiducia di Bagarella. Al contempo era uno storico rivale di Nitto Santapaola. Santo Mazzei era uno dei principali fautori della strategia stragista ed era soggetto dalle forti simpatie di destra, meglio di estrema destra. Santapaola era contrario alla strategia stragista. Per questo i corleonesi volevano che Santapaola fosse sostituito da Mazzei al vertice di Cosa Nostra catanese. Questa indicazione i corleonesi – e cioè che Nitto Santapaola fosse "posato" – i corleonesi non la diedero espressamente ma la fecero capire allorquando il Mazzei, nel 1991 venne "combinato" uomo d'onore direttamente da Bagarella a Palermo (i due si erano conosciuti a Porto Azzurro), nonostante il Mazzei fino a quel momento fosse stato uno dei "cursoti" dunque soggetto estraneo a Cosa Nostra. Era una vera e propria investitura che poi, in seguito, qualche tempo dopo, venne formalizzata allorquando il Mazzei venne presentato a Catania dai corleonesi e precisamente da Bagarella in persona allo stesso Nitto Santapaola e agli Ercolano. Ciò avvenne sempre fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992, in epoca successiva alla elaborazione della cd strategia stragista ma prima di una rapina miliardaria che feci alla sede centrale della Banca di Ragusa che feci ad Aprile/Maggio 1992 proprio con uomini di Mazzei. Rappresento, poi, che nel 1992 su ordine di Bagarella collocò un ordigno a Firenze nei giardini di Boboli dopo gli attentati di Palermo. Poi alla fine del 1992 il Mazzei venne arrestato..."

Già nella seconda metà del 1991, i vertici di Cosa Nostra, nel corso delle riunioni di Enna, avevano deliberato di attaccare lo Stato per ragioni di strategia politica. I Corleonesi, si spesero presso le famiglie e le organizzazioni alleate per concertare, avere il consenso ed ottenere, da ciascuna, un apporto autonomo nella creazione di un clima di paura e terrore nel paese. Tutto ciò rappresenta una importante premessa per comprendere la coerenza, con tale modus operandi, dell'interazione fra Cosa Nostra e Ndrangheta nella complessiva strategia terroristica e nella esecuzione degli attacchi ai CC. La vicenda criminale veniva chiarita nella sua effettiva causale dal collaboratore di Giustizia Natale Di Raimondo, sulle cui dichiarazioni si sono fondate le condanne per il delitto in esame comminate dal Gup di Catania e poi confermate. Escusso il 20.4.2015, il Di Raimondo, riferiva:

"...ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal 28.10.1998. All'epoca ero detenuto al Carcere di Cosenza. Ero detenuto in questo carcere dal Luglio 1993 (fatti salvi gli spostamenti per i processi che avevo a Catania) in precedenza ero stato detenuto, da Marzo 1993 ad Augusta -Catania. Prima di marzo 93 ero libero e lo ero dal 1988. Io ero appartenente ai Santapaola dal 1980 ma non ero "combinato". Nel 1987, invece, venni fatto uomo d'onore insieme al mio carissimo amico Pappalardo Salvatore (ucciso in un agguato nel 1999 a Catania).

ADR: Non è esatto che io sia stato in soggiorno obbligato in Calabria. Lo è stato invece il mio amico Salavatore se non ricordo male in un periodo che ruota intorno al 1988. Stava a Melito Porto Salvo. Entrò in ottimi rapporti con gli Iamonte, che, peraltro, io stesso avevo conosciuto nel carcere di Reggio Calabria nel 1985. In particolare conobbi Iamonte Natale il vecchio, Vincenzo Iamonte, il genero di Natale Iamonte di cui non ricordo il cognome ma solo il nome, Pietro. Conobbi anche in quel contesto Pasquale Condello, Totò Polimeni, Pasquale Tegano, Orazio De Stefano il Libri uccisi in carcere, mi pare a nome Pasquale, tale Labbate mi sembra Pietro, come voi mi chiedete, Paolo e Mico Serraino. Io godevo di una buona reputazione criminale, in quanto ero imputato di una grave fatto di sangue, vale a dire la strage di via delle Olimpiadi. Per questa ragione i suddetti esponenti della 'ndrangheta mi diedero subito fiducia e credito, anche perché sapevano che io appartenevo ai Santapaola che mi dissero erano loro alleati ed amici, tanto da fare insieme il traffico di stupefacenti. Protagonisti di questi accordi in materia di stupefacenti erano i Ferrera – cugini dei Santapaola – da un lato e gli Iamonte ed i De Stefano dall'altra. Fu Natale Iamonte che, in carcere, mi raccontò questi affari di droga, dicendo che era grato ai catanesi che in questo ambito gli avevano fatto fare parecchi soldi. Preciso che durante la guerra di mafia seguita all'omicidio di paolo De Stefano, ovviamente non si potevano fare affari come prima e comunque mantenemmo una posizione neutrale. Tuttavia i rapporti cordiali continuammo a tenerli con i De Stefano/Tegano. Io stesso nel 1990, quando la guerra stava per finire, andai a Reggio Calabria per parlare con Tegano Domenico "Mimmo" e Pasquale Tegano di una impresa catanese a nome Palmeri che stava ristrutturando un palazzo pubblico a Reggio Calabria. Bisognava accordarsi per la tangente da pagare. Ricordo che i due Tegano avevano dei documenti da cui potevano ricostruire il margine di guadagno della ditta catanese. Non venne fatto un rapporto di particolare favore a questa nostra ditta. Spontaneamente: nel 1990/91 io Umberto Di Fazio e Salvatore Pappalardo andammo ad eseguire un omicidio nell'ospedale di Melito Porto Salvo su richiesta di Natale Iamonte. Fu Il Pappalardo che portò la richiesta dello Iamonte a Turi Santapaola. Questi autorizzò il nostro intervento. Io e Pappalardo rimanemmo in macchina sotto l'ospedale e Di Fazio, guidato da uno degli Iamonte, tale Remingo, salì in Ospedale ed uccise con colpi di pistola silenziata, la vittima che ricoverato in questo ospedale. Non sapevamo neanche all'epoca la casuale dell'omicidio. Per noi era un favore agli Iamonte e basta.

ADR: Nulla so dell'omicidio del Giudice Scopelliti.

ADR: Santo Mazzei era uomo di Bagarella. Lui venne introdotto nel gruppo Santapaola da Bagarella. Io ero presente quando, dopo Capaci, Brusca Giovanni, Gioè e Bagarella vennero a Catania e io Enzo Aiello ed Eugenio galea li portammo da Nitto Santapaola in una tenuta di Aiello. Lì venne chiesto da Bagarella a Nitto di fare il Mazzei uomo d'onore come da richiesta di Totò Riina. Disse che il Mazzei a Rimini aveva già fatto due omicidi per "loro". Questa conoscenza Mazzei-Bagarella era nata in carcere negli anni precedenti. Il Mazzei prima non era di Cosa Nostra. In effetti Mazzei venne poi fatto uomo d'onore. Abbiamo poi capito che i corleonesi volevano in seguito accantonare il Santapaola e mettere al vertice della famiglia di Catania il Mazzei. Mazzei era davvero agli ordini di Bagarella. Lo so perché ero io incaricato da Nitto Santapaola di dargli assistenza e di controllarlo. Mazzei aveva fiducia in me e per questo si confidava. Si vantò, infatti, con me di avere messo l'ordigno nel giardino di Boboli a Firenze su richiesta dei Corleonesi. La cosa la fece all'insaputa di Nitto Santapaola come lo stesso Santapaola mi disse quando io gli raccontai il fatto. Nell'occasione del loro arrivo a Catania (dopo Capaci ma prima dell'attentato di via D'Amelio) Bagarella e gli altri due chiesero a noi catanesi ed, in particolare, a Nitto di aderire alla strategia che in seguito sarebbe stata ulteriormente portata avanti da loro, contro lo Stato. Ci chiesero di uccidere magistrati, esponenti delle forze dell'ordine, di fare attentati e "fare rumore". Ciò dovevamo fare in provincia di Catania. Ricordo che Nitto e Turi Santapaola, in loro presenza, dissero che avrebbero aderito a questa strategia, poi quando i corleonesi se ne andarono, manifestarono ai noi affiliati le loro perplessità. Tuttavia bisognava fare credere ai Corleonesi che seguivamo quelle indicazioni e, per questo, nel Luglio 1992, venne ucciso, subito dopo via D'Amelio, l'Ispettore di PS Lizio. Questo Ispettore venne prescelto da noi e dai Santapaola, come vittima designata, essendo un funzionario molto chiacchierato, rispetto al cui omicidio, ritenevamo che non vi sarebbe stato il clamore che, invece, ci sarebbe stato se fosse stato ucciso un poliziotto integerrimo ed impegnato sul fronte antimafia. Insomma, con questo omicidio, volevamo, da una parte, fare credere ai Corleonesi che li seguivamo nell'azione contro lo Stato, ma, nel contempo, non volevamo fare una azione troppo eclatante che richiamasse l'attenzione dell'opinione pubblica e delle forze dell'ordine su noi catanesi. Nitto Santapaola era rimasto "scottato" per la vicenda dell'omicidio Dalla Chiesa e per l'omicidio Ferlito che determinò la strage di tuta la scorta che portava il Ferlito dal carcere di Enna a quello di Trapani o Favignana. In pratica il Santapoala era convinto che in entrambi i casi – materialmente eseguiti dai corleonesi - ci fosse lo zampino dei servizi deviati in quanto nel caso di Ferlito era evidente che vi era stata una soffiata da qualcuno interno alle istituzioni che aveva avvisato del momento della traduzione del Ferlito e nel caso di Dalla Chiesa era lo stesso in quanto risultò in seguito che era stato utilizzato lo stesso mitragliatore usato per la strage della circonvallazione in cui perì Ferlito e la sua scorta. Ripeto che questa era la convinzione di Nitto Santapaola per queste due vicende che mi esternò a suo tempo e che io mi limito a riportare alle SSVV come ho già fatto rendendo dichiarazioni alla AG di Catania, Palermo, Firenze. Dunque per questi precedenti che, ad avviso di Nitto Santapaola, deponevano per l'esistenza di collegamenti fra corleonesi ed apparati o elementi deviati dello Stato, lo stesso Nitto Santapaola diffidava dei Corleonesi. Ciò anche perché nei due precedenti casi che ho indicato (Ferlito e Dalla Chiesa) gli attentati li avevano fatti i Corleonesi e poi era stato implicato lui stesso che ne era estraneo. Nitto, quindi, temeva che così, anche per le stragi che i Corleonesi stavano eseguendo in Sicilia, poteva succedere e che cioè, noi, nostro malgrado, fossimo implicati nelle stesse a livello giudiziario..."

Il pentito Scriva: “Il procuratore Tuccio mi disse che Filippone era amico di un suo amico…”. E il nome del boss della Piana scompare dal verbale…, scrive Claudio Cordova mercoledì 26 luglio 2017 su "Il Dispaccio". Sarebbe un uomo molto influente della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, l'elemento di raccordo tra la cosca Piromalli e Cosa Nostra nella strategia stragista. Eppure per anni, Rocco Santo Filippone (arrestato oggi nell'ambito dell'inchiesta "Ndrangheta stragista") sarebbe rimasto immune alle indagini. Sono tanti i collaboratori di giustizia che parlano, ma le dichiarazioni più pregnanti arrivano dal collaboratore di giustizia Pino Scriva. Elementi utilissimi, peraltro, per comprendere che i rapporti sono diretti e di particolare rilievo fiduciario, vista la gestione di parte della latitanza del collaboratore di giustizia da parte della persona sottoposta ad indagini:

"A.D.R: Ho iniziato a collaborare con la giustizia nel 1983. Ho fatto parte di una famiglia di 'ndrangheta che porta il mio stesso nome. Anzi, posso dire che sono stato il primo a spiegare all'A.G. cosa è la 'Ndrangheta. Preciso che dal 1968 al 1983 sono stato quasi sempre detenuto salvo alcuni periodi in cui ero latitante in quanto ero riuscito ad evadere. Nel periodo in cui ero detenuto e quindi tra il 1969 e il 1983 i rapporti tra noi della 'Ndrangheta e quelli di Cosa Nostra erano cordiali, ma noi eravamo una cosa e loro un'altra. Non posso dire cosa è successo dopo il 1983 poiché ho interrotto qualsiasi rapporto con gli ambienti criminali di provenienza. Ho conosciuto tutti i principali esponenti della 'Ndrangheta della zona Tirrenica e anche Ionica. Ricordo BELLOCCO Umberto detto "asso di mazzo" cl.1937, Nino PESCE "testuni", Mommo PIROMALLI, il vecchio, morto nel 1979 che era il Capo dei Capi e la sua parola valeva in Calabria in Sicilia e altrove, Peppe PIROMALLI cl.1921, Pino PIROMALLI "facciazza". Quelli della famiglia PESCE li conoscevo praticamente tutti compreso Peppe il vecchio ed anche i MOLE'. Mi chiedete se ho conosciuto persone di 'ndrangheta a Melicucco ed io vi faccio i nomi di tali PRONESTI' e Rocco FILIPPONE. Mi chiedete di soffermarmi principalmente su quest'ultimo ed io vi dico che per la prima volta entrai in contatto con Rocco FILIPPONE quando mio cugino Rocco SCRIVA – 'ndranghetista responsabile dell'omicidio di Domenico CUNZOLO – doveva appoggiarsi in un posto sicuro per trascorrere la latitanza. Per tale ragione mio padre SCRIVA Francesco, mi disse di portare mio cugino Rocco presso il FILIPPONE. Il FILIPPONE aveva la disponibilità di una abitazione (non so se fosse sua o meno) nel Comune di Anoia vicino a Melicucco. In questa casa trascorsero la latitanza non solo mio cugino Rocco ma anche MAESANO Domenico "Mico" e Giuseppe ROTOLO di Rizziconi, compaesano del primo. Costatai la presenza di questi ultimi proprio accompagnando mio cugino in questa abitazione di FILIPPONE che a sua volta abitava dalle parti di Melicucco in un'altra casa. Ciò avvenne nel 1965. Circa dieci anni dopo, nel 1975, essendo io latitante a seguito di una evasione, costatata la disponibilità del FILIPPONE in precedenza, trascorsi circa nove mesi della mia latitanza appoggiandomi a Rocco FILIPPONE che mi "teneva" in una Masseria di campagna poco prima di Melicucco. Passavamo molto tempo insieme nel senso che lui mi accompagnava nei miei spostamenti. Tenga presente che all'epoca vi era una guerra tra le famiglie FACCHINERI e RASO-ALBANESE, tutte di Cittanova. Luigi FACCHINERI uccise il 19 marzo uno degli ALBANESE e scoppiò la faida.

Le parole di Pino Scriva sono gravissime, non solo circa l'appartenenza di Filippone alla 'ndrangheta, ma anche circa le presunte coperture di cui avrebbe goduto e, in particolare, quelle dell'allora procuratore di Palmi, Giuseppe Tuccio, oggi alla sbarra nel processo "Gotha", celebrato contro la masso-ndrangheta: "Voglio precisare un particolare su Rocco FILIPPONE: non è la prima volta che parlo di lui, feci il suo nome indicandolo come 'ndranghetista all'allora Procuratore di Palmi, dott. Giuseppe TUCCIO. Quando questi sentì questo nome, mi guardò e mi disse: "Rocco FILIPPONE è amico di un mio amico di Reggio Calabria". Capii al volo che Rocco FILIPPONE poteva dormire sonni tranquilli ed in effetti non solo non è mai stato processato negli anni a seguire per reati associativi legati alla 'ndrangheta ma, non fu scritto neanche il suo nome nel Verbale redatto dal dott. TUCCIO in occasione dell'interrogatorio che io resi al predetto negli anni 1983-1984 presso la Caserma dei Carabinieri di Tropea. Mi chiedete se dopo aver fatto il suo nome rileggendo il verbale ho notato che lo stesso non era riportato, e vi dico che così ricordo. Certo è che Rocco FILIPPONE non venne processato e il Procuratore TUCCIO mi disse chiaramente che era un amico di un amico.

A.D.R: Nel corso della mia latitanza presso il FILIPPONE ho visto con i miei occhi che lo stesso disponeva di armi, in particolare sia armi lunghe che corte.

A.D.R: Il Procuratore TUCCIO non mi disse chi era l'amico del FILIPPONE.

Stragi, l’attacco ai carabinieri e le parole su Berlusconi: così Graviano divenne l’uomo cerniera tra ‘ndrangheta e mafia. La procura di Reggio Calabria accusa il boss di Brancaccio di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria. . Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Cosa nostra proprio in quei primi giorni del 1994, scrive Giuseppe Pipitone il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".  Non solo il capomafia di Brancaccio, non soltanto il “coordinatore” delle “stragi continentali” e il boss che si era “messo il Paese nelle mani” grazie ad accordi mai dimostrati con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Quello che emerge dall’ultima inchiesta della procura di Reggio Calabria è un nuovo profilo di Giuseppe Graviano. Una ruolo interpretato dal padrino di Brancaccio fino ad oggi mai approfondito dalle indagini e dalle rivelazioni dei pentiti: quello di “uomo cerniera” tra Cosa nostra e la ‘ndrangheta. È Graviano, infatti, l’uomo che coinvolge i calabresi nella strategia stragista progettata da Cosa nostra già nell’inverno del 1991 nel caso in cui la Cassazione avesse fatto diventare definitive le condanne del Maxi processo. Cosa che avvenne effettivamente in quella che è probabilmente la data che cambia la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992 è un giovedì e a Roma la Suprema cortestabilisce per la prima volta il carcere a vita per i boss mafiosi. Da quel momento l’Italia viene stravolta da un’escalation a colpi di bombe e tritolo che prima elimina i nemici storici di Cosa nostra, e poi si concentra su obiettivi più simili ad un attacco terroristico: è quello che è stato ribattezzato come l’attacco allo Stato di Cosa nostra. Al quale, però, hanno partecipato anche i calabresi. Graviano, uomo cerniera tra due mafie – “La presente indagine ha dimostrato come, non solo la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della ‘ndrangheta tirrenica — d’intesa con esponenti reggini — diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra, che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell’ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti `ndraghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere alla organizzazione degli attacchi ai carabinieri in terra calabrese”, scrivono gli investigatori coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. La procura di Reggio Calabria, infatti, accusa Graviano (e il calabrese Rocco Santo Filippone) di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta il 18 gennaio del 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, all’altezza dell’uscita di Scilla. Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Graviano proprio in quei primi giorni del 1994.

Spatuzza e l’accordo coi calabresi – L’indagine degli investigatori calabresi, infatti, ha il merito di rileggere e mettere ordine tra un numero indefinito di episodi, racconti di collaboratori di giustizia, rivelazioni. Il risultato è un’unica ricostruzione dei fatti che – in un modo o nell’altro – portarono alla nascita della Seconda Repubblica. Un racconto ben sintetizzato dalle dichiarazioni che Gaspare Spatuzza ha messo a verbale davanti agli inquirenti, confermando l’esistenza di un accordo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta. “La conferma di un complessivo accordo tra Cosa nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi – dice – ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo, Filippo Gravianoebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla ‘ndrangheta e della camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa nostra. Filippo Graviano mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro padri”. Come dire: se il regime di carcere duro per detenuti mafiosi è stato inasprito dopo le stragi la colpa è anche dei calabresi che a quelle stragi hanno partecipato.

Il processo aggiustato e l’anello di congiunzione – Ma non solo. Perché Spatuzza è anche testimone diretto dei buoni rapporti tra piovre calabresi e siciliane. E in un caso probabilmente beneficiario. “Altro episodio che collega Cosa Nostra alla ‘ndrangheta – mette a verbale il pentito – posso riferirlo da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell’anno 1998. Successe che nell’ambito del noto procedimento Golden Market i Graviano (detenuti con lui a Tolmezzo all’epoca ndr) mi dissero che dovevo ricusare il presidente della corte d’Assise di Palermo proprio all’ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione, cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per l’associazione e qualche reato satellite con l’assoluzione per gli omicidi, dall’altra mi dissero che due franche di 500 milioni di lire l’una per il tramite di Agate Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che avrebbero ‘aggiustato‘ un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe Graviano mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano Agate esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, l’anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta”.

Il colpo di grazia e l’attacco ai carabinieri – Al netto dei rapporti tra calabresi e siciliani, però, i racconti del pentito di Brancaccio sono importanti soprattutto per un motivo: collegano tra loro i vari attentati compiuti contro i carabinieri. “Nel corso di questo incontro Graviano Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all’accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in Dell’Utri e Berlusconi, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato e i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell’attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria”, ha raccontato il killer di Brancaccio riferendosi al famoso colloquio del bar Doney, in via Veneto a Roma, il 21 gennaio del 1994. Quello in cui Graviano “era molto felice” e “fa il nome di Berlusconi” del “nostro compaesano Dell’Utri” sottolineando che “grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”. Prima, però, c’è da dare il colpo di grazia, visto che “i calabresi si erano già mossi”.  “Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla ‘ndrangheta d’intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il Graviano con quella frase che ho detto sopra – in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri“, dice l’uomo al quale era stato affidato “il colpo di grazia”: un’autobomba piena di tondini di ferro piazzata vicino all’autobus dei carabinieri che curavano l’ordine pubblico davanti allo Stadio Olimpico di Roma. Un attentato terroristico mafioso” (copyright dello stesso Spatuzza) che non verrà mai eseguito a causa del forfait del telecomando del detonatore. Il colpo di grazia salta anche per un altro motivo: il 27 gennaio vengono arrestati a sorpresa sia Giuseppe che Filippo Graviano. Il giorno prima, invece, Berlusconi aveva ufficializzato la sua discesa in campo con il famoso messaggio agli italiani. Da quel momento in poi, le stragi finiscono. L’egemonia politica e Forza Italia – A questo proposito, i pm annotano: “Ulteriore elemento di rilievo va considerato il riferimento, anche in questo caso confermativo dei passaggi dichiarativi del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, alla circostanza che, poco prima dell’arresto del Graviano, le entità superiori che avevano inteso spingere mafie sul crinale della strategia stragista, avessero, poi deciso di interromperla. Ciò si spiega ove ci si ponga nella prospettiva dell’avvenuto raggiungimento dell’egemonia politica che doveva essere acquista attraverso il sostegno al nuovo partito Forza Italia”. Insomma: l’ipotesi è che gli attentati ai carabinieri siano stati una sorta di ultimo atto di una strategia della tensione da perseguire finché un nuovo ordine non fosse stato raggiunto. E proprio sul ruolo di Forza Italia e dei rapporti tra i Graviano, Dell’Utri e Berlusconi, la procura di Reggio Calabria ha utilizzato per la sua inchiesta anche le varie intercettazioni ambientali captate dai colleghi di Palermo durante l’ora d’aria che il padrino di Brancaccio ha trascorso con il codetenuto Umberto Adinolfi.

Le intercettazioni di Graviano – Gli investigatori reggini accreditano la genuinità delle dichiarazioni di Graviano, le considerano di “assoluto interesse gravemente indiziario” e le inseriscono nella loro ricostruzione, commentandole passo passo. “Berlusconi pigliò le distanze, fece il traditore”, dice Graviano intercettato il 19 gennaio 2016. “Dato questo – si legge nell’ordinanza – che conferma la convergenza, che si determinò nel 1994, fra le mafie e Forza Italia e, quindi, il passaggio che queste fecero dal progetto separatista a quello forzista; di rilievo vanno considerati anche i passaggi della conversazione aventi ad oggetto il mancato rispetto degli accordi fra Berlusconi e le mafie”. Tre giorni dopo, invece, il boss di Brancaccio dice: “Nel 1993 ci furono le stragi e le cose migliorarono tutte di un colpo. Io poi andai a Pianosa e non ti toccavano (si riferisce al fatto che prima — nel 1992/93 – venivano malmenati nelle carceri ndr).  Nel 1994 lo stavano proprio togliendo il 41 bis c’era la Maiolo...poi arrivò Bossi”. Conversazioni che per gli inquirenti confermano “come l’accordo mafie/Forza Italia ruotasse intorno alla eliminazione del 41 bis”. Il passaggio forse più interessante delle intercettazioni di Graviano è, però, un altro. “Nel 1992 Berlusconi voleva già scendere”, dice il boss. Per gli inquirenti “si tratta di passaggio di rilievo in quanto dimostrativo dei rapporti consolidati fra Berlusconi e Graviano (evidentemente tramite Dell’Utri); rilevante anche il fatto che verosimilmente nel periodo immediatamente successivo e, comunque, in collegamento con la volontà di Berlusconi di scendere in campo, questi chiese a Graviano una cortesia; Berlusconi che aveva tutta la popolazione con lui, disse al Graviano ci vorrebbe una bella cosa e questo avveniva quando mi incontravo con lui. Il boss di Brancaccio, poi, dice anche altro. Dice, per esempio che poi loro “non volevano più le stragi”. “L’apporto dichiarativo – annotano i pm reggini – non consente di comprendere appieno se chi non voleva più le stragi (e che, quindi, prima le voleva) fosse Berlusconi”. Un interrogativo non da poco.

Il fantasma dello "stalliere" di Arcore, scrive il 27 luglio 2017 Enrico Bellavia su "La Repubblica". Per anni ci siamo concentrati tutti sul fatto dimenticandone gli sviluppi. A cosa avrebbe portato tutto il lavoro di Paolo Borsellino? Un suo fidato collaboratore che avrebbe conosciuto l’infamia di un’accusa di mafia, il maresciallo, poi tenente Carmelo Canale, ha rivelato che Borsellino avrebbe arrestato il procuratore Pietro Giammanco se solo gliene avessero lasciato il tempo. Rivelò anche che furono alcuni colleghi dell’ufficio a sconsigliare al procuratore capo di presenziare alle esequie di Salvo Lima. Stando a Canale, Paolo Borsellino avrebbe voluto farsi raccontare da Giammanco cosa sapeva dell’omicidio dell’europarlamentare. Ora fermiamoci un attimo e riannodiamo i fili. Borsellino indaga sugli appalti, a due cronisti francesi andati a intervistarlo, due giorni prima della strage di Capaci, parla a sorpresa di Vittorio Mangano, lo sconosciuto stalliere di Arcore. Il suo capo lo osteggia in ogni modo e, dopo la morte di Lima, il procuratore aggiunto confida a un suo uomo di fiducia che vuole arrestare il suo capo. Cosa aveva intravisto Borsellino tracciando un ideale filo che collegava il mandamento mafioso di Porta Nuova, a Palermo nientemeno che ad Arcore? Perché aveva chiesto a Canale di rintracciargli un vecchio rapporto sulla Duomo Connection? Perché nel suo ragionamento con i giornalisti francesi sente la necessità di far riferimento a una vicenda che riguarda molto da vicino due fratelli palermitani che hanno fatto fortuna al Nord, Marcello e Alberto Dell’Utri? L’ultima intervista di Borsellino, sepolta negli archivi della Rai, che ebbe copia di una sintesi trasmessa con ritardo per il pubblico italiano, nasconde proprio quelle domande. E se ne aggiungono altre di domande. Cosa era Palermo nel 1992? Dove erano arrivati i “contadini” di Corleone? Di quali appoggi godevano a Palazzo? Ecco se il tritolo di via D’Amelio non avesse fermato Borsellino, dove sarebbe arrivato il magistrato? Davvero avrebbe arrestato il procuratore capo Pietro Giammanco? Davvero le indagini su mafia e appalti lo avrebbero portato fino ad Arcore? Che significato dare alla inusuale telefonata a casa Borsellino fatta da Giammanco la mattina del 19 luglio del 1992? Che peso dare alle sue parole: Paolo hai la delega per Palermo, spero che questo chiuda la partita? E che peso dare alla risposta di Borsellino: “Questo riapre la partita, anziché chiuderla”. A cosa alludeva Borsellino, a quali conclusioni era giunto? Perché era così impellente fermarlo quel giornoe e a quell’ora e con quei mezzi a 57 giorni dalla strage di Capaci?

'Ndrangheta, Cosa Nostra, servizi segreti e massoneria: dalle spinte autonomiste alla scommessa su Forza Italia, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". L'indagine "Ndrangheta stragista", oltre a ricostruire gli attentati ai carabinieri sul suolo calabrese, ricostruisce le premesse criminali e politiche della stagione stragista, ma anche idee e liste autonomiste e leghiste. Apporto rilevante al costrutto accusatorio, proviene dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tullio Cannella. A suo tempo particolarmente legato a uno dei grandi capi di Cosa Nostra, il corleonese Leoluca Bagarella, cognato e massimo uomo di fiducia di Salvatore Riina, di cui, Cannella, proprio durante il periodo stragista, per un lungo periodo, garantì la latitanza. In primo luogo Cannella sapeva, per averle vissute in prima persona, delle sinergie puramente criminali fra i Graviano e la 'Ndrangheta. In secondo luogo Cannella (all'epoca insospettabile imprenditore) fu uno degli animatori e presentatori, nel 1993/94, di una movimento leghista meridionale (poi divenuto anche lista elettorale) denominata "Sicilia Libera" che era la continuatrice di analogo movimento, che, in Sicilia – fra il 1990 ed 1992 - e nel resto del paese era rappresentato dalla "Lega Meridionale" ispirata, da Licio Gelli, movimento cui, pure, Cosa Nostra aveva aderito in uno con le altre mafie. Del resto la presenza e l'influenza, anche indiretta, sulle dinamiche criminali calabresi del Maestro Venerabile Licio Gelli, veniva evocata da diverse fonti di prova: «la stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare, è quella di cui facevano parte l'Avv. DE STEFANO, Paolo ROMEO e l'on. LIGATO, ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO: tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l'Avv. Paolo ROMEO che l'Avv. Giorgio DE STEFANO[1] facevano parte della P2 di Licio GELLI che spesso si recava a Reggio Calabria: ciò mi è stato detto da Nino Lo GIUDICE e Peppe RELIQUATO». Quanto sopra veniva dichiarato dal collaboratore Consolato Villani, nel contesto delle sue propalazioni su Lodovico, che sarebbe stato «ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO» e che faceva parte della «stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare» insieme «all'Avv. DE STEFANO» e «Paolo ROMEO. Elementi di conferma all'appartenenza dei due legali (Romeo e De Stefano) alla «P2 di Licio GELLI» o, comunque della loro contiguità alla stessa, si traevano dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che, nel verbale d'interrogatorio del 24.01.1995, riferiva sull'esistenza, sin dai «primi mesi dell'anno'79», di «una loggia segreta a Reggio Calabria... a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, 'ndranghetisti». Sempre il collaboratore Barreca, dichiarava che, «loggia segreta» di «Reggio Calabria» era stata costituita inizialmente da «Franco FREDA...nel contesto di quel più ampio progetto nazionale» al quale avevano aderito «le più importanti personalita' cittadine» tra cui anche «Lodovigo Ligato, l'onorevole Paolo ROMEO, l'avvocato Giorgio DE STEFANO... e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P/2...la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale». Continuando il collaboratore chiariva che: «Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava: ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle Istituzioni a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l'aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura. Tornando, ora, alle dinamiche politiche dell'epoca, risultava che Sicilia Libera, operava in modo coordinato con analoghi movimenti leghisti meridionali (Calabria Libera, ecc) che, come il movimento siciliano, erano sostenuti dalle organizzazioni mafiose radicate nei rispettivi territori. Ed il momento più alto di questa collaborazione interleghista benignamente accompagnata da Cosa Nostra e 'Ndrangheta fu la riunione di Lamezia Terme. Tale progetto, peraltro, proprio nei primi mesi del 1994, poco prima delle elezioni politiche che si svolsero quell'anno, venne accantonato dalle mafie, che, oramai (come evidenziato non solo da Gaspare Spatuzza ma da molti altri collaboratori quali lo stesso Tullio Cannella, Angelo Siino, Giovanni Brusca, Maurizio Avola, Salvatore Cucuzza e Giuseppe Ferro) ritenevano di avere trovato altri e più solidi accordi con la nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi (che in Sicilia, per aspetti significativi, da un punto di vista organizzativo e personale aveva elementi comuni con la vecchia "Sicilia Libera"). Dunque, sotto questo aspetto, Cannella si rivelerà, non solo, fonte qualificatissima, ma, anche, depositario di specifiche informazioni dimostrative degli stretti legami che pure esistevano fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta, sul versante del comune sostegno ai medesimi soggetti politici. La strategia stragista postulava, una analisi, una convinzione da parte di chi le aveva promosse ed organizzate. Che cioè le forze politiche che governavano lo Stato non erano più affidabili. E se questa era l'analisi, meglio, il presupposto delle azioni stragiste, sempre partendo dalla ragionevole idea che chi le aveva progettate non si impegnasse, poi, su diverso fronte per raggiungere scopi opposti, deve ritenersi che, sul versante politico, gli stragisti ( o i futuri stragisti) non potessero appoggiare - facendogli conseguire una vittoria elettorale - quegli stessi politici che, in definitiva, stimavano inaffidabili, volevano mettere alle corde ed erano i destinatari ultimi del messaggio stragista. Spatuzza ed altri collaboratori di giustizia spiegheranno che, pochi mesi prima delle elezioni del 1994, i vertici di Cosa Nostra cambiarono, quasi in corsa, cavallo, abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che, in effetti, poi, avrebbe vinto le elezioni politiche) sicchè è a questo nuovo movimento, Forza Italia, che andò il loro appoggio. Ma questo dato non sposta, ma, anzi, conferma, i termini della questione che qui rileva, che cioè la strategia politico/elettorale di Cosa Nostra fu complementare e pienamente coerente a quella stragista che tendeva a mettere con le spalle al muro la vecchia classe politica. Ed è di straordinario interesse ai fini della presente indagine, rilevare che, nello stesso periodo, sul fronte calabrese e, quindi, della 'Ndrangheta (ma non solo) – rompendosi una tradizione ultra quarantennale - vennero adottate scelte politico/elettorali – a partire dall'appoggio alle leghe meridionali – in piena sintonia con quelle di Cosa Nostra e, dunque, complementari e di sostegno alla strategia stragista, che aveva la sua ragion d'essere nell'attacco alla vecchia classe politica. Insomma, se risulta dimostrato che, dopo quarant'anni di sostegno ai vecchi partiti, Cosa Nostra e 'Ndrangheta, compirono, d'improvviso, contemporaneamente ed all'unisono, non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti ma, anche, quella di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti, esclusa una involontaria e potente telepatia fra i capi dei due sodalizi, risulta evidente l'esistenza di una comune strategia di attacco e ribellione alla vecchia classe politica da parte di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, che, sul fronte più strettamente criminale, aveva come sua logica prosecuzione l'attuazione della strategia terroristica. Strategia che, in questo quadro di complessiva concertazione ed allineamento fra le due organizzazioni criminali sulla posizione da prendere nei confronti dello Stato e della vecchia classe politica, ben difficilmente, poteva essere portata avanti in assoluta solitudine da Cosa Nostra. Queste le dichiarazioni rese da Cannella il 17.10.2013: "...omissis.... ADR: circa i miei trascorsi criminali posso dire che non ho mai fatto parte come uomo d'onore di Cosa Nostra. Ero molto legato a Leoluca Bagarella sia per motivi di amicizia che per motivi di interesse nel senso che lui per me, che ero un imprenditore, era un "salvacondotto". Ho ospitato e dato appoggio a Leoluca Bagarella durante la sua latitanza durata fino al luglio del 1995. Io venni arrestato un paio di settimane dopo Bagarella. Iniziai a collaborare quasi subito, poche settimane dopo il mio arresto. La mia attività era quella di imprenditore edile e sviluppavo anche delle importanti iniziative in questo settore, fra le altre ricordo la costruzione di circa trecento villette in zona Buonfornello vicino Cefalù. Proprio nel corso di tale attività costruttiva, che ebbe inizio nel 1985, ebbi modo di entrare in contatto con Filippo, Giuseppe e Benedetto GRAVIANO, anche loro di Brancaccio come me. Avevo fino a quel momento una conoscenza superficiale dei Graviano anche se, devo dire, che furono loro a fare da tramite fra me e Leoluca Bagarella, facendomelo così conoscere nel 1993. Con riferimento alla vicenda dei villini a Cefalù, in sostanza i Graviano mi estorsero circa due miliardi e mezzo delle vecchie lire. I rapporti tra me e i Graviano potevano apparire all'esterno come di reciproca amicizia, in realtà io ero una loro vittima. A sua domanda chiarisco che sono già stato condannato per 416 bis o per concorso esterno, non ricordo, nel processo a Palermo.

ADR: con riferimento alle mie attività in ambito politico riferisco che negli anni 70 militavo nella Democrazia Cristiana ed in tale contesto ebbi a conoscere il defunto Vito Ciancimino. In seguito, tra la fine del 93 e l'inizio del 94, in ogni caso pochi mesi prima delle elezioni politiche del 94 in cui si impose Forza Italia ed anche prima delle comunali che a Palermo si tennero poco tempo prima delle Politiche di cui ho detto sopra, su richiesta di Leoluca Bagarella, fui l'organizzatore del movimento politico Sicilia Libera. Sottolineo che a Palermo fui io ad organizzare questo movimento insieme a Bagarella. Nel periodo precedente alle elezioni di cui sopra, proprio nella qualità di esponente di vertice di Sicilia Libera, partecipai alla riunione di tutte le leghe autonomistiche italiane che si tenne a Lametia Terme. Prima ancora di partecipare a tale riunione, o forse subito dopo, conobbi un esponente di rilievo della Lega Nord che era parlamentare europeo o comunque così mi fù presentato, si tratta di circostanza da verificare. Si trattava di una signora di circa 40/50 anni che conobbi in una sala di un albergo di Palermo in cui parlammo di questioni politiche e di possibili alleanze elettorali...Si dà atto che alle ore 17.15 si allontana il dr. GIANNINI.... A sua domanda preciso che questa leghista non sapeva che ero referente politico di Bagarella e di Cosa Nostra. Chi invece alla fine scoprì che io rappresentavo gli interessi di Cosa Nostra in ambito politico, fù il principe Orsini. Costui in un primo momento, fu da me avvicinato per coinvolgerlo nel nostro movimento politico. Non gli dissi nulla, naturalmente, dei miei collegamento con Cosa Nostra. Senonchè, quando si approssimarono le elezioni politiche del 94, gli proposi di candidarsi per noi nel collegio di Brancaccio-Ciaculli e zone limitrofe. A questo punto gli dovetti spiegare che lì l'elezione poteva essere assicurata con l'appoggio degli "amici" facendo chiaro riferimento Cosa Nostra. Il principe Orsini si impressionò e si fece da parte dicendomi che non era più interessato.

ADR: venendo alla riunione di Lametia Terme cui io stesso partecipai, preciso che la stessa si tenne in un luogo che adesso non ricordo esattamente, forse era una grande sala di un albergo o un centro congressi, non so essere più preciso. Alla stessa riunione parteciparono un po' tutti gli esponenti delle leghe autonomiste. Ricordo ad esempio rappresentanti di "Basilicata Libera", "Calabria Libera", della Lega Nord e di altri movimento analoghi. Della Lega Nord era presente un certo Marchioni che all'epoca si presentò come un componente della segreteria della Lega. All'esito della riunione si decise che bisognava costituire a sud una confederazione di tutte queste leghe meridionali, il cui nome non ricordo, mi si chiede se fosse "Lega Mediterranea" ed io ricordo che era proprio questo il nome. Faccio presente, anche, che a Lametia Terme erano presenti pure esponenti di "Sicilia Libera" catanesi. In particolare per Sicilia Libera catanese era presente tale dr. Platania che come ho già riferito in altri interrogatori era vicino a Cosa Nostra catanese. In particolare Leoluca Bagarella, prima della riunione di Lametia Terme, mi mise in contatto con un emissario catanese di Sicilia Libera, di cui non ricordo il nome. Costui mi disse che a Catania il punto di riferimento del movimento era certo dr. Platania, persona vicina ad un mafioso di nome Ferlito.

ADR: mi viene chiesto se a seguito di questi fatti o contestualmente agli stessi, ebbi rapporti con il defunto Vito Ciancimino. Rispondo che effettivamente ebbi ad incontrare, ma in seguito, il Ciancimino. Ciò avvenne nel corso della mia detenzione presso il carcere di Rebibbia tra luglio e Agosto del 95. Io già collaboravo con la giustizia. Ricordo che un giorno, quando le porte di legno delle celle erano aperte, rimanendo chiuse quelle di ferro, nella cella proprio di fronte alla mia vidi Vito Ciancimino. Ricordo che esclamai:" zu Vito!". Lui mi pregò di non chiamarlo così dicendomi di chiamarlo sig. Ciancimino. Mi chiedete se, come risulta da miei pregressi interrogatori ho parlato della questione delle leghe meridionali con il Ciancimino e vi dico che adesso lo ricordo. Confermo che Ciancimino allorquando io gli parlai di Sicilia Libera si mostrò al corrente di questo progetto politico. Il Ciancimino mi disse che questa Sicilia Libera gli appariva una cosa di poco conto, mentre il progetto autonomista più serio era quello ispirato da Bernardo Provenzano, quello della Lega Meridionale nella quale dovevano partecipare tutti i "nostri amici" meridionali tra cui gli amici della 'ndrangheta calabrese che erano molto influenti. Mi si rappresenta che in precedenti interrogatori ho specificato cha a detta di Ciancimino la 'ndrangheta calabrese era forte anche in virtù dei suoi rapporti con la massoneria ed i servizi segreti ed io confermo pienamente questa circostanza che ora ricordo e che all'epoca riferii immediatamente alla AG procedente avendo la memoria più fresca. Devo precisare, peraltro, che il fatto che pure dietro Sicilia Libera e comunque dietro questi progetti autonomisti ci fosse Bernardo Provenzano, io già lo avevo intuito quando con Bagarella parlavamo di organizzare sul territorio, a Palermo, Sicilia Libera. Bagarella, infatti, capitava che mi dicesse, quando sorgeva un problema relativo alla organizzazione del movimento, che doveva, prima, "parlare con un amico" e poi poteva decidere. Presumo che questo amico dovesse essere proprio Provenzano anche perché all'epoca già era stato arrestato Totò Riina e l'unico elemento di Cosa Nostra che potesse dare consigli o disposizioni a Bagarella era Provenzano.

ADR: circa i rappresentanti della "Lega Calabrese", ora mi viene in mente un nome: Di Donno o qualcosa del genere. Mi chiedete se potrebbe essere tale DONNICI e io rispondo che potrebbe essere questo il nome. Anzi penso proprio di si, mi ricordo che assai probabilmente questo DI DONNO o meglio DONNICI, aveva una carica all'interno della Regione. Non sono in grado di dire, però, se questo soggetto avesse contatti con la criminalità organizzata calabrese, certo io non mi sono presentato a lui come referente di Cosa Nostra.

DOMANDA: lei ha conosciuto il dr. Gioacchino PENNINO?

RISPOSTA: lo conoscevo fin da quando ero ragazzo. Era persona legata a Cosa Nostra ed alla massoneria come lui stesso mi disse. Era storicamente della famiglia di Brancaccio fin dai tempi di Giuseppe DI MAGGIO. In seguito naturalmente passò con i GRAVIANO. A sua domanda le dico che conoscevo anche Sebastiano LOMBARDO detto "Iano", legato ai Graviano e persona che si muoveva a suo tempo in ambienti politici democristiani quando la DC.......... Si dà atto che arriva una telefonata e si sospende il verbale alle ore 17.50....... Si riprende alle ore 17.55........ "governava" a Palermo. .......

ADR: il progetto di Sicilia Libera, che era un pò la continuazione dei precedenti progetti autonomisti delle leghe meridionali, era coltivato da Cosa Nostra e voluto da Leoluca BAGARELLA poiché già da tempo mi diceva che non si fidava più dei vecchi politici, diceva che non li controllavamo più, per cui dovevamo avere dei nostri uomini che si candidavano direttamente alle diverse cariche rappresentative fossero esse in comuni, in regioni o nel parlamento nazionale. Mi chiedete se fra questa strategia politica autonomistica, se non addirittura separatista (perché era questo il punto di arrivo, se le cose fossero andate bene) e quella delle stragi del 92-93 vi fosse un collegamento. Mi si rappresenta che in pregressi interrogatori ho riferito di tale collegamento e che in particolare la costituzione dei movimenti leghisti al sud era legata anche alla strategia stragista nel senso che entrambe servivano a creare le condizioni politiche per mettere in ginocchio lo stato unitario ed arrivare in tempi rapidi ad una sostanziale autonomia del sud rispetto al nord e che l'inaffidabilità dei politici dell'epoca era anche testimoniata dal fatto che Martelli, una volta vicino a Cosa Nostra, era diventato politico nelle mani di Giovanni Falcone. Dichiaro in proposito che non sono in grado di precisare le esatte fonti da cui poteva dedursi questo progetto complessivo, probabilmente, ho messo insieme una serie di indicazioni che adesso, essendo passati venti anni, non sono in grado di ricordare. Certamente confermo di averle riferite, ma adesso non ricordo bene. Con riferimento, quindi, a queste vicende relative alle stragi, a FALCONE e a MARTELLI, preciso che si trattava di informazioni che ho riferito all'AG di Palermo sulla base di ciò che ascoltavo in ambienti mafiosi senza che ne possa in alcun modo confermare la veridicità, in particolare il riferimento a Martelli che feci a quel tempo derivava da semplici sentito dire. Dunque si tratta di fatti tutti da verificare Tutte le altre circostanze di cui ho detto sopra, che mi hanno riferito Bagarella o Ciancimino, o che ho vissuto personalmente le confermo e posso attestarne la verità con serenità.

ADR: agli inizi del 1994, o alla fine del 93, ricordo che era il periodo durante il quale stavo organizzando Sicilia Libera anche in vista della raccolta delle firme ( mi sembra per le elezioni comunali) per presentare le liste (non ricordo esattamente quando iniziai tale raccolta), Leoluca BAGARELLA mi disse che seppure dovevo continuare in questa attività politica ed organizzativa, tuttavia, nell'immediato, Cosa Nostra riteneva fosse cosa più proficua appoggiare, alle elezioni politiche, un nuovo partito che sarebbe nato a livello nazionale, più esattamente mi disse che in questo nuovo partito sarebbero stati candidati degli "amici" (ovvio che si riferisse ad amici di lui stesso e di Cosa Nostra) che l'organizzazione avrebbe appoggiato al momento delle elezioni. Mi sembra, che, in quel momento, non mi disse il nome di questa nuova formazione politica, più probabilmente, in seguito, mi disse che si trattava di Forza Italia. Mi spiegò che il progetto di Sicilia Libera doveva considerarsi un progetto a lunga scadenza e che l'importante era aver costituito il partito e presentarlo alle elezioni. In effetti diceva che poteva sempre tornare utile avere un movimento politico su cui contare al cento per cento per evitare di trovarsi un domani con politici inaffidabili come era successo in quel periodo.

ADR: prendo atto che nel corso di pregresso verbale ho riferito di un incontro avvenuto con Filippo Graviano nel corso del quale mi fece capire, rivolgendosi a me come organizzatore di Sicilia Libera, che potevo lasciar perdere perchè c'era lui che ci pensava ad avere rapporti ad alto livello con i politici e che, grazie a tali rapporti si sarebbe risolto il problema dei pentiti. Confermo le precedenti dichiarazioni rese quando avevo la memoria più fresca. Preciso che effettivamente incontravo Filippo Graviano, anche se in quel periodo era latitante, perché i Graviano continuavano a chiedermi i soldi. Ora che ricordo bene, però, mi sono venute in mente le circostanze di cui sopra in cui Graviano mi riferì dei suoi rapporti politici e dell'inutilità dei miei sforzi organizzativi per Sicilia Libera. L'incontro non avvenne perché dovevo dargli dei soldi, ma perchè Bagarella mi disse che per il tramite di Graviano potevo ottenere uno sconto all' hotel San Paolo Palace di via Messina Marina di Palermo dove avevo svolto un convegno di Sicilia Libera. Incontrai il Graviano a Palermo, non ricordo esattamente dove, per chiedergli questo intervento ed avere, così, lo sconto e lui con tono di consiglio mi disse. "ma chi te lo fa fare......" e via di seguito, facendo poi il discorso relativo ai suoi rapporti politici ad alto livello.

Si dà atto che viene mostrato sul pc, per consentirne una migliore visione, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: non riconosco alcuna delle persone effigiate. L'album viene allegato al presente verbale.

ADR: oltre a quanto mi riferì Ciancimino in modo piuttosto generico, null'altro posso precisare sui rapporti tra 'ndrangheta e massoneria.

ADR: nulla so dirle su eventuali rapporti tra tali movimenti autonomisti e leghisti meridionali e Stefano DELLE CHIAIE, anzi, non ho mai sentito parlare di Stefano DELLE CHIAIE...omissis".

Significativa, conferma alle propalazioni del Cannella - conferma che, fra l'altro, aveva, anch'essa il pregio di evidenziare, in modo convergente, le sinergie e la comunione d'interessi che, all'epoca, anche sul piano politico, erano riscontrabili fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta – proveniva dal collaboratore di Giustizia Gioacchino Pennino, alto borghese palermitano, medico, che era stato, ad un tempo, legato alla massoneria e uomo d'onore della famiglia di Brancaccio. Famiglia, di cui, come noto, erano capi indiscussi Filippo e Giuseppe Graviano. Pennino iniziava a collaborare con la Giustizia in data 20.8.1994 Ritenuto pienamente attendibile e rilevante, specie nel descrivere i rapporti fra Cosa Nostra e i poteri esterni che alla stessa si collegavano, veniva sottoposto a programma di protezione in data 19.10.1994. Viene ascoltato dalla Dda di Reggio Calabria il 25.2.2014:

"...ADR: Ho personalmente conosciuto Rocco e Domenico "Mimmo" Musolino. Si tratta di una conoscenza che è maturata nel corso degli anni 80'. Devo rappresentare che sia io che mio fratello buonanima Aldo – deceduto pochi giorni or sono – eravamo appassionati di tiro al volo. Per tale ragione frequentavamo, fra gli altri, anche lo "stand" di Gambarie, frazione di S.Stefano d'Aspromonte. Questo stand – cioè il campo di tiro – era gestito da Mimmo Musolino, fratello più giovane di Rocco. Tramite Mimmo conoscemmo Rocco. Rocco Musolino era persona che era circondata da una vera e propria venerazione, un rispetto enorme, non solo da parte del fratello e dei familiari (era sicuramente persona che ricopriva il ruolo di vero e proprio capofamiglia) ma anche da parte di tutti coloro che frequentavano Gambarie. Da questi comportamenti capivo, comprendevo, che Rocco Musolino era un uomo d'onore della 'ndrangheta calabrese. Ho poi avuto modo di frequentare Rocco Musolino in quanto, ad esempio, insieme al predetto, al fratello, al mio amico defunto Antonino Schifaudo, ex funzionario regionale a Palermo nonché massone, a mio fratello ed altri facemmo anche, sul finire degli anni 80' un viaggio negli Usa, andando a NY e Las Vegas. Si trattava di un viaggio di piacere.

ADR: Non sono a conoscenza - anche se non posso escluderlo - del fatto che il Musolino Rocco sia massone. Ritengo che sia possibile che certo Pizza, che mi sembra che in qualche modo collaborò con la AG, essendo originario di S.Stefano d'Aspromonete possa riferire tali particolari sul Musolino Rocco. Tuttavia, come ebbi già a riferire a suo tempo, mi risulta, per averlo appreso da tale Martorano (si tratta di un imprenditore calabrese), che il Musolino Rocco unitamente all'On Misasi, uomo politico corpulento calabrese, il dott Donnici, pure lui politico calabrese, ed altri ancora, faceva parte di un comitato d'affari che era pienamente attivo in Calabria e che ricomprendeva, come mi pare volesse fare intendere il Martorano, 'ndrangheta, massoneria e politica.

ADR: Martorano o Marturano lo conobbi in quanto frequentatore del tiro al volo di Gambarie. In effetti il Martorano intendeva chiedermi una raccomandazione presso un mio conoscente, tale Alfredo Li Vecchi, professore universitario di estrazione DC. Costui era componente del CdA delle Ferrovie dello Stato. In pratica Martorano voleva ottenere degli appalti dalle FFSS. Io per la verità non me ne interessai in quanto sapevo che il Li Vecchi era uomo molto serio ed incorruttibile.

ADR: Posso dire che il rispetto di cui godeva Rocco Musolino era, per le modalità con cui si manifestava, in tutto simile a quello di cui godeva mio zio Gioacchino Pennino, uomo d'onore della famiglia di Brancaccio.

ADR: Confermo che mio zio Gioacchino Pennino mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60', ospite dei Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una "cosa sola". Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme Massoni, Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d'affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare "quel progetto di tuo zio" (il comitato d'affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l'invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo.

ADR: Giuseppe Di Maggio era il rappresentante della famiglia di Brancaccio fra i 70' e gli 80'. Dopo la morte di Bontate venne destituito da tale ruolo e in seguito ucciso. Egli sicuramente conosceva bene il Provenzano e per questo, così come dissi a suo tempo nel corso di un precedente interrogatorio, fu in grado di farmi delle confidenze sulla vicinanza del Provenzano alla destra eversiva ed ai servizi segreti nonché alla 'ndrangheta calabrese. Devo dirvi, tuttavia che era voce diffusa il fatto che il Provenzano giocasse su più tavoli, non solo quello di Cosa Nostra. In ogni caso in proposito non posso che confermare quanto disse il Di Maggio e null'altro posso aggiungere.

ADR: Conoscevo bene Tullio Cannella. Era, in origine, un democristiano come me. Se non sbaglio era consigliere circoscrizionale a Brancaccio. Unitamente ai Graviano ospitò presso un villaggio turistico nei pressi di Cefalù alcuni esponenti della 'ndrangheta. Questo a dimostrazione del rapporto molto stretto fra le due organizzazioni. Tullio Cannella era animatore del progetto politico, voluto da Leoluca Bagarella, di tipo separatista. In particolare era dirigente a Palermo di "Sicilia Libera". Cannella manteneva anche la latitanza di Bagarella. La circostanza che dietro a Bagarella, in questo progetto politico, vi fosse Provenzano era una mia mera supposizione che, verosimilmente, peraltro, alla luce, dei fatti non mi sembra neppure esatta. Confermo, invece, che proprio Vito Ciancimino inizialmente sostenne il progetto separatista/autonomista. Ciò mi venne confidato da Giuseppe Lisotta, parente di Vito Ciancimino, oltre che mio collega, con il quale ero in buoni rapporti. All'epoca se non sbaglio si faceva riferimento alla Lega Meridionale.

ADR: Sebastiano Lombardo, detto Iano, era uomo d'onore della famiglia di Brancaccio che effettivamente mi propose di andare a Lametia Terme a questo incontro fra leghe autonomiste. Egli in tale occasione si fece latore di una richiesta dei Graviano che volevano coinvolgermi evidentemente in questo progetto. Ovvio che la stessa circostanza che sia stato proprio Iano Lombardo a parlarmi di questo incontro di Lametia Terme mi fece comprendere che si trattava di una iniziativa a cui era fortemente interessata la criminalità organizzata non solo siciliana. Confermo che anche il già indicato Donnici doveva partecipare a tale incontro di Lametia Terme così come riferitomi dal Lombardo. A vostra domanda vi dico che questo Donnici non l'ho mai conosciuto.

ADR: In effetti il De Bernardo, che era stato al vertice del Grande Oriente d'Italia, a seguito delle sue dimissioni – cui seguì la creazione della Grande Loggia Regolare d'Italia – come appresi da Lisotta, Giuseppe Ciaccio (uomo d'onore e massone) e Schifaudo, disse che non poteva capeggiare una organizzazione al cui interno vi erano soggetti che organizzavano - con le organizzazioni criminali - attentati contro lo Stato. Cosa che aveva compreso svolgendo il suo ruolo. Ciò avvenne nel 1993. Sempre i predetti e forse anche altri, mi dissero che il De Bernardo disse tali circostanze anche al vertice della Grande Loggia d'Inghilterra a cui era affiliato il Grande Oriente d'Italia. All'epoca era il Duca di Kent il vertice inglese della Grande Loggia d'Inghilterra. Proprio per questo la Grande Loggia d'Inghilterra non riconobbe più il Grande Oriente d'Italia...omissis".

Vicende politiche, che si legano in maniera oscura con il mondo della massoneria. E così tanto Pennino quanto Cannella, riferivano dell'incontro strategico di Lamezia Terme, non a caso, svoltosi, per l'appunto, proprio in Calabria che, già all'epoca, era una sorta di laboratorio politico/criminal/massonico. Convergenze nelle affermazioni dei collaboratori di giustizia, ma ance in quanto racconta, il 6 marzo 2014, l'ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Giuliano Di Bernardo:

"......ADR: Entrato in massoneria nel 1961, nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal GOI (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d'Italia nel 2002 in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d'Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il GOI disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel GOI, persona che per me era il più alto rappresentante del GOI, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d'Italia ( una sorta di CdA del GOI in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro del GOI ) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l'inizio dell'indagine del dott. Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla 'ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetto situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avute dall'Ambasciatore in Italia e dai servizi di sicurezza inglese. Io feci espresso riferimento alla commistione fra criminalità organizzate e GOI. Faccio presente che in precedenza, intorno al 1990, poco dopo la mia nomina, nel corso di una mia visita in Sicilia seppi da Massimo Maggiore, palermitano presidente del più alto organo della Giustizia massonica (la Corte Centrale) che il più alto esponente della circoscrizione del GOI di Mazara del Vallo era mafioso, nonché, numerosissimi esponenti del GOI siciliani, e specie nel trapanese, erano mafiosi. Dunque, capii che davvero, come diceva Cordova, il GOI era una "palude". Fu il duca di Kent che mi suggerì di uscire dal GOI e creare un nuovo Ordine. Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata e potente di quella siciliana.

ADR: Con riguardo al periodo 1990/93, non ho elementi diretti per collegare attacco allo stato (e quindi stagione stragista) criminalità organizzata, separatismo, massoneria. Però era un collegamento che in via deduttiva facevo (e che continuo a fare). Ciò rappresentavo anche all'esterno, con le dovute cautele naturalmente, come mia argomentazione. Sicuramente al Duca di Kent feci questi ragionamenti.

ADR: Seppi dai miei referenti calabresi e non solo, di cui non ricordo i nomi, ma che potrei riconoscere, che all'interno del GOI all'inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l'origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del GOI. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del GOI era al centro di un traffico di armi con paesi extra-europei. Si dà atto che il Di Bernardo riferisce di due specifici episodi in materia, direttamente da lui constatati.

ADR: Alla riunione nella quale venne riferito della presenza della 'ndrangheta nelle logge calabresi erano presenti oltre ai soggetti sopra indicati Eraldo Ghinoi, ligure e il Gran Segretario, di origine abruzzese, di cui non ricordo il nome.

ADR: Non conosco quali massoni, tali, Lisotta, Giuseppe Ciaccio e Schifaudo. Non escludo che fossero massoni ma non li ricordo questi nomi. Sapevo che il noto Gioacchino Pennino era massone. Mi dicevano, non ricordo chi me lo disse, che era persona pericolosa in quanto legato alla criminalità organizzata. In seguito seppi che collaborò con la giustizia. Mandalari me lo volevano presentare ma io non volli conoscerlo...omissis".

Di Bernardo conferma quindi l'esistenza di intrecci criminalità organizzata e Massoneria, ma, con specifico riguardo alla criminalità calabrese, rappresentava una situazione di quegli anni che sarebbe più esatto definire come di vera e propria colonizzazione della Massoneria da parte della 'Ndrangheta, colonizzazione, evidentemente, funzionale ad interessi, affari e progetti che non potevano essere sviluppati, con le sue forze, dal solo mondo criminale (che, altrimenti, avrebbe evitato di perdere tempo ed energie nei rituali massonici) ma che, invece, necessitavano di più ampie sinergie. E certamente, fra questi progetti, per così dire, di più ampio respiro, che necessitavano di una più vasta alleanza fra diverse forze che intendevano capovolgere l'attuale ordinamento costituzionale, vi era quello separatista/autonomista, sul quale convergevano gli interessi non solo di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, ma anche di soggetti legati alla Massoneria del GOI. Le dichiarazioni del Di Bernardo, del Cannella e del Pennino, laddove evidenziavano a cavallo fra 1990 ed il 1993, sinergie 'Ndrangheta-Cosa Nostra-Massoneria-Destra eversiva, sul fronte separatista si saldano perfettamente con le propalazioni rese, in epoca non sospetta e partendo da punti di osservazione del tutto disomogenei, da due affidabili collaboratori di Giustizia calabresi, Filippo Barreca e Cosimo Virgiglio.

Partiamo da Filippo Barreca. Si tratta di uno dei principali collaboratori di Giustizia reggini degli anni 90', le cui dichiarazioni sono state utilizzate in numerosi, "storici", procedimenti contro la 'ndrangheta, fra questi il noto procedimento Olimpia. Egli era stato, per anni, il capo della locale di 'ndrangheta di Pellaro, santista e massone. Si tratta, dunque, di un soggetto perfettamente inserito in quel crocevia fra 'ndrangheta, servizi deviati, e massoneria e, come vedremo, destra eversiva, nel quale la vicenda relativa al sostegno fornito dalla 'ndrangheta per garantire la latitanza di Franco Freda era assolutamente emblematica. Voluta dalla destra eversiva e gestita dalla 'ndrangheta e mediata dai esponenti delle istituzioni deviate, la vicenda Freda è fra quelle che più di altre consentono di comprendere la peculiarità del retroterra criminale calabrese e la sua particolare e specifica attitudine ad avere interlocuzione con ambienti politici ed istituzionali. Ecco, le dichiarazioni del Barreca rese alla DDA di Reggio Calabria, utili a comprendere i rapporti fra Cosa Nostra Siciliana e 'Ndrangheta, fra entità criminali e politiche ed il cd "progetto separatista". Il 3.2.1993: "...Quando, nei verbali precedenti, ho parlato di collegamenti di alcune famiglie della 'ndrangheta reggina con Cosa Nostra siciliana, non ho inteso fare riferimento ad un rapporto di vera e propria affiliazione. In realtà io intendevo concettualizzare che le famiglie della 'ndrangheta da me indicate erano i referenti di Cosa Nostra siciliana in un rapporto di reciprocità. Chiarisco meglio il mio pensiero. Cosa Nostra siciliana è (N.d.PM: più esattamente sarebbe da dire: ha) una sorta di vertice, o Cupola, che aggrega le famiglie mafiose più prestigiose e rappresentative; pertanto, non ogni mafioso o famiglia mafiosa siciliana appartiene a Cosa Nostra bensì quel vertice che è esponenziale delle famiglie più potenti e prestigiose. Nella provincia reggina, ove opera la 'ndrangheta, fino ad alcuni anni orsono non si era riprodotta una situazione analoga, dal momento che le singole cosche operavano in proprio e, pur mantenendo fra loro collegamenti ed alleanze, non presentavano una struttura di tipo piramidale al cui vertice esistesse una cupola. Tale situazione si è ribaltata a decorrere dall'inizio del '91, come ho illustrato nei precedenti verbali, e cioè da quando, anche per dirimere la guerra di mafia in corso tra le cosche reggine, si è costituita in tutta la provincia una vera e propria cupola di modello analogo a Cosa Nostra siciliana. Tale cupola esercita poteri di intervento su tutte le organizzazioni della 'ndrangheta; controlla tutte le attività illecite ed, in generale, interferisce con l'autorevolezza di un vero e proprio potere gerarchico sopra ordinato. La costituzione, anche presso la 'ndrangheta calabrese, di una struttura di tipo piramidale modellata su quella siciliana, ha reso certamente più agevole e più pericoloso il rapporto fra le due organizzazioni, dal momento che adesso Cosa Nostra siciliana ha un solo interlocutore, di ampiezza provinciale, cui rivolgersi, laddove in passato il rapporto intercorreva invece soltanto con talune delle famiglie della 'ndrangheta che avevano assunto la qualità di interlocutori privilegiati. Il riferimento, da me fatto poc'anzi, ad una maggiore pericolosità che scaturisce dalla coesistenza di due strutture ampie, articolate e similari fra loro, deriva anche dalla circostanza che l'anello di congiunzione fra le due strutture è rappresentato (quanto meno lo è stato) da un personaggio politico che ha fatto parte della struttura Gladio e che è stato eletto nell'ultima legislatura al Parlamento con l'appoggio anche delle cosche mafiose del reggino; personaggio che ha peraltro acquisito indubbi meriti, agli occhi delle organizzazioni 'ndranghetiste e mafiose, per la sua attività di mediazione finalizzata a risolvere lo stato di belligeranza fra le cosche reggine. .......... "

Il 5 maggio 1993: "...Confermo quanto dichiarato nel verbale del 03.02. u.s. di cui mi viene data lettura. E' vero che ho parlato di un personaggio che fa od ha fatto da collegamento tra Cosa Nostra siciliana e la 'ndrangheta reggina. Sono ora disposto a fare il nome di questa persona e posso dire che si tratta dell'avv. ROMEO Paolo. A mio avviso costui rappresenta l'anello di congiunzione tra la struttura mafiosa e la politica. Volendo fare un paragone potrei dire che è il "LIMA" reggino. Il suo ruolo è sicuramente superiore a quello dell'avv. DE STEFANO Giorgio ed è stato determinante nelle trattative per il raggiungimento della pace. Non so dire con chi l'avv. ROMEO tenga i collegamenti in Sicilia ma credo che si tratti di personaggi politici che alloro volta sono collegati con Cosa Nostra. Sapevo da varie fonti che l'avv. ROMEO è massone ed apparteneva alla struttura GLADIO. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti ma non so dire in che modo. Egli però ebbe a dire ad un mio parente che aveva a disposizione i servizi. So anche che era interessato ad un progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del paese ma anche su questo non so fornire ulteriori particolari. Tale progetto era già di mia conoscenza e mi fu confermato da ROSMINI Diego in carcere nel periodo in cui eravamo insieme nel carcere di Palmi. Anche ROSMINI riferiva di tale progetto all'avv. ROMEO...omissis...Tornando all'avv. ROMEO Paolo il suo rapporto con i DE STEFANO è molto remoto e risale alla rivolta di Reggio. Probabilmente nasce dal fatto che ROMEO e DE STEFANO (intendo dire Paolo e l'avv. Giorgio) erano collegati con i servizi segreti ...... Mi risulta inoltre che l'avv. ROMEO fosse legato ai LATELLA di Ravagnese in favore dei quali spese il suo interessamento in occasione dei processi in cui erano imputati. I LATELLA in cambio favorirono elettoralmente l'avv. ROMEO procurandogli un gran numero di voti nella loro zona così come fecero i DE STEFANO-TEGANO ad Archi. Ciò spiega anche i risultati elettorali conseguiti dal ROMEO anche nella Piana di Gioia Tauro. Mi riservo di fornire ulteriori indicazioni su tutti gli argomenti sinora trattati in un prossimo interrogatorio.

A.D.R.: Mi risulta che a Reggio Calabria esiste più di una loggia massonica coperta di cui fanno parte professionisti reggini a tutti i livelli e di cui mi riservo di fare i nomi di persone che ne potrebbero fare parte. Ne potrebbero far parte anche rappresentanti di alto livello delle istituzioni e della politica...omissis Posso anche affermare con certezza, anche questa assoluta, che i sequestri di persona avevano una componente "eversiva e politica". Essi infatti erano finalizzati da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica da altre vicende criminali più importanti e dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia di questo disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi calabresi (PAPALIA) ed i gruppi siciliani...omissis...

A.D.R.: Quando mi riferisco ai PAPALIA intendo dire dei tre fratelli Domenico, Rocco, Antonio; e dico proprio Domenico quello condannato all'ergastolo per omicidio il quale pure ha sempre partecipato in una posizione di supremazia ai traffici della sua famiglia, anche quando si trovava in semi-liberta', come so benissimo...omissis....

Importante era la posizione dei PAPALIA che provvedevano a convogliare i soldi provento dei sequestri di persona per utilizzarli per gli acquisti delle sostanze stupefacenti. E' appena il caso di ricordare come la esecuzione dei sequestri di persona rispondesse ad una unica centrale, come per altri già affermato......"

Il 18.5.1993: "...Tornando alla vicenda di FREDA ed, in particolare, alla sua fuga da Catanzaro, voglio precisare che per accompagnare FREDA a Reggio Calabria furono il Dr. ZAMBONI di Modena, medico a Roma ed un Generale, direttore dell'Artiglieria del Museo di Gerusalemme in Roma. Questo generale era parente dei fratelli Dante ed Eugenio SACCA'. Non so' presso chi venne portato FREDA inizialmente. So soltanto che venne accompagnato a casa mia da MARTINO Paolo, dall'avv. ROMEO Paolo e dall'avv. DE STEFANO Giorgio. Mentre era a casa mia scrisse una lettera indirizzata a DE STEFANO Paolo, che all'epoca si trovava in carcere a Reggio Calabria. Io avrei dovuto consegnare la lettera a MARTINO Paolo perchè la facesse recapitare a DE STEFANO Paolo ma io non lo feci. Nella lettera FREDA ringraziava DE STEFANO Paolo per il trattamento ricevuto a Reggio Calabria. La lettera è stata allegata agli atti relativi all'arresto di ROMEO Paolo. Sono stato io stesso a consegnare la lettera al dr. CANALE della Questura di Reggio Calabria e servì per la comparizione della calligrafia di FREDA. FREDA rimase a casa mia per circa 4 mesi ed io protestavo perchè ero sorvegliato speciale e non volevo correre rischi, fu così che venne trasferito in una casa di VADALA' Carmelo di San Lorenzo; la casa in questione si trovava a Reggio, vicino alla caserma dell'ex 208. Dopo poco tempo FREDA venne accompagnato dallo stesso VADALA' a Ventimiglia, presso altri calabresi che avrebbero dovuto farlo espatriare in Francia. Fu lo stesso FREDA a dirmi che era stato accompagnato a Reggio dal generale e dal Dr. ZAMBONI, credo che il suo primo rifugio a Reggio fu la casa di VERNARECI Pippo, amico di ROMEO Paolo, e DE STEFANO Giorgio e MARTINO Paolo. Fu io stesso a ricevere da FREDA Franco, che a sua volta li aveva ricevuti da ROMEO Paolo e MARTINO Paolo, marchi tedeschi per un valore di circa 40.000.000 di lire italiane; io cambiai i marchi attraverso il direttore della Banca di Credito e Sovvenzioni di Pellaro, Dr. AMODEO Paolo. So' che AMODEO per ragioni tecniche cambiò i marchi a Reggio presso la Direzione dell'Istituto. Più volte FREDA mi disse che se non fosse riuscito ad uscire dal processo di Piazza Fontana avrebbe fatto saltare l'Italia intendo dire che avrebbe fatto rivelazioni sconvolgenti sul ruolo di apparati dello Stato che non so meglio specificare. Nessun alto venne a trovare FREDA in quel periodo, ma so' che era in contatto telefonico con un avvocato di Modena o di Bologna di cui non ricordo il nome...omissis...DE STEFANO Paolo era anche legato a CONCUTELLI e a quanto io ho saputo fu' lo stesso DE STEFANO a fare da delatore per il suo arresto. Ricordo adesso un altro episodio molto significativo. Nel '74 mi trovavo a Crotone insieme a DE STEFANO Giovanni che dopo poco tempo sarebbe stato ucciso al Roof Garden. In quella città' Giovanni mi presentò alcuni esponenti della massoneria tra cui un commerciante di pneumatici di cui non ricordo il nome; si trattava di persone e che mostravano di conoscere bene DE STEFANO Giovanni e probabilmente era massone anche lui. Durante quel viaggio DE STEFANO Giovanni mi disse che da lì a qualche giorno sarebbe dovuta scoppiare una bomba alla Standa o all'Upim di Reggio Calabria, cosa che avvenne veramente. La bomba doveva servire a creare una situazione di terrore, Giovanni mi disse che la bomba sarebbe stata collocata da loro su incarico di personaggi di primissimo piano...Tornando al discorso della massoneria di cui ho parlato nei precedenti interrogatori posso dire che tradizionalmente ci sono stati ottimi rapporti tra 'ndrangheta e massoneria. I rapporti erano sostanzialmente di reciproca solidarietà. Sulla Jonica tali rapporti erano tenuti da personaggi quali Don STILO e NIRTA Antonio, sulla tirrenica da BELLOCCO Giuseppe, mentre a Reggio tali rapporti erano tenuti dall'avv. DE STEFANO Giorgio e dell'avv. ROMEO. Tutte le persone da me indicate appartengono contemporaneamente sia alla 'ndrangheta anche alla massoneria. Sono sicuro che esistono logge coperte alle quali aderiscono questi personaggi..."

Ecco le dichiarazioni rese da Barreca ai magistrati di Palermo in data 12.9.1996:"...omissis...

P.M.S.: Senta signor Barreca il problema è farle alcune domande in relazione a precisazioni ed approfondimento di alcune dichiarazioni da lei già rese in data 5 Maggio 1993 alla Procura di Reggio Calabria, in particolare modo volevamo chiederle una...notizie più precise circa questo avvocato Paolo Romeo che lei in quel verbale indica come anello di congiunzione tra struttura mafiosa e politica, e la politica e inoltre come soggetto legato all'omicidio e a personaggi collegati con "Cosa Nostra". Cos'ha da riferire di preciso?

B: Dunque, dell'avvocato Paolo Romeo ho parlato ampiamente in dei verbali, svariate volte, alla procura Distrettuale di Reggio Calabria, in particolare, come ebbi già a dire, è un personaggio che io definirei il Lima reggino, il Lima reggino lo definisco perchè è il personaggio chiave della struttura della 'ndrangheta....omissis... è un uomo che passò dal mondo MSI alla Social Democrazia e prima di questo proprio per un intoppo che è avvenuto dietro una mia..., dietro la cattura di Franco Freda, la cattura di Franco Freda avviene, mi pare, se non ricordo male, nel maggio, giugno 1979, lui portò Franco Freda, lui portò a casa mia Franco Freda, che lo tenni circa...

P.M.S: Chi?

B: Paolo Romeo, l'avvocato Paolo Romeo, mi portò assieme al gruppo De Stefaniano, quindi per conto di Paolo De Stefano e di Paolo Martino, mi portarono a casa mia il famoso Franco Freda che nel maggio del 79 è stato catturato in Costa Rica. E questo tipo di... diciamo per la cattura di Freda venne incriminato il Romeo che subito dopo...

P.M.S: Per favoreggiamento...omissis...

P.M.S: Si. Senta, lei sempre in questo interrogatorio del 5 maggio, ha detto in particolare di sapere, di avere saputo da Araniti che l'avvocato Romeo è massone ed è appartenente alla struttura di Gladio, nonchè collegato con i Servizi Segreti, da chi è che ha appreso queste notizie?

B: Guardi io avevo un buon rapporto con Araniti Santo che tra l'altro è stato quello che mi... infatti c'è uno dei miei figli, Vincenzo, che eravamo imputati nello stesso procedimento, in quel famoso processo "Droga 2", dopo di che, lui essendo a casa mia... di cui... con le forze di polizia, siccome io avevo un nascondiglio, in buona sostanza, salvai l'Araniti e mi feci arrestare io...omissis.., quindi questa riconoscenza ha, come dire, permesso all'Araniti di avere una più ampia fiducia nei mei confronti, perchè in buona sostanza, avrei potuto tranquillamente rischiare anch'io e mettermi nello stesso nascondiglio, ma una volta che le forze di polizia avevano arrestato me, il problema in casa mia si era risolto....omissis...

B: Di conseguenza questo episodio, quando poi nel 1986 io sono uscito dalla...diciamo, uscito da questo processo, la Cassazione mi ha scarcerato per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare, abbiamo intrapreso nuovamente i rapporti con l'Araniti anche se lui era, diciamo, da tanto tempo latitante, dall'83. Nel 1988/87/88 e per questo errore mi mandò a chiamare perchè voleva, ha voluto, che gli dessi una mano per l'uccisione dell'Onorevole Ligato....omissis... a un certo punto mi ha, diciamo il discorso scaturì da quello che era l'andamento della situazione reggina, cioè sia reggina che nazionale, in particolare lo sunto l'abbiamo preso nel momento in cui si parlò di quello che poteva essere e che era lo scalpore che aveva suscitato l'uccisione dell'Onorevole Ligato e in particolare lì, nella zona locale della..., ma dove io ero uno dei personaggi, sicuramente, più importanti o il personaggio più importante, a un certo punto dice... dice; "La guerra, in questo frangente l'hanno persa" dice "anche perchè ora non so come si mette paolo Romeo. Il discorso scaturì su Paolo Romeo perchè secondo quello che mi dice Araniti, il Romeo era il personaggio che assieme a Ligato e assieme agli altri era il più vicino al gruppo dei Rosmini. Parlammo di un progetto che loro avevano, cioè il cugino di Araniti, Arnone Pietro, onorevole della... del partito Repubblicano passò, doveva passare, con la uccisione doveva passare alla, al mondo della Democrazia Cristiana, cioè doveva essere, una volta ucciso Ligato, il personaggio più rappresentativo dell'intera provincia di Reggio Calabria. Per quanto riguarda il progetto di separatismo che io ho parlato dei miei...

P.M.S: In quello stesso verbale lei ha fatto riferimento ad un interessamento dell'avvocato Romeo per questo...

B: Ad un interessamento di questo, l'avvocato Romeo, io so che nell'ultimo periodo, da quello che mi diceva sempre Reni, aveva preso contatti con personaggi del mondo politico, certamente io non so chi sono i personaggi.

P.M.S: Chi aveva preso contatto?

B: Il Romeo.

P.M.S: Il Romeo.

B: Il Romeo aveva preso contatti per formare delle Leghe ecc..

P.M.S: Che anno siamo più o meno?

B: ma, guardi, già nel 1990/91, questi sono i periodi, questo è il periodo.

P.M.S.: ... sempre da Araniti giusto?

B: Quindi il progetto, in poche parole, consisteva nel fatto di fare la separazione dell'Italia in tre regioni, quella del Nord, quella del Sud, e quella del Centro, questo era in sintesi...

P.M.S: E rispetto a questo progetto, cioè era un'iniziativa dell'avvocato Romeo a titolo individuale o c'erano interessi della ‘ndrangheta o di altri...?

B: Certamente, certamente l'interessamento era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento a più alto, a più ampio, diciamo, spazio. Perchè dico questo? Perchè successivamente a questi fatti anche in carcere, io siccome poi fui arrestato nel ... il 4 di gennaio del 1991, anche in carcere con il gruppo dei Rosmini, non avevamo le idee chiare sulla... su questo tipo di progetto, però il ...il più grande me ne parlò.

P.M.S: Che si chiama come?

B: Si chiama, uno dei più grandi, il più grande dei Rosmini mi pare, ora in questo momento non me lo ricordo.

P.M.S: Va be, va bene.

B: Com'è che si chiama, comunque mi pare, bè non....

P.M.S: Va bè, non ha importanza.

B: Non me lo ricordo, in questo momento non me lo ricordo.

P.M.S: Il più grande cosa le disse?

B. Parlava di un discorso dell'avvocato Romeo, della potenza che poteva avere per far tacere, dice: "Non vi preoccupate che qui l'avvocato Romeo ci mette in condizioni a tutti di potere uscire, quindi di potere essere nelle condizioni che i processi si debbono aggiustare, quindi..."

P.M.S: Ma questo in relazione alle iniziative dell'avvocato Romeo? o in relazione al progetto, cioè ci entrava o non...?

B: No, assolutamente, questo era un discorso che era la potenza dell'avvocato Romeo.

P.M.S: Ho capito.

B: Certamente su un progetto separatista, io non è che so di più, so che c'era questo interessamento da parte dell'avvocato Romeo a, diciamo, a separare l'Italia, so che l'interessamento c'era, che c'era interessata anche la massoneria su questo progetto, ma di più...

P.M.S: Che c'era interessata anche la massoneria da chi l'ha appreso?

B: Ma, sempre da Araniti, cioè parlavamo, cioè nel momento in cui abbiamo parlato, dice: "...qui c'è un discorso molto importante, cioè c'è un discorso che sono interessate alte personalità e c'è un discorso che c'è la massoneria dietro questo..." Anche per rafforzare ancora di più questo progetto c'era la massoneria.

P.M.S: E' Araniti che è un esponente di spicco della 'ndrangheta.

B: E' uno dei personaggi credo, più importanti all'interno anche della politica, perchè il cugino, non va dimenticato, che era Onorevole e Consigliere Regionale, svariate volte.

P.M.S: Dico, era Araniti, era lui personalmente interessato, quindi la 'ndrangheta era personalmente interessata a questo progetto separatista tramite l'avvocato...

B: Che era anche, era, era naturalmente, l'avvocato com'era rappresentava la ‘ndrangheta, voglio dire, voglio dire che questo l'avvocato Romeo era un personaggio che veniva portato dalla ‘ndrangheta, non è che era un personaggio che veniva così, quindi il progetto che riguardava l'avvocato Romeo, riguardava anche la 'ndrangheta.

P.M.S: Benissimo. Senta lei poi successivamente, quando poi è stato arrestato, ha saputo più nulla di questo progetto separatista, se è andato avanti, non è andato avanti, se venne abbandonato?

B: Io per quello che so, era un progetto che non poteva fermarsi, ma che doveva necessariamente andare avanti. Cioè ci furono le aspettative.

P.M.S: Perchè, ci furono momenti di contrasto all'interno della 'ndrangheta'.

B: Certo. Poi c'è stato un momento in cui si composero questi contrasti interni alla ‘ndrangheta, grazie anche all'interessamento dei Siciliani, debbo dire, perchè....

P.M.S: Questo avvenne mentre lei è detenuto?

B: Questo mentre io sono detenuto sì. Dico…

P.M.S: Quindi questo, questo favorì rapporti più stretti tra la 'ndrangheta e i Siciliani e "Cosa Nostra", lei sa se in qualche modo si è riflettuto su…sul progetto separatista? Dico... se ha avuto notizie lo accenni.

B: Io...? Notizie per quello che abbiamo parlato ripeto con il....

P.M.S:" Ma so che aveva dei rapporti anche con il mondo politico, anche Siciliano il...l'avvocato Romeo. "Con chi in particolare del mondo Siciliano?

B: All'interno so della Democrazia Cristiana era il...diciamo il rapporto che aveva era con il mondo della Democrazia Cristiana.

P.M.S: Siciliana?

B: Siciliana.

P.M.S: Lei sa con chi in particolare?

B: In particolare non lo so. Comunque della Democrazia Cristiana.

P.M.S: Sa se c'erano alcune zone in particolare della Sicilia, nella quale, nelle quali, l'avvocato Romeo, aveva rapporti più stretti? Alcune provincie, alcune zone, zona di Catania, zona di Palermo, zona di Messina.

B: Guardi sicuramente Catania come, che io ebbi a dichiarare anche nei verbali, se lei può vedere parlare proprio di un... di una loggia che è stata istituita nel momento in cui c'era il gruppo, nel momento in cui c'era diciamo il gruppo a cui faceva parte sia l'avvocato Romeo, sia altri personaggi, una loggia che veniva istituita, è stata istituita a Catania una loggia, una loggia super segreta a Catania. Questo già nel 1979…omissis...

P.M.S: senta in questo stesso verbale lei fà riferimento per quanto riguarda...le avevo fatto precedente la domanda della appartenenza alla struttura Gladio dell'avvocato Romeo, questo lo ha appreso sempre da Araniti?

B: Ma guardi, questo è uno dei fattori più diciamo, ne parlai a Vario titolo con svariati personaggi, tra questi anche Araniti. Poi io so che, anche, con altri parlammo, che in questo momento io non ricordo, anche con altri personaggi abbiamo parlato proprio in riferimento all'avvocato Romeo, in particolare proprio con uno dei miei cugini, mi parlò di un discorso di appartenenza della... diciamo che aveva nelle mani i Servizi di Sicurezza, cioè aveva rapporti di grande intimità con i Servizi e poteva manovrare come voleva all'interno, anche del... condizionale.

P.M.S: con chi in particolare, le venne detto?

B: ma guardi, in particolare non mi venne detto chi, ma so che errano interessati sia i due Servizi, che... sia il SISMI che il SISDE.

P.M.S: Il nome di Gladio glielo fece espressamente?

B: Si, il nome di Gladio si, espressamente sì.

P.M.S: E lei capì che cosa era la nostra... ma lei lo sapeva già...

B: No, era una struttura che serviva anche per...

P.M.S: Questa era una sua considerazione, o l'appresa pure da...

B: No, no era per tenere a bada nel caso in cui ci fosse un, una entrata al Governo di Comunisti, questo quello che…

P.M.S: Questo glielo disse Venuta?

B: Si.

P.M.S: E lei non lo sapeva per i fatti suoi prima.

B: Ma, nel mondo politico non è che mi interessava tanto, ma comunque ecco.

P.M.S: Senta comunque qualche accenno leggendo appunto il verbale del 5 maggio 93, lei dichiarò qualche cenno Rosmini glielo fece del progetto separatista, cioè questo progetto...

B: Con Rosmini abbiamo anche parlato del progetto separatista proprio per quel discorso che io avevo fatto precedentemente con Araniti, cioè che io innescai il discorso e lo stesso Rosmini mi disse: "Compare c'è un progetto separatista che deve essere necessariamente portato avanti, per fare in modo che dobbiamo avere più comando, più per essere qui da noi insomma ecco". Avere più controllo come si suol dire per avere più…le cose più da vicino, cioè....

P.M.S: insomma è chiaro.

B: Ma questo era il senso della...cioè che avevo il controllo della... dell'intera provincia e il controllo soprattutto del mondo politico.

P.M.S: E le spiegarono com'è che questo progetto separatista, doveva arrivare a questo obiettivo così ambizioso? Attraverso quale itinerario, perchè non è che sia facile mettere su un soggetto politico, arrivare a conquistare posizioni di potere. Quale doveva essere l'itinerario, se lei lo sa, se non lo sa, non lo sa?

B: Non lo so.

P.M.S: Non lo sa, va bene. Senta lei in questo stesso verbale ha fatto riferimento alla...rileggiamo: "Io posso affermare che... persone comprendono... eversiva e politica". Sempre nel verbale del 5 maggio 93, disse: "Finalizzato da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica dalle altre vicende criminali più importanti, dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia del disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi Calabresi... e i gruppi Siciliani. Mi rendo perfettamente conto che un disegno di questo genere non può essere esclusivamente mafioso, non so dare indicazioni sulla matrice politica": Ora la domanda è se questa considerazione, cioè, anzi queste due considerazioni, primo la componente eversiva-politica di queste persone e secondo che fosse in qualche modo anch'essa in relazione al progetto separatista, è una notizia che lei ha appreso da qualcuno o...

B: E' una ...sono delle notizie che io attraverso un mio bagaglio di conoscenze feci, io personalmente.

P.M.I: Cioè, proviamo a spiegarlo, cioè come arriva, cioè è una conclusione sua?

B: E' una conclusione che non ha assolutamente, voglio dire, è una delle mie conclusioni.

P.M.S: Che arrivano sulla base di quali dati?

B: Sulla base dei dati che... all'interno, diciamo...

P.M.S: Interrompiamo un attimo alle ore 17:19 per sostituire il nastro. Alle ore 17:27 si riprende la registrazione. Quindi la domanda che le avevo rivolto, signor Barreca, era di precisare, sulla base di quali elementi, di quali dati, cioè di conoscenze svariate, di fatto lei perveniva, lei poi è venuto alla conclusione che vi fossero... dei sequestri di persona dell'organizzazione "'ndrangheta", definita "'ndrangheta", che aveva una componente eversiva e politica in qualche modo, che sia rafforzare il progetto separatista di cui diceva prima.

B: Cioè questa è stata una mia deduzione, sulla base di quelle che erano le mie conoscenze, e le mie conoscenze anche in un mondo dei sequestri di persona che ho dedotto che potevano essere ricollegati a quel progetto, ma è solo una mia, ripeto, esclusiva deduzione, che non altro.

P.M.S: ma dico, all'interno della 'ndrangheta che vi fosse, a parte il collegamento del progetto separatista, una componente, diciamo, eversiva nei sequestri di persona. Va...

B: Veda, io su questo, va, l'ho appreso all'interno della 'ndrangheta, questo sì, ora non so con chi ne abbiamo parlato, ma....

P.M.S: Sequestri di dodici persone, commessi in quale periodo?

B: ma, nei periodi 198... dall'85 in poi... sequestro Casella, ha avuto uno dei periodi più culminanti del.... perchè? Perchè per quello che io ebbi già a dichiarare nel... nei svariati verbali il sequestro Casella è stato fatto dai... dal gruppo che facevano capo ai Papalia, ai Sergi, e poi concluso in Calabria con la mediazione dell'avvocato Romeo, omonimo dell'avvocato Paolo Romeo, e nella ... Servizi di Sicurezza.

P.M.I: E da chi' Se lei ne è a conoscenza.

B: Ma guardi, personalmente da quello che mi è stato riferito, si interessò il SISMI alla liberazione della... del ragazzo di Papalia, di quel ragazzo che, ha liberato poi, successivamente per l'avvocato Rotolo che era stato preso dai Sergi...

P.M.I: Ma lei sa in virtù di quali rapporti?

B: Ma, io so che avevano dei buoni rapporti, istauratisi prima con il…diciamo con la... con il vecchio Nirta, inteso vecchio non di età, chiamato "Due nasi", il quale era in buoni rapporti con... da quello che si diceva in carcere, che poi è stato, diciamo, riconosciuto come uno dei delatori del Generale Delfino e quindi diciamo è stato messo da parte ed è stato pure esautorato, veniva chiamato Dottore Nirta "Due nasi". E a un certo punto questo "due nasi" è stato messo da parte anche in carcere nonostante fosse il personaggio, diciamo, che era, nonostante fosse il nipote, diciamo, del vecchio Dottor Nirta, personaggio di spicco, importante nel mondo della 'ndrangheta, e perchè secondo quello che mi diceva Giovanni Vottari nel carcere di Messina, il "Due nasi" era in contato con un Generale dei carabinieri, il Generale Delfino. il quale, diciamo, faceva la doppia situazione, da una parte chiudeva gli occhi nei suoi confronti, dall'altra gli dava una mano, al "Due nasi" all'intimidazioni dei sequestrati, per quello che io so il discorso poi è ricaduto con il gruppo dei Papalia che era molto, poi da quello che si sa, era ...azienda per le...

P.M.I: Senta, lei in questo verbale ha parlato di incontri che avvenivano a Milano fra i gruppi calabresi, il gruppo Papalia e i gruppi Siciliani, ma chi si riferisce come gruppi Siciliani che si incontravano e avevano contatti a Milano con i Papalia? Cioè lo sa innanzitutto?

B: Si, da quello che mi diceva Peppe Zacco, e per quello che erano naturalmente le mie conoscenze, Peppe Zacco, che ci incontrammo nel carcere di Pisa nel 93, 92 scusi.

P.M.I: Che è originario, di dov'è?

B: Che è originario di Palermo, di, di è stato, era il compare di Paolo De Stefano, era personaggio che è stato imputato nel famoso processo "Pizza connection", con molto... che era molto vicino al mondo imprenditoriale Milanese, più precisamente al gruppo dei Socialisti, da quello che lui diceva, e che tutti gli appalti che venivamo effettuati nella zona di Milano venivano controllati da "Cosa Nostra" e dalla "'ndrangheta".

P.M.I: E quindi lei stava dicendo, Peppe Zacco fece riferimento a contatti con i Calabresi, "Cosa Nostra", ma come punti di riferimento Siciliano a Milano, che avevano questi contatti, questi rapporti intensi con i calabresi, le fece riferimenti specifici a parte, cosa le disse?

B: Io per quello che parlammo con Peppe Zacco, io mi trovavo pure nel carcere di Messina, sempre di conoscere un personaggio con cui ebbi anche un rapporto che poi l'ho già dichiarato in altri, nei precedenti verbali, con il... con il... con uno dei personaggi Siciliani vicino al... molto vicino a "Cosa Nostra" ed era... in questo momento non mi viene il nome comunque...

P.M.I: Va bè, se non le viene il nome, poi se lo ricorda me lo dirà.

B: Si in questo momento non...

P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?

B: Si, in questo momento non...

P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?

B: Si, so che fossero, che erano interessati anche il gruppo dei Papalia a questo progetto...omissis"

Il Barreca, infine, escusso dalla Dda di Reggio Calabria, in data 20.2.2014, riferiva: "...omissis....

ADR: i rapporti fra i De Stefano e Concutelli, di cui ho riferito nei verbali resi a suo tempo, si originano dai rapporti strettissimi fra i De Stefano e i servizi segreti che, non a caso avevano originato anche i rapporti fra Freda e De Stefano – Romeo. Io Concutelli non l'ho mai conosciuto ma dei rapporti fra quest'ultimo e i De Stefano e della loro genesi ho saputo direttamente da Paolo De Stefano...omissis....

ADR: Era Paolo Romeo il deputato (eletto con i nostri voti, gladiatore e che rappresentava l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta) di cui riferisco nel verbale del 3.2.1993 alla DDA di Reggio Calabria.

ADR: Confermo che a Milano – grazie ai Papalia, mi riferisco a Rocco e Domenico che ho personalmente conosciuto – si rinsaldarono i rapporti fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Ciò avvenne sulla base di comuni interessi nel settore del traffico di sostanze stupefacenti. Su questa base di rapporti oramai saldi e pienamente operativi si innestò il cd progetto "separatista" voluto e sponsorizzato da Cosa Nostra e dalla 'Ndrangheta. I collegamenti fra cosa nostra e 'ndrangheta si intrecciavano in modo coordinato a Milano grazie ai Papalia e a Reggio Calabria grazie a Paolo Romeo. Insomma Paolo Romeo e i Papalia agivano, in questo ambito, come un'unica persona, in esecuzione di un unico disegno. Tutte queste sono circostanze che appresi dai De Stefano. Al momento non ricordo da chi di loro esattamente...omissis

ADR: Fu Freda che per primo mi parlò della Massoneria mi diede anche copia dei rituali di affiliazione passaggio di grado. Esibisco tali rituali. L'Ufficio da atto che vengono esibite della pagine su cui sono riportate le "Istruzioni per il grado di Maestro" con varie formule rituali...omissis"

Dichiarazioni, rese nell'arco di un ventennio, che mostrano ancora una volta la joint venture tra 'ndrangheta e Cosa Nostra, ma anche i collegamenti istituzionali e paraistituzionali, soprattutto con il mondo della massoneria e dei servizi segreti. E, ancora, la piena adesione della 'ndrangheta al progetto separatista dell'inizio anni 90', che sappiamo, condivideva, con Cosa Nostra siciliana e, in particolare, con i Graviano direttamente incaricati di tirare le fila di tali movimenti in ambito palermitano; la finalità ultima del progetto leghista che consisteva nel creare delle macro-regioni, dove, in quella meridionale, le organizzazioni di tipo mafioso potevano meglio controllare il quadro politico di governo e godere, quindi, di una sorta di immunità e salvacondotto permanenti. Il quadro dei rapporti fra 'Ndrangheta e massoneria, veniva, infine, da ultimo compiutamente descritto dal collaboratore di Giustizia Cosimo Virgiglio. uomo di fiducia dei Molè per conto dei quali movimentava imponenti capitali che venivano investiti nel settore della contraffazione e delle importazioni tramite il Porto di Gioia Tauro, professionista colto, già massone di provata fede ( appartenente alla Loggia "Garibaldini d'Italia") ecco un estratto delle sue dichiarazioni: Virgiglio Cosimo 24.3.2015 ".....omissis...Si dà atto che a questo punto il Virgiglio riferisce dei rapporti fra la Loggia Garibaldini d'Italia, la loggia coperta di Ugolini Giacomo Maria denominata Grande Oriente di San Marino e i Molè/Piromalli. Riferisce del ruolo avuto da lui stesso e dal Cedro Carmelo ed i suoi fratelli. Riferisce che lui è uscito da tale contesto quando si stava concretizzando l'alleanza fra Garibaldini/Molè e Grande Oriente di San Marino...omissis....Riferisce del progetto di pilotare la scarcerazione di Mommo Molè per motivi di salute attraverso Cesare Previti ed il dott. Ceraudo/Ceravolo medico del Dap, Boccardelli segretario di Ugolini condannato per 416 bis c.p. in Appello nell'operazione Maestro e Balestrieri ex piduista presidente del Rotary di New York uomo di punta della loggia di Ugolini...(N.d PM: Giorgio Hugo Balestrieri, già Ufficiale della Marina Militare, già iscritto alla Loggia Propaganda 2, come risulta dagli atti della Commissione Parlamentare d'Inchiesta presieduta dall'On.le Tina Anselmi, è attualmente imputato innanzi al Tribunale di Palmi, per rispondere del delitto di concorso esterno nella cosca Molè, reato per il quale è stato raggiunto da misura cautelare, confermata in sede di gravame. Non rileva, ovviamente in questa sede l'esito del procedimento. Ciò che qui conta è l'esistenza di rapporti documentati fra il piduista e la 'ndrangheta, al di là del fatto che questi rapporti possano, o meno, essere inquadrati nella fattispecie contestata di concorso esterno). Riferisce del ruolo di grande influenza in Calabria, in quanto legatissimo a Licio Gelli, di tale ...omissis...di Cosenza, persona inserita nel contesto della loggia di Ugolini che può a sua volta considerarsi una sorta di continuazione della loggia Propaganda 2 in quanto connotata dai medesimi obiettivi di potere e soprattutto dalla struttura "coperta" e "segreta", senza contare i legami personali fra Licio Gelli, Ugolini e Balestrieri ed i medesimi legami che la loggia di Ugolini aveva, al pari della P2, con gli ambienti e la finanza vaticana ( non a caso Ugolini era ambasciatore di S. Marino presso il Vaticano, anzi decano degli ambasciatori di tutto il mondo presso il Vaticano). La 'ndrangheta utilizzava tale struttura per ripulire il denaro garantendo in cambio la gestione a favore di tale struttura segreta dei flussi elettorali a favore dei soggetti politici".

Ancora Virgiglio il 29.4.2015. "...ADR: Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni 80'. Io frequentavo l'università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nei GOI. Il tempio di Messina che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questo ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 92/93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di una indagine sulla massoneria. In quello stesso periodo Aguglia mi fece entrare nell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, che è un sodalizio organico al Vaticano. A capo di tale Ordine vi era Mons. Montezemolo. Zio di secondo grado del più noto Luca Cordero. La cerimonia di iniziazione si celebra in chiesa. All'interno dell'Ordine vi era Matacena Elio.

Virgiglio riferisce ancora che la struttura massonica calabrese era molto ampia ed era composta da una parte visibile ed una invisibile; che nel 2004/05 Franco Labate, medico di Reggio Calabria, si era rivolto a Peppe Piromalli di creare un punto di contatto con Licio Gelli. Dalle dichiarazioni del Virgiglio, che, come si è visto, oltre ad avere un comprovato rapporto organico con la cosca Molè-Piromalli, era documentatamente, un massone di lungo corso (produceva anche la sua lettera di dimissioni dalla Loggia Garibaldini d'Italia del 2006 ) dunque, oltre ad essere lui stesso la prova vivente della commistione fra le due militanze, quella massonica e quella mafiosa, era la persona che più di qualsiasi altra, era in grado di riferire dei rapporti fra le due entità, oltre confermare (sul solco di Di Bernardo, Lauro, Barreca ed altri ancora) la commistione fra le due entità, specificava come Gelli ed i suoi uomini avessero un ruolo attivo non solo nei contesti massonici che operavano in Calabria, ma anche nei rapporti con le cosche e in particolare quelle tirreniche dei Molè/Piromalli, di cui l'indagato Filippone sarebbe l'elemento di collegamento.

Fiammetta Borsellino, massoneria e verità negata sulla strage di Via D’Amelio. La “massoneria mafiosa di Stato” nelle parole dei pentiti, scrive il 27 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Amati lettori di questo umile e umido blog, continuo ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con una nuova analisi. Anche quella odierna (così come quella di ieri e quella di domani) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio, da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo,altri…». Quel riferimento alla massoneria non era casuale e ieri abbiamo visto come – nell’indagine “Sistemi criminali” della Procura di Palermo poi archiviata il 21 marzo 2001 – il ruolo della massoneria capitanata da Licio Gelli fosse stato ritenuto fondamentale nel tentativo di stravolgere l’ordine democratico del Paese, far nascere una nuova forma di Stato (anche attraverso la secessione). Un ruolo deviato che si cementava con la strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra e (per altri e più raffinati versi) della ‘ndrangheta. E vediamo, a questo punto che cosa dichiarò alla Commissione Parlamentare antimafia il 4 dicembre 1992 il pentito di San Cataldo (Caltanissetta, una provincia culla delle più raffinate strategie massonico deviate) Leonardo Messina. Il pentito parlava della riunione dei vertici di Cosa Nostra, svoltasi alla fine del 1991 nelle campagne di Enna, in cui si sarebbe parlato del progetto eversivo. «Molti degli uomini d’onore – dirà testualmente Messina – cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra». Secondo Messina, il progetto, per finanziare il quale sarebbe stata stanziata la somma di mille miliardi (di vecchie lire), fu concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere e coinvolgeva non solo uomini della criminalità organizzata e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.

Non so se è sufficientemente chiaro: delle Istituzioni e tra queste, ovviamente anche la magistratura. O si deve pensare che la magistratura (la quota marcia, ovviamente) fosse o sia ancora oggi immune? Messina va avanti come un treno e allo stesso Scarpinato, il 3 giugno 1996, dirà ancora: «Il progetto era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ’70 un’unica realtà criminale integrata». E questo lo dice nel ’96 e non si riferisce certo solo al passato. Vogliamo andare avanti con altre sponde che portano sempre alla stessa direzione? Bene (si fa per dire). Dalle dichiarazioni del pentito calabrese Pasquale Nucera è emersa una specifica conferma delle dichiarazioni dell’altro pentito calabrese Filippo Barreca, ma anche di alcuni altri collaboratori di giustizia palermitani (in particolare Gioacchino Pennino): al più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘ndrangheta appartengono anche elementi della massoneria deviata e – ha aggiunto Nucera – anche dei “servizi deviati”. Una commistione, che – sempre secondo le dichiarazioni di Nucera – sarebbe conseguenza di una iniziativa di Licio Gelli che, per controllare i vertici della ‘ndrangheta, aveva fatto in modo che ogni componente della “santa”, ovvero la struttura di vertice dell’organizzazione criminale, venisse inserito automaticamente nella massoneria deviata. Ma vorrei chiudere la puntata odierna con un finale che racchiude il senso di quanto al momento scritto e anticipa quanto scriverò domani: sapete Messina quando e con chi fece cenno, per la prima volta, della riunione di Enna, seppur senza riferire del progetto eversivo? Risposta: il 30 giugno 1992 al procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino. Poteva quel sistema massonico deviato – infiltrato ovunque, a partire dalle Istituzioni statali, magistratura, uffici giudiziari e investigativi inclusi – lasciare in vita Paolo Borsellino? La risposta la conoscete, come la conosce purtroppo Fiammetta e tutta la famiglia Borsellino. E la risposta sta tutta nella “massoneria mafiosa di Stato” – come potremmo definirla a posteriori – che all’epoca imperversava e continuò a farlo anche negli anni successivi. Ma non crediate che le cose, oggi, siano migliorate.

Quei magistrati calabresi iscritti alla massoneria. Tre dossier che scottano per un unico filone investigativo. Al centro i rapporti inconfessabili tra 'ndrangheta, politica e istituzioni all'ombra delle logge, scrive Paolo Pollichieni il 09 gennaio 2016 su ilVelino/AGV NEWS. Un filone investigativo che scotta quello che si ritrovano in mano diversi magistrati calabresi: porta a rivisitare e riattualizzare i rapporti tra l'élite della 'ndrangheta e pezzi importanti del mondo massonico. Non bastasse, ecco ricomparire anche il nodo dell'appartenenza alla massoneria, in maniera diretta o velata ("all'orecchio"), di magistrati con ruoli particolarmente delicati dentro le strutture giudiziarie della Calabria e non solo della Calabria. Singoli filoni che fin qui non hanno avuto una lettura unitaria, tracce e piste seguite dalle inchieste condotte da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda reggina, da Giuseppe Lombardo, della stessa Dda reggina, e da Pierpaolo Bruni, che invece lavora alla Dda di Catanzaro. Va ribadito che affiliarsi alla massoneria non è reato, in quanto la massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l'articolo 18 («Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»). Diverso è dimostrare che alcune logge massoniche, magari sfuggite al controllo della fratellanza universale, fanno da punto di ritrovo per rapporti e sinergie inconfessabili tra mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni. A questo lavorano le singole inchieste e su questo stanno tornando a rendere dichiarazioni importanti faccendieri che hanno rappresentato la cerniera tra nomine, affari, appalti e riciclaggio riconducibili al mondo criminale. Ma quando ci si imbatte nel nome di magistrati affiliati alla massoneria il discorso cambia, perché se pure non si può qualificare l'affiliazione massonica come reato, c'è tuttavia quanto statuito dal Consiglio superiore della magistratura che ha affermato con chiarezza «l'incompatibilità fra affiliazione massonica e l'esercizio delle funzioni di magistrato», perché le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezione a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell'immagine e del prestigio del magistrato e dell'intero ordine giudiziario». A dare manforte al Csm c'è anche una sentenza della Suprema corte: «Il giudice massone può essere ricusato dall'imputato, in quanto l'appartenenza a logge preclude "di per sé l'imparzialità" del magistrato» (la Cassazione, 5a sezione penale numero 1563 / 98), in altre parole, perché – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi a interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia». Come regolarsi, dunque, se nell'acquisizione di documenti o nella raccolta di deposizioni sotto giuramento, arriva sul tavolo del magistrato inquirente il nome di un collega indicato come affiliato alla massoneria? Se lo stanno chiedendo in queste ore all'interno delle Procure calabresi più esposte sul fonte delle indagini sui rapporti apicali tra 'ndrangheta, politica e affari. I dossier che scottano sono sostanzialmente tre. Il primo trae origine dalle denunce incrociate tra il gran maestro Gustavo Raffi e uno dei massimi esponenti storici della massoneria calabrese, il gran maestro Amerigo Minnicelli. Quest'ultimo, in sostanza, ha accusato pubblicamente il Grande Oriente di aver consentito una dilatazione delle iscrizioni in Calabria al fine di condizionare l'esito dell'elezione del nuovo gran maestro Stefano Bisi, giornalista e vicedirettore de Il Corriere di Siena, scelto da Raffi e vittorioso grazie al fatto che attorno a lui si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione, la Calabria, che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Un contenzioso interno? Non più, dopo le feroci critiche del fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l'esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere. E l'operazione "Decollo money" che ha portato in carcere nel 2011 l'imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. Illuminanti, invece, sono le parole di Pantaleone Mancuso (alias "Vetrinetta"), mammasantissima del crimine calabrese, deceduto il 3 ottobre scorso, che ha teorizzato la confluenza della 'ndrangheta nella massoneria. Una preziosa intercettazione ambientale, infatti, ci consegna il boss mentre spiega che la 'ndrangheta «non esiste più», è roba da paese, la 'ndrangheta vera si è trasferita all'interno della massoneria, anzi è «sotto la massoneria». Un poco quanto va spiegando, e siamo al secondo filone investigativo, in queste ore ai magistrati reggini un altro esponente di spicco della massoneria che ha ripreso a collaborare con la magistratura. Spiega perché, negli anni, il potere in Calabria si è concentrato sull'asse Reggio-Gioia Tauro-Vibo e nel farlo chiama in causa anche magistrati che avrebbero agito a protezione del "sistema" ogni qualvolta le inchieste si sono avvicinate pericolosamente a tale cabina di comando criminale.  Il terzo nasce dal materiale sequestrato dal pm Pierpaolo Bruni in casa e nei locali che ospitano la loggia massonica fondata da Paolo Coraci, originario di Messina e residente a Roma, ma con amicizie salde nel Vibonese e nel Reggino, tra queste quelle con alcuni magistrati calabresi. Dall'archivio del gran maestro Coraci sono saltate fuori anche le schede di valutazione e i curricula di adepti da segnalare per l'ingresso nei consigli d'amministrazione di 15 enti pubblici. Non solo, anche tre Questure sarebbero state elevate al livello di dirigenza generale attraverso un intreccio di interessi tra la loggia, un sacerdote ed esponenti politici. L'intervento della loggia massonica avrebbe riguardato due Questure del sud Italia e una in una regione del Centro. Secondo la Dda di Catanzaro, la loggia massonica fondata da Coraci aveva interesse a creare un intricato sistema di potere che portava anche alla nomina di consiglieri d'amministrazione in enti pubblici. C'è quanto basta a mettere in fibrillazione più di un "palazzo", più di una "loggia" e più di una "cosca", specialmente alla vigilia di una serie di scelte importanti che proprio il Consiglio superiore della magistratura è chiamato a compiere per via del turnover ai vertici di uffici giudiziari delicatissimi, quali ad esempio le procure di Catanzaro e Cosenza.

Strage via D’Amelio, Rita Borsellino: “25 anni di giustizia negata”, scrive Sky tg24 il 19 luglio 2017. La sorella del magistrato ucciso dalla mafia parla ai microfoni di Sky TG24 durante la cerimonia di commemorazione a Palermo: “In tanti sanno la verità. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”. Il fratello Salvatore: “Vogliamo sapere dov’è l’agenda di Paolo". “Parliamo di giustizia che non c’è, di 25 anni di giustizia negata”. Rita Borsellino, sorella di Paolo, ha partecipato alla cerimonia di commemorazione per i 25 anni dalla strage di via D’Amelio, in cui il magistrato perse la vita insieme a 5 agenti della sua scorta. Ai microfoni di Sky TG24 dice: “Vorremmo sapere perché è negata questa giustizia? Chi non vuole che questa verità venga fuori? La verità c’è e la sanno in tanti”. Rita Borsellino ha citato Fiammetta, figlia del magistrato ucciso dalla mafia, che dopo anni di silenzio ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui ha parlato di “25 anni di schifezze e menzogne”. In una recente commemorazione, ricorda Rita Borsellino, “Fiammetta, alla battuta di Grasso che disse "ci dobbiamo aspettare un altro pentito" commentò "un pentito lo vogliamo nelle istituzioni" e aveva ragione. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”.

Alla cerimonia era presente anche Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. “C’era qualcuno in questa via che aspettava l’esplosione. Qualcuno si è avvicinato alla macchina di Paolo, ha preso la borsa e si è allontanato. Non sappiamo a chi l’abbia portata. Quando quella borsa è stata rimessa nel sedile posteriore dell’auto, l’agenda non c’era più. Forse speravano che la macchina prendesse fuoco e si perdesse anche il ricordo di questa agenda. Ma non si è perso”. Salvatore Borsellino ha aggiunto a Sky TG24: “Ci sono foto che mostrano un capitano dei carabinieri che si allontana con la borsa. È stato assolto ma vogliamo sapere a chi ha portato quella borsa, chi ha preso l’agenda e dove si trova oggi. Sui contenuti dell’agenda penso si reggano i ricatti incrociati che legano il sistema di potere della seconda Repubblica, che ha le fondamenta intrise di sangue”.

IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.

Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.

Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.

La scorta?

Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».

Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?

Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.

Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.

Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio. 

Un anticipazione dei verbali di Paolo Borsellino al Csm: “Stanno smantellando il pool antimafia”, scrive il 19 luglio 2017 “Il Corriere del Giorno”. L’audizione desecretata per la prima volta dal Consiglio Superiore della magistratura a 25 anni dalle stragi. Sono parole pesanti quelle che Paolo Borsellino pronunciò il 31 luglio del 1988 davanti al Comitato antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura per spiegare alcune sue dichiarazioni, che aveva rilasciate precedentemente in un evento pubblico e due interviste. “Ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia, nè temo mi si possa rispondere che il pool è stato anzi arricchito di nuovi elementi, poichè non si arricchisce certo un pool, se la sua essenza rettamente si intende, aumentando il numero dei suoi magistrati senza gli opportuni criteri di scelta e contemporaneamente disattendendo le ragioni stesse della creazione di tale organismo”. Il giudice Borsellino come emerge dall’audizione disponibile integralmente per la prima volta, dopo la desecretazione degli atti disposta da Palazzo dei Marescialli in occasione del 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui Borsellino e la sua scorta vennero uccisi dalla mafia, così definiva il pool antimafia di Palermo, di cui aveva fatto parte prima di essere nominato procuratore capo a Marsala: “allo stato rappresenta l’unico organismo di indagine ancora efficace in materia di criminalità mafiosa, stante la carenza indubitabile delle forze di Polizia“. Ecco un’anticipazione degli atti: Borsellino accese i riflettori sul fatto che “quando un pool sostanzialmente non è messo in condizione di rispondere alla sua attività, a quelle che sono le ragioni fondamentali della sua esistenza, difficili da cogliere se maturate in lunghi anni di funzionamento, e sostanzialmente è ridotto soltanto a un numero di tre, quattro, cinque magistrati che lavorano assieme, non è più un pool”. Al termine dell’audizione durata 4 ore Paolo Borsellino disse che all’interno dell’Ufficio Istruzione “c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone”. L’audizione di Borsellino dinnanzi al CSM avvenne qualche mese dopo la nomina di Antonino Meli come consigliere istruttore a Palermo, che venne preferito a Giovanni Falcone, prendendo di fatto il posto e ruolo che era stato di Antonino Caponnetto. “Non ho riferito le confidenze dei colleghi – spiegò Borsellino in merito alle preoccupazioni che aveva espresso sullo ‘smantellamento’ del pool – ma mi sono formato una convinzione sulla base di colloqui con persone con cui ho lavorato a lungo, con le quali ho un’intesa perfetta, su quella che era la situazione”. Ed aggiunse: “ho quindi riferito questa situazione che mi sembra fosse importantissimo riferire”, affermò il giudice nella sua audizione, perchè “o parliamo per enigmi o per allusioni e diciamo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica e la gente non capisce bene che cosa significa, oppure se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: ‘c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona più“.

Borsellino, lo sfogo della figlia: i suoi colleghi non ci frequentano. Stavolta il suo 19 luglio non lo passa a Pantelleria, lontana dai riflettori, per ricordare il padre con una messa solitaria nella chiesetta di contrada Khamma. Perché Fiammetta Borsellino, dopo due clamorosi passaggi tv e Internet con Fabio Fazio e Sandro Ruotolo, si prepara oggi a una audizione in Commissione antimafia, a Palermo. Per tuonare contro «questi 25 anni di schifezze e menzogne».

Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosi Bindi?

«Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio», spiega la più piccola dei tre figli del giudice Borsellino, 44 anni.

Si riferisce ai quattro processi di Caltanissetta?

«Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».

Sottovalutazione generale?

«Chiamarla così è un complimento. Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».

Di Matteo, il pm della «trattativa», era giovane allora.

«So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».

Che cosa rimprovera?

«Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro».

E poi?

«Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».

Che idea si è fatta della trama sfociata nella strage?

«A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».

Giammanco o altri si sono fatti vivi con voi?

«Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».

Compresi i magistrati?

«Nessuno. E con la morte di mia madre, dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è più evidente».

Ha suscitato grande emozione il suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio.

«Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va. C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto». Di Felice Cavallaro Fonte Corriere della Sera Palermo, 19 luglio 2017

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare.

«Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi. Siamo arrivati a quaranta miliardi di euro». Lo dice il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso alla Zanzara su Radio 24 del 12 maggio 2012. «Poi su altre cose che avevamo chiesto, norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando». Ma chi voterà come sindaco di Palermo? «Un magistrato - dice Grasso A Radio 24 - non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Al primo turno delle comunali mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato e io le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Poi Grasso critica il pm Antonio Ingroia: «Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Come ha sbagliato ad andare a parlare dal palco di un congresso di partito (comunisti italiani). Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica». Un'intervista, quella al procuratore nazionale antimafia, che alcuni hanno letto come il preludio di un suo impegno diretto in politica. Ma la reazione dei magistrati di sinistra, (come quella di Marco Travaglio che li osanna) che sono poi quelli che detengono le redini della magistratura, o comunque che fanno più rumore, non si fanno attendere. Per Magistratura Democratica sono 'sconcertanti' le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso sulla politica del governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. «Sui sequestri -dice Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica- ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell'ordine e della magistratura. Dobbiamo ricordarci, in proposito, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia. Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune. Inoltre -continua- il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan. Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all'estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell'ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c'è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni. In altri termini -conclude Morosini- la politica antimafia del centrodestra ricorda piuttosto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza». «Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare - ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri - Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato.

Riina in carcere ordina l'attentato a Di Matteo. "Deve succedere un manicomio...", scrive “La Repubblica”. I colloqui del "Capo dei capi" con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". "Berlusconi perché si è andato a prendere lo stalliere?" Ecco le intercettazioni.

Parla il boss: "Io, il mio dovere l'ho fatto. Ma continuate, continuate... qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...". Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. E uccidere i magistrati che indagano su di lui nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Divertirsi per lui significa anche far fuori "tutte le paperelle " che stanno intorno ai giudici, gli agenti delle scorte. "Qua qua qua", ripete il capo dei capi di Cosa nostra mentre passeggia all'ora d'aria in un camminatoio del carcere milanese di Opera con un compagno detenuto, Alberto Lorusso, ufficialmente solo un affiliato alla Sacra Corona Unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi. Gli dice Riina: "Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello". Gli ribatte Lorusso: "Noi abbiamo un arsenale". Noi chi? È quello che stanno cercando di scoprire in Sicilia. Queste sono le prime intercettazioni del boss sulle minacce ai pm di Palermo, depositate agli atti del processo sulla trattativa.

SERVE UN'ESECUZIONE. Il 16 novembre 2013, alle ore 9.30, Totò Riina ordina l'eliminazione del pubblico ministero Nino Di Matteo "che deve fare la fine dei tonni". Intima: "E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più". Una telecamera nascosta riprende il boss mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. Aggiunge: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". Riina ha un odio viscerale contro questo pubblico ministero, che con i suoi colleghi (Del Bene, Tartaglia e Teresi), sta scavando dentro i misteri della trattativa: "Vedi, vedi... si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo... come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia...perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina".

LA TRATTATIVA E LO STATO. Il capomafia di Corleone -  che non ha mai perso un'udienza del processo per la trattativa -  sembra furioso per come l'hanno trascinato nell'inchiesta sui patti fra lo Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del 1992. E ancora una volta la sua ira si scatena contro il pm palermitano: "Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato ". E prevede: "Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore ucciso a Palermo nel 1970 ndr), a questo gli finisce lo stesso". Poi Lorusso lo informa di quanto ha sentito in televisione: "Dicevano che il presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti, che dicono che non deve andare a testimoniare". Gli risponde Riina: "Fanno bene, fanno bene…ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nella corna a quelli di Palermo". Lorusso incalza: "Sono tutti con Napolitano, lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina azzarda: "Io penso che qualcosa si è rotto...".

SILVIO E I GRAVIANO. Il 6 agosto, Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel "buffone" di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma "stanno vedendo come fare per salvarlo ". E a questo punto Riina si lancia in un'altra delle sue invettive: "Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo". E subito dopo: "Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto". Il 25 ottobre il boss di Corleone ritorna a parlare del Cavaliere. E anche dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio sospettati di avere avuto molti contatti economici con l'imprenditoria di Milano. Di loro dice: "Avevano Berlusconi... certe volte...". Segue un'altra parola, incomprensibile. Ma, adesso, Riina lascia intendere che ha qualche riserva anche sui suoi fedelissimi di un tempo, i Graviano.

LE RISERVE SULL'EREDE. C'è grande fibrillazione al vertice di Cosa nostra. Non sono soltanto i Graviano a preoccupare Riina. A lui non piace neanche la strategia del superlatitante Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi". È davvero un giudizio duro. "Questo fa i pali della luce -  aggiunge, riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto -  ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce". E lo accusa di interessarsi solo ai suoi affari. "Fa pali per prendere soldi", dice.

CAPACI E VIA D'AMELIO. "Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano". Sono le parole con le quali Totò Riina rievoca i giorni della strage di Capaci. "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, dall'aeroporto... siamo andati a Roma, non ci andava nessuno, non è a Palermo...fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua. Andammo a tentoni, fammi sapere quando prende l'aereo ". Ma resta un discorso a metà. Da chi i mafiosi dovevano sapere dell'arrivo di Falcone a Palermo? Lo stesso mistero resta nei discorsi che Riina fa sulla strage Borsellino: "Cinquantasette giorni dopo, minchia, la notizia l'hanno trovata là dentro... l'hanno sentita dire... domenica deve andare da sua madre, deve venire da sua madre... gli ho detto... ah sì, allora preparati, aspettiamolo lì". Chi aveva comunicato ai mafiosi che Borsellino sarebbe andato da sua madre domenica pomeriggio? Riina fa riferimento a "quello della luce... anche perché ... sistemati, devono essere tutte le cose pronte, tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: "Se serve mettigli qualche cento chili in più...". E dopo la strage del 19 luglio, il mistero della scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. "Si fottono l'agenda, si fottono l'agenda". Ma chi? Anche questo resta un mistero.

IL PAPA E LA GRAZIA. "Non gliene capiteranno più di nemici, così, come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre... gli ho fatto ballare la samba", dice Riina parlando di se stesso. Poi, scherza: "Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare? Minchia loro non sanno, non sanno, ma il Signore gliela paga, gliela ripaga pure a loro". E alla fine cita il Pontefice "Questo è buono, questo papa è troppo bravo ".

LA MAIL SEGRETA. Totò Riina e Alberto Lorusso sono a conoscenza di una mail girata riservatamente sui pc di tutti i procuratori di Palermo. Ne fanno cenno, ricordando che i magistrati - qualche mese fa -  volevano arrivare tutti in aula al processo sulla trattativa per solidarietà con Nino Di Matteo. Notizia segretissima. Eppure Totò Riina e il suo amico Lorusso, tutti e due al 41 bis, la conoscevano.

I GUAI DI BERLUSCONI. In una conversazione avvenuta il 20 settembre 2013, i due parlano dei "guai" dell'ex premier. Non si sa se guai giudiziari o di carattere politico. Rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "Se lo merita, se lo merita. Gli direi io “ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?”. Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr.) mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto".

IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.

Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.

Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.

La scorta?

Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».

Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?

Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.

Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.

Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio.

Graviano intercettato: adesso Firenze e Caltanissetta valutano se riaprire le indagini su Berlusconi per le stragi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sugli eccidi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia. I pm della procura di Palermo, infatti, gli hanno girato le intercettazioni del boss di Brancaccio in carcere. Cinquemila pagine di registrazioni in cui il padrino - secondo gli investigatori - assegna all'ex premier il ruolo di ispiratore delle bombe del primi anni '90: accusa per la quale è già stato indagato e archiviato, scrive Giuseppe Pipitone il 9 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso bisognerà vedere se la procura di Firenze o quella di Caltanissetta decideranno di riaprire le indagini su Silvio Berlusconi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sulle stragi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia.

Alfa e Beta, Autore 1 e Autore 2 – Attraverso la coordinazione della Dna, infatti, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno girato ai pm fiorentini e nisseni le intercettazioni dei colloqui tenuti in carcere dal boss Giuseppe Graviano, iscritto nel registro degli indagati per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato nel fascicolo stralcio dell’inchiesta sulla Trattativa. Più di cinquemila pagine di conversazione, tutte registrate tra il 19 gennaio 2016 e il 29 marzo del 2017 in cui il mafioso di Brancaccio si confida con il camorrista Umberto Adinolfi. Quindici mesi in cui i due malavitosi parlano di tutto, dal calcio alla politica, ma è quando Graviano apre bocca che gli investigatori della Dia sottolineano in grassetto i brogliacci riepilogativi. Sì, perché il boss condannato per le stragi del 1992 e 1993 tira in ballo spesso proprio il nome di Berlusconi. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – sono stati indagati dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri vennero iscritti nel registro degli indagati della procura nissena – indicati come Alfa e Beta – per concorso nella strage di via d’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta.

La cortesia con urgenza – Sulla base delle intercettazioni di Graviano, dunque, i pm toscani e siciliani dovranno valutare se chiedere al gip di riaprire o meno le indagini su Berlusconi. Secondo gli investigatori palermitani nelle intercettazioni in carcere il boss di Brancaccio assegna all’ex premier il ruolo di ispiratore delle stragi del 1992 e 1993. Gli investigatori hanno puntato gli occhi soprattutto su una frase pronunciata dal mafioso in carcere: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, dice Graviano il 10 aprile del 2016. Poi aggiunge: “Nel ’92 già voleva scendere. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Un linguaggio che gli inquirenti interpretano come un’allusione alle stragi del 1992, in particolare a quella di via d’Amelio, con l’allora imprenditore Berlusconi che sarebbe già stato intenzionato a scendere in campo. Una ricostruzione avanzata più volte in tutti questi anni ma mai dimostrata, come testimoniano le archiviazioni di Firenze e Caltanissetta, ma anche la sentenza Dell’Utri che assolve definitivamente l’inventore di Forza Italia per i fatti successivi proprio all’anno zero della Repubblica: il 1992. Eppure è proprio dal marzo del 1992, poco dopo l’assassinio di Salvo Lima, che Dell’Utri incarica il politologo Ezio Cartotto: dovrà cominciare a studiare l’operazione Botticelli, dalla quale sarebbe poi nata Forza Italia. Il 21 maggio 1992, invece, Paolo Borsellino rilascia la famosa intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi, quella in cui parla per la prima volta di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio del 1992 ecco il botto di via d’Amelio: a schiacciare il telecomando che fece esplodere la Fiat 126 ci sarebbe stato – secondo il pentito Gaspare Spatuzza – proprio Giuseppe Graviano. È questa la “cortesia” di cui parla il capomafia di Brancaccio? E quale sarebbe stata l’urgenza? Forse le indagini di Borsellino su Mangano?

“Non volevano più le stragi” – O forse Graviano parla di altro? “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia”, dice in un altro passaggio delle intercettazioni il boss. Ma se non erano stragi di mafia, di chi erano allora quelle bombe che vedono la piovra colpire per la prima volta fuori dalla Sicilia? Riferendosi all’epoca successiva, cioè al 1994, Graviano racconta al suo codetenuto: “Dovevamo accordare, alla fine c’erano tanti punti da risolvere invece si proseguì con questo. E intanto poi: è successo quello che è successo. Non volevano più le stragi allora io ho imboccato un altro “. Un altro chi? E chi sono quelli che non volevano più le stragi? Un passaggio che per gli inquirenti è da ricollegare ad un’altra conversazione: quando il 22 gennaio del 2016 Graviano si vanta con Adinolfi. “Lo sai cosa scrivono nelle stragi? Nelle sentenze delle stragi, che poi sono state assoluzione la Cassazione e compagnia bella: le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto”, dice portando la mano sinistra sulla pancia e indicando se stesso. E in effetti Graviano viene arrestato il 27 gennaio del 1994: da allora non un solo colpo sarà sparato nella Penisola, nuovo regno della pax mafiosa.

Il colpetto e lo stadio Olimpico – È per questo motivo che gli investigatori collegano queste conversazioni al fallito attentato dello stadio Olimpico, che doveva essere compiuto nelle prime settimane del 1994. È il “colpetto” che secondo il pentito Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti (cornuti ndr) dei socialisti”.  A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia”. Il riferimento è proprio all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che mantengono l’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio: per fortuna salta, perché a detta di Spatuzza ci fu un problema al telecomando collegato all’autobomba.

“Si preoccupava: se questo parla a me mi arrestano subito” – Nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, proprio Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto. Secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo dell’ex senatore in albergo – a circa 50 metri dal bar Doney – è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utrinegli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza? Su Dell’Utri, Graviano ricorda soprattutto un episodio recente. “Noi – racconta al compagno d’ora d’aria – eravamo a testimoniare nel processo di Dell’Utri nel 2009.  Perché si preoccupava. Dice: se questo parla a me mi arrestano subito. Umbè, ha fatto tutte cose così. Ora a me non mi interessa più niente”. Parole che fanno il paio con quello che Graviano rivolge sempre a Berlusconi. “Mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere”. Come dire: l’ex premier può stare tranquillo perché Giuseppe Graviano non è tipo da pentirsi.

“Ho messo mia moglie incinta al 41 bis” – Ovviamente c’è da capire se il boss di Brancaccio sapesse o meno di essere intercettato: se abbia cioè utilizzato le cimici della Dia a suo piacimento per inquinare le indagini.  Per i pm della procura di Palermo non è così ed il motivo è da ricercare in un particolare abbastanza angosciante: passeggiando con Adinolfi, infatti, Graviano torna più volte sull’argomento della sua paternità. Ufficialmente nel 1996 Giuseppe Graviano e il fratello Filippo – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. È in quel modo misterioso che le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro.

“Nascosta tra la biancheria” – Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano: secondo le confidenze fatte dal boss al suo compagno d’ora d’aria, sarebbe riuscito a mettere incinta la moglie all’interno del carcere. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nel penitenziario per giacere col marito. La stessa cosa sarebbe riuscita anche al fratello di Filippo. “Dormivamo nella cella assieme”, dice Graviano. “Mio figlio è nato nel ’97 – racconta – ed io nel ’96 ero in mano loro. Ti debbo fare una confidenza: prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…poi ad un certo punto … lei venne nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”.

Ragionamenti genuini – I pm della procura di Palermo hanno scoperto che effettivamente per un periodo del 1996 i due fratelli Graviano furono detenuti nello stesso carcere, l’Ucciardone di Palermo. Il 28 marzo del 2017, quando vanno a interrogare Graviano gli contestano quindi anche quelle parole sulla paternità. Il boss non ha risposto alle domande dei pm e il giorno dopo l’interrogatorio torna a passeggiare con Adinolfi. Una volta nel cortile gli racconta che gli investigatori li intercettano da 15 mesi.  “È sempre un fastidio – dice Adinolfi – ma noi non lo sapevamo, Però proprio perché non lo sapevamo, alla fine si ritrovano la genuinità dei ragionamenti che abbiamo fatto”. Poi a favore di cimice Graviano torna a parlare delle sua paternità, spiega al codetenuto che i pm “gli hanno contestato anche il fatto del figlio”. Quindi rilancia la storia delle provette e dice: “Capirono male”.

Paolo Borsellino, l'ultima intervista due mesi prima di morire. A 25 anni dall'attentato di Via D'Amelio, la trascrizione del colloquio tra il magistrato antimafia e due giornalisti francesi di Canal+. Il 21 maggio del 1992 raccontava i rapporti tra l'entourage di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Due anni dopo l'Espresso ne pubblicava la trascrizione. Che oggi vi riproponiamo, scrive Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 18 luglio 2017 su "L'Espresso". «Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta l'inquadratura – Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all’attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr]. E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità». Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «...Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...». A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti? Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «...a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.

Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?

«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e 1'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata l'autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».

Uomo d'onore di che famiglia?

«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».

E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?

«Il Mangano, di droga ... [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado... ».

Quando ha visto per la prima volta Mangano?

«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».

Per interrogarlo?

«Sì, per interrogarlo».

E dopo è stato arrestato?

«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».

Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?

«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».

Quando, in che epoca?

«Fra il '75 e 1'80, probabilmente fra il'75 e l'80».

Ma lui viveva già a Milano?

«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».

E si sa cosa faceva a Milano?

«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perché anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico cli stupefacenti».

Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?

«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero... ».

Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?

«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».

Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...

«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».

Mangano conosceva Bontade?

«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]... ».

Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D'Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.

«Non sono a conoscenza di questo episodio».

Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?

«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell’organizzazione mafiosa».

Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?

«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».

Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?

«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».

Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "Il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì non "surra"[non c'entra, ndr]”).

«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».

E Dell'Utri non c'entra in questa storia?

«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».

A Palermo?

«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».

Dell'Utri. Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].

«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».

I fratelli?

«Sì».

Quelli della Publitalia, insomma?

«Sì».

E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?

«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».

Sì, ma quella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?

«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».

In un albergo. Dove?

«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l'albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».

Ah, oltretutto.

«Sì».

C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?

«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».

Sono di Palermo tutti e due...

«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».

C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].

«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente...».

A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?

«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».

A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].

«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».

Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.

«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».

Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?

«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».

Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?

«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia, concernenti anche Mangano».

Concernenti cosa?

«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».

Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?

«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».

Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?

«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».

E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?

«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».

Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche In sequestri di persona...

«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».

A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so ...». Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.

E questa inchiesto quando finirà?

«Entro ottobre di quest'anno...».

Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?

«Certamente ...».

Perché  servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...

«Passerà del tempo prima che ...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.

Paolo Borsellino, i segreti dell’intervista su Berlusconi e gli interessi di Canal Plus. Parla l’autore: “È la mia maledizione”. Parla Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 intervistò il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. E racconta i retroscena su quel colloquio in cui si parla per la prima volta delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri. "Come nacque quell'intervista? Canal Plus era interessato ai rapporti tra il padrone della Fininvest e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq ed era entrato in concorrenza con loro. Perché non venne pubblicata? Dopo l'omicidio non vollero sentirne più parlare", scrive Giuseppe Pipitone il 19 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia”. Parola di Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 insieme al collega Jean Pierre Moscardo intervista il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. Il contenuto di quell’incontro è clamoroso e ampiamente conosciuto: a 48 ore dall’omicidio di Giovanni Falcone e a meno di due mesi dal suo, Borsellino parla per la prima volta dei rapporti tra Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Altrettanto noto è il difficile percorso che porterà quell’intervista prima ad essere pubblicata in forma scritta dall’Espresso nella primavera del 1994 (al settimanale era stata fornita una sintesi video a garanzia dell’autenticità) e poi alla messa in onda – sempre in forma breve – su Rainews 24 nel 2000 tra le polemiche e le tensioni della televisione di Stato. Per la pubblicazione integrale, invece, bisognerà attendere il 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in dvd. Quello che invece fino a oggi era meno conosciuto – se non totalmente ignoto – è il prequel di quell’intervista: come nasce, i motivi per cui venne commissionata e quindi mai mandata in onda. A venticinque anni dalla strage di via d’Amelio, Calvi ha accettato di parlare con ilfattoquotidiano.it, ripercorrendo i giorni precedenti e successivi a quell’incontro con Borsellino, che doveva fare parte di un film inchiesta da lui oggi ha definito come “la mia maledizione”.

Calvi, perché quel film è la sua maledizione?

«Perché me lo porto dietro praticamente da sempre e per un motivo o per un altro non è mai uscito integralmente. Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia».

Come nasce l’idea d’intervistare Borsellino?

«Conoscevo da anni Paolo Borsellino, lo seguivo dagli anni ’80. Me lo aveva presentato Rocco Chinnici anche prima che Borsellino facesse parte del pool antimafia. Tutti correvano dietro a Giovanni Falcone, a me è sembrata una buona idea correre dietro a Borsellino. Avevamo un ottimo rapporto. Non so se di amicizia, ma sicuramente un ottimo rapporto. Così visto che dovevamo fare un film su Silvio Berlusconi e la mafia ho pensato di andarlo a intervistare».

Quel film nasce già come un’inchiesta su Berlusconi e la mafia?

«Assolutamente sì. Io avevo avuto notizia delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri. Avevamo sentito tutti i protagonisti del blitz di San Valentino a Milano, poi siamo andati in Sicilia per ricostruire i percorsi di Marcello e Alberto Mangano».

E perché si rivolge a Borsellino?

«Io non avevo idea che lui si fosse occupato di Mangano per una storia di estorsioni. Sono andato a trovarlo in procura qualche giorno prima dell’intervista e mi dice: Sì, su Mangano ho delle cose da dire. Io ero andato spesso in procura in passato ma ricordo che all’epoca ho trovato l’ambiente un po’ cupo, pesante. Non si sapeva ancora ma col senno di poi era il momento in cui stavano cambiando le cose».

A quel punto lei propone un’intervista a Borsellino su Mangano.

««E lui accetta di farla davanti alle telecamere. Però mi dà appuntamento a casa sua. Un dettaglio che già al momento mi colpì perché di interviste a casa sua non ne avevo mai fatte».

Perché non si fece intervistare in procura?

«Onestamente, non lo so. Perché non voleva essere sentito, ascoltato o visto in procura? Questo non lo so. D’altra parte era un’intervista video».

La novità di quell’intervista è il collegamento Mangano-Dell’Utri-Berlusconi.

«Due cose mi hanno colpito di quel colloquio. La prima è che Borsellino parla di inchieste in corso a Palermo su Dell’Utri, è quella era per me era una novità. C’erano procedimenti su Mangano ma a Milano e si trattava sempre del blitz di San Valentino, che credo fosse già finito in Cassazione quindi non lo definirei in corso. Ma non si sapeva niente di indagini aperte a Palermo. Non ho mai capito cosa fossero quelle inchieste in corso».

Non si è veramente mai capito neanche dopo: la prima indagine ufficiale su Dell’Utri da parte della procura di Palermo è del 1994. 

«Quando già Berlusconi era sceso in politica. Ma lì eravamo prima della stagione di Forza Italia, anche se era il momento in cui la mafia aveva già mollato la Dc».

Quale è la seconda cosa che l’ha colpita dell’intervista?

«Il tono usato da Borsellino, lui parla in un modo molto forte e diretto: ha quelle carte davanti che sta guardando e le cita in continuazione. Poi avremmo capito che quello era il fascicolo processuale delle inchieste su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, cioè tutte le volte che erano stati citati in rapporti di polizia. Lui riguarda questo elenco e alla fine me lo dà davanti alla telecamera, dicendo: basta che non dice che gliel’ho dato io. Francamente mi ha stupito: queste cose non le faceva mai».

Era come se volesse parlare di quell’argomento a tutti i costi, cioè di Berlusconi, Mangano e Dell’Utri? Ha avuto questa sensazione?

«Lui voleva parlare, questo è chiaro. Voleva parlare e voleva parlare di questi soggetti. Perché in quella fase non sarei capace di dirlo. A Palermo era uno strano momento: di quieta inquietudine direi. Era già morto Salvo Lima, che aveva dato la disponibilità ad essere intervistato da noi e si sapeva che qualcosa si stava muovendo. Ma la città in quel momento era tranquilla anche se lui era inquieto».

Ma dopo l’omicidio Borsellino, come mai l’intervista non è stata mandata in onda? Era un documento straordinario da diffondere dopo la strage di via d’Amelio.

«Perché bisogna capire come nasce l’intervista a Borsellino».

Come nasce?

«Io lavoravo per una casa di produzione indipendente e c’era un interesse di Canal Plus per Berlusconi e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq e la voleva trasformare in una tv criptata, entrando in concorrenza diretta con Canal Plus».

Quindi c’era un interesse affaristico di Canal Plus. Sono loro a commissionarvi l’inchiesta o l’avete proposta voi?

«No, noi abbiamo proposto a Canal Plus delle storie sulla mafia. Le nostre fonti ci avevano segnalato che c’erano storie su Berlusconi e la mafia e Canal Plus ci ha detto: questa ci interessa. Il problema è che quando il film era finito, per Canal Plus non era più una storia utile: La Cinq era fallita, Berlusconi non investiva in Francia e loro non volevano più sentirne parlare».

Addirittura non volevano sentirne parlare? Ma quello, però, era comunque uno scoop. Non solo per i contenuti ma perché è probabilmente una delle ultime interviste a Borsellino prima di morire: che senso ha non volerne sentire più parlare?

«Non lo so, ma Canal Plus era ed è una televisione che si occupa soprattutto di cinema, di sport e soltanto in parte di documentari. E documentari non vuol dire attualità. E poi Canal Plus non sapeva neanche che dentro il nostro girato c’era tutta quella storia di Borsellino. Magari avevano saputo dell’omicidio, però per loro era un’operazione che non interessava più».

Come mai non ha proposto a qualche altra emittente di mandare in onda quell’intervista?

«Perché sono subito partito per girare una lunga serie sui servizi segreti nella seconda Guerra Mondiale. E quindi ho messo da parte tutto il capitolo sulla mafia. E poi onestamente non mi andava di pubblicare quest’intervista con la chiave: ecco perché Borsellino è stato ucciso. Non mi piaceva».

Ha mai pensato che uno dei motivi per cui Borsellino muore è proprio perché sapeva quelle cose su Mangano e Dell’Utri?

«Cioè per l’intervista?»

Non per l’intervista, ma per quello che dice nell’intervista.

«Ma quello che dice nell’intervista non è stato pubblicato e quindi non era pubblico. Magari qualcuno l’ha saputo ma io penso proprio di no. Io penso che l’omicidio fosse stato già deciso quando uccisero Falcone. Poi da quello che ho sentito, ma non ho seguito direttamente, so che Borsellino era stato ucciso perché si era messo in mezzo alla Trattativa».

Recentemente, però, Giuseppe Graviano – intercettato in carcere – parla di una “cortesia” fatta “al Berlusca” che voleva scendere già in politica nel 1992. Registrazioni che alcuni inquirenti collegano alla strage Borsellino. 

«L’ipotesi che lega l’intervista all’omicidio direi che non è credibile. Anche perché ho letto che Graviano sapeva di essere intercettato. Le connessioni tra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano erano già saltate fuori. La novità che portava Borsellino era una novità importante ma come documentaristica perché dà un’altra luce alla faccia di Dell’Utri e Mangano ma non è secondo me una luce fondamentale»».

In ogni caso, però, quell’intervista, non venne comunque diffusa per due anni e l’intero film non è mai uscito: non è strano?

«Sì e per questo che io considero questa storia la mia storia maledetta. L’intervista, come è noto è stata pubblicata dall’Espresso nel 1994 e poi da voi in forma integrale, mentre il film ho praticamente finito di montarlo. Negli anni successivi l’ho proposto a vari network ai quali invece non interessava. Ma se non è mai uscito è stato per una serie di circostanze che non reputo strane o inquietanti o meglio non spinte dall’alto. Varie volte ho sentito il fiato sul collo in certe storie che seguivo, ma devo dire che non è questo il caso».

Cosa c’entra Spatuzza con Berlusconi. Il mafioso che ha rivelato l'organizzazione della strage di via D'Amelio ha raccontato anche un pezzo della lunga storia di accuse sui rapporti tra Berlusconi e la mafia, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". In un interrogatorio con i magistrati del 16 giugno 2009, Gaspare Spatuzza descrisse quello che a oggi è uno degli episodi più concreti della lunga storia di rapporti reali, raccontati e presunti di Silvio Berlusconi con la mafia: stando al racconto di Spatuzza, un mafioso che si era da un anno dichiarato “collaboratore di giustizia” dopo undici anni in carcere, il suo boss Giuseppe Graviano gli diede un appuntamento all’inizio di gennaio del ’94 al bar Doney di via Veneto a Roma, alla vigilia dell’attentato poi fallito allo stadio Olimpico di Roma (e anche dell’arresto dello stesso Graviano a Milano). Questo è il racconto di Spatuzza, ripetuto in successivi processi. Aveva un’aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa. Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza, in un altro incontro a Campofelice di Roccella (…) Poi aggiunse che quelle persone non erano come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra (…) Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene (…) Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. Quando a Spatuzza fu contestato a processo di avere aggiunto questo racconto alle sue altre confessioni e testimonianze solo un anno dopo la formalizzazione del suo “pentimento” – la legge gli toglierebbe quindi ogni validità, perché per evitare mercanteggiamenti impone che un collaboratore dica le cose che ha da dire entro sei mesi – la sua spiegazione fu che si era allora appena insediato il quarto governo Berlusconi e questo lo aveva preoccupato sull’ottenimento del regime di protezione richiesto dal suo status di “collaboratore”, e che si era deciso a parlare di Berlusconi solo una volta ottenutolo, mesi più tardi. Le indagini sui rapporti con la mafia di Silvio Berlusconi hanno una storia lunga e controversa. A oggi, il loro risultato più rilevante e definitivo è la sentenza (definitiva nel 2014) che ha condannato il principale collaboratore di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e che ha stabilito che negli anni Settanta lo stesso Dell’Utri fece da tramite in una trattativa tra alcuni boss mafiosi e Berlusconi culminata in una riunione a Milano, con la quale Berlusconi acconsentì di pagare per la protezione sua e della famiglia dai sequestri che allora temeva, o da altro. Dice tra l’altro la sentenza di Cassazione: In tale occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra”, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di “cosa nostra” e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo. In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà. (…) In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione. Il tema dell' “estorsione” praticata dalla mafia nei confronti di Berlusconi è molto delicato e controverso. È quello che permette che non ci siano state fino a oggi condanne nei confronti di Berlusconi per i suoi rapporti con la mafia, malgrado la sentenza su Dell’Utri e le molte accuse che questo rapporto sia stato spesso di collaborazione complice. La storia più nota e rilevante in questo senso è quella del rapporto con Vittorio Mangano, il mafioso che in virtù dell’accordo citato sopra prese residenza nella villa di Arcore di Berlusconi negli anni Settanta (come “stalliere” dei cavalli secondo Berlusconi) e costruì con Berlusconi e Dell’Utri un rapporto molto intenso e continuato (che poi si interruppe e ha come episodio più famoso la strana telefonata tra Berlusconi e Dell’Utri dopo un attentato di cui lo credono responsabile).

Le prime indagini su Berlusconi e la mafia risalgono ufficialmente al 1996, anche se c’è una mai chiarita questione delle indagini a Palermo citate in un’intervista da Paolo Borsellino nel 1992 e di cui non c’è traccia ufficiale (l’unica spiegazione, non del tutto convincente, è che si trattasse di indagini su fatti che lo coinvolgevano senza che fosse indagato). Nel 1996 Berlusconi fu indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, e negli anni successivi fu indagato a Firenze e a Caltanissetta rispettivamente per la campagna di stragi del 1992-1994 e per quelle in cui vennero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutte le inchieste furono archiviate. Le grandi ipotesi accusatorie – mai dimostrate, mai giunte a condanne, sostenute solo da dichiarazioni non riscontrate di diversi collaboratori di giustizia – sono state fino a oggi: che Berlusconi abbia – nell’ambito degli accordi di cui sopra – usato grandi investimenti della mafia per avviare e sostenere le sue imprese, soprattutto nel settore delle costruzioni; che abbia usato il sostegno della mafia al momento della sua candidatura in politica nel gennaio 1994 e per la sua vittoria successiva; e che abbia avuto delle complicità di qualche tipo con i boss Graviano nel periodo in cui questi organizzavano la serie di attentati mafiosi in tutta Italia tra il 1992 e il 1994 (periodo in cui stando a quell’intervista di Borsellino qualcuno in Sicilia stava indagando già su Berlusconi e Dell’Utri). È realisticamente a quest’ultima ipotesi (“abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare”, dicono) che lavorano Pier Luigi Vigna e Pietro Grasso – a capo della Direzione Nazionale Antimafia – quando nel 1998 interrogano in carcere Gaspare Spatuzza e gli chiedono di un soggiorno dei Graviano in Sardegna, di una vacanza “in una barca con belle donne e la personalità”, se l’attentato contro Maurizio Costanzo avesse a che fare con Fininvest, se a Milano fosse stato ospitato da “uno che era al maneggio dei cavalli”, se “la discesa in campo di nuove forze politiche” fosse stata considerata al tempo degli attentati.

Spatuzza risponde di no o di non saperne niente: nel 2009 giustificherà con i timori per la sua famiglia il non aver parlato allora, ma per avvalorare il suo racconto su Graviano e Berlusconi sosterrà di avervi già alluso quanto secondo lui bastava in un colloquio investigativo con Pier Luigi Vigna nel 1997 (cita anche la presenza di Grasso, su cui però ha dato versioni diverse). Nel 1997, anni prima di cominciare a collaborare, durante un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, dissi “fate attenzione a Milano 2”. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito. Intendevo dare in modo soft, come avevo fatto per il furto della 126 usata per la strage di via D’Amelio, un’indicazione. Parole di cui però allora non fu comprovata la presenza in nessun verbale di colloquio investigativo (oggi non possono essere confermate da nessuno di persona: Grasso escluse di averle mai ascoltate ma non sappiamo se abbia partecipato a tutti i colloqui, Pier Luigi Vigna è morto nel 2012).

Il Csm condanna Palermo, scrive Franco Coppola su "La Repubblica" il 27 giugno 1985. La perdita di sei mesi di anzianità per Carlo Palermo, il giudice della maxi inchiesta sul traffico di armi e droga, il giudice che ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Trapani, nella sede cioè più calda d’ Italia. Una sanzione disciplinare, quella decisa a mezzanotte dopo una camera di consiglio insolitamente lunga (sette ore) dall’apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura, ritenuta troppo severa per chi vede in Carlo Palermo una sorta di Robin Hood senza macchia e senza paura, troppo blanda per quanti lo dipingono come un giustiziere-panzer, privo di scrupoli e di regole. Una sanzione, a ben guardare, che potrebbe anche essere considerata equilibrata, se su tutta la vicenda non pesasse l’ombra di una discutibile iniziativa presa da Bettino Craxi non come privato cittadino ma nella veste di presidente del Consiglio, alla quale ha fatto seguito una inusitata solerzia da parte del procuratore generale Giuseppe Tamburrino, titolare dell’azione disciplinare. Per tutta la giornata di ieri c’è stata battaglia a palazzo dei Marescialli intorno alla posizione di Carlo Palermo, un magistrato tra i più coraggiosi, scampato il 2 aprile scorso a un attentato mafioso nella sua nuova sede di Trapani, da lui stesso richiesta per continuare, in una zona quanto mai calda e al posto di Antonio Costa, giudice finito in galera per collusioni con la mafia, quella battaglia intrapresa anni prima a Trento contro la mafia della droga e delle armi. Battaglia che ha avuto come protagonisti prima Guido Guasco e Giovanni Tranfo, sostituti procuratori generali della Cassazione che ieri fungevano rispettivamente da accusatore e da difensore di Palermo, poi i nove componenti la sezione disciplinare del Csm, tutt’altro che d’accordo sulla eventuale sanzione da infliggere all’incolpato. Guasco ha parlato in mattinata per due ore sostenendo la “responsabilità” di Palermo per cinque dei sei capi d’incolpazione e sollecitando la sanzione della perdita di sei mesi d’anzianità. Secondo il Pg, infatti, il magistrato andava prosciolto dalla seconda “accusa”, quella di aver bloccato un telegramma con cui l’avvocato Roberto Ruggiero raccomandava al suo cliente Vincenzo Giovannelli, imputato nel processo per il traffico di armi e droga, di presentare ricorso per Cassazione contro il provvedimento del tribunale della libertà di Trento. Il Csm, invece, lo ha “condannato” per cinque capi di accusa prosciogliendolo dalla “incolpazione” di aver interrogato degli imputati in assenza dei loro difensori. Più o meno tutte di questo calibro – Craxi a parte – sono le incolpazioni contestate a Palermo, fatti cioè che, secondo il Pg, integrerebbero l’accusa di “essere venuto meno ai propri doveri funzionali, così compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario”: accuse all’avvocato Ruggiero di avvalersi di “metodi disonesti” e di “modalità vergognose”, interrogazioni di imputati senza la presenza dei difensori; l’arresto di un testimone per reticenza a cui è seguito il proscioglimento da parte della corte d’appello; proseguimento delle indagini sul conto di imputati dichiarati dal Pm estranei al traffico di armi e droga. Poi c’era l’ “affare Craxi”, anzi l’”affare Craxi-Pillitteri”. Siamo nel 1983. Carlo Palermo, affondando il bisturi nel magma ribollente del mercato dell’eroina, arriva alla pista bulgara, al traffico internazionale delle armi, al “SuperEsse”, alla P2. Con gli avvocati di alcuni imputati i rapporti si fanno tesi; due di essi, Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, finiscono in carcere per favoreggiamento. Palermo non c’entra. All’origine dell’accusa sono delle trascrizioni errate di intercettazioni telefoniche. Quando i due legali vengono scarcerati arriva puntuale la denuncia contro il magistrato. Si apre un’inchiesta, affidata alla magistratura veneziana che, nel febbraio scorso, rinvia a giudizio Palermo per interesse privato in atti d’ufficio. E’ questa anche la settima incolpazione di stampo disciplinare sulla quale, però, il Csm non si è pronunciato in attesa della definizione del procedimento penale. Alla fine di quell’anno, Palermo ordina la perquisizione di varie società finanziarie, alcune delle quali risultano legate al Psi o fanno capo al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein. Alcuni testimoni hanno fatto il nome di Craxi e del cognato Paolo Pillitteri. Nei decreti di perquisizione, allora, Palermo raccomanda a chi li eseguirà di fare attenzione se, nei documenti delle società in questione, compaiono quei nomi eccellenti. E’ in quel momento che Palermo si gioca l’inchiesta. Il 15 dicembre ’83, Craxi scrive al Pg Tamburrino per lamentare che il magistrato ha citato il suo nome in un mandato di perquisizione senza avvertirlo; nell’esposto, il capo del governo parla di “gravissime violazioni di legge”, di comportamento “di eccezionale gravità… inaudito”. E’ la fine dell’inchiesta sul traffico di armi e droga. Prende vigore l’indagine penale a Venezia per l’arresto degli avvocati, Tamburrino investe subito il Csm della procedura disciplinare, la Cassazione dirotta a Venezia tutte le inchieste di Palermo. Il giudice fa appena in tempo a firmare un’ordinanza di rinvio a giudizio, a spedire al Parlamento tutti gli atti relativi a Craxi e Pillitteri (e l’Inquirente archivia il “caso”, proseguendo però nell’indagine sulle società finanziarie del Psi) e a chiedere di essere trasferito ad altra sede. Infine, il procedimento disciplinare, fissato per il 12 aprile e rinviato d’autorità, senza neppure interpellare l’interessato, dopo l’attentato del 2 di quel mese.

La profezia americana sul processo Andreotti, scrive il 17 luglio 2017 "Piccole Note". Sulla Repubblica del 17 luglio, Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo pubblicano documenti riservati dell’ambasciata americana a Roma relativi agli anni delle stragi di mafia e a un incontro riservato con il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Pur se un po’ (inevitabilmente) pervaso dall’aura che circonda la figura di Andreotti, la leggenda nera alimentata da decenni di narrativa ostile, l’articolo offre spunti interessanti. Nel report dell’ambasciata si legge che l’uomo politico democristiano critica sia Luciano Violante che Leoluca Orlando, suoi grandi accusatori (particolare in realtà di secondo piano). Più interessante il cenno che inquadra le accuse a lui rivolte come risposta a sue iniziative contro la mafia, la quale quindi si starebbe «vendicando», accusando lui di collusioni con la stessa. Non solo la mafia italiana, secondo Andreotti: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Accuse più che circostanziate, soprattutto quella rivolta all’United Sates Marshall Service, un’Agenzia con compiti di vigilanza giudiziaria davvero poco nota alla cronaca. Evidentemente con quel cenno tanto particolare Andreotti vuole indicare ai suoi interlocutori di avere informazioni molto dettagliate sulle trame ordite contro di lui. Nel report americano non c’è traccia di domande da parte americana sul punto: gli interlocutori di Andreotti cioè non chiedono spiegazioni, cosa che invece dovrebbe essere più che doverosa. Semplicemente lasciano cadere la cosa, come argomento di nessuna importanza. Forse avevano paura che quelle accuse trovassero un qualche riscontro? Poi, a un certo punto, Andreotti inizia a fare domande. Così viene segnalato nel report: «“Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai”. «Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure “che è stato un errore» aver diffuso quella nota”. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi possano essere resi pubblici”. Messaggi con sue conversazioni “di alto livello e sensibili”». Accennando alla “profezia” del consolato di Palermo, Andreotti di fatto accusa gli Stati Uniti, alcuni ambiti ovviamente, di aver costruito il processo a suo carico, creando quei pentiti che lo avrebbero poi portato alla sbarra (davvero tanti i pentiti di quella stagione: un fenomeno unico, per le sue proporzioni, nella storia d’Italia; ma magari nel processo sulla trattativa Stato mafia, semmai andrà a compimento, si troverà qualche risposta a tale inspiegabile anomalia). Nella loro risposta, di fatto gli americani accusano Andreotti di aver reso noto quel documento: e ciò secondo loro sarebbe stato un “errore”. Strana protesta data la natura del documento in questione. In realtà quella americana sembra più un “avviso” rivolto al loro interlocutore a non prendere altre iniziative simili. Minaccia alla quale Andreotti risponde per le rime, accennando alla possibilità che possano sfuggirgli altre rivelazioni “sensibili”. Al di là dello scambio di battute finale, che di questo si tratta nella sostanza, resta la clamorosa vena profetica del documento del consolato Usa a Palermo, in particolare sulla genesi della legione di pentiti che avrebbero poi accusato Andreotti passando per Lima, il politico siciliano della sua “corrente” (pentiti che non potevano essere ignorati dalla magistratura). Val la pena ricordare, en passant, che già prima che iniziasse il processo Andreotti, un pentito aveva provato ad accusare Lima di collusioni con la mafia: tal Giovanni Pellegriti. Era il 1989 allora e Falcone lo accusa del reato di calunnia aggravata e continuata in concorso con ignoti. Gli ignoti evocati da Falcone non furono individuati, ma il magistrato riuscì egualmente a condannare Pellegriti per calunnia. Poi Falcone verrà assassinato… il resto è storia. Una storia ad oggi scritta dai vincitori di allora, ma che, come si evince da questi cenni, riserva ancora sorprese.

«L’Italia è incapace di reagire ai boss». I dossier segreti Usa sulle stragi di mafia, scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su "La Repubblica" il 17 luglio 2017. Il dispaccio indirizzato a Washington è del 23 luglio 1992, quattro giorni dopo l’uccisione del procuratore Paolo Borsellino: «L’ultimo massacro della mafia contro il simbolo delle speranze dei siciliani ha scioccato e ulteriormente infiammato la gente, ormai stanca dell’influenza mafiosa che pesa sul futuro». Il console generale americano a Palermo Mann nel suo messaggio (numero “P231430Z Jul 92”, from Amconsul Palermo to AmEmbassy Rome and SecState WashDc) avverte la segreteria di Stato: «Sono il governo e il sistema politico, che la gente valuta nel loro fallimento... La reputazione internazionale dell’Italia, già messa a dura prova dall’omicidio di Falcone, viene ulteriormente scalfita dall’uccisione di Borsellino e dall’apparente incapacità del governo e delle istituzioni politiche nel definire un piano d’azione contro la minaccia». Carteggi riservati sull’Italia delle stragi. Le bombe di mafia commentate dagli americani in una serie di comunicazioni che cominciano il 26 maggio 1992 – appena dopo Capaci – e si chiudono il 2 luglio 1993, quando sono passati meno di due mesi dal massacro di via dei Georgofili. Ci sono dentro i morti di mafia ma ci sono anche personaggi sospettati di mafiosità come Giulio Andreotti. Documenti riservati e recuperati al Dipartimento di Stato americano dal professore Andrea Spiri della Luiss di Roma, una ricostruzione di quei mesi di terrore vista con gli occhi degli americani. A Roma tremano, a Washington mettono in allarme tutte le sedi consolari in Italia. L’ambasciatore Peter Secchia – è il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio – incontra il nuovo procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra (il magistrato che deve indagare sulle uccisioni di Falcone e Borsellino) e riferisce al governo americano: «Non ha nascosto di essere sotto pressione…». E informa Washington che il procuratore ha chiesto l’intervento dell’Fbi nelle indagini sugli attentati. Da Palermo è ancora il console Mann che, il 20 luglio, inoltra un altro dispaccio alla segreteria di Stato: «Borsellino era stato identificato poco prima dell’omicidio Falcone come l’obiettivo di un assassinio commissionato dalla mafia stessa, stando alle rivelazioni di mafioso in carcere che sta collaborando con le autorità giudiziarie». Borsellino, un delitto annunciato. L’Italia è nel caos. Passano alcuni mesi e alla procura di Palermo mettono sotto accusa per mafia l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti. È il 27 marzo del 1993, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato è datata 14 aprile. L’uomo politico italiano più importante dal dopoguerra – 7 volte capo del governo e 21 volte ministro della Repubblica – chiede un incontro con l’ambasciata americana. Il primo luglio del ‘93, «l’incaricato d’affari riceve a pranzo il presidente Andreotti e il suo ex capo di gabinetto, Riccardo Sessa». Per gli americani, è un incontro riservato. Annotano all’ambasciata di via Veneto nel dispaccio numero P021616Z: «Abbiamo spiegato in modo chiaro che il pranzo doveva intendersi come un incontro privato e che non avrebbe dovuto essere strumentalizzato per scopi mediatici». Il report ha questo titolo: «L’accusato. Parla Andreotti». Il testo riportato è all’inizio una lunga autodifesa: «Andreotti ha fatto presente che negli anni ‘70, nelle sue vesti di presidente del Consiglio, ha fatto trasferire i principali detenuti per mafia (compreso il pentito Buscetta, uno dei suoi attuali accusatori) da Palermo in un carcere di massima sicurezza. Egli era a capo del governo anche nel momento in cui il giudice antimafia Falcone fu portato a Roma come funzionario del ministero della Giustizia. Più tardi, sulla scia dell’assassinio di Falcone, il suo governo ha varato la normativa che si è rivelata così efficace negli ultimi mesi. La mafia, ha detto Andreotti, si sta vendicando di lui». Poi gli americani annotano altre parole di Andreotti: «Questa vendetta viene sfruttata dai politici della Rete di Orlando, alcuni dei quali egli ha descritto come molto vicini alla mafia, e da vecchi comunisti implacabili come il presidente della Commissione parlamentare antimafia (Luciano Violante, ndr)...». Le accuse dell’ex presidente del Consiglio non si fermano lì: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Gli americani chiedono ad Andreotti se è ancora convinto, dopo l’esecuzione di Salvo Lima, dell’estraneità agli ambienti mafiosi del suo amico siciliano: «Lui ha risposto di non avere mai avuto prova evidente di un simile rapporto, sostenendo che le dichiarazioni sul punto rese dai pentiti non sono chiare e convincenti». Ma ad un certo punto è Andreotti a fare domande. Viene segnalato nel report: «Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai». Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure «che è stato un errore» aver diffuso quella nota. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi «possano essere resi pubblici». Messaggi con sue conversazioni «di alto livello e sensibili».

Così il Divo fregò anche gli Usa. Dai file rivelati da WikiLeaks emerge come la diplomazia americana non riuscisse a capirci molto del potente politico democristiano: e alla fine, estenuata dai suoi misteri, preferiva puntare su Forlani e Cossiga, scrive Stefania Maurizio il 7 maggio 2013 su “L’Espresso". Per tutti è l'uomo dei misteri d'Italia. E Giulio Andreotti resta un personaggio difficilmente decifrabile anche quando si hanno in mano le carte per raccontarlo. Settecentocinquantanove documenti contenuti nel giacimento dei "Kissinger Cables" di WikiLeaks, che vanno dal 1974 al 1976 e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva per l'Italia in collaborazione con "Repubblica", ne restituiscono – manco a dirlo - un'immagine enigmatica. Non è il leader democristiano che ha una strategia di lungo corso che gli americani combattono con le unghie e con i denti, com'è Aldo Moro (che la diplomazia Usa vede come fumo negli occhi per il suo dialogo con il Pci). Non è il cavallo di razza della Dc con cui gli americani hanno un rapporto di complicità, comE Francesco Cossiga, con cui via Veneto si appassiona a ragionare delle strategie migliori per evitare l'infiltrazione dei comunisti negli apparati dello Stato (dai servizi segreti all'Arma dei carabinieri). Non è «l'italiano più profondamente morale che l'ambasciata abbia mai conosciuto», come è il Dc Benigno Zaccagnini, un nemico per gli Usa perché troppo vicino a Moro e al portare al "compromesso storico". E allora chi è il Giulio Andreotti che esce dai "Kissinger Cables"? Un grigio sacerdote del potere. Intelligente, certo. Ma piatto come un contabile e sprovvisto di quell'arguzia che, da noi, lo ha reso celebre per battute memorabili. L'uomo che ha incarnato il Potere granitico e immarcescibile, il depositario dei segreti della Repubblica, esce dai "Kissinger Cables" come un personaggio evanescente. Non un file che lo sorprenda a parlare con gli americani con slancio, come fa Cossiga. Non un documento che colpisca per una sua analisi, un'invettiva o anche un commento velenoso contro un avversario politico. Dov'è il Belzebù, il luciferino custode degli arcana imperii? Nel database non c'è traccia. Tutto quello che i cablo ricompongono è un mosaico di mosse, riti e trattative quotidiane, che parcellizzano l'enorme potere del personaggio: Andreotti sembra riuscire a camuffarlo e farlo sparire anche da qui. Per gli americani, certo, è un amico. Quando nel 1974 la Grecia, appena uscita dalla stagione dei Colonnelli, minaccia di uscire dalla Nato, gli Usa si affidano alla mediazione dell'allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti: «Uno dei nostri migliori amici in Italia", scrive l'ambasciatore John Volpe al Dipartimento di stato. E poi: «Sono fiducioso che lui voglia sinceramente essere utile". Il segretario Henry Kissinger, allora, autorizza via Veneto a fare un briefing con il ministro sulla vicenda, ma senza lasciargli in mano alcun documento. Forse anche gli americani temevano i suoi archivi. Sono anni di scandali, stragi e trame. La diplomazia americana non gli perdona il suo comportamento nello scandalo del Sid, i potenti servizi segreti di Vito Miceli, al centro di mille disegni eversivi. «La gestione di Andreotti dell'affare Sid, che ha portato all'arresto dell'ex capo Miceli", scrivono, "ha provocato notevoli critiche da parte dei circoli moderati e conservatori e militari, come anche un violento attacco da parte del partito neofascista Msi". Secondo quanto riportato sui cablo, è per questa gestione che Andreotti viene fatto fuori come ministro della Difesa nel 1974. E gli americani non sembrano affatto dispiaciuti. Tutti gli arresti che ruotano intorno all'eversione di destra - da Amos Spiazzi, dell'organizzazione neofascista "Rosa dei Venti", fino quella di Miceli - irritano moltissimo gli americani, convinti che «questa caccia alle streghe in corso» avvantaggi la sinistra, che può usarla a livello mediatico. Sull'anticomunismo di Andreotti, però, gli Stati Uniti non hanno dubbi: «E' uno dei pochi leader Dc che ha la capacità di guidare nel migliore dei modi la Dc contro i piani del compromesso storico con il Pci», scrivono. Allo stesso tempo, però, sono consapevoli che, politicamente, è un realista, «un politico furbo», con cui devono relazionarsi in modo «franco ed energico». Dopo le elezioni del giugno 1976, quelle del rischio del "sorpasso storico" del Pci di Berlinguer sulla Dc, «Andreotti sottolinea che è necessario guardare alla realtà della politica italiana e che la Dc di trova ora davanti alla possibilità che il Partito comunista formi un governo con i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, i radicali e democrazia proletaria. Di fronte a questa situazione la Dc o lavora a un accordo con il Pci, o va all'opposizione o indice nuove elezioni». Ma poiché né Andreotti né i colleghi credono che le ultime vie alternative siano percorribili, «sarebbe meglio cercare di accomodarsi con il Pci in un modo che non implichi alcun ruolo di governo per i comunisti in Italia». Di fronte a questo lucido realismo, gli americani replicano in modo franco ed fermo, giocando la carta del ricatto finanziario: «Sarebbe molto difficile per gli Stati Uniti e, presumibilmente, per gli altri partner europei fornire assistenza economica e di altro tipo all'Italia nel caso in cui il Pci avesse un importante ruolo nella formazione del governo», chiarisce l'ambasciatore Usa con Andreotti, sottolineando che la politica dell'America rimarrà la stessa negli anni a venire, indipendentemente da un'amministrazione democratica o repubblicana. Giulio Andreotti ne prende atto e consiglia agli americani di coltivarsi Bettino Craxi e i socialisti in funzione anticomunista. Proprio quel Craxi che poi lo ribattezzò 'Belzebù' per le sue trame luciferine. Il database non lascia dubbi su chi sono gli uomini su cui, nel '76, punta la diplomazia americana per tenere l'Italia al riparo dai comunisti: Andreotti, Craxi e Forlani, quest'ultimo è il leader che vogliono alla guida della Dc. Non l'onestissimo Zaccagnini, pericolosamente vicino a Moro. Puntano su Forlani, ma non vogliono «appoggiarlo apertamente, perché sarebbe controproducente» e forse «verrebbe usato per confermare le speculazioni che nel 1972, quando era segretario di partito, ha avuto a che fare con la Cia». Quanto a Craxi, gli Usa sembrano prendere sul serio i consigli di Andreotti e sono particolarmente soddisfatti che «il suo [di Bettino] viscerale anticomunismo sia ben nascosto dall'occhio pubblico». Trenta anni dopo questi cablogrammi, Andreotti, Craxi e Forlani sono tramontati. E del 'divo Giulio' nei file di WikiLeaks che vanno dagli anni 2002 al 2010, si ricordano appena le sue traversie giudiziarie e che «è strettamente associato al Vaticano».

Nel labirinto delle stragi, scrive Attilio Bolzoni il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". In quei due mesi è accaduto molto ma non tutto. Dal 23 maggio al 19 luglio 1992, cinquantasette giorni, bombe e autobombe, ucciso Giovanni Falcone, ucciso Paolo Borsellino. Tanti i segreti che sono stati seppelliti in questo quarto di secolo, tante le verità che ancora l'Italia non conosce. A farci entrare nel labirinto delle stragi per il blog Mafie è Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica che con il suo sapere ci accompagna dall'Addaura ai grandi misteri che ancora si inseguono dopo venticinque anni. E' un lungo racconto ma non è solo un racconto. E' anche un ragionamento intorno a fatti e trame che portano Bellavia a un convincimento: per capire cosa è avvenuto nell'estate del 1992 non bisogna guardare indietro ma bisogna guardare avanti: «Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare». Delitti preventivi. Una ricostruzione divisa in una ventina di capitoli, vicende tutte legate una all'altra anche se lontane nel tempo. C'è l'intrigo della trattativa Stato-mafia e c'è l'oscura parentesi della dissociazione "morbida" che avrebbero voluto alcuni boss dopo la repressione poliziesca-giudiziaria che ha colpito Cosa Nostra, ci sono i retroscena di quel rapporto sugli appalti dei carabinieri dei reparti speciali con le grandi aziende del Nord in affari con Totò Riina, c'è il ricordo degli ultimi giorni del procuratore Borsellino che riceve le confidenze di Gaspare Mutolo e di Leonardo Messina. Un'estate del 1992 sospesa nel prima e nel dopo. Con eventi ancora oggi indecifrabili. Le telefonate di rivendicazione della famigerata Falange Armata. E il "suicidio" nel carcere di Rebibbia di Antonino Gioè, uno di quei mafiosi che partecipò alle fasi preparatorie dell'attentato di Capaci e che fu trovato cadavere ventiquattro ore prima delle esplosioni - il 27 luglio del 1993 - in via Palestro a Milano e davanti alle basiliche romane. Con l'apparizione improvvisa di personaggi che hanno depistato le inchieste sino ad affossarle. Come Vincenzo Scarantino, il "pupo vestito", il pentito fasullo di via D'Amelio creduto oltre ogni ragionevole limite da qualche poliziotto e da schiere di magistrati. Come Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo che ha spacciato informazioni tarocche per conto proprio o per conto terzi. Venticinque anni dopo - nonostante le inchieste giudiziarie e gli ergastoli che hanno rinchiuso per sempre nelle segrete del 41 bis i capi della Cupola - siamo ancora dentro il labirinto. Enrico Bellavia ci fornisce una guida per muoverci fra le ombre, ci fa capire qualcosa di più.

Quei delitti "preventivi", scrive Enrico Bellavia, Giornalista di Repubblica, il 16 luglio 2017. Nel rosario di sangue della Sicilia Anni Novanta è difficile rintracciare il primo dei grani. Figuriamoci l’ultimo. Ma da dove partire, però, se non dall’Addaura, dal fallito attentato a Giovanni Falcone: 21 giugno 1989. L’anno della grande delegittimazione di un bersaglio che su quella scogliera incontrò per la prima volta il tritolo: 58 candelotti in una borsa da sub. Immaginatela ora così la lenta agonia di un uomo che sa che la sua ora è arrivata con i boia, per coincidenze o deliberato calcolo, gli lasciano ancora tre anni di vita. Se vita è girare con la morte addosso. E con la danza macabra dei detrattori intorno. A Falcone avevano negato ogni cosa, una promozione, un incarico, un riconoscimento, perfino un salvacondotto. E quando, nel 1991 se lo era trovato da solo andandosene a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, direttore degli Affari Penali, ecco che il ballo era ripreso con più vigore. Archiviato in un soffio quel vento di libertà che il primo maxiprocesso, la sua creatura, frutto del suo metodo, aveva regalato al Paese, Falcone era tornato ad essere solo e unicamente un bersaglio. Dei nemici, di tanti colleghi, della politica. Mafia e antimafia erano lì a disputarsi le sue spoglie in vita. A parare e a schivare, a rispondere anche per lui, uno dei pochi, pochissimi amici, che gli fosse davvero rimasto accanto: Paolo Borselllino. Ma Falcone, era deciso, doveva morire: per il maxiprocesso, certo, ma per impedire che potesse colpire ancora e più in alto di prima. Guardiamo ai morti di mafia sposando sempre la tesi della vendetta, sicuri che al passato bisogna guardare per capire, quasi che l’omicidio trovi all’indietro la ragione della sua essenza. Non rendendocene conto, ricalchiamo ciò che accade in Cosa Nostra quando i bravi ragazzi credono o fingono di credere a ciò che i capi raccontano. Così il piombo è sempre una risposta, la reazione, legittima dal loro punto di vista, a un’offesa pregressa. E invece nelle stragi, in quella di Capaci e ancora di più in quella di via d’Amelio, è avanti che bisogna guardare per capire. Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare. Delitti preventivi, sì. Questo sono state le stragi e le premesse che le hanno rese possibili sono lì a raccontarlo. Molte, troppe domande, lungo questa storia sono senza risposta. Ma proviamo a ripassarle. Perché ogni interrogativo è uno snodo, un bivio di quel labirinto nel quale ogni anfratto è un capitolo che rimanda agli altri. Che si porta dietro dubbi collegati ad altri dubbi. Incarnati dai personaggi noti e meno noti che però hanno lasciato le loro impronte in più di un passaggio di questo dedalo. 

Talpe, spie e traditori, continua Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. L’Addaura, partiamo allora da lì, lasciando in ombra il contesto e tirando fuori alcuni fatti e alcune domande irrisolte. Chi avvertì i sicari di Cosa nostra che il giudice avrebbe fatto ritorno a casa a quell’ora - nella sua villa sul litorale di Palermo per concedersi una pausa e deliziare i suoi ospiti durante una rogatoria - con i magistrati elvetici che indagavano sul riciclaggio della mafia in Svizzera? Chi fu la talpa che corse a informare lo squadrone di sub pronti all’attacco che sì il tritolo poteva essere piazzato a quell’ora in riva al mare, nel punto in cui, Falcone si sarebbe immerso? Sappiamo adesso, perché lo disse Falcone, che a salvargli la vita fu un giovane poliziotto che lavorava al commissariato San Lorenzo. Si chiamava Nino Agostino. Lo uccisero il 5 agosto 1989, quarantasei giorni dopo il fallito attentato dell’Addaura. Dal suo armadio sparirono delle carte importanti che un collega confessò al telefono di aver distrutto. Il padre si ricordò di aver visto una settimana prima nei pressi di casa del figlio uno strano personaggio, uno con "la faccia da mostro", presentatosi a cercarlo insieme con un collega poliziotto. Bisogna tenere bene a mente questo particolare perché avremo modo di tornarci. Con Agostino morì la moglie incinta, Ida Castelluccio. E, uccidendola, eliminarono con ogni probabilità l’unica testimone diretta dell’avventura umana di un servitore dello Stato al lavoro nell’avamposto più ostile e infido che si potesse immaginare.Talpe e spie dappertutto intorno ad Agostino, pronte a impedirgli di rivelare in che modo si fosse imbattuto nella notizia che gli permise di evitare la strage dell’Addaura. Un altro ragazzo ci rimise la vita: si chiamava Emanuele Piazza. Lavorava già nei "servizi". Ma i suoi capi per lungo tempo hanno negato. Era agli inizi, in prova, e si era gettato nell’impresa di dare la caccia ai latitanti. Faceva base al commissariato San Lorenzo, lo stesso in cui lavorava Agostino. In palestra, Piazza aveva agganciato Francesco Onorato, il pugile, superkiller della cosca dei Madonia di San Lorenzo e dei Galatolo, loro fidi alleati: due piedi nella mafia ma, come vedremo, molte orecchie tra gli sbirri. Ligio al dovere, Piazza, passava le informazioni ai superiori. Dopotutto era stato il superpoliziotto Luigi De Sena, al vertice del Sisde, poi anche parlamentare del Pd, a ingaggiarlo. Glielo aveva presentato il suo autista, un ispettore che finirà condannato per aver favorito i Graviano di Brancaccio. Un giorno di marzo del 1990, Piazza lasciò la porta di casa aperta come se fosse uscito con qualcuno che conosceva per rientrare poco dopo. Non tornò più. Chi tradì Piazza? Chi tradì Agostino? E chi aveva tradito una prima volta Falcone?

I giudici: «Via D’Amelio fu il più grande depistaggio della storia». Lo scrivono, nelle motivazioni della sentenza del processo quater sulla strage costata la vita al giudice, i giudici di Caltanissetta. Il riferimento è ad Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato. «Collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa», scrive l'1 luglio 2018 "Il Corriere della Sera". «C’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende». Lo scrivono, nelle motivazioni della sentenza del processo quater sulla strage costata la vita al giudice, i giudici di Caltanissetta. Il personaggio a cui la Corte d’assise fa riferimento è Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato.

Il depistaggio. Nella motivazione della sentenza grande spazio ha avuto la storia del depistaggio delle indagini, passato attraverso l’induzione a mentire di tre falsi pentiti, e del ruolo che, nel condizionamento dell’inchiesta avrebbe avuto La Barbera, nel frattempo deceduto. La Barbera, secondo la corte, ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». Per la corte l’agenda del magistrato, da lui custodita in una borsa e scomparsa dal luogo dell’attentato, «conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci».

Pressioni. Per i giudici il depistaggio è passato attraverso l’induzione a mentire di personaggi come Vincenzo Scarantino. «Un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri». Le pressioni degli inquirenti, secondo i giudici della Corte d’assise - fecero venir meno le «residue capacità di reazione» di Scarantino che accusò della strage, insieme ad altri due falsi pentiti, sette innocenti.

Vincenzo Scarantino. «Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Nero su bianco, per la prima volta, i giudici di Caltanissetta scrivono del clamoroso depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino. Nelle motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, depositate sabato sera, la corte d’assise dedica un lungo capitolo al falso pentito Scarantino. Scarantino, imputato di calunnia insieme a due altri falsi pentiti, è uscito dal processo per la prescrizione del reato a lui contestato. Gli altri due collaboratori di giustizia, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, sono stati condannati a 10 anni. Il depistaggio delle indagini è costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti, poi scarcerati e scagionati nel processo di revisione. Per la strage erano imputati i boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia, entrambi condannati all’ergastolo. La prescrizione per Scarantino è scattata perché i giudici gli hanno concesso l’attenuante riconosciuta a chi commette il reato indotto da altri. I giudici, nelle motivazioni della sentenza, parlano di «suggeritori» esterni, soggetti che avrebbero cioè imbeccato il falso pentito inducendolo a mentire. «Soggetti, - scrivono - i quali, a loro volta, avevano appreso informazioni da ulteriori fonti rimaste occulte».

Forzature e anomalie. La Corte d’assise del processo Borsellino quater accusa gli investigatori di aver compiuto «una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte». «Le anomalie nell’attività di indagine - aggiungono - continuarono anche nel corso della collaborazione dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla ritrattazione della ritrattazione, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero». «Questo insieme di fattori - proseguono i magistrati riferendosi alla valutazione che delle parole di Scarantino fece l’autorità giudiziaria - avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il metodo Falcone».

Via D'Amelio, fu un depistaggio di Stato. "I falsi pentiti e l'agenda rossa, un solo mistero". Via D'Amelio, teatro della strage che uccise Paolo Borsellino e i poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Le motivazioni della sentenza Borsellino quater. "E' uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana". L'ex questore La Barbera accusato anche della sparizione del diario di Borsellino. La procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio per tre poliziotti, scrive Salvo Palazzolo l'1 luglio 2018 su "La Repubblica". "Soggetti inseriti negli apparati dello Stato" indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. "È uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana", accusano i giudici della corte d’assise di Caltanissetta, che ieri hanno depositato le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater: 1.856 pagine, dodici capitoli, un lavoro minuzioso di ricostruzione firmato dal presidente Antonio Balsamo e dal giudice a latere Janos Barlotti, che rappresenta una tappa importante nel difficile percorso di ricerca della verità, perché fissa in maniera chiara i misteri ancora irrisolti e indica una strada per proseguire le indagini. Indagini che puntano al cuore dello Stato. Scrive la corte: "È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi". Gli uomini dello Stato chiamati in causa sono alcuni investigatori del gruppo Falcone e Borsellino guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera: dovevano scoprire i responsabili delle bombe, invece costruirono a tavolino alcuni falsi pentiti. La corte non crede per ansia di giustizia e di risultato. No. Vennero suggerite a Scarantino "un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero". Il furto della 126 rubata mediante la rottura del bloccasterzo è la verità che ha poi raccontato nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza. Come facevano i suggeritori a sapere la storia della 126? "È del tutto logico ritenere — scrivono ora i giudici — che tali circostanze siano state suggerite a Scarantino da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte". Chi ispirò i suggeritori? La corte ricorda che il 13 agosto 1992, il centro Sisde (il servizio segreto civile) di Palermo, comunicò alla sede centrale che "la locale polizia aveva acquisito significativi elementi sull’autobomba". E ancora la corte rileva "l’iniziativa decisamente irrituale" dell’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra di chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del Sisde, poi arrestato per mafia dai pm di Palermo nel dicembre del 1992. "Una richiesta di collaborazione decisamente irrituale — ribadisce la sentenza — perché Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria". Tanta "rapidità nel chiedere la collaborazione di Contrada già il giorno immediatamente successivo alla strage — scrivono ancora i giudici — a cui fece seguito la mancata audizione del dottore Borsellino nel periodo dei 57 giorni" che gli rimasero da vivere. E col Sisde collaborava anche il capo della Mobile La Barbera, pure questo ricorda la sentenza. E viene scritto, per la prima volta: c’è un "collegamento tra il depistaggio dell’indagine e l’occultamento dell’agenda rossa di Borsellino". Perché per i giudici La Barbera è anche "intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre". Ci furono dunque poliziotti infedeli che pilotarono il falso pentito per finalità tutte da scoprire. Ma ci furono anche magistrati distratti. La corte d’assise non fa nomi, però scrive: "Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata". E viene ricordato che due pm, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, avevano scritto una nota ai colleghi per segnalare "l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino su via D’Amelio". Ma restarono inascoltati. Accadde di peggio. A nessun magistrato della procura nissena sembrò strano che "La Barbera facesse dei colloqui investigativi con Scarantino nonostante avesse iniziato a collaborare con la giustizia". Si farà un processo per il depistaggio nelle indagini di via D'Amelio. Imputati, il dottore Mario Bo, oggi in servizio a Gorizia, e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Nei giorni scorsi, il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e il sostituto Stefano Luciani hanno chiesto il rinvio a giudizio per i tre poliziotti del gruppo di La Barbera. 

Di Maio: «La mafia è un atteggiamento, anche di banche e uomini dello Stato». L’affondo del vicepremier dopo l’incontro con l’imprenditore calabrese Nino De Masi, simbolo della lotta all’usura, scrive Giuseppe Gaetano il 2 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". «La mafia è un atteggiamento prima di tutto, non solo di un’organizzazione ma anche di alcune banche, come dimostrano le sentenze giudiziarie che riconoscono l’usura, e di alcuni uomini e organizzazioni dello Stato». Luigi Di Maio parla dopo l’incontro con l’imprenditore antimafia Nino De Masi, che «ha firmato accordi al Mise con esponenti del governo, ma le banche se ne sono infischiate: se la parola dello Stato non vale nulla, c’è qualcosa che non va» aggiunge, riferendosi al contenzioso di De Masi con Monte dei Paschi di Siena. «Ci sono multinazionali che prendono incentivi, danno la loro parola sull’occupazione e poi abbandonano lo Stato - continua il ministro del Lavoro -. Li hanno abituati male, noi esigiamo rispetto: questo governo non sarà mai con gli imprenditori che hanno campato con i soldi pubblici e poi ci hanno mollato per andare all’estero, anche quando i loro bilanci non erano in crisi».

L’imprenditore anti-banche. Nino De Masi, imprenditore 55enne attivo nella movimentazione dei container al porto di Gioia Tauro, è impegnato già dalla fine degli anni ‘80 nella lotta alla ‘ndrangheta. Nei primi anni Duemila denunciò anche le principali banche italiane per abuso di ruolo dominante; dal 2013 è sotto scorta e il suo stabilimento è presidiato dall’esercito, a causa delle gravi intimidazioni ricevute dalla criminalità organizzata. Per questo è diventato nel tempo un simbolo della battaglia contro l’usura bancaria e le cosche malavitose, e l’emblema della volontà di continuare vivere e lavorare in una terra tormentata dalla corruzione e dal malaffare, la Calabria, nonostante le minacce. «Molti vorrebbero farmi la pelle ma io persevero» ha dichiarato anche oggi, prima di entrare al dicastero di via Veneto per illustrare due suoi progetti: una public company a fini sociali e non speculativi, contro la violenza delle mafie; e un programma per far diventare i dipendenti soci negli utili aziendali, così da «portare ricchezza e alzare un muro di protezione» verso i lavoratori, scoraggiando nel frattempo i clan. «Se gli imprenditori italiani sono eroi, quelli del Sud sono supereroi» afferma Di Maio. De Masi non è il primo industriale “arruolato” dal M5S: a inizio legislatura è stata affidata una consulenza all’uomo d’affari brianzolo Sergio Bramini, fallito per colpa dello Stato, che aveva accumulato debiti nei suoi confronti per oltre 4 milioni di euro.

Le reazioni. E’ Forza Italia, nell’opposizione, a reagire alle frasi di Di Maio: «Ha superato ogni limite, il ministro del lavoro che non ha mai lavorato in vita sua pensa di essere ancora in campagna elettorale» afferma l’europarlamentare Stefano Maullu, bocciando le parole come «insultanti e irresponsabili». «Si rende conto di quello che dice? Se ha le prove faccia nomi e cognomi - aggiunge la deputata azzurra, Elvira Savino - altrimenti la smetta di gettare fango sulle istituzioni della repubblica».

Perché dietro Via D'Amelio c'è il più grande depistaggio della storia. I giudici della Corte d'Assise di Caltanissetta hanno depositato le motivazioni del processo Borsellino quater, scrive Barbara Massaro il 2 luglio 2018 su "Panorama". L'ultimo tassello che manca a completare il mosaico è anche il più importante: perché uomini di Stato hanno favorito quello che i giudici hanno definito "Il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana" e soprattutto quali erano "i poteri forti" dietro la messinscena orchestrata dall'ormai scomparso regista che ha curato le prime indagini avviate dopo la strage di Via d'Amelio del 19 luglio 1992 nel corso della quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti della scorsa?

Chi era Arnaldo La Barbera. Quel "regista" era l'allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, l'uomo chiave dell'intera vicenda, colui che avrebbe indotto il suo pool investigativo a creare a tavolino, sfruttando la collaborazione di finte gole profonde di Cosa Nostra, una versione dei fatti comoda, quella che poi ha portato alla condanna all'ergastolo di sette innocenti. Nonostante si trattasse di verità ormai passate in giudicato i P.M. Stefano Luciani e Gabriele Paci, spinti dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, avevano riaperto le indagini sulla strage arrivando alla storica sentenza del Borsellino quater nel marzo 2017, quella che ha portato alla condanna all'ergastolo per strage aSalvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni di prigione per calunnia a Francesco Andriotta e Calogero Pulci. 

La versione di Scarantino. Sono stati loro i finti collaboratori di giustizia che, insieme al finto pentito Vittorio Scarantino, per oltre 20 anni hanno depistato le indagini sulla strage. I reati contestati a Scarantino, però, sono ormai caduti in prescrizione e, anche grazie alle attenuanti che si concedono a chi è stato indotto a delinquere, non finirà in prigione. Dopo 14 mesi la Corte d'Assise di Caltanisetta ha depositato sabato le 1856 pagine che motivano la sentenza e che iniziano a dare forma e consistenza a un depistaggio senza precedenti nella storia italiana.

Le domande ancora senza risposta. Tante, però, sono le domande che restano ancora senza risposta e che puntano al cuore stesso dello Stato. Perché La Barbera ha orchestrato tutto il depistaggio? Perché Scarantino è stato indotto a dire il falso? Chi doveva essere coperto? E soprattutto: su cosa aveva messo le mani il procuratore aggiunto Paolo Borsellino? Nelle motivazioni della sentenza si legge: "Sono state favorite una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell'agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà, se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte" e poi viene aggiunto: "È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi". Gli "elementi" in questione sono proprio La Barbera e il suo pool investigativo che nei giorni immediatamente successivi alla strage hanno avuto comportamenti che ora, dopo 20 anni di depistaggi e false verità, appaiono in tutta la loro contraddittoria evidenza. Perché, ad esempio, si legge ancora nel documento "La Barbera faceva dei colloqui investigativi con Scarantino nonostante egli avesse iniziato a collaborare con la giustizia?". Perché nei 57 giorni che rimasero da vivere a Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci nessuno chiese un'audizione al più stretto collaboratore di Giovanni Falcone? Perché l'allora procuratore di Caltanisetta Tinebra chiese, invece, la collaborazione del numero 3 del Sisde Bruno Contrada? "Una richiesta di collaborazione decisamente irrituale — sottolinea la sentenza — perché Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria". 

L'agenda rossa di Borsellino. Secondo la Corte la scatola nera dell'intera vicenda era l'agenda rossa di Borsellino - quel diario che racchiudeva tutti le informazioni riservate raccolte dal giudice nel corso del suo lavoro - e che è scomparsa dal luogo della strage. I giudici scrivono: "C'è un collegamento tra il depistaggio dell'indagine e l'occultamento dell'agenda rossa di Borsellino". Perché per la Corte La Barbera è anche "intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre". Quindi secondo la ricostruzione La Barbera avrebbe fatto sparire (per ordine di chi?) l'agenda di Borsellino e avrebbe poi indotto Scarantino a false dichiarazioni suggerendo al presunto pentito una versione dei fatti compatibile con la realtà e arricchita da dettagli che in realtà Scarantino non poteva conoscere, ma che gli sono stati detti dal pool investigativo. "È del tutto logico ritenere - scrivono ora i giudici - che tali circostanze siano state suggerite a Scarantino da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte."

Un teatrino studiato nei minimi dettagli. Quindi poliziotti corrotti o collusi avrebbero indotto falsi pentiti a tracciare una pista resa plausibile anche dall'indolenza di magistrati che non hanno visto o voluto vedere quello che era palesemente un depistaggio. La Corte d'Assise di Caltanisetta ricorda anche i P.M. Ilda Bocassino e Roberto Saieva avevano inviato già allora una nota ai colleghi siciliani per avvertirli della scarsa attendibilità del pentito Scarantino, eppure sono rimasti inascoltati. Alla luce della sentenza Borsellino quater si farà a breve un processo per depistaggio che vede imputati i più stretti collaboratori di La Barbera e cioè il funzionario di polizia Mario Bo e gli agenti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. La data dell'udienza non è ancora stata fissata, ma le indagini sarebbero già in una fase molto avanzata.

I mandanti esterni della strage di via d'Amelio, scrive il 02 Luglio 2018 Giorgio Bongiovanni su Antimafia duemila. Il 19 luglio 1992, in via d'Amelio, è andata in scena una vera e propria strage di Stato. Ecco quel che è accaduto ormai 26 anni fa. Le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Caltanissetta sul processo Borsellino quater mettono in evidenza i contorni del depistaggio e di quelle zone d'ombra su cui oggi è necessario far luce. La mafia ha eseguito materialmente una parte della strage ma, possiamo dirlo, è sempre più evidente che non fosse da sola. Quando intervistai il collaboratore di giustizia, Totò Cancemi, mi disse che “Riina è stato preso per la manina per fare le stragi”. I giudici nisseni, parlando dell'accelerazione sulla strage, appena 57 giorni dopo quella di Capaci, hanno ricordato le parole dell'ex boss di Porta nuova, il quale aveva spiegato che da giugno 1992 i "discorsi" su Borsellino diventarono più pressanti e che lo stesso capo dei capi si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito il giudice. E anche le parole del collaboratore Nino Giuffré sui sondaggi e le "tastate di polso" esterne a Cosa nostra non possono essere dimenticate. Ed è espressamente chiarito che il magistrato palermitano "rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con 'Cosa Nostra'". Quindi, senza entrare nel merito della questione "trattativa Stato-mafia" (oggetto di altro procedimento su cui si è espressa lo scorso 20 aprile la Corte d'assise di Palermo -, i giudici scrivono che "appare incontestabile come la strage di Via D’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da vinti al tavolo della trattativa per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre". Come giustamente ha ricordato Saverio Lodato le sentenze di Palermo e di Caltanissetta hanno il merito di mettere alla luce le responsabilità che pezzi di Stato e delle istituzioni hanno avuto negli anni delle bombe. Il "nodo” dei mandanti esterni si intreccia anche con la scomparsa dell'agenda rossa ed il depistaggio che è stato definito come il "più grande della storia". I processi che si sono fin qui celebrati hanno offerto una parte della verità. E non è un caso se anche la sentenza del "quater" riprende le motivazioni del "Borsellino ter". Proprio in quest'ultimo si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d'Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri; ma anche del fatto (così come riferiva sempre Cancemi) che Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare "ora e in futuro", e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga "un bene per tutta Cosa nostra". La motivazioni della sentenza, depositate sabato, affrontano anche il tema degli "elementi di verità" con cui è stato imboccato Scarantino chiarendo che il depistaggio, così come aveva spiegato il pm Nino Di Matteo in Commissione antimafia, era iniziato immediatamente dopo la strage (due anni prima dal momento in cui Di Matteo si era occupato delle indagini). Una "pista" viene indicata in seno a quei Servizi di sicurezza che già il giorno dopo la strage furono coinvolti direttamente dal Procuratore capo di Caltanissetta, Gianni Tinebra. Fu lui a chiedere aiuto per le indagini all'ex numero due del Sisde Bruno Contrada. E pesano come macigni le note che lo stesso Servizio segreto civile diffuse proprio nelle prime fasi delle indagini. La prima è quella del 13 agosto 1992 dove il Centro di Palermo comunicava alla Direzione del Sisde di Roma che “a seguito di ‘contatti informali’ con gli investigatori della Questura di Palermo, anticipazioni sullo sviluppo delle indagini relative alla strage di via d’Amelio circa gli autori del furto della macchina ed il luogo ove la stessa ‘sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato'”. Un'informazione incredibile tenuto conto della tempistica che precede di diverso tempo la comparsa sulla scena di Candura e Scarantino (ufficialmente le prime fonti di accusa che portavano in direzione della Guadagna). Poi ci sono le note del 17 ottobre '92, firmata da Lorenzo Narracci (vice capocentro del Sisde di Palermo), in cui venivano inseriti i nomi di Luciano Valenti, Roberto Valenti e Salvatore Candura; e sempre di ottobre è la nota del centro Sisde di Palermo che informò gli uffici centrali del servizio e quindi la Questura di Caltanissetta circa le parentele mafiose “importanti” di Scarantino. Tra queste non vi era solo il cognato Salvatore Profeta, uomo d’onore della famiglia mafiosa di S. Maria di Gesù ma che con Scarantino non aveva alcun legame di collaborazione criminale. L'intelligence ipotizzava, infatti, una lontana, ma mai accertata, parentela con la famiglia Madonia di Resuttana. Ci fu dunque una spinta dei Servizi verso quella falsa verità? La Corte d'Assise punta il dito contro gli investigatori ed in particolare contro l'allora Capo della Polizia, Arnaldo La Barbera, stabilendo un collegamento anche con la vicenda della sparizione dell'Agenda Rossa. 

Misteri su misteri. Questi elementi, a cui si aggiungono le dichiarazioni coincidenti tra Gaspare Spatuzza e Scarantino sulle modalità del furto dell'auto e del ricovero in un garage; ma anche gli aspetti riguardanti la presenza di un uomo "non appartenente a Cosa nostra" (così come riferito dall'ex boss di Brancaccio) nel momento dell'imbottitura di esplosivo della macchina; o le intercettazioni tra il pentito Mario Santo Di Matteo e la moglie dove si parlava di "infiltrati della polizia"; sollevano inquietanti interrogativi. E sembra incredibile che, dopo 26 anni, ancora non sappiamo con assoluta certezza chi ha premuto il pulsante del telecomando che fece saltare in aria Borsellino e gli agenti di scorta. Giustamente i familiari delle vittime tornano a chiedere ulteriori indagini e che si faccia verità e giustizia su questi fatti. In particolare oggi, intervistata da Il Fatto Quotidiano e La Repubblica, Fiammetta Borsellino parla della sentenza come di un "punto di partenza". La figlia del magistrato chiede "risposte tangibili e non parate in occasione del 19 luglio, per l'anniversario della morte di mio padre e dei poliziotti". A Repubblica ha lasciato anche alcuni dei quesiti che rivolgerebbe a figure come Giuseppe Ayala ("che nel 1992 era parlamentare, vorrei chiedere perché ha fornito sette versioni diverse dei momenti successivi alla strage, in cui si trovò fra i primi in via D'Amelio a tenere in mano la borsa di papà. E poco dopo scomparve l'agenda rossa") e come Ilda Boccassini ("anche lei in quel periodo a Caltanissetta, ed era fra i pm che non credeva a Scarantino, vorrei chiedere perché autorizzò dieci colloqui investigativi dell’allora capo della Mobile La Barbera proprio con Scarantino, nonostante avesse già iniziato a collaborare con la giustizia"). Quindi è tornata a chiedere al Csm e al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che "si faccia luce sulle responsabilità dei magistrati nelle indagini" ricordando che "Alcuni dei magistrati che hanno avallato il falso pentito continuano a ricoprire incarichi importanti. Anna Palma è avvocato generale di Palermo, Carmelo Petralia è procuratore aggiunto a Catania". Poi però inciampa quando torna a chiedersi se "sia stata una scelta corretta da parte dei magistrati dell’accusa quella di non depositare subito il confronto tra il falso pentito Vincenzo Scarantino e il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi che lo sbugiardava". Un richiamo, di fatto, ai pm di allora Palma e Di Matteo. Per rispondere a questa domanda va ricordato che il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”. Di questi episodi lo stesso pm Nino Di Matteo ha riferito sia di fronte alla Commissione parlamentare antimafia che al processo Borsellino quater. Sentito come teste nel 2015 il pm Di Matteo aveva spiegato con dovizia di particolari il criterio usato nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino da parte dei magistrati: “Noi credevamo che Scarantino fosse a conoscenza di alcuni segmenti dell'organizzazione materiale e della preparazione dell'attentato e che avesse detto la verità nei primi tre interrogatori, quelli precedenti al 6 settembre '94 dove si parla della riunione nella casa di Calascibetta. Pertanto nel 'Borsellino Bis' avevamo chiesto di non utilizzarlo quando non era riscontrato”. E in Commissione parlamentare antimafia aveva ricordato anche il processo di revisione, in merito all'accusa di strage, per sette imputati del Borsellino bis. "Nessuno ricorda - disse allora - che già all'esito del processo di primo grado di quel troncone, via d'Amelio bis (sentenza di primo grado del 13 febbraio 1999) 6 dei 7 soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d'Assise di primo grado. Tutti fingono di dimenticare che per 3 posizioni di quelle 6 erano stati gli stessi pubblici ministeri (Di Matteo e Palma, ndr) a chiedere l’assoluzione". E va ricordato che Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis”, dove entrò a dibattimento già avviato. Diversamente istruì in toto le indagini sul “Borsellino ter”, che abbiamo ricordato in precedenza, che ha portato alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale. E non va dimenticato l'impegno profuso nella ricerca dei mandanti esterni per le stragi del 1992, anche assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi con le indagini sulla presenza di Bruno Contrada per concorso in strage o quelle su "Alfa e Beta" (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri). Elementi che messi insieme dimostrano come il pm Nino Di Matteo non ha nulla a che vedere con il depistaggio ordito sulla strage di via d'Amelio. Alla luce di questi fatti, con il rispetto per la legittima e sacrosanta pretesa di verità che Fiammetta Borsellino grida allo Stato sulla morte del padre, ancora una volta esprimiamo il nostro pensiero. Sarebbe auspicabile che la figlia del giudice riconoscesse l'oggettiva estraneità del pm Di Matteo al depistaggio. Parole e fatti che hanno un peso e, senza i distinguo, la macchina del fango si mette in moto a scapito della ricerca della verità. Ciò detto soprattutto per evitare di isolare magistrati, come Nino Di Matteo condannato a morte dai capi di Cosa nostra.

Borsellino Quater: collegamenti tra scomparsa agenda rossa e depistaggi di Stato, scrive Lorenzo Baldo su Antimafia duemila l'1 Luglio 2018. Ampio risalto ad uno dei misteri più inquietanti di via d’Amelio nella sentenza depositata.

Una connessione. E’ quello che scrivono i giudici della Corte di Assise di Caltanissetta (Presidente Antonio Balsamo, giudice a latere Janos Barlotti) nella motivazione del Borsellino Quater quando si riferiscono ai “collegamenti” tra la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino e il depistaggio di Stato nelle indagini sulla strage di via d’Amelio. Un depistaggio che – come aveva ribadito in Commissione antimafia il pm Nino Di Matteo – era iniziato subito dopo la strage (due anni prima dal momento in cui Di Matteo si era occupato delle indagini) per creare prove false, con una sorta di “fonte” della Polizia capace di fornire notizie, anche vere, da mettere in bocca al “pupo” Vincenzo Scarantino.

Quell’agenda trafugata. Fari puntati quindi sulla “sottrazione” dell’agenda rossa che il dott. Borsellino “aveva con sé al momento dell’attentato” e che “conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”. Cosa poteva aver scritto in quella agenda Paolo Borsellino? Quali possibili intuizioni su quel “dialogo” tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, di cui aveva accennato a sua moglie Agnese prima di essere assassinato assieme ai cinque agenti della sua scorta, potevano essere state trascritte in quelle pagine? “Poiché l’attività di determinazione così accertata ha consentito di realizzare uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana – evidenziano i giudici nel documento di 1856 pagine – è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento”. Quale regia occulta ha impostato questa strage e per quale motivo? Per mantenere uno status quo funzionale a determinati sistemi di potere che hanno trattato con la mafia? Domande che restano senza risposta. Brucianti interrogativi su quella “eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra ‘Cosa Nostra’ e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”. Tornano in mente le parole dell’ex boss Salvatore Cancemi che aveva raccontato agli investigatori che Totò Riina “era stato preso per la manina” dallo Stato per fare le stragi. Ma per fare luce su queste trattative manca sempre un “pentito di Stato”. Che, per paura o mero calcolo, continua a rimanere sulla riva del fiume in attesa che passi la piena.

Rutilius e l’agenda rossa. Ma chi c’è tra quei personaggi “inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti” del depistaggio? Leggendo la sentenza non ci sono dubbi: il principale protagonista è l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera che per i giudici ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell'agenda rossa”. Va subito ricordato che nel 2010 sul conto dell’ex Dirigente della Mobile di Palermo era emerso un dato inquietante e cioè che La Barbera era stato affiliato al Sisde dall’86 all’88 con il nome in codice di “Rutilius”. Un’affiliazione avvenuta grazie all’interessamento del suo amico all’interno del Servizio civile, Luigi De Sena. Quella collaborazione evidentemente non si era interrotta nel 1988, tanto che la procura di Caltanissetta lo aveva definito un “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio” nelle indagini su via d’Amelio.

Il ruolo di Giovanni Arcangioli. Viene altresì definito “molto grave” il comportamento dell’allora Capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo “immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage”, il pomeriggio del 19 luglio 1992, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, “con in mano proprio la borsa del Magistrato” (di Paolo Borsellino, ndr). Nel documento si legge che l’ufficiale dei Carabinieri, ammetteva la circostanza “senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione - dal suo punto di vista - in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché”. Per i giudici si tratta di un’affermazione “scarsamente credibile” e anche “in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”. Nelle note viene comunque sottolineato che il Capitano Arcangioli è stato prosciolto dall’accusa di furto dell’agenda rossa, aggravato dalla finalità mafiosa, con sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup di Caltanissetta il 1° aprile 2008, confermata dalla Corte di Cassazione il 17 febbraio 2009. Un proscioglimento che non ha affatto chiarito la sua ambigua deposizione davanti ai magistrati definita “ben poco convincente”. Nelle sue prime dichiarazioni del 2005 il teste spiegava che il 19 luglio ‘92 sarebbe stato informato dall’ex pm Giuseppe Ayala, oppure dal magistrato Vittorio Teresi, “più probabilmente dal primo dei due” del fatto “che esisteva un’agenda tenuta dal dottor Paolo Borsellino e che, su specifica richiesta, andava a controllare all’interno dell’automobile blindata, dove effettivamente rinveniva la borsa in pelle di color marrone, sul pianale dietro al sedile del conducente”. Secondo il suo racconto, dopo aver prelevato la borsa dall’automobile blindata, portandola dove stavano Ayala e Teresi, “uno dei due predetti magistrati aprì la borsa”. Dentro la quale secondo Arcangioli “non vi era alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta”, dopodichè avrebbe incaricato uno dei propri sottoposti “di mettere la borsa nella macchina di servizio di uno dei due Magistrati predetti (Ayala e Teresi, ndr)”. La prima incongruenza riguarda la presenza dello stesso Teresi che arrivò invece in via d’Amelio quasi due ore dopo lo scoppio dell’autobomba, mentre Ayala sopraggiunse subito dopo il boato in quanto abitava poco vicino. Ma sono ben altri i misteri racchiusi in quei minuti frenetici a ridosso dello scoppio della Fiat 126. Per quale motivo la valigetta di Paolo Borsellino - che Arcangioli teneva in mano mentre si allontanava da via d’Amelio - ricompare dopo alcuni minuti nella macchina del giudice assassinato? Chi dà l’ordine di riportarla lì priva del suo prezioso contenuto? In quel momento in via d’Amelio erano sopraggiunti il commissario Paolo Fassari (primo dirigente della polizia di Stato, funzionario reperibile per la squadra mobile di Palermo in assenza del dirigente Arnaldo La Barbera) e l’assistente capo di polizia, Francesco Paolo Maggi. Dopo aver espletato alcune attività investigative Francesco Maggi si era avvicinato alla Croma di Borsellino. La portiera posteriore sinistra era aperta e sul sedile posteriore era appoggiata la valigetta del magistrato. Lo stesso Maggi aveva raccontato di averla prelevata dall’auto, e di averla portata in Questura su indicazione di Fassari. Certo è che per il Gip nisseno Ottavio Sferlazza, che nel 2008 aveva iscritto Arcangioli nel registro degli indagati con l’accusa di furto aggravato, quello sarebbe stato il secondo prelevamento della valigetta. Secondo la ricostruzione giudiziaria la prima persona che recupera la valigetta di Borsellino sul sedile posteriore è l’agente di scorta di Giuseppe Ayala, Rosario Farinella. Dal canto suo l’ispettore Francesco Paolo Maggi aveva dichiarato di averla trovata “sul pianale posteriore dietro il sedile passeggeri”. A detta del gip nisseno la sparizione dell’agenda rossa andava collocata “in una fase certamente precedente all’intervento dell’ispettore Maggi”, una sparizione “chiaramente ascrivibile all’ufficiale dell’arma dei carabinieri Arcangioli Giovanni”. Ma la Cassazione è stata di tutt’altro avviso. Resta però in piedi un dato oggettivo: verso le ore 18.30 del 19 luglio ‘92 la valigetta di Paolo Borsellino si materializza nell’ufficio del dirigente della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Ma al suo interno non c’è l’agenda rossa.

Una (tardiva) relazione. Su questo punto specifico vale la pena di rileggere un altro passaggio della sentenza. “Un vigile del fuoco, non meglio identificato (dell’età di circa quarant’anni), seguendo le disposizioni di Maggi, spegneva il focolaio d’incendio che interessava la Fiat Croma blindata, che aveva già lo sportello posteriore sinistro aperto. Il fuoco cominciava ad attingere anche la borsa che era all’interno dell’abitacolo, in posizione inclinata, fra il sedile anteriore del passeggero e quello posteriore. La borsa, bruciacchiata ma integra, veniva prelevata (quasi sicuramente) dal predetto vigile del fuoco, che la passava a Maggi. Nei pressi non vi era il dottor Giuseppe Ayala (pure notato e riconosciuto dal teste, prima di allontanarsi dalla via d’Amelio). Il poliziotto poteva constatare che la borsa era piena, anche se non ne controllava il contenuto all’interno. Maggi consegnava la borsa al proprio superiore gerarchico, rimasto all’inizio della via d’Amelio (lato via Dell’Autonomia Siciliana) a comunicare, via radio, con gli altri funzionari. Quest’ultimo funzionario (trattasi del menzionato dottor Fassari della Sezione Omicidi) teneva la borsa del Magistrato fino a quando, ad un certo punto, rivedendo il sottoposto, gli ordinava di portarla subito negli uffici della Squadra Mobile. Così faceva il Maggi, che la portava dentro l’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera (dove entrava con l’aiuto dell’autista del dirigente), lasciandola sul divano dell’ufficio”. Ma del ritrovamento della valigetta di Borsellino, né Arcangioli, né nessun altro, aveva immediatamente redatto una relazione. Solamente cinque mesi dopo sarebbe stata stilata “su esplicita richiesta del dottor Arnaldo La Barbera ed unicamente in vista dell’audizione (pochi giorni dopo) del teste (Maggi, ndr) davanti al Pubblico Ministero di Caltanissetta, Fausto Cardella”.

Le (troppe) parole di Ayala. Veri e propri vuoti di memoria sono quelli dell’ex pm del Maxi processo. “Il teste – scrivono i giudici – (non senza alcune difficoltà mnemoniche) spiegava che non sapeva nemmeno che Paolo Borsellino teneva un’agenda nella quale annotava le proprie riflessioni più delicate”. “Comunque, Ayala escludeva decisamente d’aver guardato dentro alla borsa di Paolo Borsellino, che pure passava fugacemente fra le sue mani, così come escludeva d’averla portarla via sulla autovettura blindata della propria scorta”.Per comprendere meglio il mancato apporto di Ayala alla ricerca della verità sulla scomparsa dell’agenda rossa basta riprendere il confronto tra quest’ultimo e Arcangioli al Borsellino Quater. Parole, parole e ancora parole per modificare le proprie versioni dei fatti, o semplicemente per dire di non ricordare. Come nel caso della ricostruzione di Ayala con riferimento all’incontro in via d’Amelio con il cronista Felice Cavallaro. Stesso discorso per le contraddizioni emerse durante la deposizione di Ayala mentre ricordava i momenti in cui il suo agente di scorta Roberto Farinella apriva la portiera della Croma di Borsellino. “Lo stesso Farinella – scrivono i giudici – prelevava direttamente la borsa dal sedile posteriore e, dopo un certo lasso di tempo in cui la teneva in mano, su indicazione di Ayala, la consegnava ad una persona – in abiti civili – conosciuta dal Parlamentare (anche questo ricordo del teste contrasta decisamente con quanto affermato da Ayala ed anche da Cavallaro, in merito alla consegna della borsa ad un ufficiale in uniforme, neppure conosciuto). Il soggetto che riceveva la borsa non era Giovanni Arcangioli (la cui fotografia veniva mostrata al teste) ed era una persona conosciuta da Ayala”.

La presenza dei Servizi in via d’Amelio. “Mentre si diradava il fumo – si legge nella sentenza – si potevano notare quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: si trattava, a dire del teste (l’ispettore Francesco Paolo Maggi, ndr), di appartenenti ai Servizi Segreti, alcuni dei quali conosciuti di vista da Maggi e già notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci”. Per i giudici questa circostanza, prima della deposizione dibattimentale, “era assolutamente inedita, nonostante le diverse audizioni precedenti del teste, in fase d’indagine preliminare”. La presenza di appartenenti ai Servizi Segreti, in via d’Amelio, a pochi minuti dalla deflagrazione, viene evidenziata riprendendo le dichiarazioni dell’ispettore di Polizia Giuseppe Garofalo rese in udienza il 5 febbraio 2015. “L’agente dei Servizi Segreti chiedeva (a Garofalo, ndr) se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano”. L’analisi finale dei giudici è tranciante: “L’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere le persistenti zone d’ombra sull’argomento, anche per le notevoli ambiguità e la scarsa linearità di alcuni dei testimoni assunti, sovente in contraddizione reciproca fra loro. Non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del Magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa Nostra), che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste”.

In conclusione. “Già nell’immediatezza della strage – si legge nella conclusione del capitolo che riepiloga i punti salienti – attorno all’automobile blindata del Magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti”. Ma proprio chi notava la presenza “oggettivamente anomala, se non altro per i tempi” di quegli esponenti dei Servizi “non riteneva di riferire alcunché ai propri superiori gerarchici od ai Pubblici Ministeri (la circostanza, come detto, veniva affermata dal Sovrintendente Maggi, per la prima volta in assoluto, nel dibattimento di questo processo, oltre vent’anni dopo i fatti; anche il Vice Sovrintendente Garofalo veniva sentito, per la prima volta, dalla Procura di Caltanissetta, nell’anno 2005)”. I giudici nisseni ribadiscono quindi che ai familiari di Paolo Borsellino “non veniva mai notificato alcun verbale di sequestro della borsa del loro congiunto ed alla vedova veniva mentito, considerato che il dottor Arnaldo La Barbera le diceva che detta borsa era andata distrutta nella deflagrazione, sebbene risulti (come detto) che il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992”. E soprattutto, chi portava la valigetta di Borsellino nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo “non riteneva di dover fare alcuna relazione di servizio (almeno fino a cinque mesi dopo), né di dover far rilevare che vi erano degli appartenenti ai Servizi Segreti sullo scenario della strage”. Alcuni mesi dopo la strage Arnaldo La Barbera si recava personalmente a casa della signora Agnese Piraino, per la restituzione della borsa del marito. Una restituzione che “avveniva in maniera irrituale e frettolosa (ancora una volta, non veniva redatto alcun verbale, né consta alcuna relazione di servizio)”. In quella occasione, di fronte alle richieste della figlia, Lucia Borsellino, di riavere indietro anche l’agenda rossa del padre (che non risultava presente dentro la borsa fra gli altri suoi effetti personali), il Dirigente della Squadra Mobile di Palermo “con un atteggiamento infastidito e sbrigativo, affermava, in maniera categorica (ed apodittica), che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire; a fronte dell’insistenza della ragazza (che usciva persino dalla stanza, sbattendo la porta), il dottor Arnaldo La Barbera, con la sua voce roca, diceva alla vedova che sua figlia necessitava di assistenza psicologica, in quanto ‘delirava’ o ‘farneticava’. Un atteggiamento, questo, che rivelava non solo una impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche una aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino, nel suo forte e costante impegno di ricerca della verità sulla morte del padre”. Domande di estrema gravità, alle quali questo Stato ha l’obbligo morale di dare una volta per tutte delle risposte definitive.

L’urlo di Fiammetta Borsellino: “Basta parate il 19 luglio, il Csm apra indagini su Ayala e altri”, scrive il 2 luglio 2018 Il Sicilia. “Alla luce della pubblicazione delle motivazioni della sentenza, gli chiederò che sia fatta luce sulle responsabilità dei magistrati nelle indagini e nei processi sulla morte di mio padre. A noi e alla mia famiglia il Consiglio ha sempre risposto picche”. Fiammetta Borsellino, intervistata dal Fatto Quotidiano e da Repubblica, dopo il deposito della sentenza sul Borsellino quater si appella al Presidente Sergio Mattarella. E si rivolge al Consiglio superiore: “Cosa fa il Csm? Perché questo reiterato silenzio sui magistrati che hanno avallato il falso pentito Scarantino?”. La figlia del magistrato chiede “risposte tangibili e non parate in occasione del 19 luglio, per l’anniversario della morte di mio padre e dei poliziotti”. A Repubblica spiega che quel giorno “la famiglia Borsellino si chiuderà in una commemorazione strettamente privata, per sancire un lutto rinnovato dalle nefandezze che stanno emergendo”. Afferma che la sentenza del Borsellino quater “non è un punto di arrivo, ma di partenza, che il Csm deve acquisire al più presto. Alcuni dei magistrati che hanno avallato il falso pentito continuano a ricoprire incarichi importanti. Anna Palma è avvocato generale di Palermo, Carmelo Petralia è procuratore aggiunto a Catania”. “Al magistrato Giuseppe Ayala, che nel 1992 era parlamentare, vorrei chiedere perché ha fornito sette versioni diverse dei momenti successivi alla strage, in cui si trovò fra i primi in via D’Amelio a tenere in mano la borsa di papà. E poco dopo scomparve l’agenda rossa”, aggiunge. Spiega anche che insisterà per incontrare nuovamente in carcere i fratelli Graviano. Fonte: ANSA.

La figlia di Borsellino: «Ora indagate sui pm!». Fiammetta Borsellino attacca, facendo nomi e cognomi e chiede l’intervento del presidente della Repubblica e del Csm, perchè si accertino le responsabilità «dei magistrati che controllavano e coordinavano le indagini», scrive Giulia Merlo il 3 luglio 2018 su "Il Dubbio". Chiede l’intervento del presidente della Repubblica e del Csm, Fiammetta Borsellino, facendo nomi e cognomi. All’indomani delle motivazioni della sentenza Borsellino quater sulla strage di via D’Amelio che costò la vita al padre, in cui i giudici hanno scritto che l’indagine fu inquinata da «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», la famiglia Borsellino alza la voce, con un’intervista su Repubblica. «Queste motivazioni non sono un punto d’arrivo, ma di partenza. Bisogna andare avanti processualmente per accertare le responsabilità di chi ha commesso i reati, ma anche dei magistrati che controllavano e coordinavano le indagini», ha detto Fiammetta, scandendo i nomi di quei magistrati che 26 anni fa avallarono il falso pentito Vincenzo Scarantino: «Anna Palma è avvocato generale di Palermo, Carmelo Petralia è procuratore aggiunto a Catania». Si rivolge poi anche a Ilda Boccassini, che nel 1992 era a Caltanissetta e «autorizzò dieci colloqui investigativi dell’allora capo della Mobile La Barbera proprio con Scarantino», e al magistrato Giuseppe Ayala, parlamentare all’epoca della strage che «fornì sette versioni diverse dei momenti successivi alla strage, in cui si trovò tra i primi in via D’Amelio a tenere in mano la borsa di papà». Proprio la borsa che conteneva la famosa agenda rossa, sparita misteriosamente e a cui – secondo i giudici d’appello di Caltanissetta – è legato anche Scarantino. Fiammetta Borsellino non parla di ipotesi di reato a carico degli inquirenti ma di «lacune gravissime e inaudite, sicuramente funzionali a quello che è successo». Per questo chiama in causa il Csm, chiedendosi il perchè del «reiterato silenzio sui magistrati che hanno avallato il falso pentito Scarantino», e lo stesso Mattarella, in qualità di presidente del Csm, perchè faccia da «garante che questo (il Csm ndr) assolva i propri compiti istituzionali, cosa che fino a oggi non ha fatto». La richiesta è chiara: «Il fascicolo che a settembre era stato aperto sui magistrati non può restare vuoto. Bisogna fare chiarezza sulle gravi lacune procedurali che configurano addebiti di carattere disciplinare, messe in risalto dalle motivazioni del Borsellino quater». A rispondere positivamente alla fi- glia del magistrato è intervenuto il togato di Area al Csm, Antonello Addituro, il quale ha chiesto al Comitato di presidenza di «aprire una pratica in Sesta Commissione, competente anche sulla materia antimafia, relativa a quanto emerso dalla sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta nel processo Borsellino quater». Ardituro ha anche sollecitato l’acquisizione formale da parte di Palazzo dei Marescialli della sentenza in cui si parla di «gravi depistaggi» nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Intanto, la procura nissena ha chiesto il rinvio a giudizo per concorso in calunnia dei poliziotti infedeli Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, sottoposti dell’allora capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, morto 15 anni fa e pesantemente implicato in molti dei misteri che ancora si affollano intorno all’indagine sulla strage di via D’Amelio. La chiamata in causa della magistratura inquirente da parte della figlia di Borsellino è stata immediatamente raccolta dal Partito Democratico e da Liberi e Uguali, on il deputato dem Carmelo Miceli che ha chiesto che «il Parlamento vari entro il prossimo 19 luglio, anniversario della morte di Paolo Borsellino, la Commissione antimafia e questa, come primo atto, convochi in audizione la figlia Fiammetta». Anche Erasmo Palazzotto (Leu) ha chiesto che la Commissione parlamentare antimafia «si occupi di ricostruire questa pagina oscura della storia d’Italia». Fortificata dalla sentenza di Caltanissetta, Fiammetta Borsellino ha ribadito che insisterà per incontrare di nuovo in carcere i fratelli Graviano nonostante qualche magistrato, al momento del primo incontro, avesse ipotizzato il rischio di inquinamento delle prove: «Non sono un magistrato, in carcere non parlo di indagini. Vedo solo una grande speranza negata». Una speranza che, forse, potrebbe essere meno flebile, ora che i magistrati nisseni hanno per la prima volta squarciato il velo di silenzio sui depistaggi della strage.

Via d’Amelio, nelle motivazioni i depistaggi nell’inchiesta sull’omicidio di Paolo Borsellino: martedì il caso al Csm. Dopo l'appello in un'intervista al Fatto della figlia del magistrato assassinato, Palazzo dei Marescialli spiega che "il comitato di presidenza dispose l’apertura di una pratica, già lo scorso 28 settembre, trasmettendo alla I commissione, la nota della dottoressa Fiammetta Borsellino e la richiesta del Comitato al Presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta di invio della sentenza Borsellino quater (all’epoca non ancora depositata)", scrive il 2 luglio 2018 "Il Fatto Quotidiano". Dopo l’appello di Fiammetta Borsellino, il Consiglio superiore della magistratura “si occuperà della vicenda” legata alla strage di via d’Amelio “alla luce del deposito della sentenza”. A comunicarlo è una nota di Palazzo dei Marescialli, in cui si specifica che il caso sarà discusso dal comitato di presidenza. Il Csm spiega anche che “il comitato di presidenza dispose l’apertura di una pratica, già lo scorso 28 settembre, trasmettendo alla I commissione, la nota della dottoressa Fiammetta Borsellino e la richiesta del Comitato al Presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta di invio della sentenza Borsellino quater (all’epoca non ancora depositata)”. Il deposito è arrivato sabato scorso. Più di 1.800 pagine in cui i giudici della corte d’assise di Caltanissetta definisco l’inchiesta sull’omicidio di Paolo Borsellino come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Il presidente Antonio Balsamo e il coestensore Janos Barlotti insistono in particolare su tre punti sui quali “è lecito interrogarsi”: la copertura delle “fonti occulte’’ delle notizie trasmesse a Scarantino sulla dinamica del furto e del caricamento della 126 (totalmente estraneo alla strage, Scarantino rivelò agli inquirenti “un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero”, dalla rottura del bloccasterzo per rubare la 126 alle targhe false applicate nella carrozzeria di Orofino. Chi gliele trasmise?), la sparizione dell’agenda rossa e “l’eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato’’. Su queste parole lavorerà adesso Palazzo dei Marescialli. A sollecitare l’intervento dell’organo di autogoverno della magistratura è stata la figlia del magistrato assassinato in un’intervista al Fatto Quotidiano.  “Ho cercato al telefono il presidente Mattarella per rivolgergli un appello in qualità di presidente del Consiglio superiore della Magistratura. Non sono riuscita a trovarlo ma spero di potergli parlare e gli farò un appello perché intervenga sul Csm. Alla luce della pubblicazione delle motivazioni della sentenza, gli chiederò che sia fatta luce sulle responsabilità dei magistrati nelle indagini e nei processi sulla morte di mio padre. A noi e alla mia famiglia il Consiglio ha sempre risposto picche”, sono le parole di Fiammetta, che insieme ai fratelli Lucia e Manfredi già nel settembre scorso aveva scritto a Palazzo dei Marescialli. E il Csm aveva aperto una pratica in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza con cui il 20 aprile del 2017 erano stati condannati all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni percalunnia i falsi collaboratori di giustizia Francesco Andriotta e Calogero Pulci.

Salvatore Borsellino su sentenza via d'Amelio: ''Depistaggio di Stato''. ''A Scarantino messi in bocca elementi di verità. Chi poteva conoscerli?'', scrive Aaron Pettinari su Antimafia duemila il 2 Luglio 2018. "La cosa più grave di questo depistaggio di Stato è che questo conteneva degli elementi che erano veri. Scarantino è stato addestrato letteralmente sulla macchina 126 rubata rompendo il blocca sterzo, con i collegamenti dei fili esterni, ed anche su un garage dove la macchina è stata portata. Erano elementi veri e qualcuno conosceva queste verità. Invece di adoperarle per poter arrivare alla verità e alla giustizia è stato istruito un falso pentito per mediare le indagini ed arrivare in un'altra direzione". E' così che Salvatore Borsellino ha commentato ieri le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, depositate dalla Corte d'assise lo scorso sabato. Il fratello del giudice ucciso in via d'Amelio, il 19 luglio 1992, assieme agli agenti di scorta è stato intervistato da Sky TG24 rispondendo a diverse domande. "Io non smetterò mai di combattere per la verità e la giustizia - ha aggiunto - Gli elementi di verità c'erano. Chi poteva conoscerli? Solo chi in qualche maniera aveva partecipato alla preparazione della strage; oppure era in contatto con chi aveva attuato la strage. Questa è l'unica possibilità e questo è peggio di tutto il resto. Che c'erano fonti che erano a conoscenza di quello che era avvenuto". Borsellino, che ha detto di non aver perso la speranza che si arrivi ad una verità completa su questi fatti, ha anche evidenziato che ci sono stati dei magistrati che "non sono responsabili del depistaggio ma in qualche modo lo hanno avallato. Un depistaggio che era assolutamente certo perché gli stessi mafiosi dicevano che mai avrebbero affidato ad uno come Scarantino il compito delicato di una strage come quella di Borsellino. E parlo di Tinebra che era a Capo dei pm e che ha affidato a Bruno Contrada, già il giorno dopo l'attentato, le indagini. Contrada non era una persona della polizia giudiziaria ma un uomo dei servizi segreti e questo è assolutamente irrituale". Borsellino ha anche ribadito che l'ex numero due del Sisde è stato condannato per concorso esterno e che la Cassazione, adottando la sentenza della Corte di Strasburgo, ha semplicemente espresso che la condanna a Contrada è inapplicabile e priva di effetti penali. Ma i fatti per cui lo stesso era stato condannato restano. "Si dice che è stato assolto ma non è così - ha proseguito Borsellino - E lo stesso dicono ancora di Giulio Andreotti, anche se per lui il reato è stato soltanto prescritto". Tornando a parlare della richiesta di verità e giustizia Borsellino ha detto che "a 76 anni non posso certo fermarmi ma anche se non riuscirò a vederla io l'importante è che la vedano i miei figli, i figli dei miei figli e i tanti giovani che incontro nelle scuole. A loro è riservato il mio impegno perché se gli aduli non hanno capito certe cose fino ad oggi dubito che riusciranno a capirle". Infine Borsellino ha parlato anche dell'impegno che la politica deve avere nella lotta contro la mafia: "Le chiedo se lei ha mai sentito un leader politico che prima delle elezioni abbia messo la lotta alla mafia come punto principale del suo programma, cosa che a mio avviso in Italia sarebbe indispensabile. Non è mai successo, non c'è stata mai una vera volontà di combattere la mafia migliorando e portando avanti quei provvedimenti legislativi che erano nati proprio grazie al lavoro di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Tutto questo non c'è mai stato, non c'è stata mai una volontà corale dei Governi che si sono succeduti dalla fine della guerra ad oggi di combattere veramente la mafia". Quindi, al governo in carica, ha chiesto "due parole, verità e giustizia. Sono cambiate tante cose in quest'ultima tornata elettorale, ci sono tanti giovani e io dei giovani mi fido e spero che riescano a cambiare tante cose. Anche perché tanti di questi giovani io li ho incontrati nei meetup. Quando all'inizio, 20 anni fa, andavo in giro per l'Italia a parlare di verità e giustizia, erano solo loro a invitarmi, Luigi Di Maio era stato uno di quei ragazzini, veri e propri ragazzini, che mi avevano invitato a Pomigliano d'Arco per parlare di verità e giustizia". Alla domanda se ora proprio Di Maio sia "un interlocutore del Governo, oggi, in questo senso", Salvatore Borsellino ha risposto: "Sì, io sicuramente spero che sia un mio interlocutore, come spero che sia un mio interlocutore quella Giulia Sarti che era stata anche lei un'attivista delle Agende Rosse e che oggi è presidente della commissione Giustizia alla Camera, quindi tante cose sono cambiate e tante spero che ancora cambino".

È morta Rita Borsellino La sorella del magistrato. È morta Rita Borsellino. Si è spenta a 73 anni dopo una lunga malattia in un ospedale di Palermo, scrive Luca Romano, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". Sorella del giudice Paolo Borsellino ucciso dalla mafia in via D'Amelio nel 1992 è stata europarlamentare del Pd dal 2009 al 2014. Nelle regionali del 2006 fu candidata per la presidenza della Regione siciliana con il centrosinistra sfidando Totò Cuffaro. Da sempre in prima linea per la lotta alla mafia aveva un motto che ripeteva sempre: "La memoria è vita che si coltiva ogni giorno". Una frase che aveva detto anche nella sua ultima uscita pubblica lo scorso 18 luglio costretta ormai su una sedia a rotelle. Rita Borsellino era malata da tempo e negli ultimi mesi le sue condizioni erano molto peggiorate. Oggi pomeriggio il decesso all'ospedale Civico di Palermo, dove, con ogni probabilità verrà allestita la camera aderente. Dal 1994 assieme all'ARCI Sicilia e in seguito con la collaborazione di Libera aveva contribuito all'ideazione e alla crescita dell'iniziativa "La Carovana Antimafie", un'esperienza ormai di carattere internazionale che mira a "portare per tutte le strade" l'esperienza di un'antimafia propositiva che vuole incidere positivamente sulla realtà economica, sociale, amministrativa dei luoghi che attraversa stringendo intrecci solidali ed etici tra i cittadini, le istituzioni e le diverse realtà della società civile organizzata presenti sui territori. Nell'ultima parte della sua vita quel fare battagliero che l'aveva sempre accompagnata l'aveva abbandonata. Sembrava cupa nelle sue uscite pubbliche e sempre più sfiduciata nella ricerca della verità. Per fratello Paolo non voleva una verità ma "la verità".

Palermo, è morta Rita Borsellino: una vita contro la mafia e per l'impegno civile. Si è spenta all'ospedale Civico la sorella del giudice Paolo. Aveva partecipato a luglio alle commemorazioni di via D'Amelio, scrive Emanuele Lauria il 15 agosto 2018 su "La Repubblica". Si è spenta in ospedale a Palermo dopo una lunga malattia Rita Borsellino, sorella del magistrato Paolo. Borsellino, 73 anni, tre figli, farmacista, è stata europarlamentare del Partito democratico dal 2009 al 2014. Cordoglio dal mondo politico, a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "La memoria è vita che si coltiva ogni giorno". Quella frase che era qualcosa di più di un messaggio di impegno e speranza, che si era trasfigurato in "bene comune", Rita Borsellino l'aveva pronunciata anche nella sua ultima uscita pubblica, il 18 luglio, ormai costretta su una sedia a rotelle ma presente, ancora una volta, alla vigilia dell'anniversario dell'uccisione di Paolo e della sua scorta. Stanca ma con addosso il patrimonio immateriale costituito dal suo sguardo limpido, Rita aveva dato quel giorno l'ultima lezione di forza e compostezza, accanto alle nipoti Fiammetta e Lucia, davanti all'ulivo del ricordo che in via D'Amelio aveva fatto piantare la mamma. Quella forza, quella compostezza, hanno accompagnato il formidabile percorso della farmacista "costretta" dal sangue familiare alla ribalta, che non amava essere definita simbolo ma simbolo è stata due volte: della stagione della rivolta dopo le stragi e dell'epoca dell'ultima resistenza politica in Sicilia, quella del centrosinistra contro il cuffarismo. Un percorso cominciato la sera stessa della strage: "Andai a trovare mia madre a casa del suo cardiologo - ricordava Rita - e lei mi disse: "Vai dalle mamme degli agenti che sono morti con Paolo e cerca di capire di cosa hanno bisogno". Io sono sempre stata timidissima, ma da quel momento ho cominciato a partecipare ai dibattiti, ad andare nelle scuole, per non disperdere un messaggio". Il messaggio, appunto, contenuto in parole semplici: memoria, coerenza. "E quando, a fine 1994, mi chiamò don Ciotti per aderire a Libera - rammentò un giorno - cambiò la mia vita. Io, che non avevo viaggiato mai da sola, cominciai un lungo giro d'Europa per parlare di legalità". L'idea della politica, a quel tempo, era ancora lontana. Tanto meno di una politica di sinistra, lontana dalle idee politiche del fratello. "Ma l'impegno, la legalità, non hanno colore", amava ripetere. Pochi sanno che, prima ancora del debutto elettorale del 2006, Rita Borsellino era già stata chiamata una volta dai leader di partito: nel 2001. Prima che a Francesco Crescimanno, il centrosinistra pensò a lei: "Non mi ricordo chi fu a contattarmi, ma ricordo che allora non presi neppure in considerazione l'idea di uno sbarco in politica. Per carità - scherzò in un'intervista del 2011 -  non usi il termine "discesa in campo...". D'altronde, l'uomo che aveva coniato quell'espressione, Silvio Berlusconi, Rita Borsellino l'aveva letteralmente messo alla porta. Era il 10 ottobre 1994: "Venne Silvio Berlusconi a bussare al citofono di casa, in via D'Amelio. Ma io, dopo un attimo di esitazione, dissi al presidente del Consiglio che non potevo farlo salire. Lui insistette e mi chiese al citofono: "Cosa possiamo fare per battere la mafia?". Risposi: "Tutto, perché siete al governo". Da allora non l'ho più sentito". Ma la sorella di Paolo faceva risalire le ragioni del suo stare rinchiusa dentro il recinto del centrosinistra a quell'episodio. La seconda "chiamata" fu decisiva: nell'ottobre del 2006, di ritorno da Ginevra nel furgone della carovana antimafia, Rita comunicò ad Alfio Foti (il suo più stretto collaboratore) l'idea di una candidatura per le Regionali. Una candidatura portata avanti dai "cespugli" del centrosinistra, su cui i Ds inizialmente esitarono. Poi, dopo aver chiesto la disponibilità a correre per Palazzo d'Orleans persino a Sergio Mattarella, la Quercia decise di appoggiare Rita. L'Unione, allora si chiamava così, si spaccò perché la Margherita propose l'ex rettore forzista di Catania Ferdinando Latteri, che venne battuto alle primarie. E Borsellino, alle elezioni di giugno 2006, conquistò il risultato migliore ottenuto finora dalla coalizione: oltre il 41 per cento, quasi un milione centomila voti, solo 300 mila meno di Cuffaro. Dicono che fu troppo tenera con l'ex governatore già inquisito per mafia: "Macché, io dissi quel che dovevo sulla sua cultura di governo. Forse fu la coalizione a mostrarsi poco coraggiosa", commentò Rita. Cominciarono gli anni dell'Ars, per l'alieno gentile che con i cantieri tematici di "Un'altra storia" anticipò future esperienze dal basso (inclusa quella dei M5S): ma a Palazzo dei Normanni la sorella del giudice ucciso dalla mafia visse l'esperienza meno confortante. Era il portavoce dello schieramento ma solo sulla carta, dovette battersi per far sottoscrivere ai Ds la mozione di sfiducia a Cuffaro. E nel 2008 fu ingiustamente accusata di disimpegno nei confronti di Anna Finocchiaro: "Io invece tentai di non disperdere i voti di una sinistra perplessa rispetto a quella che si rivelò una candidatura sbagliata. Non so come sarebbe finita se mi avessero riproposta per la presidenza della Regione...". Sta nei fatti che Finocchiaro fece flop e Rita non riuscì per appena 700 voti (e malgrado un ricorso che fece tremare il Palazzo) a conquistare un posto all'Ars per la sua lista. Il riscatto alle Euopee del 2009, con un boom da 229mila voti, un bottino secondo solo a quello di Berlusconi nella circoscrizione. Anche negli anni grigi di Bruxelles, Rita Borsellino sapeva che un'offerta - la stessa declinata dieci anni prima - sarebbe arrivata: la proposta a candidarsi alla guida della sua città, Palermo. E fu, per lei, "la prova più difficile". Amara, controversa. La coalizione - guarda caso - si spaccò di nuovo. Un pezzo del Pd decise di sostenere Fabrizio Ferrandelli, lei si giocò le primarie con l'appoggio di Leoluca Orlando che inventò uno slogan ("Votate Borsorlando") e uno spot sul campo (i giri elettorali in autobus) ma non riuscì a farla vincere. E, in un clima di accuse per presunti brogli, l'attuale sindaco decise di candidarsi lui, in prima persona, al posto di Rita. Facendo infuriare la coalizione. Un passaggio politico che Rita Borsellino e i suoi uomini (fra cui, oltre Foti, l'ex assessore di Orlando Giovanni Ferro) presero molto male. Di certo, le tribolate elezioni comunali del 2012 hanno segnato la fine dell'esperienza politica di Rita Borsellino. Che da quel momento è tornata nelle scuole, lontana da una politica che l'aveva delusa: ha osservato, in silenzio, le evoluzioni del governo Crocetta (di cui ha fatto parte la nipote Lucia, poi uscita non senza rumore) e l'appannamento del movimento antimafia travolto da scandali e polemiche: "Sono sconcertata. Dobbiamo ammetterlo, è più onesto: c'è una parte della società che ha fatto della legalità una convenienza e io con questa antimafia delle apparenze non voglio avere nulla a che fare", disse nel 2015, in una delle rare dichiarazioni rilasciate sul tema, dopo l'avvio dell'inchiesta su Montante e l'arresto di Helg. Gli ultimi anni, quelli della malattia, sono stati pure quelli in cui più cupa e dolorosa si è fatta la ricostruzione dello scenario nel quale morì Paolo Borsellino. E lei, Rita, non ha perso la voce, nelle manifestazioni pubbliche, per chiedere "non una verità, ma la verità". Per stringersi attorno ai figli di Paolo. A Fiammetta, ultima portavoce dello sgomento di una famiglia che denuncia quel quarto di secolo "trascorso fra schifezze e menzogne". "Le parole di Fiammetta? Sono Vangelo", il commento di Rita che è morta ma è vissuta due volte, nell'impegno civile e in un centrosinistra che ne è rimasto irrimediabilmente debitore.

Rita Borsellino e l'obbligo della verità. Paolo diceva: «Ognuno deve fare la sua parte: ognuno nel suo piccolo, ognuno per quello che può, ognuno per quello che sa». Non ci sono alibi per nessuno. Ognuno si faccia strumento di verità se veramente vogliamo giustizia», scrive Rita Borsellino il 6 luglio 2012 su "L'Espresso". Sono trascorsi vent'anni da quel 19 luglio. Talvolta penso: già vent'anni. Come se fossero passati in fretta, tra testimonianze nelle scuole, volontariato, impegno civile e politico. Ma più spesso, guardando i ragazzi delle scuole che ascoltano con attenzione, mi rendo conto che questo tempo è più del tempo della loro vita e che ciò che ascoltano è terribilmente attuale. Ho incontrato qualche tempo fa un bel ragazzo alto, con il viso sereno e lo sguardo profondo. Indossava la divisa della Guardia di finanza. Si chiama Antonio Emanuele Schifani. Sì il figlio di Vito e di Rosaria. Nel '92 aveva pochi mesi e lo avevo tenuto in braccio. Non ha mai conosciuto il suo papà. La sua vita è segnata da quell'assenza. L'assenza: è quella che pesa di più... Nel '92 Paolo aveva 52 anni, io 47. Forse per me il momento più complicato di questi 20 anni è stato quando, compiendo io 52 anni, mi sono ritrovata a essere "grande". Paolo era fermo lì ed io dovevo continuare a crescere. E quante volte mi sono soffermata a pensare a ciò che comportava quel continuare a crescere. Sono diventata nonna di 5 splendide bambine che oggi hanno dai 6 mesi a 14 anni. Rappresentano la parte più bella della mia vita. A Paolo, insieme alla vita, è stata tolta anche questa gioia. E ai suoi nipoti è stato rubato un nonno straordinario... E tutto questo perché? Perché Paolo ci è stato tolto? Quando ho cominciato, già a settembre del '92, a parlare ai ragazzi, nelle scuole o altrove, la mia era soprattutto una testimonianza su ciò che era accaduto. Le circostanze, i tempi, i fatti. Come reagire, come fare in modo che tutto ciò che era accaduto potesse aiutare a costruire un futuro diverso... Sembrava che tutto ciò fosse a portata di mano. La società s'impegnava, le istituzioni sembrava cercassero le soluzioni utili a cambiare il corso delle cose. Mai più mafia e mafiosi avrebbero avuto vita facile. La ricerca della verità sembrava promettere soluzioni rapide e credibili... Ma il troppo entusiasmo non è sempre utile. Talvolta trae in inganno, porta a prestare attenzione ai particolari più appariscenti e non ad una visione di insieme più critica, più obiettiva. Chi ha approfittato di questo? Chi ha trasformato i collaboratori di giustizia in "pentiti" poco credibili dal punto di vista del senso comune dell'etica? Chi ha cominciato a demonizzare la magistratura, creando un senso di diffidenza generalizzato sul loro ruolo e sulle loro scelte? E mentre il dibattito si allargava e si politicizzava e le idee dell'opinione pubblica si confondevano, c'era chi, con grande abilità, si affrettava a svolgere un ruolo parallelo e perverso: la manipolazione della verità... Si è costruita una verità non vera per una giustizia non giusta. E quando si è costretti ad aggiungere aggettivi alle parole verità e giustizia, vuol dire che c'è qualcosa che non funziona...Cosa sa la classe politica, e non solo quella di vent'anni fa (anche perché troppo spesso coincide con quella di oggi) di patti inconfessabili e di trattative? Quali vite si sono volute risparmiare in nome di una inconfessabile ragion di Stato, sacrificando chi per la propria rettitudine e coerenza si sapeva di non potere comprare? In una società che ritiene che tutto si possa comprare e vendere, non c'è posto per i Paolo Borsellino. Eppure i nostri giovani e quella parte ancora sana della nostra società guarda ai pochi esempi credibili come punti di riferimento irrinunciabili... L'Italia ha bisogno di conoscere il suo passato e di elaborare il suo presente per potere costruire il suo futuro. Ha bisogno di verità, di coraggio, di assunzione di responsabilità. E questo riguarda tutti, ognuno di noi. Paolo diceva: «Ognuno deve fare la sua parte: ognuno nel suo piccolo, ognuno per quello che può, ognuno per quello che sa». Non ci sono alibi per nessuno. Ognuno si faccia strumento di verità se veramente vogliamo giustizia.

Stato-mafia, il reato di Ciancimino era prescritto: la Corte sbaglia i conti. A giorni arriveranno le motivazioni della sentenza sul processo “trattativa”, ma intanto dai verbali salta fuori un probabile, clamoroso errore sulla posizione del “superteste”, condannato per calunnia, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 18 luglio 2018 su "Il Dubbio". La Corte d’assise di Palermo, che il 20 aprile scorso ha emesso la sentenza del processo sulla “trattativa”, potrebbe non aver calcolato correttamente i tempi di prescrizione del reato di calunnia contestato a Massimo Ciancimino nei confronti dell’ex Capo della Polizia Gianni De Gennaro. Nell’ambito dello “Stato–mafia”, il superteste è stato condannato a 8 anni: le motivazioni della sentenza non sono ancora note, ma già il dispositivo sancisce che Ciancimino jr avrebbe manomesso uno dei documenti consegnati alla Procura di Palermo, nel quale appariva appunto il nome di De Gennaro. Il documento presentava un elenco di nomi di membri delle istituzioni che avrebbero avuto un ruolo nella presunta trattativa tra Stato e mafia. Interrogato il 15 giugno 2010, Ciancimino raccontò ai pm che quei nomi «appartenevano alla grande architettura, a chi insieme a mio padre (Vito, ex sindaco di Palermo, ndr) aveva manovrato la storia dell’ultimo ventennio. Appartenenti al quarto livello. Mio padre disse che se avessi fatto quei nomi sarei stato preso per pazzo e la mia vita sarebbe stata a rischio». Davanti ai suoi occhi, Vito Ciancimino aveva cerchiato il nome “Gross” e aggiunto il nome “De Gennaro”, collegando con una freccia il primo al secondo. Una perizia aveva evidenziato che il nome di De Gennaro sarebbe però stato aggiunto successivamente all’iniziale redazione del manoscritto: per questo motivo, il 21 aprile del 2011, Ciancimino, su richiesta della Procura palermitana, veniva arrestato con l’accusa di calunnia aggravata nei confronti di De Gennaro in quanto «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed al fine di avvantaggiare l’associazione mafiosa, con dichiarazioni rese al pubblico ministero presso il Tribunale di Palermo incolpava, sapendolo innocente, De Gennaro Giovanni, di avere, nella sua qualità di funzionario della polizia di Stato, intrattenuto costanti e numerosi rapporti illeciti con esponenti dell’associazione mafiosa Cosa nostra». Il manoscritto avrebbe dovuto costituire la prova della “doppia identità” dell’ex Capo della Polizia: avrebbe associato quest’ultimo al fantomatico “signor Franco”, l’uomo dei Servizi a cui sarebbe stata affidata la regia occulta della “trattativa” Stato-mafia. Ma a rivedere tutti i dati del processo – a giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza – la calunnia contestata a Ciancimino si sarebbe dovuta prescrivere il 15 dicembre del 2017. La Corte d’assise di Palermo ha aggiunto agli iniziali 7 anni e mezzo previsti per la prescrizione del reato di calunnia i periodi in cui il processo si è interrotto o sospeso. In effetti durante il dibattimento si sono verificate alcune cause interruttive della prescrizione: ad esempio, il rinvio delle udienze per l’adesione dei legali degli imputati alle astensioni indette dall’Unione Camere penali. Ma dall’analisi dei verbali d’udienza, che il Dubbio ha potuto consultare, pur considerando tutte le interruzioni, il reato si sarebbe comunque prescritto prima del 20 aprile 2018. Nei conteggi sarà fondamentale verificare se il presidente della Corte, Alfredo Montalto, ha conteggiato i rinvii per impedimenti a sostenere gli esami testimoniali. Considerato che in molti casi le udienze sono state comunque celebrate, l’impedimento non dovrebbe aver valore ai fini processuali e non dovrebbe interrompere il decorso dei termini. L’eventuale uscita di scena, per intervenuta prescrizione, del superteste Ciancimino potrebbe essere solo la punta dell’iceberg di altre sorprese che il processo Stato-mafia potrebbe rivelare. Non escludendo eventuali possibili risvolti disciplinari al Csm per i giudicanti.

“Sulla trattativa eclatanti dimenticanze di Stato”. Sotto accusa Violante, Martelli, Conso, Ferraro e Contri. Per i giudici sapevano del dialogo segreto, ma ne hanno parlato ai magistrati di Palermo solo vent’anni dopo, scrive Salvo Palazzolo il 20 luglio 2018 su "La Repubblica". “Dimenticanze” di Stato. Ci sono uomini e donne delle istituzioni che sapevano della trattativa fra alcuni carabinieri del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, ma si sono guardati bene dal parlarne per quasi vent’anni. Le motivazioni della sentenza “Trattativa”, depositate ieri, criticano pesantemente le “eclatanti dimenticanze”, ma anche la “deposizione sorprendente” di un’amica storica di Giovanni Falcone, Liliana Ferraro, che prese il posto del magistrato ucciso all'ufficio Affari penali del ministero della Giustizia. “Avrebbe potuto fornire tempestivamente ed in modo assolutamente spontaneo informazioni che erano dirette a meglio ricostruire quel contesto che ha preceduto e seguito le stragi di Capaci e di via D’Amelio”. Nel giugno 1992, il colonnello Mori era andato a trovare Liliana Ferraro al ministero per chiedere “copertura politica” al dialogo segreto che i carabinieri stavano intrattenendo con Ciancimino. Uno snodo per la ricostruzione dei giudici, perché smentisce quello che Mori e De Donno hanno sempre sostenuto: l'interlocuzione con Ciancimino non fu il semplice contatto con un confidente, ma una vera e propria trattativa con Cosa nostra. I giudici bacchettano “l’evidente tentativo di Liliana Ferraro di minimizzare gli approcci del Ros con Ciancimino” e ricordano che solo il 14 novembre 2009 l’ex capo degli Affari penali ha parlato con la magistratura, “dopo che ne aveva riferito l’ex ministro Martelli”. L'ex ministro della Giustizia non aveva mai parlato col Ros, ma aveva saputo da Liliana Ferraro. Pure Martelli si è ricordato di riferirne tanti anni dopo. Oggi, sappiamo che all'epoca la dottoressa Ferraro invitò comunque Mori a parlare subito con i magistrati di Palermo, poi lei stessa accennò del dialogo con Ciancimino a Borsellino, durante un incontro in aeroporto. Ma cosa seppe davvero Borsellino della trattativa? E come provò a fermarla? I collegio presieduto da Alfredo Montalto (a latere Stefania Brambille) ipotizza che la morte del magistrato fu "accelerata" da Riina, forse proprio perché Borsellino voleva opporsi al dialogo segreto fra pezzi dello Stato e vertici della mafia. Nel capitolo degli smemorati di Stato viene inserita anche Fernanda Contri, all’epoca segretario generale della presidenza del Consiglio. Pure lei seppe dai carabinieri. E pure lei ha parlato con tanti, troppi anni di ritardo, dopo che il caso Trattativa era stato aperto dal supertestimone Massimo Ciancimino. “Supertestimone” all’epoca, perché adesso viene bollato dai giudici come “del tutto inattendibile”. Ma, ironia della sorte, nel 2009, bastò l’annuncio delle sue dichiarazioni, che alcuni rappresentanti dello Stato si presentarono di corsa alla procura di Palermo.  “Le dichiarazioni di Ciancimino – è scritto nella sentenza Trattativa – hanno fatto recuperare la memoria a molti esponenti delle istituzioni (da Claudio Martelli a Liliana Ferraro al presidente della commissione antimafia Violante al ministro Conso)". Su Conso, che non prorogò trecento decreti di carcere duro nel 1993, i giudici di Palermo rilevano “l’assoluto evidente (e appariscente) contrasto fra le prime dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria nel 2002 quando ancora il tema trattativa non era salito alla ribalta delle cronache con le altre sue dichiarazioni del 2009". Anche l’allora presidente della commissione antimafia Violante ricevette una visita dei carabinieri del Ros, che lo informarono del dialogo segreto con Cianciminio. Anche Violante “per molti anni ha taciuto”, accusa la sentenza.

Nel Borsellino quater una conferma ai dubbi di Fiammetta. Le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater potrebbero contenere elementi chiarificatori per la strage di via D’Amelio, scrive Damiano Aliprandi il 19 luglio 2018 su "Il Dubbio". «Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm, allora parlamentare, Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?». È una delle domande, pubblicate ieri sul quotidiano La Repubblica, che Fiammetta Borsellino ha posto a coloro che dovrebbero o avrebbero dovuto darle delle risposte sui colpevoli dell’uccisione del padre, il magistrato Paolo Borsellino, avvenuta ormai 26 anni fa in quella domenica in cui si trovava in via D’Amelio a far visita alla madre. La risposta a quella terza domanda di Fiammetta Borsellino si potrebbe trovare nelle motivazioni della sentenza, che ha concluso il primo grado di giudizio del processo Borsellino quater: Giuseppe Ayala era sul luogo della strage – ma non fu il primo ad arrivare – dopo quattro minuti dalla deflagrazione che uccise il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. L’allora parlamentare Giuseppe Ayala giunse infatti quasi per primo in via D’Amelio al cratere. Fu sempre in quel momento che disse di aver visto la borsa di Paolo Borsellino appoggiata sul sedile posteriore della vettura, di averla presa in consegna ma di non averla aperta perché consegnata subito. Questo è un passaggio delle motivazioni sulla sentenza del Borsellino quater, più precisamente al capitolo relativo alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. La famosa agenda, mai trovata, dalla quale (come è noto) il magistrato, nel periodo successi- vo alla morte di Giovanni Falcone, «non si separava mai», portandola sempre nella sua borsa di cuoio e nella quale appuntava, in modo «quasi maniacale» e con grande ampiezza di dettagli, fatti e notizie riservate, nonché le proprie riflessioni sugli accadimenti che si susseguivano. Ma torniamo all’arrivo di Ayala sul luogo dell’attentato. Egli, come sempre nei suoi fine settimana a Palermo, anche quel 19 luglio, soggiornava nel vicinissimo Residence Marbella: per questo, appena sentita la deflagrazione, trovandosi a poche centinaia di metri da via D’Amelio, arrivò in auto, per ovvi motivi di sicurezza assieme alla scorta. «A Palermo non facevo un passo a piedi», disse al pm Domenico Gozzo, che nel corso della testimonianza al processo Borsellino Quater gli chiese come era arrivato in via D’Amelio. Ayala, riferisce al pm, di esserci andato in auto, di aver raggiunto il cratere percorrendo a piedi tutta la via sul lato sinistro del marciapiede. Un dato è certo nelle sue dichiarazioni: Ayala ricorda perfettamente la presenza di Guido Lo Forte sul luogo del fatto, perché assieme «si piegarono» per il riconoscimento del corpo dilaniato di Paolo Borsellino. Non solo, il teste lo ricorda già presente nei pressi del cratere, al momento in cui vi sopraggiungeva. Di certo per Ayala c’è che sul luogo del fatto ci fosse Lo Forte al sul arrivo; forse ancora prima dell’arrivo della volante, della cui presenza il teste non ha certezza. La testimonianza non fu la prima occasione in cui Ayala raccontò del suo arrivo a via D’Amelio dopo la strage: era il settembre 2015 quando Ayala riferisce di essere giunto sul luogo e di non aver trovato neppure i Vigili del Fuoco e neanche le Forze dell’Ordine. È il pm Gozzo che insiste sulla questione e, in cerca di conferma sul punto, gli chiede «quindi lei sarebbe arrivato, praticamente, quasi per primo. Ecco, le chiedo se può (…) se può ricordare con noi». La domanda non è irrilevante, se si pensa che Ayala risponde «Adesso anche, voglio dire, io… qualche minuto è passato». Insiste il pm per sapere quanti minuti ci avrebbe messo ad arrivare in via D’Amelio per non trovarci neppure i soccorsi, ma solo il magistrato Lo Forte, forse anche il collega Gioacchino Natoli, citato nella contestazione del pm riguardo alle dichiarazioni rese dal teste a settembre 2015, ma non in quelle della testimonianza al processo. «Ecco quanti minuti sono passati rispetto a quando lei ha sentito la deflagrazione?», chiede il pm. La risposta di Ayala è decisa: «Ma guardi, qualche minuto è passato cinque, quattro, adesso non le so dire, poi sono sceso giù, siamo saliti in macchina, bene o male ‘ sti trecento – quattrocento metri li abbiamo fatti, poi sono sceso, insomma, a piedi ho percorso… non che via D’Amelio sia lunghissima, ma insomma, ho percorso questa strada, quindi al momento… penso dieci minuti saranno passati sicuro, quindi io penso che forse una Volante c’era, adesso però, francamente, non me lo ricordo, ma..». Però alle richieste della Procura Ayala risponde che la ricostruzione sulla presenza di «forse una volante» è logica: egli infatti tiene a precisare al pm di non avere un ricordo preciso, ma che gli sembra ragionevole supporre di sì. L’unica certezza che ha Ayala è il ricordo che ci fosse il magistrato Lo Forte, nel momento in cui si avvicinava a piedi al cratere; aggiunge, quando il pm – questa volta il magistrato Stefano Luciani – gli contesta che in una precedente dichiarazione aveva testimoniato che c’era Natoli, che «di certo c’era Lo Forte (..) se ho detto che Natoli c’era, c’era; in questo momento non me lo ricordavo. Lo Forte… lo sa probabilmente la differenza di ricordo qual è? Che Lo Forte io me lo ricordo proprio piegato assieme a me, perchè, dico, lo abbiamo dovuto guardare molto da vicino per cercare di confermare la… l’identificazione, chiamiamola così. Magari Gioacchino Natoli sarà` rimasto in piedi, insomma, ma se ho detto che c’era, c’era». L’insistenza delle domande del pm Gozzo, che vuole sapere con precisione dal testimone Ayala la tempistica di arrivo su luogo della strage, ha un senso. Così come ha un senso che il pm Luciani insista per sapere chi altro ci fosse in quei primi «quattro o forse cinque minuti» in via D’Amelio, quando sopraggiungeva Ayala. Ma la risposta è stata esaustiva. Anche Lo Forte fu sentito nel corso del processo, ma le sue dichiarazioni non sono utilizzate dalla Corte per argomentare il capitolo relativo alla sparizione dell’agenda rossa. Alla domanda sul suo arrivo nel luogo della strage, Lo Forte risponde di essersi recato immediatamente con la sua auto dopo una telefonata, non ricorda di chi ma che «era domenica», e che appena giunto «c’erano già naturalmente militari esponenti delle forze dell’ordine alcuni colleghi altri sopraggiunsero dopo». Alla domanda se altri colleghi sopraggiunsero dopo di lui, tra i quali il dottor Natoli, Lo Forte risponde di non ricordare se prima o dopo perché c’era moltissima gente, ma che ci fossero tutti i colleghi «quindi ricordo in particolare il collega Ayala che trovai praticamente in preda alle lacrime, col quale mi sono abbracciato ma poi dato il momento noi eravamo del tutto attoniti». Sull’agenda e la borsa di Borsellino anche Lo Forte diede la sua versione dei fatti alla Corte, rispondendo di non aver guardato all’interno della vettura, alla domanda se la borsa fosse aperta o chiusa o se ebbe la percezione delle condizioni eventualmente all’interno di questa autovettura «se ci fosse qualche oggetto particolare». Domande significative. Del resto nello stesso esame si parla della sparizione dell’agenda rossa, che poteva essere dentro la borsa. Quest’ultima, era sul sedile posteriore oppure sul pianale fra i sedili anteriori e quelli posteriori, ma Ayala non vi avrebbe guardato dentro, limitandosi a prenderla in mano per pochi attimi ( forse, era una persona in borghese che gliela passava), consegnandola – subito dopo – a un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosceva, per poi recarsi a Mondello a rassicurare i propri figli, dal momento che il giornalista Felice Cavallaro gli raccontava della diffusione della falsa notizia che fosse proprio lui la vittima dell’attentato. Si insiste molto su questo punto, perché la logica vuole che la sparizione dell’agenda dalla borsa potesse essere avvenuta nei primi minuti, possibilmente senza la presenza di troppe persone. Ragionamenti deduttivi, ovviamente. E l’ex ministro Carlo Vizzini, ascoltato come teste al processo sulla Trattativa Stato- mafia, ricordò via D’Amelio, che tre giorni prima dell’attentato di via D’Amelio, cenò a Roma con Paolo Borsellino, che era nella capitale con i colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso della cena, secondo riferito da Vizzini, si parlò dell’indagine Mafia- Appalti. «Un argomento – aveva precisato Vizzini – che mi interessava fin dal 1988, quando avevo denunciato il sistema di spartizione dei lavori pubblici e gli interessi che legavano Cosa Nostra a grandi aziende nazionali. Già allora io avevo parlato dei mediatori che favorivano le grosse imprese e del ruolo che la mafia rivendicava negli appalti. Cose che furono dimostrate quando Angelo Siino cominciò a collaborare con la giustizia». Borsellino sarebbe stato molto interessato al tema, tanto che pensò di rivedere Vizzini «nelle sedi opportune», ha detto il teste, riferendosi agli uffici del palazzo di giustizia, ignaro che la procura di Palermo avesse richiesto, il 13 luglio, l’archiviazione dell’indagine Mafia- Appalti. Era il 16 luglio e tre giorni dopo Paolo Borsellino venne ucciso, insieme con gli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.

Questo Paese ha un debito di verità con le vittime della strage di via D'Amelio. Se la giustizia ha fatto il suo corso ora tocca alla politica. Che ha il dovere di scavare per far venire fuori le risposte alle troppe domande rimaste, scrive Lirio Abbate il 17 luglio 2018 su "L'Espresso". La magistratura a distanza di 26 anni dalla strage di via D'Amelio ha fatto la sua giusta parte, spazzando via indagini e sentenze marce, inquinate da “farlocchi” collaboratori di giustizia, da inchieste dubbie e procedure al limite dell'illegalità. Con quel modo sbagliato di procedere si è mancato di rispetto alla memoria delle vittime del 19 luglio 1992 quando un'autobomba uccideva il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, e gli agenti della polizia di Stato Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli. È rimasto vivo il poliziotto Antonino Vullo, che in questo video che L'Espresso pubblica, racconta l’incubo di quel giorno. Il 19 luglio del 1993 una Fiat 126 imbottita di tritolo esplode uccidendo il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto è l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta. Alle sue parole, e alle sue lacrime, è affidato il racconto dell'incubo di quel giorno. Oggi però la magistratura, e gli investigatori che hanno avviato nuove indagini, ci hanno dato dimostrazione che si può ancora avere fiducia nella giustizia. Se si è arrivati a scompaginare sentenze ormai passate ingiudicate, a trovare le prove “nascoste” per anni, e far emergere come è stato disatteso “il metodo Falcone”, oltre ai magistrati e agli investigatori il merito è anche del lavoro svolto dagli avvocati che si sono costituiti parte civile e che in passato hanno difeso alcuni degli imputati della strage, la cui posizione è stata “revisionata”. Dall'attentato che tolse la vita a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta si sono succedute inchieste e processi. Ma restano ancora domande senza risposta: chi sono i mandanti occulti della strage? Chi ha ordito il depistaggio che ha fatto condannare innocenti e coperto i veri responsabili? E dunque, se la giustizia ha fatto il suo corso, e come sappiamo le aule dei tribunali hanno spesso un loro limite, adesso chi deve proseguire per trovare la verità è la politica. Le indagini giudiziarie hanno limiti, regole e termini precisi oltre i quali non si può sconfinare rispetto ai ristretti argini del processo penale, che è diretto ad accertare singole responsabilità. Questo non significa rinunciare alla giustizia dei tribunali. Vuol dire invece che è arrivato il momento di sostenere nei fatti che la sede naturale in cui cercare la verità storica complessiva sulle stragi è quella politica. Spetta proprio alla politica scavare per far venire fuori le risposte alle tante domande rimaste ancora appese che portano a interrogarci su chi ha progettato questo depistaggio. Perché 57 giorni dopo la strage di Falcone, Cosa nostra è stata mandata a uccidere un altro magistrato impegnato nella lotta alla mafia? Perché tanta fretta? Chi ha fatto sparire l'agenda rossa di Borsellino? Chi ha suggerito le dichiarazioni ai falsi pentiti spostando così il fuoco delle indagini su un gruppo di persone innocenti? E poi ancora tanti altri interrogativi. A distanza di 26 anni dalle stragi di Falcone e Borsellino possiamo dire che la mafia stragista dei corleonesi è stata sconfitta e l’impunità su cui fondava la sua forza attrattiva è rimasta soltanto nel ricordo nostalgico di tanti capimafia che invecchiano all’ergastolo. Tuttavia, sulla campagna di destabilizzazione realizzata per mano corleonese restano ombre e interrogativi che i processi non hanno chiarito nonostante l’impegno profuso dalla magistratura, specie negli ultimi anni. C'è sempre da sperare che almeno qualcuno dei protagonisti, diretti o indiretti, o soltanto testimoni del perseguimento di quegli interessi di personaggi esterni a Cosa nostra, finalmente contribuisca a far luce sulle pagine buie della storia italiana. Si deve fare perché tutto ciò riguarda la dignità di questo Paese che, ora, ha un debito di verità.

Conso trattò? «Sì, ma a sua insaputa» Prove? «No, logica». Le clamorose incongruenze che emergono nelle motivazioni di Stato-mafia nella ricostruzione della sospensione del 41 bis ad alcuni imputati da parte di Conso, scrive Damiano Aliprandi il 21 luglio 2018 su "Il Dubbio". Accertato che l’ex ministro Giovanni Conso non sapeva della presunta trattativa in corso, ma nello stesso tempo si sarebbe sentito minacciato. Questa è in sintesi la spiegazione della Corte di Palermo. Ci sono più capitoli sul 41 bis nella lunghissima motivazione sulla sentenza di primo grado. Passaggi volti a confermare che ci sarebbe stato un ammorbidimento usato come segnale alla mafia da parte del Governo minacciato. Ricordiamo che non c’è il reato di trattativa, quindi il capo d’imputazione è «Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario». Diversi passaggi di difficile interpretazione, nonostante si parla di una verità "logico- fattuale" e non di una certezza suffragata da prove inoppugnabili. Uno di questi segnali sarebbe stata la nomina del vice direttore del Dap voluta dal presidente della Repubblica Scalfaro. In questo caso parliamo del Governo Ciampi, il secondo corpo politico che sarebbe stato minacciato. «Si ha quindi conferma – si legge nella motivazione – che il vice direttore del Dap, individuato dal Ministro Conso, non era gradito al Presidente Scalfaro perché ritenuto “troppo duro”». Qui scatta la prima contraddizione. Il ministro Conso – secondo la tesi processuale della Trattativa – sarebbe stato colui che avrebbe ammorbidito il 41 bis, ma nello stesso tempo era colui che voleva un vicedirettore del Dap considerato “troppo duro” da Scalfaro. Nominarono – sotto indicazione di Scalfaro e del capo della polizia Parisi – il dott. Francesco Di Maggio, considerato dalle motivazioni, l’uomo che avrebbe dato l’apporto alla presunta attenuazione del carcere duro. Attenuazione che sarebbe stata ordinata – sempre secondo la motivazione – dall’ex ministro della giustizia Conso. Sì, proprio colui che in realtà – lo dice la motivazione stessa – avrebbe voluto un vicedirettore del Dap più “duro”. Questa è una delle tante verità logico- fattuali. Dove però logica e fatti fanno a pugni tra loro. Una verità che teoricamente troverebbe conferma – sempre secondo la Corte – dalle testimonianze di tre testi considerati chiave, tra i quali Loris D’Ambrosio e Liliana Ferraro, all’epoca capo ufficio Affari penali del ministero della Giustizia. Quest’ultima viene addirittura messa sotto accusa dalle motivazioni, perché «ha negato qualsiasi conoscenza sulla nomina dei nuovi vertici del Dap nel giugno 1993» e secondo la Corte è «poco verosimile, stante il confermato rapporto di frequentazione col Di Maggio». Ricordiamo che la Ferraro era una storica amica di Giovanni Falcone. Verrà poi ulteriormente bacchettata perché ha minimizzato «gli approcci del Ros con Ciancimino» e che solo il 14 novembre 2009 l’ex capo degli Affari penali ha parlato con la magistratura. Eppure, a questo punto, seguendo la logica della motivazione, anche Borsellino avrebbe minimizzato, visto che la Ferraro ne parlò con lui di questi contatti: l’ex magistrato ucciso barbaramente a via d’Amelio liquidò subito la cosa con una battuta «me ne occupo io», e preferì parlare con lei delle indagini su mafia e appalti. Questo si evince dalla testimonianza della Ferraro durante il processo. Ritorniamo all’ex ministro Conso che non ha rinnovato alcuni 41 bis. Egli, come ha anche ricordato Luciano Violante – all’epoca dei fatti presidente della commissione antimafia – ha sempre detto che la sua scelta era basata su una sentenza della Consulta, la numero 1349 del 28 Luglio del 1993. «Se non ci fosse stata la speranzina allora tanto valeva rinnovare». Questa è però la frase che per l’estensore della motivazione «manifesta plasticamente e incontestabilmente il diffuso timore del Ministro di portare avanti la linea di fermezza di Ciampi». Ma nelle motivazioni è anche scritto che «Conso ha dichiarato di non aver mai saputo nulla della trattativa di mafia e dei contatti dei carabinieri con questa per il tramite di Ciancimino». Dichiarazioni sulle quali la stessa Corte scrive di non aver motivo di dubitare. Quindi, secondo le motivazioni, Conso dice la verità, ovvero che non ha mai saputo nulla della trattativa in corso, ma nello stesso tempo – sempre secondo la Corte – sapeva di subire minacce. Quindi, seguendo questa “logica fattuale”, si sarebbe sentito intimidito ma non era necessario che conoscesse il motivo per cui doveva sentirsi intimidito? Per la Corte il reato di trattativa non esiste, ma esiste la minaccia e così si legge in sentenza che «è irrilevante che non sia stata rappresentata a Conso l’origine della esternazione di condizioni per porre il termine a quella contrapposizione frontale con lo Stato che aveva dato luogo a stragi». Ma quindi la Corte dove intravvede la minaccia? «Il timore che un male ingiusto potesse derivare dalla sua eventuale diversa decisione di prorogare i decreti 41 bis», a leggere la sentenza, balzerebbe «evidente» dalle sue dichiarazioni rese il 24 novembre 2010 quando il teste Conso, sentito, argomentava la decisione di non proroga del 41 bis con il richiamo alle decisioni della Corte Costituzionale sul tema ma, si legge sempre nelle motivazioni, pur a fronte di tali esternazioni, la Corte rintraccia «le vere ragioni della sua decisione di non prorogare» nella «speranza che una persona più equilibrata e meno esageratamente ostile», individuata in Bernardo Provenzano, «potesse prendere il posto di Riina». Non le argomentazioni sulla necessità di tenere in conto la decisione della Corte Costituzionale che aveva dato un indirizzo sull’efficacia del regime, ma le dichiarazioni sulla “speranzina”, vengono intese come la prova della percezione di una minaccia. Ma è una percezione, perché Conso – come conferma la Corte stessa – non sa della trattativa: l’accontentarsi per un Ministro della sola speranza costituisce però per la Corte la prova della manifestazione «plastica e incontestabile» del timore di Conso di portare avanti la linea della fermezza voluta da Ciampi e dal suo Governo. Di segno opposto è la testimonianza di Violante, allora Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia sentito come testimone, che dichiarava di aver scritto al Ministro Conso nel 1993 per avere notizie sul 41 bis: nella lettera di risposta, acquisita in dibattimento come prova, il Ministro già allora rispondeva a Violante che «si stavano specificamente analizzando le pronunce di inefficacia dei provvedimenti di applicazione dell’art 41 bis come aveva indicato la Corte Costituzionale». I tempi non erano sospetti, il Ministro già dava conto delle ragioni delle notizie, che si erano diffuse sulla non proroga del regime dell’art. 41 bis, richiamando la necessità di tenere in considerazione la pronuncia della Corte Costituzionale, ma per la Corte d’Assise la risposta era «alquanto generica».

Stato- mafia: tsunami sui Ros (Scenario opposto al Borsellino- 4). Le motivazioni della sentenza sul processo trattativa, scrive Damiano Aliprandi il 20 luglio 2018 su "Il Dubbio". La motivazione sulla “trattativa Stato- mafia” è in antitesi con quella del Borsellino quater.  Depositate le motivazioni, a tempo di record, esattamente nel preannunciato termine di 90 giorni dalla lettura del dispositivo della sentenza di primo grado, che ha concluso il processo e che ha portato alla condanna di tutti gli imputati chiave, tranne l’ex ministro Nicola Mancino e il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca.  Motivazioni che sono state depositate proprio nel giorno delle commemorazioni della strage di via D’Amelio, in cui morirono Paolo Borsellino e le persone della sua scorta. Un plico di oltre 5000 pagine depositato in un tempo brevissimo, se confrontato con le quasi 2000 pagine delle motivazioni della sentenza Borsellino quater, depositate dalla Corte d’Assise di Caltanissetta a più di un anno dalla lettura del dispositivo. Due motivazioni di due processi differenti, che vanno in due direzioni altrettanto differenti. Quella della Corte di Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, che ha emesso la sentenza di condanna per la trattativa Stato- mafia, sconfessa l’altra, quella di Caltanissetta, presieduta dal giudice Antonio Balsamo, che, a proposito delle indagini investigative e processuali sulla strage di Via D’Amelio, ha parlato di «uno dei più gravi depistaggi della storia italiana» e dove, non solo non si parla di “Trattativa”, ma si dedica un capitolo all’interesse di Borsellino sull’inchiesta mafia- appalti, che, attraverso le parole del pentito Giuffrè, sembra poter essere una concausa della strage. Per i giudici del processo Trattativa non è vero: scrivono che nonostante «può ritenersi certo che il dottor Borsellino nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la sua morte si sia occupato del rapporto mafia e appalti», «non vi è alcun elemento di prova che possa collegare tale evenienza alla improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottor Borsellino, se si tiene conto che nessuno spunto idoneo a collegare tra la vicenda “mafia- appalti” con la morte del dottor Borsellino è possibile trarre dalle dichiarazioni dei tanti collaboratori di giustizia esaminati a cui la vicenda era ben nota». Per i giudici di Palermo, a differenza di quelli di Caltanissetta, il dossier “mafiaappalti” non è la concausa della morte di Borsellino, che invece scrivono sia da ritrovare «dai segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio». Quindi la Corte smonta l’ipotesi, secondo cui il magistrato Paolo Borsellino fosse un pericolo per la mafia a causa della possibilità di una sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia, ma anche quella secondo cui l’accelerazione della sua morte scaturì per il suo interessamento per mafia- appalti, come sistema che coinvolgeva imprese nazionali e politici importanti. Un dossier redatto dai Ros e voluto da Giovanni Falcone. Diverse sono le testimonianze, ma per i giudici di Palermo anche queste non basterebbero. Dunque oltre 5000 pagine dove viene spiegato che la “trattativa” ci fu e che a portarla avanti sarebbero stati, fino al 1993, i vertici dei carabinieri del Ros, e, successivamente Marcello Dell’Utri. In quale modo? In sintesi Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ufficiali dei carabinieri, secondo le motivazioni si sarebbero fatti portatori presso le istituzioni del messaggio dei clan, un messaggio intimidatorio fatto di stragi e morti e volto a indurre lo Stato a più miti consigli nella politica di contrasto a Cosa nostra. Perciò, secondo la Corte, avrebbero concorso nell’accusa con i capimafia. Perché «trattando» e dialogando con i mafiosi, per il tramite del sindaco Vito Ciancimino, e «rappresentando» le loro istanze al governo, di fatto secondo la Procura avrebbero rafforzato e aiutato Cosa nostra. Dal ‘ 93 il ruolo di ‘ cinghia di trasmissione’ tra clan e pezzi di Stato verrebbe attribuito a Marcello Dell’Utri. Allora il premier era Silvio Berlusconi e ad essere condizionato dalle minacce mafiose fu il suo governo. Sì, perché il reato di trattativa, giuridicamente non esiste. Viene infatti contestato il reato di cui all’art. 338 del codice penale, ovvero la violenza o minaccia al corpo dello Stato (politico, amministrativo o giudiziario). In altri termini, i soggetti che avrebbero accolto i benefici richiesti da Cosa Nostra, dietro pressioni psicologiche e minacce di ulteriori attentati, avrebbero cosi concorso a turbare l’attività politico- amministrativa e quindi avrebbero concorso nel reato di minaccia al corpo dello Stato. In questo caso chi sarebbe il corpo dello Stato minacciato? Paradossale a dirsi, ma tre sarebbero i governi destinatari delle minacce della mafia: quelli di Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e Silvio Berlusconi. Quindi l’ex senatore Marcello dell’Utri avrebbe contribuito a minacciare il suo governo stesso. Come farebbe, in altri termini, lo Stato ad essere vittima e al tempo stesso autore del reato che a lui si imputa?

Così la sentenza Stato-mafia è un teorema per incolpare il Cav. Ogni evento rimanda a Berlusconi. Che non era imputato, scrive Luca Fazzo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". La bellezza di 5.252 pagine scritte in appena novanta giorni (media di quasi 60 al giorno, sabati e domeniche compresi) dal giudice Alfredo Montalto per sancire che lo Stato scese a patti con la mafia: la sentenza del processo di Palermo è un documento colossale, che nessun cronista ha ancora letto per intero, ma il cui obiettivo appare chiaro. Perché gli imputati per la Corte d'assise sono tutti colpevoli (tranne l'ex ministro Mannino) ma ancor più colpevole è un signore che imputato non era, e che si chiama Silvio Berlusconi. È lui il coimputato di pietra, la figura che aleggia su tutte le 5.252 pagine, evocato come terminale e referente ultimo del patto scellerato. Eh sì, perché della presunta trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni, avviata secondo i giudici all'epoca del governo di Giuliano Amato, la sentenza non indica alcun vantaggio concreto di cui i mafiosi avrebbero goduto né all'epoca del governo Amato né di quello - succedutogli nell'aprile 1993 - di Carlo Azeglio Ciampi. Il favore postumo ai boss sarebbe stato ovviamente promesso dal governo Berlusconi, salito al potere nel maggio 1994. Fino al dicembre 1994, scrive la sentenza, Marcello Dell'Utri incontrava Vittorio Mangano «per le problematiche relative alle iniziative che i mafiosi si attendevano dal governo». La sentenza, citando il pentito Gaspare Spatuzza, dice che Dell'Utri avrebbe informato Mangano di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per mafia. «Ciò dimostra che Dell'Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l'insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi da premier avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell'Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori». Il percorso logico è già di per se piuttosto ardito: si prende per certo ciò che dice lo stragista Spatuzza, e se ne deduce che se Dell'Utri parlava di modifiche legislative il mandante poteva essere solo Berlusconi. Ci si aspetterebbe che a questo teorema inquietante la sentenza indichi un qualche riscontro anche labile, una legge o almeno un disegno di legge, un progetto, una dichiarazione d'intenti, insomma una traccia qualunque che confermi che in quel periodo ben determinato di tempo - tra maggio e dicembre 1994 - il governo abbia almeno ipotizzato un intervento legislativo di alleggerimento sul trattamento dei mafiosi. Invece di quel riscontro non c'è traccia, per il semplice motivo che nulla accadde. Anzi, negli otto mesi del primo governo Berlsconi finiscono in galera cento boss mafiosi. Ed è ancora con Berlusconi al governo, nell'aprile 2006, che viene arrestato Bernardo Provenzano, che la Procura di Palermo indica come il terminale ultimo della trattativa, e che morirà in carcere tredici anni dopo. Un affarone, per i clan, la trattativa con Berlusconi. Spatuzza insomma parla a vanvera, almeno in questo caso. Ma per i giudici palermitani è credibile come lo è l'altro testimone chiave, Giovanni Brusca, il capo del commando di Capaci, che pure in aula ha detto cose senza capo né coda. Ma il capolavoro vero, nella sentenza-kolossal, è quando si teorizza - sfidando ogni logica - che la trattativa abbia causato o almeno anticipato la strage di via D'Amelio e la morte di Paolo Borsellino. Non c'è scritto, nella sentenza, che il vero colpevole della morte di Borsellino è Berlusconi. Ma il concetto è quello.

Processo a Falcone nella sentenza Stato-mafia. Nella sentenza del processo di primo grado Stato-mafia finiscono nel mirino Giovanni Falcone e tutti il lavoro del pool, scrive Piero Sansonetti il 21 luglio 2018 su "Il Dubbio". Quando era vivo cercarono in tutti i modi di sommergerlo con il fango. Le lettere del corvo, poi le voci messe in giro che l’attentato all’Addaura fosse una invenzione, alla fine le accuse in Tv di avere messo nel cassetto le inchieste sul terzo livello della mafia, per proteggere Andreotti o qualcun altro, chissà. Parlo di Giovanni Falcone, naturalmente. Il magistrato che più di tutti, nella storia d’Italia, ha fatto contro la mafia. E il magistrato che più di tutti, nella storia d’Italia, è stato bersaglio della critica feroce dell’antimafia ufficiale, e della “critica delle armi” di Cosa Nostra. La quale ha provato varie volte ad eliminarlo come aveva fatto con il suo maestro: Rocco Chinnici – e alla fine c’è riuscita con qualche quintale di tritolo fatto esplodere sotto il ponticello di Capaci, sull’autostrada di Palermo, mentre passava la sua Croma. Dopo la morte, le critiche si placarono. Molti corsero ai suoi funerali. Molti dissero che era un eroe. Tanta retorica. Ma per Falcone non c’è mai pace, l’anti-falconismo è sempre vegeto. L’anti- falconismo è il luogo dello spirito dove mafia e antimafia si incontrano. Né l’una né l’altra hanno mai perdonato a Falcone di avere fatto il suo lavoro con spirito scientifico e con un rispetto assoluto del diritto. E’ passato un quarto di secolo, da quando l’hanno ucciso, e chi legge le motivazioni della sentenza del processo Stato- mafia, se non ha gli occhi foderati, si accorge che è esattamente questo: un attacco ad alzo zero contro Falcone, il falconismo, e i (pochi) uomini e donne che collaborarono con lui. Ieri molti giornali riportavano il nome delle persone tirate in ballo dai giudici palermitani. Scorretelo appena, questo elenco, e farete un salto sulla sedia: Luciano Violante, Claudio Martelli, Giovanni Conso, Fernanda Contri, Liliana Ferraro. E poi, naturalmente, Mori, Subranni e De Donno, i tre carabinieri che gli furono a fianco per molti anni (e che hanno già subìto molti processi, sempre con le stesse accuse e sempre assolti). Tutti questi nomi sono i nomi delle persone che in modo più stretto e amichevole, in vari periodi (tra il 1983 e la morte) hanno lavorato gomito e gomito con Falcone, e lo hanno sostenuto anche quando le polemiche contro di lui diventarono asperrime. Gli ultimi tre (Mori, Subranni e De Donno), che sono quelli che hanno catturato Totò Riina, sono stati addirittura condannati, nel processo Stato- mafia, a molti anni di prigione. Gli altri no, nessuna condanna e neppure nessuna imputazione specifica. I giudici hanno solo scritto uno ad uno i loro nomi nelle motivazioni della sentenza per gettargli addosso un po’ di fango. Sono accusati di reticenza, o qualcosa del genere. Perché? Perché non si sono dati da fare per accreditare la tesi di fondo del processo Stato- mafia (che purtroppo non è sostenuta da nessuna prova e nessun riscontro) e cioè che la mafia, guidata da Riina, trattò segretamente con i carabinieri, con pezzi dello Stato e con Dell’Utri (e un po’ pure con Berlusconi) prima e dopo l’uccisione di Paolo Borsellino. E che Paolo Borsellino fu ucciso perché si era accorto di questa trattativa, e voleva impedirla. Davvero ci fu la trattativa? E se ci fu, e se la guidò il colonnello Mario Mori, come mai si concluse, in pochi mesi, con l’arresto di Totò Riina, dopo decenni di latitanza? Cosa concesse, Mori, al capo della mafia: le manette? La tesi dell’accusa è singolare. Perchè, in assenza di prove, l’accusa si tiene tutta intorno a una congettura, a un teorema. Che però, anche come teorema, è assolutamente scombiccherato. Sostiene che la trattativa la guidarono, nella sostanza, Il presidente della Repubblica Scalfaro e il futuro presidente del Consiglio Berlusconi. I quali però si odiavano, ed erano in perenne e furibonda lotta tra loro. Non c’è nessuna logica nell’idea che furono i grandi vecchi della trattativa. Né tornano le date. Soprattutto per quel che riguarda Berlusconi, che entrò in politica in un periodo successivo alla stagione delle stragi e che, con il suo governo, non concesse nulla alla mafia, non realizzò nessuna delle misure chieste nel famoso “papello” che secondo i Pm sarebbe stato la base della trattativa. E allora che c’entra Berlusconi? E cosa c’entra Dell’Utri? C’entrano, forse, per una sola ragione: che se il processo fosse stato solo ai carabinieri avrebbe avuto un’eco mediatica molto molto ridotta. Dell’Utri è il nome che garantisce spettacolarità alle accuse, e se contro di lui non c’è uno straccio di prova, poco male. La sorte ha voluto che la pubblicazione delle motivazioni del processo Stato- mafia avvenisse in coincidenza con la sentenza del processo Borsellino quater. La quale ha stabilito che dopo l’uccisione di Borsellino fu compiuto il più grande depistaggio della storia della Repubblica. E che di questo depistaggio furono oggettivamente responsabili anche alcuni magistrati. Cioè quelli che indagarono e credettero al pentito Scarantino, che era stato imbeccato da qualcuno (poliziotto e/ o magistrato) per deviare le indagini. Bene, non solo questa sentenza non accenna neppure alla possibilità che Borsellino sia stato ucciso perché era contrario alla trattativa. Non solo non prende neanche in considerazione l’ipotesi che una trattativa ci fu. Ma la sentenza mette sotto accusa i magistrati che si fecero deviare, e ironia del destino – tra questi magistrati c’è anche il Pm del processo Stato- mafia, cioè Di Matteo. Di più: nella sentenza si avanza l’ipotesi che Borsellino fu ucciso per evitare che indagasse sul dossier Mafia-appalti, che era stato preparato dal colonnello Mori (carabiniere legato a Falcone), e quel dossier fu archiviato proprio nei giorni dell’uccisione di Borsellino dal Procuratore di Palermo Giammanco, su richiesta di alcuni Pm tra i quali Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo. Capite che la situazione è davvero kafkiana. C’è una sentenza che dice che Borsellino fu ucciso perché voleva indagare su una pista individuata dal colonnello Mori, il quale ci aveva lavorato con Falcone, e poi c’è un processo messo in piedi da uno dei Pm che fu coinvolto nel depistaggio sulle indagini sull’omicidio Borsellino, il quale ora pretende di dire lui perché fu ucciso Borsellino, e ottiene la condanna del carabiniere che indagava sulla mafia e con il quale Borsellino voleva collaborare, e infine indica come oggettivamente complici tutti gli uomini che all’epoca difendevano Falcone. E’ un mostruoso testacoda. Mostruoso. Ci vorranno anni, forse, molto anni, per rimettere ordine in questa storia e ripulire il terreno da tutti i depistaggi. Oggi è difficile non provare dolore per la memoria di Giovanni Falcone presa in giro e infangata, e per le folli calunnie contro tutti quelli che lo appoggiarono, quando fu abbandonato, e poi lasciato uccidere dai mafiosi.

I falsi pentiti e i loro portavoce: Pm e giornalisti. L’inaudito caso di Enzo Scarantino, costretto a “collaborare” a calci e pugni, ad autoaccusarsi e ad accusare deviando le indagini. Gli incredibili “errori” dei magistrati, tra i quali Di Matteo, scrive Tiziana Maiolo il 20 luglio 2017 su "Il Dubbio". Adesso lo dicono tutti, anche Sergio Mattarella: nel 1992, quando fu ucciso Paolo Borsellino, ci fu qualcosa di sbagliato nelle indagini e nei processi che seguirono. In realtà non ci fu nessun “errore”, ma il fatto banale che nessuno si curò della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Magistrati vanesi e investigatori senza scrupoli volevano in fretta una qualunque verità. Persino quella di Enzo Scarantino. Il “pentito” costruito a tavolino, come dice oggi la figlia del magistrato ucciso. Erano passati pochi giorni dal “pentimento” di Enzo Scarantino quando la moglie Rosalia mi scriveva una lettera nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture a confessare un delitto che non aveva commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino. Ci sono voluti venticinque anni e una sordità colpevole e senza precedenti da parte delle istituzioni per arrivare alle parole di una donna coraggiosa come la figlia di Borsellino che denuncia i “pentiti costruiti a tavolino”. E fa nomi e cognomi, senza paura. Quei nomi e cognomi che non ha potuto fare (se non su personaggi non di primo piano) la corte d’assise di Caltanissetta che nei mesi scorsi, nella sentenza al quarto processo per la strage di via D’Amelio, ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori. Quali investigatori? Fiammetta Borsellino ricorda chi erano i procuratori dell’epoca: il capo Tinebra, i sostituti Annamaria Palma. Carmelo Petralia, Nino di Matteo… Questi sono i magistrati ingenui, quelli che hanno creduto (creduto?) che un picciotto della Guadagna, un piccolo spacciatore vanitoso e ignorante e un bel po’ spaccone, potesse aver partecipato, con il furto di un’auto da imbottire con 90 chili di tritolo, a una delle stragi del secolo. Hanno continuato a credere (credere?) a quelle prime parole del “pentito” anche quando lui stesso, anche a costo di rinunciare alla libertà, aveva continuato a dire che quella specie di verità gli era stata estorta. Estorta come? La moglie di Scarantino aveva puntato il dito contro Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che conduceva le indagini sulle stragi e gestiva i collaboratori di giustizia. E del resto sarebbe bastato ascoltare le testimonianze (o magari rispondere alle interrogazioni parlamentari che nel corso degli anni deputati come me e Enzo Fragalà presentavano caparbiamente) di chi aveva constatato sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture, per capire in che modo si costruivano i “pentiti”. I magistrati non volevano vedere e tiravano dritto, osannati da una grande fanfara mediatica e sostenuti da un partito, il Pds, che voleva fare dell’” antimafia”, di quell’antimafia messa all’indice da Leonardo Sciascia, la propria identità. Di quel che succedeva nelle carceri, pochi si curavano. I radicali e qualche “matto” isolato in Parlamento e nell’opinione pubblica. La storia veniva scritta dai “pentiti” attraverso i loro portavoce, Pm e famosi giornalisti. Scarantino raccontava che prima di ogni interrogatorio, di ogni udienza, veniva ammaestrato, nomi e cognomi delle persone da accusare e far arrestare gli venivano suggeriti. Proprio come era già capitato con i 17 finti pentiti che accusavano Enzo Tortora. Ma nel caso Scarantino si è fatto di peggio, perché si scopriranno anni dopo addirittura appunti vergati a mano dalla grafia di qualche inquirente. E si andrà avanti così, di processo in processo, per anni e anni, fino al 2008. Con gli ergastoli che erano fioccati nei confronti di persone innocenti. Quando arriva il “pentito d’oro” Gaspare Spatuzza a dire che tutto era sbagliato, che i colpevoli erano altri, solo allora si era sbaraccato tutto il castello costruito in 16 lunghi anni. Oggi lo dicono tutti, che era stato tutto sbagliato. E sarebbe facile prendersela con persone che non ci sono più, come Arnaldo La Barbera o Tinebra. Ma dove sono tutti gli uomini di governo che hanno chiuso gli occhi, tutti i giudici delle corti d’assise che facevano i portavoce dei Pubblici ministeri e gli investigatori che svolgevano colloqui riservati nelle carceri e gli “sbirri” delle squadrette di picchiatori? C’è una responsabilità collettiva in tutto ciò. Basta fiaccolate, commemorazioni e agendine rosse. Facciamo nomi e cognomi per favore (come ci sta insegnando Fiammetta Borsellino), magari anche di qualcuno che nel frattempo ha fatto carriera o sta sognando di diventare ministro di giustizia.

Il Tempo, la prima pagina epocale per Silvio Berlusconi: adesso basta, il titolo cubitale, scrive il 21 Luglio 2018 Libero Quotidiano”. Una reazione d'orgoglio, nel silenzio generale. "Siamo tutti Berlusconi". Così il Tempo, in prima pagina, titola a caratteri cubitali. Un sostegno al Cav nella settimana più dura, quella che riassume le accuse di 25 anni di fango con il video rubato delle serate con le olgettine e le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia pubblicate a poche ore di distanza l'uno dalle altre. "Dalla pedofilia alle stragi - scrive il Tempo -, non se ne può più". Per questo il quotidiano romano smonta punto per punto tutti gli attacchi all'ex premier.

SIAMO TUTTI BERLUSCONI. Dalla pedofilia alle stragi, 25 anni di fango. Ora pure il video con le Olgettine. Non se ne può più nemmeno della Trattativa: Il Tempo smonta le accuse al Cav, scrive Luca Rocca il 21 Luglio 2018 su “Il Tempo”. Non è provato che Marcello Dell’Utri abbia «minacciato» Silvio Berlusconi, però Dell’Utri è ugualmente colpevole perché, ipoteticamente, potrebbe averlo fatto. Sta tutto qui il fallace ragionamento della Corte d’Assise di Palermo che due giorni fa ha depositato le motivazioni alla sentenza del processo sulla «trattativa» Stato-mafia; sta tutto, dunque, nell’ammissione dell’assenza della «prova regina», che pure si tenta di scavalcare con quelle che il giudice Alfredo Montalto chiama «ragioni logico-fattuali». La tesi della procura di Palermo, accolta dai giudici, è chiara: verso la fine del 1993, i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero contattato Vittorio Mangano, stalliere di Arcore negli anni ’70, chiedendogli di riferire a Dell’Utri che, se non avessero ottenuto dei benefici di legge, le stragi di mafia sarebbero riprese. E Dell’Utri, processato per «minaccia a Corpo politico dello Stato», stando alle accuse avrebbe recapitato quella minaccia a Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dall’aprile al dicembre del 1994. Ma, come detto, la Corte d’Assise di Palermo è costretta ad ammettere che questo assunto non è dimostrato, tanto da scrivere che «se pure non vi è prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano». La prova non c’è, dunque, ma non potendosi escludere che da qualche parte ci sia, si condanna ugualmente Dell’Utri a 12 anni di galera. I giudici, poi, sottolineano che la disponibilità dell’ex senatore a porsi come intermediario tra i clan e Berlusconi fornì «le premesse della rinnovazione della minaccia al governo quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato appunto presieduto dallo stesso Berlusconi». In questo senso si ritiene provata, dunque, la teoria della «cinghia di trasmissione» della minaccia di Cosa nostra all’ex premier. Ma davvero quella «filiera» sarebbe dimostrata? I fatti dicono il contrario. Intanto, Brusca ha affermato di aver saputo della permanenza di Mangano ad Arcore, fatto notorio in mezza Sicilia, leggendo l’Espresso. Il pentito, inoltre, ha collocato l’incontro in cui avrebbe chiesto a Mangano di riprendere i rapporti con Dell’Utri nell’aprile del 1994, sostenendo di aver ricevuto una risposta pochi giorni dopo. Peccato che quando si trattò di precisare il momento esatto, lo associò a un furto di vitelli avvenuto a Partinico nel novembre del 1993. In sostanza, a voler dar retta al capo mandamento di San Giuseppe Jato, l’incarico a Mangano di contattare Dell’Utri sarebbe avvenuto nell’aprile del 1994 e la risposta...cinque mesi prima...

L’ardua verità del patto. Il compito più duro per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria «politica» di ciò che accadde nel 1992-94 con le incongruenze di quella «giudiziaria», scrive Paolo Mieli il 23 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Prima di archiviare l’ennesimo giudizio (stavolta di primo grado) sulla trattativa Stato-mafia, è opportuno mettere agli atti qualche considerazione. Fortunati gli storici del futuro i quali, per quel che attiene ai rapporti tra vertici istituzionali italiani e Cosa nostra, avranno a disposizione sentenze, le più varie, al cui interno potranno trovare pezze d’appoggio a qualsiasi congettura li abbia precedentemente affascinati. Ad esser baciati dalla fortuna saranno, beninteso, solo gli storici disinvolti. Per gli altri — quelli seri che non cercano riscontri a ciò che avevano già «intuito» ma, anzi, si impegnano, con metodo, ad individuare elementi di contraddizione con le proprie ipotesi di partenza — saranno dolori. Perché la magistratura, allorché si è occupata di vicende nazional-siciliane, ha da tempo accantonato la terraferma che dovrebbe esserle propria, quella del «sì sì, no no», per immergersi nell’immensa palude del «dico e non dico», delle circonlocuzioni ipotetiche, delle allusioni non esplicite, delle porte né aperte né chiuse, dei verdetti double face. Gli imputati eccellenti in genere sono usciti indenni dai giudizi definitivi. Ma tali giudizi definitivi non lo sono mai per davvero perché, nei tempi successivi ad ogni sentenza, nuovi processi sono tornati (e torneranno) ad occuparsi delle stesse vicende, talché qualche macchia inevitabilmente resterà sugli abiti dei suddetti imputati. Anche nel caso in cui siano stati assolti dall’ultima sentenza prima del loro decesso. Ma il compito più arduo per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria «politica» di ciò che accadde tra il 1992 e il 1994 con le incongruenze di quella «giudiziaria». Per la memoria politica si ebbero in quel biennio (allungatosi poi al 1995) due stagioni tra loro assai diverse. La prima — dal ’92 ai primi mesi del ’94, sotto la regia dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro — fu in terremotata continuità con la cosiddetta Prima Repubblica e conobbe due capi di governo di sinistra moderata: Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. È in questo biennio che, mentre la vita parlamentare veniva sconvolta da Tangentopoli, si verificarono i più rilevanti fatti di sangue riconducibili alla mafia: l’uccisione di Falcone e Borsellino (’92), gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di via Palestro a Milano oltreché alle basiliche romane di San Giovanni e San Giorgio al Velabro, i quali provocarono complessivamente 15 morti e decine di feriti (’93). Ed è proprio in questo periodo che, stando alla sentenza appena depositata, tre carabinieri di medio-alto rango, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, con la mediazione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, avrebbero preso contatto con il vertice di Cosa Nostra (Totò Riina) provocando un’«accelerazione» dell’azione criminosa. A nome di chi si sarebbero mossi Mori, Subranni e De Donno? La sentenza non lo dice in modo esplicito ma lascia intendere che esponenti del governo Ciampi abbiano avallato l’iniziativa dei tre magari, come ha già fatto notare su queste pagine Giovanni Bianconi, senza averne una effettiva «consapevolezza». Sarà arduo per gli storici del futuro dare conto dell’attività di questa nutrita schiera di «inconsapevoli» che da Scalfaro in giù si attivarono per quasi due anni a favorire l’«improvvida iniziativa» di Mori arrivando nell’autunno 1993 a «liberare dal 41 bis», per decisione del ministro della Difesa Giovanni Conso, 334 mafiosi. Mafiosi che forse non erano di primissimo piano ma la cui uscita dal carcere duro fu — secondo i magistrati — un segnale a Cosa nostra dei passi avanti compiuti, appunto, dalla trattativa di cui si è detto. Dopodiché venne una seconda stagione, più breve (otto mesi tra il 1994 e il gennaio ‘95), in cui dominus politico fu Silvio Berlusconi alla sua prima esperienza di governo. Berlusconi, tramite Marcello Dell’Utri, avrebbe proseguito, intensificandola, l’interlocuzione con Cosa nostra avviata dai suoi predecessori. Strano: la memoria politica ci dice che tra Scalfaro e Berlusconi i rapporti furono pessimi e lo stesso discorso vale, anche se con minore intensità, per presidenti del Consiglio e ministri dei governi della legislatura ’92-’94: tutti, nessuno escluso, ostili a Berlusconi e Bossi. Marco Taradash ha fatto notare che l’unico campo in cui — stando alla sentenza — ci sarebbe stata un’assoluta opaca continuità tra la stagione dominata da Scalfaro e quella successiva di Berlusconi sarebbe stato il terreno dei patteggiamenti tra lo Stato italiano e Cosa nostra. Per i giudici questo non è un problema ma per gli storici lo sarà quando dovranno spiegare come mai le due Italie, quella berlusconiana e quella antiberlusconiana, si scontrarono su tutto tranne che sul rapporto con Riina e i suoi successori sul quale l’intesa fu pressoché totale. E come mai queste diaboliche relazioni siano iniziate ai tempi dell’ultimo centrosinistra quando la «discesa in campo» di Berlusconi era (forse) solo nei propositi del padrone della Fininvest. La sentenza lascia intendere — ma è un’interpretazione nostra — che ci sarebbe stato un salto dalla stagione della «inconsapevolezza» a quella della «consapevolezza», quando Berlusconi sarebbe stato informato da Dell’Utri (che aveva nello «stalliere» Vittorio Mangano il trait d’union con Cosa nostra) di ogni passaggio della trattativa, trattativa alla quale avrebbe dato incremento con specifici atti di governo. Prendiamo per buona questa tesi. C’è però un particolare di cui si è accorto Marco Travaglio che è destinato a complicare il lavoro degli storici. Di che si tratta? Procediamo con ordine: nell’estate del ’94 (13 luglio) ci fu il decreto del ministro della Giustizia berlusconiano Alfredo Biondi, che avrebbe dovuto porre un argine agli arresti dei corrotti, ma anche favorire i mafiosi. Quasi tutti i giornali si accorsero della parte che riguardava gli imputati di Mani Pulite talché quel pacchetto di norme fu ribattezzato «decreto salvaladri». Il capo del pool giudiziario milanese, Francesco Saverio Borrelli, fece caso al fatto che il decreto Biondi fosse stato approvato all’unanimità (e subito controfirmato da Scalfaro) mentre ai mondiali di calcio era in corso una partita contro la Bulgaria (vinta dall’Italia): il magistrato ironizzò sulla circostanza che il governo volesse nascondere quel suo atto di considerevole rilievo «dietro un pallone». Subito dopo i pm di Milano Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo protestarono a gran voce e chiesero pubblicamente di essere assegnati «ad altro e diverso incarico». Al che il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni «scoprì» che il testo del dispositivo era diverso da quello approvato in Consiglio dei ministri e nel giro di poche ore Berlusconi fu costretto a ritirare il decreto. Passarono pochi mesi, a fine anno il governo cadde e, con quello che fu definito un «ribaltone», venne sostituito da un nuovo gabinetto guidato da Lamberto Dini, ex titolare berlusconiano del Tesoro, futuro ministro del centrosinistra. Il tutto ancora una volta sotto la regia di Scalfaro. E qui veniamo al punto messo in evidenza dal direttore del Fatto: nel 1995, quella norma del decreto Biondi riguardante i mafiosi (solo quella) fu entusiasticamente votata dalle due Camere ai primi di agosto, quando Scalfaro, dopo aver negato a Berlusconi le elezioni anticipate, aveva ripreso in mano le redini dell’intera politica italiana. E fu approvata, sottolinea Travaglio, «grazie al fondamentale apporto del centrosinistra». E nel silenzio, aggiungiamo noi, di tutta (o quasi) la società civile che si era ribellata al «salvaladri». Tutti di nuovo «inconsapevoli»? Curiosa coda della «trattativa»… È facile per i giudici collocare una tale bizzarra successione di eventi sullo sfondo sfocato della loro ricostruzione. Ma sarà problematico per gli studiosi di storia dar conto in maniera rigorosa e ad un tempo plausibile di come in quei mari in tempesta l’unica imbarcazione che riuscì a navigare tranquilla, trovando sponde compiacenti sia sul versante del centrodestra che su quello antiberlusconiano, sia stata la zattera, non priva di falle, del generale trattativista.

Anche la Consulta trattò con la mafia? Scrive Francesco Damato il 24 luglio 2018 su "Il Dubbio". Più leggo stralci delle 5.253 pagine della sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Palermo sulla presunta trattativa Stato- mafia – se mai troverò il tempo e la voglia di leggerle tutte, magari nelle modalità di stampa annunciate dal Fatto Quotidiano – e più ne diffido. Mi ha colpito, per esempio, un inciso sull’avvicendamento al Viminale, nell’estate del 1992, fra i democristiani Vincenzo Scotti e Nicola Mancino con la formazione del primo governo del socialista Giuliano Amato. In quell’avvicendamento, lamentando in particolare “l’assenza di pubbliche e plausibili spiegazioni” della mancata conferma di Scotti a ministro dell’Interno dopo la sua “azione di contrasto contro le mafie”, la sentenza ha indicato un sostanziale “segnale” di disponibilità alla trattativa dopo la strage di Capaci. Dove erano stati uccisi Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutti gli uomini della scorta. Un segnale prezioso – avverte la sentenza – per fare prendere sul serio dal capo della mafia Totò Riina gli approcci tentati dall’allora colonnello Mario Mori e altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri attraverso l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Ma le “spiegazioni” della mancata conferma di Scotti al Viminale erano notissime già all’epoca del fatto. Non retroscena ma cronache politiche vere e proprie raccontarono nel mese di giugno del 1992 dello sconcerto che lo stesso Scotti e l’allora guardasigilli socialista Claudio Martelli provocarono nei segretari dei loro partiti, Arnaldo Forlani e Bettino Craxi, per un incontro avuto al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il quale li convocò per essere informato di alcuni provvedimenti legislativi in cantiere dopo la strage di Capaci ma colse l’occasione, diciamo così, anche per parlare con loro della formazione del nuovo governo: il primo della legislatura uscita dalle urne del 5 aprile di quell’anno. Preoccupato per la precarietà della situazione politica, aggravata dai contraccolpi dell’inchiesta giudiziaria milanese su Tangentopoli e dal clima di emergenza creatosi con l’attentato di Capaci, clima in cui era maturata anche la sua elezione al Quirinale, Scalfaro aspirava alla formazione di un governo di tregua, magari capace di guadagnarsi l’astensione o la benevola opposizione dei comunisti. E si lasciò andare a immaginare uno scenario in cui i suoi due interlocutori, muovendosi all’uopo all’interno dei loro partiti, potessero scambiarsi i ruoli di presidente e vice presidente del Consiglio. Marco Pannella, allora in eccellenti rapporti con Scalfaro, informò dell’udienza quirinalizia e dei suoi contenuti Bettino Craxi, che a sua volta ne riferì ad Arnaldo Forlani. Entrambi non gradirono per niente, ciascuno nel suo stile. Craxi, che ancora aspirava a fare lui il presidente del Consiglio, imprecò contro il “tradimento” di Martelli e Forlani aprì alla richiesta della sinistra del suo partito di riservarle nel nuovo governo un Ministero di grande peso, come quello dell’Interno, da destinare al loro uomo di punta in quel momento, che era il capogruppo del Senato Nicola Mancino.

Quando si arrivò all’incarico a Giuliano Amato – con la forzata rinuncia di Craxi all’ambizione di tornare a Palazzo Chigi, non avendo il capo della Procura di Milano escluso in un incontro irrituale con Scalfaro un suo coinvolgimento nell’indagine famosa come “Mani pulite” – le trattative concrete per la lista dei ministri presero una piega a dir poco scontata. Scotti finì alla Farnesina e Mancino al Viminale. Martelli riuscì a rimanere al ministero della Giustizia con una telefonata di chiarimento a Craxi, cui chiese di poter continuare in via Arenula “il lavoro cominciato con Giovanni”, cioè Falcone, da lui nominato direttore degli affari penali nei mesi precedenti: lavoro drammaticamente interrotto a Capaci. Scotti non protestò per la sua nuova destinazione ma per la incompatibilità fra cariche di governo e mandato parlamentare introdotta da Forlani all’interno della Dc come segnale di cambiamento. Egli preferì restare deputato – con le relative e ancora intatte immunità, dissero i malevoli – piuttosto che fare il ministro degli Esteri. Martelli rimase al ministero della Giustizia sino al 10 febbraio del 1993, quando si dimise per un avviso di garanzia ricevuto dalla Procura di Milano. Che lo coinvolse in Tangentopoli non credo proprio per allontanarlo da via Arenula allo scopo di mandare a Totò Riina un altro “segnale” favorevole alla trattativa, per seguire la logica applicata nella sentenza di Palermo alla partenza di Scotti dal Viminale. Con quella logica qualcuno potrebbe vedere un “segnale” favorevole alla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia persino nella sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1993 in materia di carcere duro. Ad essa si attenne in autunno per non rinnovare il trattamento speciale a 334 detenuti di mafia il guardasigilli Giovanni Conso, presidente emerito della stessa Corte, subentrato a Martelli in via Arenula e confermato nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Quella decisione non portò Conso sul banco degli imputati solo perché i pubblici ministeri avrebbero dovuto passare la pratica ad altri uffici: quelli del tribunale dei ministri, con le procedure previste dalla legge, comprensive di un coinvolgimento del Senato. Essa tuttavia è incorsa nelle critiche dei giudici della Corte d’Assise di Palermo per la “speranzella”, coltivata tanto in buona fede da Conso da esprimerla pubblicamente, che l’allentamento delle tensioni nelle carceri potesse produrre anche un cambiamento nell’organizzazione mafiosa. Che continuava a eseguire e progettare attentati anche dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993. Da sola, peraltro, quella cattura poteva o doveva smentire il sospetto di una tresca, penalmente tradotta poi nel reato di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, per assecondare l’organizzazione criminale guidata da u curtu in latitanza dal lontano 1969.

Così Caselli e Mori provarono a far parlare Ciancimino. La trattativa? Fu fatta per arrestare Riina e Provenzano, scrive Damiano Aliprandi il 25 luglio 2018 su "Il Dubbio". La prova che c’è stata la trattativa Stato – mafia? Per la Corte di Palermo, sono le parole del generale Mario Mori. Questo si legge nelle motivazioni. «Noi volevamo solo arrestare della gente che delinqueva. La trattativa, nostra con Ciancimino, era solo per vedere di sapere qualche cosa di più di Cosa Nostra e arrestare questa gente». Nella sentenza è dunque Mori che parla di “trattativa”, sono le sue parole la prova dell’esistenza della trattativa, quando lui stesso usa questo termine nel corso della sua testimonianza al processo, in Corte d’Assise di Firenze, per il favoreggiamento. La logica fattuale della Corte consiste nel fatto che il famigerato papello – che sarebbe stato consegnato ai Ros per attuare la trattiva – scritto da Riina o chissà da chi, forse non è neppure esistito. Di certo, scrivono i giudici, «non è passato dalle sue mani». Si riferiscono a Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, che «ha voluto rendere plastica la trattativa materializzandola nel papello». Quindi la stessa Corte sconfessa Massimo Ciancimino, un super testimone sostenuto fino all’ultimo dalla Procura di Palermo. Ma allora questa trattativa? Sono, appunto, le parole che il Generale utilizzò, parlando di trattativa a proposito della collaborazione che cercava con Ciancimino. Ma è sempre lui, l’imputato generale Mori dei Ros, che nel corso del dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Palermo interviene con le sue spontanee dichiarazioni per meglio spiegare il senso del termine “trattativa”, che aveva utilizzato allora, in tempi non sospetti, durante l’interlocuzione con Ciancimino. A questo proposito la Corte non intende valutare le alternative dei sinonimi che l’imputato Mori propone per argomentare l’uso del termine trattativa, anzi osserva che «oggi Mori nella sua recente ricostruzione omette accuratamente di utilizzare il termine trattativa e tenta di ridimensionare le sue dichiarazioni proponendo diverse definizioni, che, contrariamente a quanto sostenuto, non sono affatto affini né sinonimi di trattativa». Anche se è in una di queste spontanee dichiarazioni che la Corte non tarda a definire un tentativo di sottrazione agli approfondimenti inevitabili dell’esame delle parti – che, come si legge in motivazione, Mori dichiara «Per me Ciancimino era so- lo ed esclusivamente una potenziale fonte di informazione da trattare in base al disposto dell’art. 203 cpp, che consente all’Ufficiale di Pg questi tipi di contatti». Parliamo dei contatti che l’allora capitano dei Ros Giuseppe De Donno prima e assieme a Mori poi, stabilirono con Vito Ciancimino. L’intento di Mario Mori, nell’autorizzare prima i tentativi di De Donno, e poi nell’incontrare personalmente l’ex sindaco di Palermo, in quel drammatico periodo segnato dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, era quello di acquisire il maggior numero di elementi informativi possibili su Cosa nostra, rivolgendosi non ai soliti confidenti di poco conto, ma a chi riteneva in grado di fornire indicazioni utili a contestualizzare ciò che stava accedendo, la cui matrice causale poteva anche essere rappresentata dagli sviluppi delle oramai note indagini su mafia e appalti. Sì, perché Vito Ciancimino, in quel periodo, ancora rivestiva un ruolo nel condizionamento degli appalti pubblici e in più aveva una funzione di cerniera tra il mondo politico- imprenditoriale e l’ambito mafioso. Per Ciancimino il sistema tangentizio era connaturato all’economia nazionale e per forza di cose si sarebbe ricostituito alla fine del periodo, allora in corso, di “mani pulite”. Sulla base di questa constatazione, egli non esitò a proporre all’ufficiale un piano di lavoro nel quale lui, Ciancimino, per conto della Stato, si sarebbe inserito nel sistema illegale degli appalti al fine di un loro controllo. In pratica una sorta di agente sottocopertura di settore. Nell’ottica di acquisire elementi utili alla prosecuzione delle indagini per giungere all’individuazione dei responsabili degli omicidi di quell’anno, in particolare per quanto attiene la strage di Capaci – i primi incontri si sono avuti dopo l’attentato di Capaci e prima di quello di via D’Amelio – De Donno ritenne che, opportunamente contattato, Vito Ciancimino avrebbe potuto accettare il dialogo. I contatti che ci furono, però alla fine non portarono a nulla. Ciancimino avrebbe voluto qualche beneficio per se’, ma la richiesta dei Ros era stata chiara: non avendo nulla da offrire, perché erano solo lì in funzione del loro ruolo professionale, dissero che Riina, Provenzano e tutti gli altri latitanti avrebbero dovuto consegnarsi a loro, in cambio, avrebbero trattato bene le loro famiglie. Ma i contatti rimasero segreti? Non del tutto. Il codice di procedura penale, in quel caso, permette di avviare contatti con i confidenti senza necessariamente avvisare la magistratura. All’epoca la Procura di Palermo era nel caos, ci furono – come spiegato da Il Dubbio tramite l’inchiesta mafiaappalti – attriti con i Ros per quanto riguarda il loro dossier voluto da Falcone. Inoltre, tra i magistrati stessi della Procura si manifestarono aspre polemiche culminate in un documento, reso pubblico e sottoscritto da un numero significativo di sostituti, che evidenziava una forte contestazione nei confronti del procuratore capo Pietro Giammanco, in relazione alla gestione dell’Ufficio. Infatti, appena si insediò il nuovo procuratore capo Giancarlo Caselli, il capo dei Ros Mario Mori gli fece il resoconto degli incontri effettuati con Vito Ciancimino. Il magistrato non ebbe nulla da obiettare e invitò i Ros a proseguire anche quando Ciancimino fu arrestato. Il 22 gennaio 1993 il capo dei Ros svolse il colloquio investigativo con Vito Ciancimino, che dichiarò essere sua intenzione riaprire con loro il rapporto confidenziale interrotto dal suo arresto. Mori gli chiarì la nuova situazione per cui la prosecuzione di un dialogo poteva avvenire solo su di un piano di formale collaborazione con gli organi dello Stato e quindi con la magistratura competente. Dopo qualche tergiversazione, egli accettò. Rientrando al Ros, trovò ad attenderlo Caselli. Il magistrato, presente anche il generale Subranni, manifestò la sua soddisfazione per questa prima apertura e gli annunciò che avrebbe iniziato al più presto l’escussione del Ciancimino. Se i Ros avessero davvero attuato la trattativa intesa come sentenziato dalla Corte, perché informavano l’allora capo della Procura Caselli? Prima di lui, ne erano informati altri. Tra i quali Liliana Ferraro, come poi lei testimoniò durante il processo. Ma anche Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, soprattutto perché Ciancimino consegnò ai Ros una bozza di un suo libro “Le Mafie”, dove sosteneva la tesi di una sostanziale convergenza di intenti operativi tra mafiosi e politici. A riguardo disse che quelli del libro erano anche gli argomenti, che voleva trattare quando fosse riuscito ad essere ricevuto dalla Commissione Parlamentare Antimafia. Egli, convinto che dietro le morti di Salvo Lima, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre la matrice mafiosa, vi fosse un disegno politico, voleva esporre questa sua tesi e preannunciò a Mori una sua lettera al Presidente della Commissione, nella quale avrebbe rinnovato la sua richiesta di essere sentito, formulata sino dagli anni ottanta. Ritorniamo alle motivazioni della Corte: non c’è alcun dubbio per i giudici, su quale sia la prova della trattativa. «Intendevano conoscere (…) a quali condizioni Vito Ciancimino avrebbe potuto porre termine alla contrapposizione frontale “muro contro muro”», questa la conclusione della Corte che ritiene qui provata la trattativa. «Un tentativo di aprire un dialogo per arrestare il latitanti», queste le dichiarazioni di Mori, che la contesta nei termini che gli vengono attribuiti.

Speciale Via D'Amelio. Storia di un colossale depistaggio, scrive il 17 Luglio 2017 Gea Ceccarelli su "Articolo 3". E' passato alla storia come il più grande depistaggio avvenuto in Italia, e non è un'iperbole. Si tratta della ragnatela di mezze verità, omissioni e menzogne che, dal '92 a oggi, hanno vorticato attorno alla strage di Via D'Amelio, avvenuta il 19 luglio di quell'anno. Lì, sotto la casa della madre del giudice Paolo Borsellino, un'autobomba esplose, facendo saltare in aria il magistrato e gli uomini della scorta. Si trattava del secondo attentato dinamitardo in meno di due mesi: cinquantasette giorni prima, a Capaci, moriva nel cosiddetto “attentatuni” il collega e amico di Borsellino, Falcone. E' in questo contesto che bisogna immaginare sia nata l'idea del depistaggio. Il tentativo di coprire probabilmente i veri responsabili e, al contempo, tranquillizzare la popolazione. Il come era semplice: trovando un capro espiatorio perfetto. Le indagini sulla strage di via D'Amelio vennero subito assegnate al “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera. Capo della squadra mobile di Palermo, con un passato all'interno del Sisde, con il nome in codice di Catullo. Una personalità controversa, quella di “Arnold”, come lo chiamavano in Questura. Quando morì, nel 2002, per un tumore al cervello, i giornali non persero tempo a dipingerlo come uomo tutto di un pezzo. Almeno finché, con nuovi processi, nuovi procedimenti e nuove indagini, alcune ombre cominciarono a intaccarne l'integrità morale. Secondo quanto ricostruito dal collaboratore di giustizia Franco Di Carlo, per esempio, La Barbera era uno dei tre agenti segreti che si recarono da lui in visita, in carcere, per chiedere un aiuto atto ad allontanare Falcone da Palermo, dove “stava facendo troppi danni”. Una visita che si colloca temporalmente poco prima del fallito attentato all'Addaura, il 21 giugno dell'89. Una provocazione o un tentativo di omicidio, quello, di cui si occuparono anche i “cacciatori di latitanti” Emanuele Piazza e Nino Agostino, uccisi poco dopo, entrambi in circostanze misteriose. Il secondo, in particolare, venne freddato assieme alla moglie incinta: subito si parlò di delitto passionale, pista avallata anche da La Barbera, ma clamorosamente falsa. Agostino, nei giorni prima di morire, stava indagando su quei candelotti esplosivi rinvenuti sulla spiaggia di fronte alla villa di Falcone: secondo il pentito Oreste Pagano, pertanto, venne ucciso poiché “aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura”. Chi siano questi “componenti” non è dato saperlo: certo è che subito dopo l’assassinio dell’agente, La Barbera inviò un suo uomo di fiducia a compiere una perquisizione non autorizzata in casa della vittima, facendo sparire documenti che Agostino stesso aveva indicato come importanti al fine dell’emersione della verità. Ma di tutto questo, nel '92, non si sapeva nulla. E il superpoliziotto venne incaricato di indagare proprio sulla strage di via D'Amelio. Indagini frenetiche, talvolta grottesche, certo anomale: diversi testimoni non vennero ascoltati, il consulente informatico Gioacchino Genchi venne estromesso dalle indagini improvvisamente, nessuno si interrogò su dove fossero finite la borsa e l'agenda rossa di Paolo Borsellino. Ciononostante, a settembre, venne fatto per la prima volta il nome del colpevole della strage: Vincenzo Scarantino, 27 anni, nipote di un boss della Guadagna: era stato lui a rubare la Fiat 126 poi detonata. Giustizia compiuta. O quasi: più iniziavano a emergere dettagli sulla figura di Scarantino, più tutto appariva incredibile. Era un piccolo delinquente, non affiliato a Cosa Nostra, che si era auto-accusato della strage, cambiando diverse volte versione. I pm di Palermo, che lo ascoltarono per altri procedimenti, lo giudicarono totalmente inattendibile; diversa opinione per quelli di Caltanissetta, che lo giudicavano perfettamente credibile. E così fu. La sua versione venne, nonostante tutto, avvallata in tre diversi processi: il Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino ter. Nove persone vennero condannate per la strage. E a nessuno, o quasi, importò più che, nel frattempo, Scarantino avesse cominciato a rendere pubbliche le sue denunce: era stato costretto a mentire, anche da La Barbera, era stato vessato e torturato affinché sostenesse di essere lui il colpevole.

Nel frattempo, La Barbera proseguì nella sua scalata professionale, fino alla prematura morte. Un eroe, per tutti, almeno fino al 2008, quando, sulla scena non comparve Gaspare Spatuzza. Fu lui a squarciare il velo: era stato lui a organizzare la strage di via D'Amelio. La verità, quella vera, riemerge dal passato. Lo fa, stavolta, in maniera inattaccabile. Spatuzza ricostruisce tutto in maniera precisa, decisa, fornisce prove e riscontri alle proprie dichiarazioni. Grazie a lui, gli innocenti vengono scarcerati, sebbene si sia dovuto attendere fino al 13 luglio scorso, prima che venissero definitivamente assolti nella revisione del processo a loro carico. Nel frattempo, ad aprile, il Borsellino Quater, avviato nel 2012 proprio a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Spatuzza, si conclude con una sentenza quantomeno storica: Scarantino è stato “indotto a mentire” da “apparati di polizia”. Il timore è che, adesso, tutta la responsabilità verrà scaricata su La Barbera, dimenticando gli altri. Colleghi e sottoposti del superpoliziotto, certo, ma anche giudici e pm che hanno, di fatto, avallato per decenni una menzogna. Per Salvatore Borsellino, due nomi su tutti: Tinebra e Palma. Per altri, più che altro detrattori del processo sulla trattativa Stato-mafia, anche il giudice Di Matteo. Ma era stato proprio Salvatore Borsellino, mesi fa, a denunciare come i primi due avessero impedito a Scarantino di raccontare la verità al terzo pm, ricordando anche le dichiarazioni di questi al processo: “Lo dicevo sempre che non sapevo niente sulla strage e Tinebra mi disse che questa storia della collaborazione dovevo prenderla come un lavoro”, aveva spiegato il falso pentito della Guadagna, in quell'occasione.

E riguardo Annamaria Palma, che, secondo le dichiarazioni dell'uomo, avrebbe consegnato ad uno dei poliziotti addetti a Scarantino dei verbali d'interrogatorio con espliciti appunti? Anche lei: lo avrebbe rassicurato di non preoccuparsi di accusare innocenti in quanto “se non hanno fatto questo hanno fatto altro”. Il falso pentito, ascoltato dai giudici in aula, aveva anche raccontato di aver avuto i numeri di cellulare dei due magistrati: “Li sentivo. Avevo i numeri di cellulare di Tinebra, della Palma, di Petralia”. Ma non di Di Matteo. Lui, (Di Matteo ndr) aveva rivelato Scarantino, “l’ho incontrato una volta e non gli ho mai detto che gli imputati erano innocenti”. D'altronde, “non è che ho fatto tanti interrogatori con lui perché li facevo sempre con Palma e Petralia. Per quello che ricordo però a Di Matteo non dissi nulla, anche perché lo vedevo più rigido e meno disponibile degli altri”. Escluso Di Matteo, resta comunque lunga lista di presunti responsabili, i cui nomi - si spera - riemergeranno dal passato grazie a nuove indagini. Nel frattempo, altri due ne sono già spuntati, anche se piuttosto in sordina. Li cita Enrico Deaglio, sul Post, ricordando un episodio eclatante del 2013, quando, durante un'audizione del processo Borsellino Quater, il legale Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, controinterrogò Spatuzza, domandandogli, tra l'altro, se avesse già raccontato a qualcuno, prima del 2008, l'estraneità di Scarantino alla strage. Il collaboratore negò e, in quel momento, Sinatra estrasse un verbale di interrogatorio datato 1998, in cui l’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e il suo vice, Piero Grasso, raccoglievano diverse informazioni da parte di Spatuzza. Tra queste, appunto che Scarantino era un falso pentito, inventato dalla polizia.

Proprio come confermato dall'ultima sentenza; solo, 19 anni dopo.

Borsellino, la trattativa e il più grande depistaggio di sempre, scrive ancora Gea Ceccarelli su "Articolo 3" a luglio 2016. Ventiquattro anni. Tanto tempo è passato da quel 19 luglio 1992, quando, in via D'Amelio, a Palermo, una 126 imbottita di tritolo fece saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e cinque ragazzi della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. A tanti anni di distanza, però, i motivi della strage, così come i veri colpevoli, sono ancora nell'ombra. Per anni si sostenne che Borsellino fosse stato ammazzato perché scomodo, perché giudice antimafia, perché, come Giovanni Falcone, perseguiva un ideale di giustizia. Perchè troppo esposto, magari proprio da chi, come Scotti, l'aveva candidato pubblicamente al vertice della Superprocura Antimafia. Ed è vero. Ma sono anche tanti, ora, che si domandano se non c'entri, in quell'eccidio così frettoloso, anche qualcosa riguardante la trattativa Stato-mafia: era possibile, infatti, che Paolo Borsellino avesse scoperto come lo Stato avesse contattato Cosa Nostra per raggiungere un accordo, e si fosse messo di traverso? Non appare un'eventualità così impossibile. Paolo Borsellino il giorno prima di morire, parlando con la moglie Agnese, rivelò di sapere che, a ucciderlo, non sarebbe stata soltanto la mafia. In un'altra occasione, in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio, venne trovato a piangere, sostenendo di esser stato tradito da un amico. E ancora: al ritorno da un viaggio a Roma (in quel periodo si moltiplicarono), si sfogò spiegando di aver visto, nella capitale, il vero volto della mafia. C'è, in particolare, uno di quei viaggi nella città eterna, a restar impresso più di altri. Lo racconta il pentito Gaspare Mutolo, che, quel giorno, era interrogato da Borsellino. Era il primo luglio e il giudice venne interrotto da una telefonata dal Ministero dell’Interno: il neoministro Nicola Mancino, subentrato a Scotti, voleva conferire con lui. Secondo quanto riportò Mutolo, all’incontro Mancino e Borsellino non erano soli: “Borsellino tornò dopo circa due ore – ricordò infatti – non commentò niente, ma era molto arrabbiato. Io mi misi a ridere perché aveva due sigarette accese contemporaneamente, una in bocca e l’altra nel posacenere, tanto era agitato. Poi ho capito perché mi disse che dopo aver parlato con il ministro incontrò Vincenzo Parisi (allora capo della Polizia) e Bruno Contrada (numero tre nella catena di comando del Sisde ndr) che gli avevano detto di sapere del mio interrogatorio. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Anzi gli disse: so che è con Mutolo, me lo saluti”. Mancino, però, negli anni successivi, smentirà il tutto, sostenendo di non aver mai incontrato il magistrato e che, a quel tempo, non sapeva nemmeno che faccia avesse. Ancor prima, nell'ultima settimana di giugno, il capitano del Ros De Donno avvicinò Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone, per informarla dei contatti presi con Vito Ciancimino tramite suo figlio Massimo nell'ottica di creare un canale di dialogo con Cosa Nostra. Da parte sua, la Ferraro riferì il tutto al ministro della Giustizia Martelli e a Paolo Borsellino, il quale organizzò subito un incontro con i carabinieri del Ros, De Donno, ma anche Mori, che si tenne il 25 giugno. Di cosa parlarono, è impossibile saperlo. Certo è che pochi giorni dopo, a Palermo, venne denunciato il furto di una 126. E' quindi possibile che, dietro la strage, ci siano ombre istituzionali? Di questo era convinto per esempio Totò Riina che, nel 2009, riferendosi a Borsellino, sosteneva: "L'hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d'Italia". Quando poi tornò a parlare, nel 2013, con il suo compagno d'aria Alberto Lorusso, aggiunse: "L'agenda rossa?", diceva, intercettato.  "I servizi segreti, gliel'hanno presa". L'agenda rossa è un altro dei misteri che gravitano attorno la strage di via D'Amelio. Per quasi due mesi Borsellino non fece altro che ripetere di voler essere interrogato dalla Procura di Caltanissetta, quella titolare delle indagini sulla strage di Capaci. Voleva riferire quanto aveva scoperto, quanto sapeva e che non poteva render pubblico, per il segreto d'inchiesta. Nessuno lo volle ascoltare. E' presumibile che avesse comunque segnato tutto sulla sua agenda, che aveva con sé anche quel 19 luglio, e che non fu mai più ritrovata. Ma, oltre a Riina, anche Gaspare Spatuzza ha parlato di servizi segreti. Lui, uno dei veri esecutori della strage, sostenne infatti che, all'interno del garage in cui era stata portata la 126 per imbottirla di tritolo, si trovava anche un uomo estraneo a Cosa Nostra, un agente dei servizi. Fu una delle tante, importanti, rivelazioni che Spatuzza offrì, permettendo di riscrivere la storia giudiziaria di via D'Amelio e smantellare il più grande depistaggio di sempre, quello del falso pentito Vincenzo Scarantino, che aveva portato alla condanna di innocenti. Successivamente, Scarantino sostenne di esser stato costretto a mentire, dal super poliziotto Arnaldo La Barbera -colui che, secondo l'ex boss Di Carlo si recò nelle carceri inglesi in cui si trovava recluso per avere un contatto con Cosa Nostra per allontanare Falcone- e magistrati, tra cui Palma e Tinebra: questi, raccontò Scarantino, lo avrebbero anche invitato a prendere "questa cosa della collaborazione come un lavoro", e di star tranquillo, nell'accusare innocenti, perché "se non hanno fatto questo, hanno fatto altro". Le ultime dichiarazioni, Scarantino le ha rilasciate qualche anno fa, dagli studi di Servizio Pubblico. Fuori dallo studio, però, lo attendevano le forze dell'ordine per arrestarlo. Ha parlato e, con tempistiche quantomeno anomale, è finito con l'essere arrestato con l'accusa di stupro; una storia di cui non s'era mai avuta notizia prima e che, l'anno scorso, s'è conclusa con la sua assoluzione. Intanto, però, il messaggio di tacere era stato inviato.

La storia del depistaggio su Via D’Amelio, scrive Enrico Deaglio il 13 luglio 2017 su “Il Post". Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un'accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all'attentato a Paolo Borsellino. Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia). E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso.

Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso. La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni. Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.

La prima versione sulla strage di via D’Amelio. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm. L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia. Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni. Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.

La seconda versione sulla strage di via D’Amelio (quella vera). Nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi – un parroco ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo – toccato improvvisamente dalle fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino (in sostanza, non avevano riscontrato un bel niente: alla prima verifica sul campo di quello che disse Spatuzza sul furto dell’auto si capì che quella verifica non era mai stata fatta sulla versione di Scarantino). Così facendo, Spatuzza sta quindi dando dei fessi – nel migliore dei casi – ad alcune decine di magistrati. Comunque, pur nell’imbarazzo, gli ergastolani vengono scarcerati (alcuni hanno invece addirittura già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato): ma non assolti, si badi. Nove anni dopo, la revisione del loro processo si è conclusa oggi, 13 luglio 2017 con l’assoluzione di tutti gli imputati. A Caltanissetta, nel 2012, inizia invece il “Borsellino quater”, nato dalle confessioni di Spatuzza e terminato il 18 aprile scorso con alcuni altri ergastoli e la conferma della condanna per calunnia (nei confronti dei suoi coimputati) a Scarantino, prescritta grazie all’attenuante di «essere stato indotto a commettere il reato» da non meglio identificati «apparati di polizia». Si aspettano, dopo 25 anni, le motivazioni, ma probabilmente le aspettative saranno deluse: la colpa delle ingiuste condanne precedenti sarà addossata al defunto La Barbera, nessun magistrato complice del depistaggio – in buona o cattiva fede – sarà coinvolto. Dei poliziotti si dirà che sì, forse, avranno torturato un po’, ma che le accuse contro di loro non avrebbero retto in aula. La gran parte dell’informazione giornalistica continua a raccontare il depistaggio come “una serie di bugie” del “falso pentito” Scarantino, che avrebbe ingannato decine di esperti poliziotti e magistrati. Questo è lo scenario al momento del “venticinquennale” e della serata RAI.

Intanto si aggiungono ancora cose. Ma intanto la procura di Palermo, dopo aver scovato un super pentito in Massimo Ciancimino (infine completamente screditato, lui e il fantomatico “signor Franco”, malgrado l’estesa promozione ricevuta da una affezionata parte dell’informazione), dopo aver raccolto propositi implausibili dal vecchio Riina, accusato il presidente della Repubblica di losche manovre (fino ad andare a interrogare in modo inaudito il presidente al Quirinale), all’inizio di giugno 2017 diffonde un altro scoop. Breaking news su tutti i telefonini: Giuseppe Graviano, il dimenticato boss di Brancaccio, è stato intercettato per ben un anno nel solito cortiletto della cella del 41 bis, mentre colloquia con il solito “detenuto civetta” incaricato di farlo parlare. E cosa dice? Prima di tutto che ha messo incinta sua moglie in cella – mentre era in teoria severamente ristretto al 41 bis – e poi che Silvio Berlusconi è un ingrato traditore. Che lui lo ha fatto ricco, e poi gli ha fatto un “gran favore”. Ma poi venne arrestato, proprio a Milano, pochi giorni prima delle elezioni del 1994 e quell’ingrato non è stato in grado di farlo uscire di galera, mentre invece spendeva i suoi soldi (forse i soldi di Graviano stesso) con le puttane. Pronta la smentita dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini, e le ricostruzioni che in gran parte concordano sul fatto che Graviano sapesse di essere intercettato e quindi va’ a sapere cosa fosse vero e cosa no: ma intanto nei giorni scorsi quelle conversazioni registrate sono state ammesse agli atti del processo in corso sulla cosiddetta “trattativa tra Stato e Mafia”, e Graviano sarà ascoltato. Il processo sulla “trattativa Stato-mafia” si trascina da anni, ne durerà ancora molti e ha diviso l’opinione pubblica, in queste proporzioni: il 90 per cento se ne frega; il 5 per cento pensa che il pm Nino De Matteo che la conduce sia il nuovo Falcone e un perfetto ministro nel prossimo governo Cinque Stelle; il restante 5 per cento pensa sia una cialtronata (chi scrive appartiene all’ultima categoria). E comunque, dopo decenni si riparla delle stragi, dei Graviano e di Berlusconi: di cui parlava Borsellino nella sua ultima intervista nel 1992, di cui parlarono nel 1998 due importantissimi magistrati con Gaspare Spatuzza.

La cosa che era successa in mezzo, e non si sapeva. E arriviamo a un elemento centrale della storia, nuovo o seminuovo, che infatti in parte raccontai così sul Venerdì di Repubblica nel luglio del 2013, durante il processo “Borsellino quater”, che la stampa aveva seguito molto svogliatamente. Il 12 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un “incidente”. L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. “Non ricordo”. Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo. La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Il presidente del Senato chiese allora al Venerdì che si facesse chiarezza sul documento (era, più esattamente, un verbale di “colloquio investigativo”) e una corretta interpretazione dei fatti venne affidata all’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, raccolta dal giornalista Piero Melati per il Venerdì: «Copia del verbale e il file della registrazione sono stati trasmessi a Caltanissetta nel dicembre 2008 dal procuratore antimafia Grasso per verificare l’attendibilità dello Spatuzza che, come noto, nel giugno del 2008 aveva cominciato a collaborare. Per un mero disguido il verbale e il file con la registrazione sono stati inseriti nel fascicolo del pm del processo Borsellino Quater, piuttosto che nel fascicolo della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) dove andavano custoditi gli atti non processualmente utilizzabili sulle stragi del 1992». E della cosa non si parlò più. Alcuni mesi fa, però, dopo 4 anni (i processi durano molto, in Italia), l’avvocato Sinatra è tornato alla carica e questa volta – eravamo nelle fasi finali del dibattimento – la Corte gli ha dato ragione: il verbale non è stato più considerato impresentabile, ma è ufficialmente entrato a far parte degli atti pubblici (il file pare di no, piuttosto illogicamente). Troppo tardi per discutere del loro contenuto (almeno in quel processo), però almeno questo permette ora a chi scrive di pubblicare quei testi senza essere accusato di violazione di alcunché; a chiunque di poter leggere e farsi un’idea; e a chi riesca a ottenere la registrazione audio di far ascoltare al vasto pubblico quanto possa essere drammatico un colloquio investigativo, del quale qui pubblichiamo la trascrizione.

Cosa sappiamo e cosa manca, nel 2017. Stiamo parlando di una cosa piuttosto importante. Siamo nel 1997. Arnaldo La Barbera lascia la Questura di Palermo e si trasferisce a quella di Napoli. Il suo posto viene preso da Antonio Manganelli. Sotto la sua direzione avviene l’arresto di Gaspare Spatuzza, il terribile killer di don Puglisi, il 2 luglio 1997. Un arresto anomalo per la città di Palermo: scontro a fuoco, cento bossoli sul terreno, lo stesso arrestato ferito. Secondo alcune ricostruzioni, Spatuzza parla subito e racconta dei legami tra il suo capo, Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, oltreché della strage di via D’Amelio. Secondo altre, lo fa solo qualche mese dopo. Chi l’abbia ascoltato, non si sa. L’unico reperto storico che abbiamo è proprio il famoso verbale, “colloquio investigativo” a cui Spatuzza partecipa (ma non firmerà) nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998. Lo interrogano Pier Luigi Vigna, procuratore generale antimafia e Piero Grasso, suo vice. In realtà, il colloquio sembra svolgersi secondo certi riti siciliani, ed è quindi condotto quasi esclusivamente da Grasso. Si capisce che non è la prima volta che i tre si parlano. E anche che non sarà l’ultima. Nel colloquio Vigna e Grasso cercano conferme su una serie di cose che hanno in testa («abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare») legate alla campagna di attentati mafiosi tra il 1992 e il 1993: La logistica dei vari attentati a Roma, Milano, Firenze.

I legami dei boss Graviano con Fininvest, Dell’Utri, Berlusconi (sui rapporti tra la mafia e Berlusconi e Dell’Utri si indagava già da alcuni anni). Le modalità dell’arresto dei fratelli Graviano a Milano, ritenuti mandanti delle stragi, per capire se l’arresto sia stato deciso e accelerato da qualcuno in quel determinato momento. Spatuzza non risponde a tutte le domande. Sta trattando. Nel 2014 spiegherà in aula che «allora la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto». Ma sulla strage di via D’Amelio offre notizie assolutamente inedite e che anni dopo verranno confermate: – l’esplosivo usato non è Semtex, ma un residuato bellico fornito da un pescatore palermitano, recuperato in mare dove ce n’è molto. Lo stesso esplosivo è stato usato anche per la strage di Capaci e per altri attentati. – Scarantino è un falso pentito inventato dalla polizia. Le persone che Scarantino ha accusato e che sono state condannate non c’entrano con la strage di via D’Amelio. Il colloquio si chiude con il rifiuto di Spatuzza a controfirmarlo – a ulteriore garanzia della sua informalità – e con il rinvio della discussione a un prossimo appuntamento, che non sappiamo se ci sia stato. Cosa è successo, dopo? Tutto e niente: tutto, intorno alle indagini e ai processi che hanno ribaltato in quasi vent’anni le tesi e le condanne iniziali; niente intorno a quelle rivelazioni di Spatuzza del 1998, sparite fino al ritrovamento del verbale, quasi un fossile riemerso da un’altra era, per un «mero disguido», sedici anni dopo nelle carte di un pm di Caltanissetta.

In concreto – nei dieci anni trascorsi tra il 1998 e il 2008 – nulla è successo per impedire che il depistaggio proseguisse. La magistratura di Caltanissetta non ha preso la minima iniziativa, anzi ha semplicemente passato gli anni a cercare di impedire che il depistaggio (e il suo ruolo in esso) venissero rivelati. Anche nei successivi altri nove anni (dal 2008, data del pentimento ufficiale di Spatuzza ad oggi, 2017), è successo molto poco. I magistrati che avevano sposato la falsa pista si sono tutti autoassolti. I poliziotti accusati di torture sono stati “archiviati”. E nessun particolare passo avanti – indagini patrimoniali, ricerche di conferme, uso di intercettazioni, collocamento di microspie o quant’altro e neppure altri “colloqui investigativi” – risulta sul contesto del delitto Borsellino e della campagna delle stragi indicati da Spatuzza. Le indagini hanno piuttosto preso – incredibilmente – altre strade. La mancanza di indagini e di risultati – in ben 19 anni – mi fa concludere che il depistaggio sia riuscito perfettamente e sia ancora in corso.

Quegli ''innominati'' dietro la scomparsa dell'agenda rossa, scrive il 17 Luglio 2017 Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. L'imputazione coatta nei confronti di Arcangioli viene accolta dalle aspre polemiche dei suoi difensori. Il 27 febbraio 2008 gli avvocati Diego Perugini e Sonia Battagliese depositano una memoria difensiva con la richiesta di audizione di numerosi uomini delle istituzioni tra cui l'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, i generali dei carabinieri Antonio Subranni e Domenico Cagnazzo, l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e molti altri. I legali di Arcangioli premono per risalire ai nominativi degli uomini dei Servizi presenti in via d'Amelio il giorno della strage e chiedono ugualmente di sentire pentiti del calibro di Gaspare Mutolo, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè ed altri. Il 5 marzo 2008 i pm avanzano la richiesta di rinvio a giudizio per Arcangioli. Martedì 1° aprile 2008 si svolge l'udienza preliminare davanti al Gup di Caltanissetta, Paolo Scotto Di Luzio. A metà pomeriggio viene emessa la sentenza di non luogo a procedere «per non avere commesso il fatto». Un mese dopo le motivazioni sono depositate in cancelleria. Tra le 27 pagine del documento il Gup traccia un'ombra ambigua sull'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Per il giudice la circostanza che Arcangioli sia stato filmato nell'atto di portare la borsa appartenuta a Borsellino non consente di stabilire «che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta scomparire», poi poche righe più sotto rimarcando che «nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione». Il 13 maggio la procura nissena impugna la sentenza e ricorre in Cassazione. I pm Renato Di Natale e Rocco Liguori, firmatari del ricorso, illustrano le contraddizioni espresse in sentenza, così come la illogicità delle motivazioni e soprattutto il travisamento della prova. In merito alla considerazione alquanto azzardata del Gup che mette in dubbio la presenza dell’agenda rossa all’interno della borsa del giudice, vengono poste di contraltare le dichiarazioni (rese nel corso della fase istruttoria) della signora Agnese Piraino Leto, del figlio Manfredi e della figlia Lucia che in particolare ricorda nettamente come l’agenda rossa del padre, quel mattino poggiata sulla sua scrivania, non vi era più quando questi si era recato a Villagrazia di Carini. Di Natale e Liguori smontano pezzo per pezzo le evidenti incongruenze della sentenza di proscioglimento per Arcangioli. L'ipotesi ventilata dal giudice della «presenza simultanea di due borse, entrambe nella disponibilità del Dr. Borsellino» contrasta decisamente con le testimonianze dei familiari che mai ne hanno denunciato la scomparsa, come al contrario hanno fatto per l’agenda rossa. L'eventualità ipotizzata dal Gup che Paolo Borsellino avesse potuto stringere in una mano l'agenda rossa nel momento stesso che si accingeva a citofonare alla madre viene contraddetta dalla logica dei fatti. «Dalla corretta (e in questo caso non controversa) ricostruzione degli eventi - scrivono i magistrati nel documento - si ricava, infatti, come il Dr. Borsellino si trovasse alla guida della vettura blindata (era di domenica pomeriggio e quindi non c'era l'autista del Ministero della Giustizia) mentre la borsa si trovasse nel pianale posteriore (dove fu poi ritrovata dopo l'esplosione)»; «Ne consegue - sottolineano i magistrati - che risulta alquanto improbabile (oltre che complicato) che il magistrato abbia fatto uso della borsa (o peggio abbia estratto l'agenda dalla borsa) durante il tragitto per Via d'Amelio (mentre si trovava alla guida), né tanto meno si spiegherebbe perché il Dr. Borsellino avrebbe dovuto portare con sé l'agenda rossa (che di certo non utilizzava per gli appunti quotidiani, quali appuntamenti, spese ed altro) una volta arrivato in via d'Amelio, considerato che era sceso dall'autovettura solo per citofonare alla madre che avrebbe dovuto accompagnare da un medico per una visita prenotata da tempo». In un dedalo di interpretazioni e travisamenti della prova il dott. Paolo Scotto Di Luzio mette in dubbio le stesse riprese televisive che inquadrano Arcangioli mentre si allontana da via d'Amelio. Per il Gup le immagini non sarebbero in grado di restituire con esattezza il preciso percorso del tenente. «Seppur non essendo dato conoscere, sulla base del filmato, la destinazione finale del percorso di Arcangioli - scrivono i pm nel loro ricorso - né il tempo esatto del possesso della borsa, è ancora errato e illogico trarne conclusioni in termini indiziari assolutamente neutri, senza considerare sia il luogo dell'ultima immagine dell'Arcangioli (già di per sé fortemente sospetto), sia la direzione (altrettanto sospetta), che la circostanza che per sottrarre un'agenda da una borsa (possibilmente consegnandola a terzi) non necessitano né ore, né minuti, ma solo pochi secondi». La procura nissena smonta ulteriormente il teorema del Gup sulla possibile presenza di «due borse» appartenenti a Borsellino e sull'eventualità che Arcangioli potesse essere giunto successivamente all'assistente di polizia, Francesco Paolo Maggi. «Tale assunto - ribadiscono i pm Di Natale e Liguori - travisa completamente il dato probatorio e contrasta inevitabilmente sia con gli accertamenti della Dia di Caltanissetta, che hanno concluso per l'identità della borsa trovata dal Maggi con quella raffigurata nella foto dell'Arcangioli, che con le dichiarazioni dei familiari del Dr. Borsellino che hanno riconosciuto in quella repertata l'unica borsa di cuoio utilizzata quel giorno dal magistrato»; «Inoltre - sottolineano i magistrati nisseni - la ricostruzione cronologica riportata in sentenza si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni dei soggetti venuti in qualche modo a contatto con la borsa del magistrato». Nel ricorso in Cassazione vengono messe a confronto tutte le contraddizioni emerse dalle dichiarazioni di Giuseppe Ayala e lo stesso Arcangioli a dimostrazione della necessità assoluta di celebrare un dibattimento per chiarire definitivamente ogni dubbio su una materia tanto delicata come la sparizione dell'agenda di Paolo Borsellino. I giudici nisseni concludono affermando che la sentenza del Gup «ha avuto la pretesa di giudicare sulla colpevolezza/innocenza dell'imputato come se si trattasse di un giudizio abbreviato, e ha concluso tentando di porre una pietra tombale su una delle vicende giudiziarie più inquietanti degli ultimi tempi». Ma quella «pietra tombale» sul mistero della scomparsa dell'agenda rossa verrà messa proprio dalla VI sezione Penale della Corte di Cassazione, presieduta da Giovanni De Roberto il 17 febbraio 2009. Pochi minuti basteranno agli ermellini per scrollarsi di dosso una vicenda ritenuta decisamente fastidiosa. Un caso da seppellire al più presto nei caotici archivi di una cancelleria istituzionale. Nell'aula austera del «palazzaccio» la presenza di un carabiniere in borghese, qualificatosi come «colonnello», non passa inosservata. In un luogo normalmente inaccessibile per chiunque non sia coinvolto nel processo celebrato, quell'uomo è lì ed assiste al pronunciamento della sentenza. Il procuratore generale, Carlo di Casola, chiede inaspettatamente il rigetto del ricorso della procura nissena. Identica richiesta viene avanzata dal difensore di Arcangioli l'avv. Adolfo Scalfati. L'avvocato di parte civile, Francesco Crescimanno, è l'unico a chiedere la possibilità di avere un regolare processo per chiarire il mistero del furto dell'agenda rossa. Ma rimane in minoranza. La Corte dichiara inammissibile il ricorso della procura di Caltanissetta. E il proscioglimento del colonnello Arcangioli diventa definitivo. L'ombra di una «ragione di Stato» si allunga sulla sentenza di un processo abortito ancor prima di iniziare. Nelle quattro paginette della motivazione della sentenza l'ignominia di uno Stato che non vuole processare se stesso prende forma. Il punto più alto dell'indecenza lo si raggiunge nel momento in cui viene messa nuovamente in dubbio l'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Nel citare le testimonianze dell'ispettore Maggi, dell'appuntato Farinella, del dott. Teresi e dell'on Ayala, gli ermellini sottolineano come da «nessuna di queste fonti, i cui contributi vengono puntualmente riportati e criticamente analizzati, è desumibile l'esistenza dell'agenda nella borsa maneggiata dall'Arcangioli e meno che mai si può ritenere la sottrazione ad opera di quest'ultimo dall'interno della borsa». L'evidente strumentalizzazione delle relative testimonianze assume i contorni di una decisione già concordata e che doveva essere solo formalizzata. Nella motivazione della sentenza di Cassazione il presidente della VI sezione penale si avvale per buona parte delle motivazioni del Gup di Caltanissetta concludendo che «gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima ai fatti portavano addirittura ad escludere che la borsa presa in consegna dal Capitano Giovanni Arcangioli contenesse un'agenda». Sconcerto, delusione e soprattutto rabbia quella di Salvatore e Rita Borsellino alla notizia del proscioglimento di Arcangioli con una simile motivazione. «A questo punto - scrive provocatoriamente Salvatore Borsellino sul suo sito - non resta che trarre le inevitabili conseguenze da questa sentenza della Corte di Cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa testimonianza e processare tutti i familiari del Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l'occultamento dell'Agenda». «Dato che Paolo non se ne separava mai - rimarca con sdegno e rabbia il fratello di Borsellino - solo i suoi familiari possono averla sottratta e occultata. Contro la madre del Giudice non si potrà procedere per sopravvenuta morte dell'imputato». «Il momento attuale è peggiore del '92 - dirà successivamente Rita Borsellino - allora sapevano chi erano gli amici e chi i nemici, con tutti i limiti del caso si sapeva a chi affidare la propria fiducia. Oggi non è così. Sappiamo che non possiamo fidarci praticamente di nessuno. Per anni ci sono state dette bugie proposte come verità. Oggi sappiamo che non c'è verità. La caparbietà dei magistrati che continuano a cercarla è il modo più bello per raccogliere l'eredità di Paolo». Nei computer dei magistrati nisseni restano archiviati i file delle dichiarazioni dei protagonisti di questa vicenda incredibile. Chiuse nelle cartelline rimangono scritte le loro ambigue contraddizioni. Ed è rileggendole che il fumo nero di via d'Amelio si dipana. Dietro quelle nebbie si intravedono ora i volti degli «innominati» di questa epoca. Ma anche questa volta è una questione di tempo. E il timer è già scattato.

“Già si cominciava a parlare della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. Lavoravamo al nostro archivio, volevamo catalogare le immagini più emblematiche delle stragi di mafia. Quella foto in realtà era una diapositiva, con le lenti d’ingrandimento passavamo in rassegna gli scatti di via D’Amelio prima di scansionare e conservarli in formato digitale. La nostra attenzione si fissò su quella borsa, invitammo alcuni colleghi a visionarla. Il responso fu unanime, poteva trattarsi della borsa di Borsellino. Non si fece in tempo a venderla (la foto, ndr), avevamo contatti con L’Espresso, Panorama e Repubblica per la cessione in esclusiva ma un collega giornalista ci tradì, la notizia uscì su Antimafia 2000 a firma di Lorenzo Baldo. Pochi giorni dopo bussarono alla porta dello studio gli uomini della Dia e sequestrarono la foto. Ci fu proibito persino di parlare del sequestro”. A parlare al Gazzettino di Sicilia è il fotografo Michele Naccari, collega di Franco Lannino (colui che materialmente ha scattato la foto che ritrae l’allora capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli). Una precisazione: il primo lancio della notizia di quella fotografia non è uscito sul nostro giornale, bensì su l’Unità. La vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, che ci ha visto testimoni diretti per quanto riguarda il ritrovamento dell’immagine di Arcangioli, merita quindi di essere raccontata per intero. A futura memoria. «Esiste una foto dove si vede un ufficiale dei carabinieri che si allontana da via d'Amelio pochi minuti dopo lo scoppio della bomba reggendo la borsa di Paolo Borsellino». Per un attimo rimango in silenzio**. Ma poi torno alla carica. «E chi sarebbe questo carabiniere?». «Giovanni Arcangioli, nel '92 aveva il grado di capitano». Sono gli ultimi mesi del 2004 quando ricevo questa segnalazione da una persona decisamente attendibile che conosciamo da diversi anni. Gli chiedo altri dettagli. Voglio vederci chiaro. «La foto è custodita dal fotografo palermitano Franco Lannino». La conversazione finisce lì. Dopo una rapida consultazione in redazione telefono al funzionario della Dia di Caltanissetta Ferdinando Buceti. Il vice questore si occupa delle nuove indagini sui mandanti occulti nelle stragi del '92 sotto il coordinamento della procura nissena. Non mi interessa fare alcun tipo di “scoop” per Antimafia Duemila. La precedenza va all'autorità giudiziaria. Punto. Buceti prende nota per poter verificare gli elementi ricevuti. Nel frattempo mi accorgo che Giovanni Arcangioli è lo stesso ufficiale che nell'estate del 2004 ha freddato a Roma il serial killer Luciano Liboni, soprannominato «il lupo». Un osso duro, Arcangioli, che nel frattempo è diventato tenente colonnello. Successivamente il funzionario della Dia scopre da riscontri incrociati che il 19 luglio 1992 risulta confermata la presenza di Arcangioli in via d'Amelio. Ma è il secondo passo quello determinante. In una sorta di «irruzione» vera e propria cinque agenti della Dia piombano nello studio dal fotografo Franco Lannino. Devono visionare il suo archivio. Subito. La cartellina delle immagini della strage di via d'Amelio viene analizzata minuziosamente fotogramma per fotogramma. La foto del carabiniere che regge la valigetta di Borsellino esce fuori dall'album. E' stata scattata tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992. E' lui. E' Giovanni Arcangioli, all'epoca comandante della sezione Omicidi del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo. Il reperto fotografico viene acquisito immediatamente dall'autorità giudiziaria. E' la prova documentale della segnalazione giunta in redazione. La macchina investigativa ha acceso i suoi motori. E' l'alba del 27 gennaio 2005 quando parto per Roma. L'appuntamento è per le ore 11 agli uffici della Dia. La verbalizzazione ufficiale della nostra segnalazione sulla fotografia di Arcangioli è prevista per quella mattina. L'indicazione fornita telefonicamente poche settimane prima al dott. Buceti viene trascritta in un verbale che confluisce nel fascicolo sulla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. In quel momento l'opinione pubblica ignora ancora la notizia del ritrovamento della foto. Ma è solo questione di un paio di mesi. Il 26 marzo l'Unità pubblica un articolo a firma di Marzio Tristano. Il ritrovamento della foto del carabiniere con la valigetta di Paolo Borsellino diventa di dominio pubblico. Da un dispaccio Ansa del 19 maggio si scopre che Giovanni Arcangioli è stato interrogato un paio di settimane prima per una foto che lo ritrae con in mano la borsa del giudice Borsellino. Domenica 5 febbraio 2006 le agenzie diramano la notizia che la Dna ha segnalato alla procura di Caltanissetta l'esistenza di un vecchio verbale del 1998 di Giuseppe Ayala sul ritrovamento della borsa del giudice Borsellino. I dispacci riportano che Ayala e Arcangioli sono stati sentiti sul punto specifico dall'autorità giudiziaria. Passano solamente quattro ore e le agenzie battono la notizia di un nuovo interrogatorio di Giovanni Arcangioli previsto nei giorni successivi. Ed è nella data di martedì 8 febbraio che quell'interrogatorio avviene negli uffici romani della Dia. Quello stesso giorno viene sentito nuovamente anche Giuseppe Ayala. I due verranno messi a confronto e le rispettive versioni non coincideranno. Inizia così una sfida a colpi di memoria. Giocata su più tavoli. Primi vagiti di un depistaggio. Consapevole o non. Ma di certo non innocente. Cinque mesi dopo, nell'edizione delle ore 20, il Tg1 trasmette un servizio di Maria Grazia Mazzola sulla strage di via d'Amelio. Per la prima volta in assoluto un canale nazionale, nell'edizione di punta del proprio telegiornale, manda in onda il video di quel frangente. Nel filmato il capitano dei carabinieri avanza spedito reggendo in mano la borsa di cuoio di Borsellino. Dietro di lui si intravedono le auto in fiamme e i pompieri che si affannano a spegnerle. La telecamera insiste implacabile sull'ufficiale. Ma è questione di pochi secondi. Con grandi falcate Arcangioli esce dal quadro delle riprese allontanandosi da via d'Amelio. Riparte il filmato, questa volta a rallentatore. Il volto del carabiniere non tradisce alcuna emozione. La valigetta è stretta nella sua mano destra. Poi più nulla. Nel servizio l'intera vicenda viene sintetizzata sotto la scure dei tempi televisivi. Ma è la novità di quel video ad attirare tutta l'attenzione. La consacrazione definitiva a livello pubblico della scomparsa dell'agenda rossa è avvenuta. Nell'immaginario collettivo la figura di colui che preleva la valigetta di Paolo Borsellino ha finalmente un volto, un corpo e un'anima.

La pietra tombale sulla scomparsa dell'agenda rossa. “Etica è innamorarsi del destino degli altri e Palermo è uno dei pochi luoghi etici rimasti in questo Paese perchè si è costretti a scegliere: o stai con gli assassini, oppure no, o stai da una parte oppure dall'altra, anche se poi è difficile vivere questa scelta”. Un cielo grigio avvolge la città di Caltanissetta. Ripenso a quelle parole pronunciate diversi anni fa da Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di quella città, mentre mi dirigo verso il palazzo di giustizia. E' il 24 febbraio 2006, alle ore 11 è prevista la mia audizione come persona informata sui fatti. L'inchiesta sulla scomparsa dell'agenda rossa procede in un percorso a ostacoli. Il procuratore capo Francesco Messineo e l'aggiunto Renato Di Natale si fanno ripetere sostanzialmente tutto l'iter della segnalazione giunta in redazione. Passano poi agli approfondimenti. Ma l'interrogativo che pesa maggiormente nella sala riunioni della procura nissena riguarda l'identificazione della «fonte». Il procuratore intende sapere se quella segnalazione provenga da ambienti «istituzionali» o meno. Ribadisco ai magistrati la provenienza «non istituzionale» della segnalazione. Sono però costretto a ricorrere al «segreto professionale» sull'identità dell'autore per una precisa volontà dello stesso. Messineo e Di Natale non battono ciglio e procedono alla verbalizzazione. Sabato 25 febbraio il quotidiano La Repubblica anticipa l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli per false dichiarazioni al pubblico ministero. La miccia è stata accesa. E' come se una scintilla cominciasse a percorrere un lungo filo prima di arrivare all'esplosivo. Non passa nemmeno un mese e i difensori di Arcangioli chiedono di spostare la competenza dell'indagine a Roma. Secondo i legali il reato ipotizzato sarebbe stato commesso a Roma e di conseguenza i giudici naturali sarebbero quelli della Capitale. La procura di Caltanissetta oppone un fermo rifiuto in quanto i reati sarebbero stati commessi nel territorio di competenza della procura nissena. Un braccio di ferro che termina con un risultato a favore della procura. L'inchiesta resta a Caltanissetta. Il fascicolo in cui si ipotizza il reato di furto resta a carico di ignoti; l'ufficiale dei carabinieri viene iscritto nel registro degli indagati per false dichiarazioni ai pm. Nel mese di ottobre del 2006 si conclude l'indagine su Arcangioli. Da quel momento attorno al caso della sparizione dell'agenda rossa si apre una danza schizofrenica a suon di carte giudiziarie. Il 3 novembre del 2006 i pm titolari dell'inchiesta, Renato Di Natale e Rocco Liguori, chiedono per l'ufficiale dei carabinieri una prima archiviazione. L'istanza viene rigettata dal Gip Ottavio Sferlazza che, il 21 luglio 2007, ordina di integrare il quadro probatorio con ulteriori accertamenti. Il 28 settembre 2007 una nuova richiesta di archiviazione da parte della procura nissena viene depositata in cancelleria. Poche pagine che racchiudono tra le righe una piccola nota in fondo al testo che apre ulteriori scenari. «Da indagini parallele in altro procedimento penale - si legge nel documento - emergeva comunque come la borsa (di Paolo Borsellino, nda) fosse stata consegnata al Dr. Giovanni Tinebra il giorno dopo l'attentato dal Dr. Arnaldo La Barbera». Il 5 novembre il Gip rigetta nuovamente la richiesta di archiviazione e ordina un supplemento di indagine. Il 14 gennaio 2008 viene reiterata dalla procura la terza richiesta di archiviazione. Il giorno 1° febbraio 2008 il Gip impone ai Pm l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli con l'accusa di furto pluriaggravato. Nell'ordinanza il Gip Sferlazza illustra una per una le gravi contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Arcangioli mettendole a confronto con le testimonianze di Giuseppe Ayala, altrettanto altalenanti, così come con quelle di Vittorio Teresi. «Contrariamente all'assunto del ten. col. Arcangioli - si legge nel documento - a nessuno dei magistrati presenti, chiamati in causa dal predetto ufficiale, fu affidata, anche temporaneamente, la borsa in questione». «L'allora capitano Arcangioli - che in un determinato contesto spazio-temporale certamente si trovò ad operare da solo - rimase per un apprezzabile lasso di tempo nella disponibilità della borsa, come documentalmente provato dai fotogrammi che lo ritraggono con la borsa in mano nell'atto di allontanarsi fin quasi l'incrocio con Via Autonomia Siciliana dove la telecamera cessa di inquadrarlo». Secondo il Gip Giovanni Arcangioli si allontana «ingiustificatamente di ben 60 metri dalla zona maggiormente interessata dall'esplosione (portineria e cratere) e dai rilievi in corso».Per Ottavio Sferlazza la direzione di marcia dell'ufficiale sembra piuttosto «funzionale all'esigenza di allontanarsi da quello spazio per controllare personalmente la presenza dell'agenda lontano da occhi indiscreti e per farla sparire, affidandola ad altri o nascondendola in una autovettura parcheggiata nei pressi, per poi fare ritorno verso via d'Amelio dove la borsa potè essere agevolmente riposta nell'autovettura del Dr. Borsellino ma ormai priva del suo prezioso documento». In totale antitesi con le registrazioni video che lo smentiscono in pieno Arcangioli aveva invece detto di essersi spostato «sul lato opposto della via d'Amelio rispetto alla casa del Dr. Borsellino» dove avrebbe aperto la borsa per esaminarne il contenuto. Per il Gip di Caltanissetta «appare evidente che, fallito clamorosamente il tentativo di precostituirsi una prova “autorevole” e “tranquillizzante” proveniente da fonte qualificata - costituita dalla asserita verifica da parte dei magistrati presenti, nell'immediatezza del prelievo della borsa dall'autovettura e sotto il loro controllo visivo, dell'assenza di una agenda all'interno della borsa stessa - all'Arcangioli, ripreso dalle telecamere in quell'atteggiamento univocamente indiziante, non rimaneva che negare di “avere mai superato, portando la borsa, il cordone di polizia che sbarrava l'accesso alla via d'Amelio”». Sferlazza sottolinea che in realtà c'era una sorta di corridoio libero che non era sbarrato da alcun cordone di polizia e che comunque per Arcangioli, munito di distintivo al petto, non era certo difficile attraversare quel tratto di strada per dirigersi verso la via Autonomia Siciliana «dove certamente sostavano molte autovetture di servizio in cui ben potè operare indisturbato, e fare poi ritorno in via d'Amelio senza destare alcun sospetto». Il Gip nisseno definisce «alquanto singolare» che il capitano Arcangioli non abbia redatto alcuna relazione di servizio «su un episodio di indubbia rilevanza investigativa, quale il rinvenimento di una borsa appartenuta al Dr. Borsellino», nemmeno «l'asserita consegna della borsa ai magistrati presenti […] avrebbe giustificato l'omessa redazione di una annotazione di servizio su un episodio tanto significativo». Nel documento viene riportata la dichiarazione di un superiore di Arcangioli, il ten. col. Marco Minicucci il quale, sul punto specifico, sottolinea che «sarebbe stato normale per un ufficiale che preleva la borsa che era contenuta nell'auto di Paolo Borsellino immediatamente dopo la strage redigere una relazione di servizio». Ma Arcangioli misteriosamente non redige alcun rapporto. Per il Gip «non può dubitarsi della esistenza dell'agenda all'interno della borsa né della attribuibilità al solo Arcangioli, almeno in una prima fase, di una condotta di sottrazione della stessa». Sferlazza evidenzia le circostanze dei diversi ritrovamenti della borsa di Paolo Borsellino all'interno della sua auto. La prima persona che recupera la borsa «sul sedile posteriore» è l'agente di scorta di Giuseppe Ayala, Rosario Farinella. Successivamente l'ispettore Francesco Paolo Maggi asserisce di averla trovata «sul pianale posteriore dietro il sedile passeggeri». I due diversi ritrovamenti costituiranno i pilastri del mistero che ruota attorno alla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Secondo il Gip nisseno la sparizione dell'agenda «va collocata in una fase certamente precedente all'intervento dell'ispettore Maggi ed appare chiaramente ascrivibile all'ufficiale dell'Arma dei carabinieri Arcangioli Giovanni». «E quale altra funzione - scrive Sferlazza nell'ordinanza - può avere avuto la successiva ricollocazione della borsa all'interno dell'autovettura se non quella di consentirne un successivo recupero, dopo averla fraudolentemente privata di quel documento approfittando della confusione che regnava in quella fase concitata e confidando sul fatto che il successivo repertamento della stessa avrebbe destato ben minori sospetti rispetto ad un suo eventuale e definitivo mancato rinvenimento?!». In merito ai risvolti legati a quanto vi possa essere scritto nell'agenda scomparsa il Gip di Caltanissetta punta dritto verso quegli organi di Stato «infedeli». «E' evidente - ribadisce Sferlazza - che il suo contenuto (dell'agenda rossa, nda) dovette subito apparire di estremo interesse al punto di suggerirne una definitiva e deliberata sottrazione ad ogni possibile sviluppo e/o doveroso approfondimento investigativo da parte dell'A.G. funzionalmente competente, mentre fu privilegiata, in sedi che non è dato conoscere ma certamente da parte di organi dello Stato infedeli, la definitiva espunzione di quel documento da un quadro probatorio complessivo, fin dall'inizio di difficile ricostruzione e lettura, che avrebbe potuto essere arricchito e reso più decifrabile». «Diversamente opinando - conclude il Gip - non si comprenderebbe perché quell'agenda non sia stata - si ribadisce, neppure tardivamente - mai più restituita alla famiglia Borsellino, sia pur, in ipotesi, dopo averne fotocopiato ed acquisito “clandestinamente” il contenuto, al di fuori delle corrette regole procedurali, tanto più ove si consideri che ciò avrebbe potuto essere fatto anche soltanto il giorno dopo senza destare alcun sospetto, mentre si è scelta la strada della criminosa e definitiva sottrazione del documento a qualunque verifica probatoria».

«Non ho un ricordo molto nitido, però, relativamente alla borsa ho un flash che posso spiegare in questi termini». Le parole dell'ispettore Giuseppe Garofalo, in servizio il 19 luglio 1992 alla Sezione Volanti della Questura di Palermo, infittiscono le nubi su via d'Amelio. I magistrati lo ascoltano attentamente. «Ricordo - racconta Garofalo - di avere notato una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi. Sul soggetto posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori. Ritengo che se mi venisse mostrata una sua immagine potrei anche ricordarmi del soggetto». I funzionari della Dia sottopongono quindi all'attenzione dell'ispettore Garofalo il video che riprende Giovanni Arcangioli. Ma l'ispettore esclude che si tratti della stessa persona in quanto l'abbigliamento del personaggio appartenente ai Servizi era completamente diverso dallo stile casual di Arcangioli. Il 16 novembre 2005 davanti agli inquirenti Garofalo ravvisa «forti somiglianze tra l'Adinolfi (il tenente colonnello del Ros di Palermo Giovanni Adinolfi, nda) e il soggetto qualificatosi in forza ai Servizi ed interessatosi della borsa», poi però in data 20 gennaio 2006, visionando nuovamente insieme agli investigatori le immagini dell'attentato Garofalo «non riconosceva nessuno (neanche l'Adinolfi) ravvisando somiglianze con un soggetto (non meglio identificato) non corrispondente alla figura dell'Adinolfi». Dal canto suo il col. Adinolfi ribadirà quanto già riferito all'autorità giudiziaria di Caltanissetta nell'aprile del 2006 in ordine alla sua presenza in via d'Amelio il 19 luglio 1992 ma «seppur riconoscendosi nel soggetto con giacca e occhiali scuri più volte ripreso vicino al col. Arcangioli». I magistrati riportano che nelle successive deposizioni lo stesso Adinolfi «nulla aggiungeva (rispetto alle precedenti dichiarazioni) con riferimento a qualsivoglia circostanza attinente la presenza della borsa appartenuta in vita al Dr. Borsellino». Le asserzioni dell'isp. Garofalo si intersecano in maniera inquietante con quelle dell'agente della Volante San Lorenzo, Salvatore Angelo, tra i primi ad arrivare in via d'Amelio. In mezzo a quella bolgia l'agente Angelo riconosce il collega Salvatore Mannino in servizio fino a qualche tempo prima al commissariato San Lorenzo. Mannino era stato poi trasferito a Firenze poiché una nota del Sisde lo aveva descritto come in pericolo di vita perché minacciato dall’organizzazione mafiosa, ma era anche sospettato di essere stato una «talpa» del commissariato. Non appena individuato Mannino, Salvatore Angelo resta interdetto. «Mi ha colpito addirittura un abbigliamento consuetudinario a lui - ricorda l'agente Angelo - giacca e pantaloni colore cammello e questo ha fatto scattare l’interrogativo di dire: ma 'sta persona qua che ci fa? Proprio perché il soggetto era quello che io ricordavo da sempre. Io poi l’ho perso con lo sguardo, perché come lui ha attraversato ancora c’era il fumo, c’erano le... le auto in fiamme, cioé non era facile seguire le persone all’interno della via D’Amelio. Ripeto, sono attimi in cui la cosa era ancora abbastanza fresca». Successivamente le dichiarazioni dell'artificiere antisabotaggio, Francesco Tumino, all'epoca in servizio presso il Nucleo Operativo del Comando Provinciale dei carabinieri di Palermo, creano ulteriore confusione nelle indagini degli investigatori. «Per il mio specifico compito cominciai ad attenzionare il cratere provocato dall’esplosione - racconta Tumino - se ben ricordo erano le 19.00 circa, allorquando notai la borsa che mi mostrate in foto in mano ad un tale ben vestito che, attraversato il cratere, si diresse verso un capannello di persone ove vi erano i più alti esponenti delle forze dell’ordine. Tale circostanza mi colpì poiché la borsa risultava per un lato bruciata e per l’altro integro e bagnata. Non conosco il tale che teneva in mano questa borsa e non mi sono accorto a chi l’abbia consegnata. Escludo, tuttavia, che potesse trattarsi di un nostro ufficiale poiché l’avrei riconosciuto». Viene quindi verbalizzata una ricostruzione alquanto discordante dalle altre testimonianze. Ma Francesco Tumino è lo stesso artificiere dei carabinieri coinvolto nei misteri del fallito attentato all'Addaura del 1989. Ed è lo stesso brigadiere che verrà condannato in appello per calunnia nell'ambito dell'inchiesta sul fallito attentato a Falcone per aver accusato l'allora capo della Criminalpol di Palermo, Ignazio D'Antone, di essersi appropriato di alcuni reperti recuperati dopo la disattivazione dell'ordigno esplosivo. Tumino morirà nel mese di gennaio del 2006 portando con sé ambiguità e segreti. Nel frattempo i misteri si intensificano. La relazione di servizio del ritrovamento della valigetta di Borsellino viene inspiegabilmente redatta dall'ispettore Maggi il 21 dicembre 1992 e consegnata al magistrato titolare delle indagini, Fausto Cardella, otto giorni dopo. Per cinque mesi non esiste quindi alcun atto di polizia giudiziaria inerente il ritrovamento della borsa del giudice. Un'incomprensibile e irragionevole vuoto temporale. Un enigma che alcuni protagonisti dell'epoca riescono ulteriormente a ingarbugliare con i propri vuoti di memoria. Il funzionario della Mobile di Palermo, Paolo Fassari, viene indicato da Francesco Maggi come il comandante che gli ordina di portare la valigetta di Borsellino in questura. Fassari, sentito successivamente dall'autorità giudiziaria, riferisce di non ricordarsi bene della presenza di Maggi in via d'Amelio, né tanto meno rammenta di avergli impartito l'ordine di recarsi in questura una volta rinvenuta la borsa del giudice. Fassari tuttavia non esclude che si siano verificate tali circostanze «in considerazione del notevole tempo trascorso e della grandissima confusione che era scaturita, in quei frangenti, in via d'Amelio». Dal tenente colonnello Marco Minicucci (all'epoca Comandante del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri Palermo I, nda), dipendevano cinque Sezioni Operative, a capo di una delle quali, la prima, era il capitano Giovanni Arcangioli. Ed è proprio Minicucci, interrogato dagli inquirenti nel 2005, a fornire un'ennesima versione dei fatti. «Ricordo in merito alla valigetta, molto vagamente, atteso i tredici anni trascorsi, che il collega (Giovanni Arcangioli, nda) fu incaricato da uno dei magistrati presenti sul posto, del quale non ricordo il nome, di prelevare dall’interno dell’auto del Procuratore Borsellino la valigetta dello stesso all’interno della quale mi ricordo che era contenuto un Crest araldico, se non erro dell’Arma, questo sulla base dei racconti che mi erano stati fatti dal Capitano Arcangioli». «In merito alla valigetta - specifica Minicucci - non ricordo altro e ritengo di potere escludere che siano stati redatti verbali da personale dipendente poiché l’attività tecnica sul luogo fu lasciata nelle competenze della Polizia di Stato in segno di rispetto per le perdite subite. Non so aggiungere altri particolari e dettagli in merito alla valigetta poiché non ho vissuto materialmente il prelievo ed il controllo della stessa ma ne sono venuto a conoscenza dal collega successivamente e limitatamente alla parte che ho appena narrato». Gli investigatori confrontano le diverse dichiarazioni e tornano a sentire l'appuntato Farinella che non ha alcun problema a confermare quanto precedentemente riferito. «Io ricordo perfettamente - ribadisce Farinella - che appena notata la borsa il vigile ha cercato di spegnere le fiamme esterne ed insieme abbiamo tentato, fino a riuscirci, di aprire la portiera che permetteva di prendere la borsa. Ricordo altrettanto bene - sottolinea l'appuntato dei carabinieri - che abbiamo aperto una delle portiere posteriori, ma non so dire se la sinistra o la destra, proprio perché abbiamo fatto diversi tentativi. Inoltre, quando io ho prelevato la borsa la stessa era perfettamente asciutta, diversamente sarebbe dovuta essere inzuppata d’acqua». L'ipotesi della borsa bagnata è uno dei punti nevralgici delle contraddizioni emerse dalle differenti dichiarazioni dei testimoni. In totale contrapposizione alle affermazioni di Rosario Farinella, Francesco Maggi riferisce che la borsa era inzuppata d'acqua in quanto un pompiere l'aveva bagnata per impedire il principio di un incendio che si stava formando all'interno dell'autovettura. Di fatto Farinella e Maggi prelevano la borsa in tempi diversi. Nel primo caso non c'è alcun incendio all'interno della Croma, così come testimonia il pompiere che aiuta l'appuntato Farinella ad aprire l'auto. Mentre quando Maggi preleva la valigetta un altro pompiere ha appena colpito con un getto d'acqua l'interno della vettura. Ad avallare le dichiarazioni di Farinella si aggiungono quelle del vigile del fuoco Giovanni Farina che materialmente lo aiuta ad aprire la portiera della macchina blindata di Borsellino. «Il giorno della strage - racconta Farina agli inquirenti il 26 ottobre 2005 - ero funzionario di servizio e subito dopo la richiesta d'intervento sono stato tra i primi ad intervenire in via d'Amelio. Al momento del nostro arrivo, al quale seguiva immediatamente l'arrivo di una squadra dei Vigili del Fuoco del distaccamento portuale, ho notato che sul posto vi erano già delle auto delle forze dell'ordine che impedivano l'accesso alla gente che sopraggiungeva». «Preciso che in quella prima fase - sottolinea il vigile del fuoco - non sapevamo ancora quali fossero lo cause di quello scenario che si presentava davanti a noi. Ricordo, però che quando siamo arrivati ciò che c'era in via d'Amelio era completamente oscurato dal fumo. Inizialmente, accorgendoci che diverse macchine erano in fiamme abbiamo provveduto a spegnerle». A quel punto Giovanni Farina mette a fuoco il ricordo della macchina del giudice. «In tale circostanza ho notato che vi era una Fiat Croma di colore blu scuro alla quale non riuscivamo ad aprire le portiere. Nel tentativo di rompere un deflettore posteriore mi sono accorto che era un'auto blindata». «Successivamente - evidenzia il pompiere Farina - grazie all'intervento di qualcuno appartenente alle forze dell'ordine siamo riusciti ad aprire le portiere e verificare che non vi fosse nessuno al suo interno. Preciso che l'autovettura in questione era posizionata quasi al centro della strada, quasi all'altezza del portone d'ingresso della madre del giudice Borsellino». Il vigile del fuoco spiega successivamente agli inquirenti di aver appreso direttamente da Giuseppe Ayala, circa 30 minuti dopo «che si era trattato di un attentato al giudice Borsellino». Quando i magistrati mostrano a Rosario Farinella la foto del capitano Arcangioli per un'identificazione, l'appuntato dei carabinieri dichiara di non essere in grado di riconoscere la persona nella fotografia. «Posso aggiungere però - conclude Farinella - che non ricordo assolutamente che la persona alla quale ho consegnato la borsa avesse una placca metallica di riconoscimento; di questo particolare ritengo che mi ricorderei». Dai principali protagonisti della scena del prelevamento, Giovanni Arcangioli e Giuseppe Ayala, si susseguono una serie di affermazioni, rivedute e corrette fino allo sfinimento. Arcangioli chiama addirittura in causa magistrati che non ci sono mai stati in via d'Amelio quel 19 luglio come Alberto Di Pisa (che minaccia querele per essere stato citato inopportunamente), e cita ugualmente chi vi è arrivato solamente nel tardo pomeriggio come Vittorio Teresi. Il 12 luglio 2005 il procuratore aggiunto di Palermo racconta agli investigatori la sua versione dei fatti. «Non posso precisare l'ora in cui arrivai in via d'Amelio - dichiara Teresi agli investigatori - ma probabilmente era trascorsa un'ora e un quarto o un'ora e mezza dall'esplosione. Mi fermai per qualche minuto ad osservare il terribile spettacolo dei corpi straziati tra i quali quello di Paolo Borsellino, e poi, mi andai a collocare sul marciapiede opposto alla cancellata del palazzo, in posizione però spostata verso l'imbocco di via d'Amelio». «Nel medesimo luogo - sottolinea il magistrato palermitano - credo di ricordare di avere visto i colleghi Ingroia e Natoli e forse Patronaggio e Ayala. Ricordo anche che altri colleghi erano sul posto ma non riesco a ricordare chi fossero». A quel punto gli inquirenti chiedono a Vittorio Teresi se ricorda di aver incontrato in quella circostanza Giovanni Arcangioli. «Non ricordo, in quella circostanza - replica Teresi - di essere stato avvicinato dal capitano Arcangioli né di avere comunque parlato con lo stesso. Chiarisco che io conoscevo e conosco benissimo il capitano Arcangioli con il quale avevo svolto alcune indagini, ma non ricordo che in via d'Amelio lo stesso mi abbia avvicinato o in qualsiasi modo interpellato». «Naturalmente - evidenzia il procuratore aggiunto di Palermo - non mi sento neanche di escludere che ciò sia avvenuto, perché, come ho detto, mi trovavo in uno stato di grande confusione e prostrazione psichica». Ai magistrati presenti Vittorio Teresi illustra minuziosamente la sua versione sul ritrovamento della valigetta di Paolo Borsellino. «Escludo in modo più assoluto come fatto materiale - sottolinea Teresi - che il capitano Arcangioli abbia esibito qualsivoglia borsa ed a maggiore ragione che io abbia aperto tale borsa, o comunque che una borsa sia stata aperta in mia presenza o anche da un altro. Peraltro io non avevo alcuna veste istituzionale, non essendo il sostituto di turno e quindi non avrei potuto ricevere alcun reperto, cosa questa che il capitano Arcangioli assai esperto doveva sapere». Prima di concludere il verbale di interrogatorio Vittorio Teresi dichiara agli investigatori di ricordarsi della presenza dell'agenda rossa del giudice assassinato «sul tavolo di Paolo Borsellino sino a venerdì o sabato (prima della strage, nda)», ma di non poter sapere se tale agenda fosse quella scomparsa. Il 13 dicembre dello stesso anno gli investigatori interrogano Mario Bo, funzionario della Squadra Mobile di Palermo nel '92 (all'epoca dirigente della II° sezione investigativa antirapina e successivamente componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino coordinato da Arnaldo La Barbera), che cinque anni dopo sarebbe stato indagato nella nuova inchiesta sul depistaggio nelle indagini per la strage di via d'Amelio. Mario Bo racconta agli investigatori di avere ricevuto la notizia della strage di via d'Amelio mentre si trovava al mare all'Addaura. Bo specifica di essersi immediatamente recato sul posto, ma di esservi rimasto per poco tempo a causa del suo abbigliamento troppo informale, di essere quindi passato a casa sua per cambiarsi prima di recarsi agli uffici della Mobile e solo successivamente in via d'Amelio. Gli investigatori mostrano a quel punto alcune fotografie della borsa di Paolo Borsellino e chiedono all'ex funzionario della Mobile se ricordi averla vista in via d'Amelio. «Dopo aver visionato le foto - risponde il dott. Bo agli inquirenti - debbo dire che, nonostante l'enorme lasso di tempo intercorso, sarebbe assai improbabile non aver mantenuto il ricordo di un oggetto così particolare. In effetti, non posso escludere di avere avuto modo di vederla, ma non riesco a contestualizzare il latente ricordo». «La mia difficoltà, in questo momento - evidenzia l'attuale capo della Squadra Mobile di Trieste - è accentuata dal fatto di non averne memoria neppure in relazione alle indagini sull'attentato in questione ed alle quali io ho partecipato a partire dal mese di giugno 1993, allorquando entrai a far parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, diretto dal dott. La Barbera». In ultimo gli investigatori chiedono a Bo se l'assistente Maggi gli abbia mai parlato della borsa in questione. Dal funzionario di polizia giungerà l'ennesima risposta negativa. Dal canto suo Giuseppe Ayala cambierà versione progressivamente. Come una tela di Penelope il racconto del ritrovamento della valigetta di Borsellino assumerà forma e sostanza mutevole. A seconda della testimonianza si allungherà in dettagli fuorvianti, o si accorcerà dietro inquietanti omissioni. Tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (G. Bongiovanni e L. Baldo, Aliberti) 

Graviano: un messaggio che nasconde i destinatari, scrive il 10/06/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Il nastro si riavvolge e il film comincia daccapo. Le stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 hanno rappresentato per 25 anni e rappresentano ancora l’autentico tormentone che ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Un tormentone che ruota attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi e alla nascita di Forza Italia. Quest’ultima rivelazione di Giuseppe Graviano, curiosamente tanto istupidito da non sospettare di essere intercettato in carcere, arriva proprio nel momento in cui la storia italiana del ‘92 e del ‘93 sembra essere già archiviata e relegata persino al ruolo di fiction, come abbiamo avuto modo di vedere seguendo l’ultima serie tv su Sky. Di Berlusconi e di Dell’Utri (quest’ultimo in carcere per concorso esterno) hanno parlato schiere di pentiti. Lo stesso Graviano, alla udienza in cui testimoniò a Torino il collaboratore Gaspare Spatuzza, si diede molto da fare nel lanciare messaggi e minacciare ricatti. Facendo intendere anche di essere pronto a qualche “sacrificio” (lui e forse il fratello, Filippo) pur di ricevere un allentamento del carcere duro. Sono passati otto anni e non sembra esser accaduto nulla, se non il “beneficio” di aver potuto ingravidare le rispettive mogli. Si era pensato che questo “evento” potesse essere stata conseguenza di una complicità del suo avvocato, immaginato come “trasportatore” del loro seme dal carcere ad un laboratorio per l’inseminazione. Apprendiamo oggi, per bocca di Giuseppe Graviano, che l’inseminazione avvenne per contatto diretto. Un “premio” per il suo silenzio, mentre gli si chiedeva di confermare le dichiarazioni di Spatuzza a proposito dei rapporti tra la mafia di Brancaccio e Berlusconi e Dell’Utri? Questo, Graviano non lo dice ma lo fa intendere. Ecco forse è questa la chiave dei colloqui intrattenuti in carcere, con un detenuto che non è neppure mafioso. Una sorta di replay dell’ “incidente” occorso a Totò Riina che si è fatto sorprendere dalle “cimici” carcerarie mentre parlava con un altro “signor nessuno”, appartenente ad una improbabile mafia pugliese. Insomma, questi boss quando hanno qualcosa da dire, da suggerire, da sussurrare e finanche da ammettere, sembrano voler scegliere la strada del “parlare” ma senza pentirsi. Una bella intercettazione e via. Resta da capire chi sono i destinatari dei messaggi. Berlusconi non sembra in grado di poter dare grandi aiuti a chicchessia, soprattutto se non si tratta di soldi. Dell’Utri sta anche peggio, immobilizzato in un reparto di cardiologia del carcere di Parma. Forse ci sono verità che ancora faticano a guadagnare la luce. Nel ‘92 certamente è accaduto qualcosa di poco commendevole nella terra di mezzo fra politica e alta finanza. Il proliferare delle Leghe, a Nord e a Sud, la svolta stragista di Cosa nostra, la fine dei partiti storici italiani. Le paure di Ciampi che, la notte delle bombe, convoca lo Stato Maggiore e si chiude a Palazzo Chigi. Se Graviano ha qualcosa da chiedere, potrebbe cominciare a parlare sul serio.  

La verità per disguido, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". Non è possibile che la storia delle stragi mafiose sia scritta a forza di documenti nascosti, sentenze sbagliate e sensazionalismi giornalistici (ovvero: Cos'è questo speciale). Alcune settimane fa Enrico Deaglio ha proposto al Post di raccontare di nuovo, per i 25 anni della strage di via D’Amelio, la storia più recente delle tante legate a quell’attentato e ai suoi misteri: quella di un documento investigativo rivelato per un “disguido” nel 2013 che mostrava delle cose nuove e gravi sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della strage. La storia di quel documento era già stata raccontata, ma senza grandi attenzioni o rilievi, anche dallo stesso Deaglio, anche sul Post. Ci siamo convinti che la scarsa attenzione fosse dovuta a una generale indifferenza e stanchezza nazionale nei confronti dei grandi “misteri d’Italia”; a una retorica commemorativa benintenzionata ma in cui restano imballati e sepolti fatti, spiegazioni, ricostruzioni; a un’incapacità dei media di rinnovarli e trasmetterli, nel groviglio di versioni e processi e cose false e vere che sono stati questi 25 anni. Come se non ce ne importasse più, per umane fatica e rimozione, anche se non lo ammetteremmo mai. Così abbiamo pensato di fare su quella storia il lavoro che al Post viene più spesso riconosciuto e richiesto, quello della spiegazione, della ricostruzione, del mettere in ordine storie e informazioni daccapo. E quello che pubblichiamo in questo speciale – una serie di diversi articoli legati tra loro – è il risultato di questo lavoro che abbiamo provato a fare per mettere quella storia in un contesto che aiuti a capirla, senza sconfinare negli ambiti più estesi e approfonditi su cui hanno scritto in tanti ed esperti. Ma mentre leggevamo ricostruzioni, articoli, verbali, e ascoltavamo registrazioni di udienze, e guardavamo video di interviste o di rovine di bombe, abbiamo anche iniziato a riflettere sulla contraddizione tra la tanto ripetuta “ricerca della verità” da parte delle istituzioni e da parte delle persone, e la continua sottrazione di pezzi di verità da parte delle istituzioni e da parte delle persone. Sono passati 25 anni da quando vennero uccisi il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 25 anni in cui si è chiesta mille volte “la verità” e quello che si è ottenuto è:

1. Una storia falsa spacciata per vera dal 1992 fino al 2008, col concorso di magistrati e ufficiali di polizia, su chi avesse compiuto quell’attentato: che ha prodotto, oltre a una falsificazione storica, la condanna e la detenzione per molti anni di nove persone estranee all’attentato (per le quali si è conclusa oggi la revisione del processo, con tutti gli imputati infine assolti, dopo 25 anni). Per quella falsificazione – una volta rivelata, nel 2008 – sono stati condannati solo gli imputati che avevano dichiarato il falso, malgrado siano certe le pressioni e le violenze da parte degli investigatori per ottenere quelle confessioni, confermate persino da una sentenza e da queste parole recenti del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paci: “C’è traccia di abusi, di contatti irrituali e connivenze tra investigatori e indagati per la ricerca di elementi che sostenessero una pista investigativa che all’epoca era plausibile, ma si ignorarono i campanelli di allarme che arrivavano dalle dichiarazioni contraddittorie di Scarantino sulla strage di via D’Amelio”.

2. La ripetuta dimostrazione dell’ostilità da parte dei magistrati che avallarono e difesero quella falsificazione a prendere in considerazione le molte prove che la dimostravano tale, e i pareri in questo senso di altri magistrati.

3. Una nuova versione divenuta pubblica solo nel 2008 e che ha portato alle condanne degli organizzatori ed esecutori della strage, senza chiarire le ragioni di quello e degli altri attentati di cui la mafia fu responsabile tra il 1992 e il 1994, in una campagna di violenze unica e anomala nella storia della mafia.

4. Una serie di indizi e dichiarazioni mai riscontrati sui rapporti dei boss organizzatori delle stragi con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, a tutt’oggi in bilico tra il credibile, l’incredibile, il molto raccontato e il poco provato.

Come si vede, su tutti questi quattro fronti nessuna “verità” è arrivata senza lasciarne altrettante da spiegare.

Chi e come ha indotto i “falsi pentiti” ad accusarsi e accusare altri falsamente, in un gravissimo e criminale depistaggio? Quali responsabilità, omissioni, intenzioni, hanno avuto i magistrati che hanno difeso con insistenza una storia falsa e fuorviante? Quali obiettivi ebbe, e quali sviluppi, la campagna di attentati tra il 1992 e il 1994? Hanno qualche fondamento le accuse contro Silvio Berlusconi? Quattro anni fa c’è stato un piccolo fatto nuovo che ha rivelato delle cose e ha fatto sospettare ce ne siano altre ancora rivelabili: un documento altrimenti “segreto” perché destinato solo alle indagini e non utilizzabile a processo, è diventato pubblico per un “disguido”, e ha svelato che Gaspare Spatuzza, il “collaboratore di giustizia” che svelò e fece smontare la falsificazione nel 2008, l’aveva già dichiarata falsa nel 1998, seppure con meno riscontri alla sua versione: ma nessuna indagine fu fatta sulle sue dichiarazioni. Quel documento è pubblico da tre anni ma è stato molto trascurato nelle ricostruzioni e nelle narrazioni, forse perché sembra certificare ulteriormente l’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nel proteggere la versione falsa. Ma quel documento è anche una traccia solo parziale di tutto quello che può essere stato già evocato e raccontato vent’anni fa ed è stato taciuto e mai verificato: ci sono altre cose dette in quello e in altri “colloqui investigativi” con i magistrati che continuano a essere riservate. Il Presidente del Senato Pietro Grasso, che da magistrato è stato uno dei personaggi di queste storie, ed è stato protagonista di grandi impegni giudiziari contro la mafia, ha appena pubblicato un libro sulle sue esperienze e sulla sua amicizia con i magistrati Falcone e Borsellino. Tra le altre cose, Grasso ricorda del suo auspicio, appena eletto senatore, di “una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi”: Ci sono troppi profili di quel tragico disegno stragista che restano ancora oscuri. Bisogna insistere perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature. Le dichiarazioni rilasciate dal pentito e gli elementi da lui forniti alle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo hanno consentito di ristabilire finalmente alcune verità sulle stragi. Occorre seguire un metodo preciso nella ricostruzione delle vicende, lo stesso metodo che ha ispirato la mia carriera di magistrato: credere solo a quello che è riscontrabile, provato, offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro, senza cadere nella tentazione di dipingere scenari opinabili, anche se suggestivi, ipotetici e non dimostrabili. Se si vuole chiarezza, si deve partire da ciò che è accertato, senza smettere di sollevare interrogativi e sottolineare i punti oscuri che richiedono un’ulteriore riflessione. Grasso ha ragione su entrambe le cose: la legislazione sui collaboratori di giustizia ha prodotto risultati riconosciuti e fondamentali ma anche disastri e inganni, come ogni regola emergenziale. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è frutto per prima cosa di un abuso di quelle regole, mentre il loro uso più coerente ha prodotto lo svelamento di quel depistaggio. E la confusione tra presunte verità giornalistiche e verità giudiziarie è alla base di storture quotidiane nell’amministrazione della giustizia, della politica e della società italiane. Sono tutte ragioni per essere cauti. Però Grasso ha ragione anche quando parla di “offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro” (la storia del documento di cui parliamo è uno di questi) e quando chiede di continuare a “sollevare interrogativi”. La prudenza non può diventare silenzio. È già successo una volta, con un pezzo di questa storia, che informazioni utili a capire come fossero andate le cose siano state trascurate e che si sia lavorato con insistenza a una falsificazione: e se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, visto che per 11 anni in carcere non aveva mai voluto farlo? E se non avesse potuto esibire il riscontro sulla riparazione dei freni dell’autobomba che lo ha reso credibile a processo? Sarebbero rimaste solo le sue parole del 1998, nascoste in un archivio, non indagate, ignote, rimpiazzate da una sentenza sbagliata su una delle stragi più gravi e importanti della storia italiana. Quelle parole le abbiamo conosciute poi per un “disguido”: forse è meglio che per tutte le altre che sono state dette si creino allora le condizioni per conoscerle legalmente, deliberatamente, completamente. I “segreti di Stato” sono connaturati agli stati, però non bisogna farli diventare una condizione ordinaria e permanente: ma nemmeno investire i magistrati del ruolo degli storici – idea che ha fatto già, e fa tuttora, abbastanza danni – o per contro aspettare gli storici del XXII secolo col loro utile distacco. Può darsi che debba essere la commissione Antimafia, o la commissione chiesta da Pietro Grasso, ad avere accesso a tutti i documenti e a trovare il modo di rispondere pubblicamente a quelle domande: o può darsi che chiunque sia stato protagonista del bene o del male di questi 25 anni debba decidersi a raccontare delle altre cose, con prudenza ma senza omertà. Noialtri intanto facciamole, le domande, poi facciamo il punto di quello che sappiamo, e stiamo in guardia su falsificazioni e depistaggi di ogni genere.

I falsi pentiti e i loro portavoce: Pm e giornalisti, scrive Tiziana Maiolo il 20 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’inaudito caso di Enzo Scarantino, costretto a “collaborare” a calci e pugni, ad autoaccusarsi e ad accusare deviando le indagini. Gli incredibili “errori” dei magistrati, tra i quali Di Matteo. Adesso lo dicono tutti, anche Sergio Mattarella: nel 1992, quando fu ucciso Paolo Borsellino, ci fu qualcosa di sbagliato nelle indagini e nei processi che seguirono. In realtà non ci fu nessun “errore”, ma il fatto banale che nessuno si curò della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Magistrati vanesi e investigatori senza scrupoli volevano in fretta una qualunque verità. Persino quella di Enzo Scarantino. Il “pentito” costruito a tavolino, come dice oggi la figlia del magistrato ucciso. Erano passati pochi giorni dal “pentimento” di Enzo Scarantino quando la moglie Rosalia mi scriveva una lettera nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture a confessare un delitto che non aveva commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino. Ci sono voluti venticinque anni e una sordità colpevole e senza precedenti da parte delle istituzioni per arrivare alle parole di una donna coraggiosa come la figlia di Borsellino che denuncia i “pentiti costruiti a tavolino”. E fa nomi e cognomi, senza paura. Quei nomi e cognomi che non ha potuto fare (se non su personaggi non di primo piano) la corte d’assise di Caltanissetta che nei mesi scorsi, nella sentenza al quarto processo per la strage di via D’Amelio, ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori. Quali investigatori? Fiammetta Borsellino ricorda chi erano i procuratori dell’epoca: il capo Tinebra, i sostituti Annamaria Palma. Carmelo Petralia, Nino di Matteo… Questi sono i magistrati ingenui, quelli che hanno creduto (creduto?) che un picciotto della Guadagna, un piccolo spacciatore vanitoso e ignorante e un bel po’ spaccone, potesse aver partecipato, con il furto di un’auto da imbottire con 90 chili di tritolo, a una delle stragi del secolo. Hanno continuato a credere (credere?) a quelle prime parole del “pentito” anche quando lui stesso, anche a costo di rinunciare alla libertà, aveva continuato a dire che quella specie di verità gli era stata estorta. Estorta come? La moglie di Scarantino aveva puntato il dito contro Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che conduceva le indagini sulle stragi e gestiva i collaboratori di giustizia. E del resto sarebbe bastato ascoltare le testimonianze (o magari rispondere alle interrogazioni parlamentari che nel corso degli anni deputati come me e Enzo Fragalà presentavano caparbiamente) di chi aveva constatato sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture, per capire in che modo si costruivano i “pentiti”. I magistrati non volevano vedere e tiravano dritto, osannati da una grande fanfara mediatica e sostenuti da un partito, il Pds, che voleva fare dell’” antimafia”, di quell’antimafia messa all’indice da Leonardo Sciascia, la propria identità. Di quel che succedeva nelle carceri, pochi si curavano. I radicali e qualche “matto” isolato in Parlamento e nell’opinione pubblica. La storia veniva scritta dai “pentiti” attraverso i loro portavoce, Pm e famosi giornalisti. Scarantino raccontava che prima di ogni interrogatorio, di ogni udienza, veniva ammaestrato, nomi e cognomi delle persone da accusare e far arrestare gli venivano suggeriti. Proprio come era già capitato con i 17 finti pentiti che accusavano Enzo Tortora. Ma nel caso Scarantino si è fatto di peggio, perché si scopriranno anni dopo addirittura appunti vergati a mano dalla grafia di qualche inquirente. E si andrà avanti così, di processo in processo, per anni e anni, fino al 2008. Con gli ergastoli che erano fioccati nei confronti di persone innocenti. Quando arriva il “pentito d’oro” Gaspare Spatuzza a dire che tutto era sbagliato, che i colpevoli erano altri, solo allora si era sbaraccato tutto il castello costruito in 16 lunghi anni. Oggi lo dicono tutti, che era stato tutto sbagliato. E sarebbe facile prendersela con persone che non ci sono più, come Arnaldo La Barbera o Tinebra. Ma dove sono tutti gli uomini di governo che hanno chiuso gli occhi, tutti i giudici delle corti d’assise che facevano i portavoce dei Pubblici ministeri e gli investigatori che svolgevano colloqui riservati nelle carceri e gli “sbirri” delle squadrette di picchiatori? C’è una responsabilità collettiva in tutto ciò. Basta fiaccolate, commemorazioni e agendine rosse. Facciamo nomi e cognomi per favore (come ci sta insegnando Fiammetta Borsellino), magari anche di qualcuno che nel frattempo ha fatto carriera o sta sognando di diventare ministro di giustizia.

Da Lima al bacio di Andreotti tutte le invenzioni dei pentiti, scrive Stefano Zurlo, Sabato 28/11/2009, su "Il Giornale". L'alfa e l'omega dei pentiti. E delle bugie a distanza di tanti anni. Le storie si ripetono e si inseguono. Inquietanti, come i doppifondi che nascondono. Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura entrano nel libro mastro dei collaboratori che hanno spacciato menzogne come, a suo tempo, Giovanni Pellegriti, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a passare dalla parte dello Stato. Pellegriti accusa, nientemeno, Salvo Lima, a quel tempo proconsole di Giulio Andreotti a Palermo, di essere il mandante di uno dei tanti omicidi eccellenti, quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Giovanni Falcone, sempre evocato e qualche volta pure a sproposito, corre nel carcere di Alessandria a interrogarlo e capisce subito che il pentito mente. Non sa nulla di Mattarella né dei suoi assassini. Dovrebbe far arrestare Lima e mandare un avviso di garanzia ad Andreotti, invece incrimina per calunnia Pellegriti e lo fa condannare a quattro anni. Quattro anni per aver venduto menzogne allo Stato. Un caso unico che ora potrebbe ripetersi. Tanti anni e tanti pentiti dopo. Falcone, purtroppo, non c’è più, ma c’è un nuovo dichiarante - strana crisalide sul punto di trasformarsi a tutti gli effetti in pentito doc - che porta acqua al mulino delle accuse a Silvio Berlusconi. È Gaspare Spatuzza, il killer di don Puglisi, pentito, convertito e addirittura aspirante teologo. Spatuzza riporta le confidenze dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, sui rapporti di Cosa nostra col premier: dunque diventa importante, credibile, persino autorevole. Ma, incidentalmente, sconfessa anche Candura e Scarantino che si erano accusati di aver rubato la 126 usata per la strage di via DAmelio e la morte di Paolo Borsellino. Che fare? Tagliare a fette, come un prosciutto, il racconto di Spatuzza? No, non si può avallare lo Spatuzza che parla del premier e cancellare lo Spatuzza che riscrive via D’Amelio. E allora si buttano nel cestino Scarantino e Candura, anche se i racconti dei due sono serviti per costruire una verità processuale che ha retto a tutti i gradi di giudizio. Per via DAmelio sono fioccate condanne, condanne pesantissime. Non importa. Ora la coppia Scarantino-Candura è indagata per calunnia e autocalunnia. Ma le prove dov’erano? E i riscontri? E gli elementi oggettivi a cui ancorare quelle pagine? Non c’erano, ammettono oggi i giudici. Ma ieri, con l’illustre eccezione del pm Ilda Boccassini, nessuno aveva seguito per via D’Amelio il metodo Falcone. Quei verbali erano tappeti volanti che portavano i magistrati lontano, dove non sarebbero mai arrivati. E si faceva la gara per salirci sopra. Certo, era più semplice dare la parola come fosse un conferenziere, a chi raccontava e riaggiustava a ruota libera la storia d’Italia. Un innamoramento sconsiderato, come è stato spesso eccessivo, senza filtri critici, l’amore dei nostri investigatori per le nuove tecnologie scientifiche, per i test del Dna, per le elaborazioni alla Csi. Col risultato di avere un alto numero di delitti irrisolti. Il pm di Bologna Libero Mancuso ha composto una sorta di fenomenologia del pentito, o almeno di un certo pentitismo, incarnato da Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo, uno dei più fecondi inventori di storie a cavallo di criminalità comune e criminalità organizzata: «Si intuiva la volontà di soddisfare chi lo interrogava, al di là di quello che lui sapeva. Era come se prevedesse quello che l’inquirente voleva sentirsi dire e si adeguasse a questa previsione, per far contento il magistrato». Come un cinico seduttore che ha fatto i suoi calcoli. Così è proprio Izzo a ispirare Pellegriti che però trova sulla sua strada Falcone. Altri hanno fabbricato di tutto pur di continuare a coltivare, come tanti dottor Stranamore, i propri affari criminali sotto il velo del pentimento. Per cinque anni nessuno si accorge della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio che non ha mai smesso di gestire gli interessi della sua cosca. Giacomo Lauro, padrino della ndrangheta, da pentito si dedica al narcotraffico e, colto con le mani nel sacco, si giustifica candidamente: «Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovrei fare, non dovrei aiutarlo?». Come si fa a prendere a scatola chiusa, come pure talvolta è accaduto, personaggi di questo spessore? Giuseppe Ferone fa di più: nel 96 ordina addirittura una strage vicino al cimitero di Catania. E Balduccio Di Maggio, il principe dei collaboratori, quello del bacio da fiction tra Andreotti e Riina, andrà avanti per anni a organizzare indisturbato, se non sotto protezione, attentati, estorsioni, persino consulenze per un traffico di droga. L’unica chance con i pentiti è quella di pesarli, con le loro verità e le loro menzogne, sulla bilancia dei riscontri. Come insegna una memorabile udienza del processo Andreotti, dove un grappolo di collaboratori - perché uno non basta mai - ipotizzava un abboccamento fra il sette volte presidente del Consiglio e il capo della mafia catanese Nitto Santapaola. Alla fine, messi alle strette dopo un estenuante batti e ribatti, i collaboratori indicarono la data del presunto summit. Peccato che quel giorno Andreotti avesse stretto la mano a Mikhail Gorbaciov.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno...Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si chiama «Lady Mafia», è una serie a fumetti noir che vede protagonista una donna del Sud a metà tra mala, sete di vendetta e voglia di giustizia. Il fumetto è in edicola da neanche 48 ore ed è già diventato un caso, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Tanto da essere bocciato dalla commissione parlamentare Antimafia che, per bocca del deputato Pd Davide Mattiello, parla di «operazione editoriale offensiva che deve essere sospesa», siamo davanti a un albo «che non trova di meglio che esaltare la violenza mafiosa come una risposta alla violenza mafiosa». Dello stesso tenore il comunicato di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Ciotti. «Ancora una volta si gioca con le parole e si sfrutta il “fascino” della mafia per un’attività commerciale che di educativo e formativo non ha nulla». Ma cos’è Lady Mafia? L’albo ammicca alle suggestioni del fumetto noir anni Sessanta/Settanta, Diabolik in testa. Formato bonelliano, 132 pagine bimestrali. Una programmazione di 10 uscite. Pubblicato dalla «Cuore Noir Edizioni», casa editrice pugliese che ora prova l’esperimento dell’edicola. Per ora Lady Mafia ha ricevuto recensioni e anticipazioni lusinghiere dalle riviste specializzate. La storia è quella di una ragazza del Sud, che nella fantasia dell’autore, Pietro Favorito, prende il nome di Veronica De Donato. Una storia dura, una saga familiare che mescola sangue e violenza. Alle spalle una famiglia distrutta dalla mafia in modo truce. E un presente volto a cercare una giustizia che sa molto di vendetta. Feroce. Libera però ritiene l’uscita di questo albo «un’operazione che ferisce la memoria di tante donne vittime delle mafie e dei loro familiari, impegnati a promuovere con le loro testimonianze il valore della giustizia contro la barbarie anche culturale della vendetta». Non solo. «Nel paese di Lea Garofalo e di tante donne come lei che hanno scelto, anche a prezzo della vita - si legge in un comunicato - il coraggio della denuncia, il fumetto Lady Mafia rappresenta un vero e proprio insulto alla loro memoria». Lo sceneggiatore dell’albo Favorito replica così alle accuse: «Innanzitutto teniamo a precisare che non è nelle nostre intenzioni ferire nessuna delle tante donne vittime della mafia - dice a Corriere.it - né tantomeno oltraggiare la loro memoria. Ma certe accuse arrivano da chi il fumetto non lo ha nemmeno letto. La violenza? Il nostro obiettivo è quello di demistificarla raccontandola». L’autore spiega che «Lady Mafia è un fumetto noir, che si tinge di tinte forti come previsto dal filone narrativo cui fa capo, e le parole Lady Mafia altro non vogliono essere che un sostantivo femminile della parola boss. Se invece di chiamarlo Lady Mafia, il nostro fumetto l’avessimo chiamato mister mafia, avremmo fatto lo stesso scalpore?».

Berlusconi come Riina: «Pedinate chiunque passi per Arcore», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Così la Guardia di Finanza controllava gli amici del Cavaliere: si appostavano davanti villa San Martino con microcamere a infrarossi nascoste in un auto civetta. «Interesse investigativo». In questi termini, senza aggiungere altro, il maresciallo della guardia di finanza di Milano Emiliano Talanga, rispondendo ad una domanda della difesa, ha spiegato il perché del pedinamento del generale dei carabinieri Vincenzo Giuliani che andava ad incontrare Silvio Berlusconi ad Arcore. La circostanza è emersa la scorsa settimana durante l’udienza nel processo in corso davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Milano, presidente Giulia Turri, a carico del consigliere regionale lombardo Mario Mantovani (FI), imputato per reati contro la Pubblica amministrazione. Nel mese di ottobre del 2013, all’epoca dei fatti contestati, Mantovani ricopre la carica di vice presidente ed assessore alla Salute della Regione Lombardia, nonché quella di coordinatore regionale del Popolo delle Libertà. Il suo telefono è intercettato. Come anche quello del suo segretario particolare Giacomo Di Capua. I finanzieri del gruppo Tutela Spesa Pubblica di Milano, coordinati dal sostituto procuratore Giovanni Polizzi, sospettano che i due, fra le tante cose, condizionino alcuni appalti nella sanità lombarda. Agli inizi di ottobre di quell’anno, Di Capua viene contattato dal colonnello dei carabinieri Giovanni Balboni, aiutante di campo del generale Vincenzo Giuliani. I due si conoscono da diverso tempo. Giuliani è al massimo della carriera. Nominato generale di corpo d’armata, è stato appena mandato a comandare l’interregionale carabinieri “Pastrengo”, uno degli incarichi più prestigiosi d’Italia, con competenza sul Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Di Capua e Balboni decidono di organizzare un incontro fra Giuliani e Berlusconi ad Arcore. Mantovani, in qualità di coordinatore regionale del Pdl, si occuperà di prendere un appuntamento con lo staff di Berlusconi. I carabinieri sono di casa ad Arcore, svolgendo ininterrottamente dal 2000 un servizio di vigilanza fissa intorno a villa San Martino. Servizio che non è stato interrotto neppure quando Berlusconi non era più Presidente del Consiglio. Sono telefonate frenetiche quelle fra Di Capua e Balboni. L’agenda di Berlusconi è fitta di impegni. I due si vedono anche presso la sede del comando interregionale “Pastrengo” in via Marcora nel centro di Milano. Tramite il cellulare intercettato di Di Capua, Giuliani parla in diverse occasioni direttamente con Mantovani. Ad uno di questi incontri fra Di Capua e Balboni si presentano anche i finanzieri. Nascosti nel parcheggio antistante la sede di via Marcora, registrano e fotografano tutto. Uno spazio nell’agenda di Berlusconi si libera per il 14 ottobre. Nel pomeriggio. Recarsi ad Arcore è un sorta di “porta fortuna” per i comandanti dell’interregionale “Pastrengo”: i predecessori di Giuliani, il generale Luciano Gottardo e il Generale Gianfrancesco Siazzu, dopo quell’incarico furono nominati comandanti generali dell’Arma. Per il 14 ottobre è tutto pronto. La finanza organizza nei confronti di Giuliani un servizio che nel gergo tecnico si chiama Ocp (osservazione, controllo e pedinamento). Con delle micro telecamere ad infrarosso nascoste in un’auto “civetta”, i finanzieri si appostano davanti villa San Martino e riprendono il generale che arriva nei pressi della residenza dell’ex premier con l’autovettura di servizio. Fino a quando, come si legge nel verbale, parcheggiato il veicolo nei pressi della villa, «scendeva dalla propria auto in dotazione all’Arma ed entrava nella auto Bmw grigia con a bordo l’assessore Mantovani, la quale ripartiva per entrare» nella residenza. Il filmato integrale, con tanto di audio, è agli atti d’indagine. Cosa si siano detti Giuliani e Berlusconi non è dato sapere visto che le riprese si interrompono davanti al cancello di villa San Martino. Difficilmente si saprà qualcosa dai diretti interessati in quanto sia Giuliani che Berlusconi non sono nella lista testi. Giuliani, però, quando alcuni atti di questo incontro finirono sui giornali, diede la sua versione dell’accaduto. «Quando arrivai in Regione, Mantovani (che conoscevo in Piemonte quando era sottosegretario alle Infrastrutture) mi chiese se avessi piacere di salutare Berlusconi. Io accettai anche perché avrei voluto dire al presidente che era appena cambiata tutta la catena gerarchica, e indicare gli interlocutori per qualunque inconveniente relativo ai servizi dell’Arma attorno alla villa». Ma perché il trasbordo sull’auto di Mantovani? «Si offrì lui di portarmi sulla sua auto, che presumo fosse più conosciuta dai guardiani di Arcore. Io valutai di entrarvi non in divisa e non sulla mia auto per non allarmare nessuno: questione di riservatezza, non di carboneria. Non chiesi alcunché a Berlusconi, né l’ho più incontrato». Tranne, appunto, il 14 ottobre del 2013 in un incontro definito dai finanzieri di Milano di “interesse investigativo”.

La mafia è cosa seria: non lasciamola all’antimafia…scrive Piero Sansonetti il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Diceva Georges Clemenceau, statista francese di inizio novecento: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari». Già, aveva ragione. Con la mafia – anzi, con la lotta alla mafia – più o meno è la stessa cosa. È roba troppo seria per lasciarla all’antimafia. La mafia è una organizzazione criminale potente e strutturata che ha dominato – nelle sue varie espressioni l’economia, e in parte anche la politica, nel Mezzogiorno d’Italia, per almeno per un secolo. Negli anni ottanta fu combattuta a fondo da un gruppo coraggiosissimo di magistrati e da settori onesti e seri della politica, e subì una sconfitta dalla quale non si è ripresa. Oggi la mafia non è più la feroce e potente organizzazione che era trent’anni fa, tuttavia esiste ancora e controlla la parte maggiore dell’attività criminale in quasi tutte le regioni del Sud. Ha perso molto del suo potere militare e della sua egemonia culturale, gode di protezioni assai più limitate di un tempo, ha difficoltà a permeare la società civile. La mafia è una cosa seria, non lasciamola all’antimafia. Però è viva, è pericolosa, funziona ancora molto bene e ancora dispone di legami sociali forti e anche di agganci politici. Sarebbe una follia smettere di combatterla. Sul piano giudiziario e sul piano politico. È possibile oggi combattere la mafia, così come negli anni ottanta la combatterono Falcone e Borsellino? È possibile, ma c’è un ostacolo nuovo: l’antimafia. Capisco che è un paradosso, ma è così. Esiste un settore molto largo dell’intellighenzia, dell’informazione, della politica, della magistratura, della Chiesa, e anche della società civile, che da una ventina d’anni ha messo in piedi un apparato ramificato di organizzazioni antimafia, le quali hanno trasformato in un grande affare il lavoro di quelli che trent’anni fa erano in prima linea. Oppure lo hanno trasformato in ideologia, o in un’occasione di lotta politica. Questa antimafia, che pure trae origine dalla lotte aspre e coraggiose combattute tanti anni fa, è diventata il primo ostacolo alla lotta alla mafia, perché ha smesso di occuparsi della mafia come fenomeno sociale e criminale, e l’ha trasformata in “bersaglio ideologico”, da usare per finalità del tutto diverse dalla lotta per ristabilire la legalità. La stessa legalità è diventata una specie di feticcio, oppure di clava, che si adopera per lo svolgimento di battaglie politiche puramente di potere. Il primo a denunciare questo fenomeno, in tempi non sospetti, e molto prima che il fenomeno assumesse le dimensioni larghissime e di massa che ha oggi, fu Leonardo Sciascia. E Leonardo Sciascia era stato precedentemente l’intellettuale italiano che aveva lanciato nel deserto, nel silenzio generale, i primi anatemi contro Cosa Nostra. «Il Giorno della civetta» è un romanzo che Sciascia scrisse nel 1961. In quel periodo i giornali non parlavano mai di mafia. Molti negavano che esistesse. Molti politici e molti magistrati avevano la stessa posizione: la mafia è un’invenzione della letteratura. Leonardo Sciascia, che la Sicilia la conosceva bene, sosteneva il contrario e, come sempre nella sua vita, era ascoltato quasi da nessuno. Il suo libro diventò un film solo sette anni dopo la sua pubblicazione, per merito di un regista come Damiano Damiani. Il film ebbe successo, ma come film di avventura non come film di denuncia. Beh, è stato proprio Sciascia, quasi trent’anni più tardi, a indicare il fenomeno emergente dei professionisti dell’antimafia. E, quando lo fece, rimase di nuovo isolato.

Oggi esistono due modi sbagliati per fare antimafia. Il primo è politico, il secondo è giudiziario.

L’antimafia politica è quella della retorica e della criminalizzazione. Ci sono dei gruppi che si autoproclamano sacerdoti del tempio, e dispensano condanne e assoluzioni. Pretendono l’esclusiva dell’autografo antimafia. Se ne infischiano della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usano la lotta alla mafia per ottener vantaggi politici, per colpire gli avversari, per scomunicare, per guadagnare potere. Qualche esempio? Basta seguire l’attività dell’antimafia della Bindi, che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto, molto spregiudicato. Com’era l’Inquisizione.

L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosità” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, naturalmente, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato- mafia. Un processo che sul piano giudiziario non sta in piedi neppure con il vinavil, ma che ha reso celebri i Pm che ne sono stati protagonisti e ne ha irrobustito le carriere. Il processo sulla trattativa inesistente, per anni, fino ad oggi, ha preso il posto alle grandi e vere inchieste antimafia. Che sono scomparse. Se pensate alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite sul lavoro duro, e che portarono alla condanna di tutto il gotha di Cosa Nostra, e le confrontate con la messa in scena dello Stato- Mafia, capite bene quale è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia- spettacolo. E qual è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia- Barnum. Poi c’è un secondo modo sbagliato di usare l’antimafia. Certo più sostanzioso, meno vanesio, ma anche questo scorretto. È l’abitudine di usare comunque l’aggravante mafiosa, anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. È la famosa questione del doppio binario della giustizia. L’abbiamo vista bene anche in occasione del processo di Roma (mafia capitale), quello che si è concluso l’altroieri con molte condanne ma con la proclamazione che la mafia non c’entra. Il fine giustifica i mezzi? No, almeno nel campo del diritto, il fine non giustifica i mezzi. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale, non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia. Cioè alle cosche reali. Quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile. Per riprendere questa battaglia bisogna avere il coraggio di dire apertamente che l’antimafia professionale va spazzata via – nelle Procure, nei partiti e soprattutto nel giornalismo – e che l’uso dell’antimafia come strumento per lotte politiche di potere è un atteggiamento devastante per la società, più o meno come lo è l’atteggiamento della mafia. A chi tocca aprire questa battaglia? Alla politica. Toccherebbe alla politica e all’intellettualità. Voi vedete in giro qualche esponente politico che abbia il coraggio di avviare una battaglia di questo genere? O qualche intellettuale? 

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

«Mio figlio curò zu Binnu per questo fu ucciso», scrive Errico Novi il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La madre di Attilio Manca contro la pronuncia che afferma la morte per overdose dell’urologo. Lunedì scorso la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che la morte del dottor Attilio Manca fu procurata da Monica “Monique” Mileti, la donna che gli procurò due dosi fatali di eroina. Una sentenza che esclude la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Provenzano. Ma la madre del medico non si arrende: «Un pentito attendibile ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano». Certo qualche iperbole scoraggia. Ad esempio le parole con cui Antonio Ingroia grida la sua verità: “Attilio Manca è una vittima di Stato e di mafia, ma lo Stato non può e non vuole ammetterlo”. Eppure la storia di questo giovane e brillante medico trovato morto, per overdose secondo i giudici, a 34 anni il 12 febbraio 2004, lascia ancora qualche zona d’ombra. Lunedì scorso, alla vigilia di Ferragosto, la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che Monica “Monique” Mileti procurò a Manca le due dosi fatali di eroina. La 58enne è stata dunque condannata a 5 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado. Con la verità giudiziaria affermata dal magistrato, per l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, verrebbe esclusa la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Bernardo Provenzano. Ma oltre a Ingroia, avvocato della famiglia Manca insieme con il collega Fabio Repici, è la madre del medico, Angela, a non arrendersi: “Il pentito barcellonese Carmelo D’ Amico”, ha scritto la donna su facebook, “ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano: è molto attendibile e tutto quello che ha detto fino ad oggi è stato regolarmente verificato. Che motivo avrebbe a mentire sull’omicidio di Attilio? ”. Secondo la famiglia, l’urologo sarebbe stato ucciso, e la sua morte mascherata da overdose, pochi mesi dopo aver visitato, e forse operato alla prostata, il boss mafioso a Marsiglia. Ipotesi che sarebbe suffragata da una telefonata fatta a casa dal figlio proprio nell’autunno del 2003, in cui spiegò di trovarsi in Costa azzurra per ragioni professionali. Poi, la dichiarazione di D’Amico. E ancora, il fatto che mai in famiglia si era potuto solo sospettare della tossicodipendenza di Attilio. Diverse anomalie nella stanza della casa di Manca a Viterbo in cui il corpo fu ritrovato: per esempio il fatto che i buchi attraverso i quali sarebbe stata iniettata la droga erano nel braccio sinistro, nonostante Attilio fosse mancino. Le tumefazioni al labbro, il fatto che nel bagno fossero state trovate impronte di Ugo Manca, cugino e teste chiave sia rispetto al fatto che l’urologo fosse da anni un “consumatore anomalo” di eroina (non ne veniva intralciato nella sua attività clinica, che svolgeva all’ospedale Belcolle di Viterbo) sia dei rapporti ormai ultradecennali tra lo stesso medico e la spacciatrice da poco condannata. Nelle motivazioni, la giudice Mattei nota come “l’istruttoria non si è limitata a esaminare le prove a carico dell’imputata in relazione al reato di spaccio, ma ha avuto a oggetto una serie di elementi apparentemente non direttamente riferibili al reato contestato che, tuttavia, si è ritenuto opportuno prendere in esame per valutare, infine escludendola, la possibilità di individuare cause alternative alla morte di Manca”. La giudice scrive anche che “altre ipotesi sono estranee all’attuale vicenda processuale”. Come pure che “non esiste una prova diretta della cessione dello stupefacente da Mileti a Manca nei giorni immediatamente precedenti il decesso”. C’è però “una serie di elementi” che “inducono a ritenere” come “l’autrice della cessione fatale sia stata l’imputata”. Soprattutto i “plurimi contatti (telefonici, nda) nei giorni immediatamente precedenti” la morte del medico. Ingroia parla di “ingiustizia”. La pronuncia con cui il Tribunale accoglie la tesi della morte da eroina e dunque nega quella dell’omicidio mascherato da overdose si basa sulle “stesse ricostruzioni lacunose e le stesse considerazioni infondate sostenute dalla Procura, lo stesso incredibile capovolgimento della realtà, la stessa ignobile calunnia verso una persona perbene, un giovane e stimato chirurgo spacciato come un tossicodipendente”. E poi c’è quel grido di dolore della madre Angela. Sull’ipotesi mafiosa la Procura di Roma è prossima all’archiviazione. Difficile che l’esposto alla Procura nazionale antimafia possa modificare le scelte di Piazzale Clodio. Ma un interrogativo continua ad agitarsi: le due verità in conflitto, tragedia personale e manipolazione criminale, potrebbero essere intrecciate? Possibile che proprio averle considerate alternative tra loro impedisca di cercare ancora la verità?

La provvidenziale morte di “faccia da mostro”, scrive Giulio Cavalli il 22 agosto 2017 su Left. È morto il 21 agosto 2017 mentre trascinava la sua barca sulla spiaggia di Montauso, sulla costa ionica catanzarese. Giovanni Aiello muore “da innocente” come si affrettano a dire i suoi avvocati: un malore sulla spiaggia. Forse un infarto, dicono. Eppure Giovanni Aiello è anche il cosiddetto “faccia da mostro” di cui parlano alcuni pentiti di Cosa Nostra. «C’entra con tutti gli omicidi più strani di Palermo», aveva detto di lui il pentito Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio. Recentemente una nuova “fonte” aveva raccontato ulteriori particolari su di lui alla Procura di Reggio Calabria. Alcuni collaboratori di giustizia l’hanno indicato come elemento di congiunzione tra i servizi segreti e gli uomini di Cosa Nostra (ma i servizi smentiscono) mentre a Palermo è stato indicato come elemento fondamentale nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, barbaramente ucciso con la moglie Ida Castelluccio. La scena del riconoscimento da parte del padre dell’agente, Vincenzo Agostino, al tribunale di Palermo è una di quelle che straziano solo a pensarle. A Reggio Calabria Aiello era indagato dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il ruolo dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”, in quel pezzo di storia d’Italia in cui mafie, massoneria e servizi deviati hanno avuto un ruolo determinante nella strategia del terrore. A luglio, per l’ennesima volta, l’abitazione di “faccia da mostro” era stata perquisita. Nello stesso giorno erano state perquisite anche le abitazioni di Bruno Contrada e dell’ex agente di polizia Guido Paolilli e dei fratelli Gagliardi di Soverato. Ora Giovanni Aiello invece è morto. Se n’è andato prima che arrivasse la verità. Come succede troppo spesso, qui da noi. E la verità diventa ancora più ripida.

Faccia da mostro, muore in spiaggia Giovanni Aiello: ordinata l’autopsia. Il caso Agostino e le stragi: tutte le accuse. L'ex poliziotto ha avuto un malore mentre stava cercando di portare a riva la propria imbarcazione: si è accasciato in mezzo ai bagnanti Se ne va così un uomo sospettato dai delitti più efferati: dall'omicidio del poliziotto a Villagrazia di Carini, accusa per cui la procura di Palermo aveva chiesto l'archiviazione, a un suo possibile ruolo nelle fasi preparatorie delle stragi. I legali: "Morto da innocente, basta sciacallaggi", scrivono Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone il 21 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Si è sentito male in spiaggia, colto da un malore in mezzo agli altri bagnanti. È morto così, come un turista qualsiasi che cerca di portare a riva la sua barca, Giovanni Aiello, l’ex poliziotto della squadra mobile di Palermo, finito al centro delle cronache giudiziarie degli ultimi anni con un’accusa infamante. Per almeno quattro procure, infatti, era lui Faccia da Mostro, l’oscuro personaggio con il volto sfregiato che si muoveva sullo sfondo delle stragi di mafia tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. L’ex poliziotto si trovava sulla costa ionica in provincia di Catanzaro, dove da anni si era ritirato a vivere a Montauro: stava cercando di portare a riva la propria imbarcazione, ma dopo averla tirata sulla battigia si è accasciato in mezzo ai bagnanti che lo avevano aiutato, probabilmente colpito da un infarto.

Disposta l’autopsia. I legali: “Morto da innocente” – Se ne va così un uomo sospettato dei delitti più efferati: dall’omicidio del poliziotto Nino Agostino, accusa per cui la procura di Palermo aveva chiesto l’archiviazione, a un suo possibile ruolo nelle fasi preparatorie delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Accuse sempre smentite dal diretto interessato e che secondo i suoi legali sarebbero state già tutte archiviate. “Giovanni Aiello è morto da innocente, da mesi la Procura di Palermo aveva archiviato le indagini a suo carico. La famiglia di Aiello dopo anni di sofferenze non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso”, dicono gli avvocati Eugenio Battaglia e Ugo Custo. Per Aiello il pm di Catanzaro, Vito Valerio, coordinato dal procuratore capo, Nicola Gratteri, ha disposto l’autopsia.

Le indagini di 4 procure – Chiaro di capelli e con una guancia sfregiata da una cicatrice sul volto – che a suo dire era il frutto di un incidente – Aiello era stato congedato dalla polizia nel 1977. Nel 2011 finisce al centro delle indagini della procura di Caltanissetta. Per i pm nisseni era lui l’inquietante personaggio che ha percorso come un’ombra tutta la Palermo delle stragi, per poi scomparire definitivamente, lasciando traccia di sé soltanto dentro ai verbali di collaboratori e testimoni. Un killer a servizio di Cosa nostra con un tesserino dei servizi in tasca evocato più volte come uomo chiave di tanti misteri a cavallo tra Stato e mafia che però non era mai stato individuato. E i riscontri ai pm nisseni mancheranno anche nel 2012, visto che chiedono e ottengono di archiviare le accuse a suo carico. Passano pochi mesi e il nome di Aiello viene nuovamente rilanciato nei vari fascicoli di indagine sulle stragi: solo che questa volta a indagare sul suo conto sono anche i pm delle procure di Palermo, Catania e Reggio Calabria.

Il caso Agostino – A tirarlo in ballo è più di un pentito: Vito Lo Forte lo fa nel novembre del 2015 davanti al giudice per le indagini preliminare Maria Pino, che stava celebrando l’incidente probatorio a carico di Gaetano Scotto e Antonino Madonia, accusati di aver ucciso il poliziotto Agostino e la moglie Ida Castelluccio, il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini.  “Lì c’era anche Giovanni Aiello, aiutò Scotto e Madonia a farli scappare a bordo di un’altra auto, dopo aver distrutto la motocicletta che avevano utilizzato”, è la versione del pentito Lo Forte.  Pochi mesi dopo, il 26 febbraio del 2016, era arrivato a riconoscere Aiello in un confronto all’americana anche Vincenzo Agostino, il padre dell’agente assassinato, che già in passato aveva raccontato della presenza di uno strano soggetto con la faccia butterata nei pressi di casa sua, pochi giorni prima dell’assassinio del figlio. “Era un uomo con i capelli biondi, dal viso orribilmente butterato, venne a bussare a casa mia chiedendo di mio figlio”, aveva detto Agostino. Che in quel confronto al carcere Ucciardone di Palermo non ha dubbi: “Faccia da mostro è lui”, dice indicando Aiello, nonostante l’ex poliziotto si fosse tinto per l’occasione i capelli di castano scuro.

L’indagine per concorso esterno – Quel riconoscimento, però, per i pm ha poco valore: anche per questo i magistrati chiederanno l’archiviazione di Aiello, Scotto e Madonia. Oltre che per l’omicidio Agostino, l’ex poliziotto era indagato anche per concorso esterno a Cosa nostra: sono diversi, infatti, i collaboratori di giustizia che lo dipingono come una sorta di sicario professionista al centro di un reticolo di misteri, omicidi e depistaggi. Alcuni pentiti, poi, lo indicano come assiduo frequentatore di fondo Pipitone, e cioè la base storica della famiglia mafiosa dei Galatolo nella borgata marinara dell’Acquasanta: lì i boss si riunivano per discutere degli affari di Cosa nostra, da lì partivano gli ordini di morte per alcuni degli omicidi eccellenti degli anni ’80, e sempre lì i pentiti raccontano di aver visto più di una volta Aiello. “Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta quell’uomo veniva periodicamente a Fondo Pipitone, incontrava mio padre, partecipava alle riunioni con gli altri capi delle famiglie palermitane”, ha raccontato Vito Galatolo, rampollo dell’Acquasanta che ha riconosciuto l’ex poliziotto in un altro confronto all’americana, come già aveva fatto la sorella Giovanna. Sono soltanto alcune di una serie impressionante di testimonianze che per i pm “costituisce prova insuperabile da poter ritenere Aiello in contatto qualificato con Cosa nostra (se non addirittura intraneo)”. Solo che tutti i racconti dei collaboratori di giustizia si fermano al massimo alla fine degli anni ’80, ed è per questo che per i magistrati anche “il reato di concorso esterno deve ritenersi estinto per prescrizione”.

Le accuse di Logiudice – Il nome di Aiello compare anche in alcune inchieste della procura di Reggio Calabria. A citarlo è stato il pentito Nino Logiudice, detto Il Nano, che nell’estate del 2013 era scappato dalla località protetta dove risiedeva prima di essere arrestato di nuovo alcuni mesi dopo. Quando venne catturato dalla squadra mobile, al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo il Nano disse di essere stato avvicinato da alcuni soggetti: si spacciavano per carabinieri e sapevano delle sue dichiarazioni su Faccia di mostro messe a verbale davanti al pm della procura nazionale antimafia, Gianfranco Donadio.  Al quale Logiudice non aveva riferito solo del possibile ruolo che Faccia da Mostro avrebbe avuto nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nei racconti del pentito calabrese compare anche una certa Antonella: una donna che agiva con lo stesso Aiello, la cui identità resta ancora un mistero, mentre alcune ipotesi le accreditano una status da agente di Gladio. “Vi dico la verità Aiello lo sentii nominare all’Asinara; ero stato lì detenuto nel periodo 1992/1995…”, racconta Logiudice a Lombardo. Le dichiarazioni del pentito sono contenute nell’ordinanza sulla Ndrangheta stragista, che ha ricostruito la partecipazione delle cosche calabresi alle stragi contro i carabinieri del 1994. Le parole di Lo Giudice, però, sono piene di omissis.

Il legame con Contrada – Aiello compare anche nel decreto di perquisizione notificato recentemente all’ex numero 2 del Sisde, Bruno Contrada, considerato dai pm calabresi solo una persona informata sui fatti e dunque non indagato. C’è una fonte che i magistrati reputano attendibile, un testimone il cui nome resta ancora top secret, che ha fornito elementi sui contatti tra Giovanni Aiello e Bruno Contrada. Contatti sui quali la Dda sta ancora indagando e che potrebbero aprire uno squarcio sul patto Cosa nostra -‘ndrangheta nella stagione delle stragi “continentali”.

Malore in barca, muore ex poliziotto Faccia da Mostro: fu coinvolto nelle indagini sullo stragismo mafioso. Indagato da quattro procure, è morto in Calabria dove viveva. La procura dispone l'autopsia. Fu sospettato di essere dei servizi e di aver avuto un ruolo in alcuni omicidi di Cosa Nostra. Lui si era difeso: "Non sono io il killer di Stato", scrivono Alessia Candito e Salvo Palazzolo il 21 agosto 2017 su "La Repubblica". E' morto stamani stroncato probabilmente da un malore Giovanni Aiello, 71 anni, l'ex poliziotto della squadra mobile di Palermo conosciuto alle cronache come "Faccia da mostro" e al centro di alcune vicende giudiziarie controverse. L'uomo, che da anni viveva a Montauro, sulla costa ionica catanzarese, è deceduto tra i bagnanti mentre stava sistemando la barca a riva. Inutili i soccorsi, è stato utilizzato anche un defibrillatore. La procura di Catanzaro ha disposto l'autopsia, per fugare ogni dubbio sulle cause della morte. Il nome di Aiello è stato più volte associato alle stragi di via D'Amelio e di Capaci, ma anche agli omicidi del vicequestore Ninni Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Ufficialmente era un ex poliziotto in pensione, alcuni pentiti lo hanno descritto come un agente dei servizi segreti, ma Aisi e Aise hanno sempre smentito una sua appartenenza all'intelligence. Di un uomo con il volto deturpato, "una faccia da mostro", aveva parlato per primo il boss confidente Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio, a metà degli anni Novanta. "E' coinvolto nei delitti più strani di Palermo". Su Giovanni Aiello hanno indagato quattro procure: Palermo, Caltanissetta, Catania e Reggio Calabria. L'ex poliziotto è stato accusato di avere avuto un ruolo nell'omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, ma l'inchiesta non ha trovato i riscontri necessari, la procura di Palermo aveva chiesto di archiviare la posizione di Aiello per prescrizione, la procura generale ha avocato il fascicolo e sta continuando a fare accertamenti. Contro Aiello c'era il riconoscimento del papà di Agostino, avvenuto alcuni mesi fa nel corso di un drammatico incidente probatorio, ma al momento non è bastato per un processo. A Catania, è stata invece archiviata l'inchiesta contro Giovanni Aiello. La procura di Caltanissetta si apprestava a fare altrettanto, l'esame del Dna ha escluso la presenza dell'ex poliziotto sul luogo della strage di Capaci, come ipotizzato da alcuni pentiti. I pm di Reggio Calabria continuavano invece le indagini sul misterioso poliziotto, di recente "una fonte" aveva svelato ai magistrati altri indizi su Giovanni Aiello. Al momento, non è chiaro se sul suo corpo sarà effettuata un’autopsia, né quale procura si occuperà di un’eventuale indagine sul decesso. Comune cittadino per i magistrati di Catanzaro, territorialmente competente, a Reggio Calabria Aiello era invece uno dei principali indagati dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il coinvolgimento dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”. Una lunga scia di sangue in cui vanno inseriti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – anche gli attentati ai carabinieri che nel ’91 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo. Episodi per lungo tempo rimasti misteriosi, ma che di recente hanno trovato un movente perché incastrati nel mosaico eversivo tessuto dalle mafie tutte, con la collaborazione di massoneria, galassia nera e settori dei servizi, per assicurarsi interlocutori politici compiacenti. Un piano in cui Giovanni Aiello per i magistrati di Reggio Calabria avrebbe avuto un ruolo. Così, l'ex poliziotto di Palermo era finito iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di aver indotto a mentire l’ex capitano del Noe, Saverio Spadaro Tracuzzi, già condannato per gli ambigui rapporti con i clan; nel luglio scorso Aiello era stato nuovamente perquisito. Insieme alla sua casa, erano state passate al setaccio anche quelle di persone considerate a lui vicine o legate, come l’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada, l'ex agente di polizia Guido Paolilli e i fratelli Gagliardi di Soverato. I legali dell'ex poliziotto, Eugenio Battaglia e Ugo Custo, sottolineano che Giovanni Aiello "è morto da innocente". Ma da più parti, già stamattina, era arriva una richiesta di effettuare l'autopsia per chiarire se sia stata una morte naturale.

Sospetti su morte di Faccia da mostro. Padre agente ucciso: "Si faccia autopsia". I legali: "No a sciacalli". L'ex agente Giovanni Aiello era accusato di coinvolgimento nelle stragi di mafia. I suoi avvocati: "Morto da innocente". Ma Vincenzo Agostino incalza: "Una fine che mi dà cattivi pensieri", scrive il 21 agosto 2017 "La Repubblica". I segreti che Giovanni Aiello si riteneva nascondesse da anni saranno sepolti con lui. Ma la sua stessa morte ora alimenta sospetti. Per questa ragione, la procura di Catanzaro ha disposto l'autopsia. L'ex agente di polizia conosciuto come "Faccia da mostro" e chiamato in causa nelle inchieste più scottanti sulla mafia - dalla stagione delle stragi alla trattativa stato-mafia - ha avuto un malore fatale a Montauro, il paese della provincia di Catanzaro dove si era ritirato da qualche anno. "La notizia mi dà cattivi pensieri - dice Vincenzo Agostino, il padre dell'agente ucciso con la moglie nel 1989 - le prove a suo carico erano sempre più rilevanti, è necessario disporre l'autopsia per verificare se la sua sia stata una morte accidentale o una uccisione di Stato per togliere di mezzo un soggetto divenuto fastidioso per tanti apparati". Vincenzo Agostino ha giurato di non tagliarsi la barba fino a quando non conoscerà la verità sulla morte dei suoi cari. "L'avevo riconosciuto in aula quel signore - dice - mi sembrava il poliziotto che era venuto a cercare mio figlio qualche giorno prima del delitto. Quando lo vidi, l'anno scorso, non mi sembrò un uomo di 70 anni, ma un atleta, non capisco perchè avrebbe avuto un infarto. Che qualcuno lo abbia tolto di mezzo? Mi sembra doveroso che venga disposta un'autopsia vera e il sequestro degli immobili per evitare che possibili reperti utili vengano eliminati". Un'opinione condivisa dal deputato Pd Davide Mattiello, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia, secondo il quale l'autopsia e il sequestro dei beni sono una misura cautelare nell'ipotesi che non si tratti di morte naturale: "Aiello porta nella tomba tante domande che riguardano i tragici fatti della stagione stragista mafiosa e non soltanto. Dall'omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio fino alla recentissima inchiesta 'Ndrangheta stragista della Dda di Reggio Calabria, il suo ruolo di collegamento tra mafie e apparati dello Stato è stato tante volte evocato, mai provato però. Ora, qualora mai avesse voluto rispondere a qualcuna di queste domande, non potrà più farlo e questa per ora è l'unica certezza". A replicare sono i legali di Aiello: "Giovanni Aiello è morto da innocente, da mesi la Procura di Palermo aveva archiviato le indagini a suo carico", sostengono gli avvocati Eugenio Battaglia e Ugo Custo. "La famiglia di Aiello - aggiungono i due legali - dopo anni di sofferenze non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso".

Mafia, nel rifugio di Faccia da mostro: "Non sono io il killer di Stato". Parla per la prima volta l'ex agente indagato da 4 Procure: "Con le stragi non c'entro ", scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo il 5 dicembre 2013 su "La Repubblica". Giovanni Aiello, l'uomo del mistero. MONTAURO (CATANZARO) - L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa.

Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano.

Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". 

L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Mafia e ‘ndrangheta, pupi e pupari. Così la verità annega tra le bugie, scrive il 20 ottobre 2016 Felice Manti su “Il Giornale”. Pupi e pupari, segreti e rivelazioni, misteri e non ricordo. Al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia – come ricorda il Fatto quotidiano – è andato in scena un altro capitolo della commedia chiamata ‘ndrangheta. Che tutto vuole e tutto sa, quando conviene. A tentare di incantare i giudici di Caltanissetta che indagano sulla morte di Giovanni Falcone (l’esplosivo sarebbe arrivato dalla nave Laura C, il supermarket dell’esplosivo in mano alla ‘ndrangheta, come ho già scritto) e Paolo Borsellino c’era il collaboratore Nino Lo Giudice, detto “il Nano”, che ha già fatto tanti casini gettando fango su molti magistrati, e che avrebbe rivelato dopo un pentimento finito male, la verità sul ruolo dei servizi segreti nella strage di via D’Amelio nella quale morì Borsellino. «Faccia di mostro, cioè l’ex poliziotto Giovanni Aiello, mi disse che era stato lui a preparare la bomba e a premere il telecomando di via D’Amelio. Con un cannocchiale era appostato su una montagna e aspettava l’arrivo di Paolo Borsellino per dare il via all’esplosione. Aiello era un agente segreto, mi disse che in quel crimine c’erano lui, l’ex numero due del Sisde Bruno Contrada e l’allora questore di Palermo La Barbera».

Tutto vero? Tutto falso? Verosimile? L’ex pentito prima di deporre al processo di Caltanissetta sulla morte di Borsellino aveva detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone.

Poi si era rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. A stanare il ruolo di Lo Giudice come possibile talpa delle trame dietro la strategia stragista del 1992-1993 era stato l’ex sostituto della Dna Gianfranco Donadio, che aveva ricostruito i rapporti tra Lo Giudice e Aiello, riconosciuto come Faccia di mostro (cioè l’agente segreto che avrebbe trescato con la mafia palermitana). Il pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia è legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: secondo Lo Giudice Donadio gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso (allora capo della Dna, prima di diventare presidente del Senato) era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna come abbiamo già scritto è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Adesso che è tornato a pentirsi, è credibile? E i tanti «non so, non ricordo»?. «Dottore – ha detto Lo Giudice al pm che lo incalzava – io ho tentato il suicidio e prendevo psicofarmaci, ecco perché tante distorsioni». E quando l’avvocato di parte civile gli ha chiesto: «Signor Lo Giudice, ci può dire chi sono i suoi suggeritori odierni?» la domanda è rimasta senza risposta perché non è stata ammessa. Ma è questo il punto. I pentiti mescolano il vero e il falso, mandano messaggi cifrati, a seconda di chi ha in mano il loro telecomando. Anche quando si tratta, per esempio, di un magistrato.

Addio “faccia di mostro”, lo accusavano di tutto ma è morto innocente, scrive Damiano Aliprandi il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Lo 007 nei tritacarne dei pentiti. “Faccia da mostro” è morto ieri in Calabria. Lo 007 accusato dai pentiti di ogni strage e omicidio consumato nel nostro paese, aveva 71 anni e ha passato gli ultimi anni della sua vita facendo quello che aveva sempre sognato di fare: il pescatore. Giovanni Aiello (questo era il suo vero nome) fu processato e puntualmente assolto dalle procure di Palermo, Catania e Caltanissetta. Fu accusato anche per le stragi di via D’Amelio e quella di Capaci. Lo tirarono in ballo anche nel processo alla “trattativa Stato- mafia”. Ma tutte le sentenze finirono allo stesso modo: non colpevole. Ieri mattina è morto Giovanni Aiello, conosciuto come «Faccia da mostro» a causa del suo viso deturpato da una vistosa cicatrice. È stato stroncato da un infarto mentre cercava di portare a riva la propria barca alla spiaggia di Montauro, località della costa ionica catanzarese dove viveva da tempo. Aiello aveva 71 anni ed era un poliziotto in pensione. Ma non era una persona qualunque. Il suo nome era stato tirato in ballo in diverse occasioni: dietro ogni strage e omicidio di mafia – secondo le accuse mosse da diverse procure siciliane – c’era sempre lui. Processato e puntualmente assolto dalle procure di Palermo, Catania e Caltanissetta. Era stato accusato di tutto: di essere stato sulla scogliera dell’Addaura (ci fu il primo tentativo di attentato contro il giudice Falcone), e poi sull’autostrada di Capaci e poi in via D’Amelio, l’hanno accusa- to persino di aver partecipato all’assassino di un bambino ( Claudio Domino) e del commissario Ninni Cassarà ( «Era lì con un fucile di precisione», lo accusò Giovanna Galatolo, l’ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90), e ancora di avere avuto un ruolo nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, di avere messo bombe sui treni e di avere dato assalto a caserme. Tutte accuse, alcune delle quali nell’ambito della cosiddetta trattativa Stato – mafia, crollate una ad una. Fu l’uomo preso di mira da diversi pentiti. Tra i tanti, meritano attenzione le accuse di Nino Lo Giudice, detto “Nano”. Un pentito particolare. Lo Giudice si è sempre autodefinito un boss di alto livello della criminalità organizzata calabrese, anche se a Reggio gira voce che i “veri” boss lo considerino solo un “venditore di meloni”. Era balzato alle cronache quando scappò dalla propria abitazione che occupava da quando aveva indossato i panni del collaboratore di giustizia. Prima di scappare – in seguito verrà riacciuffato aveva reso pubblico un memoriale nel quale ritratta anni di presunti pentimenti. Nel memoriale, Lo giudice aveva scritto che sarebbe stata una «cricca ad avermi costretto a dire le cose che ho detto». Una “cricca” formata dai pezzi da 90 che nel recente passato hanno indagato sulla ‘ ndrangheta reggina. Il primo nome sulla lista del Nano quello, famosissimo, di Giuseppe Pignatone, procuratore capo a Reggio e attualmente con lo stesso ruolo a Roma. Fu all’epoca che Lo Giudice aveva stroncato la carriera di Alberto Cisterna, numero due della Dna ai tempi di Pietro Grasso: «Mio fratello mi fece intendere che era stato favorito dal dottore Cisterna in cambio di soldi». Risultato: Cisterna venne trasferito a Tivoli. Ritornando all’ex polizotto Giovanni Aiello, il Nano ritornò alla ribalta l’anno scorso avanzando delle accuse che poi vennero archiviate. «È stato Aiello – dichiarò Lo Giudice ai magistrati di Reggio Calabria – a far saltare in aria Paolo Borsellino e i 5 agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D’Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona… Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sempre l’anno scorso aveva fatto molto rumore l’incontro di "faccia da mostro" con Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto Nino Agostino ucciso a Palermo da Cosa Nostra il 5 agosto 1989 insieme alla moglie Ida, che durante un riconoscimento all’americana (insieme a Aiello, dietro al vetro, stavano altri due uomini camuffati) lo indicò: «È lui! – disse Vincenzo Agostino – faccia da mostro è lui!». La stessa procura di Palermo, che nell’ambito della presunta trattativa mafia – stato si occupò del caso, richiese l’archiviazione. Non poteva fare altrimenti visto che il riconoscimento era avvenuto quando, già da tempo, i principali giornali avevano pubblicato la foto di Aiello. Ma non solo. Vincenzo Agostino, in tempi diversi, aveva riconosciuto altre due persone.

Il nome di Giovanni Aiello, però, nei giorni scorsi era ritornato alla ribalta nell’ambito di una inchiesta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, la quale ipotizza un patto tra mafia e ‘ ndrangheta nell’attacco sferrato allo Stato, tra il 1993 ed il 1994, in quella che fu definita la stagione delle ‘ stragi continentali’ con gli attentati di Firenze, Milano e Roma. Un’inchiesta giudiziaria, tra l’altro, che riprende quella denominata “Sistemi Criminali”, all’epoca condotta dai magistrati della Procura di Palermo nella quale vennero messi sotto indagine undici persone tra esponenti delle diverse associazioni criminali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita), della massoneria, dell’estremismo di destra e del mondo delle professioni, tutti sotto indagine ai sensi dell’articolo 270 bis, cioè l’associazione sovversiva per fini terroristici. L’inchiesta si risolse con un nulla di fatto, ma è stata riportata in auge dalla procura di Reggio Calabria. Aiello è stato indagato per induzione a rendere dichiarazioni false all’autorità giudiziaria. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello avrebbe costretto l’ex capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi a mentire agli inquirenti sul suo ruolo nella ‘ ndrangheta reggina. A tutto ciò il suo nome era comparso anche nel decreto di perquisizione notificato recentemente all’ex numero 2 del Sisde, Bruno Contrada, considerato dai pm calabresi solo una persona informata sui fatti e dunque non indagata. C’è una fonte, ritenuta attendibile dai magistrati, che ha fornito elementi sui contatti tra Giovanni Aiello e Bruno Contrada. Quest’ultimo ha smentito categoricamente di averlo conosciuto. Ora Aiello è morto da innocente. I suoi ex avvocati difensori hanno supplicato di lasciare in pace la sua famiglia che, dopo anni di sofferenze, «non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso».

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

La Cassazione: «Toto Riina è malato, ha diritto a morire con dignità», scrive il 5 giugno 2017 "Il Dubbio". Apertura dei giudici del Palazzaccio alla scarcerazione del “boss dei boss”: ha 86 anni, è in carcere dal 1993. Valutare nuovamente se sussistano o meno i presupposti per concedere a Totò Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute. È quanto ha disposto la Cassazione, che, accogliendo il ricorso presentato dalla difesa del boss di Cosa nostra, ha annullato con rinvio la decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva detto “no” alla concessione di tali benefici penitenziari, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui Riina versa da tempo. Il giudice bolognese aveva ritenuto che le “pur gravi condizioni di salute del detenuto” non fossero tali da “rendere inefficace qualunque tipo di cure” anche con ricoveri in ospedale a Parma (nel cui penitenziario Riina è recluso al 41 bis) e osservato che non erano stati superati “i limiti inerenti il rispetto del senso di umanità di cui deve essere connotata la pena e il diritto alla salute”. Il tribunale di sorveglianza di Bologna, invece, metteva in evidenza la “notevole pericolosità” di Riina, in relazione alla quale sussistevano “circostanze eccezionali tali da imporre l’inderogabilità dell’esecuzione della pena nella forma della detenzione inframuraria”. Oltre all'”altissimo tasso di pericolosità del detenuto”, il giudice ricordava “la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa nostra, ancora pienamente operante e rispetto alla quale Riina non ha mai manifestato volontà di dissociazione”: per questo, osservava il tribunale bolognese, era “impossibile effettuare una prognosi di assenza di pericolo di recidiva” del boss, nonostante “l’attuale stato di salute, non essendo necessaria, dato il ruolo apicale rivestito dal detenuto, una prestanza fisica per la commissione di ulteriori gravissimi delitti nel ruolo di mandante”. La prima sezione penale della Suprema Corte, con una sentenza depositata oggi, ha ritenuto fondato il ricorso, definendo “carente” e “contraddittoria” la decisione del tribunale di sorveglianza, che ha omesso di considerare “il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico”: affinchè la pena non si risolva in un “trattamento inumano e degradante”, ricordano i giudici di piazza Cavour, lo “stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto – si legge nella sentenza – avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”. I giudici di Palazzaccio, inoltre, osservano che “ferma restando l’altissima pericolosità” di Riina e “del suo indiscusso spessore criminale”, il tribunale di sorveglianza non “chiarisce come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale” data la “sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e, del più generale stato di decadimento fisico” del boss. La decisione del giudice bolognese, secondo la Cassazione, non spiega come “si è giunti a ritenere compatibile con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanità” imposte dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti umani “il mantenimento in carcere” di Riina, viste le sue condizioni di salute: la Corte afferma quindi “l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente, che deve essere assicurato al detenuto e in relazione al quale il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare deve espressamente motivare”, anche tenuto conto delle “deficienze strutturali della casa di reclusione di Parma”. Il giudice di merito, dunque, deve “verificare, motivando adeguatamente in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena”. Infatti, le “eccezionali condizioni di pericolosità” per cui negare il differimento pena devono “essere basate su precisi argomenti di fatto – conclude la Cassazione – rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza”. Sulla base delle indicazioni e dei principi espressi della Suprema Corte nella sentenza di oggi, il tribunale di sorveglianza di Bologna dovrà riesaminare le istanze delle difesa di Riina.

La sentenza della Corte: «Ormai Riina è vecchio e malato. Non è più pericoloso». Secondo i giudici la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale», scrive il 6 giugno 2017 "Il Dubbio". La sentenza che ha dato il via libera alla scarcerazione di Totò Riina è una vera e propria proclamazione del diritto e dei diritti della persona. Tra le pagine firmate da Mariastefania Di Tomassi presidente della prima sezione penale della Cassazione, si legge chiaramente che la permanenza in carcere del vecchio boss nega il diritto alla salute e il senso di umanità della pena. In particolare gli ermellini “contestano” la decisione di respingere la prima richiesta di scarcerazione, avanzata dal legale del boss lo scorso anno, spiegando che nel motivare il diniego, il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva omesso di considerare il «complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». «II provvedimento impugnato – spiega infatti oggi la Cassazione – pur affermando le gravissime condizioni di salute in cui versa l’istante – soggetto di età avanzata, affetto da plurime patologie che interessano vari organi vitali, in particolare cuore e reni, con sindrome parkinsoniana in vasculopatia cerebrale cronica – nega la sussistenza dei presupposti normativi richiesti dall’art. 147, comma 1, n. 2, cod. pen. per il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, in particolare escludendo, da un lato, l’incompatibilità della detenzione con le condizioni cliniche dell’istante e, dall’altro, il superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali del senso di umanità della pena e del diritto alla salute». Il Collegio spiega che la decisione di negare la libertà a Riina «è carente e, in alcuni tratti, contraddittoria». Secondo la Cassazione, infatti, «il provvedimento in esame sostiene l’assenza di un’ incompatibilità dell’infermità fisica del ricorrente con la detenzione in carcere, esclusivamente in ragione della trattabilità delle patologie del detenuto anche in ambiente carcerario, in considerazione del continuo monitoraggio della patologia cardiaca di cui quest’ultimo è affetto e dell’ adeguatezza degli interventi, anche d’urgenza, operati, al fine di prevenire danni maggiori, a mezzo di tempestivi ricoveri del detenuto presso l’Azienda ospedaliera Universitaria di Parma, ex art. 11 legge n. 354 del 1975» Insomma, secondo gli ermellini la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale». «Tale prospettiva di valutazione è parziale e, pertanto, inadeguata a sostenere la ritenuta compatibilità delle condizioni di salute del ricorrente con il regime carcerario. In particolare, il Tribunale omette, nella motivazione adottata, di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico, pure descritte nel provvedimento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, affinchè la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 27, terzo comma Cost. e 3 Convenzione EDU, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria». 

I mafiosi ed una morte dignitosa. Cassazione: per Riina il diritto alla morte dignitosa. Rischio ricorsi per il 41bis, scrive Roberto Galullo il 5 giugno 2017 su "Il Sole 24 ore". Due boss di Cosa nostra, due valutazioni della Cassazione che rischiano di aprire strade opposte alla carcerazione dura.

Per l’uno, Bernardo Provenzano, morto il 13 luglio 2016 nel reparto adibito ai detenuti dell'ospedale San Paolo di Milano, il carcere duro non era incompatibile con la sua situazione di salute, ma al contrario era «fondamentale» per farlo sopravvivere.

L'altro, Totò Riina, alla pari di ogni altro detenuto, deve avere il diritto «a morire dignitosamente», a maggior ragione alla luce del fatto che le sue condizioni di salute sono a dir poco precarie. Ragion per cui il Tribunale di sorveglianza competente territorialmente, ha deciso la Cassazione, sarà chiamato a rivalutare la compatibilità o la sussistenza dei presupposti per il differimento della pena, lasciando il 41 bis.

Come se non bastasse si apre ora un varco per decine di reclusi al 41 bis (il carcere duro) che per questioni legate allo stato di salute possono appellarsi al fresco precedente di Riina.

Il 9 giugno 2015 la suprema Corte di Cassazione aveva bocciato il ricorso di “zu Binnu” - nell'ultimo periodo affetto, oltre che da tumore alla prostata, da decadimento cognitivo grave, ipertensione arteriosa, infezione cronica del fegato - perché il carcere duro è «fondamentalmente incentrato sulla necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto». Se avesse lasciato il reparto ospedaliero del San Paolo di Milano per raggiungere un reparto comune, sarebbe stato a «rischio sopravvivenza», per la «promiscuità» e le cure che venivano invece dedicate. Gli avvocati del boss avevano fatto ricorso alla Suprema Corte contro il ricovero nella camera ospedaliera di massima sicurezza chiedendo che fosse spostato ai domiciliari in un reparto di lungodegenza dell'ospedale San Paolo.

L'11 luglio 2016, due giorni prima della morte, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto una nuova istanza di differimento pena per Provenzano (vale a dire che la pena va scontata ai domiciliari o in altro luogo di degenza al fine di garantire le cure o consentire una morte dignitosa) dell'avvocato Rosalba Di Gregorio che chiedeva la scarcerazione del boss o la revoca del carcere duro. I «trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso criminale» avrebbero potuto esporlo «qualora non adeguatamente protetto nella persona» e «trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica» ad «eventuali rappresaglie connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» di cui è stato «capo fino al suo arresto». In altre parole non era più lui ad essere un pericolo per gli altri ma lui ad essere potenziale vittima per scopi dichiarati o meno.

Sul profilo malavitoso torna la Cassazione nella decisione che coinvolge Riina, boss ottantaseienne. «Fermo restando lo spessore criminale», afferma infatti, «va verificato se Totò Riina possa ancora considerarsi pericoloso vista l'età avanzata e le gravi condizioni di salute». Si ripropone dunque il quesito che riguardò Provenzano e la contestuale necessità di garantirne la sicurezza pur in una situazione di grave salute fisica. La richiesta, recita la sentenza 27.766 relativa all'udienza del 22 marzo 2017 per Riina, era stata respinta lo scorso anno dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso «di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». Il Tribunale non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l'infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. La stessa che accade per Provenzano. Né più né meno. La Cassazione sottolinea, a tale proposito, che il giudice deve verificare e motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità» da andare oltre la «legittima esecuzione di una pena». Il collegio ha ritenuto che non emerga dalla decisione del giudice il modo in cui si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena «il mantenimento in carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa», che non riesce a stare seduto ed è esposto «in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili». Questa decisione apre la strada ad altri ricorsi, anche in ragione della visibilità e del potere di Riina. Ricorsi che non si limiteranno soltanto ai boss in regime di 41 bis ma anche di detenuti comuni, reclusi pur in gravi condizioni di salute psichica o fisica. Molti Tribunali di sorveglianza infatti non concedono frequentemente differimenti pena legati a ragioni di salute anche gravi.

No, non è vero che la Cassazione ha detto di liberare Riina. Cosa c'è dietro la sentenza dei giudici che hanno accolto (in parte) le richieste della difesa del boss mafioso, malato, scrive Massimo Bordin il 5 Giugno 2017 su "Il Foglio". Se martedì mattina qualche giornale dovesse titolare “Vogliono liberare Riina” è bene sapere che ci sarebbe dell’esagerazione. Lunedì è stata resa pubblica una sentenza della prima sezione penale della Cassazione sulle condizioni di detenzione del “capo dei capi”. La trafila è questa: Riina, che ha 86 anni, gli ultimi 24 dei quali trascorsi in carcere, sta male e il suo avvocato ha presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna (Riina è detenuto a Parma) in cui si chiede la sospensione della pena o almeno i domiciliari. I giudici bolognesi hanno risposto di no, motivando con la intatta pericolosità del personaggio. La Cassazione ha annullato la decisione ma – ecco il punto – rinviandola ai giudici bolognesi per “difetto di motivazione”. Vuol dire che dovranno scriverla meglio. La Cassazione spiega che la pericolosità da sola non basta come argomento, scrive che esiste per tutti, anche per i peggiori dunque, il “diritto a una morte dignitosa”. Non si esclude che possa avvenire in carcere ma si chiede di argomentare più analiticamente. Ci sono dei precedenti, l’ultimo è il caso di Provenzano che obiettivamente stava ancora peggio di Riina ma fu lasciato morire in carcere. Prima ancora analoga sorte ebbe Michele Greco detto “il Papa” e ancora prima toccò a quello che di Riina e Provenzano era stato il capo, Luciano Liggio. Erano tutti pluriergastolani e grandi capi. Per i boss di medio calibro il trattamento è stato talvolta diverso. Gaetano Fidanzati e Gerlando Alberti furono mandati a morire a casa loro. Difficilmente sarà così per Riina. La Cassazione ha chiesto solo di rispettare le forme. In fondo esiste per questo.

Un uomo è un uomo…, scrive Piero Sansonetti il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". La coraggiosa sentenza della Cassazione che attribuisce a Toto Riina il diritto a «morire con dignità» è un colpo al populismo giudiziario e a chi pensa che la legge non sia uguale per tutti. È una sentenza che provocherà molte polemiche. Un colpo secco a quell’ideologia giustizialista – e a quella retorica giustizialista – che da molti anni prevale in Italia. Nel senso comune, nel modo di pensare delle classi dirigenti, negli automatismi dell’informazione e anche della politica. Dire che Totò Riina va liberato – perché è vecchio, perché è malato, perché le sue condizioni fisiche non sono compatibili con la vita in carcere, perché non è più pericoloso – equivale a toccare il tabù dei tabù, e cioè a mettere in discussione, contemporaneamente, alcuni dei pregiudizi più diffusi nell’opinione pubblica e nell’intellettualità (espressioni che ormai, largamente, coincidono). Il primo pregiudizio è quello che riguarda la legge. Che spesso non è concepita come la regola che assicura i diritti e la difesa della civiltà, ma piuttosto come uno strumento per punire e per assicurare la giusta vendetta, privata o sociale.  Non è vista come bilancia: è vista come clava. Il secondo pregiudizio riguarda l’essere umano, che sempre più raramente viene considerato come tale – e dunque come titolare di tutti i diritti che spettano a qualunque essere umano – e sempre più frequentemente viene invece inserito in una graduatoria di tipo “etico”. Cioè si suddivide l’umanità in innocenti e colpevoli. E poi i colpevoli, a loro volta, in colpevoli perdonabili, semiperdonabili o imperdonabili. E i diritti vengono considerati una esclusiva dei giusti. Il diritto di negare i diritti ai colpevoli, o anche solo ai sospetti, diventa il nocciolo duro del diritto stesso. Salvatore Riina, capo della mafia siciliana per circa un ventennio tra gli anni settanta e i novanta, è concordemente considerato come il vertice dell’umanità indegna, e dunque meritevole solo di punizione. Chiaro che per lui il diritto non esiste e qualunque ingiustizia, se applicata a Riina (o all’umanità indegna) inverte il suo segno e diventa giustizia. E, dunque, viceversa, qualunque atto di giustizia verso di lui è il massimo dell’ingiustizia. La Corte di Cassazione, con una sentenza coraggiosissima, inverte questo modo di pensare. E ci spiega un concetto semplice, semplice, semplice: che la legge è uguale per tutti. Come è scritto sulle porte di tutti i tribunali e sui frontoni di ogni aula. Il magistrato la studia, la capisce, la applica: non la adatta sulla base di suoi giudizi morali o dei giudizi morali della maggioranza. La legge vale per Riina come per papa Francesco, per il marchese del Grillo come per il Rom arrestato l’altro giorno col sospetto di essere l’assassino delle tre sorelline di Centocelle. E poi la Corte di Cassazione ci spiega un altro concetto, che fa parte da almeno due secoli e mezzo, della cultura del diritto: e cioè che la pena non può essere crudele, perché la crudeltà è essa stessa un sopruso e un delitto, e in nessun modo, mai, un delitto può servire a punire un altro delitto. Un delitto non estingue un altro delitto, ma lo raddoppia. La Cassazione fa riferimento esplicito all’articolo 27 della nostra Costituzione (generalmente del tutto ignorato dai giornali e da molti tribunali) e stabilisce che non è legale tenere un prigioniero in condizioni al di sotto del limite del rispetto della dignità personale e del superamento del senso di umanità nel trattamento punitivo. La Cassazione non dice che è ingiusto, o incivile, o inopportuno: dice che è illegale. E cioè stabilisce il principio secondo il quale, talvolta, scarcerare è legale e non scarcerare è illegale. Idea molto rara e di difficilissima comprensione. La prima sezione penale della Cassazione, che ha emesso questa sentenza respingendo una precedente sentenza del tribunale di sorveglianza di Bologna, e dichiarandola “errata”, ha avuto molto coraggio. Ha deciso senza tener conto delle prevedibili reazioni (e infatti già ieri sono piovute reazioni furiose. Dai partiti politici, dai giornalisti, dai maestri di pensiero). Usando come propria bussola i codici e la Costituzione e non il populismo giudiziario. È la prova, per chi non fosse convinto, che dentro la magistratura esistono professionalità, forze intellettuali e morali grandiose, in grado di garantire la tenuta dello stato di diritto, che ogni giorno la grande maggioranza della stampa e dell’informazione tentano di demolire. La magistratura è un luogo molto complesso, dove vive una notevole pluralità di idee in lotta tra loro. Non c’è solo Davigo e il suo spirito di inquisizione.

E il villano di Corleone divenne Totò la belva, scrive Lanfranco Caminiti il 18 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dalla Sicilia al carcere di Parma, breve storia del più sanguinario e potente dei boss di Cosa Nostra. “Viddanu, figghiu di viddanu e frati di viddanu”. Questo era, per natura, Totò Riina, atto di nascita: 16 novembre 1930. Il padre era un contadino, uno che si spaccava la schiena zappando la terra, il fratello era un contadino, uno che si spaccava la schiena zappando la terra. A Corleone. Corleone non è uno sperduto paese in culo alla luna. Alla rivolta dei Vespri del 1282, in Sicilia, sono Palermo e Corleone i primi a insorgere. E la bandiera siciliana fu fatta con il rosso di Palermo e il giallo di Corleone. Quando scoppiarono i Fasci, alla fine dell’Ottocento, tra i primi luoghi a organizzare braccianti e metateri c’è Corleone. E lo sciopero agrario che durò dall’agosto al novembre del 1893, coinvolgendo decine di paesi con oltre centomila contadini e braccianti aderenti fu preceduto dalla stipula dei “Patti di Corleone” definiti nell’ambito del congresso nazionale socialista. E ancora, nel dopoguerra e negli anni Cinquanta, quando i contadini siciliani si mossero per l’occupazione delle terre, è a Corleone che ci si batte. È a Corleone che viene ucciso dalla mafia Placido Rizzotto. Padre e fratello gli muoiono assieme mentre provano a estrarre della dinamite da una bomba inesplosa, nel 1943. Anche il fratello più piccolo, Gaetano, rimane ferito. Riina cresce da solo. Tra i suoi amici di sempre ci sono Calogero e Leoluca Bagarella. I Bagarella sono una storica famiglia mafiosa a Corleone. Totò è innamorato di Ninetta, che si fa maestra – un avanzamento sociale, e la dimostrazione di un carattere forte e indipendente. Sarà la prima donna inviata a un soggiorno obbligato. E lo seguirà per tutti gli anni della latitanza, dandogli quattro figli, e della vita sanguinaria. In un’intercettazione durante un colloquio con uno dei figli, Riina gli dispensa consigli: «Se ti sposi, te la devi prendere di Corleone. Non di Palermo». Ha da poco compiuto diciott’anni e entra in carcere la prima volta, l’accusa è grave: l’omicidio di un coetaneo, durante una rissa, per cui viene condannato a dodici anni. Ne fa otto: esce dall’Ucciardone nel 1956. Quando torna a casa, a Corleone si va facendo strada Luciano Leggio. È lui, suo compaesano che per un errore di trascrizione di un brigadiere passerà alla storia come Luciano Liggio, a farlo entrare in Cosa nostra. È alto un metro e cinquantotto, che gli vale il soprannome di Totò u curtu, ma fa già paura, e viene arruolato nel gruppo di fuoco di Leggio. È con Liggio che Riina impara che il potere nasce dalla canna del fucile. È con Liggio che impara a colpire prima d’essere colpito. È con Liggio che impara a fare il tragediatore, a mettere zizzania tra gli avversari e isolarli, a non mostrare mai i propri sentimenti e a fingerli. La lotta per il potere di Liggio e dei suoi comincia nel 1958 con l’eliminazione di Michele Navarra, medico e boss di Corleone. Liggio li fa fuori tutti e ne prende il posto. Totò diventa il suo vice. Nella banda c’è anche un altro compaesano, Bernardo Provenzano, Binnu, u tratturi. Nel dicembre del 1963 Riina viene fermato da una pattuglia di carabinieri in provincia di Agrigento: ha una carta di identità rubata e una pistola. Torna all’Ucciardone per uscirne, dopo un’assoluzione per insufficienza di prove, nel 1969. Mandato fuori dalla Sicilia al soggiorno obbligato, non lascerà mai l’isola scegliendo una latitanza durata una vita. Da ricercato inizia la sistematica eliminazione dei nemici: nel 1969, con Provenzano e altri uomini d’onore, uccide a colpi di mitra il boss Michele Cavataio e altri quattro picciotti in quella che per le cronache sarà la strage di viale Lazio. Due anni dopo è lui a sparare contro il procuratore di Palermo Pietro Scaglione. L’ascesa in Cosa nostra è inarrestabile. E va di pari passo con i primi delitti politici: l’ex segretario provinciale della dc Michele Reina e il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Dopo la cattura di Liggio, Riina prende il suo posto nel triumvirato mafioso assieme a Stefano Bontate e Tano Badalamenti. Il primo a parlare del boss corleonese, nel 1973, fu Leonardo Vitale, il “picciotto” della borgata di Altarello le cui rivelazioni rimasero inascoltate fino alla sua uccisione. Vitale sottolineò l’enorme potere di cui godeva già a quel tempo Riina e disse di averlo conosciuto personalmente in una riunione. Il 29 marzo 1973 Vitale si presentò alla questura di Palermo e venne accompagnato nell’ufficio di Bruno Contrada, all’epoca commissario della squadra mobile, a cui dichiarò che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; si autoaccusò di due omicidi, di un tentato omicidio, di estorsione e di altri reati minori, fece i nomi di Salvatore Riina, Pippo Calò, Vito Ciancimino e rivelò per primo l’esistenza di una “Commissione”, descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa Nostra e l’organizzazione di una cosca mafiosa. Vitale finì al manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto e tutti andarono assolti per insufficienza di prove. Dopo essere stato dimesso dal manicomio nel 1984, Vitale venne ucciso una domenica mattina con due colpi di lupara alla testa sparati da un uomo non identificato che lo raggiunse all’uscita dalla chiesa dei Cappuccini di Palermo mentre era in compagnia della madre. Nell’agosto 1978, in seguito alle “confidenze” raccolte dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, anche lui poi assassinato, i carabinieri stilarono l’ennesimo rapporto a carico del capomafia: «Riina Salvatore e Provenzano Bernardo – affermò Di Cristina – soprannominati per la loro ferocia “le belve” sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Liggio. Una descrizione che concorda perfettamente con quella fatta dal più importante “pentito” della mafia, Tommaso Buscetta, che descrisse «la ferocia e il ruolo fondamentale di Riina nelle più torbide vicende di Cosa Nostra». Buscetta raccontò che all’inizio degli anni ‘80 si era radicalizzato il contrasto esistente all’interno dell’organizzazione tra Totò Riina e Stefano Bontade, tanto che quest’ultimo aveva confidato allo stesso Buscetta di volerlo uccidere personalmente durante una riunione della commissione. I viddani di Corleone hanno sfidato la mafia della città. Soldi a fiumi con la droga, gli appalti e la speculazione edilizia. E una conquista del potere a colpi di omicidi eclatanti e lupare bianche. È la seconda guerra di mafia. Il 23 aprile 1981 cade Stefano Bontande, “il principe di Villagrazia”, il boss che vestiva in doppiopetto, frequentava i salotti buoni della città e controllava i traffici della Cosa nostra palermitana. Massacrato nel suo regno e nel giorno del suo compleanno. Diciotto giorni dopo, tocca al suo alleato, Totuccio Inzerillo, poi al figlio e al fratello: i parenti superstiti fuggono negli Stati Uniti e hanno salva la vita a patto di non tornare più in Sicilia. In poche settimane restano a terra decine di cadaveri.È stagione di sangue a Palermo. I viddani – come li chiamava il boss Stefano Bontate, lui che girava in principe di Galles sartoriale, viaggiava per il mondo e aveva sposato una donna dell’aristocrazia palermitana –, i Corleonesi di Totò Riina hanno deciso di non guardare in faccia a nessuno. Da quando Luciano Liggio non comanda più e a reggere le cose c’è Totò u curtu, e le cose sono cambiate. Pure a un cugino dei potentissimi Salvo, amici degli amici, amici dei potenti, di Andreotti, l’hanno sequestrato e si sono presi i soldi e manco il corpo gli hanno dato. Per farci dispetto ai vecchi boss. I viddani hanno deciso la guerra. La guerra contro i ricchi, pure se sono amici degli amici, la guerra contro la politica, la guerra contro lo Stato. La guerra contro la stessa mafia. Contro i vecchi boss. Bontate, come altri, pagherà con la vita avere sottovalutato i viddani. «’Assali curriri sti cavaddi, cca annu ‘u venunu», diceva Bontate dei viddani. Lasciali correre ‘sti cavalli, che tanto qui devono passare. Non andò così. Maggio 1978, i viddani ammazzano il boss Di Cristina. Marzo 1979 i viddani ammazzano il segretario provinciale della Dc, Michele Reina. Luglio 1979, i viddani ammazzano il commissario Boris Giuliano. Settembre 1979, i viddani ammazzano il giudice Cesare Terranova. I viddani non si fermano. Non si fermeranno più. Ai vecchi boss tutto questo sparaspara, tutte queste ammazzatine non gli vanno troppo a genio. Loro sono più felpati, hanno un sistema rodato di connivenze con la politica e con gli affari. Hanno in mano gli appalti, hanno il Comune e la Regione. Passerà tutto nelle mani dei Corleonesi. Settembre 1982. Uccisione del generale dalla Chiesa.Riina la belva, come lo chiama il suo referente politico Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo del sacco edilizio, è feroce e spietato. Condannato in contumacia all’ergastolo durante il “maxiprocesso” viene inchiodato dalle rivelazioni dei primo pentito di rango, Tommaso Buscetta. Totò “u curto” si vendica facendogli uccidere undici parenti. Quando il maxi diventa definitivo e cominciano a fioccare gli ergastoli per gli uomini d’onore, il padrino dichiara guerra allo Stato. Una sorta di redde rationem con la condanna dei nemici storici come i giudici Falcone e Borsellino, a cui si doveva il maxiprocesso, e di chi aveva tradito. La lista di chi andava eliminato era lunga e contava anche i politici che, secondo il boss, non avevano rispettato i patti.È la stagione delle stragi che il capo dei capi vuole nonostante non tutti in Cosa nostra siano d’accordo. Il 12 marzo 1992 muore Salvo Lima, proconsole andreottiano in Sicilia. Il 23 maggio e il 19 luglio i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al boss restano però pochi mesi di libertà: il 15 gennaio del 1993 i carabinieri del Ros lo arrestano dopo ventiquattro anni anni di latitanza. La moglie, Ninetta, torna a Corleone con i quattro figli, Lucia, Concetta, Giovanni e Giuseppe Salvatore.

L’ascesa di Riina, così “u Curtu” prese il posto di Liggio, scrive Paolo Delgado il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". È stato un’anomalia feroce e distruttiva. Durante il suo impero, amici e nemici sono morti a migliaia. Per trovare un altro nome capace di evocare al solo pronunciarlo l’ombra di Cosa nostra bisogna saltare nello spazio e nel tempo, al di là dell’Atlantico e negli anni ‘ 30, nel regno di Lucky Luciano, oppure sconfinare nell’immaginario, sino a quel don Vito che si chiamava come il suo paese, Corleone. Eppure nella storia di Cosa nostra Salvatore Riina, Totò “u curtu”, è stato un’anomalia assoluta, feroce, devastante e distruttiva. Perché Cosa nostra, a modo suo, è sempre stata una democrazia. Così l’aveva voluta Salvatore Lucania, detto Charlie “Lucky” Luciano, dopo aver stroncato nel sangue le ambizioni imperiali di Salvatore Maranzana. Nessun capo dei capi per Cosa nostra, al massimo un primus inter pares, un presidente con intorno una commissione a fare da governo. E così era sempre stata la mafia siciliana. Fino al golpe di don Totò e dei suoi corleonesi nel 1981, e all’instaurazione di una dittatura tra le più sanguinarie, con oltre tremila esecuzioni, finita solo quando “u Curtu”, dopo 24 anni di latitanza, fu arrestato il 15 gennaio 1993. Eppure nessuno sembrava meno destinato al ruolo di capo assoluto della più potente associazione criminale del “viddano” nato il 16 novembre 1930 a Corleone, poco distante da Palermo in termini di chilometri ma all’altro capo dell’universo nelle gerarchie mafiose. Di famiglia poverissima, orfano a 13 anni, col padre e un fratello saltati in aria mentre scrostavano una bomba inesplosa, condannato per omicidio a 19 anni e scarcerato 6 anni dopo, Riina era uno dei picciotti di fiducia di Luciano Leggio, braccio destro del capomafia locale, rispettato e temutissimo, il dottor Michele Navarra. Piccolo, baffuto, silenzioso e sempre serio Riina e i suoi amici d’infanzia e compagni della vita, Bernardo “Binnu” Provenzano e Calogero Bagarella, fratello di Ninetta, futura signora Riina, erano l’esercito privato di Leggio, i suoi uomini di mano e di fiducia. Guardando a ritroso, la differenza tra i corleonesi e il resto di Cosa nostra era già chiara sin dagli esordi, da quando senza curarsi di niente, rispetto, regole o gerarchie, lasciarono il potente Navarra steso in mezzo a una strada di campagna, il 2 agosto 1958, sorpreso col suo autista e fucilato senza esitazioni. Qualche giorno prima il medico aveva tentato di eliminare il suo ex campiere e braccio destro diventato troppo ambizioso, Leggio. Dopo l’omicidio eccellente fu proprio Riina a guidare la delegazione che doveva cercare la pace con gli uomini di Navarra. Accordo raggiunto con reciproca soddisfazione, se non fosse che proprio all’ultimo minuto, tra una pacca e l’altra, Riina aggiunse una condizione imprevista: la consegna «di quei cornuti che hanno sparato a Leggio». Un attimo dopo Provenzano e Bagarella cominciarono a sparare e la mattanza a Corleone finì solo quando tutti gli uomini di Navarra furono eliminati uno a uno. Quando approdarono a Palermo i corleonesi non avevano amicizie politiche, non avevano le mani in pasta negli affari grossi, che allora erano soprattutto gli appalti, non avevano eserciti a disposizione come i boss di prima grandezza come i Bontate, sovrani della famiglia palermitana di Santa Maria del Gesù o Salvatore Inzerillo, con le sue parentele altolocate, cugino del potente padrino di Brooklyn Carlo Gambino, o come don Tano Badalamenti di Cinisi. I corleonesi avevano dalla loro parte solo la fame, la determinazione e la disposizione alla violenza che avevano già dimostrato a casa loro. A Palermo salirono piano piano parecchi gradini. Riina si fece altri anni di carcere prima di essere assolto nel giugno 1969. Uscito di galera scomparve per 24 anni ma senza andare troppo lontano e continuando a scalare i vertici di Cosa nostra. Organizzò la strage di viale Lazio a Milano, che il 10 dicembre 1969 mise fine alla prima guerra di mafia. Furono ammazzati il boss Michele Cavataio e tre suoi uomini, ma ci rimise la pelle anche Bagarella, e Provenzano si guadagnò il soprannome di “u Tratturi”, il trattore, finendo Cavataio a colpi di calcio di pistola sul cranio. Quando Leggio, latitante nel Nord, entrò a far parte della Commissione, Riina fu delegato a rappresentarlo e quando il boss finì in carcere ne prese il posto, nel ‘ 74, lo stesso anno in cui coronava con le nozze il lungo fidanzamento con Ninetta Bagarella. Ma i “viddani” restavano la plebe di Cosa nostra. Il giro grosso ora erano gli stupefacenti, e a loro arrivavano le briciole, concesse con sprezzo e sufficienza da Stefano Bontate, “il principe di Villagrazia”. Ma Don Totò non era solo deciso e crudele. Era anche astuto. Lavorò nell’ombra conquistando quinte colonne in tutte le famiglie, incluso il fratello di Bontate. Nell’estate ‘ 81 passò all’azione con i metodi brevettati a Corelone: ammazzò Bontate, ammazzò Inzerillo, sterminò uno per uno tutti i fedeli dei boss nemici, poi, come capita spesso nelle dittature diventò diffidente, iniziò a vedere tradimenti ovunque e a sospettarli anche prima che si verificassero come quando fece ammazzare il suo killer di fiducia, Pino Greco “Scarpuzzedda” perché stava diventando troppo popolare tra gli uomini d’onore. Negli anni del suo impero di terrore amici e nemici sono morti a migliaia. Riina conosceva solo la guerra. Nel suo regno l’eliminazione di giudici e poliziotti scomodi diventò norma comune e dopo la sentenza definitiva nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino dichiarò guerra allo Stato: Lima, Falcone, Borsellino, poi la pianificazione delle stragi. Per la stessa Cosa nostra la sua dittatura è stata devastante: all’origine delle collaborazioni, dei pentimenti, c’è la sua ferocia, quella che lo spingeva a far ammazzare i nemici, e se non li trovava tutti i familiari. È stato il primo e l’ultimo imperatore di Cosa nostra, e forse, senza neppure rendersene conto, anche il suo più temibile nemico.

Nel carcere di Riina sono reclusi altri tre novantenni. Non c’è solo Totò “u’ curtu” nel carcere di Parma, scrive Damiano Aliprandi il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Proprio nel carcere di massima sicurezza di Parma dove è detenuto Toto Riina, ci sono altri casi di detenuti al 41 bis affetti di gravi patologie dovuti soprattutto alla loro età avanzata. Almeno tre di loro hanno raggiunto il novantesimo anno di età. Il caso più eclatante riguarda Francesco Barbaro – 90 anni compiuti il mese scorso – che, come si legge nella cartella clinica, soffre di disturbi cognitivi, deficit della memoria e altre patologie legate all’età. Una situazione che dal momento all’altro potrebbe ulteriormente peggiorare, tant’è vero che gli stessi operatori sanitari del penitenziario hanno espresso parere favorevole per un trasferimento presso una struttura più adeguata. Questa notizia – pubblicata nei giorni scorsi da Il Dubbio – è emersa grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, giunta al tredicesimo giorno dello sciopero della fame per la riforma dell’ordinamento penitenziario, per non vanificare il lavoro degli stati generali sull’esecuzione penale: non solo per porre rimedio all’impennata di sovraffollamento, ma anche per umanizzare l’intero sistema penitenziario comprensivo dello stesso 41 bis. Secondo gli ultimi dati, del 24/ 01/ 2017, ci sono 729 detenuti al 41 bis. Nel carcere di Parma vi sono recluse 65 persone al regime di carcerazione dura. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Il 41 bis ha come finalità l’evitare eventuali rapporti all’esterno con la criminalità organizzata, ma come si evince dalla relazione della commissione del Senato, guidata dal senatore Luigi Manconi, esistono regole restrittive che non avrebbero nessun legame con questa esigenza. Ad esempio c’è un isolamento di 22 ore al giorno, è vietato di attaccare fotografie al muro, c’è una limitazione dei capi di biancheria, l’uso del computer per chi studia è consentito a patto che quell’ora venga sottratta dall’ora d’aria. Sempre nel carcere di Parma, il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri ci aveva segnalato che ai detenuti reclusi al 41 bis viene puntata la telecamera direttamente sul water. Una privacy completamente annientata.

I Pm chiedono garantismo (ma soltanto per loro), scrive Giovanni M. Jacobazzi il 5 giugno 2017 su "Il Dubbio". Pronta la delibera che “scagiona” le (poche) toghe che hanno subito provvedimenti disciplinari. Il 99,7% dei magistrati ha una valutazione positiva, un “unicum” nelle democrazie occidentali. Mercoledì scorso il Plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato, su proposta della Sesta commissione, competente sull’ordinamento giudiziario, una delibera destinata sicuramente a far discutere. In estrema sintesi, i consiglieri chiedono al Ministro della Giustizia di adottare «ogni iniziativa nell’ambito delle proprie attribuzioni al fine di introdurre un’apposita disciplina legislativa che permetta l’estensione anche alle toghe dell’istituto della riabilitazione». Attualmente non è previsto, infatti, nessun meccanismo per eliminare dal curriculum della toga la ‘ macchia” disciplinare. Nella sostanza questo determina, ad esempio, un handicap nei giudizi comparativi per accedere ai posti direttivi. In primis di procuratore o di presidente di tribunale. «Dopo un congruo periodo di ineccepibile esercizio delle funzioni e buona condotta», si legge nella delibera indirizzata al Ministro Andrea Orlando, si potranno dunque eliminare gli effetti della sanzione, senza lasciare traccia alcuna. L’Assemblea del Palazzo dei Marescialli chiede, al momento, di limitare la riabilitazione ai casi di condanne alle sanzioni meno gravi (cioè censura e ammonimento), e di porre quale condizione ostativa la pendenza di procedimenti penali o disciplinari per fatti tali da pregiudicare la credibilità del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario. Censura e ammonimento, in specie, colpiscono i casi di ritardo nel deposito di una sentenza. Va ricordato che ben il 99.7% dei magistrati italiani ha attualmente una valutazione positiva. Un “unicum” fra le democrazie occidentali come spesso ricorda il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che pone interrogativi su come vengono effettuate le valutazioni di professionalità. Con questo “colpo di spugna” si aumenterà verosimilmente tale numero. “L’ineccepibilità” della con- dotta richiesta, poi, dovrebbe essere la norma, un prerequisito, per chi esercita la giurisdizione e lo differenzia dalla platea dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Forse sarebbe stato il caso, per ottenere la riabilitazione, di richiedere un qualcosa che vada oltre. E c’è da chiedersi, infine, cosa penseranno i magistrati che si sono sempre comportati in maniera corretta, soprattutto quando vengono comparati i loro profili nell’assegnazione delle tanto ambite carriere direttive.

Totò Riina, scandalo italiano: vive in un centro di eccellenza medico, scrive "Libero Quotidiano" il 7 Giugno 2017. Da circa due anni Totò Riina non di fatto rinchiuso in carcere, ma ricoverato all'ospedale Maggiore di Parma. Il dettaglio non da poco era stato chiarito dal suo avvocato, Luca Cianferoni, durante la trasmissione L'aria che tira su La7, nel pieno del dibattito scatenato dalla sentenza della Cassazione sul diritto a "una morte dignitosa" per i detenuti. In attesa che il tribunale di sorveglianza di Bologna si esprima sull'eventuale scarcerazione, Riina resta in una sorta di stanza segreta della clinica universitaria di Parma, dove è ricoverato dal 5 novembre.  Come riportato da Repubblica, la stanza di Totò 'u Curtu è sostanzialmente una cella blindata, dove l'accesso è consentito solo a medici, infermieri e guardie. Ampia solo cinque metri per cinque, la stanza gode di un affaccio sulla città di Parma. Negli ultimi tempi il bosso avrebbe chiesto una radiolina e un calendario. Una richiesta che non potrà vedere soddisfatta, perché nella cella sono ammesse solo apparecchiature mediche. Il capo di Cosa Nostra è tenuto sotto stretta osservazione dai medici, a causa di diverse patologie che si sono aggravate nel corso degli anni.  Al di là della "morte dignitosa" e del diritto a curarsi e non peggiorare le condizioni in carcere, che è un sacrosanto diritto costituzionale, stona un po' che il boss sia così "coccolato", mentre spesso e volentieri per un cittadino libero qualunque le liste di attesa negli ospedali pubblici sono lunghissime, spesso in edifici fatiscenti. Così come stona un po' che un paziente le cui condizioni "sono ormai gravissime", prenda parte ad ogni tappa processuale (in collegamento video in barella) e sia l'unico degli imputati o teste a non assentarsi mai, a non fermarsi per pranzare o bere. In ogni caso la permanenza di Riina nell'ospedale di Parma non ha turbato la vita della struttura. L'ordine è quello di passare inosservati. Niente militari in divisa, niente mitragliette in vista. Gli spostamenti senza sirene. Adesso il Capo dei capi è in attesa del colloquio con i familiari, previsto una volta al mese. Ma il regime del 41bis vale anche in ospedale. La visita avverrà a un metro di distanza e non saranno permessi contatti fisici. Sarà tutto videoregistrato. Per i magistrati, Totò Riina è ancora in grado di mandare messaggi, è ancora riconosciuto come capo di Cosa Nostra.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano" del 6 giugno 2017. Ha 86 anni, è in isolamento dal ’93, ne ha per poco. La Cassazione chiede i domiciliari, il tribunale si oppone in nome del carattere punitivo del carcere. Domanda: anche a Totò Riina va assicurato un «diritto a morire dignitosamente» che equivale a metterlo agli arresti domiliciari? Oppure, nonostante abbia 86 anni e la sua salute sia decisamente malmessa, deve restare in regime di carcere duro per ragioni di pericolosità o di principio? La questione è attuale, perché la Cassazione, a quanto pare, è della prima idea, mentre il tribunale di sorveglianza di Bologna è decisamente della seconda. Cercheremo si spiegare le ragioni di entrambe le parti, magari senza ammorbarvi troppo con le nostre valutazioni in merito. Allora. Riina è in galera dall’inizio del 1993 e dapprima c’era il problema di isolarlo per fargli perdere contatto con le sue truppe in rovina, perciò fu messo in regime di carcere duro 41 bis (la prima versione, la più implacabile e decisamente anticostituzionale) che tra varie vessazioni funzionò alla grande: soprattutto quando restarono operative Pianosa e l’Asinara, carceri talmente orrende da indurre alla collaborazione anche i peggiori mafiosi. Riina era monitorato notte e giorno da una telecamera (anche in bagno) e non distingueva il giorno dalla notte. In pratica vedeva solo la moglie che gli portava notizie dei figli. Poi, allentato giocoforza il 41bis anche su pressione di vari organismi internazionali, Riina potè presenziare a qualche processo dove cercò di fare quello che ha sempre cercato di fare: accreditarsi come capo di una mafia che intanto non esisteva più, svuotata di ogni struttura gerarchico-militare, coi capi e i sottoposti progressivamente tutti in galera, con armi e droga e patrimoni sequestrati, la presa sul territorio allentata, i traffici ceduti a mafie non siciliane. Dì lì in poi, Riina si è progressivamente acquietato e dalle intercettazioni (di cui era consapevole) è emerso una sorta di padre di famiglia con uscite paternalistiche che molti tuttavia si preoccupavano di interpretare o sovrainterpretare. Il processo­ectoplasma sulla “trattativa” è stata l’ultima occasione di Riina di inventarsi un contatto con la realtà degli ultimi 15 anni, coadiuvato da una preistorica “antimafia” (anche giornalistica) molto impegnata a inseguire fantasmi del passato e improbabili link col presente, tipo la panzana che Riina volesse far uccidere il pm Nino Di Matteo (che Riina probabilmente non sapeva neanche chi fosse). L’ultima fase è più o meno l’attuale: Riina è in carcere a Opera, ha 86 anni ed è affetto da duplice neoplasia renale, neurologicamente è discretamente rincoglionito (o «altamente compromesso», se preferite) e non riesce neppure a stare seduto per via di una grave cardiopatia. Insomma, non ne ha per molto. Il suo isolamento è peggiorato dal fatto che nessuno vuole condividere la cella con lui: troppi controlli e cimici, essendo lui ipersorvegliato. Ma Riina, secondo altri, resta sempre Riina. La Direzione antimafia lo considera a tutt’oggi il Capo di Cosa Nostra, benché non esista più Cosa nostra: ma si teme che i corleonesi ­ non è chiaro quali ­ dopo 25 anni possano riorganizzarsi. Per questa ragione il Tribunale di sorveglianza di Bologna, ancora l’anno scorso, respinse ogni richiesta di differimento o concessione degli arresti domiciliari, ed evidenziò «l’altissima pericolosità» e «l’indiscusso spessore criminale», dopodiché osservò pure che non vedeva incompatibilità tra le sue infermità e la detenzione in carcere: tutte le patologie risultavano monitorate, al punto che, quando necessario, era stato ricoverato in ospedale a Parma. Invece la Cassazione, a cui hanno ricorso i legali, è stata di diverso avviso, e ha invitato il Tribunale a ripensarci: ha accolto il ricorso nel marzo scorso, anche se l’abbiamo saputo solo ora. La Suprema corte ha detto che il Tribunale non aveva considerato «il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico», poi che un giudice dovrebbe (doveva) motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità» da oltrepassare la «legittima esecuzione di una pena», e che non si capisce come possano essere compatibili la condizione di Riina e la stretta detenzione riservata a un vecchio. Perciò va affermato il suo «diritto di morire dignitosamente», anche perché non si vede che cosa potrebbe comandare, ridotto com’è. Chi ha ragione? In ogni caso, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ci tornerà sopra il 7 luglio prossimo. Dovessimo scommettere, premetteremmo anzitutto che non c’è giurisprudenza che non tenga conto dell’umore del Paese: ed è una fase, questa, in cui molti italiani e parlamentari continuano a pensare che la repressione penale debba avere un carattere punitivo e non rieducativo, come pure prevederebbe l’articolo 27 della Costituzione. In carcere si deve andare a star male, questo il sentire comune. Non fu diverso, del resto, per Bernardo Provenzano: la stessa Cassazione riconobbe che fosse affetto da patologie «plurime e gravi di tipo invalidante» ma disse pure che era compatibile con la galera. Il boss morì agli arresti ospedalieri nel luglio dell’anno scorso, sempre al 41 bis.

Vittorio Sgarbi su "Il Giorno" il 7 Giugno 2017: "Totò Riina a casa non è pietà umana, ma giustizia". "se il criminale compie il crimine, lo Stato non può imitarlo, Lo Stato non si vendica, non cerca una corrispondenza tra violenza patita e pena, che non deve andare oltre quei limiti che il criminale ha calpestato". Così, Vittorio Sgarbi oggi nella rubrica quotidiana "Sgarbi Vs Capre" che ha sul quotidiano Il Giorno. Scrive, Sgarbi, a proposito della pronuncia della Cassazione sulla carcerazione del boss mafioso Totò Riina, che ha scatenato reazioni indignate pressochè ovunque, tanto da parte dei cittadini che da parte della politica. "Chi cerca la vendetta - prosegue - è come lui. Lo Stato, come non uccide, non umilia. E non è pietà cristiana. E' giustizia".

Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano” il 7 Giugno 2017: Riina in carcere, i brigatisti rossi a spasso da anni. La polemica del giorno esalta la faziosità che serpeggia in Italia. Secondo la Cassazione, Totò Riina, condannato all'ergastolo per una serie di omicidi mafiosi, potrebbe uscire dal carcere di Opera dove è blindato in regime di 41 bis e sottoposto a torture quotidiane, come ha dimostrato Melania Rizzoli nell' articolo pubblicato ieri su Libero. Il boss è dietro le sbarre da oltre due decenni, ha 86 anni, non ha molto da vivere perché soffre di svariate malattie, cardiache e tumorali. Tenerlo in galera non è un atto di giustizia, bensì di gratuita crudeltà dato che egli non è in grado di fare male a una mosca, essendo ridotto a uno straccio. I soliti cattivoni (politici e commentatori di pronto intervento) sono indignati all' idea che il detenuto venga spedito a casa sua in barella, preferiscono che costui patisca in cella pur essendo in stato preagonico. Sono duri e puri? Nossignori, sono ignoranti, non conoscono in che cosa consista il 41 bis e non hanno letto nemmeno una pagina di Cesare Beccaria (consigliamo a tutti di ripassarne il testo famoso, Dei delitti e delle pene). Altrimenti saprebbero che la prigione riservata ai criminali organizzati è una vergogna nazionale, per eliminare la quale nessuno muove un dito. Trattasi di isolamento perenne, un'ora di aria al dì, telecamere e luci sempre accese inquadrano anche il water e chi lo usa. La sorveglianza spietata è prevista 24 ore. Guantanamo, al confronto delle nostre strutture dedicate ai farabutti incalliti, è un ameno villaggio turistico. Fantastico. Il Parlamento è in procinto di approvare il reato di tortura da contestare ai poliziotti che eventualmente ricorrano ai muscoli per arrestare un delinquente. Però i deputati e i senatori consentono alle istituzioni di sottoporre a supplizi gli "ospiti" del succitato 41 bis. Non solo, non pensano neanche ad abolire le cosiddette pene accessorie. Esempio. Bossetti si è beccato l'ergastolo, che tuttavia non bastava: gli hanno aggiunto per sovrammercato un paio d' anni di isolamento. Mancavano due calci quotidiani nel didietro. Altro che culla del diritto, siamo la tomba della civiltà. Torniamo a Riina. Lo hanno spacciato per capo dell'onorata società, lui analfabeta tenne in scacco per venti anni e passa carabinieri e agenti, i quali lo cercarono dovunque, in qualsiasi angolo della Sicilia tranne che nella sua abitazione nel centro di Palermo, e qui fu poi scovato. Vengono dei sospetti: o fingevano di dargli la caccia, oppure erano un po' storditi. Altra spiegazione non esiste. Se il comandante supremo della mafia era davvero Totò, un nano capace a malapena di firmare, ci domandiamo con inquietudine per quale motivo gli intelligentoni della sicurezza non lo acchiapparono prima che ne combinasse di cotte e di crude. Un mistero ancora da svelare. Adesso che il nano è uno zombi, gli inflessibili giustizialisti insistono: fatelo marcire nella tomba di cemento che lo rinchiude. Deve patire. Essi agirono diversamente con i bastardi delle Brigate rosse che fecero più vittime del morbillo. Non ne è rimasto uno sotto chiave. Tutti liberi e belli, uno è entrato a Montecitorio, alcuni insegnano (quali materie si ignora) addirittura all' università, scrivono brutti libri, concionano in centinaia di conferenze pubbliche. Pluriassassini come Viscardi di Prima linea sono stati scarcerati subito, restituiti al consorzio umano quasi che fossero dei ladruncoli di ortaggi. In effetti ci sono assassini e assassini, quelli politici, via dalle pazze carceri medievali: meritano la riabilitazione di fatto; quelli mafiosi, Riina docet, benché la vecchiaia e la malattia li abbiano stritolati, rimangano all' inferno a tribolare finché non avranno tirato le cuoia. Se questa è giustizia, ci sputiamo sopra.

"Lucido, determinato e non pentito. Il mio incontro con Totò Riina nel carcere di massima sicurezza". Melania Rizzoli, medico e scrittrice, ha visto e visitato il capo di Cosa Nostra. "Mandarlo a casa? Esistono centri medici carcerari che possono curare i suoi problemi di salute". Intervista di Cristiano Sanna del 6 giugno 2017 su "Tiscali notizie". Il capo dei capi sta male. Molto: neoplasia ad entrambi i reni. Ha 87 anni, è sottoposto al regime di isolamento carcerario più duro, il 41bis, dal 1993. Nelle ultime ore non si discute che di lui, dopo la decisione della Cassazione di accogliere la richiesta di mandarlo ai domiciliari per permettergli di affrontare la morte in mezzo ai familiari. Una morte dignitosa, si direbbe. Ma cosa si intende per morte dignitosa quando il protagonista della richiesta è l'uomo che ha insanguinato e terrorizzato l'Italia, quello delle bombe, dei giudici fatti saltare per aria, delle crudeli esecuzioni, della strage di Capaci, dei bambini fatti sciogliere nell'acido, delle minacce di morte violenta all'attuale pm Antimafia, Di Matteo? Dove si ferma il concetto di giustizia e comincia quello di vendetta e di accanimento nei confronti di un super criminale? Melania Rizzoli, giornalista, scrittrice, medico e politico, sei anni fa ha incontrato Totò Riina nel braccio di massima sicurezza del carcere di Opera.

Melania, tu hai raccolto le storie dei carcerati celebri e delle loro condizioni di salute in un libro.

"Sì, tra gli altri raccontai anche di Provenzano, morto in carcere, in regime di isolamento, lo scorso luglio. Quando lo incontrai era incapace di intendere e di volere. Ho visitato i centri di detenzione perché facevo parte della Commissione sanità, occupandomi dei casi di malati incompatibili con il regime detentivo: come quelli affetti da sclerosi multipla, ad esempio".

Nel 2011 ad Opera incontri Totò un Riina lucido, integro, cosciente della sua condizione di carcerato.

"Rimasi colpita: dopo tanti anni di detenzione al 41bis, che è un regime spaventoso, perché sei sempre sotto terra, isolato, non hai giornali, aveva perfino il telecomando della tv bloccato, poteva solo cambiare canale e il televisore si accendeva a orari prestabiliti, trovai un uomo fiero. Orgoglioso, di spirito elevato, Riina pareva detenuto da massimo tre mesi. Sapeva di avere una storia di potere alle sue spalle e probabilmente nel suo presente. L'ho visitato come medico, l'ho stimolato a scrivere ma si rifiutò. Nun sacciu scrivere, rispose, mai lo farei. Io volevo che lasciasse una testimonianza della sua storia criminale. Lui disse: se casomai finissi in un libro di storia mai lascerei una testimonianza di me".

Perché? Riina si percepisce più grande di quanto possano raccontare gli altri?

"Io ho avuto l'impressione che non volesse condividere la sua storia con quella della reclusione".

Dunque una specie di scissione fra l'uomo siciliano privato e il capo dei capi che ha commesso stragi e violenze di ogni genere.

"Esatto, ho avuto l'impressione che fosse tornato in libertà avrebbe ricominciato la sua storia criminale senza problema".

Quindi la posizione dell'Antimafia che continua a considerarlo il perno di tutta la storia mafiosa ancora in movimento nel nostro Paese, non è semplice allarmismo.

"Riina è in regime 41bis aggravato, se la magistratura ha deciso di tenerlo in queste condizioni ne ha tutte le ragioni. Io sono un medico, ho seguito tanti terminali, ritengo che quando una persona affronta il momento più fragile e terribile della sua vita, la morte, abbia diritto di farlo in modo dignitoso. Riina è stato trasferito nel centro medico di Parma, un'eccellenza italiana, dove sono perfettamente in grado di seguirlo". 

Un'assistenza che gli si può dare tenendolo al 41bis o anche spostandolo altrove?

"In questi centri medici ci sono strutture di massima sicurezza, per permettere di assistere malati gravi in isolamento. Non è necessaria la scarcerazione".

Torniamo all'incontro con Riina ad Opera del 2011. In un braccio di massima sicurezza con quattro celle per lato, vuoto. Dentro c'era solo lui.

"Man mano che mi avvicinavo vedevo l'ombra del cancello riflessa sul pavimento del carcere, e si sentiva una musica, l'Ave Maria di Schubert che lui stava seguendo alla tv. Incontravo il personaggio che ha firmato la storia più orribile del nostro Paese. Ancora oggi Sicilia e mafia sono sinonime. L'ex premier Renzi, di fronte all'idea di tenere il G7 in Sicilia, fu sconsigliato di farlo, perché ancora oggi all'estero la Sicilia significa mafia. Riina è responsabile della fama negativa di quella regione".

Lo vedi, gli stringi la mano, lo visiti: a parte i problemi alla tiroide, c'erano già evidenze delle neoplasie ai reni?

"Aveva già problemi renali, prima che io andassi via mi sollecitò perché accelerassi le visite specialistiche. E' un uomo molto intelligente, ci teneva ad essere curato e alla sua salute".

Il rapporto dei boss, pervertito, con la religiosità: Riina disse che leggeva regolarmente la Bibbia. Come adesione alle tradizioni religiose o come passatempo?

"Sia come passatempo sia come conforto. Quando sei in quella condizione di isolamento, solo con te stesso, rinchiuso e impedito in qualsiasi forma di comunicazione, ti resta da pensare. Avrà riflettuto probabilmente sulle sue azione e responsabilità. Mi disse che non pregava ma che la Bibbia la leggeva tutte le sere. Non ha mai voluto dare un'immagine di cambiamento".

Quindi: no scarcerazione, se c'è bisogno di curarlo lo si può fare tenendolo in isolamento carcerario.

"Se non ci fosse la possibilità di curarlo in modo dignitoso direi che bisognerebbe spostarlo da li. Non come è stato fatto per Provenzano. Ma in Italia ci sono centri di eccellenza nelle case circondariali italiane in grado di assistere un detenuto anche condannato al 41bis. Certo non avrà ciò a cui tiene di più, la vicinanza della famiglia. Chi sta in isolamento ha diritto ad una sola visita al mese, per una sola ora. Ma ribadisco: Totò Riina si trova nel centro medico del carcere di Parma, in grado di affrontare qualsiasi emergenza medica e chirurgica". 

«Il mio incontro con Totò Riina in carcere». L’ho conosciuto in cella nel 2011. Era ancora vitale, per niente depresso Parlava in siciliano, faceva il galante. «Qui divento un monachello...», scrive su "Libero Quotidiano" il 6 giugno 2017 Melania Rizzoli. Ho incontrato Totò Riina nel carcere di Opera (Mi) nel 2011, durante una delle mie visite ispettive nei centri di reclusione italiani, che svolgevo in qualità (...) (...) di parlamentare della Commissione Sanitaria della Camera dei Deputati. Il “Capo dei capi” di Cosa Nostra era recluso in regime di 41bis, in isolamento assoluto, dal giorno del suo arresto, il 15 gennaio del 1993, ma quando me lo sono trovato di fronte ho visto un uomo forte e vitale, per niente depresso, anzi ancora fiero ed orgoglioso, come fosse incarcerato da appena pochi mesi. Avevo chiesto di vederlo per verificare il suo stato di salute, poiché, oltre alle varie patologie dalle quali era affetto, pochi mesi prima era stato colpito da un infarto, era stato curato ed era ancora convalescente. Sapevo che Riina non gradiva le visite di estranei, né tantomeno di parlamentari, che aveva sempre rifiutato di incontrare, per cui io chiesi aiuto al direttore del carcere di Opera, che mi accompagnò da lui nei sotterranei dell’isolamento. E per me fu un’esperienza indimenticabile. Totò “u’ curtu” era rinchiuso da solo in un intero reparto interrato, senza finestre e luce naturale, nel quale c’erano otto celle, quattro per lato, separate da un ampio corridoio, all’ingresso del quale era stato posizionato un metal detector con due agenti di polizia penitenziaria armati, alloggiati in un gabbiotto con quattro monitor, tutti collegati con la cella dell’unico detenuto di quel settore. Avanzando verso quel reparto calcolavo che quello spazio, seppur ampio, non sarebbe stato sufficiente a contenere in piedi tutte le vittime di mafia collegate a lui ed ai suoi sicari. Dopo i controlli di routine ai quali siamo stati sottoposti, io, il collega Renato Farina che si era offerto di accompagnarmi, e lo stesso direttore, questi andò avanti da solo, per informare Riina della nostra visita, avanzando verso la sua ferrata, dalla quale usciva una musica celestiale, l’Ave Maria di Schubert. Riina, senza spegnere il televisore od abbassare il volume, chiese chi volesse incontrarlo, rispose che lui non gradiva vedere nessuno e che non era interessato, esprimendosi in stretto dialetto siciliano, che però io conoscevo bene, avendolo appreso dai miei nonni materni, siciliani anche loro, per cui avanzai d’impeto di fronte a lui presentandomi, ed informandolo sullo scopo della mia visita inaspettata. Naturalmente mi rivolsi a lui nel suo stesso dialetto, cosa che lo colpì molto, e che lo fece sorridere, oltre che autorizzare gli agenti ad aprire il cancello per farmi entrare. «Allora lei mi capisce, s’accomodasse, prego trasisse» furono le sue prime parole, mentre allungava il braccio per porgermi la mano. Io ebbi un attimo di esitazione, ma poi quella stretta inevitabile mi diede un brivido, perché stavo ricambiando il saluto e stringendo la mano di un criminale assassino. Riina era vestito con una camicia bianca, pantaloni e scarpe nere senza stringhe, era sbarbato, e nonostante fosse quasi ottantenne, era brizzolato, pettinato ed ordinato, diritto come una spada, e non aveva l’aria sofferente. Notai subito un suo grosso gozzo tiroideo evidente e sporgente, e quando gli chiesi di visitarlo lui acconsentì, aprendo il collo della camicia, che era stirato, lindo e pulito, fresco di lavanderia. Il direttore si era raccomandato di non accennare nella maniera più assoluta con il detenuto alle sue vicende giudiziarie, per cui parlammo soprattutto del suo stato di salute, della sua situazione cardiaca e degli altri problemi che si evidenziavano dalla sua cartella clinica. Lui si lamentava della difficoltà e della lentezza per ottenere le visite specialistiche che gli spettavano, ma quello che mi colpiva di più era il suo stato d’animo. Riina era spiritoso, a tratti addirittura ironico, e ci teneva a dimostrare che la detenzione non gli pesava, non lo piegava, che la accettava ma non la subiva. «Qui mi stanno facendo diventare un monachello sa, ma io ero tutt’altro...». La sua cella era spoglia come quella dei frati, con un letto a branda, un solo cuscino, un comodino ed uno sgabello tondo di legno scuro vicino ad un piccolo tavolo. Sulle pareti nemmeno un crocifisso o una foto, ma un piccolo armadio senza sportelli con camicie, magliette e biancheria riposte in ordine, con una sola stampella con appesa una giacca blu. «Quando la indosso? Quando vengono gli avvocati, o quando, una volta al mese per un’ora sale su mia moglie. Io la aspetto e la vedo sempre volentieri, e mi faccio trovare ordinato. Perché io ho una buona mugliera lo sa? Le viene sempre da me, tutti i mesi prende la corriera, poi il treno e viene a trovarmi». In regime di 41bis si ha diritto ad una sola visita al mese con un solo familiare a volta e ad una sola telefonata mensile. «Se ho nostalgia della Sicilia? Ma quando mai, non sento nostalgia io, mai. Qui sto bene, mi trattano bene, mangio bene, sempre le stesse cose, ma non mi posso lamentare. E poi ho questi miei due angeli custodi (gli agenti di guardia) con i quali ogni tanto scambio qualche parola.

Il populismo giudiziario stavolta ha perso, scrive Sergio D'Elia il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Il commento del segretario di Nessuno tocchi Caino. La sentenza della corte di Cassazione sul caso di Totò Riina è ineccepibile sotto il profilo giuridico, ed è un raro esempio di indipendenza del giudizio di una suprema corte da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico che non dovrebbero mai albergare in un’aula di giustizia, anche di rango inferiore a quella della Cassazione. Principi e norme come «umanità della pena», «diritto a morire dignitosamente», «attualità della pericolosità sociale», sono raramente rispettati da un giudice quando si tratta di persona che per il suo passato criminale ha rappresentato l’emblema della mostruosità che non può mai svanire, che va alimentato per tutta la vita. In tempi di populismo giudiziario e, ancor più, penale non è accettabile che tali simboli del male assoluto si sciolgano come neve al sole. Totò Riina non può essere un pupazzo di neve con la coppola e la lupara di plastica in un giardino d’inverno che dura solo fino a primavera. Deve rimanere un monumento granitico e indistruttibile in servizio permanente effettivo, insieme a tutti gli altri armamentari speciali ed emergenziali della lotta alla mafia, dal 41 bis al ‘ fine pena mai’ dell’ergastolo ostativo da cui si può uscire in un solo modo: da collaboratori di giustizia o, come si dice, coi piedi davanti. La forza di uno Stato non risiede nella sua ‘ terribilità’, come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a sé stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totó Rina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire e lo stato di diritto, la legge suprema che vieta trattamenti disumani e degradanti, a morire è anche la nostra Costituzione, il senso stesso della pena, che non può essere quello della vendetta nei confronti del più malvagio dei nemici dello Stato. 

Corleone, la figlia di Riina chiede per tre volte il bonus bebé e le viene negato: nessuno crede che sia indigente. Corleone, la figlia più piccola del capo di Cosa Nostra e il marito sostengono di essere indigenti e chiedono il beneficio da mille euro. Sia i commissari che l'lnps lo negano. Ufficialmente per vizi di forma, ma l'indigenza non convince nessuno. In carcere lui diceva: "Se recupero un terzo di quello che ho, sono sempre ricco", scrive il 18 giugno 2017 "Il Fatto Quotidiano". Tra gli italiani poveri in corsa per il bonus bebé c’era anche Lucia Riina, la figlia del boss Salvatore in carcere dal 1993 per il quale la Cassazione ha recentemente stabilito il “diritto alla morte dignitosa”, scatenando un fiume di polemiche. Il beneficio alla figlia, mille euro al mese, è stato però negato per tre volte. Ufficialmente per motivi formali dovuti al ritardo e all’incompletezza della domanda, sostanzialmente perché nessuno crede davvero all’indigenza della figlia del capo di Cosa Nostra, che in una conversazione intercettata nel carcere di Parma aveva anche detto “Se recupero un terzo di quello che ho, sono sempre ricco”. Lo racconta Repubblica Napoli con tutti i particolari. Lucia Riina è la più piccola di quattro fratelli e aveva avanzato istanza al Comune (sciolto qualche mese fa per infiltrazioni mafiose e attualmente retto da tre commissari) per ottenere l’assegno una tantum di mille euro dato dalla Regione siciliana, attraverso le amministrazioni locali, a chi nell’Isola mette al mondo un figlio e ha un reddito al limite dell’indigenza. Lo fa non una ma tre volte. Rigettata la richiesta, per un vizio formale, l’ha reiterata il marito di Lucia, Vincenzo Bellomo; ma anche lui ha ricevuto un no, dovuto al ritardo con cui era stata presentata l’istanza. Infine, il terzo tentativo (fallito) con l’Inps, che eroga un assegno mensile per i primi tre anni di vita del bambino (per un importo che va da 80 a 160 euro), a quelle famiglie che non superano 25 mila euro del parametro Isee. L’articolo dà conto del fatto che la figlia 37enne di Riina, che dipinge e vende i suoi quadri su Internet, vive a Corleone dal ’93, dove è tornata con la madre Ninetta Bagarella e i fratelli, all’indomani dell’arresto del padre, avvenuto il 15 gennaio di quell’anno. A Corleone si è sposata nel 2008, accompagnata all’altare dal fratello Giuseppe Salvatore che era appena uscito dal carcere. L’altro fratello, Giovanni Francesco, è in galera e sconta l’ergastolo per alcuni omicidi; Maria Concetta, la più grande, vive in Puglia con il marito. Quattro anni fa, in pieno agosto, un’intervista di Lucia Riina alla televisione della Svizzera francese Rts fece divampare le polemiche. L’ultimogenita del boss, che scelse Ginevra come meta del suo primo viaggio all’estero, si disse “dispiaciuta” per le vittime, ma “onorata e felice” di portare il cognome di suo padre: “immagino che qualsiasi figlio che ama i genitori non cambia il cognome. Corrisponde alla mia identità, siamo tutti figli di qualcuno e non bisogna restare nel passato ma andare avanti”. Le famiglie delle vittime di mafia insorsero e da quel momento Lucia tornò nell’ombra, prima di questa bizzarra richiesta, quasi un’ostentazione di normalità che mal si concilia con quanto sosteneva il padre in carcere.

La figlia di Riina chiede il bonus bebè. I commissari del Comune dicono no. Corleone, la figlia più piccola del capo di Cosa nostra e il marito sostengono di essere nullatenenti, scrive Salvo Palazzolo il 18 giugno 2017 su "La Repubblica". Adesso, i Riina sostengono di essere nullatenenti. E chiedono aiuto allo Stato, non era mai accaduto prima. La figlia più piccola del capo di Cosa nostra, Lucia, vorrebbe il bonus bebè dal Comune di Corleone. E ha sollecitato direttamente il pagamento dell’assegno, perché – così sostiene – ne ha diritto. Il marito, Vincenzo Bellomo, ha ribadito l’istanza. Ma dal Comune è arrivato un secco «no», firmato dai commissari che reggono l’amministrazione cittadina dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiosa. Ufficialmente, hanno pesato motivi formali: la domanda della giovane madre non è stata ritenuta completa, quella del padre è arrivata fuori termine. Anche l’Inps ha sottolineato che la figlia di Riina non ha diritto all’assegno mensile previsto per i genitori con un reddito minimo. Nessuno crede che la famiglia del capo di Cosa nostra sia nullatenente. Nelle ultime intercettazioni in carcere Totò Riina si vanta: «Perché se recupero pure un terzo di quello che ho sono sempre ricco», questo diceva al compagno dell’ora d’aria, il boss della Sacra Corona Unita Alberto Lo Russo. Parole di tre anni fa. «Io ho delle proprietà, queste proprietà metà sono divise ogni mese, ogni mese ci vanno... perché? Perché sanno che è mio nipote... sanno che è mio nipote... queste proprietà sono mie e di mio nipote, metà mia e metà di mio nipote». Ma è rimasto il giallo sulle proprietà. E sul nipote. Intanto, Lucia Riina continua a vivere a Corleone, così come la madre Ninetta. Lucia è una pittrice, i dipinti li pubblicizza su un sito Internet, dove racconta la sua storia: «Nel ‘93 quando sono arrivata a Corleone, avevo 12 anni, mi sono trovata catapultata in un mondo ed una realtà per me del tutto nuova; la scuola, la società, il paese, tutto nuovo». E rivendica la sua vita “normale” col marito: «Siamo riusciti a dare forma e concretezza al mio sogno di bambina che era disegnare ed al nostro sogno di adulti, cioè creare un lavoro onesto, dignitoso, positivo ed espressivo-creativo». L’altra figlia di Riina, Maria Concetta, si è invece trasferita con il marito in Puglia. Ci sono poi i figli maschi: Giovanni sta scontando l’ergastolo, Salvo ha l’obbligo di soggiorno a Padova e intanto promuove il suo libro appena tradotto in Romania e Spagna: “Riina family life”, s’intitola, il ritratto di una famiglia più che normale, a tratti descritta come vittima della giustizia. Il giovane Riina è attivissimo su Facebook. Uno dei suoi post recita: «Sui cadaveri dei leoni festeggiano i cani, credendo di aver raggiunto la vittoria. Ma i leoni rimangono leoni, i cani rimangono cani». Un riferimento alla situazione del padre in carcere. Il post è piaciuto tanto: ha racimolato 140 like e 66 condivisioni. Per Corleone, è un momento davvero particolare dopo lo scioglimento per mafia. Un gran lavoro per i commissari: Giovanna Termini, Rosanna Mallemi e Maria Cacciola. Il nuovo segretario generale del Comune è adesso Lucio Guarino, il direttore del Consorzio Sviluppo e legalità.

"Sono figlia di Riina, non ho diritto a nulla", lo sfogo di Lucia, scrive il 20/06/2017 "Adnkronos.com". "CHIEDEREMO al PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, LA REVOCA della CITTADINANZA ITALIANA". E' quanto annuncia via social Lucia Riina, la figlia più piccola del boss Totò Riina, da qualche giorno al centro dell'attenzione mediatica per aver incassato un secco 'no' dal Comune di Corleone alla richiesta del bonus bebè. L'ultimogenita del capo dei capi, negli ultimi post pubblicati su Facebook, lamenta le recenti intrusioni nella sua vita privata scagliandosi contro le istituzioni e i media italiani. "Dal momento che la mia vita privata, oramai grazie alle istituzioni di questo paese ed alla stampa Italiana è diventata di dominio pubblico, per chi sa quali interessi, che con la mia piccola mente non capisco", scrive Lucia Riina, "quindi la mia vita non mi appartiene più!!! me l'hanno presa!!! rubata!!! vogliono quella di mio marito, e non basta!!! vogliono pure quella di mia figlia, innocente e voluta da Dio. Allora con mio marito abbiamo deciso che tanto vale che ve la offriamo noi, così gratis, perché io sono la figlia di Riina, non ho diritto a nulla, devo stare zitta, mi devo fare calpestare. Chi pensa questo è un folle!!!". La figlia del padrino di Cosa nostra ha poi spiegato "per filo e per segno, come sono andate le cose riguardo la richiesta del Bonus" condividendo sui social tutta la documentazione inviata al Comune di Corleone e annunciando un'importante decisione: "Tramite il nostro legale CHIEDEREMO al PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, LA REVOCA della CITTADINANZA ITALIANA, e quindi dei DIRITTI COSTITUZIONALI, sia per noi che per nostra figlia, così sarà chiaro a tutti ed al mondo intero come L'Italia politica e mediatica tratta i suoi figli, perché sono BRUTTI, SPORCHI e CATTIVI".

Niente bonus bebè, Lucia Riina: «Noi, brutti: ci revochino cittadinanza». Lo ha scritto la figlia del capomafia su facebook raccontando la sua vicenda personale e contestando il mancato riconoscimento da parte del comune di Corleone dell’assegno, scrive il 20 giugno 2017 "Il Corriere della Sera". «Tramite il nostro legale chiederemo al presidente della Repubblica la revoca della cittadinanza italiana sia per noi che per nostra figlia così sarà chiaro al mondo intero come l’Italia politica e mediatica tratta i suoi figli, perché sono brutti, sporchi e cattivi». Lo annuncia, sul proprio profilo Facebook, Lucia Riina, figlia del boss ergastolano Totò, contestando il mancato riconoscimento da parte del Comune di Corleone del “bonus bebé”. La domanda, ricostruisce, era stata presentata «il 22 novembre 2016, dopo circa un mese che era nata nostra figlia, avendo già ottenuto l’attestazione Isee», perché, scrive Lucia Riina, «non riusciamo a raggiungere un reddito buono». Quindi hanno «presentato la richiesta per Assegno di maternità al Comune che per legge avrebbe dovuto rispondere entro 30 o 60 giorni». «Mio marito è andato in Comune a chiedere l’esito della richiesta, almeno tre volte - aggiunge - l’ultima volta il funzionario incaricato gli ha detto che lo stavano facendo impazzire per questa richiesta, avevano chiesto certificati penali, antimafia ed adesso avevano richiesto indagine da parte delle Forze dell’Ordine. Chi lo stava facendo impazzire e perché è rimasto un mistero». Dopo la richiesta da parte dell’avvocato di famiglia è arrivata la risposta. «Nella lettera - rivela - ci dicevano dal Comune che avevamo sbagliato a chiedere l’assegno di maternità con quella legge, ed invece avremmo dovuto chiederlo con un’altra».

«Riina a S. Pancrazio? Alzeremo le barricate», scrive Federica Marangio il 10 giugno 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Totò Riina in paese? No grazie». È il secco commento del sindaco Salvatore Ripa, che è certo di interpretare il parere tutti i suoi concittadini. Eppure, l’ipotesi che il più grande stragista mafioso possa arrivare in paese - a casa della figlia - sembra essere plausibile alla luce di quanto disposto dalla Cassazione. Sarebbe impensabile che possa essere uno dei figli maschi ad occuparsi del boss mentre una delle figlie è in Svizzera, dove sicuramente Riina non lo lascerebbero manco avvicinare. Ecco perchè è spuntata l’ipotesi San Pancrazio (BR), dove dal 2012 vive la figlia Maria Concetta con il marito Tony Ciavarello i suoi tre figli al quarto piano di un condominio vicino al Palazzo di Città. «Ma è un’ipotesi non veritiera - aggiunge il sindaco -. Anzi, non solo dopo aver preso le prime precauzioni ed essermi interfacciato con i miei interlocutori istituzionali so che non vi è alcuna possibilità perché ciò accada, ma, qualora queste parole dovessero convertirsi in qualcosa di più concreto, non esiterei ad organizzare delle sommosse o delle vere e proprie barricate”. Risale al 2012 la delibera della giunta comunale di intestare una piazza nella zona artigianale a Falcone e Borsellino, proprio mentre si paventava la possibilità di ospitare nel piccolo Comune uno dei fratelli di Riina, quello che allora risiedeva a Padova. Questo non significa che San Pancrazio abbia da ridire sulla figlia di Riina che vive in paese. “Tutti, ma soprattutto i minori hanno diritto a ricostruirsi una vita e a costruire il proprio cammino impostato nella tranquillità e lontano da ogni bruttura e polemica - aggiunge Ripa -. Il comune di San Pancrazio è stato infatti scelto proprio per garantire una vita lontana dai riflettori e dalla Sicilia dove i Riina sicuramente non sarebbero stati bene accetti”. Poca chiarezza, però, al momento su come gestire la vicenda di Riina e della sua precaria salute. Sebbene il procuratore nazionale Franco Roberti abbia precisato che Riina deve continuare a stare in carcere e soprattutto rimanere in regime di 41 bis, alcuni giudici della Cassazione hanno affermato che la possibilità che Riina possa tornare a vedere la luce del sole, sia pure nella sua abitazione, appare concreta. Insomma, nella pure ovvia spartizione tra favorevoli e contrari, rimane indubbio che “il Comune di San Pancrazio non consentirà in alcun modo che Riina si ricongiunga alla sua famiglia”, conclude il primo cittadino.

Vincenzo Stranieri è grave e la figlia fa lo sciopero della fame, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Anna, la figlia di Vincenzo Stranieri in carcere dal 1984 e in regime del 41 bis dal 1992, è in sciopero della fame dopo che il tribunale de L’Aquila ha respinto l’ennesima richiesta di scarcerazione per incompatibilità con il regime detentivo perché malato di tumore. Una vicenda paradossale che Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio. Stranieri ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41 bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma gli restano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la Direzione nazionale antimafia, però, risulta ancora pericoloso. Quindi il ministro della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Però nell’Istituto abruzzese il lavoro non c’è per gli internati. A denunciarlo era stata la radicale Rita Bernardini quando lo scorso luglio si rivolse al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, proprio per porre rimedio alla situazione: durante la visita di Pasqua dell’anno scorso, l’esponente del Partito Radicale, aveva ritrovato internati cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e la risposta fu: «Lo scopino per 5 minuti al giorno». Un altro che faceva il porta- vitto, le chiese: «Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?». E ancora un altro detenuto le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. «Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare?». Rita Bernardini fece presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, era riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. Nel frattempo però le condizioni fisiche di Stranieri si erano aggravate, trasferito nella struttura protetta di Milano “Santi Paolo e Carlo” per ricevere le cure adeguate, ha subìto un secondo intervento chirurgico. Ora si trova nel carcere milanese di Opera in completo isolamento con un sondino direttamente collegato allo stomaco per farlo nutrire. Aveva 24 anni quando venne arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. «Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri che non ha mai smesso di lottare per suo padre – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tudel more; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano». Nel frattempo l’ultima batosta: per il Tribunale di sorveglianza, Stranieri può restare in carcere. Una decisione che va in controtendenza con le disposizioni dello stesso perito del giudice che consigliava il ricovero del detenuto in una proprietà della fondazione Don Gnocchi di Milano a causa del suo tumore che andrebbe monitorato presso strutture adeguate. Non può deglutire, né parlare. Si alimenta tramite un sondino e respira grazie alla tracheotomia. È dimagrito e non può camminare da solo. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante il sopraggiungere di questa grave malattia e abbia scontato tutti gli anni inflitti?

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

Concorso esterno. Il reato non parlamentare, ma giurisprudenziale partigiano. Basta eliminare i magistrati dissidenti laici non comunisti e giustizialisti.

Parla Corrado Carnevale: «Avevo una mania pericolosa: applicare la legge…». Intervista di Valerio Spigarelli del 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Ripubblichiamo l’intervista a Corrado Carnevale, ex presidente della prima sezione penale della Corte suprema di Cassazione dal 1985 al 1993, apparsa nel numero di marzo della rivista della Camera penale di Roma “CentoUndici”, firmata da Valerio Spigarelli e Giuliano Dominici, dunque negli stessi giorni in cui ricorrono i 25 anni dall’avviso di garanzia che il giudice ricevette da Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia, il 23 aprile 1993. “Quando venne introdotta la figura del 416 bis mi occupavo esclusivamente di civile, perché io diventai penalista per caso, dato che sono un penalista di complemento, così mi sono sempre qualificato, anche se mi sono laureato in Diritto penale e ho avuto il diritto alla pubblicazione della tesi, quindi, non ero digiuno. Allora, dissi, me ne vado nella più penalistica delle Sezioni Penali e andai nella Prima Penale”. “Alla prima Penale si cominciava a parlare di 416 bis, o meglio c’era già il 416 bis che fu introdotto dopo l’omicidio di Costa, del Procuratore della Repubblica Costa. Naturalmente, dai processi che cominciarono ad essere esaminati con la mia presidenza c’erano anche processi di 416 bis e, quindi, cominciai a studiarmi la questione. Durante il fascismo non fu necessario inventare una nuova figura di reato per punire i mafiosi, con risultati che poi non si sono più avuti. Lo stesso risultato non si era avuto in seguito e mi sorpresi che si fosse creata questa nuova figura anche se capii subito che il nucleo era costituito dalla pressione che questi soggetti esercitano, avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione, cioè a dire il soggetto passivo del reato soggiace molto di più alle richieste del mafioso perché teme le reazioni dell’associazione che sono certo eccessive rispetto alle comuni reazioni dei delinquenti, alle richieste di pagamenti, alle estorsioni insomma, perché la caratteristica della mafia, almeno all’epoca, era quella di esercitare estorsioni senza atti violenti ma solo avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione”.

Presidente, quando fu introdotta, la norma fotografava un fenomeno con una chiara una connotazione sociologica, oltre che criminologica: si può dire che le prime letture in Cassazione del 416 bis sono legate anche a questa identificazione sociocriminale?

«Sì, sono strettamente legate perché non c’è dubbio che la cosa ha delle caratteristiche diverse da tutte le altre, o comunque peculiari rispetto alle altre associazioni, quindi, il Giudice, nell’applicare la norma, se la applica in modo corretto, sa benissimo quali sono gli elementi da valorizzare, da centrare. Poi con il tempo le cose sono cambiate e sono cambiate soprattutto quando si è introdotto da parte dei giudici di merito il concorso esterno. Concorso esterno che noi, per la verità, escludemmo in maniera assoluta con tre o quattro sentenze della fine degli anni 80, tant’è che la Corte di Giustizia europea ha dovuto affermare che questa figura del reato si era consolidata soltanto con l’intervento delle Sezioni Unite, con la famosa sentenza del 1992 – mi pare che sia così – avallando quello che nel nostro sistema è inammissibile, e cioè che la giurisprudenza possa creare nuove figure di reato».

C’è qualcuno che dice, non soltanto in giurisprudenza ma anche parte della dottrina – Fiandaca uno per tutti –, che non è vero che il concorso esterno sia una stravagante invenzione della giurisprudenza: no, il concorso esterno nel reato associativo è da sempre riconosciuto nel sistema penale. La sua opinione su questo quale è? 

«Io non riesco ad immaginare come uno che non fa parte di una associazione possa concorrervi; o è favoreggiamento oppure è concorso interno, perché io non credo che per poter essere responsabile di concorso in associazione mafiosa si debba per forza aver avuto il provvedimento di ammissione, il battesimo, la puncicata. Non credo che questo sia indispensabile, e infatti tutte le sentenze che sono state fatte nella seconda parte del 1980 erano su questa posizione, con la mia presidenza e anche senza la mia presidenza, dalla Prima Penale, perché all’epoca la Prima Penale aveva l’esclusiva, mentre successivamente fu fatto un certo spostamento».

Presidente, quello spostamento avvenne per caso? Come si arrivò a decidere che non doveva essere solo la Prima ad occuparsi di questi reati?

«Perché si diceva che non era opportuno che le decisioni fossero prevedibili, questo era il punto. Secondo me, invece, la prevedibilità delle decisioni è un vantaggio, è una cosa alla quale bisognerebbe tendere, non fare di tutto per evitarla; questo diminuirebbe anche il contenzioso, perché se l’avvocato deve sostenere una tesi e sa che non trova spazio, almeno in quel momento, si avrebbe anche una diminuzione dei ricorsi e siamo sempre lì: la giustizia in Italia va male perché è amministrata male».

Su questo ci tornerei più in là, rimaniamo sulla storia del reato, del concorso esterno e di quel filone giurisprudenziale. Viene inserito questo reato, un reato specifico che non era stato introdotto neppure ai tempi del fascismo, siamo in piena guerra di mafia; quella giurisprudenza, la cosidetta giurisprudenza di Carnevale – che come lei dice non era di Carnevale, ma della Prima Sezione – al di là del merito afferma un principio: quello della libertà della giurisdizione. Anche di fronte alla emergenza c’è un magistrato, ci sono dei magistrati, che vogliono fare i giudici “normali” per qualsiasi tipo di fenomenologia criminale, per qualsiasi tipo di reato, ma rispetto a questa “pretesa” di giudicare in maniera ordinaria fenomeni che vengono ritenuti straordinari succede che la Prima Sezione viene aggredita.

«Viene aggredita, e non episodicamente».

Come s’avvertiva la pressione politica, mediatica, giudiziaria, insomma l’aspettativa che un processo dovesse andare in una certa maniera piuttosto che in un’altra?

«Tutte le volte che ci occupavamo di ricorsi di quel tipo, l’indomani la stampa parlava dell’ammazzasentenze. Io lo sapevo benissimo, ma questo mi lasciava del tutto indifferente e quando seppi che c’era un magistrato di Palermo che aveva coniato il termine ammazzasentenze io risposi che noi non ammazzavamo nessuna sentenza, ma facevamo tutt’al più il lavoro dell’anatomopatologo, quello che fa l’analisi sul cadavere».

Tutto questo come veniva vissuto, non soltanto da lei personalmente ma dalla Corte?

«Guardi la Corte, i componenti del collegio, non l’avvertivano neppure per indignarsi, perché la vulgata attribuiva tutte le decisioni a me, e neppure avvertivano che, in fondo, se da un canto attaccavano solo me, implicitamente consideravano loro delle marionette, e non uno solo, tutti e quattro, e non erano sempre gli stessi tra l’altro. Però a loro dava fastidio che si parlasse della Prima Penale. Io ricordo che quando ci fu la prima ondata di queste cose, in una udienza successiva con un collegio completamente diverso dal precedente, ci occupammo del ricorso contro l’ordine di cattura nei confronti di un famoso personaggio dell’epoca che era stato attinto da un ordine di cattura per omicidio, strage. Siccome era proprio una cosa pazzesca io dissi “guardate, siccome dobbiamo decidere tutti dovete essere consapevoli tutti, quindi vi leggerò parola per parola la motivazione”. Alla fine della lettura il più anziano di cui ricordo il nome, ma non ve lo dico perché è morto, quindi non può più smentirmi, disse “è acqua fresca”. Allora dissi: “Annulliamo”. Sa come mi risposero? “E che vogliamo andare un’altra volta a finire sui giornali?”. Io, guardi, non ci vidi più: “A parte il fatto che sul giornale non ci siete finiti voi, perché voi non facevate parte di quel collegio e comunque neppure i componenti del collegio, Carnevale e basta, il giudice Carnevale, l’ammazza sentenze. Ma, dico noi ci dobbiamo preoccupare di quello che dice il mondo, di quello che dice il giornale? Ma no. Dico allora sentite una cosa, siccome io vi ho letto tutto, ognuno di voi ha ascoltato perché penso non sia stato distratto, votiamo e non ne parliamo più”. Finì 4 a 1. Dopodiché uscimmo, perché bisognava, i giornali ci attendevano, ed io dissi: “Giustizia è fatta”, e capirono che ero stato messo in minoranza».

Era prevedibile che si sarebbe arrivati alla lettura attuale della norma?

«No, non era prevedibile, se la prevedibilità fosse stata sorretta dalle regole di ermeneutica normativa, è successo perché adesso non si interpreta più la norma».

Nella lettura di queste norme la giurisdizione ha difeso la tassatività della norma penale, e assieme l’indipendenza della magistratura e la libertà della giurisdizione, secondo lei?

«Almeno nel periodo in cui io fui magistrato questo accadeva, certamente ad opera di alcuni collegi, anche se in Cassazione questa idea non era condivisa da tutti. Le debbo dire, però, non per difendere me stesso ma per onorare i miei colleghi, che su quella giurisprudenza alla fine non ci fu nessun dissenso, quei colleghi che avevano rigettato il ricorso di cui ho parlato prima cambiarono opinione, tutti».

Oggi la parola mafia, proprio da un punto di vista lessicale, significa quello che significava 50 anni fa, 60 anni fa o invece, soprattutto nella percezione collettiva, abbraccia una serie talmente vasta di comportamenti che definisce fenomeni diversi, per legittimare le piccole mafie, le mafie delocalizzate? …

«Ora, qualunque gruppo di persone commette reati che in quel momento storico meritano di essere particolarmente sanzionati, questo gruppo di persone diventa un’associazione mafiosa».

In questo gioca un ruolo il fatto della specialità del processo per fatti di mafia?

«Sì, soprattutto poiché ci sono degli strumenti istruttori e investigativi che sono tipici del processo di mafia. I Pm ed i Gip ritengono che qualificando un’associazione comune come un’associazione mafiosa possono avvalersi di quegli strumenti che agevolano molto il raggiungimento del risultato».

In questo tipo di processi le intercettazioni telefoniche o ambientali durano anni. Secondo Lei la magistratura italiana ha difeso l’articolo 15 della Costituzione o, nella prassi applicativa, invece lo ha sostanzialmente vanificato?

«Credo che si sia avvalsa della massima – che io non approvo – che il fine giustifica i mezzi: siccome loro si prefiggono uno scopo, per raggiungere quello scopo per loro qualunque mezzo è consentito. Io personalmente sono stato sottoposto ad intercettazione per anni, di seguito».

Processo di mafia, processo di doppio binario, strumenti eccezionali di investigazione, grande potere alle Procure della Repubblica. La domanda è molto diretta: chi comanda oggi, all’interno di un processo, la Procura o il giudice? Chi è più forte?

«Certamente la Procura, poi c’è anche il fatto che le Procure forniscono le notizie alla stampa».

Ecco, la stampa: quando faccio la domanda ‘ chi comanda’, lei risponde immediatamente ‘ le Procure, anche perché le Procure hanno dei rapporti con la stampa’. Questo è un tema delicatissimo per la democrazia di un Paese, non soltanto per il sistema giudiziario di un Paese. Si è discusso negli ultimi tempi del problema delle intercettazioni che finiscono sui giornali. Dal punto di vista degli avvocati, su questa questione, siamo entrati in una fase successiva rispetto a quei tempi. Noi vediamo che il rapporto che si è instaurato tra alcuni uffici investigativi e i canali di informazione, mentre prima serviva a fare ‘ pubblicità all’indagine’ ex post, oppure serviva – e quello che lei ci sta raccontando ce lo dimostra – a condizionare il giudice nel momento della decisione, oggi sottende qualcosa di diverso. L’impressione è che questi rapporti preparino il terreno all’accettabilità sociale delle future decisioni. Prima di arrivare al processo Mafia Capitale ci sono stati articoli su alcuni giornali che già raccontavano che cosa doveva essere questa nuova mafia, una sorta di lavoro preparatorio.

«Sì sì, ma non c’è dubbio che la stampa favorisca e insomma dia pubblicità alle cose clamorose: le assoluzioni non danno soddisfazione, vuol dire che la giustizia ha fallito. Invece, le condanne specialmente se sono poi condanne severe – sono quelle che dimostrano ai giornalisti: avete visto come funziona bene? Anche se poi magari, nei gradi successivi la sentenza si capovolge. Io sono convinto che le fughe di notizie non provengano dai giudici, ai tempi del giudice istruttore forse era così… ma attualmente non è così, sono i pubblici ministeri che…»

Presidente sono i pubblici ministeri o adesso, invece, il rapporto non si è direttamente instaurato tra le agenzie investigative e i giornalisti? Mentre prima arrivavano le notizie dalle Procure, adesso sembra quasi che arrivino nel corso delle indagini e finiscano sui giornali direttamente dalle polizie.

«C’è il fatto che a tutti piace avere una buona stampa, essere considerato un grande poliziotto, un grande investigatore e via discorrendo. Ci sono alcuni che questo vizietto non ce l’hanno, ma la maggior parte ce l’ha e quindi… poi vedono che se certe notizie non vengono date dalla polizia, comunque poi le dà il Pm, allora lo facciamo noi e ci guadagniamo la notorietà di grandi investigatori».

La sua vicenda, quella giudiziaria, fu il primo laboratorio anche di questo: perché prima si costruì la figura del giudice ammazzasentenze, per cui era un fallimento se veniva annullato il processo che arrivava in Cassazione e finiva nelle mani di Carnevale, dipinto come uno che non capiva quanto fosse importante lottare la mafia. Oggi, paradossalmente, questo metodo che allora riguardava una figura apicale della magistratura, un uomo che comunque aveva un grande potere, sta diventando un clichè: prima l’articolo sul giornale che dice che anche a Roma c’è la Mafia, poi magari la fiction televisiva che fa la medesima cosa, quindi arriva l’ordine di custodia cautelare e poi il giudice – a Roma fortunatamente non è successo per adesso – si trova costretto a lottare con una sentenza che è già scritta nella testa dell’opinione pubblica. Quindi gli si chiede di essere doppiamente coraggioso.

«Certo, si vuole che il giudice sia condizionato, e quindi è condizionato spesso. Io ho apprezzato molto i magistrati di quel processo, quella dottoressa del processo Mafia capitale, non so come si chiama…»

La Presidente Ianniello...

«Che ha diretto in maniera perfetta e poi secondo me ha deciso correttamente; adesso vedremo che stabilirà l’appello, perché poi la Corte d’Appello certe volte è ondivaga».

Però anche nella sua vicenda giudiziaria alla fine hanno resistito alle pressioni: finisce con una decisione della Corte, no? Insomma, come dire, per Lei giustizia è stata fatta.

«Lei però forse non ricorda che il Pg non solo chiese il rigetto del mio ricorso, ma addirittura disse che avrebbero dovuto contestarvi non solo il concorso esterno, ma l’associazione a delinquere di stampo mafioso».

No, no questo me lo ricordo, però lì il giudizio “libero” ci fu e la libertà della giurisdizione pure. Insomma, diciamocelo francamente, la sua vicenda era una vicenda di rilievo enorme, anche perché poi veniva associata ad un certo contesto politico, ma i suoi colleghi lì furono liberi, riuscirono a togliersi il peso.

«Ma furono liberi perché il Collegio fu composto in quel modo, se ci fossero stati altri non sarebbero stati così».

Torniamo al concorso esterno: la giurisprudenza è fermamente attestata sulla sussistenza del concorso esterno nonostante i dubbi di molti commentatori. A questo punto non sarebbe meglio, qualcuno sostiene, costruire una fattispecie ad hoc?

«Sì, innanzitutto perché le fattispecie di reato devono essere opera del legislatore, non del giudice. Il giudice deve interpretare e applicare, ma non creare. Quando c’è l’esigenza sociale di creare nuove figure di reato, c’è il legislatore».

Aspetti Presidente, Lei dice “quando c’è l’esigenza sociale”, ma in un sistema costituzionale come il nostro introdurre un reato non dovrebbe dipendere da questo. Non è che introduco un reato perché c’è una aspettativa sociale: lo faccio perché c’è un’esigenza vera che però è condizionata dalla Costituzione. E questo vale anche per il livello sanzionatorio per certi reati. Oggi il livello sanzionatorio non dipende dalla gerarchia costituzionale dei beni ma è direttamente proporzionale alle pressioni che si fanno sul Parlamento rispetto a un certo tipo di vere o presunte emergenze. A volte, per alcuni reati, c’è una escalation sanzionatoria parossistica e magari si aumentano le pene non in base al disvalore dei comportamenti ma solo per poter utilizzare certi strumenti processuali. È proprio il caso dell’associazione mafiosa, che ha triplicato le pene nei minimi e nei massimi, nel giro di una decina di anni, per cui le pene all’epoca degli attentati del ’ 92 erano un terzo di quelle di oggi.

«Ma questo conferma che lo Stato italiano è malato».

Qual è la malattia?

«Quella di non avere dei principi chiari e di trattare la Costituzione come un optional. Io credo di averlo detto in un’intervista che poi fu pubblicata su Panorama in cui si parlava dell’associazione a delinquere e dei mafiosi. L’hanno fatta per poter utilizzare gli strumenti investigativi che altrimenti non avrebbero potuto, ed è così purtroppo. Ma questo è reso possibile dal fatto che i vari giudici non fanno il loro mestiere».

C’è un presidente di Corte di Cassazione che in questo momento si batte per l’introduzione dell’agente provocatore per i reati di corruzione: che ne pensa?

«Appunto: che faccia un altro mestiere quel giudice».

In tutta questa trentennale storia di costruzione di norme che poi pian piano sfinano fino a diventare trasparenti dal punto di vista della tassatività, quale è stato il ruolo giocato dall’accademia?

«Non parliamo dell’accademia perché io ho subìto anche da parte di certi accademici… Quando scarcerammo per decorrenza dei termini certi imputati, che poi furono riarrestati quando venne emanato un decreto legge correttivo, insomma, lei deve sapere che chi mi attaccò era Neppi Modona, che era magistrato e poi era diventato professore e faceva l’avvocato a Torino, ma non aveva aperto bocca quando la Corte d’Assise di appello di Torino, che stava giudicando i mafiosi catanesi a Torino, aveva applicato la norma sulla scarcerazione che poi applicammo noi nel gennaio successivo. Non aprì bocca quando lo fecero a Torino ma attaccò me. L’accademia, caro avvocato, ha le stesse pecche della magistratura, fa politica, e questo è grave. Chi si salva un poco è Fiandaca, che se lei legge il commento alla prima sentenza della Corte d’Assise di primo grado, la sentenza di Grasso, Maxi uno, in cui assolti ce ne furono parecchi, lui prende atto di una di queste cose e non si lamenta delle assoluzioni, come hanno fatto invece altri».

Il fatto di essere stato, e di essere considerato molto tosto con i suoi colleghi e anche di avere pubblicamente rivendicato competenza rispetto all’incompetenza, ha avuto un peso nella sua vicenda?

«Non c’è dubbio su questo, non c’è dubbio! Perché quando io per esempio durante la relazione intervenivo e rettificavo o aggiungevo, il relatore sul momento non diceva niente, però… insomma, mentre gli avvocati mi ammiravano, quando io li correggevo i colleghi non la prendevano bene».

E c’ha ripensato?

«Sì, ci ho ripensato, ma sono arrivato alla conclusione che se dovessi rinascere e avere la sfortuna di fare il magistrato, farei le stesse cose di quelle che ho fatto».

Ma lo rifarebbe il magistrato?

«Forse no».

L’orrido Paese di Fantozzi, scrive Mattia Feltri il 4/07/2017 su “La Stampa”. Non bisogna lasciarsi abbindolare: era tutto bello perché era tutto uno schifo. Non c’era via di scampo, non c’erano gli innocenti, non c’erano vittime ma soltanto persecutori che si contendevano il ruolo. Il ragionier Fonelli, che in gioventù era stato uno scadente quattrocentista, cercava di organizzare le olimpiadi aziendali, ma i colleghi della megaditta erano interessati soltanto al «lancio dello stronzo», cioè del medesimo Fonelli che finiva spianato sul marmo dell’atrio. Poi, raccontava la voce fuori campo del ragionier Ugo Fantozzi, attraverso spiate, ricatti, adesioni alla mafia, alla camorra, alla P2, e a quattro abbonamenti a vita a Famiglia Cristiana, Fonelli era improvvisamente salito a megadirettore naturale, aveva assunto il nome di Cobram II e finalmente indetto le gare d’atletica leggera; e tutti si erano untuosamente iscritti. Poi, è vero, in ogni film Fantozzi aveva uno scatto d’orgoglio, entra nella stanza all’Olimpo del diciottesimo piano dove i bambini sono accolti uno per volta in occasione del Natale da megadirettori naturali e laterali, che si scambiano regali faraonici, panettoni d’oro massiccio a ventiquattro carati con zaffiri e ametiste al posto dei canditi e brindano con champagne riserva 1612; ed entra mentre la bruttissima figlia Mariangela - la bambina, la babbuina - è arrampicata sull’attaccapanni intanto che i blasonati le tirano noccioline. Tragico silenzio di colpa. «Comunque a tutti loro i miei più servili auguri per un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo». La frase è cortigianesca, ma il tono no, è grave. Nessuno dice nulla. Viene da esplodere in un urlo esultante e liberatorio, e però Fantozzi è il padre che subisce conati di vomito ogni volta che guarda la piccola, al circo la scambia con uno scimpanzé, non si salva niente, nemmeno l’idea che ogni scarrafone sia bello agli occhi dei genitori. Ed è davvero meraviglioso perché non c’è astio né rancore, c’è un pessimismo lucido e cinico, irreparabile, non c’è tesi e antitesi, i padroni sono padroni, sulle porte degli uffici hanno targhe con scritto Gran. Figl. di Putt. Lup. Mann., quelli con predisposizioni progressiste vogliono gli impiegati a tavola con loro e li chiamano «cari inferiori», ma i rivoluzionari sono come il dottor Riccardelli che, non avendo potere sulla vita lavorativa della massa impiegatizia, infieriscono sul tempo libero: la sera di Inghilterra-Italia, prima leggendaria vittoria a Wembley, (Fantozzi celebra con frittatona di cipolle e Peroni familiare gelata) sono tutti convocati a vedere un film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco, tocca andare per non passare da reazionari borghesi. Diventerà la sera della Corazzata Potëmkin («una cagata pazzesca») e Riccardelli sarà sequestrato e obbligato ad assistere a Giovannona coscia lunga inginocchiato sui ceci. Oppure sono come il mitico Folagra, esiste davvero, sta in un sottoscala della megaditta e parla di formazioni di gruppi spontanei, di collettivi urbani, di cogestione proliferante. Falci in pugno e bla bla bla compagno. Poi ieri qualcuno celebrava l’epopea del dipendente col posto fisso, l’articolo 18 e niente Jobs Act, ma Fantozzi e i suoi colleghi sono assenteisti, furbetti del cartellino, giocano a battaglia navale, vanno a prendere il sole sul tetto, Paolo Villaggio, iperbolico e impietoso, dirà che «l’unico sistema vero sarebbe quello di stanarli puntando sulle spie, i delatori che si annidano in tutti gli uffici d’Italia. Assoldare le carogne, insomma. Dopodiché, per i fannulloni, che rubano lo stipendio per non far nulla, arriva la punizione. Bastonarli, anzi no, meglio frustarli. La soluzione, infatti, non è farli andare fisicamente a lavorare perché pure se ci vanno, non fanno nulla. La loro esperienza fannullona è invincibile». Sono opportunisti, leccapiedi, ammazzerebbero il vicino di scrivania per uno scatto di stipendio, hanno meschine tendenze fedifraghe, quelli che ce la fanno, come il Fonelli citato all’inizio, sono immemori della vecchia condizione di sfruttati e si tramutano in sfruttatori sempre più implacabili. Capitalisti, ecclesiastici, rivoluzionari, popolo, ognuno pronto a sgraffignare quel che può, a esercitare senz’anima il potere concesso, poco o tanto, per il momento affiancati da un’abissale ignoranza, profeticamente avvinghiati a congiuntivi oggi così rampanti, «dichi», «facci», «batti lei». È questa l’Italia di Fantozzi, una globale e castale associazione per delinquere. Saperlo, e riderci sopra, è il primo atto di ottimismo.

IL NOSTRO CUPO FUTURO, scrive Mattia Feltri de “La Stampa”, nel suo post dell’8 luglio 2017 su facebook. La sentenza della Cassazione su Bruno Contrada non dovrebbe essere un semplice atto d'accusa contro la magistratura, o contro la politica, ma un atto d'accusa sul nostro modo di ragionare e di reagire ai problemi. Gran parte della legislazione antimafia è emergenziale, e dunque uno strappo alla regola dello stato di diritto. Il 41bis, e cioè il carcere duro per i mafiosi, è un esempio. Un esempio di palese tortura, per la precisione, che abbiamo deciso di accettare, o di non vedere, in nome di una lotta d'emergenza a un problema eccezionale, la mafia. E' già abbastanza interessante che queste leggi eccezionali durino da decenni, diventando così ordinarie, e facendo dell'Italia uno stato che ha in parte rinunciato alla sua Costituzione e allo stato di diritto, e lo ha fatto stabilmente. Non vado oltre, non voglio discutere le leggi antimafia perché si passa immediatamente per fiancheggiatori ideologici della criminalità organizzata. Le leggi emergenziali furono varate, con successo, negli anni del terrorismo rosso e nero, e servirono per combatterlo e vincerlo. Da allora se ne fa uso, qua e là, oltre la mafia. L'ultima legge approvata al Senato, chiamata codice antimafia, estende il sequestro cautelativo dei beni ai casi di corruzione se ci sia associazione per delinquere. Traduco: se uno è sospettato (semplicemente sospettato) di corruzione in associazione con altri, gli si possono sequestrare i beni. Quelli della famiglia, l'azienda, tutto. Con questa legge (per fortuna non ancora definitiva) nel biennio 92-93 lo Stato avrebbe potuto sequestrare il 70-80 per cento delle grandi aziende italiane, dalla Fiat in giù, cancellando dalla faccia dell'Italia l'impresa privata. E farlo prima di una sentenza di condanna. Tutto questo ha una spiegazione e una conseguenza. La spiegazione è che, disarmati davanti alla plateale illegalità dell'intero paese (non soltanto mafia e corruzione, ma evasione fiscale, assenteismo, truffe delle e alle banche, truffe delle e alle assicurazione, noi siamo una specie di associazione per delinquere fatta di sessanta milioni di italiani) non sappiamo che reagire con una smania repressiva montante, dilagante, fatta di inasprimento delle pene e leggi emergenziali. La conseguenza è che stiamo disarticolando lo stato di diritto, attribuendo alla magistratura un potere sterminato (così che poi gli errori giudiziari diventano sempre più devastanti), ma soprattutto stiamo fornendo armi formidabili a un governo che domani, o dopodomani, ispirato da sentimenti illiberali, avrebbe gioco più facile di instaurare una dittatura. Ora, noi pensiamo che la democrazia sia incrollabile e non lo è. Già oggi l'Italia non è più psicologicamente democratica, e lo si evince dalla furia e scorrettezza del dibattito pubblico. Le dittature non sono mai arrivate annunciate, ma di colpo, e quando era troppo tardi. Non buttiamoci giù. E' sabato. C'è il sole.

La giustizia dei rumori. Il giudice Falcone cercava la giustizia delle verità, molti dei suoi “eredi” invece…, scrive Giuseppe Sottile il 18 Maggio 2017 su "Il Foglio". Da un lato c’è la giustizia delle verità; verità nude, secche, ossificate dal tempo e dalla pazienza, provate, dibattute, e poi fissate in sentenze pronunciate a nome del popolo italiano ed emesse al di là di ogni ragionevole dubbio. Dall’altro lato c’è la giustizia dei rumori, delle chiacchiere, delle urla e delle piazze; la giustizia dei teoremi e dei processi amministrati non dal rigore dei codici ma dai titoli dei giornali. Da un lato c’è Giovanni Falcone, il giudice antimafia straziato il 23 maggio di venticinque anni fa nell’attentato di Capaci. Dall’altro lato ci sono molti dei magistrati che sono venuti dopo, quelli che puntualmente lo ricordano e lo citano, quelli che confidenzialmente preferiscono chiamarlo Giovanni e che sul suo sacrificio hanno costruito una retorica buona per tutti gli azzardi e tutte le petulanze.

Cominciamo dal 1989, quando la piazza dell’antimafia dura e pura – la piazza dove troneggiavano il sindaco Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – chiedeva a gran voce di impiccare al cappio della gogna l’eurodeputato Salvo Lima, padre padrone di quella vasta fetta della Dc siciliana che faceva capo alla corrente di Giulio Andreotti. Mani espertissime e menti raffinatissime lanciarono dentro il palazzo di giustizia una trappola ammiccante e ruffiana. Fecero sapere a Falcone che nel carcere di Alessandria c’era un pentito, Giuseppe Pellegriti, pronto a dichiarare che dietro gli omicidi eccellenti degli ultimi anni – quelli di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa – c’era proprio lui: il torvo, opaco e maleodorante Salvo Lima. Ma il giudice Falcone non ci cascò. Volò ad Alessandria, interrogò Pellegriti, cercò i riscontri e quando verificò che dietro il siparietto c’era soltanto fuffa, tornò rapidamente a Palermo e nello spazio di due giorni incriminò Pellegriti per calunnia. L’antimafia militante, ovviamente, non sopportò l’oltraggio. Si trasformò in sinedrio e gli scaricò addosso una raffica di insulti, il più tenero dei quale fu “venduto”.

Cominciamo dal 1989, quando il magistrato ucciso a Capaci smascherò il pentito che indicava Salvo Lima come mandante. Quelli che sono venuti dopo di lui, quelli che si definiscono eredi o addirittura allievi prediletti quale giustizia hanno contrapposto a quella che Falcone amava costruire con le prove e con i riscontri? Hanno preso Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e lo hanno trasformato in una “icona dell’antimafia” da portare in pellegrinaggio in tutti i talk-show dove i conduttori politicamente più impegnati, da Michele Santoro a Marco Travaglio, erano pronti tessere le lodi di un magistrato, Antonio Ingroia, che non si accontentava più delle verità scritte nelle sentenze, ma voleva andare oltre, molto oltre, fino al buco nero delle complicità e dei misteri che, dalla strage di Portella della Ginestra in poi, hanno ammorbato e pesantemente condizionato la vita della Repubblica. Solo che Ciancimino, come si è visto dopo, non raccontava verità ma castronerie che nessuno ha voluto o saputo arginare. Certo, nessuno nega che alla fine Massimuccio è finito pure lui sotto scopa per calunnia, come Pellegriti. Ma è altrettanto vero che con le sue temerarie ricostruzioni è stato costruito un processo – quello sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra – che da quattro anni si trascina stancamente davanti alla Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto. Arriverà un brandello di verità? In questi quattro anni sono successe tante cose: Antonio Ingroia, il procuratore che ha imbastito la mastodontica inchiesta, forte del successo mediatico ha tentato la discesa in politica ma, dopo avere collezionato un flop pari solo alla sua ambizione, ha trovato riparo in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal governatore della Sicilia, Rosario Crocetta; Massimo Ciancimino, invece, è finito in galera non tanto per le calunnie ma perché, mentre confidava a Ingroia le scelleratezze mafiose apprese dal padre, nascondeva in casa una quantità tale di tritolo da fare saltare in aria un intero palazzo. Eppure, nonostante le imprese di Ingroia e Ciancimino abbiano fatto crollare la credibilità delle accuse, c’è ancora un’antimafia chiodata che non vuole rassegnarsi all’evidenza e che cerca, con l’aiuto di una piazza sempre bene orchestrata, di trasformare il processo sulla Trattativa in un pozzo nero dentro il quale affogare non solo l’onore dello Stato, ma anche e soprattutto la vita di quei due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, che negli anni maledetti del sangue e delle stragi, arrestarono Totò Riina, boss di tutti i boss, e lo seppellirono dentro il carcere a vita.

Fine gogna mai. Basta confrontare la durata dei processi di ieri e di oggi per capire che serve una coraggiosa riflessione. E’ un’antimafia testarda e impietosa quella che soffia sul fuoco di questo processo: Mori, ex comandante del Ros, è ormai un imputato di professione che per quasi vent’anni è passato da un processo all’altro, sempre assolto. Ma vent’anni di gogna non sono bastati; perché Ingroia alla fine del 2012 l’ha tirato dentro la Trattativa e lo ha calato in un supplizio che non si sa nemmeno quanto potrà durare: a occhio e croce, visto che dovrà ancora concludersi il giudizio di primo grado e visto che dopo bisognerà aspettare le sentenza d’appello e quella della Cassazione, il calvario potrà dirsi concluso attorno al 2023. E’ una giustizia da tempi lunghi quella che, dopo Falcone, macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni e sputtanamenti, rancori e fanatismi. Il motivo è semplice: i tempi lunghi moltiplicano le chiacchiere, amplificano i rumori, dilatano i sospetti e lasciano intatta quella confusione rintronante dentro la quale, alla fine della fiera, si insabbia – lentamente, inesorabilmente – lo stato di diritto. Sul numero di Panorama che potrete trovare in edicola sin da oggi, Riccardo Arena, autorevole cronista giudiziario di Palermo, presenta una puntuale analisi sulla durata dei processi, almeno di quelli sui quali tanto si è detto e scritto. E lo fa con dei raffronti che dovrebbero quantomeno spingere a una seria riflessione non solo il ministro della Giustizia o Commissione parlamentare antimafia, ma anche e soprattutto il Consiglio superiore della magistratura.

Nei processi che non finiscono mai un ruolo centrale spetta ancora a Massimo Ciancimino, il pataccaro della Trattativa. Il primo raffronto è quello relativo ai pentiti truffaldi e impostori che, pur di salvare la propria pelle, non hanno esitato a imbrogliare le carte e a crocifiggere chiunque si trovasse ad attraversare la loro strada. Per smascherare Giuseppe Pellegriti, il giudice Falcone impiegò due giorni. Per smascherare Vincenzo Scarantino, il picciotto che a Caltanissetta ha accusato sette persone, condannate all’ergastolo per il massacro di Paolo Borsellino e poi scarcerate senza nemmeno tante scuse, la giustizia siciliana del dopo Falcone ha impiegato ventitré anni lungo i quali si sono snodati tre processi, con le corti e i pm tutti concordi nell’assegnare fiducia a Scarantino, più volte pentito di essersi pentito e mai creduto quando ritrattava. Il secondo raffronto parte dal maxi processo, quello che assegnò alla mafia la più devastante sconfitta e condannò all’ergastolo non solo i padrini della “cupola” ma anche i boss e i picciotti dei singoli mandamenti, da Riina a Bernardo Provenzano, da Michele Greco a Leoluca Bagarella. “Se il maxi processo – scrive Arena – venne imbastito e avviato nell’arco di tre anni e mezzo e poi fu concluso, con la sentenza di Cassazione, in sei anni meno dieci giorni (10 febbraio 1986 - 30 gennaio 1992) il nuovo sistema dei processi-contenitore porta a inchieste interminabili, complesse, a dibattimenti infiniti, tutti immancabilmente in favore di telecamera, costantemente alimentati da sempre nuove accuse”. L’esempio più clamoroso è quello di Marcello Dell’Utri: la procura di Gian Carlo Caselli gli puntò gli occhi addosso a metà degli anni Novanta, la sentenza che lo ha portato al carcere di Rebibbia è arrivata diciassette anni dopo. Un record. Che comunque non chiude i suoi conti aperti con la giustizia: l’ex manager Fininvest infatti è, assieme ai generali Mori e Subranni, tra gli undici imputati della Trattativa e, nella migliore delle ipotesi anche la sua vicenda potrà chiudersi non prima del 2023.

 E' una giustizia dai tempi lunghi quella che macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni, sputtanamenti e rancori. Fine gogna mai, verrebbe da dire. E verrebbe da dirlo anche per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino che per tredici anni è stato imputato di concorso esterno ed è stato definitivamente assolto; però, quando già pensava di godersi la vecchiaia senza più salire e scendere le scale dei tribunali, ecco arrivare l’incriminazione per la Trattativa, finita anche questa in una sentenza di assoluzione emessa dal giudice del rito abbreviato ma puntualmente impugnata dai rappresentanti dell’accusa. Se non ci saranno altri intoppi pure per Mannino la fine, se mai fine ci sarà, non potrà arrivare prima del 2023. Altro che giustizia delle verità. Si dichiarano tutti figli e allievi di Falcone ma hanno trasformato molte aule del Palazzo di giustizia in altrettante stanze della tortura. Che Dio ce ne scampi.

Concorso esterno e giustizia. Contro gli intellettuali e i penalisti disonesti. La ricerca del bilanciamento tra lotta alla criminalità e garantismo individuale. Giovanni Fiandaca spiega perché la magistratura italiana deve far propri i princìpi garantistici della giurisprudenza di Strasburgo, scrive Giovanni Fiandaca il 15 Aprile 2015 su "Il Foglio". Dagli addetti ai lavori il concorso esterno viene definito un istituto di prevalente elaborazione giurisprudenziale perché gli elementi che lo costituiscono, com’è noto, non sono previsti in maniera puntuale e dettagliata dalla legge: essi vengono ricostruiti dagli interpreti (dottrinali e giurisprudenziali) grazie ad un adattamento al reato associativo delle norme generali sul concorso di persone. Per carità, nulla di eterodosso in questa operazione di adattamento, la quale si avvale di un metodo giuridico di cosiddetto combinato disposto tra norme che può considerarsi fisiologico nell’attività interpretativa ad opera dei giudici. Solo che questa logica combinatoria, come ho già spiegato su questo giornale nell’aprile dello scorso anno, presenta qualche complicazione in più a causa delle peculiarità del reato associativo, che è a sua volta un tipo di reato sui generis. Da qui la obiettiva difficoltà per la giurisprudenza di procedere a una tipizzazione giudiziale del concorso esterno soddisfacente sotto tutti i possibili aspetti. E ciò spiega perché l’elaborazione dei presupposti di un concorso esterno punibile sia andata progressivamente evolvendo nel corso del tempo, scandita da tre importanti sentenze della Cassazione a sezioni unite rispettivamente del 1994, del 2002 e del 2005. A mio giudizio, nonostante l’ultima di queste pronunce – la cosiddetta Mannino – abbia segnato un significativo passo avanti nel chiarire i presupposti della punibilità del concorrente esterno, l’onestà intellettuale induce a riconoscere che residuano ancora in proposito non pochi spazi di incertezza. Sicché, se è vero che nel nostro ordinamento la Costituzione affida in via prioritaria al legislatore democratico il compito di definire la materia penale, non può che ribadirsi l’auspicio che le forze politiche si responsabilizzino una buona volta e sul serio della spinosa questione. Ma il ceto politico attuale è in grado di precisare con una legge ad hoc la fisionomia tuttora sfuggente del concorso esterno? È lecito dubitarne. Comunque sia, la recente presa di posizione della Corte di Strasburgo nel caso Contrada, secondo la quale all’epoca dei fatti (1979-1988) il reato “non era sufficientemente chiaro”, si spiega anche in base a quanto si è detto fin qui. Nel periodo considerato la Cassazione riunita non si era ancora pronunciata sul concorso esterno, il che assume un rilievo tutt’altro che secondario nella prospettiva della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, secondo i giudici di Strasburgo, il principio di legalità penale (art. 7 CEDU) esige che il cittadino sia posto in condizione non solo di conoscere anticipatamente la norma incriminatrice in sé considerata, ma anche di prevederne ragionevolmente l’applicazione che i giudici ne fanno nei casi concreti. Proprio perché la legalità penale viene giustamente concepita anche come prevedibilità degli orientamenti giurisprudenziali, la conclusione cui è giunta la Corte europea nel caso Contrada ha una giustificazione molto plausibile. È auspicabile, più in generale, che nella magistratura penale italiana aumenti via via la disponibilità culturale a far propri i princìpi garantistici della giurisprudenza di Strasburgo. La giustizia penale, come “arma a doppio taglio”, richiede sempre – piaccia o non piaccia - un equilibrato (ancorché non sempre facile) bilanciamento tra lotta alla criminalità e garantismo individuale. 

Così la sentenza Cedu su Contrada è andata “di traverso” alla giustizia italiana. Come, dopo 25 anni, si arrivati da Strasburgo all'assoluzione dell'ex superpoliziotto, scrive Fabio Cammaleri il 17 Luglio 2017 su "Il Foglio". La vicenda di Bruno Contrada, nonostante tutto, è ancora stretta fra parole un po' esoteriche e un po' tartufesche: come solo quelle del diritto, quando vogliono, sanno essere. Da un lato, il “titolo di reato”, che non c’era, ma fecondo di dieci anni di reclusione; dall’altro, una condanna che, pur divenuta “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, rimane tale. Il “titolo di reato” è l’attribuzione ad una condotta umana di un certo valore criminoso; l’Autorità Giudiziaria penale esiste in ragione di questo potere di attribuzione. Perciò, quando se ne discute, non si discute di una parte: ma del tutto. E, sappiamo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, decidendo sul ricorso “Contrada contro Italia”, ha sancito che questo benedetto “titolo”, il c.d. “concorso esterno in associazione mafiosa”, doveva esistere al tempo dei fatti, poi contestati; e, invece, allora non esisteva. L’ignaro di mirabilia giuridiche si aspetterebbe che finisca lì. Perché, allora, quella formula? Alla fine della fiera, sembra che la proposizione “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, implichi una sorta di significato “suicida”. Come se, dichiarato “inesistente” il “titolo”, contasse averne almeno un feticcio: sterilizzato, ma con un residuo stigmatizzante. Contrada in questa storia ha fatto lo scalatore e, anche dopo Strasburgo, ha dovuto seguitare a farlo. Provato la revisione (Novembre 2015), e a Caltanissetta avevano respinto; poi, il ricorso straordinario per “errore materiale o di fatto” (Luglio 2016), e la Cassazione l’aveva dichiarato inammissibile; quindi, “l’incidente di esecuzione” a Palermo, per ottenere “la revoca” della sentenza, e lì, la Corte di Appello aveva dichiarato inammissibile pure quella richiesta. Alla fine, la Cassazione ha annullato senza rinvio tale ultimo diniego: tuttavia, decidendo nei termini visti. Si ha l’impressione che la sentenza CEDU su Bruno Contrada sia andata di traverso al sistema giudiziario italiano. Perciò, cavillare, sopire. Il punto è che quella pronuncia era stata dirompente non solo, e non tanto, perché aveva censurato l’impreciso conio “giurisprudenziale” del c.d. “concorso esterno” al tempo dei “fatti”; ma, soprattutto, perché ne aveva colto acutamente proprio “l’origine giurisprudenziale”. Si erano resi penalmente rilevanti i comportamenti di Contrada, rendendolo reprobo retroattivamente: in maniera analoga a come sarebbe accaduto se fosse stata emanata una norma successiva ai fatti, e appositamente incriminatrice. Da Strasburgo sono formalmente baluginate movenze persecutorie. Alla Corte di Appello di Palermo, quella dell’ultimo diniego, dopo lunghe e dotte distinzioni in punta di diritto, era come scappata un’affermazione, piuttosto illuminante, nel suo genere: si era trattato di “una interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano”. Non solo; ma si aggiungeva che andava negata la stessa “origine giurisprudenziale” del concorso esterno: non c’entrano i giudici, è la legge italiana (peraltro fissando una tesi che verrà diffusamente ripresa). Tanta perentorietà, nell’affermare quello che non è (la natura “normativa” del concorso esterno); una così poco sorvegliata “autarchia ermeneutica”, ragionevolmente, non si spiegano con la sola questione procedurale. Pare più plausibile un’altra spiegazione. Probabilmente, si avverte il rischio che, a partire da una singola vicenda, pur di capitale portata simbolica, si possa porre l’accento sul presupposto di quella “origine giurisprudenziale” del “titolo”; e, dunque, si offra il fianco ad una questione “ordinamentale”: “La” questione. Sulle “vere storie d’Italia”, di cui il c.d. “concorso esterno” è stato il lievito giuridico, si è costruito un complesso sistema di legittimazione emotiva e culturale, coercitivamente presidiato: dove è sempre meno agevole distinguere le “avanguardie” dai “moderati” (ad es., l’idea, recepita a maggioranza parlamentare, per cui “la pericolosità sociale della P.A. merita Misure di Prevenzione uguali a quelle già previste per la mafia, è solo l’ultimo frutto, in ordine di tempo, di quella legittimazione); e che, proprio per questa comprensiva complessità, a riscuoterlo dalle fondamenta, potrebbe aprire vaste voragini. Ecco perché, quasi fra le righe, si insiste sulla natura “normativa” del “concorso esterno”, con il coinvolgimento/ammonizione dell’intero sistema istituzionale, compreso il legislativo. Ecco perché, gli argomenti di tipo negazionistico (“non è successo niente”), anche in queste ore, si dispongono a seguire questo accomunante solco “patriottico” e “legislativo”. Ecco perché, quella formula tortuosa, “condanna improduttiva di effetti” (ma ancora tale), finisce col fungere da puntello sistemico: permette di estenuare l’equivoco sui “fatti” i quali, nonostante la carenza del “titolo di reato”, sarebbero ancora tutti lì. Ma il “titolo di reato” non è un inerte contenitore di “fatti” che siano già rigidamente conformati, e debbano solo accatastarsi al suo interno, mantenendo quella loro forma immutabile; agisce piuttosto come un calco su una materia malleabile, gommosa; che, una volta liberata dalla erronea costrizione, si riespande, e riprende forme e configurazioni autonome. Gli stessi fatti, con il “titolo” hanno una forma, senza, ne hanno un’altra. Entrare in una casa altrui e asportarne un bene, si chiama furto; farlo con una divisa addosso si chiama sequestro. Contrada teneva condotte di intelligence che, alla valutazione imposta dal “titolo”, dal calco, non si presentavano commendevoli. Ora si è capito che era stato un errore ritenerle, “conformarle” come tali. La “condanna”, dunque, è una riprovazione formalmente qualificata di una condotta; la riprovazione prende legittimo corpo nei suoi “effetti penali”; disconoscere questi, significa negare che la riprovazione, e il giudizio che l’ha sostenuta, fossero fondati. Dopo venticinque anni, per “dignità gnoseologica”, per decenza istituzionale, per verità morale, non ci dovrebbe essere altro. Cavilli a parte.

Evviva il processo contro il concorso esterno. Come una sentenza ha messo a nudo il simbolo di tutti i reati fuffa: “Non si può essere condannati solo per concorso esterno”. Perché combattere contro la giustizia ectoplasma, scrive Piero Tony l'8 Marzo 2016 su "Il Foglio". E’ davvero la fiaba dello Stento, dopo decenni ancora oggi si deve continuare a discutere su quell’obbrobrio giuridico costituito dal concorso esterno in associazione mafiosa. E sempre in maniera vibratissima, perché chi lo sostiene è probabilmente mosso da importanti pulsioni savonaroliane che non possono tollerare di vedere impunita la fascia grigia dei rapporti di connivenza con il contesto territoriale e chi lo nega è soprattutto preoccupato per importanti anzi fondamentali principi di spessore costituzionale. Pare che qualche giorno fa per codesta contestazione di concorso esterno un gip di Catania (Bernabò Distefano) abbia emesso un proscioglimento ritenendola – come molti altri tecnici del diritto – non prevista dalla legge ma solo incondivisibile interpretazione giurisprudenziale degli articoli110 e 416 bis cp; che sia subito insorto il dirigente di quell’ufficio definendo quella conclusione – in sintonia con molti altri tecnici del diritto – come inaccettabile opinione personale. Al solito, una radicale contrapposizione di opinionisti. Il procuratore Caselli con un indignato articolo sul Fatto ha bollato – come molti altri – il revisionismo negazionista del gip. Per parte mia invece credo – come molti altri giudici che potrebbero avere quasi la stessa autorevolezza di Caselli – che quel gip abbia fatto e detto cose sacrosante e giuste. Dovrebbe bastare questa radicale antitesi – in aggiunta all’ondivago orientamento giurisprudenziale anche di Sezioni Unite della Cassazione – per ingenerare prudenza e qualche dubbio e qualche preoccupazione per la sorte dei tanti indagati, imputati e condannati in ordine a quell’evanescente ipotesi di reato. Ma andiamo con ordine. Partendo dalle due tipologie di concorso previsti dalla legge (concorso “eventuale” dell’articolo 110 cp e concorso “necessario” quale quello degli articoli 416, 416 bis cp), diventate poi tre con l’aggiunta giurisprudenziale del così detto “concorso esterno in associazione mafiosa” (per quanto si dirà forse sarebbe stato più esatto, ma anche più palesante e dunque ancor più facilmente criticabile, denominare quell’etereo delitto “reato di concorso nel concorso” e nulla più). Il delitto di associazione per delinquere sia o non sia di stampo mafioso (articoli 416, 416 bis cp) è reato a concorso necessario di persone nel senso che può sussistere solo con il concorso di più persone, almeno 3. Esso, sia o non sia di tipo mafioso, come noto è dalla legge configurato come reato a forma libera ossia a condotte non tipizzate – fermi restando naturalmente, quanto all’articolo 416 bis, sia metodo mafioso che forza intimidatrice che conseguenti condizioni di assoggettamento ed omertà – ma a composizione predefinita e chiusa quanto ai soggetti attivi nel delitto, nel senso che esso esiste solo grazie alla loro presenza associata, che pertanto ne è elemento costitutivo e condizione necessaria. E’ evidente, pertanto, che tale “plurisoggettività essenziale e necessaria” è norma speciale (per espressa definizione della legge occorre che al pactum sceleris partecipino almeno tre persone e che queste non possano che essere o associati o promotori o costitutori o organizzatori o capi) rispetto al concorso eventuale previsto e regolato in via generale per tutti i reati dall’articolo 110 cp e scomodato dai fautori del concorso esterno, quell’articolo 110 cp che dice “… quando (quindi non necessariamente, ndr) più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita…”. E’ tutta un’altra storia! A parte il nome, realtà giuridiche assolutamente diverse e lontane tra loro non compenetrabili anzi gnoseologicamente incompatibili (come morto ma non troppo o bagnato ma un po’ asciutto, tanto per intenderci). E non solo perché, da che mondo è mondo, la regola speciale fagocita quella generale, tant’è che a nessuno verrebbe in mente di pensare alla lucertola come ad un sauro, al pipistrello come ad un chirottero, alla nonna come anziano rappresentante del genere umano e così via; ma anche perché è lo stesso codice penale a ricordare a zelanti e distratti che “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito (articolo 15 cp e 9 legge numero 689/1981). Eppure al mondo c’è chi ha pensato, forse solo per lodevole ansia punitiva nei confronti delle zone grigie del “patto scellerato ” menzionato dal procuratore Caselli, che la norma speciale del concorso necessario (articoli 416, 416 bis cp) e la norma generale di quello eventuale (articolo 110 cp) potessero filare tanto d’amore e tanto d’accordo da poter integrare con il connubio il nuovo reato di concorso esterno in associazione criminale, contemporaneamente dentro e fuori come la fata turchina, un pezzo di qua uno di là ed il gioco è fatto. Il concorso di persone, di cui all’articolo 110 cp, regola generale operante per tutti i reati e dunque per qualsiasi reato, per legge non può che essere interno al reato e mai esterno come declamano invece i fautori del concorso esterno, proprio perché a chiarissime lettere l’articolo 110 cp vuole prendere in considerazione solo persone che concorrano “nel medesimo reato”. E la ragione, semplicissima, è che con il vigente articolo 110 del codice Rocco del 1930 si volle prendere le distanze dal vecchio codice Zanardelli del 1889 che, facendo molti “distinguo”, sul punto si era dimostrato poco operativo; prevedeva infatti sanzioni e trattamenti penali diversi distinguendo (con intuibili difficoltà precettive ed accertative) tra compartecipazione materiale e morale, tra correità e complicità. Tagliando la testa al toro come si suol dire, il vigente codice Rocco previde che “l’evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo… e perciò a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità dell’intero… dall’esame dei casi della pratica si apprende che la preordinata catalogazione dell’entità dell’apporto di ciascun concorrente non può essere che arbitraria, perché in concreto il giudizio è in relazione ad un’infinità di circostanze, che sono sottratte ad ogni previsione, essendo il loro valore diverso nelle innumerevoli modalità dei fatti” (relazione al progetto definitivo – numero 134). Torniamo alla nostra ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, cioè di asserito concorso in sodalizio mafioso da parte di persona forse connivente ma che mafiosa non è. Viene naturale: per zone grigie e sfuggenti si impongono norme grigie e sfuggenti. Ovvio. Visto che codesta persona non risulta pacificamente mafiosa, per poterla “attenzionare” con indagini di verifica il solo articolo 416 bis cp da solo non basta e non serve. Tant’è vero che, anche per non lasciare impuniti quelli delle fasce grigie e del “patto scellerato”, si è dovuto ricorrere… “all’esterno”. Né per attenzionarla serve e basta, evidentemente, il solo articolo 110 cp, quello del concorso nel “medesimo reato” con responsabilità per l’“intero”come precisa la relazione. Non serve e non basta perché serve a regolare – come detto – il comune concorso “eventuale” e non già quello specifico e “necessario” dei reati associativi. Presi separatamente quei due articoli non possono servire a nulla, insomma, nella lotta contro il crimine delle zone grigie ed ecco perché dal cappello è saltata fuori l’accoppiata. Da anni mi chiedo come i fautori del concorso esterno abbiano potuto applicare all’articolo 416 bis cp quell’articolo 110 cp che perentoriamente esordisce non con la previsione di un concorso esterno ma, al contrario, con un “quando più persone concorrono nel medesimo reato….”. E come abbiano potuto superare ogni possibile obiezione sul punto. Quale sarebbe il medesimo reato? Quello interno o quello esterno? Dall’interno verso l’esterno o viceversa? Perché sarebbe davvero grave se, con una sorta di sofisma tipo petizione di principio che sa tanto di artifizio, al fine di superare qualsiasi obiezione, si fosse posticipata la causa all’effetto invertendo le linee di partenza e traguardo del percorso logico; tanto da ritenere oggi sussistente quel tipo di reato che invece sarà ravvisabile solo domani e, come se non bastasse, solo grazie all’interpretazione della norma sub iudice… insomma mi apro nel frattempo la strada facendo qualcosa che non potrei fare. Conflitto di interessi? Gioco delle tre carte? Bah! Sarebbe così semplice, lineare, bello e giusto applicare le regole senza forzature e trattare i reati comuni come comuni e basta, senza rincorrere le utili agevolazioni investigative previste per chi indaga sulla mafia. E quelli mafiosi come mafiosi, con ordinata individuazione dei ruoli direttivi o associati nonché delle varie tipologie partecipative sia materiali sia morale. Ma in entrambi i casi, fare giustizia verificando in tempi rapidi se ogni indagato abbia materialmente o moralmente conferito un qualche contributo causale apprezzabile e concreto alla verificazione del fatto. E combattere quelli delle zone grigie del patto scellerato prima con l’educazione (furbetti e ganzini si combattono con la scuola, diceva mio nonno e mi pare ancora attuale) ossia con la prevenzione – che vuol dire mediazione e quella lotta alle ingiustizie e all’incultura civica che Giovanni Falcone invocava nel secolo scorso – poi con la giustizia “riparativa” e della persona. Utopia? Bah! Tutto il resto è contraddizione in termini, logica delle sensazioni, uno stiracchiare oltre il consentito la rete da pesca per arrivare alle fasce grige, è fuffa. Da decenni mi chiedo a chi possa essere venuta in mente per la prima volta – ci deve essere per forza un primo! – l’idea di un concorso interno… ma allo stesso tempo esterno… esterno ma non troppo. E’ solo fuffa parlare di concorso esterno quando per legge il concorso può essere solo interno ed organico. O ipotizzare un concorso da parte di chi non è associato in un reato che proprio nell’associazione si integra mediante l’affectio societatis dell’associazione stessa. E’ fuffa ricorrere al concorso morale e nascondersi dietro queste due parole quando la condotta non è di tale valenza da rendere l’autore annoverabile nei ruoli che la giurisprudenza ha ben precisato secoli fa, cioè quelli di istigatore o rafforzatore. E conseguentemente è fuffa il rincorrere indicatori che, vaghi come ectoplasmi, non assurgono a prova quantomeno di partecipazione consapevole ma che – di volta in volta ravvisati in frequentazioni improprie, incremento del rischio per la società civile, attività mediatoria o di cerniera, cointeressenza etc. etc. etc. – hanno consentito di materializzare fantasmi e pertanto impedire non di rado qualsiasi difesa concreta. Il procuratore Caselli ha tutte le ragioni quando dice che la criminalità organizzata si nutre anche di forze conniventi del contesto sociale e che alcuni comportamenti non dovrebbero restare impuniti. E’ palese che essa sia agevolata e prosperi grazie agli egotismi e alle diffuse timidezze del territorio, alla corruzione ed all’ignoranza, ad una riservatezza storica che qualche volta può rasentare l’omertà, all’ingiustizia sociale e all’incultura civica di cui parlava Giovanni Falcone come causa principale del fenomeno, alle disinvolture imprenditoriali. E’ palese, sono condotte e comportamenti/atteggiamenti spesso di marcata pericolosità che sarebbe logico e doveroso perseguire, purché senza forzature giurisprudenziali ideate per inseguire umori. Stringi stringi penso che, almeno fino a quando non sia modificato il quadro normativo, vada abbandonata la malaprassi del concorso esterno ed incrementata nel contempo l’attenzione per i reati-fine (che, meno evanescenti di qualsiasi concorso esterno, proprio delle fasce grigie costituiscono il tessuto connettivo) al fine di potersi accontentare… nell’attesa dei risultati socioeducativi o di una novità legislativa… di punirne gli autori, sia diretti che concorrenti interni ex articolo 110 cp. In conclusione, a mio sommesso giudizio fino a quando non cambierà il codice penale continuerà ad avere tutte le ragioni del mondo l’ingiustamente vituperato (ingiustamente e da pochi) gip di Catania.

Contrada nel meccanismo infernale. Terzi livelli e processi senza reato. Violante capì subito il rischio, scrive Massimo Bordin il 15 Aprile 2015 su "Il Foglio". Uno dei primi comunicati di commento all’arresto di Bruno Contrada fu quello di Luciano Violante, allora presidente della commissione parlamentare Antimafia. Era la vigilia di Natale del 1992, le stragi di Capaci e Via D’Amelio erano state compiute da pochi mesi e quello dell’alto funzionario del Sisde si poteva ben definire il primo arresto eccellente, come usano aggettivare i cronisti senza fantasia. Per raccordare “cosa nostra” con la misteriosa “entità”, il “terzo livello”, cosa meglio dei famigerati “servizi deviati”? Violante, con il suo tempestivo comunicato nella mattina di vigilia, raffreddò gli entusiasmi. “Attenzione – questo era il senso – L’accusa nei confronti di Contrada si riferisce a un periodo antico, quando i pentiti non c’erano e i poliziotti lavoravano grazie agli informatori. Era inevitabile dunque che avessero qualche contatto coi mafiosi”. Il presidente dell’Antimafia era il più intelligente della compagnia e aveva già capito l’essenziale. Intanto, il reato contestato era, per così dire, in via di definizione e il processo una specie di esperimento. Oggi, dopo oltre un ventennio, da Strasburgo ci ricordano che gli imputati non possono essere trattati come cavie. Il problema principale per Violante stava comunque nella periodizzazione delle stagioni dell’antimafia. Contrada apparteneva all’epoca pre-Buscetta, diciamo così. L’epopea del grande pentito si sarebbe chiusa con il processo Andreotti. Da Terranova, Costa e Chinnici a Falcone e Borsellino per arrivare, attraverso Caselli, a Ingroia, Scarpinato e ora Di Matteo. In ogni stagione c’è uno scarto rispetto alla precedente, che determina la “damnatio memoriae” di qualche suo protagonista. Perfino di Falcone, quando andò a Roma. Contrada è rimasto stritolato in questo meccanismo infernale. In modo diverso, dopo, è toccato anche a Violante, che forse aveva capito tutto. E a Mori. E a De Gennaro. Ma questa è questione in cui non ci può aiutare una Corte europea.

La Cassazione revoca la condanna a Bruno Contrada. Revocata la condanna a Bruno Contrada, l'ex agente del Sisde condannato a 10 anni per concorso in associazione mafiosa, scrive Chiara Sarra, Venerdì 7/07/2017 su "Il Giornale". La Cassazione revoca la condanna a Bruno Contrada, dichiarandola "ineseguibile e improduttiva di effetti penali". La Corte ha annullato senza rinvio una ordinanza della Corte d'appello di Palermo dell'11 ottobre 2016, relativa all'applicabilità di una decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'ex superpoliziotto, secondo i giudici di Strasburgo, fu condannato in Italia per concorso esterno in associazione mafiosa, in base a una "fattispecie criminosa la cui evoluzione interpretativa sarebbe stata il risultato di un controverso dibattito giurisprudenziale, consolidatosi solo successivamente ai fatti oggetto di contestazione e, quindi, la sua applicazione sarebbe stata, per l'imputato Contrada, assolutamente imprevedibile ed incerta". Bruno Contrada era stato condannato a 10 anni di carcere con una sentenza divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007. Scontò gran parte della pena tra carcere e detenzione domiciliare e adesso potrebbe chiedere un maxirisarcimento per l'ingiusta detenzione.

Strasburgo dà ragione a Bruno Contrada: «Era malato, un abuso il carcere». La Corte per i diritti dell'uomo ha dato ragione all'ex 007: tra il 2007 e il 2008 le sue condizioni di salute erano incompatibili con la detenzione. Lo Stato italiano, se non ci saranno ricorsi, dovrà pagargli 15mila euro, scrive Mariateresa Conti, Martedì 11/02/2014 su "Il Giornale". Ormai è un uomo libero. Ha finito di scontare la pena a dieci anni di reclusione per un reato che lui ha sempre sostenuto di non aver commesso - concorso esterno in associazione mafiosa - e quella battaglia di sette anni fa, per strapparlo alla cella quando avrebbe avuto bisogno di un ospedale e di cure sembra lontanissima nel tempo. Eppure adesso la Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha dato ragione a Bruno Contrada, l'ex funzionario del Sisde accusato di collusioni con i boss: tra il 24 ottobre del 2007 e il 24 luglio del 2008 sono stati violati i diritti del detenuto Contrada che, essendo malato, avrebbe avuto bisogno di trattamenti sanitari. E per questa violazione lo Stato deve risarcirlo con un pagamento di 15mila euro. «C'è un giudice a Strasburgo - ha commentato il difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera - speriamo di trovarne presto un altro. È la prima parziale vittoria, ma noi continueremo a lavorare, giorno e notte, fino ad ottenere giustizia con la revisione del processo. Io prego affinché questo avvenga». Il ricorso alla Corte di Strasburgo era stato l'estrema ratio, dopo che le richieste di sospensione dell'esecuzione della pena e la scarcerazione per gravi motivi di salute erano state respinte. Per la Corte dei diritti dell'uomo l'Italia, nella detenzione in quel periodo di Contrada, ha violato il divieto di trattamento inumano e degradante del detenuto, visto che l'ex 007 era malato e aveva bisogno di cure. Di qui, adesso, il risarcimento, fissato in 15mila euro, 10mila per il danno morale e cinquemila per le spese legali sostenute.

Mafia, Cassazione revoca la condanna inflitta allʼex 007 Bruno Contrada, scrive Tgcom24 il 7 luglio 2017. Accolto il ricorso del legale che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte dʼAppello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la sua richiesta di incidente di esecuzione. "Finiti 25 anni di sofferenza", commenta lʼex n. 3 del Sisde. La Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta a Bruno Contrada. L'ex n. 3 del Sisde era accusato di concorso in associazione mafiosa. I giudici hanno accolto il ricorso del legale, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d'appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la sua richiesta di incidente di esecuzione. La Cassazione ha così dichiarato "ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna".

Contrada, per anni poliziotto in prima linea contro la mafia a Palermo, venne arrestato con l'accusa di concorso in associazione mafiosa il 24 dicembre del 1992. In primo grado fu condannato a 10 anni, ma la sentenza fu ribaltata in appello e il funzionario venne assolto. L'ennesimo colpo di scena ci fu in Cassazione, quando l'assoluzione fu annullata con rinvio e il processo tornò alla Corte d'appello di Palermo che, il 25 febbraio del 2006, confermò la condanna a 10 anni. La sentenza divenne definitiva nel 2007.

Contrada, che aveva subito una lunga custodia cautelare in carcere, tornò in cella. Il funzionario, tra il carcere e i domiciliari per motivi di salute, ha scontato tutta la pena. Due anni fa, però, la Corte europea dei diritti dell'Uomo condannò l'Italia a risarcire il poliziotto, nel frattempo sospeso anche dalla pensione, ritenendo che Contrada non dovesse essere né processato né condannato perché all'epoca dei fatti a lui contestati il reato di concorso in associazione mafiosa non era "chiaro, né prevedibile". A quel punto l'ex legale del funzionario tentò, invano, la strada della revisione che venne "bocciata" dalla Corte d'appello di Catania. L'ultimo tentativo, quello dell'incidente di esecuzione, è stato fatto dall'avvocato Stefano Giordano che ha chiesto alla Corte d'appello di Palermo, l'anno scorso, proprio alla luce della sentenza europea, di revocare la condanna sostenendo che prima del '94, spartiacque temporale fissato dalla Cedu, non fosse possibile condannare per il reato di concorso in associazione mafiosa. La corte dichiarò inammissibile il ricorso. Ora la Cassazione, a cui Giordano si è rivolto, gli ha dato ragione e la condanna è stata revocata. Dal momento che Contrada ha scontato la pena gli effetti della pronuncia si ripercuoteranno, ad esempio, sull'aspetto pensionistico.

Contrada: "Finiti 25 anni di sofferenza" - "Dopo 25 anni di sofferenza, mezzo secolo di dolore sapendo di essere innocente e di avere servito con onore lo Stato, le Istituzioni e la Patria, arriva finalmente l'assoluzione, dall'Italia e dall'Europa". Così Bruno Contrada commenta la sentenza di revoca della sua condanna. "Ho sofferto molto e molto più di me - aggiunge - ha sofferto la mia famiglia. Il mio pensiero va a tutti loro, che mi sono sempre stati sempre vicini. Il mio onore? Non l'ho perduto mai, ho sempre camminato a testa alta perchè ho sempre e solo fatto il mio dovere".

Contrada innocente. Annullata la condanna ma lui l'ha già scontata. La Cassazione revoca i dieci anni per mafia al superpoliziotto. Che ne ha fatti otto in cella, scrive Massimo Malpica, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". Il superpoliziotto, ex capocentro e poi numero tre del Sisde, venne arrestato quando aveva 61 anni, alla vigilia di Natale del 1992, e dopo anni in carcere e lustri dopo lustri passati a ribadire la propria innocenza rispetto a quell'accusa piovuta dalle dichiarazione di «pentiti» e poi cristallizzata nell'ambigua formula del concorso esterno in associazione mafiosa, ha dovuto aspettare fino a ieri per vedere la Cassazione, finalmente, dargli ragione. E cancellare l'ultima condanna del 2006 a 10 anni di carcere (confermata in Cassazione e divenuta definitiva l'anno dopo) definendola «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» e annullandola senza rinvio. Tutto questo quando Contrada ha 86 anni, e ha già scontato per intero quella condanna, alla faccia dell'ineseguibilità. Lui, d'altra parte, non si era mai arreso. Continuando a chiedere la revisione del processo, regolarmente respinta in quattro diverse occasioni, e ottenendo finalmente uno spiraglio di giustizia dalla Corte europea dei diritti dell'uomo che, nel 2014 e poi nel 2015, con due distinte sentenze aveva condannato l'Italia sia per non aver concesso i domiciliari all'ex superpoliziotto nonostante le precarie condizioni di salute sia, soprattutto, per averlo condannato per un reato «non sufficientemente chiaro né prevedibile» all'epoca dei fatti contestati. Proprio la decisione della Cedu ha fatto sponda perché la Cassazione smontasse quell'accusa e mettesse fine alla sua odissea. Ora comincerà l'iter per «risarcire» Contrada, ma la verità è che la sua odissea giudiziaria non è risarcibile. Il suo lavoro da servitore dello Stato contro mafia e criminalità è stato spezzato, il suo onore messo in dubbio da testimonianze di ogni genere, comprese clamorose panzane, se non storie mai avvenute, come quella mano strette a Contrada da Falcone che poi se la sarebbe «pulita sui pantaloni» per mostrare il suo ribrezzo, come raccontò Antonino Caponnetto in tribunale. Salvo poi, accertato che Falcone non era presente nella circostanza ricordata dal magistrato, ammettere che forse si ricordava male l'episodio. Sembrava che volessero seppellirlo da vivo, Contrada, con una lapide da «mafioso» a coprire la storia di un poliziotto coraggioso che per più di trent'anni ha seguito una sola causa, quella della Stato, uno Stato che poi l'ha perseguitato per 25 anni prima di arrendersi all'evidenza e alle sentenze di un tribunale internazionale. Adesso Contrada può finalmente rialzare la testa: «Non è solo un uomo libero. Ma incensurato», ha spiegato il suo legale, Stefano Giordano. Non è d'accordo l'ex pm Antonio Ingroia, che sosteneva l'accusa in primo grado. Per lui, la Cassazione «non ha certo riconosciuto che Contrada è innocente né ha revocato la sentenza di condanna definitiva a cui si è arrivati grazie a una convergenza di elementi solidissimi e accuratamente verificati». Essere condannati per un reato che ancora non esisteva per Ingroia è «un mero incidente di esecuzione», e l'auspicio dell'ex toga è che quella sentenza non venga «usata» per sbianchettare altre condanne. «A cominciare - spiega - da Marcello Dell'Utri».

Giustizia per l'ex 007. «Una vita devastata Rivoglio il mio onore». La fine del calvario: «Ridatemi tutto, encomi e diritto di voto». Riavrà la pensione intera, scrive Mariateresa Conti, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". «Dopo 25 anni di lotte punteggiate da insuccessi, speranze deluse, ingiustizie, era molto difficile essere ottimisti. E sono passati già tre anni da quando la Corte europea ha detto che non potevo essere condannato per una legge che non c'era. Tre anni di lotta per avere giustizia piena. Perché io sono europeo e pure europeista, ma in primo luogo dovevano essere i giudici italiani a riconoscere la mia innocenza. E ora finalmente è avvenuto». Parla pacato ma con voce ferma Bruno Contrada, 86 anni a settembre: «Non mi piace ricordare la mia età, sono nato il 2 settembre del 1931, conti un po'...», dice al Giornale con un guizzo di quella ironia napoletana che 25 anni di calvario giudiziario e una decina di privazione della libertà tra carcere preventivo e condanna scontata non hanno spento, mai. Ironia. E pure sollievo, quello di Bruno Contrada e della sua famiglia, la moglie Adriana, i figli Guido e Antonio, i quattro nipotini, a cominciare da Bruno, il maggiore, che si chiama come lui: «È piccolo, ma già capisce». Sollevato, Contrada. Per avercela fatta. Per essere arrivato vivo, e lucido, a vedere il finale della sua odissea cominciata la vigilia di Natale del '92, quando all'apice della carriera al Sisde e superpoliziotto di primo piano, finì in manette per le dichiarazioni di quattro pentiti (poi moltiplicatisi sino a 24 nel corso del processo di primo grado) e rimase in carcere per 31 mesi e sette giorni, prima ancora della sentenza di condanna a dieci anni nel '96, diventata definitiva nel 2007 e scontata per otto anni. Lucido, Contrada. Lucidissimo. A sentirlo parlare sembra che questi 25 anni non siano mai passati. «Questa sentenza della Cassazione - confessa - mi ha colto di sorpresa, ma non mi sarei arreso. Non mi bastava che lo avesse detto la Corte europea che la mia condanna era ingiusta, volevo restituito pienamente il mio onore. Dopo il valore assoluto della vita c'è la libertà. E io sono stato privato della libertà personale per un lungo periodo. Non è solo una sofferenza fisica, è soprattutto una sofferenza morale». E che sofferenza, per lui e la sua famiglia. «Una vita devastata - continua - Io avevo la piena coscienza di non aver fatto nulla di male e di subire una sentenza ingiusta. Si vede che era destino, ma un destino non dovuto a una forza superiore, qui l'hanno manovrato gli uomini, alcuni uomini. Contro di me solo invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato oppure accuse loro suggerite da uomini che non voglio qualificare né definire. Se avessi commesso uno solo di quei fatti che mi sono stati contestati altro che condanna, avrei meritato la fucilazione per tradimento». Il Bruno Contrada che, oggi, ha vinto la sua battaglia con la cancellazione della condanna a dieci anni per concorso esterno inflittagli ad aprile del '96 dalla V sezione penale del tribunale di Palermo che ha sposato la tesi dell'accusa sostenuta dall'allora pm Antonio Ingroia («se lo incontrassi cambierei marciapiede», ha detto ieri Contrada in conferenza stampa), non va oltre. Glissa anche sulla domanda cruciale: perché, in quel momento storico, all'indomani delle stragi del '92 e mentre il suo Sisde lavorava in chiave antimafia e dava la caccia a Bernardo Provenzano, lo 007 Contrada andava tolto di mezzo: «La mia storia - dice - è complessa, aggrovigliata, inestricabile. Ci vorrebbe tempo, molto tempo. Ora penso a tutto quello che ho passato, agli avvocati che via via mi hanno sostenuto. Un pensiero speciale va all'avvocato Piero Milio. Lui, purtroppo, non ce l'ha fatta a vedere questo finale (è morto nel 2010, ndr)». Ironia della sorte, l'avvocato Stefano Giordano, che firma il successo di oggi in Cassazione a favore di Contrada, è il figlio del presidente del celebre Maxi processo ala mafia, Alfonso Giordano. Questa per la cancellazione della condanna era la battaglia fondamentale, per l'ex 007: «Ho lottato per il mio onore e la mia dignità, per il riconoscimento di tutto quello che ho dato alla Polizia di Stato, alla mia Patria». Ma la battaglia non è ancora finita. E non solo perché adesso a Contrada verrà anche restituita la pensione piena, non decurtata: «Voglio - dice - che sia cancellata la destituzione dalla Polizia. Voglio il riconoscimento del servizio, la restituzione degli oltre 100 encomi che ho ricevuto. E voglio anche il diritto di voto. Votano gli immigrati e io da 25 anni non posso. Risolto tutto questo, smetterò finalmente di leggere carte giudiziarie. Tornerò ai miei amici, Ovidio, Marziale, Giovenale, Kafka». Già, Kafka. Forse neppure lui, dopo 25 anni, avrebbe immaginato questo finale.

Contrada: «Ho servito lo Stato, mi hanno distrutto le calunnie», scrive Anna Germoni l'11 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista all’ex funzionario del Sisde dopo la sentenza della Cassazione. Il Dubbio ha incontrato Bruno Contrada, prima della sentenza della Cassazione, e proprio in questa intervista ci aveva confidato: «Mi aspetto che le autorità competenti dello Stato italiano, quelle giudiziarie e amministrative, applichino l’articolo 46 della Convenzione europea, ratificata a suo tempo dall’Italia con tanto di legge. Quella Convenzione stabilisce che “le parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive dalla Corte europea, nelle controversie delle parti”. E la mia è una sentenza definitiva».

Prima dell’arresto, lei aveva ottenuto cento riconoscimenti per operazioni di servizio e nove promozioni. Da «emblema della lotta alla mafia» a «colluso con Cosa nostra»: ha rimpianti?

«Sono più di cento, i riconoscimenti, tra Polizia e Sisde. Ma poi ci sono quelli della Dea, l’antidroga americana. Quanto agli encomi di magistrati, ne cito uno solo: quello di Giovanni Falcone. No, non ho rimpianti per tutto ciò che ho fatto. Ho soltanto sentimenti di indignazione, di rivolta morale. E di disprezzo per chi non ha saputo o voluto riconoscere il mio operato al servizio dello Stato e delle istituzioni, cui ho dedicato tutta la mia esistenza».

Per 25 anni lei non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Ha detto: «Nessuna delle accuse che hanno devastato la mia vita risponde al vero». Ma a Palermo, sostengono, «si uccide anche con la calunnia»? È davvero il suo caso?

«Chi opera contro la mafia e i mafiosi e ottiene risultati rischia di essere annientato dal piombo o dal fango. Chi invece si atteggia o simula, per vanagloria o per protagonismo, prima o poi cade nel ridicolo e nel disprezzo. Nel mio caso il Miles gloriosus non ha mai avuto un ruolo. È cronaca».

Chi ha usato la menzogna contro di lei?

«Le menzogne e le calunnie provengono principalmente dalle dichiarazioni indubbiamente interessate di un nugolo di criminali mafiosi: alcuni sono di alto livello, altri di basso rango. Molti di loro erano stati da me perseguiti, indagati. In alcuni casi ottennero anche pesanti condanne».

I nomi?

«Certo: gli uomini del clan Marchese e Gaspare Mutolo. Mafiosi che si sono resi responsabili di crimini mostruosi, e che io avevo fatto arrestare e perseguire. Mi avevano minacciato di morte. Poi sono diventati pentiti e sono diventati i principali accusatori nei miei confronti…»

Contro di lei, però, hanno parlato anche funzionari dello Stato.

«Più che funzionari, amministratori. Come in ogni ambiente di lavoro, dove non si creano soltanto amicizie, ci sono sciacalli, iene, che covano gelosie, invidie, maldicenze incomprensibili e inspiegabili rancori. Aspettano come corvi il tuo momento di debolezza, per avventarsi contro di te. E lo fanno sempre alle spalle».

Ha scritto un libro con Letizia Leviti, la giornalista di Sky tg24 morta a luglio dell’anno scorso.

«S’intitola La mia prigione, storia vera di un poliziotto a Palermo».

Racconta la sua vita, analizza la sua vicenda giudiziaria e lancia accuse molto pesanti contro alcuni pentiti e alcuni magistrati. È mai stato querelato?

«No. Mai una querela, né una richiesta di rettifica. Silenzio assoluto. Ho conosciuto Letizia e ho deciso di scrivere questo libro con lei nel 2012: non per difendermi, perché quello l’ho fatto e lo faccio nei tribunali. Ma per far conoscere i fatti alla gente. La verità. Certo, non mi aspettavo, alla fine di una bella carriera, di essere «impagliato» e di avere la vita devastata. Non pretendevo decorazioni al valore, ma almeno un grazie per aver servito le istituzioni. Adesso la giustizia che non ho trovato nel mio Paese, nella mia Patria, e preciso con la P maiuscola, l’ho trovata a Strasburgo».

Nel libro, lei ricorda che la sua stessa vicenda giudiziaria ha coinvolto persone a lei vicine. Chi sono?

«Sì: è accaduto a un mio collaboratore, Ignazio D’Antone, questore della Polizia, anche lui accusato di concorso esterno. È un validissimo servitore dello Stato».

Perché ha fatto il poliziotto? In quali valori credeva?

«In quelli in cui sono sempre cresciuto nella mia famiglia, fin da bambino: la Patria, la stessa famiglia, i rapporti umani, la giustizia, la solidarietà umana, la religione. Questi valori mi hanno sempre accompagnato. E io non ho mai mollato: sono sempre stato in prima linea contro la criminalità organizzata, la mafia».

E oggi?

«Continuo a crederci. Non credo più, invece, in alcuni uomini che pure rappresentano lo Stato e dicono di essere portatori degli stessi valori cui mi sono sempre ispirato».

Conosciamo Contrada per le sue battaglie contro Cosa nostra prima, e poi per l’impegno a difendersi nei processi. Ma com’è l’uomo Contrada?

«Sono al termine della mia esistenza. Ho quasi 86 anni. Credo di essere un nonno amorevole con i miei nipotini. Ma sarò sempre impegnato fino all’ultimo respiro, all’ultimo attimo della mia vita affinché sia fatta piena luce, verità e giustizia sulla vicenda che ha devastato la mia vita e quella della mia famiglia. Questa storia ha addolorato, angustiato, anche i miei amici più cari: capi della Polizia, funzionari del Sisde, agenti semplici, carabinieri, generali, che nel corso di questa odissea mi sono sempre stati vicini».

Vizia i suoi nipoti?

«No. Anche se, quando vengono da me, fanno disordine in casa o rompono qualcosa, anche oggetti di valore: li giustifico. Sempre. D’altronde, un nonno c’è proprio per quello…»

Quali sono le sue passioni ora?

«Leggo libri di storia: il Risorgimento, l’unità d’Italia. In particolare la storia della mia Napoli e della Sicilia tra ‘ 800 e ‘ 900. Adoro Lev Tolstòj e Honoré de Balzac. Di loro ho letto tutto. E poi Leonardo Sciascia».

Se la sua vita fosse un’opera letteraria, quale sarebbe?

«Tante insieme: penso a Il crogiuolo, il dramma di Arthur Miller, con la sua caccia alle streghe. Ma anche a Franz Kafka. E a Gioacchino Murat, soprattutto per la sua morte».

A proposito di morte, ci pensa mai?

«Certo… Anzi, è un pensiero costante, non c’è giorno che non mi passi nella testa. Però con molta serenità e consapevolezza. Ho un solo problema vero, prima di morire: la mia riabilitazione.

Quale sarà il suo testamento spirituale?

«Non fare mai del male. Mai. A nessuno».

Chi è Bruno Contrada e perché si parla di "Caso Contrada", scrive Francesco Trotta. Per comprendere l'importanza di quello che è passato alla storia come "Caso Contrada" partiamo da un'affermazione fatta dal giudice Paolo Borsellino poche settimane prima di essere ucciso nella strage di Via D'Amelio, riportata dal fratello Salvatore: "Solo a fare il nome di quell'uomo si può morire". Il nome ovviamente è quello di Bruno Contrada, poliziotto dal 1958, dal 1973 a capo della Squadra Mobile di Palermo, che lascia nel 1976 [al suo posto subentra Boris Giuliano] per entrare nella Criminalpol. E poi nel 1982 il passaggio al SISDE, i Servizi Segreti, di cui scala i vertici dirigenziali (vicecapo reparto del SISDE) fino al 1992. E' il 24 dicembre di quell'anno il giorno in cui per Contrada si aprono le porte del carcere. Un mese prima dell'arrivo di Giancarlo Caselli alla procura di Palermo e dell'arresto di Totò Riina (e venti giorni dopo il suicidio di Domenico Signorino, giudice "chiacchierato" del Maxiprocesso). Dietro le sbarre Contrada ci sarebbe restato per 31 mesi, in custodia cautelare: "non per l'accanimento della Procura o di un solo gip, ma perché le esigenze cautelari vengono confermate anche da tre giudici del Tribunale del Riesame e da dieci di due diverse sezioni della Cassazione" (Intoccabili, S. Lodato – M. Travaglio).

Di cosa è accusato Bruno Contrada? Il poliziotto è accusato di aver favorito, attraverso la sua grave condotta, Cosa Nostra. Azioni illecite, perpetrate come funzionario di Polizia, come dirigente dell'Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla criminalità mafiosa e, infine, presso il SISDE. Azioni che configurano reati di concorso in associazione per delinquere pluriaggravata ex artt. 110 e 416 commi 4 e 5 c.p., commessi in Palermo e altrove fino al 29 settembre 1982 e da tale data in poi (dopo l'entrata in vigore della fattispecie incriminatrice, introdotta con la Legge 13 settembre 1982 n.646) di concorso in associazione per delinquere di tipo mafioso pluriaggravata prevista dagli artt. 110 e 416bis comma 4 e 6 c.p. Contrada, in particolare, è accusato di aver fornito "ad esponenti della commissione provinciale di Cosa Nostra notizie riservate, riguardanti indagini ed operazioni di polizia, da svolgere nei confronti dei medesimi e di altri appartenenti all'associazione".

La vicenda giudiziaria. Il 5 aprile 1996 Contrada veniva condannato in primo grado a 10 anni di reclusione e 3 di libertà vigilata. Il 4 maggio 2001 la Corte d'appello di Palermo annullava la sentenza di primo grado perché il fatto non sussisteva. Il 12 dicembre 2002 la Cassazione annullava la sentenza di secondo grado e ordinava un nuovo dibattimento presso un'altra sezione della Corte d'appello, che si concludeva nel 2006, confermando la sentenza di condanna di primo grado nei confronti dell'imputato. Sentenza che diventava definitiva per opera della Cassazione il 10 maggio 2007. L'11 ottobre 2012 Bruno Contrada viene scarcerato. Complessivamente trascorre 4 anni in carcere e 4 agli arresti domiciliari. Gli altri due gli vengono condonati per buona condotta. L'11 febbraio 2014 la Corte europea dei diritti dell'uomo condannava lo Stato italiano, a causa della ripetuta mancata concessione dei domiciliari a Contrada (da luglio 2008), che era gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario fosse una violazione dell'art. 3. Il 13 aprile 2015 la Corte europea condannava nuovamente lo Stato italiano perché Contrada non sarebbe dovuto essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che all'epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) tale "reato non era sufficientemente chiaro, né prevedibile da lui. Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso". L'avvocato difensore di Bruno Contrada, Stefano Giordano, ha presentato negli ultimi anni quattro richieste di revisione del processo, tutte respinte. Infine nell'ottobre del 2016 la difesa ha presentato richiesta di revoca della condanna (chiedendo che venisse recepito il dettato della Corte europea), rigettata inizialmente dalla Corte d'appello di Palermo (che affermava che l'interpretazione della stessa Corte europea fosse incompatibile con l'ordinamento italiano), è stata accolta dalla Cassazione che ha annullato la condanna di Contrada perché "ineseguibile e improduttiva di effetti penali".

I fatti (che hanno portato alla condanna di Contrada) restano, come ha dichiarato il Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti. Il processo contro Bruno Contrada è stato istruito sulla base di numerosi testimoni e copioso materiale documentario, in particolare attraverso l'esame di più collaboratori di giustizia, ritenuti attendibili e membri di primo piano di Cosa Nostra, come Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo, Rosario Spatola, Salvatore Cancemi, ecc. In sintesi venivano provate le condotte illecite di favoreggiamento a vantaggio di soggetti mafiosi noti a Contrada (rilascio di patenti di guida e porto d'armi); di agevolazione alla latitanza di mafiosi, primo fra tutti il capo mafia del mandamento di Partanna-Mondello, Rosario Riccobono, poi ucciso da Totò Riina nel 1982; di comunicazione di notizie di indagini programmate a carico di appartenenti a Cosa Nostra; di ripetute frequentazioni con soggetti condannati o indagati per appartenenza mafiosa. E' bene ribadire, come fa anche la sentenza di condanna della Cassazione, che le dichiarazioni dei pentiti trovavano riscontro da fonti testimoniali e documentali autonome e indipendenti. L'indagine della procura palermitana, infatti, si focalizzava su nove episodi assai significativi. La cosiddetta vicenda Gentile con la perquisizione eseguita il 12 aprile 1980 presso l'abitazione dell'allora latitante Salvatore Inzerrillo, diretta dal funzionario della Squadra mobile di Palermo Renato Gentile, che riceve moniti e richiami da Contrada, resosi interprete delle doglianze dei soggetti perquisiti per l'irruenza attuativa dell'intervento investigativo; l'operazione di polizia eseguita il 5 maggio 1980 con l'arresto di indagati di mafia in flagranza di reato pertinente l'associazione per delinquere, da cui il questore di Palermo Vincenzo Immordino estromette Contrada (cui in origine era stato affidato l'incarico di preparare un rapporto che preludesse alla detta operazione), segnalandone agli organi superiori il contegno di sostanziale inerzia investigativa; l'agevolazione dell'allontanamento dall'Italia del mafioso italo americano John Gambino, nel contesto (Ottobre 1979) del simulato sequestro di persona di Michele Sindona, poco tempo dopo l'uccisione di Giorgio Ambrosoli e Boris Giuliano; i rapporti critici con Boris Giuliano nell'ultimo periodo di vita di quest'ultimo anche in riferimento ad un incontro che Giuliano avrebbe avuto con Giorgio Ambrosoli poco prima che questi fosse ucciso, in merito ad indagini e accertamenti che entrambi stavano svolgendo; l'aver favorito il rinnovo del porto d'armi ad Alessandro Vanni Calvello, indagato per associazione mafiosa; i contrasti interpersonali tra Contrada e i funzionari di polizia Cassarà, Montana e Montalbano; la conversazione e il successivo incontro con Antonino Salvo, indagato per associazione mafiosa e per l'omicidio del giudice istruttore Rocco Chinnici; la vicenda Ziino, in cui Contrada ebbe più incontri con Gilda Ziino, vedova dell'ing. Roberto Parisi, vittima di omicidio di mafia: il giorno stesso in cui fu ucciso Parisi e subito dopo il giorno in cui la vedova depose di fronte al giudice Giovanni Falcone; l'agevolazione della fuga da Palermo di Oliviero Tognoli, indagato per riciclaggio di denaro mafioso e fermato a Lugano. 

Le parole dei collaboratori di giustizia, inoltre, gettano ancora più inquietudine sull'operato svolto da Contrada a partire dalla fine degli anni Settanta. Francesco Marino Mannoia e Angelo Siino riferiscono di incontri tra Stefano Bontade, allora capo di Cosa Nostra, e Contrada, per tramite, tra le altre cose, del Conte Arturo Cassina, imprenditore edile di Palermo; Salvatore Cancemi afferma di aver appreso da Pippo Calò (allora capomandamento di Porta Nuova) che Contrada era vicino a Bontade, anzi che, testualmente, il poliziotto era "in mano" a Bontade e a Rosario Riccobono, e che, alla fine della guerra di mafia, tutti i canali informativi istituzionali erano di fatto passati alla corrente corleonese; Tommaso Buscetta, per altro, giunto latitante a Palermo, era stato rassicurato della "tranquillità" della zona di Partanna-Mondello, in ragione di segnalazioni da parte di Contrada di eventuali operazioni di polizia; parole confermate anche da Rosario Spatola, che ricorda di aver visto Contrada e Riccobono ad un tavolo appartato di un ristorante di Sferracavallo; Giuseppe Marchese afferma addirittura di aver aiutato Totò Riina durante un trasferimento da un covo ad un altro, grazie ad una segnalazione di Contrada circa una perquisizione che sarebbe stata fatta nella sua zona di competenza. Ma è, forse, Gaspare Mutolo, nell'udienza del 21 febbraio 1996 durante il processo sulla strage di Via d'Amelio, a pronunciare le parole più pesanti: "[...] il giudice Borsellino mi viene a trovare, io ci faccio un discorso molto chiaro [...] e ci ripeto, diciamo, che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti, però ci dico che non volevo verbalizzare niente se prima io non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci “c'è questo pericolo, insomma, se si sa qualche cosa, qua, insomma, finisce male”. Allora mi ricordo probabilmente [...] che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, riceve una telefonata, mi dice “sai Gaspare, debbi smettere perché mi ha telefonato il Ministro”, “va beh, dice, manco una mezzoretta e vengo” [...]. Quindi manca qualche ora, 40 minuti, cioè all'incirca un’ora e mi ricordo che quando è venuto, è tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io insomma, non sapendo che cosa... “dottore, ma che cosa ha?” e molto lui preoccupato e serio, mi fa che, viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada... mi dice di scrivere di mettere a verbale quello che gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi... amico... insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto “guardi noi più di questo non dobbiamo verbalizzare niente, perché” ci dissi “io... insomma a me mi ammazzano e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l'organigramma mafioso”. Io, appena finisco di parlare dei mafiosi, possiamo parlare di qualsiasi cosa, che a me non mi interessa più. L'ultima sera che ci lasciamo con il dottor Borsellino è stato, mi sembra, il venerdì, dopo due giorni il giudice... salta in aria". 

Francesco Trotta – Cosa Vostra. Fonti: Intoccabili di Saverio Lodato e Marco Travaglio; La Trattativa di Maurizio Torrealta; Sentenza di rigetto della Cassazione – 10 maggio 2007

Bruno Contrada. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Bruno Contrada (Napoli, 2 settembre 1931) è un ex funzionario, agente segreto ed ex poliziotto italiano; è stato dirigente generale della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo, e capo della sezione siciliana della Criminalpol. Il suo nome è associato ai presunti rapporti tra servizi segreti italiani e criminalità, culminati nella strage di via d'Amelio dove morì in un attentato il giudice Paolo Borsellino che in quel periodo indagava sui collegamenti tra mafia e Stato, e alla cosiddetta "zona grigia" tra legalità e illegalità. Contrada si è dichiarato collaboratore e amico di Borsellino, ma i familiari del magistrato assassinato hanno smentito fermamente. Anche Giovanni Falcone pareva non si fidasse di lui da tempo. In gioventù fu amico e collaboratore di Boris Giuliano, la cui moglie ha espresso invece perplessità sulla colpevolezza di Contrada. Arrestato il 24 dicembre 1992, Contrada, che si è dichiarato estraneo al reato, è stato condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2011-12 venne respinta la richiesta di revisione del processo e sempre nel 2012 finì di scontare la pena. L'11 febbraio 2014 la Corte Europea dei diritti dell'uomo (CEDU) ha condannato lo Stato italiano poiché ha ritenuto che la ripetuta mancata concessione degli arresti domiciliari a Contrada, sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, fosse una violazione dell'art. 3 Cedu (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Il 13 aprile 2015 la stessa Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano stabilendo un risarcimento per danni morali da parte dello Stato italiano perché non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non era ancora previsto dall'ordinamento giuridico italiano (principio di nulla poena sine lege), e nella sentenza viene affermato che «l'accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». In seguito a ciò, nel giugno 2015 è iniziata la revisione del processo di Contrada, poi respinta il 18 novembre. Gli avvocati di Contrada hanno presentato istanza di revoca della condanna, respinta per due volte dalle corti d'appello, e infine accolta dalla corte di Cassazione nel 2017. Entrato in Polizia nel 1958, frequentò a Roma il corso di istruzione presso l'Istituto superiore di polizia. Dopo alcuni ruoli nel Lazio, nel 1973 gli venne affidata la direzione della squadra mobile di Palermo. Contrada fu uno degli investigatori che indagarono sul caso della scomparsa di Mauro De Mauro, giornalista rapito e assassinato dalla mafia nel 1970. Secondo lui e secondo Boris Giuliano la scomparsa era legata alle indagini di De Mauro sull'attentato in cui morì Enrico Mattei, presidente dell'ENI, morto ufficialmente in un incidente aereo, mentre altri come Carlo Alberto Dalla Chiesa pensavano fosse dovuta all'inchiesta sulla droga che stava svolgendo. In seguito nella vicenda entrarono anche i servizi segreti; alcuni hanno avvicinato la figura di un certo "signor X" (forse Vito Guarrasi) a Contrada. Insieme a Contrada, Dalla Chiesa e Giuliano lavorava al caso anche Giuseppe Russo; Dalla Chiesa, Giuliano e Russo saranno in anni seguenti assassinati dalla mafia, anche se i metodi dell'ultimo saranno contestati e su di lui graveranno alcune pesanti ombre (come per l'indagine sulla strage di Alcamo Marina). Nel 1976 lasciò a Giuliano la guida della mobile palermitana per passare alla Criminalpol. Nel 1982 Contrada transitò nei ruoli del SISDE con l'incarico di coordinarne i centri della Sicilia e della Sardegna. Nel settembre del 1982 viene nominato dal prefetto Emanuele De Francesco Capo di Gabinetto dell'Alto Commissario per la lotta contro la mafia, incarico che ricopre fino al dicembre del 1985; Nel 1986 fu chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE. Tra le azioni da lui dirette, numerosi arresti di trafficanti di droga e una vasta operazione contro un'organizzazione mafiosa che faceva capo alle famiglie dei Cursoti, dei Madonia e ai Corleonesi, che aveva come base operativa l'autoparco di Milano. Il 3 luglio 1993 (quindi sette mesi dopo l'arresto di Bruno Contrada) l'attività informativa da lui avviata portò al sequestro di beni mobili ed immobili, titoli di credito ed azioni che facevano capo a Totò Riina e Bernardo Provenzano. Contrada si fece anche promotore di una riorganizzazione del SISDE, sostituendo la prevalente funzione antieversiva con una specifica funzione antimafia, dal momento che la criminalità mafiosa aveva raggiunto livelli tali da poter essere ritenuta destabilizzante per le istituzioni; in tal caso ci sarebbe però stato un conflitto di attribuzione con la stessa Direzione Investigativa Antimafia, con cui ci furono contrasti.

Il 24 dicembre 1992, mentre si apprestava a trascorrere il Natale con la famiglia, venne arrestato, con mandato di cattura richiesto dal procuratore Gian Carlo Caselli, perché accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (estensione giurisprudenziale dell'art. 416 bis Codice penale) sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) e rimase in regime di carcere preventivofino al 31 luglio 1995, detenuto, limitatamente a questo periodo, nel carcere militare di Forte Boccea (Roma). «Nel 1979 Riccobono mi disse che potevo nascondermi nel territorio della sua famiglia. E soggiunse: io ci ho il dottor Contrada e posso avere tutte le informazioni...» (Tommaso Buscetta).

Il primo processo a suo carico, iniziato il 12 aprile 1994, si concluse il 19 gennaio 1996, quando, al termine di una requisitoria protrattasi per ventidue udienze, il pubblico ministero Antonio Ingroia chiese la condanna a dodici anni. Il 5 aprile 1996 i giudici disposero dieci anni di reclusione e tre di libertà vigilata. Il giudice Antonino Caponnetto disse che «quando Contrada venne interrogato sull'omicidio Mattarella mi rimase impresso un gesto di Falcone: una volta che Contrada ebbe terminato, entrambi, io e Falcone, ci alzammo per stringergli la mano. Poi Falcone la fissò per qualche istante e la pulì vistosamente sui pantaloni. Era un chiaro segno di ribrezzo». Quando gli fu riferito che ciò non poteva essere accaduto (l'interrogatorio a Contrada non era stato verbalizzato dall'ufficio istruzione di Falcone ma dal procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno) Caponnetto cambiò versione, ammettendo che forse si era sbagliato, che Falcone non lo fece in aula ma, “eventualmente”, nel suo studio. L'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi[19] si prodigò invece per difendere l'indagato. Antonino Caponnetto giudicò incauta la posizione assunta da Parisi. Luciano Violante, nel frattempo divenuto presidente della Commissione parlamentare Antimafia, parlò in proposito di "caratteristica strutturale" circa il rapporto di Cosa nostra con il potere. Secondo Mutolo, la mafia era un'organizzazione dalla spiccata natura anticomunista, che aveva servito la causa atlantica sia portando voti alla Democrazia Cristiana, sia contrastando con ogni mezzo le iniziative delle formazioni progressiste (l'esempio più famoso nella strage di Portella della Ginestra). Questa attitudine aveva come contropartita una sorta di tacita pax mafiosa: per anni, lo Stato aveva evitato di combattere efficacemente contro quell'organizzazione criminale. A metà degli anni 1970 qualcosa era cambiato, poiché la politica sembrava aver accantonato i progetti di colpo di Stato. Nel mutato scenario, si osava attaccare i vertici mafiosi avvalendosi dello strumento giuridico dell'associazione per delinquere. L'incriminazione per tale reato, in buona sostanza, esponeva i boss al rischio di essere coinvolti nella responsabilità per ogni misfatto importante che accadesse nei rispettivi "mandamenti". L'analisi mafiosa della situazione aveva naturalmente individuato dei soggetti responsabili: oltre al medesimo Contrada, Boris Giuliano e Tonino De Luca. Nei confronti di questi uomini dello Stato, secondo Mutolo, la mafia avrebbe adottato una strategia del bastone e della carota: prima il tentativo di minaccia/corruzione e in seguito l'omicidio. Mutolo sostiene di aver appreso da Rosario Riccobono che Contrada "era ormai passato a disposizione della mafia". Dalla medesima fonte, Mutolo sapeva che il primo mafioso di rango a stabilire un rapporto di amicizia con Contrada sarebbe stato Stefano Bontate, avvalendosi dei buoni uffici prestati dal conte Arturo Cassina, una sorta di vicino di casa per il mafioso, nonché confratello del funzionario SISDE presso l'Ordine del Santo Sepolcro. Questa duplicità di relazioni risulta dalle carte processuali. L'Ordine del Santo Sepolcro confermò l'appartenenza dei due soggetti che abbiamo richiamato (d'altronde le liste di quella confraternita sono di pubblico dominio), ma smentì che avessero un rapporto personale. Al contrario, i magistrati ritennero non solo l'esistenza di questo contatto, ma anche una sorta di collaborazione piuttosto spinta tra Contrada ed il nominato Riccobono, al punto che più volte il secondo sarebbe stato informato dal primo dei vari tentativi di catturarlo ad opera della polizia, il tutto attraverso l'avvocato Cristoforo Fileccia. Il 4 maggio 2001 la Corte d'Appello di Palermo lo assolse perché il fatto non sussiste.

Il 12 dicembre 2002 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado, ordinando un nuovo processo, davanti ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Palermo. Al termine del nuovo processo, il 25 febbraio 2006 i giudici di secondo grado confermarono, dopo 31 ore di camera di consiglio, la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di carcere e al pagamento delle spese processuali. Il 10 maggio 2007 la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna in appello. La corte escluse però che avesse agito per denaro. Contrada venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.

Il 24 settembre 2011 la Corte d'appello di Caltanissetta ritiene che «non è manifestamente infondata» la richiesta di revisione del processo, ma l'8 novembre seguente la Corte dichiarò definitivamente inammissibile la richiesta di revisione del processo. Il 5 giugno 2012 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile la richiesta di revisione del processo.

Egli si dichiara innocente e afferma di aver lavorato a contatto con informatori legati alla mafia per aiutare le indagini, secondo la prassi di infiltrazione tipica dei servizi segreti, dei poliziotti sotto copertura e degli ambienti militari; ottenere la fiducia di alcuni mafiosi sarebbe servito per arrivare ad incastrarli. Contrada ha dichiarato difatti nel 2015: «Stavo per prendere Provenzano e fui fermato. Ora voglio la revisione della sentenza di condanna...Mi hanno distrutto la vita, avevo i miei confidenti ma non ho mai visto un boss... So che il mio lavoro ai Servizi era inviso alla direzione antimafia». «Dobbiamo contestualizzare il mio processo, quel '92, l'abbattimento di quel sistema di Stato, di governo. Bisogna tenere conto delle invidie nella mia amministrazione, delle aspirazioni di carriera, del senso di rivalsa nei miei confronti. Il colpo di genio che hanno avuto quelli che mi hanno inquisito è stato tenermi 31 mesi e 7 giorni in regime di carcere preventivo, limitando le mie possibilità di difesa e determinando nell'opinione pubblica la convinzione che, se ero stato incarcerato, qualcosa dovevo avere pur fatto. Tanti imputati di concorso esterno aspettano liberi il processo. Io invece dovevo stare dentro, unico detenuto come Rudolf Hess a Spandau, a oltre 60 anni senza nemmeno un water decente perché in cella c'era il bagno alla turca. E non mi sono mai lamentato, e non ho mai chiesto niente, non mi facevo nemmeno portare cibo da casa. Perché non sono state prese in considerazione le testimonianze di 142 uomini delle istituzioni? Cinque capi della Polizia, direttori del Sisde, prefetti, questori, generali della Guardia di Finanza. E poi i tanti miei colleghi che sono venuti a testimoniare per me, quelli che lavoravano con me giorno e notte. Erano testimoni della verità dei fatti e li hanno disprezzati. »

(Bruno Contrada nel 2015)

Secondo Contrada l'accusa fu una vendetta dei pentiti, della mafia e di alcuni magistrati: «Chi combatte la mafia rischia il fango...Per lo Stato ho dato tutto. Io amico della mafia? Se solo ci penso, ci sto ancora male. Ne sono uscito distrutto nel morale, nel fisico.» Secondo lui i giudici hanno «ritenuto prevalenti le accuse di un nugolo di pendagli da forca, manigoldi, criminali sanguinari che non potevano farsi scrupoli nell’accusare e calunniare uno sbirro che odiavano, che li ha fatti arrestare e condannare. Hanno dato retta a questa gente e non a 140 uomini di Stato venuti al processo a raccontare la verità».

A fine dicembre 2007 l'avvocato difensore di Contrada, Giuseppe Lipera, ha inviato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una "accorata supplica" al fine di sollecitarlo a concedere la grazia in mancanza di un'esplicita richiesta da parte dell'interessato che, ritenendosi innocente, non intende inoltrarla. In un messaggio, Contrada ha ribadito: «Non ho mai chiesto, né chiedo, né chiederò mai la grazia a quello Stato da cui mi sarei aspettato un grazie e non una grazia». Contrari a ipotesi di grazia si sono dichiarati Rita Borsellino, l'Associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, la Fondazione Caponnetto e la Fondazione Scopelliti. Favorevoli furono il ministro Clemente Mastella e il presidente Napolitano stesso (che proposero l'avvio dell'iter), Fabrizio Cicchitto (Forza Italia), Marco Pannella(Radicali), Vittorio Sgarbi, Gianfranco Rotondi (DCA), Francesco Storace (La Destra).

Il guardasigilli Clemente Mastella, ha ricordato che «la decisione circa l'istanza di differimento della pena per ragioni di salute è di esclusiva competenza della magistratura di sorveglianza». Il 28 dicembre 2007 il magistrato di sorveglianza dispone, in maniera del tutto inattesa, il ricovero di Contrada presso il reparto detenuti dell'Ospedale Cardarelli di Napoli, ma il giorno dopo questi chiede di tornare in carcere a causa delle condizioni del reparto giudicate «da incubo» dal suo avvocato. Il 2 gennaio 2008 rientrando in carcere ha assegnato mandato al proprio legale di presentare istanza di revisione del processo che lo ha condannato in via definitiva a 10 anni di detenzione. L'8 gennaio il Tribunale di Napoli ha respinto ogni istanza di differimento della pena insieme alla richiesta degli arresti domiciliari. Il 10 gennaio 2008 il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al ministero della Giustizia per revocare l'avvio dell'iter, ponendo fine, di fatto, alla querelle giudiziaria. Il 16 aprile 2008 chiede che gli venga praticata l'eutanasia. La richiesta è stata presentata al giudice tutelare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dalla sorella, che ha spiegato che Contrada «vuole morire» perché «questa sembra l'unica strada percorribile per mettere fine alle sue infinite pene». Il 21 luglio dello stesso anno i suoi legali hanno diffuso la notizia che Contrada in carcere sarebbe dimagrito di 22 chili per dimostrare l'incompatibilità dell'ex dirigente del Sisde col regime carcerario. I familiari ed il legale hanno omesso di dichiarare che il dimagrimento del detenuto era derivante dal suo rifiuto di nutrirsi. Il 24 luglio 2008 sono stati concessi a Contrada gli arresti domiciliari per motivi di salute; al provvedimento è seguita la scarcerazione. Il provvedimento di concessione dei domiciliari ha una durata di 6 mesi e prevede l'obbligo di domicilio, negando la possibilità di recarsi a Palermo in quanto i giudici confermano la pericolosità sociale di Bruno Contrada. A Salvatore Borsellino (fratello di Paolo) che dichiarò la sua disapprovazione per la sua scarcerazione, ha risposto con una querela.

Il fratello di Bruno Contrada, Romano, si suicidò nell'aprile 2014 a Bagnoli con un colpo di pistola in bocca, seduto su un muretto, in via della Liberazione. Accanto al corpo venne rinvenuto il biglietto, scritto a mano, con il testo "sono stanco di vivere, non resisto più". Nel 2008 Romano Contrada - ex impiegato della Sip, invalido al cento per cento a causa di una grave malattia - aveva rivolto un appello al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per la scarcerazione del fratello Bruno.

L'11 ottobre 2012 viene scarcerato e pochi giorni dopo pubblica per i tipi Marsilio la storia della sua vicenda nel volume La mia prigione. In tutto Contrada, su 10 anni di carcere previsti, ne ha scontati quattro in carcere e quattro ai domiciliari mentre i restanti due gli sono stati condonati per buona condotta. All'uscita del carcere rese la seguente dichiazione: «Non odio nessuno, ma sono certo che prima o poi verrà il momento, e probabilmente non ci sarò più, che la verità sulla vicenda sarà ristabilita e qualcuno allora dovrà pentirsi del male che ha fatto a me e anche alle istituzioni.» Nonostante la fine della pena, non gli vennero restituiti i pieni diritti civili e i politici.

L'11 febbraio 2014 la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), organo del Consiglio d'Europa, ha condannato (sentenza Contrada v. Italia, n.1) lo Stato italiano poiché ha ritenuto che la ripetuta mancata concessione dei domiciliari a Contrada, sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, fosse una violazione dell'art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti)della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali di cui l'Italia è firmataria e a cui la sua giurisdizione è vincolata. Gli sono stati refusi € 10.000,00 per i danni morali, € 5.000,00 per il rimborso spese oltre oneri accessori ed interessi legali calcolati come nella generalità delle cause presso la CEDU. Il 13 aprile 2015 (Contrada v. Italia, n.2) la CEDU ha condannato lo Stato italiano stabilendo un risarcimento per danni morali di 10.000 euro a Bruno Contrada da parte dello Stato italiano (contro gli 80.000 chiesti da Contrada) per i danni morali e 2.500 euro (contro i 30.000 richiesti) per le spese processuali sostenute perché non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non era codificato e «l'accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». Prosegue dicendo che «il reato contestato di concorso esterno è stato il risultato di un'evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni '80 del ‘900 e che si è consolidata nel 1994, con la sentenza della Cassazione “Demitry”. Così, all'epoca in cui i fatti contestati a Contrada sono avvenuti (1979-1988) il reato non era sufficientemente chiaro, né prevedibile da lui. Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso». Per i giudici di Strasburgo l'Italia ha violato anche l'articolo 7 della convenzione dei diritti dell'uomo, che si basa sul principio “nulla poena sine lege” (principio di irretroattività), cioè che «nessuno può essere condannato per un'azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale». L'unico reato contestabile, se ritenuto colpevole, sarebbe stato quello di favoreggiamento personale. Nel luglio 2015 il governo italiano ha presentato ricorso alla Grande Chambre, che però a settembre è stato respinto dai giudici europei.

In seguito alla pronuncia europea, Contrada ha presentato per la quarta volta richiesta di revisione del processo. Per effetto della pronuncia della Corte costituzionalesul caso Dorigo, la Cassazione ha ammesso automaticamente la richiesta al tribunale di Caltanissetta, che ha accolto l'istanza di revisione, riservandosi di giudicare. La decisione, prevista per il 18 giugno 2015, è in seguito slittata ad ottobre; il presidente del collegio giudicante Aloisi e il giudice a latere della corte d'appello di Caltanissetta si sono infatti astenuti, perché avevano in precedenza già respinto la richiesta e hanno deciso di non pronunciarsi due volte sullo stesso fatto. L'inizio del processo di revisione è stato quindi fissato prima per il 15 ottobre 2015 e poi per il 18 novembre, con la corte chiamata a pronunciarsi per un nuovo respingimento o un nuovo processo con tre esiti possibili (assoluzione per non aver commesso il fatto, conferma della condanna per il reato di concorso esterno, proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato di favoreggiamento).

La Corte d'Appello di Caltanissetta ha respinto la richiesta di revisione del processo il 18 novembre 2015, confermando la sentenza definitiva. La sentenza è stata confermata in Cassazione. Contrada e il suo legale Stefano Giordano hanno presentato una nuova richiesta alla corte d'appello di Palermo nell'ottobre 2016, perché venga recepita la pronuncia europea, tramite la revoca della condanna. La difesa ha anche inviato una lettera al Comitato dei ministri del consiglio d'Europa perché "vigilino sull'applicazione della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo". La Corte d'appello di Palermo ha respinto il 27 ottobre la richiesta di revoca, non riconoscendo le motivazioni giurisprudenziali della CEDU, dichiarando la revoca inammissibile perché la corte europea si baserebbe su «un'interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l'ordinamento italiano». Il 7 luglio 2017 la corte di Cassazione revoca, tramite annullamento senza rinvio, la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa a Contrada, dichiarandola "ineseguibile e improduttiva di effetti penali", in accoglimento della sentenza di Strasburgo.

Bruno Contrada, uno scandalo della giustizia italiana. La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna per sostegno esterno ad associazione mafiosa all'ex dirigente del Sisde arrestato 25 anni fa, scrive il 7 Luglio 2017 "Il Foglio". La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna a Bruno Contrada per sostegno esterno ad associazione mafiosa. L'ex dirigente del Sisde era stato arrestato 25 anni fa e ha scontato 10 anni di carcere prima che nell'aprile del 2015 la Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo giudicasse la sentenza illegittima in quanto Contrada era stato giudicato colpevole per concorso esterno in associazione mafiosa, accusa che, secondo la Corte "non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione". I giudici romani hanno accolto il ricorso del legale di Contrada, Stefano Giordano, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d'appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile il ricorso con cui si chiedeva la revoca della sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione ha quindi dichiarato, come si legge nel provvedimento, "ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada dalla Corte di appello di Palermo in data 25 febbraio 2006, irrevocabile in data 10 maggio 2007". Così Giuliano Ferrara aveva riassunto la storia processuale di Contrada l'indomani della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo: "Bruno Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrinsecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell’onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al “ragionevole dubbio” (e più che questo) generato da un’assoluzione in giudizio e da altre circostanze".

Bruno Contrada, il reato che non c'è e la legge (sui pentiti) che c'è. Luciano Violante lo fece notare 25 anni fa, dopo l'arresto del poliziotto: all'epoca gli agenti lavoravano con gli “informatori”. Ma poi non disse altro, scrive Massimo Bordin l'8 Luglio 2017 su "Il Foglio". “Bisogna leggere le motivazioni”. Lo dicono sempre dopo una sentenza non prevista e nel caso di Bruno Contrada suona meno ipocrita che in altre occasioni. È innegabile che la faccenda sia complicata e a mostrarlo basta un breve riassunto. Imputato per “concorso esterno” con la mafia, il funzionario di polizia, e poi dirigente del servizio segreto per l’interno, fu prima condannato, poi assolto in appello, poi la cassazione annullò e allora fu ricondannato in appello e la cassazione fu soddisfatta. Provate a paragonare un simile ambaradam alla formula anglosassone che governa la giustizia: “Al di là di ogni ragionevole dubbio”. Siamo largamente al di qua, ma provate a dire che i tre gradi di giudizio, pressoché automatici, vi ricordano la calcistica “lotteria dei rigori” e allora magistrati, e avvocati, vi salteranno alla gola. “È il massimo del garantismo – diranno – e ce lo invidiano tutti”. Sanno benissimo che quello che invidiano sono gli stipendi dei magistrati. Le parcelle, gli avvocati riescono a farsele pagare in qualsiasi parte del mondo. Ci voleva una corte europea per dirci che non si può essere condannati per un reato che non esisteva nel momento in cui sarebbe stato commesso? Il problema è che quel reato non esiste ancora nel codice. È solo un mix di sentenze di quella cassazione che tutti i magistrati del mondo ci invidiano. Piuttosto c’è qualcos’altro che, all’epoca dei fatti contestati a Contrada, non c’era e oggi c’è: la legge sui pentiti. All’epoca i poliziotti lavoravano con gli “informatori”. Lo fece notare Luciano Violante poche ore dopo l’arresto di Contrada, la vigilia di Natale di 25 anni fa, ma poi non disse altro.

Il reato che non c'è. La Corte di Strasburgo dice che Contrada "non doveva essere condannato" per concorso esterno in associazione mafiosa. Da anni l'Italia "processa le ombre" e fa di un simil-reato la sostanza della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria, scrive Giuliano Ferrara il 14 Aprile 2015 su "Il Foglio". Strasburgo dixit. Per la Corte europea dei diritti umani Bruno Contrada “non doveva essere condannato” e lo stato deve rifondergli i danni, con una grottesca provvisionale di diecimila euro. Bruno Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrinsecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell’onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al “ragionevole dubbio” (e più che questo) generato da un’assoluzione in giudizio e da altre circostanze. La fattispecie del reato imputatogli era la famigerata ipotesi di “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”. Non associazione mafiosa, non ce n’erano i minimi presupposti, ma “concorso esterno” (lo stesso odioso capo di reato che è costato la libertà personale a Marcello Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, rinchiuso da un anno nel carcere di Parma). L’avvocato Giuseppe Lipera, mentre l’ultraottantenne condannato grida con la sua voce rauca lo scandalo che lo ha distrutto, ha nel frattempo ottenuto l’avvio, che è per il prossimo mese di giugno a Caltanissetta, della revisione del processo. Vedremo, ma già la notizia della ripartenza è un botto. Intanto sta risultando chiaro, sul piano di un giudizio etico europeo che è superiore per tempra e senso argomentativo alla giurisprudenza che ha dannato il “mostro”, che negli anni in cui Contrada avrebbe compromesso collusivamente lo stato, di cui era funzionario di altissimo rango nella repressione del crimine organizzato, non esisteva alcuna chiara definizione del reato per cui Contrada è stato condannato, appunto il “concorso”. Un uomo è stato arrestato, avvilito dall’infamia, carcerato e distrutto nel suo onore per qualcosa che all’epoca dei fatti addebitatigli non era reato. E’ noto che la vecchia polizia, ai tempi in cui non tutto era definito abusivamente con la tecnica mal governata del pentitismo o delle intercettazioni a strascico, aveva i suoi confidenti, metteva con coraggio le mani in pasta per catturare e portare a esiti di giustizia i boss mafiosi, attuando una strategia fatta di razionali distinzioni e strumentali abboccamenti. E i boss braccati dai superpoliziotti come Contrada trovarono il modo, in un’epoca di barbarie giuridica, di rivalersi. Il solito Antonio Ingroia, oggi avvocato Ingroia dopo essere stato candidato Ingroia, nella sua veste di allora di pm, aveva imbastito l’accusa che trasformava la pratica di polizia in vigore per una intera epoca storica in una collusione, anzi in un “concorso” collusivo che solo una sentenza della Cassazione, due anni dopo l’arresto di Contrada (1994), definì, quasi la Cassazione avesse il potere di fare una legge, come reato associativo (da quasi tutti considerato flebile nelle premesse logiche e giurisdizionali). Quando si dice la giustizia. Da anni, in processi a politici locali, uomini di stato (Andreotti) e uomini dello stato, trattiamo “le ombre come cosa salda”. E facciamo di un simil-reato la sostanza fin troppo realista della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria. Gli azzeccagarbugli leggeranno con spirito variabilmente manettaro la sentenza di Strasburgo, ma la sentenza questo dice.

Metodo Clouseau, scrive l'8/07/2017 Mattia Feltri su “La Stampa”. Fermi tutti e tenetevi forte. Quella di Bruno Contrada non è la solita questione di malagiustizia, è un capolavoro allucinogeno. Seguite il labiale. Bruno Contrada, già numero due del Sisde (servizi segreti), viene arrestato il 24 dicembre del 1992 mentre affetta il cappone. È accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Condannato in primo grado, assolto in appello, assoluzione respinta in Cassazione, nuovo appello e nuova condanna (a dieci anni), che stavolta la Cassazione conferma. Fra carcere e domiciliari, Contrada sconta la pena. Nel 2015 la corte europea dei diritti dell’uomo dice che Contrada non doveva essere né condannato né processato perché, quando lo commise (se lo commise), il reato di concorso esterno non era abbastanza definito perché lui sapesse di commetterlo. Con questa sentenza, vincolante, Contrada va a chiedere la ripetizione del processo prima a Catania e poi a Palermo (non chiedete dettagli sul pellegrinaggio, è troppo), ma riceve due rifiuti. Arriva infine in Cassazione, che non concede un nuovo processo, ma si inventa una terza via. E cioè, fin qui c’erano sentenze di condanna e di assoluzione; ora c’è la sentenza che dichiara «ineseguibile e improduttiva di effetti» la sentenza precedente. Cioè, Contrada non può dirsi innocente, ma ha la fedina penale pulita. Cioè, ancora, la condanna esiste ma non va eseguita e non deve produrre effetti. Anche se è già stata eseguita e di effetti ne ha prodotti: dieci anni di detenzione. Se non siete ancora svenuti, buona giornata.

L’età della pietra, scrive Marco Travaglio il 9 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Appena il boss stragista Giuseppe Graviano, intercettato nell’ora d’aria, ha dato segni d’insofferenza e lanciato propositi di vendetta per le promesse non mantenute dai tanti che trattarono con Cosa Nostra per conto dello Stato e anche per conto proprio in attesa di farsi essi stessi Stato fra il 1992 e il ’94, nel biennio delle stragi, lo Stato non ha perso tempo e ha subito risposto. Con una sequenza di atti tutti formalmente legittimi, ma tutti impensabili fino a qualche mese fa. 1) La Cassazione ha respinto il diniego del Tribunale di sorveglianza di Bologna alla scarcerazione di Totò Riina, detenuto da 24 anni al 41-bis per scontare 15 ergastoli, invocando il suo diritto a una “morte dignitosa” nel letto di casa sua, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. 2) Forza Italia ha chiesto formalmente agli amici del Pd di ammorbidire il nuovo Codice antimafia che allarga le maglie dei sequestri dei beni a chi risponde “soltanto” di corruzione o concussione, delitti sempre più difficili da distinguere da quelli delle nuove mafie. 3) Marcello Dell’Utri ha chiesto di tornare a casa anche lui per fantomatici motivi di salute, anche se dei 7 anni inflittigli per concorso esterno in associazione mafiosa ne ha scontati solo 3. 4) Lo stesso Dell’Utri ha ottenuto il permesso di farsi intervistare su La7 in una saletta del carcere, caso più unico che raro per un condannato detenuto per mafia e mai pentito, per definirsi “prigioniero politico” e benedire il governo Renzusconi prossimo venturo, mentre l’intrepido intervistatore lo chiamava “senatore”. 5) La Cassazione ha annullato le conseguenze della condanna definitiva di Bruno Contrada a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in un “incidente di esecuzione” che non entra nel merito del verdetto e discute la colpevolezza, ma rende “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto” la sua stessa pronuncia. E così si associa a quanto stabilito nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ritiene di fatto inesistente il reato di concorso esterno prima del 1994, perché fino ad allora (quando la Cassazione si pronunciò a sezioni unite) la giurisprudenza oscillava e gli uomini dello Stato non sapevano che vendersi alla mafia era reato. Il Contrada che oggi politici, tg e giornaloni ignoranti, smemorati o in malafede dipingono come un povero martire innocente e perseguitato per un quarto di secolo dagli aguzzini in toga è l’uomo che una quarantina di giudici di funzioni e sedi diverse fino alla Cassazione, han giudicato colpevole di aver fatto per anni il trait d’union fra Stato e mafia. Non solo per le accuse di una ventina di pentiti (le prime furono di Gaspare Mutolo davanti a Borsellino, assassinato due settimane dopo), ma pure da una gran quantità di autorevolissimi testimoni. Vari giudici raccontarono la diffidenza di Falcone e Borsellino nei confronti di “’u Dutturi”: Del Ponte, Caponnetto, Almerighi, Vito D’Ambrosio, Ayala, oltre a Laura Cassarà, vedova di Ninni (uno dei colleghi di Contrada alla Questura di Palermo assassinati dalla mafia mentre lui vi colludeva). Tutti a ripetere che Contrada passava informazioni a Cosa Nostra e incontrava boss come Rosario Riccobono e Calogero Musso. Nelle sentenze a suo carico si legge che Contrada concesse la patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco; agevolò la latitanza di Totò Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo e John Gambino; ebbe rapporti privilegiati con Michele e Salvatore Greco; spifferò segreti d’indagine ai mafiosi in cambio di favori e regali (come i 10 milioni di lire accantonati nel bilancio di Cosa Nostra a Natale del 1981 per acquistare un’auto a una sua intima amica). Decisivo fu il caso di Oliviero Tognoli, l’imprenditore bresciano arrestato in Svizzera nel 1988 come riciclatore della mafia. Secondo Carla Del Ponte, che lo interrogò a Lugano con Falcone, Tognoli ammise che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada. Ma poi, terrorizzato da quel nome, rifiutò di verbalizzare e in seguito ritrattò. Quattro mesi dopo Cosa Nostra tentò di assassinare Falcone e la Del Ponte all’Addaura. Ora quest’uomo verrà risarcito dallo Stato con soldi nostri per i 10 anni trascorsi in carcere, riavrà a spese nostre la pensione di dirigente della Polizia che gli era stata revocata, oltre al diritto all’elettorato attivo e passivo (potrà votare e anche essere eletto). Ma non solo: tutti i condannati per concorso esterno, da Dell’Utri in giù, chiederanno lo stesso trattamento, cioè di salvarsi dalle conseguenze di sentenze anche definitive e tornare alla vita normale, magari anche in Parlamento, da sicuri colpevoli del gravissimo reato che hanno inoppugnabilmente commesso. Se qualcuno avesse ancora bisogno di prove sulla trattativa Stato-mafia avviata 25 anni da alcuni carabinieri del Ros e tuttoggi in pieno corso, è servito. Bisogna proprio avere l’anello al naso per non notare la repentina, vomitevole regressioneall’età della pietra dell’antimafia, quando Cosa Nostra ufficialmente non esisteva o era solo un’accozzaglia di rozzi e incolti professionisti della violenza senza complici nelle istituzioni, nella politica, nella finanza, nell’imprenditoria, nelle professioni, nella Chiesa: i “concorrenti esterni” che le hanno garantito due secoli di vita e potere, come a nessun’altra organizzazione criminale al mondo. Il tutto avviene all’indomani del 25° anniversario dell’assassinio di Falcone e a pochi giorni da quello di via d’Amelio, costata la vita a Borsellino e ai suoi angeli custodi. Ora, con buona pace della Corte di Strasburgo che la mafia non l’ha mai vista neppure in cartolina, e della nostra Cassazione che invece dovrebbe saperne qualcosa, il reato di concorso esterno non è un’invenzione: è sempre esistito, come il concorso in omicidio, in rapina, in truffa, in corruzione ecc. Nel 1875, quando la Sicilia aveva una Cassazione tutta sua e la mafia si chiamava brigantaggio, già venivano condannati i suoi concorrenti esterni agrigentini per “complicità in associazione di malfattori”. Nel 1982 la legge Rognoni-La Torre creò finalmente il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis del Codice penale) e subito dopo, nel 1987, il pool di Falcone e Borsellino contestò il concorso esterno in associazione mafiosa ai colletti bianchi di Cosa Nostra nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso-ter. Poi bastò che finissero nei guai alcuni potenti, tipo Contrada (condannato), Carnevale (condannato in appello e assolto dai colleghi della Cassazione), Dell’Utri (condannato), Cosentino (condannato in primo grado) e compagnia bella, perché i loro concorrenti esterni nel Palazzo e nei giornali strillassero al reato inesistente, confuso, fumoso. Idiozie che fortunatamente quasi mai trovavano cittadinanza nei tribunali, nelle corti d’appello e in Cassazione. Invece ora, all’improvviso, con le minacce di Graviano dal carcere e le larghe intese dietro l’angolo, si può dire e fare tutto. Anche mettere nero su bianco che uno stragista con 15 ergastoli sul groppone non deve morire in carcere, ma a casa sua. Anche sostenere, restando seri, che un superpoliziotto, già capo della Mobile e della Criminalpol a Palermo e poi numero 3 del Sisde, non sapeva che incontrare e favorire i boss, farli fuggire, avvertirli dei blitz dei colleghi (tutti ammazzati), restituirgli il porto d’armi, fosse reato: lo scoprì solo quando glielo disse la Cassazione a sezioni unite in un altro processo. E allora si battè una mano sulla fronte: “Cazzo, a saperlo per tempo non avrei lavorato tanti anni per la mafia prendendo lo stipendio dallo Stato! Ma non potevate dirmelo prima?”. Questa vergogna senza eguali viene contrabbandata per “garantismo”, mentre scava un fossato ormai incolmabile fra diritto e giustizia, fra regola e prassi, fra imputati di serie A e di serie B, fra potenti e poveracci, fra ricchi e poveri. A furia di depenalizzare reati gravissimi, agevolare prescrizioni, allargare immunità, regalare franchigie ai soliti noti, è sempre più difficile accettare le sentenze di una giustizia forte coi deboli e debole coi forti. Il mese scorso un tizio di Palermo che aveva rubato un pezzo di formaggio in un supermercato di Mondello s’è beccato 16 mesi di galera senza la condizionale: cioè finirà in galera. E quelli che per anni (entro e non oltre il 1994) hanno venduto lo Stato alla mafia la faranno franca l’uno dopo l’altro. Si spera almeno che chi plaude o tace su questo schifo, il 19 luglio ci risparmi le solite corone di fiori in via d’Amelio. E abbia il coraggio di fare sulle tombe di Borsellino e Falcone ciò che fa di nascosto da 25 anni: sputarci sopra.

Graviano: un messaggio che nasconde i destinatari, scrive il 10/06/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Il nastro si riavvolge e il film comincia daccapo. Le stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 hanno rappresentato per 25 anni e rappresentano ancora l’autentico tormentone che ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Un tormentone che ruota attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi e alla nascita di Forza Italia. Quest’ultima rivelazione di Giuseppe Graviano, curiosamente tanto istupidito da non sospettare di essere intercettato in carcere, arriva proprio nel momento in cui la storia italiana del ‘92 e del ‘93 sembra essere già archiviata e relegata persino al ruolo di fiction, come abbiamo avuto modo di vedere seguendo l’ultima serie tv su Sky. Di Berlusconi e di Dell’Utri (quest’ultimo in carcere per concorso esterno) hanno parlato schiere di pentiti. Lo stesso Graviano, alla udienza in cui testimoniò a Torino il collaboratore Gaspare Spatuzza, si diede molto da fare nel lanciare messaggi e minacciare ricatti. Facendo intendere anche di essere pronto a qualche “sacrificio” (lui e forse il fratello, Filippo) pur di ricevere un allentamento del carcere duro. Sono passati otto anni e non sembra esser accaduto nulla, se non il “beneficio” di aver potuto ingravidare le rispettive mogli. Si era pensato che questo “evento” potesse essere stata conseguenza di una complicità del suo avvocato, immaginato come “trasportatore” del loro seme dal carcere ad un laboratorio per l’inseminazione. Apprendiamo oggi, per bocca di Giuseppe Graviano, che l’inseminazione avvenne per contatto diretto. Un “premio” per il suo silenzio, mentre gli si chiedeva di confermare le dichiarazioni di Spatuzza a proposito dei rapporti tra la mafia di Brancaccio e Berlusconi e Dell’Utri? Questo, Graviano non lo dice ma lo fa intendere. Ecco forse è questa la chiave dei colloqui intrattenuti in carcere, con un detenuto che non è neppure mafioso. Una sorta di replay dell’ “incidente” occorso a Totò Riina che si è fatto sorprendere dalle “cimici” carcerarie mentre parlava con un altro “signor nessuno”, appartenente ad una improbabile mafia pugliese. Insomma, questi boss quando hanno qualcosa da dire, da suggerire, da sussurrare e finanche da ammettere, sembrano voler scegliere la strada del “parlare” ma senza pentirsi. Una bella intercettazione e via. Resta da capire chi sono i destinatari dei messaggi. Berlusconi non sembra in grado di poter dare grandi aiuti a chicchessia, soprattutto se non si tratta di soldi. Dell’Utri sta anche peggio, immobilizzato in un reparto di cardiologia del carcere di Parma. Forse ci sono verità che ancora faticano a guadagnare la luce. Nel ‘92 certamente è accaduto qualcosa di poco commendevole nella terra di mezzo fra politica e alta finanza. Il proliferare delle Leghe, a Nord e a Sud, la svolta stragista di Cosa nostra, la fine dei partiti storici italiani. Le paure di Ciampi che, la notte delle bombe, convoca lo Stato Maggiore e si chiude a Palazzo Chigi. Se Graviano ha qualcosa da chiedere, potrebbe cominciare a parlare sul serio.  

“Scriveva su La Stampa: “Per una giustizia lontana dagli eccessi”. L’ex direttore Mieli: “Prima di iniziare a collaborare andò da Bobbio. Vedeva nella torinesità del giornale l’estraneità alle trame di potere”, scrive Luca Ubaldeschi il 29/05/2017 su "la Stampa". Paolo Mieli è stato direttore de La Stampa dal 1990 al 1992. L’esperienza di Giovanni Falcone a La Stampa è stata più che una collaborazione giornalistica. È stato un incontro di valori, il reciproco riconoscimento di un’affinità intellettuale. «Per noi - dice Paolo Mieli, il direttore che lo assunse come editorialista nel 1991 - Falcone era un mito e una delle cose di cui vado più fiero è la solidarietà che La Stampa gli manifestò prima della morte, diversamente da tanti altri che lo rivalutarono dopo l’attentato. Al magistrato, poi, la collaborazione con il giornale fece capire che al di là delle polemiche che lo avevano coinvolto, c’era un’Italia che credeva in lui e che lo avrebbe difeso». 

Come avvenne l’incontro tra La Stampa e Falcone?  

«Fu Ezio Mauro, mio condirettore, ad avere l’idea. Io pensavo che Falcone non avrebbe accettato. In quel periodo era un collaboratore di Claudio Martelli, ministro della Giustizia del governo Andreotti, ed era avversato dalla sinistra. Falcone non era stato corrivo con la tendenza dell’epoca di colpire esponenti della Dc e del governo, andando un po’ per le spicce. Era un autentico liberale e aveva una sincera cultura garantista, superiore a tanti altri magistrati. In quel clima, pensavo che sarebbe stato improbabile avere il suo sì». 

E invece che accadde?  

«Furono decisivi i buoni uffici di Francesco La Licata, nostro inviato esperto di mafia, e di Marcello Sorgi, capo della redazione romana. Falcone considerava La Licata un vero amico. Francesco e Sorgi erano per il magistrato la garanzia che poteva fidarsi della Stampa, che non lo avremmo mai strumentalizzato». 

Quando lei lo incontrò a Torino per siglare il contratto che cosa la colpì di più? 

«La timidezza, il senso dell’ironia, l’atteggiamento amichevole, il parlare poco e per nulla da padreterno. Capii che Falcone vedeva nella torinesità del giornale una garanzia di estraneità dalle trame di potere romane. Considerava La Stampa un giornale di un altro Paese, un giornale pulito, che non si sarebbe prestato a giochi». 

Perché prima di cominciare volle incontrare Norberto Bobbio?  

«Oltre che nostro editorialista, Bobbio era una personalità con un’autorevolezza riconosciuta da tutti, un candidato alla presidenza della Repubblica. A casa del filosofo a Torino ebbero un incontro lungo, denso, su tanti temi. Falcone ascoltò con attenzione, come prendendo appunti mentalmente. In seguito, parlandogli, ebbi la riprova che il magistrato aveva ricavato elementi di riflessione importanti dall’incontro. Credo che Falcone sia stata la persona con maggiore capacità di ascolto mai incontrata. L’ascolto è un’arte, lui traeva spunti da quella capacità. Gli editorialisti tendono a sottolineare le convergenze con i direttori. Lui ascoltava e poi con garbo metteva in chiaro i punti in cui dissentiva». 

Come nascevano gli articoli di Falcone?  

«Tutti dopo una chiacchierata con La Licata. Nessun articolo fu scritto in solitudine. La collaborazione tra loro era totale. Ho sempre considerato La Licata “l’altro Falcone”, un uomo integerrimo, capace però di sorridere, proprio come il magistrato. La Licata disegnava il quadro generale, faceva qualche osservazione puntuale, Falcone ascoltava e nascevano gli articoli che consentivano a Falcone di lasciarsi alle spalle la spirale di accuse e polemiche che lo aveva investito». 

Negli editoriali sui problemi della giustizia e della lotta alla criminalità, emerge l’intenzione di Falcone di non cercare facili invettive e ricette spettacolari, cercando piuttosto di spiegare, di portare la discussione sui binari della normalità. È una lettura corretta?  

«E’ così. La strada maestra dei suoi colloqui con La Licata era la convinzione fortissima che fosse necessario evitare gli eccessi». 

Lei ha ricordato il clima pesante contro Falcone. Quanto soffriva per le accuse contro di lui?  

«Era addolorato perché vedeva in quelle critiche non tanto un danno per sé, quanto il rischio di compromettere una strategia più larga di lotta alla mafia». 

Nei vostri colloqui parlava della paura di essere ucciso?  

«Mai. A volte io dicevo qualcosa in proposito, lui lasciava cadere il discorso. Era consapevole di aver accettato quel rischio già da tanto tempo e non stava a calcolare se i suoi passi avrebbero potuto aumentarlo. Faceva quello che riteneva necessario». 

Come visse La Stampa il 23 maggio del 1992?  

«Esiste un solo giorno, della mia direzione della Stampa, che ricordo minuto per minuto, ed è quello. Lo choc, poi la speranza perché all’inizio sembrava che avrebbe perso le gambe, ma sarebbe riuscito a sopravvivere. Ripensandoci, mi sembra un tempo lunghissimo quello trascorso fra la notizia dell’attentato e la morte, perché denso di angoscia e dolore. Falcone, la moglie, gli agenti della scorta... Da Mani Pulite alla guerra in Iraq, gli anni 90 sono stati pieni di eventi importanti, ma Capaci è stata la notizia che ha avuto il più profondo impatto tragico del decennio. L’attentato non era solo contro Falcone, era anche una sfida a chi voleva testimoniargli solidarietà nella sua battaglia antimafia. Con Capaci e poi via D’Amelio temetti davvero che l’Italia potesse precipitare in una abisso di barbarie. Per fortuna non è stato così». 

Ciccio La Licata, la bella penna dell’antimafia offerta a Ciancimino Jr.. Francesco La Licata, detto “Ciccio”, nato a Palermo il 22 settembre 1947. Nel ’70 entra all’Ora di Vittorio Nisticò, settore cronaca giudiziaria. A piazzale Ungheria si fa un giornale del pomeriggio: “Ci si alzava prima dell’alba e si girava per ospedali per sapere se fosse stato commesso qualche omicidio o fatto di cronaca rilevante – ricorda La Licata – Alle 9 dovevi aver già fatto il pezzo, con tanto di fotografie: era un incubo”, scrive Marco Pedersini il 18 Maggio 2011 su “Il Foglio”. Francesco La Licata, detto “Ciccio”, nato a Palermo il 22 settembre 1947. Nel ’70 entra all’Ora di Vittorio Nisticò, settore cronaca giudiziaria. A piazzale Ungheria si fa un giornale del pomeriggio: “Ci si alzava prima dell’alba e si girava per ospedali per sapere se fosse stato commesso qualche omicidio o fatto di cronaca rilevante – ricorda La Licata – Alle 9 dovevi aver già fatto il pezzo, con tanto di fotografie: era un incubo”. Ma, l’Ora, come gli altri quotidiani pomeridiani, è destinata al modernariato. Nel ’76 La Licata passa al Giornale di Sicilia e inizia a collaborare con l’Espresso ed Epoca. Alla Stampa nell’86, nel giro di tre anni lascia Palermo, senza smettere di occuparsi di Palermo. Con Lucio Galluzzo e Saverio Lodato ottiene una lunga intervista dal giudice Giovanni Falcone. Ne verrà fuori un libro, “Falcone Vive” (Flaccovio). Nel ’93, La Licata firma anche “Storia di Giovanni Falcone” (Rizzoli). La biografia, condita a dovere con testimonianze delle sorelle maggiori di Falcone, è un successo. Sono gli anni eroici di Gian Carlo Caselli a capo della procura di Palermo e ormai non c’è sospiro di pentito che La Licata non possa riportare ai lettori. Per il segugio della Stampa i verbali sono quasi un impiccio: gli altri si attardano a spulciarli, lui incontra i pentiti per strada. Una sera, per caso, si imbatte nel pentito Gioacchino Pennino, il “Buscetta della politica”, a un casello dell’autostrada. Non c’è da meravigliarsi: dopo trent’anni, Ciccio La Licata è un’autorità indiscussa, che non disdegna flirt con la tv (“Mixer”, “Blu notte”). Dal 2007, torna in libreria con “Sbirri” (Rizzoli) e “Pizzini, veleni e cicoria” (Feltrinelli), libro-intervista al procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso su Bernardo Provenzano. A inizio 2008 riceve una visita alla redazione romana della Stampa. E’ Massimo Ciancimino, figlio cadetto dell’ex sindaco mafioso di Palermo. “Aveva tanta voglia di parlare dei suoi guai giudiziari – ricorda La Licata – noncurante del mio scetticismo sulle sue reali motivazioni ‘collaborative’, cominciò a raccontarmi la sua vita spericolata accanto al padre. Non nascondo che riuscì ad accendere un lampo nella mia testa. La sua storia era di per sé un romanzo. Gli spiegai che, prima di pensare a un libro, sarebbe stato corretto ‘liberarsi’ di tanto fardello nella sede giusta: la magistratura”. “Massimuccio” aveva già cercato di ingolosire Enrico Mentana, Maurizio Belpietro e qualche vecchio collega di La Licata. Ma sarà il decano del giornalismo antimafia a concedersi: La Licata lavora il materiale grezzo di “Massimuccio” e ne ricava “Don Vito” (Feltrinelli), una biografia che si stempera nel romanzo, lanciata da una puntata intera di “Annozero”. La storia di don Vito apre a Ciancimino Jr. il circuito giusto delle presentazioni dei libri che non si possono non leggere. La Licata è il suo Virgilio, raddoppiato, a volte, da Sandro Ruotolo. Gli spalanca persino le porte del Festival del giornalismo di Perugia. In molti accorrono ad ascoltare l’“icona dell’antimafia” che hanno visto in tv. Con “Don Vito” si scrive il grande riscatto di Ciancimino Jr.: la presentazione del libro all’aula magna dell’Università di Palermo, dove “Massimuccio” viene benedetto da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. A un occhio attento non sfuggirebbe che, per dirne una, nel documento riportato a pagina 228 si vedono le elisioni lasciate dalla fotocopiatrice. Ma il libro piace, “Massimuccio” firma dediche, niente lo può fermare. A parte le minacce al figlio, da cui riparte più amato di prima. E poi sì, c’è anche l’arresto, il 21 aprile, quando la scientifica scopre che le carte dei Ciancimino sono gran patacche.

Contrada: Qualcuno si ravvederà, scrive il 12/10/2010 Francesco La Licata su "la Stampa". L’ex funzionario del Sisde scarcerato dopo 10 anni: la verità verrà ristabilita. Non si è mosso di un millimetro dalla posizione assunta la mattina di quella vigilia di Natale del 1992, quando, lui «sbirro» tra i più raffinati, aprì la porta ai colleghi che venivano ad arrestarlo su mandato della Procura di Palermo, ferita a morte dalle terribili stragi che avevano portato via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Oggi Bruno Contrada, funzionario di vertice dell’ex Sisde (il servizio informativo civile) ed ex capo della squadra mobile di Palermo negli Anni 70), è di nuovo un uomo libero, dopo 20 anni di processi e più di 8 di detenzione. Il suo commento: «Spero che qualcuno si ravvederà del male che ha fatto a me e alle istituzioni». Contrada ha sempre cercato di difendersi dall’accusa di «intelligenza col nemico» (cioè Cosa nostra), macchia indelebile per un uomo di formazione militare e con una innegabile inclinazione verso le regole. «Se fossi colpevole di ciò di cui vengo accusato - aveva detto dopo la prima condanna - non meriterei una pena così lieve, ma la fucilazione alle spalle». E, una volta libero dopo 30 mesi di carcerazione preventiva, corresse i cronisti che pontificavano: «Giustizia è fatta». «Assolutamente no», rispose Contrada. «Sono soltanto un imputato a piede libero, la strada della giustizia sarà lunga». Facile previsione, la sua. E così oggi, dopo un quarto di secolo, ha gioco facile a insistere sulla tesi della giustizia non compiuta perché continua a protestarsi «non colpevole», nella migliore delle ipotesi vittima di un abbaglio dei giudici, nella peggiore bersaglio di una «trappola» di uomini che non nomina ma evidentemente crede di conoscere bene. L’aspetto fisico non rende la capacità di un ottantenne, neppure in buona salute, ossessionato da un solo obiettivo: recuperare la dignità persa, la sua e «quella dell’Istituzione che ho rappresentato». In passato, nelle aule dei tribunali, ha affidato la sua difesa ad uomini di legge, ora ha cominciato a fare da solo. Per questo ha racchiuso tutto il peso dei ricordi in un libro («La mia prigione», Marsilio editore), scritto con la giornalista Letizia Leviti (inviata di Sky). «Non è una difesa», dice Contrada, «è solo il racconto dei fatti, ora che ho espiato per intero una pena che non meritavo». Ne vien fuori una disamina di tutti i capi d’accusa che rimanda al mittente. Evidentemente sono i pentiti ad essere presi di mira: Gaspare Mutolo, Masino Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Rosario Spatola, Francesco di Carlo e tutti gli altri (17 in tutto) arrivati, fa intendere l’autore, a coprire i vuoti man mano lasciati dalle bugie dei primi. Ma non ci sono soltanto i pentiti nel suo elenco. La sua tesi è che "costruzione" non avrebbe retto senza la volontà istituzionale di certificare una volontà inesistente. E così lamenta i silenzi di uomini dell’antimafia (come il consigliere istruttore Antonino Caponnetto) che avrebbero potuto testimoniare in suo favore ma preferiscono "non ricordare". Più di una frecciatina la riserva a Gianni De Gennaro (allora dirigente della DIA). E’ pungente quando - parlando del pentimento di Mutolo - lo descrive adagiato "tra le braccia ospitali della DIA di De Gennaro". Più esplicita la critica a commento di una frase di Enzo Biagi Su Buscetta: "De Gennaro me lo descrisse come un uomo pieno di dignità". Scrive Contrada: "Io l’avrei definito un uomo pieno di carisma criminale". Ma chi ha voluto la fine di Contrada? Non risponde, forse perché non ci può essere una risposta sola. Certo, è singolare che fra tanti processi svaniti nei meandri dell’ingegneria giudiziaria abbiano resistito solo il suo e quello a carico dell’altro capo della squadra mobile di Palermo, Ignazio D’Antone, anche lui tornato in libertà da pochi giorni. Una certezza se la lascia sfuggire: «Vedo un tentativo che proviene anche da ambienti dei carabinieri di coinvolgermi in storie alle quali sono completamente estraneo». Parole dure, scritte però dopo aver descritto il generale Mori come «uno dei migliori ufficiali dell’Arma» e «la Benemerita» come «simbolo della nostra Patria». E la trattativa tra Stato e mafia? Contrada dice di non aver saputo nulla fino al ’92, «poi fui arrestato». «Se avessi saputo - scrive - di un’azione svolta, forse anche a fini investigativi ritenuti volti al bene, io non avrei nessuna difficoltà a riferirlo». Ma la trattativa c’è stata? «Io credo che ci possa essere stato un tentativo, tacito ma implicitamente significativo e di chiara lettura per chi doveva capire e provvedere, da parte della mafia, di intimidazione, di pressione, di convincimento ad attenuare la durezza delle misure che lo Stato aveva già adottato e di altre che avrebbe ancora adottato, più incisive». E allora? «Non vedo motivo di scandalizzarsi. D’altra parte tutto il pentitismo è basato su questa strategia». Paragone forse eccessivo, visto che i pentiti qualche vita umana l’hanno salvata. 

Francesco La Licata scrive di mafia da sempre, scrive in un suo post Marco Taradash. Negli anni ottanta lavorava a Palermo, al Giornale di Sicilia, e si distingueva per la serietà e l'accuratezza delle sue inchieste. Anche chi criticava il quotidiano ne aveva stima. Oggi 8 luglio 2017 ha pubblicato sulla Stampa, dove lavora da anni, questo commento sulla vicenda Contrada. Mi pare utile per capire.

Dopo 25 anni tolta la condanna a Contrada. Ora che è arrivato alla soglia degli 86 anni, venticinque dei quali vissuti dentro un incubo, Bruno Contrada potrà almeno contare su una certezza: è finita. Sì, è vero, ci sarà ancora chi dirà che «i fatti restano i fatti». Chi obietterà che non è stata riconosciuta la sua innocenza ma semplicemente il fatto che «non poteva essere condannato» (come se questa fosse una quisquilia). Ci sarà chi continuerà a girare il coltello nella piaga, ma rimane il fatto che la sua vicenda giudiziaria è chiusa. Per sempre. E non deve essere un sollievo da poco per uno che si è fatto 10 anni di carcere, arrestato la vigilia di Natale del ’92, poi trattato alla stregua di un mafioso, fino a vedersi negare i domiciliari per gravi motivi di salute. Una soddisfazione che potrà soltanto attenuare il ricordo dei trenta mesi di carcerazione preventiva, trascorsi senza vedere un magistrato, in un carcere militare chiusi da tempo e riaperto solo per lui. Adesso lui dice: «Non ci contavo più. Ero talmente abituato a una giustizia sorda che quasi non credevo al pronunciamento della Cassazione». Dice di non odiare nessuno, «ma disprezzo i miei accusatori, laddove per disprezzo intendo mancanza di apprezzamento». Poi aggiunge una frecciatina verso chi investigò sulla sua vicenda: la neonata Direzione Investigativa Antimafia. Lasciando, così, intendere che l’origine dei suoi mali possa risiedere nella «volontà ministeriale» di allora di eliminare concorrenti fastidiosi alla DIA che si apprestava a divenire l’FBI italiano contro Cosa Nostra. E’ davvero un romanzo la storia di bruno Contrada. Poliziotto di successo, a Palermo sin dagli inizi degli anni sessanta. Non è mai stato molto amato dai palermitani, proprio per questo essere sfrontatamente “sbirro” anche quando i salotti buoni consigliavano prudenza e ragionevolezza. La squadra mobile di Contrada e Boris Giuliano rappresentava uno dei pochi argini allo strapotere mafioso, mentre il Palazzo di Giustizia sonnecchiava, si interrogava sull’esistenza della mafia e rimandava indietro i rapporti giudiziari di associazione a delinquere perché “generici” e privi di prove e testimonianze. Tutto ciò in una città dove i testimoni oculari degli omicidi pretendevano di essere arrestati per reticenza, per poter dimostrare di non aver aperto bocca. I due sceriffi (Bruno e Boris) furono investiti del compito di inventarsi un ufficio antimafia che a Palermo, sede legale di Cosa Nostra, nessuno aveva mai voluto. Solo la strage di Ciaculli del 1963 (7 morti tra carabinieri ed artificieri dell’esercito) riuscì a scuotere le menti e le coscienze dei burocrati romani. Così la mobile di Palermo divenne la migliore d’Italia. Sarebbe troppo lungo raccontare l’elenco delle operazioni antimafia di quella squadra: De Luca, Speranza, Moscarelli, Crimi, Incalza, Vasquez, Cipolla, D’Antone e tanti sottufficiali di grande valore. La mafia li odiava, ma non era ancora arrivato il tempo della mattanza. C’erano sempre dei limiti invalicabili (di opportunità) che venivano aggirati con artigianale esperienza. Per esempio, gli interrogatori degli “eccellenti” coinvolti nelle inchieste venivano condotti da poliziotti e magistrati, per sottolineare che non si trattavano di iniziative avventate di questurini, ma di necessità investigative ampiamente condivise dalle toghe. E quando arrivò la mattanza la “battaglia” si fece ancora più cruenta. L’omicidio del col. Giuseppe Russo dei carabinieri, ad un certo punto portò ai cugini Ignazio e Nino Salvo di Salemi, ricchi esattori e maggiorenti democristiani, che bisognava interrogare. In alto si pretese che venissero convocati di sera, in un ufficio discreto della mobile. Questo trattamento privilegiato non piacque molto a Contrada e Giuliano, tanto che inaspettatamente l’ingresso dell’ufficio fu preso d’assalto da fotografi e giornalisti. Quando Contrada fu promosso e trasferito alla Criminalpol (al piano di sopra), ottenne che gli succedesse il suo amico Boris. Ma non c’era giorno che i due non si scambiassero informazioni e sensazioni. Nel 1979, a luglio, la mafia uccise Giuliano e cambiò tutto. Tanto che uno dei moventi alle accuse a Contrada parla di di “paura”. La morte dell’amico, in sostanza, avrebbe indotto Contrada al “tradimento”. Ma come spiegare, allora, il fatto che Leoluca Bagarella, il killer di Giuliano, si trovi all’ergastolo inchiodato da un rapporto firmato da Bruno Contrada? L’Ingresso del funzionario nei ranghi del servizio segreto ha fatto il resto. Lo 007, si sa, è ambiguo per definizione. Così Contrada è stato pure sfiorato dalla accusa di aver avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio. Sospetto più volte archiviato. Per 25 anni è entrato ed uscito dal sospetto. Certo, forse quest’ultima sentenza non certifica nessun innocenza, ma racconta forse come la sua vicenda si astata sempre affrontata dalla magistratura con un’attenzione particolare, diretta a non minare le fondamenta dell’architettura che sta alla base della battaglia contro Cosa Nostra e , soprattutto, contro le sue complicità  politiche ed istituzionali.

Uno 007 tra i veleni di Palermo. Il poliziotto agente segreto: dalla leggenda ai sospetti di depistaggio. Il ritratto che ne fece La Stampa all’epoca dell’arresto, avvenuto il 24 dicembre del 1992, scrive il 7/07/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Le circonlocuzioni, le cautele, i condizionali delle agenzie di stampa e dei notiziari televisi e radiofonici non riescono ad ammorbidire una notizia che per la città è un pugno nello stomaco. Bruno Contrada in carcere. Contrada associato con la mafia, delatore, traditore. Già, traditore. L’ infamia più triste, se si si pensa che il tradimento se c’ è stato, lo hanno subito soprattutto poliziotti e giudici che, per non tradire, sono morti. Ammazzati per strada, uno dopo l’altro. Così, mentre le notizie si accavallano, consegnando il fosco racconto di pentiti, affiorano nella mente gli anni della mattanza palermitana.  Un quarto di secolo sfregiato da una costante linea rossa, una tragica sequenza di morti, feriti, attentati, processi e anche «nfamità», per dirla con un linguaggio che a Palermo si usa per definire le montature. Bruno Contrada è stato protagonista indiscusso di questo quarto di secolo. Non era arrivata ancora «l’era Falcone», il palazzo di giustizia era un deserto dei Tartari affidato alla gestione di rappresentanti di un gruppo di potere squalificato, ma potentissimo. Governava un comitato d’ affari che racchiudeva, da un lato, uomini come Lima, Gioia e Ciancimino, e dall’ altro il monopolio affaristico di imperi come quelli del costruttore Ciccio Vassallo o del Cavaliere di Gran Croce Arturo Cassina, luogotenente dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro.  C’era la Palermo che contava, coi cavalieri di Cassina. Politici, burocrati, grand commis, affaristi e tanti, ma tanti, ufficiali dei carabinieri, funzionari di polizia e questori. Anche Bruno Contrada si era sottoposto alla cerimonia dell’investitura, con tanto di ermellino e lo spadino del conte Arturo posato sulla spalla destra. E a chi gli chiedeva perché avesse accettato l’offerta di Cassina, Contrada rispondeva: «Perché c’ è qualcosa di male? È come far parte del Rotary o del Lions». E aveva ragione, dal suo punto di vista, dal momento che si trovava in compagnia di alti funzionari dello Stato, nobili e luminari. La cosiddetta buona società. E poi, quella era un’epoca che vedeva la squadra mobile come una prima linea contro la mafia.  C’era Boris Giuliano, che con Contrada formava un binomio da leggenda. E c’erano molti altri funzionari giovani che, come si dice in gergo, «trottavano». Contrada era il capo, Giuliano il vice, due scuole diverse ma integrate bene. Nell’ immaginario dei palermitani quei poliziotti rappresentavano una sorta di <squadra speciale>, come nei telefilm americani. Sospetti? Neanche uno: fino ad allora, almeno. La fama di uomini della tempra di Boris Giuliano era talmente inattaccabile che da sola sarebbe bastata a far svanire qualunque ombra si fosse abbattuta sulla squadra mobile. È l’inizio degli Anni 70, I film del filone «la polizia arresta la magistratura assolve» sembrano ispirati dalla realtà palermitana. Lo stesso Contrada, con l’impermeabile del «tenente Sheridan», diventa protagonista di episodi mai dimenticati. Come quando si trova faccia a faccia con Giuseppe Greco, che si avvia a divenire il superkiller dei cento delitti. Lo insegue tra i vicoli della Vucciria, spara tra la folla Alla fine, con l’aiuto del commissario Vincenzo Speranza, lo prende, lo trattiene per i capelli e lo trascina alla squadra mobile. Eppure... Eppure, dicono quattro o cinque pentiti, già allora qualcosa non andava. Rivela Gaspare Mutolo che «il dottore Contrada» disponeva di una casa in via Jung. Un appartamento intestato ad un uomo d’ onore del clan di Rosario Riccobono, il boss che secondo altre rivelazioni aveva indotto alla collusione il giudice Domenico Signorino, morto suicida in seguito allo scandalo.  Secondo il pentito, Contrada era stato avvicinato, seguito e posto sotto osservazione per verificare la possibilità di ridurlo alla collaborazione, soluzione da preferire ai colpi di lupara che invece si sono rivelati necessari per altri. Questo racconta Mutolo. Resta da comprendere perché un appartamento, ufficialmente intestato ad un prestanome della mafia, dovesse essere usato seppure per motivi personali e privati da un giudice della Procura e dal capo della squadra mobile. E resta un dubbio: recitava, Contrada, quando per la morte dell’agente Cappiello, ucciso durante un’azione di polizia a Pallavicino, denunciò tre boss del clan di Riccobono, uno dei quali era proprio Gaspare Mutolo, oggi pentito e grande accusatore? Qualcuno ha obiettato che sì, è vero, Contrada denunciò ma nessuno fu catturato. Per la verità, Mutolo fu preso qualche tempo dopo, insieme con Salvatore Micalizzi. Se ne stavano al “Gambero Rosso”, a Mondello. Il pranzo a base di vongole e spigole fu interrotto dalla polizia. Addosso a Micalizzi furono trovati molti soldi. Nell’ ufficio di Bruno Contrada, il boss dovette subire l’umiliazione di raccogliere le banconote con la lingua. E il capo della mobile gli disse: «Sono ancora sporchi di sangue». Ma i «colpevolisti» ora dicono: «Contrada recitava».  Però a Roma non ne erano convinti. Tanto che quando, nel luglio 1979, uccidono Boris Giuliano, nuovo capo della squadra mobile, e non si trova un dirigente capace di ridare unità ad un gruppo dilaniato dalle polemiche e dalle faide interne, il governo si rivolge a lui, Bruno Contrada, che sta alla Criminalpol della Sicilia occidentale. Già le faide. Da allora, dall’ 80 gli uffici investigativi della questura entrano in un tunnel che non ha più visto l’uscita. Cominciano i veleni, tutti sospettano di tutti. I pentiti fanno risalire ad allora il consolidamento delle <cattive amicizie> di Contrada. Spuntano i nomi di Salvatore Riina e dei Marchese. È l’era delle talpe. La figura di Bruno Contrada si appanna. A questo contribuisce forse il fatto che entra nei servizi segreti, ma continua ad occuparsi di criminalità. Viene sospettato di aver aiutato a fuggire Oliviero Tognoli, imprenditore con contatti mafiosi. Dimostra l’estraneità al fatto. Lo accusano di depistaggio nell’ inchiesta sull’ assassinio di Piersanti Mattarella, ma anche questa volta vince i sospetti. Passa indenne da più d’ una inchiesta interna. Giovanni Falcone attribuisce a «menti raffinatissime» la paternità dell’attentato all’Addaura. Il giudice non fa nomi, ma quello di Contrada circola per tutti i corridoi dei Palazzi. E poi, la polemica col questore Vincenzo Immordino. Una brutta storia: Contrada e i suoi chiusi in una stanza della Mobile, mentre poliziotti venuti da fuori e comandati direttamente dal questore arrestavano una cinquantina di boss accusati di aver ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile Quella fu la vera delegittimazione di Contrada. Il questore dimostrò di non fidarsi. L’ errore fu non aver mai fatto chiarezza in nome di una presunta ragion di Stato.  

Scandalo giudiziario Contrada. Storia di una persecuzione, scrive Riccardo Lo Verso l'08 Luglio 2017 su "Live Sicilia". La giustizia dei professionisti dell'antimafia e un processo che non si doveva nemmeno fare. Su Bruno Contrada la giustizia italiana ha preso una cantonata che più cantonata non si può. Pubblici ministeri e giudici hanno accusato, processato e condannato un imputato che non potevano accusare, processare e condannare. Uno scandalo, giudiziario e umano, senza se e senza ma. Lo stabilisce la Cassazione che ha revocato la condanna a 10 anni interamente scontata, accogliendo, una volta e per tutte, le indicazioni della Corte europea per i diritti dell'uomo. Perché nella storia del poliziotto Bruno Contrada sono i diritti ad essere stati violati. C'è voluto il richiamo della giustizia di Strasburgo per ricordare l'esistenza di un principio basilare: un uomo non può essere processato per un reato che non esiste. Nessuno se n'è accorto in oltre un decennio di indagini e processi, celebrati in lunghissimi gradi di giudizio. Fra il 1979 e il 1988, anni in cui, secondo la pubblica accusa, l'ex numero 3 del Sisde aveva contribuito ad agevolare il potere di Cosa nostra, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non "era sufficientemente chiaro". Chiaro, e mica tanto, lo sarebbe diventato anni dopo. Nel 2015 la prima crepa nel percorso processuale su cui era stato apposto il bollo della definitività. I giudici di Strasburgo diedero ragione a Contrada. I Tribunali nazionali non avevano rispettato i principi di "non retroattività e di prevedibilità della legge penale". Ci sono voluti altri due anni per arrivare alla revoca decisa ieri, dopo che l'incidente di esecuzione era stato rigettato dalla Corte d'appello e respinte diverse istanze di revisione del processo. La decisione della Cassazione è senza rinvio. La revoca è davvero definitiva. Una sberla per la giustizia italiana e per quei pubblici ministeri della Procura di Palermo, allora diretta Giancarlo Caselli, che riconobbero in Contrada il poliziotto infame che andava a braccetto con i boss. A cominciare da Antonio Ingroia, che di Caselli era il prediletto, pubblico ministero assieme ad Alfredo Morvillo del primo processo concluso con la condanna. Non serve essere dei geni della matematica: la media dei successi di Ingroia crolla del 50%. Le statistiche dicono che nel corso di una quasi decennale stagione giudiziaria, prima di darsi alla politica e al sottogoverno regionale chiamato da Rosario Crocetta, il pm Ingroia ha fatto due soli grandi processi: quello a Bruno Contrada e quello a Marcello Dell'Utri. Quando nel 2015 i giudici di Strasburgo condannarono l'Italia a risarcire l'ex poliziotto con dieci mila euro, l'allora procuratore aggiunto disse che la decisione nasceva da “un fraintendimento, una solenne cantonata”. Di solenne c'è solo la bocciatura di un processo che non si doveva neppure celebrare. Non ci voleva la sfera di cristallo per prevedere le reazioni dei militanti dell'antimafia, dei nostalgici di una stagione inquisitoria che a Palermo ha collezionato sonore bocciature, dei commentatori duri e puri. Mica Contrada è stato assolto, diranno in coro, e i fatti contestati nei processi restano. Il primo a battere un colpo è stato Antonino Di Matteo, ex sostituto procuratore a Palermo, oggi alla Direzione nazionale antimafia, che con Ingroia ha dato vita al processo sulla Trattativa stato-mafia, prima che l'ex procuratore aggiunto svestisse la toga: "I fatti rimangono fatti, i rapporti di grave collusione con la mafia rimangono accertati nella loro esistenza e gravità - dice, appunto, Di Matteo - Già questo rende merito al lavoro della procura di Palermo e dei giudici che li hanno accertati. Spero - aggiunge - che questo venga spiegato per arginare le strumentalizzazioni finalizzate a rappresentare falsamente l'insussistenza dei fatti contestati". Accontentato. Nessun cenno da parte del sostituto procuratore nazionale antimafia alla distrazione di massa di una giustizia quanto meno sonnolenta. Di Contrada si sono occupati una quarantina di magistrati fra pubblici ministeri, giudici per le indagini preliminari, del Riesame, di Corte d'appello e della Cassazione. Roba da pallottoliere. Hanno sbagliato tutti?, come si chiedevano provocatoriamente autorevoli commentatori. La risposta è sì. In fin dei conti Di Matteo ha ragione. È vero, i giudici europei non parlano dei fatti del processo. Dicono molto di più e cioè che sono stati celebrarti dibattimenti senza reato. Non è solo una questione, già di per sé grave, in punta di diritto. Da Strasburgo è arrivata una lezione culturale: ci deve essere un bilanciamento fra l'esigenza di combattere la criminalità e le garanzie del singolo cittadino. L'imputato deve conoscere anticipatamente la norma per la quale è finito sotto processo. Deve sapere e non prevedere quali saranno le possibili conseguenze. Ne vale del suo diritto di difesa costituzionalmente garantito. Lo scandalo del processo Contrada è figlio di una totale assenza di equilibrio. Un uomo è stato arrestato e condannato per qualcosa che all'epoca dei fatti addebitatigli non era reato. Non un uomo qualsiasi ma l'ex numero 3 del Sisde, capo della Squadra mobile di Palermo e della Criminalpol. Lo ammanettarono alla vigilia di Natale del 1992, pochi mesi dopo che le bombe massacravano i corpi di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli uomini di scorta nelle stragi di Capaci e via D'Amelio. Altro che super poliziotto, Contrada, così dicevano i pentiti, era amico dei boss. Passava loro soffiate su indagini e blitz, li aiutava a scappare, incontrava capimafia del calibro di Saro Riccobono e del principe di Villagrazia, Stefano Bontade. E cioè dei padrini palermitani che decidevano sulla vita e la morte delle persone. La mattanza dei corleonesi era ancora lontana. Da quel 1992 Contrada ha subito la gogna di una giustizia che sa essere punitiva e vendicativa ancora prima di una dichiarazione di colpevolezza. I tempi della carcerazione preventiva e del processo da lui subiti sono tipici di un sistema malato. Nel 1996 il Tribunale di Palermo lo condannò a 10 anni, strappandogli i gradi dal petto e l'onore. Nel 2001 la Corte di Appello ribaltò la sentenza: assolto per “la carenza dei fatti concreti” e la mancanza della “necessaria specificità” delle accuse di pentiti che in quegli anni godevano di un titolo di credito illimitato o quasi. Piuttosto, scrivevano i giudici d'appello, si era in presenza di “apprezzamenti o opinioni” dei testimoni. I quali, per altro, non si poteva escludere che fossero mossi da una “sindrome vendicatoria” nei confronti dello sbirro che li aveva indagati. I giudici d'appello concedevano a Contrada, se non altro, il beneficio del dubbio, in una stagione senza regole, scritte e certe, se non quelle della strada. Per stanare i mafiosi il poliziotti si dovevano sporcare le mani, agganciare fonti, persino ammiccare se fosse stato necessario. Non era così per la Procura di Palermo e per i successivi giudici che condannarono l'imputato. Il comportamento di Contrada non rientrava nella prassi sbirresca, ma era il segno dell'infame collusione, di quel concorso esterno di cui si sarebbe iniziato a parlare solo due anni dopo, nel 1994. Un reato che, a distanza di decenni, ancora non esiste nel codice penale. Nell'attesa infinita e disattesa che sia normato il reato è servito, in molti casi, per processare le ombre e fare di un sospetto una prova. Il delitto imperfetto che diventa perfetto. E pensare che già trent'anni fa Giovanni Falcone sottolineava la necessità di una “tipizzazione” per colpire la cosiddetta borghesia mafiosa, i colletti bianchi in combutta con i boss. Il codice prevede l'art. 416 bis (associazione mafiosa), e l'art. 110 (concorso nel reato). Alla fine degli anni Ottanta arrivò il cosiddetto “combinato disposto” in nome del quale sono fioccate le sentenze che hanno cristallizzato il reato nella giurisprudenza nonostante sia mancato il passaggio legislativo per inserire il reato nel codice penale. Le occasioni non sono mancate. E neppure i processi. Giulio Andreotti, Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri - solo per fare tre esempi con esiti diversi - sono stati indagati e processati per concorso esterno in associazione mafiosa (nel caso di Andreotti l'accusa poi muterà in associazione mafiosa). Studiosi e politici di tutto l'arco parlamentare hanno detto la loro sull'argomento. Nulla è cambiato. Per Bruno Contrada è diverso. Lo hanno condannato ancora prima che iniziasse lo scontro fra garantisti e forcaioli, ancora prima che il concorso esterno venisse menzionato in una sentenza della Cassazione. Nel suo caso è stato applicato un reato che non esisteva e pure in maniera retroattiva senza che nessuno dicesse qualcosa. È stata la Corte europea a suonare la sveglia. “Da oggi Bruno Contrada è un uomo incensurato”, dice il suo avvocato, Stefano Giordano, figlio di Alfonso, il presidente del maxiprocesso alle cosche di Palermo. Il legale riconosce il merito alla corte di Cassazione, “in maniera coraggiosa e libera”, di avere eliminato ogni macchia nei confronti di un grande servitore dello Stato". Da oggi comincia una legittima battaglia per trovare, qualora sia possibile, un ristoro a dieci anni di carcere. Si parte dal grottesco risarcimento di 10 mila euro che due anni fa i giudici di Strasburgo riconobbero a Contrada per il danno morale subito. Quanto valgono dieci anni di galera, la dignità e i diritti di un uomo? Un uomo che, nel caso di Contrada, ha criticato le sentenze, ma le ha sempre rispettate. Quando uscì dal carcere, nel 2012, invecchiato e fiaccato da una malattia, disse di non “provare rancore per nessuno”. Ricordava i tanti uomini di Stato che gli erano stati vicini”. “Verrà un giorno - diceva - che forse io non vedrò, che vedranno i miei figli, o i miei nipoti che la verità sarà acclarata e ristabilita. Temo allora che qualcuno debba ravvedersi e pentirsi di quello che ha fatto contro di me e le istituzioni che ho fedelmente servito”. Quel giorno, a 84 anni suonati, è arrivato anche se adesso ci sarà la corsa a negarlo. Quelli a venire, c'è da giurarci, saranno giorni di scontro duro fra i garantisti e i forcaioli di cui sopra. Si potevano contestare altri reati, diranno i colpevolisti ad oltranza. Un'interpretazione che non cancellerebbe l'errore. Si corre il rischio di andare fuori fuoco, dimenticando che il processo a Bruno Contrada non andava celebrato. A meno che qualcuno fra i giudici non ammetta di avere sbagliato e allora la vicenda potrebbe davvero aprire un dibattito costruttivo. Nel frattempo, per prima cosa, il poliziotto ammanettato nel '92 proverà da neo incensurato a riprendersi la sua vita, iniziando dalla pensione che non ha mai percepito.

La vicenda di Bruno Contrada raccontata da Indro Montanelli. Un brano da “La storia d'Italia”: “Ciò di cui dubitiamo è che il purismo giuridico sia un metro ragionevole per valutare gli uomini cui chiediamo di tuffarsi nel fango per farvi pesca di malavitosi”, scrive l'8 Luglio 2017 "Il Foglio". Pubblichiamo un brano tratto dal capitolo diciottesimo di “L'Italia di Berlusconi – 1993-1995: La storia d'Italia” di Indro Montanelli e Mario Cervi edito da Rizzoli.

Bruno Contrada – che ha passato i sessanta – era considerato, una ventina d’anni or sono, uno dei più brillanti poliziotti italiani. Bell’uomo dal piglio guascone, elegante, donnaiolo secondo le malelingue, mondano, furbo. Tale era la stima in cui veniva tenuto che fu messo a capo della Squadra mobile di Palermo: posto di estrema delicatezza e responsabilità. Lo lasciò nel 1977 per assumere la direzione della Criminalpol della Sicilia occidentale – queste duplicazioni e sovrapposizioni d’uffici e di competenze non danno in generale buoni frutti, ma lasciamo perdere – e alla Squadra mobile palermitana tornò nel 1979, dopo che il suo successore Boris Giuliano era stato assassinato. Un atto di grande coraggio, il suo, se immune da cedimenti. I cedimenti invece ci furono, secondo alcuni pentiti e secondo la procura di Palermo. Gaspare Mutolo (appunto un «pentito») ha sostenuto che proprio nel 1979 Bruno Contrada fu assoggettato a Cosa nostra. Da allora in poi la carriera di Contrada può essere letta in due modi diversi, anzi opposti: o in chiaro, come il progredire d’un funzionario stimato e capace (capo di gabinetto dell’Alto commissariato antimafia, uomo di punta del SISDE in Sicilia) o in controluce come il doppiogioco d’un colluso con le cosche che ostentava zelo inquisitorio per buttare fumo negli occhi: e sotto sotto si dava da fare per favorire i boss. Alla vigilia di Natale del 1992 Contrada fu arrestato per associazione mafiosa e portato prima nel carcere militare romano di Forte Boccea, quindi in quello militare palermitano, riaperto apposta per lui: e del quale rimase unico ospite. Su Contrada pesavano le dichiarazioni d’una pattuglia di quattro pentiti, poi rimpolpata da altri sei: tra loro il pentito massimo Tommaso Buscetta. L’inchiesta, che fu laboriosa e ammassò la solita montagna di fascicoli, sfociò in un processo di tribunale, presieduto da Francesco Ingargiola (lo stesso magistrato che avrebbe poi presieduto il processo contro Andreotti). Nell’aula si presentò – come detenuto – un Contrada quasi irriconoscibile: smunto, avvilito, dimagrito d’una ventina di chili almeno: molto fermo però nel respingere le accuse. Ridotto in quello stato – si disse –da due anni e passa di pena ipotetica scontata preventivamente. La procura di Palermo dimostrava, Codice alla mano, che tutto s’era svolto nel più scrupoloso rispetto della legge, e che Contrada veniva tenuto in cella perché, ammanicato com’era, avrebbe potuto inquinare le prove. Questi timori caddero tuttavia il 31 luglio 1995, dopo che l’ex funzionario era stato colto da malore in aula, e dopo che una commissione medica, chiamata a pronunciarsi sulle sue condizioni, aveva con grotteschi bizantinismi pseudo-scientifici affermato che la galera gli faceva bene, e che se fosse stato liberato il suo equilibrio psicofisico ne avrebbe risentito. Bruno Contrada tornò a casa. Quello stesso giorno la procura di Palermo e il prefetto Serra convocarono i giornalisti per dar loro notizia d’un attentato in preparazione contro Giancarlo Caselli [procuratore della Repubblica a Palermo] e contro uno dei suoi vice, Scarpinato. Qualcuno insinuò che le segnalazioni sull’attentato, piuttosto vaghe, fossero state con opportuna scelta di tempo enfatizzate per bilanciare l’impatto emotivo che l’odissea di Contrada aveva avuto sull’opinione pubblica. Sulle testimonianze e sulle prove esibite a carico di Contrada non vogliamo pronunciarci: le une e le altre appartengono alla logica dei processi per associazione mafiosa. Uno aveva saputo da un altro che un altro aveva detto, Falcone non poteva soffrire Contrada e aveva promesso «gli metterò i ferri» (ma riferito di seconda mano), il commissario Cassarà lo disistimava (dichiarato dalla vedova), alcuni dirigenti della polizia non lo potevano vedere e altri avevano invece per lui incondizionata stima: insomma un copione che in quelle aule, e con quel genere d’imputati, si ripete con triste monotonia. Non vorremmo trovarci nei panni di chi deve giudicare, e ancor meno in quelli d’un accusato. Ma per Contrada, e anche per Antonino Lombardo – ammesso e non concesso che qualche trasgressione l’abbiano commessa – valgono due considerazioni. La prima è questa: si possono applicare agli uomini della polizia e dei carabinieri, e a maggior ragione a quelli dei servizi segreti, le stesse regole morali che valgono per i comuni cittadini? il campo d’azione di questi uomini sono le fogne. C’è qualcuno capace di rimestare nelle fogne senza sporcarsi le mani e contrarne il fetore? Chi indaga sulla malavita, in tutte le sue espressioni, deve penetrare nei suoi ambienti, dove non si trovano malleverie e protezioni se non a patto di offrirne. È vero che in questo giuoco è facile perdere il senso del limite fino a diventare talvolta il complice, per farselo amico, del nemico: e non escludiamo che questo sia stato il caso di Contrada. Ciò di cui dubitiamo è che il purismo giuridico sia un metro ragionevole per valutare, senza che si commetta un’iniquità in nome della legge, gli uomini cui chiediamo di tuffarsi nel fango per farvi pesca di malavitosi: e i nostri dubbi crescono se il purismo giuridico è avallato non da prove inconfutabili o dalla parola di specchiati galantuomini, ma dalla parola d’altri malavitosi della peggiore specie che possono avere mille e una ragione per incolpare a torto. Sui Contrada devono pronunciarsi, promuovendoli o bocciandoli o cacciandoli o denunciandoli, i loro capi. Se i capi sono incapaci, vengano anche loro cacciati. I Contrada non sono al disopra della legge, ne sono ai margini: quando la legge agisce contro di loro con i suoi strumenti e i suoi criteri, li porta su un terreno che non è quello in cui s’erano dovuti avventurare, magari smarrendo la retta via. La seconda considerazione è semplice: una carcerazione preventiva che duri quanto quella inflitta a Contrada è una barbarie indegna d’un paese che pretende d’essere la culla del diritto, e che sembra avere una gran voglia d’esserne la bara.

Contrada, nessuno paga e Ingroia lo sbeffeggia. L'ex pm che lo accusò nega pure il verdetto della Cassazione: «Tutto falso, è colpevole», scrive Mariateresa Conti, Domenica 09/07/2017, su "Il Giornale". Non poteva essere condannato per un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, poco chiaro prima del 1994, ma è stato condannato e per otto anni, tra carcere e detenzione domiciliare, è stato privato della libertà. La pena, Cassazione dixit accogliendo il dettato della sentenza europea, era «ineseguibile», ma il verdetto è arrivato dopo che è stata eseguita e che lui l'ha scontata. Quella sentenza di condanna appena revocata dalla Suprema corte non doveva avere effetti penali, ma è stato destituito dalla Polizia, ha perso lo stipendio e gli è stato tolto il diritto di voto. Giustizia è fatta. Ma ingiustizia pure. Perché per un Bruno Contrada che ha subìto quanto riassunto sopra non c'è nessuno che paga. Sì, dopo il verdetto europeo del 2015 Contrada ha ricevuto (dallo Stato italiano) 10mila euro solo per i danni morali. Ma chi ha sbagliato come i giudici? Quelli che lo hanno condannato e quelli che hanno dichiarato inammissibile l'applicazione della sentenza europea? E i pm? Nulla. Neanche un centesimo di risarcimento. Neanche un mea culpa. Anzi, estrema beffa, la negazione della realtà. È il caso del nemico giurato di Contrada, l'ex pm Antonio Ingroia, titolare dell'accusa nel processo di primo grado. Laddove, di fronte a un flop così clamoroso dopo 25 anni, sarebbe logico prendere atto, o magari attendere le motivazioni, lui no, va all'attacco. Anche se non è più pm. E sentenzia, irriducibile, con un articolo sul Fatto: Bruno Contrada è colpevole. «Questo punto fermo - scrive - non è stato per nulla intaccato dalla sentenza della Cassazione. È bene che sia chiaro a tutti e che non si cerchi di rovesciare la realtà. Perché, come da abusato copione, l'informazione e la politica ufficiale hanno subito brandito in modo indegno quella sentenza per proclamare l'innocenza di Contrada». Altro che scuse. Ingroia si lancia in una requisitoria, bacchetta Cassazione e Cedu, e avverte: «Si rassegnino quelli che vorrebbero strumentalmente usare la sentenza della Cassazione, come già avevano tentato di fare con la pronuncia della Corte europea, per rimettere in discussione la condanna definitiva di Marcello Dell'Utri». Giustizia è fatta. Ingiustizia pure. Chi sbaglia, di solito, paga. Tranne i pm, in carica o ex. E i giudici. Nemmeno quando le sentenze dicono che no, il reato non c'era, ergo il processo non andava fatto.

Gabrielli restituisce l'onore a Contrada Dopo 10 anni è reintegrato in polizia. Riabilitato l'ex 007 condannato per concorso in associazione mafiosa, scrive Mariateresa Conti, Domenica 15/10/2017, su Il Giornale". Gli anni trascorsi in carcere, otto tra carcerazione preventiva, espiazione della pena e arresti domiciliari, non potranno restituirglieli. Così come nessuno gli restituirà la vita devastata da un calvario giudiziario lungo 25 anni, dall'arresto del '92 sino alla Cassazione del luglio scorso, che ha revocato la condanna in ossequio alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Ma il provvedimento con cui il capo della Polizia Franco Gabrielli adesso ha riabilitato Bruno Contrada cancellando la sua destituzione dalla Polizia, per l'ex numero tre del Sisde vale forse anche più di un'assoluzione. Gli restituisce l'onore. Tanto che la prima cosa che Contrada dice è: «Voglio dedicare questa giornata alla Polizia di Stato». Chiariamo. Gli effetti pratici del reintegro sono pochissimi. Contrada ha 86 anni, è in pensione da ottobre del 1996. Sì, il decreto di revoca del prefetto Gabrielli, sulla base della sentenza del luglio scorso della Cassazione con cui è stata dichiarata ineseguibile la condanna già espiata per intero, riconosce a Contrada «sia agli effetti giuridici sia agli effetti economici e previdenziali» il periodo in cui ha scontato la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, dal 13 gennaio del 1993 al 30 settembre del 1996. E dispone che venga riconosciuto all'ex 007 «l'intero trattamento economico, con interessi e rivalutazione monetaria». Ma al di là delle ricadute economiche per Contrada si tratta di una vittoria morale. Una vittoria tardiva, a Natale saranno trascorsi esattamente 25 anni da quel 24 dicembre del 1992 in cui da numero tre del Sisde Contrada si ritrovò in carcere, accusato di collusioni con i boss. Ma comunque una vittoria, o meglio la cancellazione di quella che Contrada ha vissuto come un'ingiustizia. Ci teneva, l'ex 007, a tornare poliziotto: «Voglio - aveva detto al Giornale a luglio - che sia cancellata la destituzione dalla Polizia. Voglio il riconoscimento del servizio, la restituzione degli oltre 100 encomi che ho ricevuto». E adesso che il reintegro è arrivato è soddisfatto sì, ma ammette: «Certe ferite restano aperte. Quando mi hanno destituito fu una valanga, come se il mondo mi cadesse addosso, mi rifiutai di firmare. Ora non mi sento di brindare. È un tassello». Contrada ha subìto un'altalena di 5 processi tra il '93 e il 2007, quando la condanna è diventata definitiva. Solo nel 2014 la Cedu ha sentenziato che il concorso esterno prima del 1994 non era ben configurato, e che quindi il suo processo era ingiusto. La Cassazione ha impiegato altri tre anni per recepirlo, a luglio. Venticinque anni. Tanti. Troppi per considerarla davvero giustizia.

Contrada, revocata la destituzione dalla polizia, scrive il 14 Ottobre 2017 "Il Giornale di Sicilia”. Il primo effetto della sentenza che ha atteso per 25 anni è arrivato: il capo della Polizia ha revocato la destituzione di Bruno Contrada, ex dirigente della Mobile di Palermo poi passato al Sisde. Un atto dovuto dopo la decisione della Cassazione di revocare la condanna a 10 anni per concorso in associazione mafiosa dell’ex funzionario. «Non c'è assolutamente più modo di riparare all’ingiustizia subita. Le parole lasciano il tempo che trovano. Non si uccide solo col piombo», ha commentato amaro Contrada. «Al prossimo Natale faccio 25 anni che lotto contro calunnie e diffamazioni. Oggi non posso essere felice, né può esserci una festa: c'è la consapevolezza che forse è iniziato il cammino per ristabilire completamente la verità, contro le ingiustizie che da un quarto di secolo ho subito», aggiunge. Il provvedimento del capo della Polizia dà dunque esecuzione alla sentenza della Suprema Corte e revoca la sanzione accessoria alla condanna che agli inizi di luglio la Cassazione stessa ha dichiarato ineseguibile e improduttiva di effetti penali. Nella decisione del capo della polizia si riconosce inoltre all’ex funzionario per il periodo compreso tra il 13 gennaio del 1993, data di decorrenza della destituzione, e il 30 settembre del 1996, giorno dal quale Contrada è andato in pensione, il trattamento economico che gli sarebbe spettato. «È un giorno importante per il nostro assistito, che dopo tanti anni vede restituita la sua onorabilità e viene reinserito tra i prefetti della Polizia, ma più in generale per tutti, perché la forza del diritto prevale sulle ingiustizie. - dicono i legali di Contrada, gli avvocati Stefano Giordano e Vittorio Manes - Esprimiamo sincero apprezzamento e stima nei confronti del Capo della Polizia dottor Gabrielli per la sollecitudine e la disponibilità dimostrata, un esempio dell’Italia che funziona». Bruno Contrada, per anni poliziotto in prima linea contro la mafia a Palermo, venne arrestato con l’accusa di concorso in associazione mafiosa il 24 dicembre del 1992. In primo grado fu condannato a 10 anni, ma la sentenza fu ribaltata in appello e il funzionario venne assolto. L’ennesimo colpo di scena ci fu in Cassazione, quando l’assoluzione fu annullata con rinvio e il processo tornò alla corte d’appello di Palermo che, il 25 febbraio del 2006, confermò la condanna a 10 anni. La sentenza divenne definitiva nel 2007. Bruno Contrada, che aveva subito una lunga custodia cautelare in carcere, tornò in cella. Il funzionario, tra il carcere e i domiciliari per motivi di salute, ha scontato tutta la pena. Due anni fa, però, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo condannò l’Italia a risarcire il poliziotto, nel frattempo sospeso anche dalla pensione, ritenendo che Contrada non dovesse essere né processato né condannato perché all’epoca dei fatti a lui contestati il reato di concorso in associazione mafiosa non era «chiaro, né prevedibile». L’ultimo tentativo, quello dell’incidente di esecuzione, è stato fatto dall’avvocato Stefano Giordano che ha chiesto alla corte d’appello di Palermo, l’anno scorso, proprio alla luce ella sentenza europea, di revocare la condanna. La corte dichiarò inammissibile il ricorso. La Cassazione, a cui Giordano si è rivolto, gli ha dato ragione.

Caso Bruno Contrada, Boncoraglio: “La squadra Mobile di Palermo era una macchina da guerra”. Boncoraglio: “Quattordici sono stati i funzionari che per 14 anni si sono avvicendati alla Squadra mobile. Quattordici sono state le ore di lavoro ininterrotte, ogni giorno, che all’epoca non davano possibilità di riposo settimanale, né di rientri e neppure di festivi perché il criminale non aspetta certo il rientro delle pattuglie per agire.”, scrive Chiara Rai il 13 ottobre 2017 su "L'Osservatore d'Italia". Boncoraglio: “È umano pensare, ma che cosa abbiamo fatto allora? La cosa più importante che era quella di eliminare il tarlo, non l’abbiamo saputa fare e allora tutti a casa!”. Ospite in studio nella puntata di giovedì 12 ottobre di Officina Stampa, per commentare il terzo episodio dedicato al caso di Bruno Contrada, è stato il Prefetto Vincenzo Boncoraglio, un uomo dello Stato che ha ricoperto le più alte cariche e che ha iniziato la sua carriera nella Polizia di Stato nel ’73. Un inizio non certo passato in sordina perché Boncoraglio è entrato subito alla Questura di Palermo ed assegnato alla Squadra Mobile con il grado di Commissario. Poi la promozione a vice questore aggiunto e ancora alla direzione di commissariati quali Mondello e Zisa. Insomma dal ’73 all’85 è stata la lunga permanenza di Boncoraglio a Palermo in un periodo storico dove a capo della squadra mobile ci sono stati due grandi uomini: Boris Giuliano e Bruno Contrada. “Noi all’epoca giovani funzionari, eravamo animati dall’amore per la polizia giudiziaria – ha detto Boncoraglio – dalla volontà di dedicarsi a questa meravigliosa attività che presenta tanti rischi ma il nostro sogno era di fare un salto in quella che si presentava come una vera e propria palestra dove si praticava lo sport della polizia giudiziaria. Perché – prosegue il Prefetto – o si è appassionati sino a sacrificare i valori più importanti della propria vita coinvolgendo anche la famiglia o si può continuare a esser funzionari di polizia dedicati ad altre attività importanti e fondamentali ma che non rientrano nella “Polizia giudiziaria Doc”. E noi, abbiamo avuto la fortuna di essere guidati da due pilastri della polizia giudiziaria italiana con risvolti internazionali: Contrada e Giuliano. Per noi quattordici funzionari che lavoravamo tante ore al giorno loro erano dei fari”. Boncoraglio cita ancora il numero 14, ricordato anche da Contrada nell’intervista realizzata a Palermo da Chiara Rai: “Quattordici sono stati i funzionari che per 14 anni si sono avvicendati alla Squadra mobile. Quattordici sono state le ore di lavoro ininterrotte, ogni giorno, che all’epoca non davano possibilità di riposo settimanale, né di rientri e neppure di festivi perché il criminale non aspetta certo il rientro delle pattuglie per agire. Dopo i fatti che hanno colpito il nostro capo Bruno mi chiedo ma come abbiamo fatto noi funzionari sia di primo pelo che di grande esperienza, i sottufficiali, la squadra Mobile che contava quasi 300 unità, in tutte quelle ore di lavoro e convivenza a non aver percepito un rumor, un qualcosa che potesse parlare negativamente di Bruno perché magari un po’ troppo stretto all’uno o all’altro clan. Siamo stati ciechi e sordi noi che per quattordici lunghi anni non abbiamo saputo vedere o sentire se davvero qualcosa non andava? Io mi rifiuto categoricamente di pensare che quattordici sbirri, il termine lo cito in maniera esaltativa, non abbiano percepito neppure una flebile indiscrezione sulla presunta corruzione o contiguità del nostro capo agli ambienti mafiosi. È la prima volta che mi capita e sono contento di fare questa considerazione. Allora è umano pensare, ma che cosa abbiamo fatto allora? La cosa più importante che era quella di eliminare il tarlo, non l’abbiamo saputa fare e allora tutti a casa!”. Erano anni difficili quelli vissuti da Boncoraglio e gli altri funzionari di Polizia a Palermo: “Lo ha detto anche Bruno – Contrada Ndr. – nell’intervista – prosegue Boncoraglio – noi i pentiti non li avevamo in quel tempo, non esistevano uffici informatici o pilastri legislativi che consentissero il sequestro di beni, una consegna controllata di stupefacente, degli arresti simulati. Avevamo armi spuntate, era già grasso che colava se un confidente ci diceva qualcosa in cambio di avere fatto un favore, una raccomandazione all’ufficio patenti che gli dessero al più presto possibile il permesso di guida. Insomma, non c’erano ne quattrini ne soldi ma c’era un ufficio che Boris Giuliano e Bruno Contrada seppero lanciare al livello europeo, quella squadra Mobile di Palermo era una macchina da guerra e tutti i giornalisti erano interessati a far emergere come operava questa macchina”. Emozionante l’episodio che ricorda Boncoraglio legato alla data del 6 ottobre del ‘79: “Io – racconta il Prefetto – in qualsiasi parte mi trovo, ogni 6 ottobre, faccio gli auguri a Bruno Contrada per San Bruno. Anche il 6 ottobre del ’79 lo chiamai, era un modo per esorcizzare un episodio cruento successo a Palermo in una gioielleria: sventai una rapina facendo fuori uno dei rapinatori e recuperando il bottino. Sparai un colpo che uscendo dalla zona occipitale del cranio del malvivente colpì anche il secondo rapinatore al braccio. Io fortunatamente rimasi illeso e c’erano invece tantissime condizioni che hanno messo a serio rischio la mia vita. Ebbene, devo a Bruno Contrada se con una grafia e un contenuto di una lettera che io conservo gelosamente riuscì a informare e a raccontare in maniera dettagliata i fatti che mi portarono ad avere una promozione al merito straordinario. Devo tanto a Bruno e con me tanti altri funzionari che hanno avuto questa vicinanza affettuosa del nostro capo che non era soltanto giustificata da lavoro, pattuglie, ma soprattutto l’amalgama che teneva noi altri era il rispetto reciproco, il coinvolgimento e la condivisione di sacrifici con tutti i nostri colleghi e la certezza di avere questo punto di riferimento che prima per noi era Bruno Contrada e successivamente Boris Giuliano. Bruno Contrada se eventualmente si fosse sporcato o mascariato le mani, come si dice in gergo, per il suo lavoro non è minimamente imputabile di nulla e io essendo stato un testimone della difesa insieme ad altri 300 funzionari dello Stato ho sempre ritenuto che l’episodio potesse capitare a chiunque di noi. Bruno Contrada è un uomo dello Stato, un grande amico e un grande insegnante”. Chiara Rai

Mafia, dopo la sentenza Contrada esultano i colletti bianchi di Cosa nostra. Legale Dell’Utri: “Precedente importante”. La decisione della prima sezione della Suprema corte rischia di spazzare via un quarto di secolo di condanne per concorso esterno. Chiunque sia stato ritenuto colpevole per fatti precedenti al 1994 può sperare di vedere annullata la sua condanna. A partire dall'ex senatore di Forza Italia. È la prima volta nella storia che una sentenza europea incide direttamente su una sentenza italiana passata in giudicato, scrive Giuseppe Pipitone il 7 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso ci sperano anche gli altri. Sì, perché la sentenza della corte di Cassazione su Bruno Contrada apre una crepa enorme nelle condanne definitive emesse per concorso esterno a Cosa nostra. O almeno la apre per quelle che si riferiscono a fatti commessi prima del 1994. La decisione della Suprema Corte, in pratica, recepisce quanto deciso due anni fa dalla Corte Europea dei diritti umani sul caso dell’ex dirigente dei Servizi Segreti. È la prima volta nella storia – ragionano gli esperti di diritto – che una sentenza europea incide direttamente su una condanna italiana passata in giudicato, dichiarandola nulla. L’esultanza di Dell’Utri – E mentre magistrati e giuristi attendono di leggere le motivazioni della Cassazione, il primo ad esultare è l’avvocato di Marcello Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia condannato a sette anni di carcere per la stessa fattispecie di reato contestata a Contrada. “Quella emessa dalla Cassazione nei confronti di Bruno Contrada è una sentenza di grande importanza che potrebbe segnare un precedente per molti altri casi. Noi, come legali di Marcello Dell’Utri, valuteremo ora i passi da fare”, dice l’avvocato Giuseppe Di Peri. Consapevole che il suo assistito è stato condannato per fatti commessi fino al 1992, infatti, il legale palermitano aveva già provato a giocarsi la carta europea due anni fa. Il reato inventato da Falcone – Era l’aprile del 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani aveva stabilito che l’ex superpoliziotto non andava condannato per concorso esterno perché all’epoca dei fatti contestati (che vanno dal 1979 al 1988) il reato “non era sufficientemente chiaro”. Lo sarebbe diventato solo nel 1994 con la sentenza Demitry, che tipizzava per la prima volta quella inedita fattispecie nata dall’unione dell’articolo 110 (concorso) e 416 bis (associazione mafiosa) del codice penale. A “inventarsi” quel reato al tempo del pool antimafia di Palermo era stato Giovanni Falcone: occorreva un modo, infatti, per perseguire i colletti bianchi che contribuiscono continuativamente alla crescita dell’associazione mafiosa senza mai farne parte a livello organico. Il dispositivo della Corte – E ora sono proprio quei colletti bianchi a festeggiare la decisione della corte di Cassazione, che ha annullato la condanna per Contrada. Quelle cinque righe del dispositivo emesso dalla prima sezione della Corte di Cassazione nella tarda serata del 6 luglio 2017, infatti, rischiano di spazzare via un quarto di secolo di condanne per concorso esterno. “La corte suddetta annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dichiara ineseguibile e improduttiva di effetti penali la condanna emessa nei confronti di Contrada Bruno”, scrivono i giudici polverizzando i dieci anni di carcere inflitti all’ex dirigente di polizia nel 2007, alla fine di un tortuoso iter giudiziario. Contrada, dopo una lunga custodia cautelare in carcere, tornò in cella e scontò tutta la pena fino al 2012. A livello pratico, dunque, gli effetti della pronuncia si ripercuoteranno solo sull’aspetto pensionistico, dato che il superpoliziotto era stato sospeso dalla pensione dopo la condanna. “Incensurato”. “Fatti restano” – “I fatti rimangono fatti, i rapporti di grave collusione con la mafia rimangono accertati nella loro esistenza e gravità. Già questo rende merito al lavoro della procura di Palermo e dei giudici che li hanno accertati”, commenta l’ex pm di Palermo Nino Di Matteo, ora alla Dna. “Di fatto con questa sentenza il mio cliente è incensurato perché tutti gli effetti penali della condanna sono stati revocati”, precisa l’avvocato Stefano Giordano. Per la verità, infatti, né la Cassazione – e nemmeno la Cedu – mettono in discussione i fatti commessi: quelli sono da considerarsi certi sia per Contrada che per gli altri. La sentenza di Strasburgo, infatti, motivava la sua decisione dell’aprile del 2015 con il principio giuridico contenuto nell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani. “Nulla poena sine lege”: nessuna pena senza una legge che la preveda. L’errore dei giuristi italiani alla Cedu – Un principio che i giudici di Strasburgo hanno potuto estendere al caso Contrada solo grazie a un errore dei rappresentati dello Stato Italiano, i giuristi Ersilia Spatafora e Paola Accardo. Tra le loro osservazioni, infatti, i due rappresentanti del nostro ministero degli Esteri non hanno obiettato nulla sulla premessa dei giudici di Strasburgo, che definiva il concorso esterno come “creazione della giurisprudenza”.  E invece il reato di concorso esterno ha “un’origine normativa”, perché scaturisce dalla combinazione tra la norma incriminatrice (l’articolo 416 bis) e l’articolo 110 che prevede il concorso nei i vari reati. Senza quella contestazione di merito, quindi, la Cedu ha potuto facilmente condannare l’Italia per il caso Contrada ravvisando la violazione dell’articolo 7 della Convenzione Europea. Un vero e proprio “autogol” dei giuristi italiani, come lo ha definito Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera il 12 agosto del 2015. La pezza della Cassazione – Alla sentenza Cedu, infatti, la Cassazione aveva già provato a mettere una pezza proprio in quei giorni. Alcuni condannati per concorso esterno al processo Infinito avevano fatto ricorso alla Suprema corte invocando proprio la decisione di Strasburgo su Contrada. La loro istanza era stata respinta, però, dalla II sezione penale della Cassazione che aveva confutato i colleghi europei. “La stessa Corte Costituzionale – scriveva la corte presieduta da Antonio Esposito – ha ribadito che il concorso esterno non è, come postulato dalla Corte Europea dei diritti umani nella citata sentenza Contrada, un reato di creazione giurisprudenziale, ma scaturisce dalla combinazione tra l’articolo 416-bis e il 110″. Parole che in pratica cancellavano quanto stabilito dalla Cedu su Contrada. Esultano i colletti bianchi – Ma che adesso vengono neutralizzate da un’altra sezione della Suprema corte, la prima, che ha appunto annullato la condanna per l’ex numero 3 del Sisde lanciando un‘ancora di salvezza a chi ha il medesimo curriculum giudiziario di Contrada. Come Dell’Utri, appunto, o come Ignazio D’Antone, l’ex questore condannato in via definitiva per concorso esterno nel 2004: i fatti contestati al poliziotto sono stati commessi a partire dal 1983, undici anni prima che il reato venisse tipizzato. D’Antone ha scontato tutti gli otto anni di pena ed è stato scarcerato dal 2012. Liberi sono anche gli ex Dc Franz Gorgone ed Enzo Inzerillo, gli unici politici insieme a Dell’Utri ad essere stati riconosciuti colpevoli in via definitiva per concorso esterno. Il primo, ex consigliere regionale siciliano, è stato condannato a sette anni di carcere nel 2004: era accusato di aver avuto contatti con vari mandamenti mafiosi palermitani ai quali garantiva favori in cambio di appoggio elettorale. Il secondo, ex senatore, nel 2011 ha visto diventare definitiva la condanna a 5 anni e 4 mesi con l’accusa di essere stato a disposizione di Giuseppe Graviano. Se parla Graviano – Lo stesso boss di Brancaccio citato più volte nel processo Dell’Utri, che proprio di recente è stato intercettato in carcere mentre parlava a ruota libera, tirando in ballo Silvio Berlusconi come presunto mandante delle stragi del 1992e 1993. “Berlusca – dice il boss intercettato in alcuni colloqui – mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa. Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”.  “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”, ha raccontato, invece, il pentito Gaspare Spatuzza riferendosi a un incontro del 21 gennaio 1994. Pochissimi giorni prima che i Graviano venissero arrestati. E che Silvio Berlusconi vincesse le elezioni.

Sentenza Contrada, non solo Dell’Utri. Da Nicola Cosentino all’ex sindaco Cito: gli altri che adesso sperano. La data spartiacque - La sentenza a sezioni unite del 1994 sana l’indecisione normativa, scrive Giuseppe Lo Bianco l'8 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Contrada canta vittoria a casa sua e Marcello Dell’Utri intravede un orizzonte di libertà oltre le sbarre di Rebibbia: l’intuizione giuridica del giovane avvocato Stefano Giordano, figlio del presidente del maxiprocesso a Cosa nostra, fatta propria dalla Cassazione, alimenta improvvisamente le speranze di decine di politici, professionisti e funzionari condannati per concorso esterno in associazione mafiosa, pronti ad utilizzare come precedente la decisione della Suprema Corte che salva l’impianto processuale ma cancella la pena, ammettendo per la prima volta che la giurisdizione europea modifichi un giudicato penale, a causa dell’indecisione normativa del reato di 110 e 416 bis, poi sanata dalla sentenza a Sezioni Unite Demitry nel ’94. “Il verdetto si applica a Contrada e non ai suoi fratelli minori, come Dell’Utri” precisa l’avvocato Giordano, mentre i legali del senatore di Forza Italia, che in questi giorni si definisce “prigioniero politico”, hanno probabilmente già iniziato a studiare il dispositivo in attesa di leggere le motivazioni. Saranno pronte tra qualche mese in vista della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo a cui anche Dell’Utri ha da tempo fatto ricorso nonostante la contestazione del reato all’ex senatore risalga al gennaio ’96, ben due anni dopo della pronuncia Demitry che mise fine alle interpretazioni giurisprudenziali, almeno per ciò che riguardava la sua stabilità. “Non c’è dubbio che si tratta di casi simili, ma non bisogna dimenticare che il concorso esterno viene utilizzato già negli anni ’80, mentre l’aggravante disciplinata dall’articolo 7, ovvero il favoreggiamento mafioso, arriva nel 1991: tra i due reati che sono spesso entrati in conflitto, prevale a livello cronologico proprio il concorso” spiega l’avvocato Ingroia, ex pubblico ministero delle inchieste Contrada e Dell’Utri. A prescindere dalla data spartiacque del ’94 sono in tanti i condannati per concorso esterno ad affilare le armi giuridiche dopo la pronuncia della Cassazione, sperando in una cancellazione della pena: dall’ex collega di Contrada Ignazio D’Antone, ex capo della Criminalpol della Sicilia occidentale, condannato in via definitiva per concorso esterno nel 2004: i fatti contestati al poliziotto risalgono al 1983, undici anni prima che il reato venisse stabilizzato. D’Antone ha scontato la pena così come gli ex dc Franz Gorgone ed Enzo Inzerillo, tra i pochi uomini politici insieme a Dell’Utri ad essere stati condannati definitivamente per concorso esterno. Già deputato regionale in Sicilia, Gorgone è stato condannato a sette anni di carcere nel 2004, per l’ex senatore Inzerillo, la condanna a 5 anni e 4 mesi è diventata definitiva nel 2011 per i suoi strettissimi rapporti con il boss Giuseppe Graviano, del quale era “a disposizione”. Spera anche l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, condannato in primo grado a nove anni di carcere, e il senatore Pino Firrarello, suocero del sottosegretario Giuseppe Castiglione coinvolto nell’inchiesta del Cara di Mineo, e l’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito. La decisione della Cassazione adesso offre a tutti una fiammella di speranza per vedere scontata o cancellata la pena, ma solo quella perché, come dice il pm Nino Di Matteo, “i fatti rimangono fatti, i rapporti di grave collusione con la mafia rimangono accertati nella loro esistenza e gravità. Già questo rende merito al lavoro della procura di Palermo e dei giudici che li hanno accertati”.

Marcello Dell'Utri: "Sono un prigioniero politico". Dell'Utri: "Io voglio essere trattato da persona normale, non da politico. Sono certamente un prigioniero politico", scrive Luca Romano, Mercoledì 5/07/2017, su "Il Giornale". Sono queste le parole di Marcello Dell' Utri intervistato nel carcere di Rebibbia da David Parenzo per la trasmissione In Onda su La7. L'ex senatore, condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, di Berlusconi dice: "E' un fenomeno, ha sette spiriti come i gatti, non lo batte nessuno. Un'intesa tra Berlusconi e Renzi sarebbe auspicabile ma Paese non la capirebbe". Poi Dell'Utri è tornato a parlare della sua situazione in carcere: "Per le patologie cardiovascolari che ho c'è una palese incompatibilità. Io voglio essere trattato da persona normale, non da politico. C'e' un pregiudizio, sono un detenuto che viene dalla politica. Sono certamente un prigioniero politico". Infine su quanto detto da Dell'Utri dal carcere è intervenuto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "I prigionieri politici in uno stato di diritto non esistono. Il senatore Dell’ Utri è stato processato con tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Non c’è stata nessuna rappresaglia di carattere politico".

Il diritto vale anche per Marcello Dell’Utri? Scrive Piero Sansonetti l'1 luglio 2017 su "Il Dubbio". Marcello Dell’Utri è anziano. I medici dicono che la sua salute non è compatibile col carcere. Il reato che ha commesso non sta nel codice penale. Marcello Dell’Utri deve uscire di prigione. Perché? Per un mucchio di ragioni. Perché è malato, innanzitutto, e rischia di morire. Perché è anziano. Perché è stato condannato a una lunga pena sulla base di un reato che non esiste nel codice penale. Perché il codice penale dice che nessuno può essere condannato se non per un reato espressamente previsto dalla legge. Perché la Corte Europea ha accertato che quantomeno fino al 1992 il reato per il quale è stato condannato Dell’Utri non esisteva nemmeno in giurisprudenza, e i fatti ai quali si riferisce la condanna sono anteriori al 1992. Servono altre spiegazioni? No, la detenzione di Dell’Utri è un abuso. Un abuso piuttosto clamoroso. Il diritto vale anche per Dell’Utri? O è meglio che crepi in cella? Però quasi nessuno se ne occupa per la semplice ragione che molto prima che i tribunali emettessero le loro sentenze, il processo mediatico aveva già largamente condannato l’ex senatore. Per quale reato? I tribunali mediatici ne sanno poco di “concorso esterno in associazione mafiosa” (è questo il reato, non previsto dal codice, per il quale dell’Utri è detenuto) e quindi hanno trovato reati più semplici e comprensibili: avere fondato Publitalia, e poi avere fondato Forza Italia, essere stato l’uomo forte di Berlusconi e infine – non ultimo – essere siciliano. E quindi probabilmente mafioso. Questi fatti hanno creato un alone di colpevolezza intorno a lui, che è quasi impossibile disperdere. Chi prova a difendere Dell’Utri e i suoi diritti – in quanto detenuto, in quanto cittadino, in quanto persona – si trova immediatamente addosso l’accusa di amico dei mafiosi. Dell’Utri è in prigione da vari anni. Più di tre. I medici che lo hanno visitato hanno accertato che le condizioni sue di salute, in particolare una cardiopatia ischemica cronica, non sono compatibili con la vita in carcere. In aprile, i legali di Dell’Utri hanno presentato una nuova istanza al tribunale di sorveglianza per chiedere la detenzione domiciliare. La risposta è stata la fissazione dell’udienza al 21 settembre. Cinque mesi di tempo per aspettare cosa? Vedere se nel frattempo l’imputato muore e risolve il problema? Le prigioni italiane pullulano di casi di ingiustizia. Tante persone sconosciute stanno in carcere e non dovrebbero (sebbene i giornali, e parte della magistratura, insistano sul concetto che le celle sono vuote e che non esiste la certezza della pena). Molto spesso non è la certezza della pena, che manca, ma la certezza del reato. E allora perché indignarsi proprio per Dell’Utri? Non è uno come un altro? Si, è uno come un altro, ed esattamente per questo motivo io protesto. Perché Dell’Utri è al tempo stesso vittima – diciamo così – di un errore (anzi, di tanti errori), come molti altri, ma è anche vittima “privilegiata” di una sorta di accanimento. È un errore non applicare a lui la sentenza della Corte europea che lo scagiona. È un errore non tenere conto della sua età avanzata (ha quasi ottant’anni, proprio come quel detenuto che è morto giorni fa a Parma, ed era stato scarcerato solo quando era ormai in agonia), è un errore rinviare a settembre la decisione del tribunale sulle sue condizioni di salute. Ma è molto probabile che alcuni di questi errori siano stati commessi consapevolmente. Non dico con spirito di persecuzione, non credo. Dico sotto l’influenza dell’opinione pubblica, dell’antimafia professionale, del popolo viola diventato grillino, di Rosy Bindi e tanti altri. Cioè in una condizione di vera e propria intimidazione, nella quale la foga “giustizievole” supera il diritto, lo prevarica e l’umilia. A questa foga si oppongono forze molto esili. Ha alzato la sua voce il garante dei detenuti, Mauro Palma, ha alzato la sua il senatore Luigi Manconi, esponente molto combattivo della sinistra e – rara avis – esponete garantista. Il quotidiano Il Tempo ha avviato una raccolta di firme. E poi? I partiti politici osano sfidare il senso comune? Temo di no. È triste, tutto questo, molto triste. Triste per la sorte di Dell’Utri, sì, ma non solo.

«Il concorso esterno prima del '94 non c'era» Il caso gemello che dà speranza a Dell'Utri. Le vicende sono simili. La difesa dell'ex senatore: «Buona notizia, ma niente illusioni», scrive Stefano Zurlo, Sabato 8/07/2017 su "Il Giornale". Due casi gemelli, ma non per la giustizia italiana. La revoca della sentenza Contrada rappresenta una buona notizia anche per Marcello Dell'Utri, ma è presto, molto presto per cantare vittoria. Anzi, la strada si annuncia ancora lunga, in un logorante gioco dell'oca, fra ricorsi, bocciature, nuove istanze. «Sulla carta - spiega il professor Tullio Padovani, già ordinario di diritto penale alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa - la condanna di Dell'Utri dovrebbe essere cancellata subito, oggi stesso. Infatti nel momento in cui la Corte di Strasburgo ha fatto tabula rasa del verdetto Contrada ha affermato un principio generale che riguarda tutti quelli che si trovano nella sua posizione». E non c'è dubbio che le due storie siano perfettamente sovrapponibili: identico il reato contestato, il concorso esterno in associazione mafiosa, ma soprattutto coincidono le date. I fatti in questione non vanno oltre il 1992, un dettaglio decisivo che accomuna le due vicende e le mette, almeno sul piano logico, sotto l'ombrello di Strasburgo: la Corte ha infatti stabilito che prima del 1994 il reato non era né chiaro né prevedibile, dunque Contrada non doveva essere processato e tantomeno condannato. «Un principio di civiltà - prosegue Padovani - che vale per l'ex dirigente dell'intelligence, per l'ex parlamentare, per chiunque altro». Ma qui cominciano le frenate, i distinguo, i cavilli: per la giustizia italiana i due casi non sono cosi uguali e certi automatismi non scattano. Ci sono voluti anni perché a Contrada venissero riconosciuti i suoi diritti, anche Dell'Utri sta seguendo un percorso accidentato e irto di ostacoli. «Ci sono questioni procedurali - continua Padovani - con sconcertanti verdetti che si contraddicono l'un l'altro, e poi c'è un messaggio che filtra fra le righe delle diverse pronunce: Dell'Utri non è il fratello di Contrada. Uno può essere riabilitato, l'altro no». Almeno per ora. Dell'Utri ha chiesto aiuto a Strasburgo ma la Corte è sommersa dai dossier tricolori e ha un arretrato pauroso. La partita si gioca in Italia, fra la Sicilia e la Capitale. Finora tutte le porte si sono chiuse, ora la vittoria di Contrada dà una nuova chance al fondatore di Publitalia, in cella a Rebibbia da tre anni e con una pena complessiva di 7 anni. «Anzitutto - fa il punto lo studioso che lo assiste - per scrupolo chiederemo la revisione a Caltanissetta, anche se questo strumento non ci pare il più adatto. Ma soprattutto attraverso il cosiddetto incidente di esecuzione proporremo ancora la revoca della condanna alla corte d'appello di Palermo. Finora ci hanno sempre risposto picche ma, batti e ribatti, può darsi che alla fine ci ripensino». Se Palermo dovesse rimanere sulla linea del no, si andrà in Cassazione, come Contrada che alla fine ce l'ha fatta. «Inutile farsi illusioni - conclude il luminare - ci vorranno ancora mesi, forse anni. Contrada ha scontato tutta la pena prima che le sue ragioni fossero ascoltate, forse Dell'Utri ha in tasca qualche frammento di verità quando sostiene di essere un prigioniero politico». Che intanto è in condizioni di salute sempre più precarie. E proprio per questo potrebbe essere spedito a casa dai medici prima che dai magistrati.

Bruno Contrada innocente. E Marcello Dell’Utri? Scrive Errico Novi l'8 luglio 2017 su "Il Dubbio". La giustizia ha i suoi tempi. Certo. Andatelo a dire a un uomo di quasi 86 anni che ne ha trascorsi 10 tra carcere militare e domiciliari. Quell’uomo esiste, si chiama Bruno Contrada e vi risponderà come ha fatto ieri: «Ventiquattr’ore fa la Cassazione ha annullato senza rinvio la mia condanna a dieci anni, che era stata emessa dalla Corte d’Appello nel 2006, quindi non sono più colpevole… ma io lo dico da 25 anni che sono innocente». Chiaro? C’è voluto un quarto di secolo di supplizi giudiziari perché fosse riconosciuta l’innocenza dell’ex numero 2 del Sisde. E ci sono voluti due gradi di giudizio affinché la giurisdizione italiana recepisse la pronuncia emessa dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo il 14 marzo 2015. Secondo i giudici di Strasburgo, Contrada era stato condannato in via definitiva per un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, che all’epoca dei fatti contestati ( tra il 1979 e il 1988) non era definito con chiarezza dal diritto italiano, quindi l’ex poliziotto non poteva essere processato né punito; l’altro ieri la Suprema corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Palermo nell’ottobre 2016 aveva dichiarato inammissibile l’istanza di revoca della condanna del 2006, presentata dall’avvocato Stefano Giordano. Secondo il dispositivo della Cassazione, la sentenza emessa 11 anni fa dai giudici di Palermo è «ineseguibile e improduttiva di effetti penali». Vuol dire tra le altre cose che il sistema giudiziario italiano riconosce il diritto di Contrada a ottenere un maxi risarcimento per ingiusta detenzione. E, quasi certamente, anche il pagamento degli emolumenti, pensione compresa, a cui avrebbe avuto diritto come servitore dello Stato in tutti questi anni. «Chiederemo il reintegro in Polizia», annuncia infatti il suo legale. Sentenza rivoluzionaria. Perché sancisce anche nel diritto nazionale che non si può essere condannati per concorso esterno in associazione mafiosa in virtù di fatti risalenti a prima del 1994. E perché, quindi, si spalanca la possibilità di revoca della condanna anche per Marcello Dell’Utri: stesso reato contestato e analoga impossibilità di contestarlo, perché anche per lui i fatti sono antecedenti al 1994, anno in cui la giurisprudenza definì il reato. Certo, Contrada ha potuto agire con l’incidente di esecuzione sulla base di una pronuncia europea relativa al suo specifico caso. E non esiste alcun automatismo, rispetto all’applicabilità ad altre vicende giudiziarie, del principio sancito nel 2015 da Strasburgo per Contrada. Ma la possibilità che la storica pronuncia della Cassazione possa riverberarsi anche sul caso di Dell’Utri non è così remota. D’altronde le sezioni unite hanno sicuramente stabilito che se la Corte europea sancisce l’inapplicabilità di una determinata fattispecie penale a fatti di un certo periodo, tale inapplicabilità deve determinare la revoca della condanna inflitta in Italia. Del tutto ragionevole ma non tecnicamente scontato. Contrada lo sa. «Ero mentalmente predisposto ad avere l’ennesima delusione, non ero psicologicamente preparato alla revoca della condanna: non credevo più di avere giustizia», dice ora l’ex 007. Non nasconde la commozione. «Dopo 25 anni di sofferenza, mezzo secolo di dolore, sapendo di essere innocente e di avere servito con onore lo Stato, le istituzioni e la patria, arriva finalmente l’assoluzione, dall’Italia e dall’Europa», commenta a caldo. Ringrazia la moglie «che mi è stata sempre vicino». Ripete di essersi vista «devastata la vita», ma anche che «la dignità non me l’hanno mai tolta». L’ex numero 2 del Sisde quasi non ci crede ma è lucidissimo quando nel primo pomeriggio accoglie i cronisti insieme con il suo difensore. E spiega: «Non ho mai pensato di fare cadere le colpe sugli altri, amici o nemici che fossero». Poi descrive il carcere, «lo stridore della chiave nella serratura e il rumore del blindato che mi chiudeva in una cella: quello è stato un momento che non auguro neppure al mio più acerrimo nemico». Spiega che «per avere un’idea di cosa è la sofferenza del carcere bisogna averla provata: non c’è nessun trattato o libro che può descriverla». L’altro suo difensore, il professore dell’università di Bologna Vittorio Manes, evoca il principio sancito dalla pronuncia di Strasburgo: «Al momento dei fatti la legge italiana non era chiara, né certa né prevedibile, e la garanzia della chiarezza e prevedibilità della legge penale è un diritto fondamentale, che vale per tutti». Ma il pm Nino Di Matteo non la pensa così: a suo giudizio i fatti contestati continuano a rappresentare «rapporti di grave collusione con la mafia». Più o meno contemporaneamente chiedono a Contrada cosa farebbe se incontrasse Ingroia, altro suo accusatore: «Niente, mi limiterei a cambiare marciapiede». In realtà per l’ex 007 il problema della prevedibilità del rilievo penale dei suoi comportamenti non si pone neppure, perché, dice, «quando sono stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel 1996, dichiarai che qualora avessi commesso quei fatti avrei meritato non 10 anni di carcere ma la fucilazione alla schiena per alto tradimento. E oggi lo ribadisco: dico al mondo intero e di fronte alla mia coscienza che io quei fatti non li ho commessi, sono tutte invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato».

«Felici per Contrada. Ora liberate Dell’Utri, scrive Paola Sacchi l'8 luglio 2017 su "Il Dubbio".  Intervista con Giuseppe Di Peri, avvocato dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, tuttora recluso nel carcere romano di Rebibbia. «È una sentenza importantissima. Ora valga anche per Marcello Dell’Utri quello che è stato deciso per Bruno Contrada». Parla con Il Dubbio Giuseppe Di Peri, avvocato dell’ex senatore di Forza Italia, tuttora recluso nel carcere romano di Rebibbia.

Avvocato, cosa farete dopo che la Cassazione ha revocato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa all’ex numero due del Sisde dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo si era pronunciata contro un processo per un reato che all’epoca dei fatti contestati, prima del ’ 94, non era previsto? Non è la stessa situazione di Dell’Utri?

«Addirittura Dell’Utri è stato condannato per fatti risalenti a prima del ’ 92. Intanto io sono contento per Contrada che finalmente ha avuto un riconoscimento anche dalla giurisdizione italiana di quello che aveva stabilito la Corte europea. La nostra situazione è assolutamente identica dal punto di vista giuridico, anzi oserei dire più vantaggiosa».

Perché?

«Le contestazioni che vengono fatte a Dell’Utri valgono fino al 1992, quindi addirittura due anni prima della sentenza che stabilisce lo spartiacque tra la configurabilità del concorso esterno oppure no».

E però Dell’Utri continua a restare in carcere e in gravissime condizioni di salute.

«Purtroppo. La segregazione carceraria è ancora più gravosa, più penosa proprio perché incidono le sue condizioni di salute. Il dott. Dell’Utri ha avuto quattro stent cardiaci e ha avuto altri problemi, è sicuramente una condizione di salute incompatibile con le condizioni carcerarie. Questo lo ha acclarato a chiari toni sia il direttore sanitario del carcere di Rebibbia, quindi persona che deve verificare le condizioni dei detenuti, sia il garante dei detenuti stessi che è una figura istituzionale».

Torniamo alla sentenza Contrada. In che misura può aiutare il suo assistito?

«Finalmente Contrada ha avuto un riconoscimento pieno da parte della Cassazione. E’ stato acclarato che bisogna dar luogo alle decisioni della Cedu e quindi è stata dichiarata priva di effetti giuridici la sentenza. Anche nei nostri confronti non potrà che essere acclarata la stessa cosa».

Qualche differenza però sui tempi c’è?

«Sì, perché noi abbiamo fatto un ricorso che è stato dichiarato ammissibile dalla Cedu e siamo in attesa di fissazione dell’udienza, mentre al povero Contrada gliel’hanno decisa dopo 10- 15 anni quando lui purtroppo aveva già scontato tutta la pena. Non vorremmo che questo accadesse anche a noi. Dell’Utri rischia di eseguire per intero una sentenza che la Cassazione ha definito priva di effetti giuridici in un caso assolutamente identico. Ha ancora oltre due anni da scontare, ne ha scontati già tre e in una situazione penosissima perché le condizioni di salute hanno aggravato il patema della segregazione carceraria».

Il 13 luglio è atteso il pronunciamento del Tribunale del riesame, precedentemente fissato a settembre, sulla compatibilità della condizione di salute con la detenzione.

«Noi speriamo che il collegio peritale che verrà nominato prenda atto delle sue gravi condizioni di salute».

La campagna fatta dal quotidiano Il Tempo e prima ancora da Il Dubbio, il cui direttore Sansonetti ha chiesto la grazia, ha influito?

«Certamente tutto ciò ha influito sull’anticipazione della decisione del Tribunale del riesame. Che la campagna mediatica possa incidere sulla decisione finale io non lo credo perché i giudici sono liberi di fare le proprie valutazioni. Ma credo anche che saranno in grado di giudicare Dell’Utri non per il suo nome ma per quelle che sono obiettivamente le sue condizioni di salute».

Insomma, che non venga giudicato per il suo nome e quindi per la sua storia politica che lo vede tra i fondatori di Forza Italia?

«Il suo nome è necessariamente legato alla sua storia politica».

Dell’Utri nell’intervista su “La 7” si è definito “prigioniero politico”, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ribattuto dicendo che questo non è possibile, perché siamo in uno stato di diritto. Che opinione ha?

«In una situazione come quella prospettata su Contrada, tenendo conto che la Corte europea induce Dell’Utri a ritenere di essere ingiustamente detenuto. Se effettivamente la Cedu anche per lui acclarerà lo stesso principio allora vorrà dire che ha scontato tre anni che non doveva fare. Allora, al di là delle esternazioni che alcune volte vanno giustificate, anche se possono apparire inopportune, io sono con il dott. Dell’Utri e contro il ministro. Perché il ministro della Giustizia dovrebbe prendere atto di quello ha deciso la Cedu su un caso assolutamente identico e si dovrebbe adoperare per dar seguito a una sentenza della Corte europea che fa parte di un trattato che l’Italia ha sottoscritto».

Addirittura dell’Utri ha detto di aver protestato perché non gli arriva “Il Fatto quotidiano”, non esattamente un giornale vicino a lui che se ne è definito “lettore e non estimatore”.

«Io credo che il dott. Dell’Utri è sopravvissuto, almeno sino a ora, a questa segregazione carceraria grazie alla sua intelligenza e alla sua perspicacia. Si mantiene in vita studiando e leggendo. Sì, anche Il Fatto quotidiano. Lo mantiene in vita il suo amore per la cultura, per la poesia».

Quali sono le sue letture preferite ora?

«Dante, la Divina Commedia, di cui è innamorato».

Si sente confinato all’inferno?

«Questo non me lo ha detto. Ma sicuramente non si sente in paradiso. Io auspico che questa campagna per il diritto alla vita di Dell’Utri venga sposata non solo da Forza Italia ma da tutti i partiti quindi anche anche dalla sinistra, perché è una questione di civiltà giuridica non di fazione politica».

«Liberate Dell’Utri, è come Contrada». Parola di Pm…, scrive Damiano Aliprandi il 23 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Secondo il Pg di Caltanissetta la pena dell’ex senatore dovrebbe essere sospesa in attesa della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. C’è un giudice a Berlino. Anzi a Caltanissetta. Non è nemmeno un giudice, ma un magistrato inquirente. È il sostituto procuratore generale della corte d’Appello di Caltanissetta il quale, nel suo intervento in aula durante l’udienza in merito alla richiesta di revisione del processo presentata dai legali di Dell’Utri, ha sostenuto che dell’ex senatore dovrebbe essere sospesa in attesa della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. In pratica, il procuratore, va incontro all’istanza di revisione del processo Dell’Utri presentata dai suoi avvocati e nello specifico sposa la tesi della difesa: Dell’Utri si trova nella stessa identica situazione di Bruno Contrada e conseguentemente non ha senso tenerlo in galera. Sì, perché la sentenza della Corte europea aveva stabilito che Bruno Contrada non poteva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti». Nella sentenza i magistrati di Strasburgo avevano infatti affermato che «il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza iniziata verso la fine degli anni ’80 e consolidatasi nel 1994 e che quindi la legge non era sufficientemente chiara e prevedibile per Bruno Contrada nel momento in cui avrebbe commesso i fatti contestatigli». La Corte aveva evidenziato come tale reato sia comparso per la prima volta nella sentenza Cillari (Cassazione del 14 luglio 1987) e sia poi stato oggetto di interpretazioni divergenti, fino alla pronuncia della Cassazione sul caso Demitry (5 ottobre 1994) che, mettendo fine ai contrasti, ne ha espressamente riconosciuto la configurabilità. In estrema sintesi, prima del ‘94, il reato era troppo vago nella formulazione e non ben definito. Una storia simile a quella di Marcello Dell’Utri visto che è stato condannato per lo stesso “reato” che avrebbe commesso prima di tale data. Un illecito, ricordiamo, che non esiste nel nostro codice penale, ma viene tratto dal combinato disposto degli articoli 110 e 416-bis. Il procuratore ritiene, dunque, che la richiesta di revisione avanzata dai legali abbia delle fondamenta; non a caso considera l’ex senatore «il figlio minore di Contrada». Ora però saranno i giudici della corte d’Appello di Caltanissetta – il tribunale competente per tale richiesta – a decidere se accogliere o meno la richiesta di revisione e la sospensione della pena fino al verdetto. Un verdetto che dovrebbe arrivare entro febbraio e non è scontato che i giudici confermino il parere espresso dal procuratore. Anche perché, almeno finora, i magistrati hanno sempre rigettato le istanze presentate dai legali di Dell’Utri. L’ultimo rigetto, sul versante “umanitario”, è stato quello da parte del tribunale di sorveglianza che non ha riconosciuto l’incompatibilità carceraria e quindi non ha concesso la detenzione ospedaliera o domiciliare. La decisione era arrivata il 7 dicembre, ma il sentore di una scelta del genere era già nell’aria, quando, nel corso dell’udienza del 5, il Procuratore Generale di Roma, Pietro Giordano, aveva dato parere negativo alla scarcerazione di Dell’Utri nonostante i medici legali del carcere di Rebibbia avessero dichiarato l’impossibilità di curarlo adeguatamente in un luogo detentivo. Da tempo si era parlato di incompatibilità con il carcere per le sue precarie condizioni fisiche. Per questo motivo, più di un anno fa, i legali dell’ex senatore avevano depositato in Tribunale una dettagliata istanza per chiedere la sospensione della pena per il proprio assistito, respinta solo tre settimane fa. Una decisione che non fa i conti con la realtà, perché oltre alle gravi patologie come la cardiopatia, nell’ultimo periodo a Dell’Utri è stato anche diagnosticato un tumore alla prostata che necessita di cure radioterapiche. L’ex senatore ha intrapreso uno sciopero della terapia per sottolineare il suo caso particolare, ma anche per evidenziare quello generale della “sorveglianza” nelle carceri che non è in grado di soddisfare quel livello di sanità e umanità necessario per chi è affetto da gravi e pericolose patologie. Ora per Dell’Utri si accende una speranza, almeno quella relativa alla sospensione della pena in attesa della sentenza della Corte europea di Strasburgo.

Dell'Utri, svolta a sorpresa Il Pg: "Sospendete la pena". La Procura generale di Caltanissetta dà ragione ai suoi legali: il caso Contrada insegna, aspettiamo Strasburgo, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 22/12/2017, su "Il Giornale". Una svolta. Un fatto che non era mai accaduto nel groviglio di ricorsi e procedimenti innescati dalla difesa di Marcello Dell'Utri. Nell'aula della corte d'appello di Caltanissetta a sorpresa la procura generale si schiera a favore della revisione della sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. La revisione ha solide fondamenta, spiega il sostituto procuratore generale che ricorre a un'immagine suggestiva per motivare la propria convinzione: Marcello Dell'Utri è il fratello minore di Bruno Contrada, la cui pena è stata di fatto cancellata dal verdetto della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. È quello che da anni sostengono gli avvocati dell'ex senatore: il caso Dell'Utri è perfettamente sovrapponibile alla vicenda Contrada: stesso reato e, dettaglio decisivo, la colpevolezza arriva per l'uno e per l'altro fino al 1992. Non oltre. Ma Strasburgo ha già smontato i verdetti di Contrada: prima del '94 il reato era troppo vago nella formulazione e non ben definito. Il problema è che tutti i ricorsi presentati dai difensori di Dell'Utri sono andati a sbattere contro un muro di no. Almeno finora. Adesso la procura generale fa sua questa impostazione «europea» e chiede addirittura la sospensione della pena in attesa della conclusione del procedimento e del verdetto. Insomma, seguendo un percorso coerente, l'accusa suggerisce la scarcerazione di Dell'Utri, immaginando un finale favorevole all'ex parlamentare. Ora la parola passa ai giudici che decideranno nelle prossime settimane. Impossibile prevedere il verdetto: il collegio potrebbe confermare l'apertura della procura generale ma naturalmente è liberissimo di contraddirla e di sposare la linea dura, la stessa di tutti i verdetti precedenti. Siamo dentro un labirinto in cui si seguono almeno tre piste: anzitutto Dell'Utri ha giocato in prima persona le sue carte a Strasburgo, perché il verdetto Contrada potrebbe non bastare in Italia. Contemporaneamente continua la battaglia «umanitaria» raccontata dal Giornale: il fondatore di Publitalia sta male, ha un tumore alla prostata e una grave cardiopatia. Per questo si sperava che il tribunale di Sorveglianza di Roma riconoscesse l'incompatibilità con il carcere e concedesse almeno la detenzione domiciliare. Ma i giudici hanno stabilito che Dell'Utri può rimanere nella sua cella di Rebibbia e da li può spostarsi, facendo quotidianamente la spola con l'ospedale Pertini per effettuare un ciclo di radioterapia. C'è infine la revisione, in corso a Caltanissetta, sulla base del principio fissato a Strasburgo per Contrada. Sembra il gatto che si mangia la coda o, se si vuole, un girotondo giudiziario fra Roma, la Sicilia e Strasburgo. Nel tentativo di far applicare all'uno il criterio già riconosciuto per l'altro. Finora però la condanna a 7 anni, in buona parte già scontati, è rimasta in piedi. E Dell'Utri è ancora dietro le sbarre, pur fra malori, ricoveri, cartelle cliniche sempre più allarmate. Nelle scorse settimane anche Strasburgo ha cambiato passo: dopo una lunga melina, ha improvvisamente concesso una corsia preferenziale al dossier presentato dagli avvocati Andrea Saccucci e Bruno Nascimbene. Ma dopo l'accelerazione, ecco un nuovo stop: la Corte aveva chiesto chiarimenti all'Italia su molti punti e aveva fissato un termine per il 15 gennaio. Roma, forse colta in contropiede, ha invocato una proroga, puntualmente concessa: la risposta dovrà essere spedita in Francia entro il 15 marzo. Sessanta giorni in più. Si attende la contromossa della difesa che però sul binario di Caltanissetta vince un round molto importante: è la stessa procura generale a proporre la scarcerazione. I giudici si pronunceranno solo nelle prossime settimane. Salvo improbabili colpi di scena, Dell'Utri trascorrerà Natale e Capodanno a Rebibbia. Da Rebibbia, dopo il no del tribunale di Sorveglianza, aveva fatto filtrare parole di amarezza: «Questa è una condanna a morte». E aveva annunciato uno sciopero della fame e delle medicine. Ora l'ex senatore torna a sperare.

Marcello Dell’Utri, la procura generale di Caltanissetta chiede la sospensione della pena per l’ex senatore. Nel corso del processo di revisione, il pg chiede scarcerazione per il fondatore di Forza Italia, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa in virtù della pronuncia Ue che dichiarò illegittima la sentenza per lo stesso reato di Bruno Contrada, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 22 dicembre 2017. Sospendere la pena a Marcello Dell’Utri, detenuto nel carcere romano di Rebibbia dove deve scontare una condanna definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. È la richiesta avanzata dalla procura generale di Caltanissetta. Il fondatore di Forza Italia, dunque, rischia di ricevere un dolcissimo regalo di Natale. Un dono che arriva grazie al precedente rappresentato dal caso di Bruno Contrada: una sentenza, quella sull’ex poliziotto, che rischia di fare aprire le porte del carcere anche a Dell’Utri. Questo almeno l’obiettivo dei legali dell’ex senatore che hanno presentato l’istanza nel corso del giudizio di revisione avviato su richiesta della difesa dell’imputato davanti alla corte d’appello di Caltanissetta. Nei giorni scorsi i legali dell’ex senatore si sono visti respingere dal tribunale di sorveglianza di Roma un’istanza di differimento della pena per il loro assistito per motivi di salute. Da tempo, però, sostengono che il caso Dell’Utri sia assolutamente sovrapponibile al caso Contrada e che anche la condanna dell’ex manager di Publitalia, alla luce del verdetto della corte di Strasburgo di tre anni fa, sia illegittima. Tutto è appunto legato alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dichiarato illegittima la condanna inflitta, per lo stesso reato, a Contrada. Era l’aprile del 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani aveva stabilito che l’ex numero due del Sisde non andava condannato per concorso esterno perché all’epoca dei fatti contestati (che vanno dal 1979 al 1988) il reato “non era sufficientemente chiaro”. Lo sarebbe diventato solo nel 1994 con la sentenza Demitry, che tipizzava per la prima volta quella inedita fattispecie nata dall’unione dell’articolo 110 (concorso) e 416 bis (associazione mafiosa) del codice penale. A “inventarsi” quel reato al tempo del pool antimafia di Palermo era stato Giovanni Falcone: occorreva un modo, infatti, per perseguire i colletti bianchi che contribuiscono continuativamente alla crescita dell’associazione mafiosa senza mai farne parte a livello organico. Poco importa, però. Perché a causa di un errore dei rappresentanti dello Stato Italiano, la Cedu condannò l’Italia a risarcire Contrada ritenendo che fosse stato condannato illegittimamente. Come l’ex superpoliziotto anche Dell’Utri è stato condannato per fatti avvenuti prima del 1994 – nel caso dell’ex senatore fino al 1992 – e quindi non “coperti” dalla sentenza Demitry. Gli avvocati dello storico braccio destro di Silvio Berlusconi hanno quindi provato la strada dell’incidente di esecuzione davanti alla corte d’appello di Palermo sostenendo l’immediata applicazione del verdetto Cedu al loro assistito. Ma l’istanza, che conteneva la richiesta di sospensione della pena, è stata respinta. Stessa decisione ha preso la Cassazione a cui i legali hanno fatto ricorso: i giudici della Suprema corte però hanno indicato la via del processo di revisione. Processo che si è aperto davanti ai giudici di Caltanissetta, competenti per legge, visto che Dell’Utri è stato condannato dal tribunale di Palermo. Nel frattempo gli avvocati si sono anche rivolti alla corte di Strasburgo, che però non si è ancora pronunciata. Nel corso della revisione il pg nisseno dunque ha chiesto alla corte d’appello la sospensione dell’esecuzione della pena. Adesso per Dell’Utri si aprono due strade: la corte potrebbe preliminarmente ipotizzare che la sentenza Contrada sia immediatamente applicabile al’ex senatore e sospendere la pena fino alla pronuncia di merito della Cedu. Oppure sostenere che sia necessario un pronunciamento specifico su Dell’Utri da parte dei giudici di Strasburgo e quindi verosimilmente negare la sospensione e rigettare nel merito la richiesta. Di sicuro la richiesta avanzata dal pg è un punto per la difesa dell’uomo che creò dal nulla il partito di Berlusconi. In merito alla richiesta della procura di Caltanissetta, i legali di Dell’Utri Tullio Padovani e Francesco Centonze specificano che il procedimento “è stato avviato a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione che ha indicato la revisione come strumento processuale per l’adeguamento della posizione di Dell’Utri rispetto al giudicato della Corte di Strasburgo nel caso Contrada”. E concludono precisando che “sulle richieste delle difese e del Procuratore Generale la Corte d’Appello si pronuncerà nei prossimi mesi”.  

Massacro di un democristiano per bene, scrive Piero Sansonetti il 20 Dicembre 2017 su "Il Dubbio".  La persecuzione giudiziaria contro uno che ha fatto la storia della nostra democrazia. Mi dicono che Nicola Mancino non sta bene. Vive chiuso in casa, non vuol veder nessuno, è molto malinconico. Il modo nel quale lo hanno messo in mezzo, senza motivo, nel processo Stato- Mafia, non gli è andato giù. Sente l’ingiustizia, l’accanimento immotivato: non sa spiegarseli. Mancino ha 86 anni, li ha spesi quasi tutti per la politica. È difficile, oggi, far capire a un ragazzo cosa vuol dire questa espressione: «spesi per la politica». Ma c’è stato un periodo, nella storia d’Italia, nel quale la politica era una cosa molto seria, un mestieraccio (come diceva ieri Giuseppe De Rita su questo giornale) che richiedeva passione, intelligenza, strategia, impegno, rapporto con le masse. Noi di sinistra dicevamo così: «con le masse». Chi voleva far politica doveva “spenderci” tutte le energie che aveva. E doveva studiare, applicarsi, conoscere, parlare, stare a sentire. Ho conosciuto Nicola Mancino nei primissimi anni 80. Lui era il vice presidente dei senatori della Dc. Era già una autorità. Io un giovane cronista politico dell’Unità. Fronti opposti. Mi ricordo ancora di un articolo molto critico che scrissi su di lui (forse un po’ offensivo) e di un biglietto di protesta che mi mandò: era molto seccato ma non era aggressivo, o minaccioso, e accettava di discutere e di far polemica mettendosi sullo stesso piano di un ragazzino come me. Devo dire che oggi mi dispiace di avere scritto quell’articolo con la baldanza sfacciata e spavalda dei giovani. Credo che nella discussione avessi ragione io, ma alle volte, magari, prima di sputare addosso alla gente bisognerebbe conoscere meglio come stanno le cose. Mancino è stato un grande democristiano. Era uno dei leader del partito in Campania. E uno dei dirigenti nazionali nella sua corrente, corrente gloriosa e forte della sinistra Dc. Si chiamava La Base. L’avevano fondata Dossetti e Marcora, negli anni cinquanta, e avevano allevato una covata di giovanotti, come De Mita, Galloni, Granelli e lo stesso Mancino. Poi Dossetti lasciò la politica ma la corrente di Base andò avanti e fu un pilastro ben piantato del centrosinistra. Moro era Moro, certo, era su un altro pianeta. Ma sul piano della politica organizzata e anche della ricerca teorica, la Base fu essenziale – insieme alla corrente di Donat Cattin – nella svolta riformista che l’Italia visse negli anni sessanta e settanta. Mancino era lì. Spesso finiva nella bufera delle polemiche. Ma resisteva bene. Fu accusato tante volte soprattutto del «reato di clientelismo». Lo dico con cognizione di causa, perché noi dell’Unità eravamo tra gli accusatori più tenaci. Avevamo ragione? Un po’ sì. Un po’ però avevano ragione loro. È vero che in quegli anni il clientelismo (o l’assistenzialismo) democristiano fu uno dei motori della politica italiana. Ma il clientelismo non era un semplice fenomeno di corruzione. Era un meccanismo molto complicato che permise una grandiosa redistribuzione del lavoro, dell’assistenza, della ricchezza e dello stato sociale. L’Italia in quegli anni crebbe in tempi velocissimi, e la crescita non comportò un aumento, ma una riduzione drastica delle diseguaglianze sociali. La Dc era al centro di questo fenomeno. Luigi Pintor, grande giornalista comunista, una volta fece sul manifesto un titolo che diceva più o meno così: «Non vogliamo morire democristiani». Pintor morì nel 2003. Al governo c’era Berlusconi: chissà, magari lui in fin dei conti avrebbe preferito morire democristiano… Mancino è stato uno degli uomini forti della Democrazia Cristiana. Da parlamentare o da ministro ha accompagnato la crescita dell’Italia durante tutti gli anni della Prima Repubblica. Poi a un certo punto due giovani Pm di Palermo, che si erano convinti che tra il 1992 e il 1994 ci fu una trattativa tra Stato e Mafia, hanno deciso di puntare i loro strali contro Mancino, perché Mancino all’epoca era ministro dell’Interno e perchè alla loro costruzione accusatoria faceva comodo immaginare un ministro dell’Interno favorevole alla trattativa. Anzi, immaginare questa circostanza era indispensabile, altrimenti il castello dell’accusa andava giù. E su cosa si basava tutta l’accusa? Sul racconto del figlio di Vito Ciancimino (ex sindaco dc di Palermo, legato alla mafia), il quale figlio di Ciancimino poi fu condannato tante volte per calunnia. Non avevano nient’altro in mano i Pm. E allora sostennero che il socialista Amato, nel 92, cacciò il dc Vincenzo Scotti dal ministero dell’interno perché lo riteneva contrario alla trattativa, e mise al suo posto il morbido Mancino. E imputarono a De Mita questa scelta. il povero de Mita – che all’epoca era il segretario della Dc, spiegò ai Pm ( che conoscevano poco poco la storia d’Italia di quegli anni, forse perché erano troppo giovani) che nel 1992, esplosa Tangentopoli, la Dc aveva deciso di sancire l’incompatibilità tra ruolo di ministro e mandato parlamentare. Siccome Scotti voleva restare parlamentare, non si poteva farlo ministro. E fu indicato Mancino. Tutto qui. Del resto tutta la biografia di mancino depone per il suo impegno nella lotta alla mafia. Poi, negli anni successivi, Scotti e Martelli (all’epoca ministro della Giustizia) sollevarono molte polemiche contro Mancino, ma questo rientra nella fisiologia delle invidie e dei rancori in politica. Quello che lascia un po’ sgomenti è che su questa panna montata è stata costruita l’accusa di falsa testimonianza che tiene ancora Nicola Mancino dentro un processo senza capo né coda, dove non si sa più nemmeno chi è accusato e di che cosa, e dove i Pm svolgono requisitorie che in realtà smontano i teoremi accusatori. Si capisce bene che lui che ne soffre. Ne soffre anche la Storia, strattonata da tutte le parti, e ne soffre la sostanza della democrazia. Fa un po’ rabbia che dei Pm un tantino sprovveduti, nella loro foga di provare teoremi fantasiosi e di scoprire complotti inconfessabili, pestino l’acqua nel mortaio e buttino fango sulla vita di uno dei protagonisti della democrazia italiana.

Maroni: «Il Sisde spiava Mancino», scrive Errico Novi il 16 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  L’allora ministro dell’Interno: “Trovai sul mio predecessore dossier segreti da usare nella lotta politica. Dissi no alla nomina di Mori e al decreto che ostacolava le inchieste di mafia”. «Quando ero ministro dell’Interno avevo avuto modo di leggere una serie di fascicoli del Sisde che riguardavano di fatto un’attività di dossieraggio nei confronti di esponenti dei vari partiti politici tra i quali uno sul mio predecessore al Viminale». Sono le parole durissime dell’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sentito nel processo sulla trattativa Stato- mafia. Che poi continua: «Anche questa vicenda – ha proseguito – mi indusse a rimuovere Domenico Salazar che era direttore del Sisde. Da ministro dell’Interno Maroni spiazzò tutti: anziché mettere a capo del Sisde uno dei nomi graditi a Palazzo Chigi, tra i quali Mario Mori, scelse uno sconosciuto generale dei carabinieri, Gaetano Marino, che «nell’Arma si occupava di formazione». Irregolare come capo del Viminale, controcorrente come teste al processo Stato- mafia: il governatore lombardo dà ai pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene risposte che gran parte degli altri testimoni aveva sfumato nelle nebbie dell’irrilevanza. Non che offra all’accusa e alla Corte d’assise di Palermo seri elementi di prova: anche dopo la deposizione di ieri non sembra accresciuta la possibilità di arrivare a qualche condanna. Ma almeno Maroni dà notizie sulle vicende di quegli anni, in particolare sul ’ 94: una di queste rappresenta l’imputato Nicola Mancino addirittura come vittima di impropri dossieraggi da parte dei servizi. «Appena nominato ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi», racconta l’attuale presidente della Lombardia, «trovai una serie di dossier del Sisde su alcuni politici, persino sul mio predecessore all’Interno», Mancino appunto. Secondo l’allora direttore del servizio segreto civile Domenico Salazar «si trattava di informazioni legate a motivi di sicurezza». Ma davanti a pm e giudici palermitani Maroni obietta: «Se il dossier era sulla sua sicurezza Mancino ne doveva essere informato, se non lo era a maggior ragione pensai che non erano dossier autorizzati». Certo il caso è sconcertante: il Sisde “pedinava” per scopi incomprensibili lo stesso ministro dell’Interno. Che d’altra parte era in buona compagnia: la documentazione trovata da Maroni riguardava «diversi politici, compreso Francesco Cossiga». Nel caso dell’imputato al processo in cui depone il governatore lombardo, «capii che quei pedinamenti servivano a sapere chi incontrava e a raccogliere informazioni da usare nella battaglia politica». Lui, Maroni, prima chiuse i faldoni in una cassaforte del suo studio «per evitare che li facessero sparire», poi li portò in Senato. Si muoveva da “mina vagante”, l’allora capo del Viminale: «Ero il primo che non venisse dalla Dc». Fece fuori Salazar, scartò Mori e altri possibili successori segnalati da Parisi e preferì appunto Marino. Il cuore dell’udienza, negli auspici dei pm, riguarderebbe il decreto del 14 luglio ’ 94, a cui Maroni e la Lega si opposero fino a farlo ritirare: «Il testo arrivato in Consiglio dei ministri non era quello originario. Ne parlai col procuratore di Palermo Caselli, mi disse che quelle norme rendevano più difficile la lotta alla mafia: c’era l’obbligo di riferire all’indagato dell’inchiesta in corso. Secondo Caselli indagini complicate sarebbero diventate impossibili». In realtà nel primo “report” fatto in proposito alla Procura, durante l’interrogatorio del 4 luglio scorso, Maroni aveva detto di aver stroncato il provvedimento in un’intervista al Tg3 per le limitazioni alle misure cautelari nei confronti di indagati per corruzione e concussione. Probabile dunque che il “movente” del decreto non fosse compiacere i mafiosi. Il no della Lega bastò a farlo accantonare. Così come il no di Berlusconi non impedì a Maroni di «nominare Gianni De Gennaro vice capo della polizia: io», dice in aula il governatore, «volevo ribadire la volontà di contrastare la mafia e, soprattutto, sparigliare i vecchi schemi». Il Cavaliere non voleva un poliziotto ritenuto “di sinistra”. Il che non emerge nella deposizione di ieri, ma non è che servisse il processo Statomafia per accertarlo.

Mario Mori. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Nato a Postumia Grotte il 16 maggio 1939 nell'allora Venezia Giulia italiana, oggi in Slovenia, si diploma a Roma, al liceo classico Virgilio, e, successivamente, presso l'Accademia Militare di Modena, completa gli studi e la formazione militare, fino a conseguire, nel 1965, la nomina al grado di tenente dei Carabinieri. Come primo incarico, nel 1965, assume il comando di una Compagnia del IV Battaglione carabinieri di Padova, per poi essere destinato, nel 1968, alla tenenza di Villafranca di Verona, sempre come comandante. Dal 1972, per tre anni, svolge servizio presso il SID (Servizio Informazioni Difesa), a Roma, quindi, nel 1975, con il grado di capitano, viene trasferito al Nucleo Radiomobile dei Carabinieri di Napoli, dove rimarrà per altri tre anni.

Il 16 marzo del 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro, Mori viene nominato comandante della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo di Roma, cominciando un lungo periodo che lo vedrà protagonista nella lotta al terrorismo. Sulla scia dei gravissimi fatti di quell'anno, culminati con il ritrovamento del corpo dell'on. Moro il 9 maggio in via Caetani a Roma, il successivo 9 agosto, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa viene nominato dal governo "coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta al terrorismo". Le Sezioni anticrimine - reparti creati dall'Arma dei carabinieri per il contrasto al terrorismo e dislocati nei centri più sensibili al fenomeno - vengono a costituire la componente operativa e investigativa più efficace e specialistica nel settore. Sono numerosi gli arresti effettuati in quel periodo dalla Sezione anticrimine guidata da Mori, tra questi spiccano quelli di Barbara Balzerani, Luciano Seghetti, Remo Pancelli, Francesco Piccioni, Walter Sordi, Pietro Mutti, Fabrizio Zani e altri estremisti di destra e sinistra.

Nel 1986, con il grado di tenente colonnello, dopo due anni di servizio presso lo Stato Maggiore dell'Arma dei carabinieri, Mori assume il comando del Gruppo carabinieri Palermo 1, incarico che manterrà fino al settembre 1990. Sono anni difficili in Sicilia, anni in cui la mafia, capeggiata da Salvatore Riina, non esita a eliminare chiunque venga considerato un ostacolo per “Cosa nostra” e per le sue numerose attività illecite. Proprio in questo periodo passato a Palermo, Mario Mori incomincia a conoscere la mafia, le origini e il suo radicamento sul territorio che deriva dalla forza dell'intimidazione prodotta dal vincolo associativo che la caratterizza e da cui scaturiscono condizioni di assoggettamento e omertà per chi è costretto a conviverci. Mori capisce che contro un fenomeno di questo tipo i metodi investigativi utilizzati per disarticolare altre organizzazioni criminali, da soli, non possono essere pienamente efficaci e comunque non risolutivi. Per combattere la mafia occorre uscire dal classico schema investigativo fino al momento adottato, mirando piuttosto e soprattutto a individuare e disarticolare le connessioni e le collusioni stabilmente intrecciate da “cosa nostra” con il mondo politico-imprenditoriale. In poche parole colpire la mafia nel suo principale centro d'interesse: quello economico. Negli anni passati a Palermo, oltre a sviluppare un'approfondita conoscenza del fenomeno mafioso, il tenente colonnello Mori incontra alcuni giovani ufficiali, in quel periodo alle sue dipendenze, che si distinguono per capacità e impegno, tanto da diventare, nel vicino futuro, l'asse portante del costituendo ROS dei carabinieri.

Il ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) nasce il 3 dicembre del 1990, e il tenente colonnello Mori ne è uno dei componenti fondativi. La struttura, individuata quale Servizio Centrale Investigativo, assume, per l'Arma dei carabinieri, la competenza a livello nazionale delle indagini nel settore della criminalità organizzata e terroristica. Affidato inizialmente al comando del generale Antonio Subranni, è Mori a curarne la definizione della struttura ordinativa e della dottrina d'impiego, assumendo anche il comando del "I Reparto", quello con competenza investigativa sulla criminalità organizzata. Il periodo passato al ROS sarà lungo, impegnativo e ricco di soddisfazioni. L'esperienza maturata nei quattro anni passati a Palermo si rivela fondamentale e le indagini, per quanto riguarda il contrasto a “cosa nostra”, già avviate in passato, proseguono con nuovo impulso, sempre orientate, come indirizzo strategico, verso il settore economico-imprenditoriale. Ne deriva così anche un'articolata informativa che, curata dall'allora capitano Giuseppe De Donno, viene consegnata, il 20 febbraio del 1992, alla Procura di Palermo. La specifica indagine, divenuta nota come “mafia e appalti”, viene inizialmente sostenuta da Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, da Paolo Borsellino che la considera non solo un salto di qualità nella lotta a “Cosa nostra”, ma anche e soprattutto la causa scatenante della strage di Capaci, dove perdono la vita l'amico magistrato, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Tale indagine, tuttavia, non trova pari accoglienza nei responsabili della Procura della Repubblica di Palermo, tanto che si producono una serie di contrasti tra la Procura stessa e il Comando del ROS in merito alla conduzione delle indagini, contrasti destinati a perdurare nel tempo. In particolare le incomprensioni iniziali si riferiscono a quell'aspetto dell'indagine che prende in esame le connivenze tra “uomini d'onore” da una parte e politici dall'altra, per i quali la Procura di Palermo chiederà e otterrà l'archiviazione dell'inchiesta il 20 luglio 1992, il giorno dopo la morte di Paolo Borsellino nella strage di via D'Amelio. Da quella parte dell'informativa “mafia e appalti” sopravvissuta, scaturiscono diverse vicende investigative che portano all'arresto di una serie di imprenditori considerati molto vicini ai vertici di “cosa nostra”, come Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Giuseppe Lipari, Antonio Buscemi, Filippo Salamone e altri, tutti coinvolti in attività imprenditoriali illecite riconducibili a interessi mafiosi. Questa tipologia d'indagine, riproposta, d'intesa con le Direzioni Distrettuali Antimafia competenti, anche nel contrasto alle altre forme di delinquenza mafiosa, quali la 'ndrangheta, la camorra e la criminalità pugliese, confermerà la sua validità ottenendo eccellenti risultati pratici con lo smantellamento di pericolosi e agguerriti sodalizi criminali. Mori diventò poi vice comandante del ROS nell'agosto 1992, con il grado di Colonnello.

L'attività di contrasto a Cosa nostra sviluppata da parte del ROS è ovviamente consistita anche nella ricerca dei latitanti dell'organizzazione, che ne costituiscono la vera e propria spina dorsale. Il 15 gennaio 1993 il capitano Sergio De Caprio, noto anche come capitano "Ultimo", a capo di una squadra di pochi carabinieri, grazie a un'accurata attività investigativa, opera l'arresto di Salvatore Riina, capo indiscusso della mafia siciliana. Per tale episodio Mori e De Caprio verranno processati con l'accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra, non per la mancata perquisizione dell'abitazione del Riina dopo il suo l'arresto, come i più ritengono, ma per avere omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa era stato sospeso. Il dibattimento si concluderà con l'assoluzione sancita dal Tribunale di Palermo perché "il fatto non costituisce reato", con sentenza del 20 febbraio 2006, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo - che peraltro aveva anch'essa richiesto l'assoluzione - divenuta irrevocabile l'11 luglio 2006. Nel dettato della sentenza i giudici, prese in considerazioni tutte le testimonianze e i verbali disponibili, oltre ad assolvere Mori e De Caprio per i reati imputati, ribadiranno che “l'istruzione dibattimentale ha consentito di accertare che il latitante (Riina, ndr) non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all'intuito investigativo del cap. De Caprio”.

L'arresto di Riina non fu certamente l'unica attività di rilievo svolta dal ROS, anche se la più clamorosa. Sono numerose le indagini sviluppate, anche a livello internazionale, che hanno consentito l'arresto di pericolosi latitanti e l'eliminazione di temibili organizzazioni criminali transnazionali. Fra le numerose operazioni vanno sicuramente citate quelle conclusesi con la cattura del boss Salvatore Cancemi, di Angelo Siino, indicato quale Ministro dei Lavori Pubblici di “cosa nostra”, dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, lo smantellamento del clan dei Cuntrera-Caruana e quello di Gaetano Fidanzati e i suoi figli, veri snodi del traffico della droga tra l'Europa e le Americhe.

Nel 1998, promosso Generale di Brigata, diviene comandante del ROS. Lo resterà circa un anno.

Nel 1999, il Comando generale dell'Arma dei carabinieri decide di sostituire Mori al comando del ROS, destinandolo a comandare la "Scuola ufficiali carabinieri" di Roma. Il trasferimento del generale, seppur in un reparto non operativo, viene definita una “promozione”. Dura due anni il periodo alla Scuola ufficiali e nel gennaio del 2001 il generale Mori diventa comandante della "Regione carabinieri Lombardia" da generale di divisione, incarico che manterrà fino al 1º ottobre 2001, quando è posto in congedo dall'Arma dei Carabinieri.

Il 1º ottobre del 2001 infatti Mario Mori viene nominato prefetto e direttore del Sisde, il Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica, che verrà da lui diretto sino al 16 dicembre 2006. Questo periodo è caratterizzato dalla crisi originata dall'attentato alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001 e dal conseguente accentuarsi del contrasto alle iniziative terroristiche portate essenzialmente dal fondamentalismo islamico. Il Sisde contribuisce in quel periodo e in maniera significativa a evitare che l'Italia diventi oggetto di clamorose azioni stragiste che invece colpiscono altre nazioni occidentali, individuando soggetti e organizzazioni operanti in Italia collegati con i gruppi rifacentesi ad al-Qāʿida, sventandone le iniziative illegali. Contemporaneamente il Servizio controlla il panorama criminale italiano e contribuisce in maniera determinante a frustrare, con l'operazione “Tramonto” i cui esiti vengono messi a disposizione dell'Autorità giudiziaria milanese, un tentativo di ricostituzione delle Brigate Rosse. Significativa anche la cattura all'estero, dopo una difficoltosa ricerca in diversi paesi del Nord-Africa, di Rita Algranati, esponente delle Brigate Rosse, uno degli ultimi responsabili dell'omicidio dell'on. Moro ancora in libertà.

Terminata l'esperienza al servizio segreto civile, nell'estate del 2008 fino al giugno del 2013, Mori ha svolto attività di consulenza nel settore della sicurezza pubblica per conto del Sindaco di Roma Gianni Alemanno.

Nel 2016 ha pubblicato un libro "Servizi e Segreti".

Mori è stato rinviato a giudizio dalla procura di Palermo insieme con Sergio De Caprio, ed entrambi furono poi prosciolti dall'accusa di favoreggiamento nei confronti di “Cosa nostra”. L'indagine era stata avviata dalla procura per accertare gli eventi che avevano portato alla ritardata perquisizione del "covo" di Salvatore Riina. Infatti, dopo l'arresto del boss, i carabinieri della territoriale di Palermo erano pronti a perquisire l'edificio, ma Ultimo e il ROS, ritenendo di poter proseguire l'indagine in corso e individuare le attività criminali dei fiancheggiatori del boss arrestato per disarticolare completamente l'organizzazione, chiesero la sospensione della procedura per "esigenze investigative" che fu concessa dalla procura - stando a quanto afferma l'allora procuratore Caselli - «in tanto in quanto fosse garantito il controllo e l'osservazione dell'obiettivo». Diciotto giorni dopo si scoprì che quell'osservazione era stata sospesa prematuramente dai Carabinieri, all'insaputa della Procura e senza che fosse stata effettuata alcuna perquisizione. Nel frattempo il "covo" era stato ormai abbandonato dalla famiglia di Riina e completamente svuotato. De Caprio e Mori sostennero che c'era stato un equivoco nella comunicazione con la procura poiché non avevano espresso l'intenzione di sorvegliare il covo in modo continuativo. Peraltro, come riportato nelle motivazioni della sentenza del processo, era ben chiaro dall'inizio, sia ai carabinieri sia alla procura, che decidendo di non procedere alla perquisizione, si assumeva un rischio, un rischio investigativo motivato dal raggiungimento di un obiettivo superiore. Lo stesso Tribunale di Palermo sentenzia: «Questa opzione investigativa [la ritardata perquisizione, NdR] comportava evidentemente un rischio che l'Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l'accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell'abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell'ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie di Riina, ndr), che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina - cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell'arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo - od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell'ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L'osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al solo cancello di ingresso dell'intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l'allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata, e le frequentazioni del sito.» I Carabinieri definirono la sospensione dell'osservazione una «iniziativa autonoma della quale la Procura non era stata informata». Secondo i sostenitori dell'accusa di favoreggiamento sarebbero esistiti elementi indiziari per ritenere che i capi del ROS avessero mentito alla procura facendole credere che il covo sarebbe stato sorvegliato in modo continuativo. De Caprio ha sostenuto in sua difesa: «Io non specificai se l'attività di osservazione sul complesso di via Bernini sarebbe o meno proseguita nei giorni successivi... Io non volevo fare sorveglianza... Quella lì era la casa di Riina. Per me, forse ho sbagliato le valutazioni, rimane la casa, l'abitazione del sangue di Riina, non la base logistica della latitanza di Riina. Per me non aveva valore investigativo come non lo ha oggi l'abitazione di Provenzano a Corleone dove ha la moglie e i figli». Secondo la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia un gruppo di affiliati alla mafia entrò indisturbato portando in salvo i parenti del boss, svuotando la cassaforte e verniciando le pareti per cancellare le impronte. Tuttavia, tali dichiarazioni, giudicate “frutto di una ricostruzione certamente autorevole, ma insufficiente per trarne definitive conclusioni” dallo stesso dr. Ingroia – il PM che ha sostenuto l'accusa nel relativo procedimento -, non sono mai state riscontrate nel corso di un vero e proprio dibattimento. Inoltre, nessuno di detti collaboratori ha mai dimostrato di aver personalmente verificato il contenuto della cassaforte o, quantomeno, di conoscere esattamente quanto conservato all'interno della stessa. Il processo si concluse con l'assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”: infatti la corte, pur ritenendo la sussistenza di una erronea valutazione dei propri spazi di intervento da parte degli imputati, di gravi responsabilità disciplinari per non aver comunicato alla Procura la propria intenzione di sospendere la sorveglianza, pur ritenendo che “l'omessa perquisizione della casa” in cui il boss mafioso Riina aveva vissuto gli ultimi anni della sua latitanza, insieme con la sua famiglia, e “l'abbandono del sito sino ad allora sorvegliato hanno comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera", ha stabilito la totale estraneità di Ultimo e Mori dai fatti contestati, giungendo a un'assoluzione con formula piena. La sentenza, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo - che peraltro aveva anch'essa richiesto l'assoluzione - è divenuta irrevocabile l'11 luglio 2006.

Mori il 17 luglio 2013, è stato assolto dal Tribunale di Palermo, insieme con il colonnello Mauro Obinu (condannato in primo grado a oltre sette anni di reclusione in un diverso procedimento per traffico di droga, assieme al generale Giampaolo Ganzer, succeduto a Mori alla guida del ROS), dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, impedendone la cattura nel 1995. Secondo il testimone d'accusa, il colonnello Michele Riccio, smentito e querelato dai denunciati, furono Mori e Obinu ad avergli impedito di catturare Provenzano in un casolare di Mezzojuso (PA), indicato dal mafioso suo confidente Luigi Ilardo, poi assassinato da "cosa nostra" subito dopo aver accettato di collaborare con la giustizia. Nel processo si è poi aggiunta la testimonianza di Massimo Ciancimino, il quale riferisce di contatti, peraltro già confermati in più sedi giudiziarie da Mori e da un altro ufficiale dei Carabinieri, con il padre Vito Ciancimino. Secondo il Ciancimino, per instaurare una trattativa con “cosa nostra” così da giungere a una sospensione della strategia stragista attuata all'epoca, secondo Mori e il suo dipendente, per acquisire notizie sull'organizzazione mafiosa e realizzare la cattura dei grandi capi mafia. Il 20 aprile 2012 i giudici del processo celebrato a Palermo contro il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello dell'Arma Mauro Obinu per favoreggiamento alla mafia, hanno ammesso a deporre su richiesta dell'accusa la vedova del giudice Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, e Alessandra Camassa e Massimo Russo, due ex colleghi del magistrato assassinato dalla mafia. Il 24 maggio 2013 il PM di Palermo Antonino Di Matteo ha chiesto 9 anni di reclusione per il generale Mori e 6 anni per il Colonnello Mauro Obinu, riguardo al processo sul presunto favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, nell'ottobre 1995. Il 17 luglio 2013 la IV Sezione Penale del Tribunale di Palermo ha pronunciato la seguente sentenza: Il Tribunale di Palermo, visti gli articoli 378 e 530 del Codice di procedura penale, assolve Mori Mario e Obinu Mauro dell'imputazione ai medesimi ascritta perché il fatto non costituisce reato. Visto l'articolo 207 del Codice di procedura penale ordina la trasmissione di copia della presente sentenza delle deposizioni rese da Ciancimino Massimo e da Riccio Michele all'ufficio del Procuratore della Repubblica in sede per quanto di sua competenza[6]. Il Tribunale ha quindi assolto con formula piena Mori e Obinu dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e ha ravvisato, a carico dei due principali testi dell'accusa, Massimo Ciancimino e Michele Riccio, ai sensi dell'art. 207 del Codice di Procedura Penale, indizi del reato previsto dall'articolo 372 del Codice Penale (falsa testimonianza). Immediatamente dopo la sentenza, intervistato dai numerosi giornalisti presenti, il PM Vittorio Teresi si è detto amareggiato per l'esito del processo, annunciando che la Procura proporrà appello verso una sentenza che non condivide ma che rispetta. Il 19 maggio 2016 è assolto anche in secondo grado dalla corte d'appello di Palermo.

Assolto (di nuovo) Mario Mori. C’è un “filo rosso” che attraversa i processi all’ex generale: le assoluzioni, scrive l'8 Giugno 2017 "Il Foglio". Dopo tanti anni di processi, l’assoluzione di Mario Mori, accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, è definitiva. La Cassazione, come avevano già stabilito le sentenze di assoluzione in primo grado e in appello, conferma che non c’è stata una “mancata cattura” del capo dei capi. Non c’è stato quindi secondo i giudici alcun favoreggiamento o complicità dell’ex generale dei carabinieri e dal colonnello Mario Obinu con il capo di Cosa nostra.   L’ipotesi dei pm della procura...

Un film e una legge intitolati a Mario Mori a sei giorni dalla sua assoluzione. Intervista all'ex-comandante del Ros diventato un simbolo. Come Dreyfus ed Enzo Tortora, scrive Maurizio Stefanini il 14 Giugno 2017 su "Il Foglio". Un film e una legge intitolati a Mario Mori sono state presentati in contemporanea a Montecitorio: giusto a sei giorni dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione ha assolto in via definitiva il generale dei carabinieri già protagonista della lotta al terrorismo e alla mafia, comandante del Ros e direttore del Sisde, dall’accusa di non aver arrestato il boss Bernardo Provenzano in base a quella ipotizzata “trattativa tra stato e mafia” su cui Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo avevano costruito un teorema. Il docufilm è di Ambrogio Crespi: il fratello del Luigi già sondaggista di riferimento di Berlusconi. Anche Ambrogio è finito nel tritacarne di un certo tipo di malagiustizia, tra una girandola di accuse e detenzioni finite in assoluzioni e poi seguite da nuove accuse. Il docufilm su Mori si inserisce quindi in una sua ideale trilogia che comprende anche l’altro docufilm sul caso Tortora e “Spes contra spem”. La legge che è stata idealmente intitolata a Mori è invece partita dal movimento La Marianna. Ricorda Mori che la sua battaglia non è iniziata nel processo ma solo dopo l’assoluzione definitiva per una scelta voluta. “Io ho accettato il processo ed ho rifiutato anche la prescrizione, battendomi come imputato con gli strumenti conferiti a un imputato. Al termine ho deciso di trarre le mie conclusioni e ho iniziato questo nuovo tipo di battaglia”. Come spiega al Foglio, “il film e la legge sono ovviamente due cose distinte. Ho accettato la proposta di Crespi, ma la cosa veramente importante a mio avviso è la legge. Una legge che migliori l’approccio attuale al problema della giustizia visto dalla parte dei protagonisti: le vittime e gli imputati”. Film su Mori e legge Mori testimoniano comunque di una persona che è diventata un simbolo. Come giù fu per Dreyfus, e per Enzo Tortora. “Ero già ufficiale dei Carabinieri al tempo di Enzo Tortora, e quindi quella vicenda l’ho vissuta. Enzo Tortora fu veramente una vittima, io non ritengo di esserlo stato. Io mi sono potuto difendere bene da libero cittadino; lui si è dovuto difendere in carcere”. Perché tra il caso Tortora e il caso Morti la giustizia italiana era intanto migliorata? O semplicemente perché un generale dei carabinieri per mera esperienza professionale è già più attrezzato mentalmente per difendersi meglio? “Indubbiamente, io ero più preparato. Conoscevo tutti gli argomenti su cui verteva il processo, per cui avevo un grande vantaggio”. Quindi questa legge sarebbe a favore di chi non ha questa esperienza? “Soprattutto di chi non ha questa esperienza. Di chi non ha il tempo per difendersi bene”. Qualcuno tra il pubblico osserva: “Generale, a 78 anni lei sembra ringiovanito. Effetto dell’assoluzione?”. Mori fa un sorriso molto largo. “Devo vivere più a lungo dei miei nemici”. Come spiega per la Marianna al Foglio Giovanni Negri, “la legge Mori è una legge che prevede che al di fuori di tempi certi e garantiti, indicati per legge, scatta la decadenza dell’azione penale. Se il cittadino K non ottiene giustizia, non è processato entro X tempo in primo grado, Y tempo in secondo grado, Z tempo in terzo grado, decade l’azione penale nei suoi confronti. È chiaro che se dichiaro la decadenza dell’azione penale sic et simpliciter, apro le carceri. Per questo la legge Mori va di pari passo con uno stanziamento di risorse necessario a restituire a normalità l’attività dei palazzi di giustizia”. Insomma, bisogna che la giustizia abbia i mezzi per poter fare i processi in tempo. “Infatti la legge Mori non che è l’inizio di un percorso. Il primo incontro richiesto è con l’Associazione nazionale magistrati, proprio per quantificare le risorse che ci vogliono per restituire normalità ai tribunali. E poi, ovviamente, da oggi incontri a tutto campo con partiti, parlamentari, gruppi parlamentari, e candidati alle prossime elezioni che saranno chiamati ad esprimersi in merito alla legge Mori. Vogliamo fare della prossima legislatura la legislatura della legge Mori”. 

CINQUE QUESTIONI E UNA PROVA SU BRUNO CONTRADA. A mio parere si parla poco e male della vicenda che ha interessato Bruno Contrada, scrive il 10 luglio 2017 Paride Leporace. Per coloro che non ne siano informati. La Corte di Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta all’ex n. 2 del Sisde Bruno Contrada, accusato di concorso in associazione mafiosa. I giudici supremi hanno accolto il ricorso dei legali di Contrada che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d’appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la sua richiesta di incidente di esecuzione. La Cassazione ha così dichiarato «ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna». Tutto questo a 23 anni dai fatti e dopo infinito carcere scontato ingiustamente. Lo scarno dibattito ha visto rullar tamburi da chi aveva sempre espresso perplessità su questa dolorosa vicenda di ingiusta Giustizia (il Foglio in testa da sempre innocentista) e l’inalberarsi delle voce dei giustizialisti che non accettano la cassata sentenza dopo un provvedimento analogo della Corte di Giustizia di Strasburgo. Marco Travaglio in testa e i suoi seguaci urlano che Contrada è un pezzo di delinquente colluso. Ai giornalisti embedded di alcune procure dicono nulla le due sentenze avverse sul reato di Concorso esterno in associazione mafiosa non contemplato nel nostro codice e che non può essere applicato. Molti di questi cronisti sono coloro che adombrano complotti della peggior specie con teoremi che riguardano spesso Berlusconi, Renzi e Dell’Utri. Spero che Marco Travaglio, che si proclama allievo prediletto di Montanelli, abbia letto il brano del suo maestro pubblicato nella sua Storia d’Italia e ripubblicato dal Foglio in cui si legge: “Sulle testimonianze e sulle prove esibite a carico di Contrada non vogliamo pronunciarci: le une e le altre appartengono alla logica dei processi per associazione mafiosa. Uno aveva saputo da un altro che un altro aveva detto, Falcone non poteva soffrire Contrada e aveva promesso «gli metterò i ferri» (ma riferito di seconda mano), il commissario Cassarà lo disistimava (dichiarato dalla vedova), alcuni dirigenti della polizia non lo potevano vedere e altri avevano invece per lui incondizionata stima: insomma un copione che in quelle aule, e con quel genere d’imputati, si ripete con triste monotonia. Non vorremmo trovarci nei panni di chi deve giudicare, e ancor meno in quelli d’un accusato”. A questo illuminante passo vorrei aggiungere cinque questioni e una prova a riscontro.

Ho seguito da cronista il processo a Giacomo Mancini per concorso esterno in associazione mafiosa con pesante condanna di primo grado, annullamento in appello e cancellazione del reato da nuovo tribunale per conoscere in dettaglio la mostruosità creativa giuridica di un reato troppo aleatorio e sostenuto da dichiarazioni di collaboratori di giustizia non sempre attendibili. Mancini, come Contrada, si è difeso nel processo sostenuto da tutti coloro che conoscevano la sua storia e non erano interessati ad abbatterlo politicamente. A differenza di Contrada non fu arrestato ma subì un processo mediatico terribile e devastante.

Bruno Contrada venne arrestato la sera di Natale mentre si preparava ad andare a cena dal figlio. Per lui venne riaperto il carcere militare di Palermo dove per lunghi mesi fu messo in cella da solo. Un odissea giudiziaria kafkiana durata vent’anni che meriterebbe film di denuncia come è avvenuto per lo sventurato Enzo Tortora. Come cronista su Contrada ho la coscienza a posto. Ne scrissi nel 2009 nel mio libro “Toghe rosso sangue”. (Edizioni Città del Sole). Ma non su partito preso ma per la ricerca sul campo effettuata a Palermo quando andai a cercare il figlio del giudice Gaetano Costa ucciso da Cosa Nostra, Michele, testimone al di sopra di ogni sospetto, che mi fece ragionare sui terribili fatti che isolarono e uccisero quel capace magistrato tradito da autorevoli colleghi. Sono costretto a citarmi: “L’avvocato Michele Costa porta addosso la toga del padre nelle udienze. …Ma l’avvocato Costa non accetta le verità precostituite, Al pari della madre che gli strinse la mano al processo di Catania ritiene ad esempio che Bruno Contrada abbia ben operato. Lo ha affermato anche in un’intervista al Corriere della sera, Pur conoscendo Falcone, il figlio del giudice Costa non crede a quello che ha rivelato Buscetta. Storicizzando il fatto che la criminalità organizzata siciliana già ad inizio del 900 era abituata a collaborare con la giustizia per eseguire le sue vendette. La mafia buona e quella cattiva non esistono. Esiste la zona grigia invece e le carte di Costa rimaste chiuse nei cassetti che nessuno ha aperto”.

Reato fantasma per Contrada. Sequestro di Stato. La dignità di un uomo non ha prezzo e la galera per un innocente è un sequestro di Stato. L’ignavia e il silenzio del Parlamento e del Governo su una parte della magistratura dà la misura dell’intimidazione e del ricatto, scrive Vittorio Sgarbi su "Quotidiano.net" il 9 luglio 2017. La dignità di un uomo non ha prezzo e la galera per un innocente è un sequestro di Stato. L’ignavia e il silenzio del Parlamento e del Governo su una parte della magistratura dà la misura dell’intimidazione e del ricatto. Fu, tra l’altro, un magistrato dell’accusa a ribadire in dibattimento che il nostro codice non prevede il concorso esterno in associazione mafiosa. La corte di Strasburgo l’ha confermato. Per cui la condanna di Contrada è illegittima, e lo Stato si è fatto criminale. Il Parlamento umiliato ha continuato a tacere. Contrada ha già ottenuto da parte dell’Europa una condanna per l’Italia che non ha avuto la dignità di ammettere l’errore. Il vero concorso esterno è quello del parlamento e del governo con un pezzo deviato dello Stato, una magistratura che perpetua ingiustizie. Finalmente la Corte di Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta all’ex numero due del Sisde Bruno Contrada. I giudici romani hanno accolto il ricorso del legale di Contrada, Stefano Giordano, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d’appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la richiesta di incidente di esecuzione. La Cassazione ha invece dichiarato «ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna». Peccato che Contrada l’abbia scontata, e sia stato prima diffamato e poi torturato, tra indagini, processi sentenze ed esecuzione, per 25 anni, da quando fu arrestato nel 1992. Oggi continua a esserlo da quei maramaldi che continuavano a insultarlo, scrivendo, fra ironie e disprezzo, che «favorì la mafia». L’unico reato vero è stato, per incredibile coincidenza, proclamato dal Parlamento giorni fa: è il reato di tortura. Per questo dovranno essere processati i magistrati che, senza prove, hanno applicato a Contrada l’inesistente teorema del «concorso esterno», esattamente come hanno fatto con Marcello Dell’Utri. Una volta condannati, applicando il loro stesso metodo, i magistrati potranno paradossalmente appellarsi alla sentenza della corte di Strasburgo che ha stabilito per Contrada che «il reato non era sufficientemente chiaro e prevedibile, e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti». Naturalmente, con la beffa, dopo dieci anni di carcere. E lamentando che una legge non può avere effetti retroattivi. Qualcuno ci spiegherà, in nome di quale norma del diritto sostanziale, Contrada e poi Dell’Utri sono stati condannati? E perché non è stato ascoltato un autorevole magistrato dell’accusa, Francesco Mauro Jacoviello, che ha sostenuto l’attuale insussistenza giuridica del reato di concorso esterno, in assenza di riscontri fattuali e concreti, e con l’utilizzo di fumosi teoremi? Contrada fu tra i pochi ad aprire quei cassetti. Per chi vuole approfondire rimando al mio testo. Troverà con dovizia di particolari come il capo della Criminalpol Contrada non mollò mai la presa sul delitto Costa e su molti omicidi eccellenti come quello Mattarella. Avversò le tesi investigative del questore e prefetto di Palermo. Scrisse di sua iniziativa un rapporto sulle cosche siciliane e americane che è il quadro investigativo più realistico sull’omicidio Costa. Delitto rimasto irrisolto da un punto di vista giudiziario e senza conseguenze al Csm per magistrati che hanno avuto eccellenti carriere. Chiudo con una prova a riscontro. E’ uscito postumo, il libro di memorie del giudice, Mario Almerighi, amico personale di Giovanni Falcone e Giacomo Ciaccio Montalto. Ebbene ne “Il testimone. Memorie di un magistrato in prima linea (La nave di Teseo)” in merito alle questioni legate al delitto Costa l’autorevole magistrato in una sua nota invita ad approfondire nel libro “Toghe rosso sangue”. Considerato che Almerighi riteneva Contrada colluso posso tranquillamente concludere di aver operato con coscienza sulla disumana vicenda di Bruno Contrada.

I danni del populismo penale: si veda l'esempio delle confische di mafia. Ecco perché il dàgli al corrotto è solo una strategia politica, vuota e inutile. Il giustizialismo è cavalcato in maniera diversa da destra e da sinistra, ma il risultato è lo stesso, scrive Giovanni Fiandaca il 6 Luglio 2017 su "Il Foglio". Le forti ventate di populismo giustizialista levatesi da qualche tempo nel nostro paese, per vero in maniera trasversale agli schieramenti politici (ma con la differenza che, mentre la “destra” suole drammatizzare l’allarme per la criminalità comune, la “sinistra” tende invece a enfatizzare in misura maggiore quello per le mafie e la criminalità dei colletti bianchi), spingono sempre più a concepire modifiche legislative all’insegna del più smodato repressivismo: trascurando non solo – come ha anche ammonito Papa Francesco – che la repressione penale non è la medicina più adatta a curare e prevenire i grandi mali sociali, ma anche che non sono il rigore sanzionatorio o l’incremento delle pene strumenti da soli in grado di contrastare efficacemente i fenomeni dannosi da fronteggiare. Ma questa duplice verità, consolidata nelle cerchie degli esperti, verosimilmente risulta sgradita o sfugge per una doppia ragione di comodo: innanzitutto, assecondando la richiesta di punizioni draconiane proveniente dai settori più frustrati o indignati della pubblica opinione, i politici “pan-punitivisti” confidano di poter così lucrare maggiori quote di consenso elettorale; in secondo luogo, la risposta punitiva (o più punitiva) rappresenta in ogni caso uno strumento di intervento più semplice e meno impegnativo rispetto a soluzioni politiche ben più sofisticate ed efficaci (riforme socio-economiche, piani di sviluppo, strategie di prevenzione sociale, amministrativa o educativa ecc.), che i politici odierni non hanno la capacità di ideare o per le quali non dispongono delle risorse occorrenti. Questa ricorrente tentazione di abusare del diritto punitivo (concepito in senso lato come comprensivo sia del diritto penale, sia delle cosiddette misure di prevenzione) emerge con chiarezza, tra l’altro, a proposito di alcune modifiche del codice antimafia già approvate dalla Camera e oggetto di prossima discussione al Senato. Di che stratta? Si tratta, in particolare, della proposta di inserire nel novero delle persone potenzialmente destinatarie delle cosiddette misure di prevenzione patrimoniali anti-mafia, cioè del sequestro e della confisca di interi (o di parti di) patrimoni di origine illecita, anche i soggetti “indiziati” di aver commesso anche un solo delitto tra quelli dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (ad eccezione soltanto, perché non espressamente menzionati, dei reati di abuso di ufficio e rifiuto od omissione di atti di ufficio): dunque, si fa riferimento all’indiziato di delitti quali il peculato, la malversazione, la concussione e l’induzione indebita, la corruzione nelle sue diverse forme. Ma, per comprendere l’effettiva portata di questa novità in discussione, è opportuno fare un passo indietro e addentrarsi in una piccola boscaglia normativa, che comporta a sua volta qualche tecnicalità un po’ ostica che il lettore vorrà perdonare. La prima cosa che i non addetti ai lavori forse non sanno, e che forse li sorprenderà, è questa: il sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti possono essere applicati agli indiziati di uno dei suddetti delitti contro la Pubblica amministrazione già in base al diritto vigente, senza che sia necessaria al riguardo alcune riforma. Sapete perché? Perché lo consentono le prime novità normative in proposito introdotte dai due “pacchetti-sicurezza” del 2008 e del 2009, che hanno consentito l’estensione applicativa del sequestro e della confisca anche a coloro che, sulla base di elementi di fatto, debbano ritenersi “abitualmente dediti a traffici delittuosi”: questa abitualità nell’attività delittuosa, per interpretazione pressoché unanime, è infatti suscettibile di essere riferita a qualsiasi tipo di reato, inclusi – non certo ultimi – appunto reati contro la Pubblica amministrazione come la corruzione, il peculato ecc. Non a caso, nei confronti di una estensione così generale e indifferenziata delle misure patrimoniali già allora si levarono subito voci critiche, non solo in seno alla dottrina accademica ma anche tra i magistrati: ciò per un insieme di ragioni di fondo che – come fra poco vedremo – appaiono ancora più evidenti e stringenti rispetto alle novità aggiuntive contenute nella proposta in atto oggetto di vaglio parlamentare. Quest’ultima proposta, in effetti, innova rispetto al diritto vigente come or ora illustrato sotto due profili: a) include esplicitamente (senza più rendere necessaria, quindi, la deduzione interpretativa dal generico concetto di “soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi”), tra i potenziali destinatari del sequestro e della confisca, le persone indiziate della commissione di uno dei reati contro la Pubblica amministrazione tra quelli sopra richiamati ; b) ma, così facendo, rinuncia appunto a richiedere quale presupposto il requisito delimitativo dell’“abitualità” nel reato, accontentandosi invece della presenza di indizi relativi alla commissione anche di un solo illecito. Tutto ciò, a ben vedere, è manifestamente irrazionale alla stregua dei principi di una politica penale costituzionalmente orientata, a cominciare da quelli di ragionevolezza e proporzione. Prima di spiegare perché, si considerino questi due esempi: si ipotizzi che sussistano indizi per supporre che un vigile urbano abbia imposto ad un salumiere di consegnargli gratuitamente una certa quantità di prosciutto e di formaggio, minacciandolo che altrimenti gli avrebbe contestato violazioni in realtà inesistenti della normativa sulla conservazione degli alimenti; orbene: l’indizio della commissione di questa sola concussione potrebbe considerarsi presupposto ragionevole per confiscare al vigile, ad esempio, la casa di proprietà? Oppure, si ipotizzi un caso analogo in tema di peculato: sarebbe ragionevole confiscare tutti i beni di proprietà di un pubblico dipendente sospettato di un solo peculato del valore di qualche migliaio di euro? E’ venuto il momento, a questo punto, di spiegare la logica e le funzioni della confisca antimafia e di chiarire perché questa logica e queste funzioni non siano trasferibili automaticamente a singoli reati contro la Pubblica amministrazione. Una confisca come quella antimafia, che tecnicamente si definisce confisca “allargata”, nasce nei primi anni Ottanta dello scorso secolo come misura drastica tipicamente finalizzata alla neutralizzazione della potenza economica del crimine organizzato, e proprio in considerazione di questo importante obiettivo sono apparsi tollerabili gli affievolimenti che la sua applicazione comporta di alcuni fondamentali principi del garantismo classico (presunzione di non colpevolezza, proporzione ecc.). In particolare, la semplificazione degli oneri dell’accusa circa la prova dell’origine illecita dei compendi patrimoniali da confiscare ha, come ragione giustificatrice, un retroterra di acquisizioni criminologiche specificamente relative al settore del crimine organizzato in senso stretto: tra queste, in primo luogo la presunzione empiricamente fondata che le ricchezze accumulate da un soggetto appartenente (o indiziato di appartenere) alla criminalità organizzata siano frutto non già del singolo fatto sub iudice, bensì di una serie di attività illecite ripetute nel tempo, tali da poter fare a buon diritto presumere che l’intero patrimoni di cui il soggetto dispone si sia accumulato per effetto della continuità nell’attività criminosa. Senonché, una analoga presunzione sarebbe priva di base empirica, e perciò carente di fondamento giustificativo (e dunque sindacabile dalla Corte costituzionale!), fuori dal campo della criminalità organizzata, come appunto – tra l’altro – nel caso dei reati contro la Pubblica amministrazione: perché indizi di commissione di un singolo reato di peculato o di un singolo reato di corruzione dovrebbero essere considerati fondatamente sintomatici di una attività delinquenziale che si è protratta o che è destinata a protrarsi nel tempo? Chi lo ritiene, probabilmente, trae il suo convincimento dalla doppia convinzione oggi sempre più diffusa – ancorché tutt’altro che empiricamente riscontrata – che un reato in particolare come la corruzione abbia una natura tendenzialmente sistemica e che i fenomeni corruttivi siano spesso intrecciati con i fenomeni mafiosi. Ammesso e non concesso che le cose stiano davvero così sul piano criminologico, non ne conseguirebbero affatto però la plausibilità e la persuasività di una proposta di estensione della confisca antimafia come quella qui criticata: ben diversi da quelli oggi in discussione dovrebbero essere, in ogni caso, i presupposti tecnico-normativi idonei a rendere inattaccabile una riforma volta a estendere la logica della confisca allargata a settori criminosi diversi da quello originario del crimine organizzato.

Lettera aperta a Gian Carlo Caselli. Caro Caselli, sul caso Contrada ecco perché stai sbagliando tu, scrive Piero Sansonetti il 31 luglio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Contrada è una specie di cartina di tornasole: spiega perfettamente i punti di vista del giustizialismo e del garantismo. Voglio dire: del giustizialismo vero, fondato sull’idea che la punizione dei colpevoli conti più della certezza del diritto e sia il bene supremo. Non del giustizialismo “a ore” che serve solo come clava per colpire i nemici. Un articolo di Gian Carlo Caselli su Il Fatto quotidiano, nel quale si spiega perché la colpevolezza di Contrada è certa, è un piccolo riassunto di questo tipo di giustizialismo. Proviamo a contestarlo, punto per punto, e magari ad avviare una discussione su questi temi, che riguardano il futuro della nostra società. E la struttura della libertà. Conosco Gian Carlo Caselli da una trentina d’anni. Ero vicedirettore dell’Unità e lui era uno dei nostri editorialisti: ci sentivamo spesso, confrontavamo idee, giudizi, pareri. Il Caselli di oggi non è esattamente quello della fine degli anni Ottanta, perché l’esperienza di Palermo – dove è stato Procuratore negli anni di ferro e di fuoco del dopo- stragi – l’ha cambiato moltissimo, e questo è un fatto naturale, giusto. Tutti cambiamo. Io non nutro nemmeno il dubbio più piccolo sulla sua assoluta buonafede. Perciò mi interessa discutere di lui, delle sue posizioni politiche e intellettuali, e in particolare dell’articolo che ha scritto martedì su Il Fatto Quotidiano a proposito dell’affare Contrada. Io credo che Caselli sia uno degli interpreti più seri e coerenti del giustizialismo. E provo a scrivere questa parola senza attribuirgli nessun valore positivo o negativo.

Credo che esistano due tipi di giustizialismo. Quello “a pendolo” (feroce coi nemici e molto indulgente con gli amici) che è semplicemente un modo per usare le ideologie come armi taglienti di lotta politica e personale. Non ha niente a che fare con l’idea di giustizia. Il giustizialismo “a pendolo” è frequentissimo, a sinistra e a destra, ed è sicuramente un aspetto negativo e perverso della lotta politica. Come il garantismo “a pendolo”, del resto, che è quasi la stessa cosa.

Poi esiste il giustizialismo puro. Coerente, costante. Che non guarda in faccia a nessuno e che non considera se stesso un “mezzo” di lotta politica ma considera se stesso l’essenza più pura della politica. È quello di Caselli e in parte anche quello di Antonio Ingroia. Consiste nel ritenere la ricerca e la punizione di chi commette atti illegali come il fine supremo della vita pubblica. E nell’anteporre questa esigenza di giustizia e di pulizia a ogni altra esigenza della democrazia, della libertà e dello Stato di diritto. Il principio è semplice. Potrei riassumerlo così: «l’illegalità è la fonte della sopraffazione, la sopraffazione è il male assoluto in una società moderna; quindi la rallentare questa azione va rimosso, con ogni mezzo. Non solo gli ostacoli a loro volta illegali, ma anche quelli legali, e cioè l’eccesso di garanzie, di tutele, di norme, o la ricerca spasmodica delle certezze. La certezza è nemica della probabilità, e le probabili illegalità – spesso, molto probabili – vanno comunque stroncate».

L’altro giorno (detto tra parentesi, ma è una cosa che c’entra molto con questo ragionamento) Antonio Ingroia ha scritto un tweet che dice così: «Io sono garantista con gli innocenti e giustizialista con i colpevoli». Ecco, questa frase riassume bene l’animo del giustizialismo: la filosofia del vero giustizialista è che la giustizia sta molto avanti al diritto, e che il mondo si divide in innocenti e colpevoli, o presunti innocenti e presunti colpevoli, e i presunti colpevoli non devono essere garantiti. Potrei scatenarmi – lasciando spazio al sentimento – in una furibonda polemica, a questo punto, ma invece voglio tornare al caso - Contrada.

Dice Caselli nel suo articolo.

Primo: «La responsabilità del dottor Contrada per i gravissimi fatti che egli ha commesso è supportata da solide prove riscontrate da molti giudici (Tribunale, due volte la Corte d’Appello e Cassazione)».

Secondo: «È una bufala che non esista il concorso esterno in associazione mafiosa. Esiste da sempre nel nostro ordinamento per tutti i reati, in base all’articolo 110 del codice penale. Nel furto è colpevole il ladro ma anche il palo».

Terzo: «L’unico strumento per contrastare le collusioni (con la mafia, ndr) è il concorso esterno in associazione mafiosa».

Mi sembrano questi tre i punti chiave, poi c’è un quarto punto, assai più debole, che lascio per un post- scriptum.

Punto primo. Non è vero che il dottor Contrada è stato condannato in primo grado, due volte in appello e poi in Cassazione. La Corte d’appello di Palermo lo ha assolto, con una formula amplissima: «perché il fatto non sussiste». La Procura di Palermo (Ingroia) non ha accettato la sentenza dell’appello, ha fatto ricorso e ha vinto. Una seconda Corte d’appello, quella di Caltanissetta, ha dato il via libera alla revisione del processo, perché ha giudicato che la sentenza di condanna non fosse convincente. Ma la Cassazione non ha concesso la revisione. Se escludiamo le varie sentenze, alternate, della Cassazione, abbiamo due tribunali (uno di primo e uno di secondo grado) che hanno dato torto a Contrada e altri due (Corti di appello) che gli hanno dato pienamente ragione. Caselli sa molto meglio di me che esiste un articolo preciso del codice di procedura penale (il 533) che prevede che un imputato possa essere condannato solo se la sua colpevolezza appare oltre ogni ragionevole dubbio. Due Corti d’appello che assolvono non costituiscono un dubbio più che ragionevole? Del resto Caselli sa benissimo che al processo contro Contrada si sono contrapposte schiere di testimoni. Alcune decine contro (quasi tutti esponenti più o meno pentiti della mafia, un po’ come fu al processo Tortora) un centinaio a favore (funzionari di polizia, dei servizi segreti, prefetti, magistrati). Il principale testimone di accusa, della cui testimonianza è stato riferito da altri pentiti, si chiamava Rosario Riccobono, boss della mafia morto presumibilmente nel 1982, circa 12 anni prima dell’inizio dei processi a Contrada. Inoltre Caselli sa benissimo anche che Contrada, in quegli anni, lavorava in una cittadella della giustizia dove i veleni, gli odii e i tentativi di vendetta erano dentro l’aria che si respirava. Contrada aveva dato fastidio a molte persone, anche importanti, potenti. Aveva molti nemici, anche tra i suoi colleghi ma soprattutto tra i mafiosi, pentiti e non.

Punto Secondo. L’articolo 110 del codice penale al quale fa riferimento Caselli prevede il concorso di reato (non il concorso esterno in associazione a delinquere, che non esiste nei codici). Per esempio – come dice giustamente Caselli fare il palo durante un furto è concorso in furto. Chiaro: non ho rubato ma ho partecipato. Contrada però è accusato di “concorso esterno in associazione mafiosa”. Qui il problema non è giuridico: è logico. O io faccio parte di una associazione o non ne faccio parte. L’associazione già di per sé prevede che concorra nei reati che questa commette. Ma se non ne faccio parte, se sono esterno a questa associazione, allora non partecipo neanche ai reati. Che vuol dire, in questo caso, concorso? Potremmo, per estensione, prevedere anche il concorso esterno in concorso esterno. E poi il concorso esterno, in concorso esterno in concorso esterno? Sì, scherzo, ma non è difficile capire che è un non senso. I reati associativi sono reati molto particolari. Sono reati che vengono prima del reato. Se una associazione uccide, o ruba, c’è il reato di associazione e poi di omicidio o furto. Se non uccide, e non ruba, non esiste più il reato specifico ma resta il reato generico di associazione. In moltissime legislazioni dell’Occidente i reati associativi non esistono. Per essere condannati deve esistere il reato specifico, e l’associazione, tutt’al più, può essere una aggravante. In Italia i reati associativi furono inventati nella seconda metà dell’800, ai tempi delle leggi- Pica contro il brigantaggio, e in gran parte furono usati in modo delittuoso, dai Savoia, per sterminare interi villaggi del Sud. Rinviamo la discussione sui reati associativi a un’altra occasione, ma è chiaro che è molto discutibile il concorso in reato associativo, perché il reato associativo ha già dentro di sé il concetto di concorso. E per questo la Corte europea si è occupata del caso. E per questo ha stabilito che, quantomeno prima del 1994 – quando ci fu una sentenza della Cassazione che lo citò esplicitamente – il reato non era definito e quindi non poteva esistere. Non è che il reato c’era ma Contrada non lo poteva sapere. È che in nessun modo poteva essere considerato reato il rapporto coi confidenti che Contrada ebbe negli anni nei quali era uno dei capi degli 007 italiani. Del resto, se si pensava che Contrada in qualche modo avesse favorito la mafia, c’era la possibilità di processarlo per favoreggiamento. Come è successo altre volte, anche ad esponenti politici (per esempio Totò Cuffaro). Però il reato di favoreggiamento (art 378 del codice penale) non può essere generico, si deve riferire a un fatto preciso, deve contenere una azione che un imputato ha commesso a favore di una persona colpevole di reati gravi, occorrono indizi forti, prove, atti, fatti. Nel caso Contrada non c’erano, come in molti altri casi. E in genere è in queste situazioni di difficoltà che alcuni magistrati si rifugiano nel generico reato (ipotetico e non definito in nessun codice) di associazione esterna. E aggirano il reato di favoreggiamento perché non riescono a provarlo.

Punto terzo. Caselli si appella alla “necessità” del reato di associazione esterna. Dice: la punibilità di quel reato è l’unica possibilità che ho per colpire le collusioni. Dunque: è inevitabile. Ma non può essere il possibile risultato a determinare la bontà di una legge. Deve essere il diritto. Sarebbe come dire: «La fucilazione dei possibili appartenenti all’Isis (o simpatizzanti) è l’unico modo che ho per oppormi al terrorismo». Non va bene, sono convinto che Gian Carlo Caselli questo lo sa.

E allora? Penso che sarebbe il caso di aprire un confronto vero sulla contrapposizione tra giustizialismo e garantismo nel dibattito pubblico attuale. Perché dalla contrapposizione, o dal dialogo, tra queste due posizioni così lontane tra loro, e tra queste due concezioni diverse di modernità e di diritto, nascono delle questioni davvero di fondo che riguardano il futuro della nostra società. Riguardano la struttura della libertà. Mi piacerebbe se si riuscisse a discuterne, non solo con l’arma della polemica, ma con la trasparenza e la semplicità che una questione così gigantesca merita.

Ps: C’è un’ultima questione che pone Caselli. Quella del “giudice straniero”. Si riferisce al fatto che l’assoluzione per Contrada, prima che dalla Cassazione è stata pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e cioè da un tribunale non italiano. E questo, secondo lui, mette in discussione il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura.

Questa obiezione, francamente, mi stupisce. Da Caselli mi posso aspettare tante opinioni dalle quali dissento profondamente, ma non mi aspettavo accenti “sovranisti”, come si dice adesso, ma che io, più semplicemente, considero “nazionalisti” e cioè in linea con il vecchio e tragico nazionalismo ottocentesco e novecentesco. Dire che l’Europa è incostituzionale perché mette in discussione l’indipendenza della magistratura è un’enormità. L’Europa allora mette in discussione anche un principio costituzionale ancora più importante, quello sancito dall’articolo numero 1: «La sovranità appartiene al popolo…». Può pensarlo Giorgia Meloni, o forse Salvini o forse Di Battista. Caselli no. Spero che questa obiezione gli sia sfuggita dalla penna…

La “casta” dei giudici sui colleghi che sbagliano. Dal caso Ricucci al caso Saguto e a quello Esposito: in tutti questi sono coinvolti dei magistrati. Pm contro pm. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento, scrive Luciano Capone il 22 Luglio 2016 su “Il Foglio”. “Che fate, m’arrestate pe’ due carte?”, avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene “interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi”. Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita “solo” la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. 

Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: “Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo”. E invece pare che la “casta” dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla “casta” dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito – nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset – condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso “pugno di ferro” è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto “caso Saguto”, l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato – diceva in un’intercettazione Walter Virga – pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno”. Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

Ci sono più pentiti che boss: la vera follia dell’antimafia. Costano 100 milioni l’anno ma non fanno nomi nuovi. Che dirà Salvini nella relazione? Scrive Errico Novi il 10 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Sarà interessante sentire Matteo Salvini alla sua prima relazione sui pentiti. Tecnicamente, la “Relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione”. L’ultima l’ha presentata Marco Minniti. Il nuovo ministro dell’Interno non ha ancora esordito su tale terreno. Sappiamo solo che vuole «togliere anche le mutande, ai bastardi mafiosi». Ma come? Attraverso le confessioni dei collaboratori di giustizia? Non che tocchi a lui, certo, la prima linea della lotta alla mafia, presidiata da magistrati e forze di polizia. Eppure spetta al Capo del Viminale riflettere sulle decisioni della Commissione centrale, che decide se e a chi applicare i programmi di protezione. È al ministro dell’Interno che è giusto chiedere conto dell’efficacia del sistema. Ed eventualmente, di predisporre modifiche alle norme. A oggi le collaborazioni sono regolate dalla legge 82 del 91 così come modificata dalla legge Amato, la 45 del 2001. Naturalmente sono decisive le azioni e le valutazioni dei magistrati, compresi quelli della Direzione nazionale Antimafia, che presentano relazioni e pareri su ciascun aspirante pentito. Ma sarà Salvini a dover riflettere su due dati: il numero totale dei collaboratori di giustizia, che secondo l’ultima statistica disponibile, quella presentata appunto dal predecessore Minniti nel giugno 2017, è di 1.277 unità; l’altro dato è il numero dei boss in carcere, che si può desumere semplicemente dai detenuti in regime di 41 bis: in tutto, 730 persone. I secondi, cioè i capimafia, sono poco più della metà di chi è “beneficiato” e protetto affinché aiuti a scovare nuovi boss. Ha senso tutto questo?

Il regime speciale di detenzione resta uno dei vulnus giuridici più gravi, in Italia, ed è stato scientificamente liquidato come incostituzionale dall’ultima commissione Diritti umani del Senato. Ma qui interessa ragionare sul meccanismo che consente di decapitare le cosche. E chiedersi se i collaboratori di giustizia siano davvero ancora utili allo scopo. La domanda, peraltro, viene suggerita da una fonte riservata dello stesso ministero dell’Interno: «I programmi di protezione sono costosi. Sono anche una scelta giudiziaria. Negli ultimi anni l’impegno complessivo dello Stato su questo fronte non è mai sceso al di sotto degli 80 milioni di euro. E se si considera il costo degli immobili messi a disposizione dei pentiti, si arriva sicuramente ai 100 milioni annui. Adesso», continua la fonte, «i collaboratori di giustizia propriamente detti dovrebbero aver superato quota 1.300. Ma se un magistrato riconosce il valore delle dichiarazioni di un mafioso, o di un camorrista, e se riferisce alla Commissione centrale che quel soggetto va ammesso al programma, ritiene che l’aspirante pentito possa servire ad accertare la verità. Ecco, per esempio, dovrebbe consentire di portare al 41 bis almeno un paio di soggetti di spessore. Non può limitarsi ad additare qualche gregario, né ad attribuire il novantesimo omicidio a Riina, cioè a chi tanto è già al 41 bis o è morto». È chiaro che se al 41 bis c’è un numero di criminali pari a poco più della metà di chi si pente, i conti non tornano. «E forse le direzioni distrettuali antimafia su questo dovrebbero riflettere», chiosa l’interlocutore del Viminale. Da una delle Dda più impegnate quanto a collaboratori di giustizia, quella di Napoli, viene poi fatto notare l’altro aspetto del problema: «Molti di coloro che sono ammessi al programma di protezione sono ormai figure di bassissimo spessore. Piccoli criminali che non hanno capacità di direzione strategica. Vanno protetti, ma non sono in grado di dare informazioni di peso. Ciononostante portano dietro costi enormi». Quello di Napoli è il distretto di Corte d’appello che produce più pentiti. Sui 1.277 totali, quasi 800 vengono da lì. I “collaboratori” dell’area che fa capo al capoluogo campano hanno famiglie numerosissime. Da proteggere a loro volta. Non solo mogli (le donne pentite restano pochissime, 63 in tutta Italia conto 1.214 uomini). Spesso si aggiungono le nuove compagne, magari con rispettivi figli nati da precedenti relazioni. Delle comunità complesse, diciamo così, che fanno lievitare in modo impressionante l’altro dato significativo dell’affare “collaboratori”: i congiunti a cui si estende il programma. A livello nazionale sfiorano l’astronomica cifra delle 5.000 unità: sono, precisamente, 4.915. C’è solo un’annata, nella cronologia del pentitismo, in cui si è andati oltre: il 1996. L’apice di una fase del tutto particolare, descritta dal libro di Paolo Cirino Pomicino, "La Repubblica delle giovani marmotte" di cui diamo ampia “rilettura” in queste pagine. Ventidue anni fa si registrò il picco delle persone protette: se nell’ultimo score disponibile se ne contano 6.525, nel ’ 96 si arrivò a 7.020 persone. Grazie soprattutto al record dei familiari dei pentiti, 5.747, mentre i collaboratori veri e propri restarono comunque di poco al di sotto del primato recente: se ne contarono 1.214 (alla somma vanno aggiunti i testimoni di giustizia, poche decine). Ma si era nel pieno della rivincita da parte dello Stato nei confronti della criminalità organizzata, in particolare siciliana. Parliamo degli anni in cui furono acquisite collaborazioni come quella di Giovanni Brusca. Oggi non si riesce a individuare più pentiti di quel “calibro”. Ed ecco perché nella lotta alla mafia, il governo, prima di ogni altra ambizione, dovrebbe coltivare quella di riconsiderare il sistema della protezione.

I falsi pentiti e i loro portavoce: Pm e giornalisti, scrive Tiziana Maiolo il 20 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’inaudito caso di Enzo Scarantino, costretto a “collaborare” a calci e pugni, ad autoaccusarsi e ad accusare deviando le indagini. Gli incredibili “errori” dei magistrati, tra i quali Di Matteo. Adesso lo dicono tutti, anche Sergio Mattarella: nel 1992, quando fu ucciso Paolo Borsellino, ci fu qualcosa di sbagliato nelle indagini e nei processi che seguirono. In realtà non ci fu nessun “errore”, ma il fatto banale che nessuno si curò della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Magistrati vanesi e investigatori senza scrupoli volevano in fretta una qualunque verità. Persino quella di Enzo Scarantino. Il “pentito” costruito a tavolino, come dice oggi la figlia del magistrato ucciso. Erano passati pochi giorni dal “pentimento” di Enzo Scarantino quando la moglie Rosalia mi scriveva una lettera nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture a confessare un delitto che non aveva commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino. Ci sono voluti venticinque anni e una sordità colpevole e senza precedenti da parte delle istituzioni per arrivare alle parole di una donna coraggiosa come la figlia di Borsellino che denuncia i “pentiti costruiti a tavolino”. E fa nomi e cognomi, senza paura. Quei nomi e cognomi che non ha potuto fare (se non su personaggi non di primo piano) la corte d’assise di Caltanissetta che nei mesi scorsi, nella sentenza al quarto processo per la strage di via D’Amelio, ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori. Quali investigatori? Fiammetta Borsellino ricorda chi erano i procuratori dell’epoca: il capo Tinebra, i sostituti Annamaria Palma. Carmelo Petralia, Nino di Matteo… Questi sono i magistrati ingenui, quelli che hanno creduto (creduto?) che un picciotto della Guadagna, un piccolo spacciatore vanitoso e ignorante e un bel po’ spaccone, potesse aver partecipato, con il furto di un’auto da imbottire con 90 chili di tritolo, a una delle stragi del secolo. Hanno continuato a credere (credere?) a quelle prime parole del “pentito” anche quando lui stesso, anche a costo di rinunciare alla libertà, aveva continuato a dire che quella specie di verità gli era stata estorta. Estorta come? La moglie di Scarantino aveva puntato il dito contro Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che conduceva le indagini sulle stragi e gestiva i collaboratori di giustizia. E del resto sarebbe bastato ascoltare le testimonianze (o magari rispondere alle interrogazioni parlamentari che nel corso degli anni deputati come me e Enzo Fragalà presentavano caparbiamente) di chi aveva constatato sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture, per capire in che modo si costruivano i “pentiti”. I magistrati non volevano vedere e tiravano dritto, osannati da una grande fanfara mediatica e sostenuti da un partito, il Pds, che voleva fare dell’” antimafia”, di quell’antimafia messa all’indice da Leonardo Sciascia, la propria identità. Di quel che succedeva nelle carceri, pochi si curavano. I radicali e qualche “matto” isolato in Parlamento e nell’opinione pubblica. La storia veniva scritta dai “pentiti” attraverso i loro portavoce, Pm e famosi giornalisti. Scarantino raccontava che prima di ogni interrogatorio, di ogni udienza, veniva ammaestrato, nomi e cognomi delle persone da accusare e far arrestare gli venivano suggeriti. Proprio come era già capitato con i 17 finti pentiti che accusavano Enzo Tortora. Ma nel caso Scarantino si è fatto di peggio, perché si scopriranno anni dopo addirittura appunti vergati a mano dalla grafia di qualche inquirente. E si andrà avanti così, di processo in processo, per anni e anni, fino al 2008. Con gli ergastoli che erano fioccati nei confronti di persone innocenti. Quando arriva il “pentito d’oro” Gaspare Spatuzza a dire che tutto era sbagliato, che i colpevoli erano altri, solo allora si era sbaraccato tutto il castello costruito in 16 lunghi anni. Oggi lo dicono tutti, che era stato tutto sbagliato. E sarebbe facile prendersela con persone che non ci sono più, come Arnaldo La Barbera o Tinebra. Ma dove sono tutti gli uomini di governo che hanno chiuso gli occhi, tutti i giudici delle corti d’assise che facevano i portavoce dei Pubblici ministeri e gli investigatori che svolgevano colloqui riservati nelle carceri e gli “sbirri” delle squadrette di picchiatori? C’è una responsabilità collettiva in tutto ciò. Basta fiaccolate, commemorazioni e agendine rosse. Facciamo nomi e cognomi per favore (come ci sta insegnando Fiammetta Borsellino), magari anche di qualcuno che nel frattempo ha fatto carriera o sta sognando di diventare ministro di giustizia.

Vi racconto quel maxi-processo di 30 anni fa, scrive Alberto Cisterna il 15 ottobre 2016 su "Il Dubbio". La lotta a Cosa Nostra: a Palermo andò in scena il capolavoro giudiziario di Falcone. Fu tutto il bene e tutto il male della magistratura. Trent'anni dall'inizio del maxiprocesso di Palermo. Alla sbarra quasi 500 imputati. I rappresentanti ed i gregari dei più importanti mandamenti della mafia siciliana. Un'impresa costata la vita a tanti servitori dello Stato, ed a Falcone e Borsellino tra i primi. Un'impresa osteggiata dentro e fuori la magistratura italiana. I nemici esterni ed interni del maxiprocesso furono tanti e questo resta ancora un capitolo oscuro di una storia che ha ormai i contorni di un'epopea. Portare alla sbarra, tutti insieme, centinaia di mafiosi, mentre si andavano spegnendo nel Paese i bagliori di sangue del terrorismo, era più che celebrare un processo. Era un progetto "politico", lungimirante ed ambizioso, per ribaltare le sorti della Sicilia e spezzare il giogo delle cosche nel Sud che, Falcone riteneva, avrebbero finito per minacciare la democrazia e le sue regole. Negare la natura "politica", ossia etica, della scelta di Falcone e i suoi di sconfiggere per sempre la mafia raccogliendo in un unico processo le dozzine di indagini, prima spezzettate in un nugolo di micro inchieste, equivarrebbe (forse) a negare il nucleo morale più denso del segnale che si voleva dare con quella intuizione così dirompente e innovativa. Sia chiaro nella storia del Paese non erano mancati processi a carico di decine e decine di imputati, anche in Sicilia e soprattutto negli anni '60. Non era in discussione, solo, un dato numerico. Per la prima volta si voleva processare la Mafia e, con essa, coloro che ne facevano parte. Un'operazione che definire solo giudiziaria, ripeto, sarebbe poca cosa. E poiché si doveva far comprendere alla mafia ed alla Nazione la portata di quella rivoluzione, i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi, per far comprendere i risultati delle proprie acquisizioni e per condividere le scoperte costate il sangue di tanti. Ecco la storia del maxiprocesso è, anche, la storia di una relazione nuova, sofisticata verrebbe da dire, tra giustizia ed informazione. I vecchi cronisti di "giudiziaria" vennero poco a poco soppiantati nelle redazioni da un ceto di intellettuali, spesso raffinati, che si votarono a scrivere in modo nuovo della mafia ed elaborarono linguaggi efficaci e mai sperimentati prima. La spiccata prudenza, l'agiografia poliziesca, cedettero il passo ad analisi più profonde e radicali. Le leggi dell'economia, della politica, della sociologia, della cultura vennero indirizzate per sostenere e confermare le tesi di Falcone e del pool. L'esistenza della "Cupola", della piramide mafiosa, il cosiddetto teorema Buscetta costituirono, probabilmente, il primo caso in cui verità sociologiche e comportamentali uscirono dal recinto tecnico e grigio dei processi per spandersi nella società civile come categorie di interpretazione della realtà. Leonardo Sciascia stesso, il più fine ed integro intellettuale del tempo, restò spiazzato da un'operazione che non era solo, e non era più, una buona strategia processuale, ma soprattutto il mezzo per rendere egemone nella società italiana (e non solo) l'interpretazione della mafia e dei suoi meccanismi di potere e sangue. Ci sarà la polemica strumentale, alimentata da alcuni superficiali, dei "professionisti dell'antimafia", e poi cancellata da Giovanni Falcone con la prefazione del suo libro "Cose di cosa nostra" dedicato proprio a Sciascia. Dopo tre decenni non deve essere considerato un caso che le prime due cariche della Repubblica, il presidente Mattarella e il presidente Grasso, abbiano indissolubilmente legato le proprie esistenze a quella stagione. E' forse la vittoria più grande di quella strategia geniale del pool palermitano. Il consenso sociale che si è coagulato su queste vite spese dalla parte dello Stato è la dimostrazione più evidente che non si trattato solo di un maxiprocesso, ma di una fine intuizione "politica", ossia della consapevole realizzazione di un contesto entro cui costruire e sorreggere la convinzione che la mafia sarebbe stata sconfitta anche fuori dalle aule di giustizia. A dispetto di un fatalismo prossimo alla complicità. Di questa enorme eredità restano, come detto, segnali contraddittori. Lo strumento del maxiprocesso è stato man mano piegato ad esigenze particolari, se non personali, per dare lustro a qualche attività di polizia. Per carità cose importanti, ma che nulla hanno a che fare con quella stagione e con quella visione "alta" della società e della magistratura. Lo stesso giornalismo, nel progressivo esaurirsi della parabola straordinaria di un ceto colto e lungimirante, appare, troppe volte, la mera cassa di risonanza di indagini e di atti giudiziari destinati, abbastanza velocemente, ad essere dimenticati. Dopo 30 anni quella lezione "politica" ed etica ha ceduto il passo alla furbizia dei carrierismi e dei protagonismi individuali, mandando in fumo il senso profondo di quell'aula gremita di centinaia di mafiosi sperduti e vocianti. Come in un quadro di Salvador Dalì il tempo di quel processo appare consunto, misurato da orologi non più capaci di stare in piedi, ma solo adagiati, svuotati di senso, su rami spogli ed erosi. Visto dalla prospettiva di questa decadenza utilitaristica lo strumento del maxiprocesso appare desueto, se non addirittura denso di minacce. La bulimia del processo monstre fagocita fatti e persone, adoperando talvolta legami deboli, pregiudizi, feticci ideologici o sociologici (si pensi solo all'appeal mediatico della cosiddetta zona grigia, rimasta priva di apprezzabili conferme processuali). Esattamente l'opposto dell'ambizioso progetto del pool palermitano che puntava al nucleo centrale della mafia evitando di selezionare comportamenti, abitudini, relazioni che erano proprie dell'antropologia siciliana e meridionale in generale. Falcone ed i suoi non immaginavano alcuna contaminazione o contagio dei mafiosi verso un'immaginifica società civile, pura e innocente, preda degli appetiti dei picciotti, ma mostrarono piuttosto di avere sempre ben chiaro il punto di separazione tra la callida collusione e la succube connivenza delle collettività siciliane con la mafia. Ebbero l'ambizione di processare le cosche e non la società palermitana o un indistinto sistema di potere. Per questo, a distanza di 30 anni, appare ancora più opaca la posizione di chi scelse di fermarli o di schierarsi contro. Il maxiprocesso rappresentò una straordinaria manifestazione di forza e di efficienza di una parte della magistratura e delle forze di polizia e questo dovette allarmare non solo la mafia.

Chiedo scusa se parlo male di Falcone e del maxiprocesso..., scrive Tiziana Maiolo il 18 ottobre 2016 su "Il Dubbio". Volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare: alla sconfitta della Mafia. Il Maxiprocesso di Palermo fu il Maxierrore di Giovanni Falcone. Lo fu sul piano giudiziario, politico e mediatico. Ma ancor di più da un punto di vista "psicologico", perché Falcone volle trasformare quelle indagini e quel processo in terra di Sicilia in qualcosa di eroico, in gesto epico. E volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare, alla sconfitta della Mafia. E qui sta l'errore di politica giudiziaria che disvela una cultura poco laica della giustizia: il pensare cioè, che il processo non sia semplicemente il luogo dove si confermi o si bocci l'ipotesi accusatoria nei confronti di ogni singolo imputato, ma invece l'arma con cui si combattono i fenomeni sociali trasgressivi e illegali come il terrorismo o la criminalità organizzata. Una cultura, in un certo senso quasi religiosa, sicuramente da Stato etico, che mi pare appartenga anche al magistrato Alberto Cisterna, che ha scritto su questo giornale un autorevole commento nel quale, valorizzando la politicità del maxiprocesso, così esulta: «per la prima volta si voleva processare la Mafia», con la emme maiuscola. Quasi si trattasse di una signora imputata che di cognome faceva Mafia, per l'appunto. Va ricordato, solo a parziale comprensione dell'iniziativa (e della cultura di cui fu vittima) di Giovanni Falcone, che erano gli anni in cui la discussione sulle norme che regolavano il processo penale e il codice Rocco del ventennio non aveva ancora portato alla riforma, che entrò in vigore il 24 ottobre 1989, a cavallo tra la sentenza di primo e quella di secondo grado del maxiprocesso. Quando si passò da un sistema inquisitorio (quello anche della "caccia alle streghe", non dimentichiamolo mai) a uno almeno "tendenzialmente" accusatorio, la cultura di molti magistrati non era ancora pronta allo strappo. Falcone lo sarebbe invece stato, se non lo avesse accecato quel sogno eroico di dare, attraverso un processo, una svolta di legalità e di pacificazione alla sua Sicilia. Purtroppo la storia andò diversamente. Ma va anche ricordato come andarono le cose dal punto di vista giudiziario e come entrarono in scena anche la politica e addirittura un governo. Il fascicolo degli indagati da Falcone si chiamava "Abbate Giovanni più 706", ottomila pagine. Più di settecento persone che avrebbero costituito, secondo il collaboratore di giustizia Buscetta (bravo a denunciare i nemici, ma mai gli amici mafiosi) una cosca con organizzazione verticistica. Da questo gruppo mafioso 231 persone uscirono subito indenni, neppure rinviate a giudizio e altre 114 assolte dalla sentenza di primo grado (che comunque aveva accolto la tesi di Buscetta) del 16 dicembre 1987. I condannati nel processo di primo grado rimangono 260. Siamo già oltre il dimezzamento della cosca così come descritta da Buscetta e avallata dal dottor Falcone. È questo anche il momento della polemica con Leonardo Sciascia che dalle colonne del Corriere della sera lancia l'allarme: "Nulla vale di più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". Ma Falcone e il "pool antimafia" (un magistrato non dovrebbe mai essere "anti" o "pro" qualcosa o qualcuno) hanno ormai troppo potere per poter essere scalfiti. Infatti, come ricorda ancora Alberto Cisterna, "i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi?". E così il cerchio si chiude, manca solo la benedizione del Papa. Nonostante il successo mediatico, nelle aule di giustizia le cose andarono in seguito diversamente, e la Corte d'appello fece a pezzetti il "teorema Buscetta", negando il fatto che la struttura verticistica influenzasse ogni singolo atto criminoso, esaminando ogni caso individualmente e ridando una sorta di laicità al processo. Vennero così cancellati 7 ergastoli su 19 e altri 86 imputati vennero assolti. E così siamo a due terzi di innocenti sui famosi 707 dell'esordio. La storia sarebbe finita in questo modo, molto ordinario e poco eroico di un processo di criminalità organizzata, se non fosse entrata in scena la politica. Un magistrato abile e intelligente come Falcone sapeva bene che un processo costruito a quel modo, puntato solo sulla parola dei "pentiti" e con tutte quelle assoluzioni, pur con grande consenso mediatico, avrebbe potuto diventare il suo fallimento, il suo "maxierrore" qualora non avesse superato lo scoglio della Cassazione. E la prima sezione presieduta da un giudice preparato e pignolo come Corrado Carnevale era proprio quella cui venivano assegnati i processi sulla criminalità organizzata. Magistrati attenti e scrupolosi, rigorosi sulle procedure, avrebbero potuto mettere in discussione qualche superficialità, qualche approssimazione nella verifica dei riscontri alle parole dei "pentiti". Lo stesso ruolo di Buscetta avrebbe potuto uscire ridimensionato da una sentenza rigorosa. La Cassazione era sotto gli occhi di tutti, in quei giorni, e Falcone non poteva perdere quella battaglia. Fece di tutto per vincere. Aveva lasciato da un anno il palazzo di giustizia di Palermo, dopo aver subito uno schiaffo che ancora gli bruciava perché il Csm aveva privilegiato l'anzianità del collega Meli alla presidenza dell'ufficio istruzione, ed era al ministero di Giustizia quale direttore generale degli affari penali. La situazione politica era più che traballante (le camere furono sciolte il successivo 2 febbraio) e una vittoria, almeno giudiziaria, sulla mafia deve esser parsa a un governo debolissimo una piccola rivincita sulle proprie incapacità. Così il ministro di Giustizia Martelli, probabilmente su suggerimento di Falcone, ma anche sollecitato dal presidente della commissione bicamerale antimafia Luciano Violante, mise nel mirino il giudice Carnevale. Ai monitoraggi sull'attività della prima sezione di Cassazione, da cui l'alto magistrato uscì trionfante (il quotidiano La Repubblica titolò "Carnevale ha ragione"), si accompagnò la fanfara mediatica sull'"ammazzasentenze" per sottrarre il maxiprocesso alla prima sezione della Cassazione. O almeno al suo presidente. E così fu. Carnevale fece domanda per il ruolo di presidente di Corte d'appello a Roma. E il 30 gennaio, senza neppure una camera di consiglio, una sentenza frettolosa e impaurita incoronò il "teorema Buscetta" come verità politica e giudiziaria. Che importa se da quel momento la mafia, ancor più feroce, insanguinò la Sicilia e l'Italia con le sue stragi? E che importa se quella decisione, e tutte le leggi speciali che ne seguirono (ancor oggi paghiamo con l'ergastolo ostativo le conseguenze dello sciagurato decreto Scotti- Martelli) uccisero lo Stato di diritto? Importa, certo che importa. Ma forse non a tutti.

Martelli: «Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato», scrive Paola Sacchi il 23 maggio 2016 su "Il Dubbio". «Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato». Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione.

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Davigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri».

La fabbrica delle ingiustizie. I giudici delle condanne vuote, scrive Riccardo Lo Verso il 15 luglio 2017 su "Live Sicilia". Prima Contrada, poi le bugie di Scarantino. La settimana nera della giustizia italiana. Due bordate in una settimana. La revoca della condanna a Bruno Contrada e l'assoluzione degli innocenti ingiustamente carcerati per la strage di via D'Amelio recidono i grappoli malsani nella vigna della giustizia. Grappoli di giudici, legati gli uni agli altri come acini. Ci sono voluti quasi tre decenni per arrivare alla conclusione che decine e decine di magistrati, inquirenti e requirenti, si erano sbagliati nella forma e nella sostanza. Nel caso dell'ex poliziotto è stata la Corte di Cassazione a dichiarare "ineseguibile e improduttiva” la sentenza che ha costretto Contrada a rimanere in carcere per dieci anni. Prima, però, è dovuta intervenire la Corte europea dei diritti dell'uomo a spiegare ai giudici italiani che non si può processare un imputato per un reato che non era “chiaro e prevedibile” quando gli è stato contestato. Nel caso del processo per l'eccidio di via D'Amelio sono stati i pubblici ministeri di Caltanissetta a smascherare le bugie dei pentiti prese per oro colato, nonostante l'olezzo dell'impostura fosse stato percepito da più parti ma non dai magistrati. Come riassumere la vicenda Contrada? Esiste una giustizia europea e una italiana. O meglio, all'italiana. La prima bacchetta la seconda perché viola la convenzione dei diritti dell'uomo che i governi si sono impegnati a rispettare. Fino a quando i giudici di Strasburgo si sono limitati a condannare l'Italia a risarcire gli imputati per gli errori commessi e per i tempi biblici dei nostri processi è filato tutto liscio. Giusto un richiamo nelle ripetitive relazioni durante la cerimonia di apertura dell'anno giudiziario. Ora che la Cassazione ha recepito la sentenza europea revocando la condanna di Contrada, lo sbirro Contrada colluso con la mafia - dunque intervenendo in un giudicato - è scoppiato il finimondo. Autorevolissimi esponenti della giustizia, non solo all'Italiana ma pure antimafia, non l'hanno presa bene. Dal “non ha capito” di Giancarlo Caselli rivolto alla Corte europea all'aggettivo “stupefacente” speso nel commento di Antonio Ingroia. Erano rispettivamente il procuratore capo di Palermo e il sostituto che misero sotto accusa Contrada, dando vita al grappolo giudiziario in una stagione fondata sull'articolo 110 del codice penale. “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita - recita l'articolo applicabile a tutte le fattispecie di reato - salve le disposizioni degli articoli seguenti”. Tre righe divenute un contenitore confortevole specie nella declinazione del concorso in associazione mafiosa. Nel frattempo le sentenze della Cassazione hanno fatto giurisprudenza e il reato che non c'era ormai c'è, anche se resta parecchio discusso e mai normato. Siamo rimasti fermi alle tre righe. Di Contrada si sono occupati una quarantina di magistrati: i pubblici ministeri che ne chiesero l'arresto, i giudici per le indagini preliminari che applicarono la misura cautelare; quelli del Riesame che lo lasciarono in cella; i giudici del Tribunale che lo condannarono e della Corte d'appello che prima lo scagionarono e poi confermarono la pena; e i giudici supremi della Cassazione che misero il bollo di definitività sull'accusa. Tutti a disquisire, nelle varie motivazioni, sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ad interpretarne l'applicabilità nel caso dell'ex capo della Squadra mobile di Palermo e a concludere che il reato si cuciva perfettamente addosso al poliziotto. Nessuno che si sia accorto o abbia sollevato la questione che due decenni dopo sarebbe stata rimproverata all'Italia dai giudici europei. La convezione europea, con la firma di tutti i paesi che vi hanno aderito, recita all'articolo 7 che “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”. Contrada è stato processato per episodi collocati tra il 1979 e il 1988, quando il reato di concorso esterno in associazione mafiosa “non era sufficientemente chiaro e prevedibile all'imputato”. “Ciò che conta per la Corte europea è innanzitutto che, al momento del compimento della condotta - spiegava il legale di Contrada, l'avvocato Stefano Giordano nei giorni in cui presentava il ricorso che poi sarebbe stato accolto - un precetto penale accessibile e conoscibile, preciso e determinato esista e che il singolo abbia la capacità di orientare il proprio comportamento in funzione di questa norma”. L'articolo 7 è un elemento essenziale dello stato di diritto sovranazionale. Lo dimostra il fatto che non sono previste deroghe “neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”. La sua applicazione rappresenta “una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie”. Ed ecco il cuore della questione Contrada. Salvo colpi di scena, che non dovrebbero arrivare dalla lettura della motivazione della Cassazione, il sistema giudiziario ha ricevuto uno schiaffo con la forza del diritto. Si condanna qualcuno per i reati che esistono e non per quelli ex post contestati in maniera retroattiva. Astrazioni del diritto che non fanno breccia in una parte della magistratura italiana, tanto impegnata nella lotta alla mafia da distrarsi. Sempre secondo Caselli, d'altra parte, sia la Cassazione che la Cedu “ragionano in astratto, come in vitro, come se la mafia non esistesse”. Leggendo le motivazioni delle varie sentenze che hanno riguardato Contrada emerge che il faro giurisprudenziale di tutti i giudici è stato individuato nella sentenza Demitry, dal nome di Giuseppe Demitry giudicato per concorso nell'associazione camorristica capeggiata da Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. La sentenza, però, è del 5 ottobre 1994, sei anni dopo i fatti contestati a Contrada. È vero che del reato si era già occupata la Cassazione in altre sentenze tra il 1987 e il 1993, “tuttavia - hanno scritto i giudici europei - è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 5 ottobre 1994, che quest'ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l'esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno”. La sentenza Demitry è stata la bussola non solo dei pignoli giudici europei, ma pure di quelli italiani che hanno giudicato Contrada. “Particolarmente controversa è stata, poi, la questione relativa alla peculiare configurabilità del concorso eventuale o esterno nel reato associativo mafioso - scrivevano - che da ultimo ha trovato positiva soluzione in una recente sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (la Demitry, appunto) che, per la fonte autorevole da cui promana, la massima istanza regolatrice di legittimità, e per l’ampia panoramica giurisprudenziale in essa compendiata dei diversi indirizzi ermeneutici affermatisi nel tempo, non può non costituire necessario punto di riferimento in tale materia”. Peccato che risaliva al 1994. Se non fosse stata applicata in maniera retroattiva ci sarebbe stato un grappolo di giudici in meno. Così come, con qualche “se” in meno, la giustizia italiana si sarebbe risparmiata una delle pagine peggiori della sua storia, che ha dato vita al grappolo dei grappoli. È un fatto numerico. Per la vicenda Contrada sono stati celebrati due processi (con relativi appelli e rinvii della Cassazione), mentre nel caso della strage di via D'Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino e agli uomini di scorta, il numero dei processi definiti con sentenza irrevocabile sale a tre prima. Solo nel quarto sono state smascherate le bugie di Vincenzo Scarantino e soci. Dovendo inserire nell'elenco anche i giudici popolari, a conti fatti, più di cento persone hanno letto e riletto i verbali dei pentiti farlocchi, ascoltato in aula gli avvocati urlare che si stava alimentando un abbaglio collettivo, accettato la versione dei pubblici ministeri che a quelle bugie hanno dato la veste di pseudo prove processuali. E sono fioccati gli ergastoli, nove per la precisione. Alcuni anni fa, dopo decenni di carcere, gli imputati sono stati liberati. E dire che leggendo la sentenza del processo Ter, emessa dalla Corte d'assise allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, avrebbe dovuto suonare la sveglia. Il Ter è l'unico processo che si è salvato dalla mannaia avendo giudicato i boss della Cupola di Cosa nostra, i quali diedero il via libera alla strage. Nelle motivazioni di quella sentenza le dichiarazioni dei pentiti erano state bollate come spazzatura, altro che prove. Un “parto della fantasia”, le avevano definite i giudici, mettendo in guardia i colleghi. Niente, le condanne sono arrivate lo stesso. Nel quarto processo, avviato con coraggio dai pubblici ministeri di Caltanissetta, alcuni dei promotori della stagione inquisitoria divenuta carta straccia, hanno consegnato ai verbali di udienza balbettii e imbarazzanti “non ricordo” che ora alimentano la traiettoria infinita dei sospetti. Le dichiarazioni rese in aula sono le uniche pronunciate da quei cento e più giudici - togati e popolari - del grappolo che ha indagato, giudicato e condannato degli innocenti. Fuori dal bunker nisseno silenzio assordante. Fino al 25 maggio scorso, quando a Catania hanno preso la parola Concetta Ledda e Sabrina Gambino, sostituite procuratrici generali del processo per la revisione degli ergastoli ingiusti. "Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante - hanno detto - non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell'ambito del processo per la strage di Via D'Amelio". La Corte d'assise due giorni fa ne ha preso atto e ha assolto “per non avere commesso il fatto” undici imputati - compresi i pentiti delle menzogne - alcuni dei quali rimasti a lungo in cella con la prospettiva eterna del fine pena mai. È la giustizia italiana e all'italiana che ne è uscita con le ossa rotte. Quella che grida alla lesa maestà quando qualcuno a Strasburgo ricorda che la certezza del diritto non è soggetta alle interpretazioni.

Il processo dei falsi pentiti. Strage Borsellino, tutti assolti, scrive Riccardo Lo Verso Riccardo Lo Verso il 13 luglio 2017 su "Live Sicilia”. Tutti assolti per non avere partecipato alla strage di via D'Amelio. La Corte d'assise d'appello di Catania, al processo di revisione, scagiona gli imputati Natale Gambino, Giuseppe Orofino, Gaetano Scotto, Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Gaetano Murana, Salvatore Tomasello, Salvatore Candura, Vincenzo Scarantino. Questi ultimi due sono falsi pentiti su cui si sono basati processi di cartapesta. Pubblici ministeri e magistrati hanno creduto fino in fondo alle loro bugie. Poi, è arrivato un altro pentito, Gaspare Spatuzza, a smascherare l'incredibile errore giudiziario. La procura di Caltanissetta riaprì le indagini, fece scarcerare gli innocenti, alcuni condannati all'ergastolo dopo decenni di galera, mentre la Procura generale nissena ha chiesto la revisione. “Nulla c'è da da dire - spiega il legale di Gaetano Murana, l'avvocato Rosalba Di Gregorio - quando finalmente si è di fronte a una sentenza giusta. Bisogna però ringraziare per onestà intellettuale i magistrati di Caltanissetta che hanno riaperto con coraggio il caso”. “Tomasello non può gioire – aggiunge l'avvocato Mario Bellavista – perché nel frattempo è morto. Morto sapendo di essere innocente, ma condannato nella pagina più buia della giustizia italiana”. Il "fine pena mai" era stato inflitto a Gambino, Profeta, Vernengo, La Mattina, Urso, e Murana. Candura era stato condannato solo per il furto della Fiat 126 che fu imbottita di tritolo e non per la strage. Orofino era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato. Resta per chi ne rispondeva, tranne per Tomasello, la condanna per mafia già abbondantemente scontata da tutti accezione di Scotto. Sarà ora la Corte d'appello di Caltanissetta a dovere rideterminare la pena, passaggio fondamentale per quantificare i risarcimenti dei danni per l'ingiusta detenzione.

Il “colossale depistaggio” e l’ombra della trattativa: i misteri sulla morte di Borsellino. Quattro processi non sono bastati a fare emergere la verità. Tra falsi pentiti, investigatori spericolati ed errori giudiziari, scrive Riccardo Arena il 21/05/2017 su "La Stampa". Il 19 luglio 1992 una Fiat 126 rubata contenente circa 90 chili di tritolo esplode in via D’Amelio 21, nel cuore di Palermo, sotto il palazzo dove viveva la madre di Paolo Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Perdono la vita il magistrato e i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Antonino Vullo, agente sopravvissuto all’attentato descrisse così l’esplosione: «Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto».  Chi depistò cosa – e soprattutto come – è il dilemma, uno dei tanti nodi ancora irrisolti, delle stragi siciliane di quel terribile 1992: la verità, soprattutto su via D’Amelio, il secondo attacco di Cosa nostra ai magistrati «nemici» e alle istituzioni, 57 giorni dopo Capaci, è ancora molto parziale e la sentenza del «Borsellino quater», pronunciata a Caltanissetta il 20 aprile, non chiude affatto il caso: questo nonostante i due ergastoli per Salvino Madonia e Vittorio Tutino, i dieci anni a testa per Francesco Andriotta e Calogero Pulci (estraneo al contesto stragista) e la dichiarazione di prescrizione per Vincenzo Scarantino, i tre falsi pentiti che avevano depistato le indagini. Venticinque anni dopo, in quattro processi le condanne a vita sono diventate 32 e per la fine di Paolo Borsellino e dei suoi cinque agenti di scorta lo Stato è arrivato a processare se stesso, riconoscendo l’errore e l’ingiustizia di sette ergastoli, fondati sulle dichiarazioni di collaboratori che avevano inventato le accuse; benché si tratti comunque di mafiosi, sono stati liberati – dopo 15 anni in cella – ed è stato avviato il giudizio di revisione. Quel che non si riesce ancora a capire, però, è se ci sia stata una vera manovra depistante o se non si sia trattato di un clamoroso errore giudiziario. Vecchia storia: è difficile chiarire, ad esempio, come sia stato possibile, nei primi tre processi per via D’Amelio, che tutti i magistrati, almeno settanta fra requirenti e giudicanti, togati e popolari, non si siano accorti dei falsi pentiti e di indagini che deviavano sulla modesta cosca della Guadagna, mandamento di Santa Maria di Gesù, anziché puntare sul molto più potente mandamento di Brancaccio, capeggiato dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. E questo benché Scarantino fosse stato protagonista di ripetute ritrattazioni, una delle quali in diretta tv, tutte non credute né dalla Procura né dai giudici nisseni e neppure dalla Cassazione.  Si gridò anzi al complotto di Cosa nostra per tappargli la bocca e si andò avanti, mentre il picciotto della Guadagna veniva sbugiardato da veri pentiti – Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante – che, messi a confronto con lui, gli chiedevano chi fosse e che volesse. Tra i magistrati dell’accusa c’erano anche il procuratore Giovanni Tinebra, scomparso nei giorni scorsi, l’attuale avvocato generale di Palermo Annamaria Palma e l’allora giovanissimo Nino Di Matteo, oggi pm della trattativa: non certo gli ultimi arrivati. Per far cadere il castello delle accuse, però, dal 2008 in poi, ci vollero i pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina. Spatuzza aveva pure indicato i presunti «mandanti esterni» a Cosa nostra, ma le sue accuse a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri non avevano avuto riscontri né esiti processuali. Il «colossale depistaggio», di cui aveva parlato il procuratore nisseno Sergio Lari, è al centro anche del processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, in cui spicca la figura di Arnaldo La Barbera, l’ex superpoliziotto che fu collaboratore dei Servizi segreti (nome in codice «Rutilius») e che, da capo del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, avrebbe seguito – o ispirato, secondo i suoi detrattori – le verità farlocche di Scarantino. Implicato nei fatti del G8 di Genova del 2001, La Barbera morì un anno dopo. Il depistaggio, secondo i pm di Palermo, sarebbe un tassello di un ordito fatto di attacchi allo Stato agevolati da pezzi delle istituzioni e di protezioni di alto livello, che impedirebbero di arrivare alla verità: ma finora responsabilità precise non ne sono venute fuori. La verità non è venuta a galla per intero, hanno detto gli avvocati Rosalba Di Gregorio e Giuseppe Scozzola, comunque soddisfatti per le condanne dei falsi pentiti – meno per la prescrizione su Scarantino – contro i quali sono parte civile gli ex ergastolani. Quanto però al depistaggio di Stato, il gip di Caltanissetta Alessandra Giunta lo aveva ritenuto privo di fondamento, affermando che è provato solo l’errore giudiziario. Rimangono in piedi le indagini sulla squadra di investigatori che avrebbe fatto il lavoro sporco, usando il bastone e la carota, le botte e l’indottrinamento per «istruire» Scarantino sulle accuse da muovere: ma a loro volta, da chi furono «istruiti», ispettori, sovrintendenti, assistenti, che, tirando le somme, rischiano di pagare il conto per tutti? E questo anche se la tesi del depistaggio, per «alleggerire la loro posizione», scrive il gip, era stata assecondata dagli stessi Scarantino, Andriotta e Candura. Testimoni, insomma, a cui è arduo credere. 

La verità per disguido, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". Non è possibile che la storia delle stragi mafiose sia scritta a forza di documenti nascosti, sentenze sbagliate e sensazionalismi giornalistici (ovvero: Cos'è questo speciale). Alcune settimane fa Enrico Deaglio ha proposto al Post di raccontare di nuovo, per i 25 anni della strage di via D’Amelio, la storia più recente delle tante legate a quell’attentato e ai suoi misteri: quella di un documento investigativo rivelato per un “disguido” nel 2013 che mostrava delle cose nuove e gravi sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della strage. La storia di quel documento era già stata raccontata, ma senza grandi attenzioni o rilievi, anche dallo stesso Deaglio, anche sul Post. Ci siamo convinti che la scarsa attenzione fosse dovuta a una generale indifferenza e stanchezza nazionale nei confronti dei grandi “misteri d’Italia”; a una retorica commemorativa benintenzionata ma in cui restano imballati e sepolti fatti, spiegazioni, ricostruzioni; a un’incapacità dei media di rinnovarli e trasmetterli, nel groviglio di versioni e processi e cose false e vere che sono stati questi 25 anni. Come se non ce ne importasse più, per umane fatica e rimozione, anche se non lo ammetteremmo mai. Così abbiamo pensato di fare su quella storia il lavoro che al Post viene più spesso riconosciuto e richiesto, quello della spiegazione, della ricostruzione, del mettere in ordine storie e informazioni daccapo. E quello che pubblichiamo in questo speciale – una serie di diversi articoli legati tra loro – è il risultato di questo lavoro che abbiamo provato a fare per mettere quella storia in un contesto che aiuti a capirla, senza sconfinare negli ambiti più estesi e approfonditi su cui hanno scritto in tanti ed esperti. Ma mentre leggevamo ricostruzioni, articoli, verbali, e ascoltavamo registrazioni di udienze, e guardavamo video di interviste o di rovine di bombe, abbiamo anche iniziato a riflettere sulla contraddizione tra la tanto ripetuta “ricerca della verità” da parte delle istituzioni e da parte delle persone, e la continua sottrazione di pezzi di verità da parte delle istituzioni e da parte delle persone. Sono passati 25 anni da quando vennero uccisi il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 25 anni in cui si è chiesta mille volte “la verità” e quello che si è ottenuto è:

1. Una storia falsa spacciata per vera dal 1992 fino al 2008, col concorso di magistrati e ufficiali di polizia, su chi avesse compiuto quell’attentato: che ha prodotto, oltre a una falsificazione storica, la condanna e la detenzione per molti anni di nove persone estranee all’attentato (per le quali si è conclusa oggi la revisione del processo, con tutti gli imputati infine assolti, dopo 25 anni). Per quella falsificazione – una volta rivelata, nel 2008 – sono stati condannati solo gli imputati che avevano dichiarato il falso, malgrado siano certe le pressioni e le violenze da parte degli investigatori per ottenere quelle confessioni, confermate persino da una sentenza e da queste parole recenti del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paci: “C’è traccia di abusi, di contatti irrituali e connivenze tra investigatori e indagati per la ricerca di elementi che sostenessero una pista investigativa che all’epoca era plausibile, ma si ignorarono i campanelli di allarme che arrivavano dalle dichiarazioni contraddittorie di Scarantino sulla strage di via D’Amelio”.

2. La ripetuta dimostrazione dell’ostilità da parte dei magistrati che avallarono e difesero quella falsificazione a prendere in considerazione le molte prove che la dimostravano tale, e i pareri in questo senso di altri magistrati.

3. Una nuova versione divenuta pubblica solo nel 2008 e che ha portato alle condanne degli organizzatori ed esecutori della strage, senza chiarire le ragioni di quello e degli altri attentati di cui la mafia fu responsabile tra il 1992 e il 1994, in una campagna di violenze unica e anomala nella storia della mafia.

4. Una serie di indizi e dichiarazioni mai riscontrati sui rapporti dei boss organizzatori delle stragi con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, a tutt’oggi in bilico tra il credibile, l’incredibile, il molto raccontato e il poco provato.

Come si vede, su tutti questi quattro fronti nessuna “verità” è arrivata senza lasciarne altrettante da spiegare.

Chi e come ha indotto i “falsi pentiti” ad accusarsi e accusare altri falsamente, in un gravissimo e criminale depistaggio? Quali responsabilità, omissioni, intenzioni, hanno avuto i magistrati che hanno difeso con insistenza una storia falsa e fuorviante? Quali obiettivi ebbe, e quali sviluppi, la campagna di attentati tra il 1992 e il 1994? Hanno qualche fondamento le accuse contro Silvio Berlusconi? Quattro anni fa c’è stato un piccolo fatto nuovo che ha rivelato delle cose e ha fatto sospettare ce ne siano altre ancora rivelabili: un documento altrimenti “segreto” perché destinato solo alle indagini e non utilizzabile a processo, è diventato pubblico per un “disguido”, e ha svelato che Gaspare Spatuzza, il “collaboratore di giustizia” che svelò e fece smontare la falsificazione nel 2008, l’aveva già dichiarata falsa nel 1998, seppure con meno riscontri alla sua versione: ma nessuna indagine fu fatta sulle sue dichiarazioni. Quel documento è pubblico da tre anni ma è stato molto trascurato nelle ricostruzioni e nelle narrazioni, forse perché sembra certificare ulteriormente l’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nel proteggere la versione falsa. Ma quel documento è anche una traccia solo parziale di tutto quello che può essere stato già evocato e raccontato vent’anni fa ed è stato taciuto e mai verificato: ci sono altre cose dette in quello e in altri “colloqui investigativi” con i magistrati che continuano a essere riservate. Il Presidente del Senato Pietro Grasso, che da magistrato è stato uno dei personaggi di queste storie, ed è stato protagonista di grandi impegni giudiziari contro la mafia, ha appena pubblicato un libro sulle sue esperienze e sulla sua amicizia con i magistrati Falcone e Borsellino. Tra le altre cose, Grasso ricorda del suo auspicio, appena eletto senatore, di “una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi”: Ci sono troppi profili di quel tragico disegno stragista che restano ancora oscuri. Bisogna insistere perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature. Le dichiarazioni rilasciate dal pentito e gli elementi da lui forniti alle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo hanno consentito di ristabilire finalmente alcune verità sulle stragi. Occorre seguire un metodo preciso nella ricostruzione delle vicende, lo stesso metodo che ha ispirato la mia carriera di magistrato: credere solo a quello che è riscontrabile, provato, offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro, senza cadere nella tentazione di dipingere scenari opinabili, anche se suggestivi, ipotetici e non dimostrabili. Se si vuole chiarezza, si deve partire da ciò che è accertato, senza smettere di sollevare interrogativi e sottolineare i punti oscuri che richiedono un’ulteriore riflessione. Grasso ha ragione su entrambe le cose: la legislazione sui collaboratori di giustizia ha prodotto risultati riconosciuti e fondamentali ma anche disastri e inganni, come ogni regola emergenziale. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è frutto per prima cosa di un abuso di quelle regole, mentre il loro uso più coerente ha prodotto lo svelamento di quel depistaggio. E la confusione tra presunte verità giornalistiche e verità giudiziarie è alla base di storture quotidiane nell’amministrazione della giustizia, della politica e della società italiane. Sono tutte ragioni per essere cauti. Però Grasso ha ragione anche quando parla di “offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro” (la storia del documento di cui parliamo è uno di questi) e quando chiede di continuare a “sollevare interrogativi”. La prudenza non può diventare silenzio. È già successo una volta, con un pezzo di questa storia, che informazioni utili a capire come fossero andate le cose siano state trascurate e che si sia lavorato con insistenza a una falsificazione: e se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, visto che per 11 anni in carcere non aveva mai voluto farlo? E se non avesse potuto esibire il riscontro sulla riparazione dei freni dell’autobomba che lo ha reso credibile a processo? Sarebbero rimaste solo le sue parole del 1998, nascoste in un archivio, non indagate, ignote, rimpiazzate da una sentenza sbagliata su una delle stragi più gravi e importanti della storia italiana. Quelle parole le abbiamo conosciute poi per un “disguido”: forse è meglio che per tutte le altre che sono state dette si creino allora le condizioni per conoscerle legalmente, deliberatamente, completamente. I “segreti di Stato” sono connaturati agli stati, però non bisogna farli diventare una condizione ordinaria e permanente: ma nemmeno investire i magistrati del ruolo degli storici – idea che ha fatto già, e fa tuttora, abbastanza danni – o per contro aspettare gli storici del XXII secolo col loro utile distacco. Può darsi che debba essere la commissione Antimafia, o la commissione chiesta da Pietro Grasso, ad avere accesso a tutti i documenti e a trovare il modo di rispondere pubblicamente a quelle domande: o può darsi che chiunque sia stato protagonista del bene o del male di questi 25 anni debba decidersi a raccontare delle altre cose, con prudenza ma senza omertà. Noialtri intanto facciamole, le domande, poi facciamo il punto di quello che sappiamo, e stiamo in guardia su falsificazioni e depistaggi di ogni genere.

Pentitismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il pentitismo è una tendenza comportamentale umana in base alla quale un soggetto membro di un'organizzazione criminale decide di rilasciare confessioni e dichiarazioni alle autorità inquirenti. Collegate al rilascio di tali dichiarazioni – rese prima e dopo la cattura del soggetto – generalmente sono tali da permettere alle medesime di prendere misure adeguate a combattere e addirittura debellare le stesse organizzazioni; in cambio i pentiti ottengono delle riduzioni di pena e protezione da parte dello Stato.

Falcone, la verità sui pentiti, scrive Gian Carlo Caselli il 3 dicembre 2009 su "Il Fatto Quotidiano". Ci risiamo. Finché indaghi su Riina o Provenzano vai bene. Ma quando – facendo il tuo dovere – passi a occuparti, ricorrendone i presupposti in fatto e in diritto, anche di imputati “eccellenti”, devi mettere in conto che cominciano i guai. Tornano in auge vecchi ma sempre verdi ritornelli. Anzi, dischi rotti. Ma suonati talmente a lungo da trapanare le teste. La tecnica è collaudata, un classico. Si comincia con la ricerca della verità svilita a cultura del sospetto e con l’accusa di costruire teoremi invece di prove; si prosegue con l’insinuazione di uso scorretto dei pentiti e con la loro pregiudiziale delegittimazione (mediante aggressioni strumentali che nulla hanno a che vedere con la fisiologica delicatezza e complessità di questo strumento d’indagine); e si finisce con le aggressioni contro i pm: sul banco degli imputati, invece dei mafiosi e dei loro complici, finiscono i magistrati antimafia. Sulla torta così confezionata (maleodorante), ecco poi la “ciliegina”, un altro classico: arruolare arbitrariamente Giovanni Falcone per sostenere che il suo metodo di lavoro è violentato dai magistrati di oggi che osano indagare anche i potenti. Peccato che pure questa sia propaganda sleale. Perché Falcone sapeva bene che senza pentiti un’efficace lotta alla mafia è impossibile. E quando – negli anni Ottanta – era giudice istruttore a Palermo, spesso si era chiesto perché mai tardasse ad essere approvata   – nonostante le sue forti sollecitazioni – una legge sui pentiti (nota bene: la legge arriverà soltanto dopo le stragi del ’92, ed è perciò una legge impregnata del sangue delle vittime di Capaci e via D’Amelio). Le parole di Falcone sono illuminanti: “Se è vero, com’è vero, che una delle cause principali, se non la principale, dell’attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extra-istituzionale, potrebbe sorgere il sospetto, nella perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico – mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”. Quanto all’oggi, la speranza – ovviamente – è che i professionisti delle polemiche contro i pentiti e i magistrati che ne raccolgono e sviluppano le rivelazioni siano mossi da ben diverse preoccupazioni. Un altro “classico” sono le polemiche sul cosiddetto “concorso esterno”. Vi si è esercitato anche il presidente Berlusconi, per esempio nell’intervista al periodico inglese Spectator e alla Gazzetta di Rimini dell’11/9/’03, sostenendo che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”. La verità (nonostante le tecniche pubblicitarie di imbonimento organizzate per stravolgerla) è un’altra. La figura del cosiddetto “concorso esterno” risale addirittura al 1875, come provano le sentenze della magistratura palermitana sul brigantaggio. Poi fu impiegata nei processi per terrorismo alle Br e a Pl e in quelli di mafia istruiti da Falcone e Borsellino. La sua legittimità, infine, è stata ripetutamente riconosciuta dalla Corte di Cassazione, che ha anche stabilito rigorosi paletti garantisti. Allora, tutti comunisti? La Cassazione, i giudici palermitani di due secoli fa, quelli che negli anni di piombo hanno sconfitto il terrorismo, il pool di Chinnici e Caponnetto…tutti comunisti? Sostenerlo è piuttosto temerario e comunque impedisce di confrontarsi con la dura realtà dei fatti, che il pool di Falcone (pag. 429 dell’ordinanza-sentenza 17 luglio 1987 conclusiva del maxi-ter) così espone, spazzando via ogni dubbio: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa “convergenza di interessi” col potere mafioso… che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.      A fronte di queste parole, le note scassate dei logori ritornelli sul concorso esterno non sono altro che la replica di un film già visto. Sicuramente perdente per l’antimafia.

Pentiti di mafia: l’opinione di Giovanni Falcone, scrive Fabrizio Capecelatro il 24 Marzo 2014 su "Nano press". Giovanni Falcone fu il primo a capire che per combattere la criminalità organizzata, avendo realmente la volontà di sconfiggerla, era necessario riuscire ad avere uno sguardo all’interno dei clan. Egli, infatti, fu il primo a convincere un mafioso a collaborare con la giustizia, Tommaso Buscetta, e questo “pentimento” lo si deve proprio alle caratteristiche umane di Falcone. In una società, come quella mafiosa, dove non si riconosce lo Stato e non si ha alcune considerazione per le sue istituzioni, sono solo le persone a fare la differenza. Possiamo, quindi, dire che il primo pentito italiano decise di pentirsi proprio per la fiducia e la stima che nutriva nei confronti di Falcone. E, infatti, lo stesso magistrato siciliano nel libro “Cose di cosa nostra”, scritto a quattro mani con la giornalista Marcelle Padovani, si riconosceva questo ruolo: “Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, [...]. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà”. Ma Giovanni Falcone invitava addirittura a fare di più, a provare a mettersi nei loro panni, nei panni dei pentiti: “Provate a mettervi al loro posto: erano uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e più solida di uno Stato sovrano, ben protetti dal loro infallibile servizio d’ordine, che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il tradimento, dall’altra”. E lui stesso provò a farlo: “Io ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogatori veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che possono confortare il pentito nella sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia. Non gli ho dato mai del tu, al contrario di tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere autorizzati a fare, e neppure gli ho portato dolci siciliani, come qualcuno ha insinuato. Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del termine: sono pagato dallo Stato per perseguire dei criminali, non per farmi degli amici”. “Conoscere i mafiosi – ha proseguito poi Falcone – ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e anche sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso – il tradimento, o la semplice fuga in avanti – provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. L’imperativo categorico dei mafiosi, di “dire la verità”, è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della vita. Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità”. “Questa avventura – concluse Falcone – ha anche reso più autentico il mio senso dello Stato. Confrontandomi con lo “Stato-mafia” mi sono reso conto di quanto esso sia più funzionale ed efficiente del nostro Stato e quanto, proprio per questa ragione, sia indispensabile impegnarsi al massimo per conoscerlo a fondo allo scopo di combatterlo”.

Da Lima al bacio di Andreotti tutte le invenzioni dei pentiti, scrive Stefano Zurlo, Sabato 28/11/2009, su "Il Giornale". L'alfa e l'omega dei pentiti. E delle bugie a distanza di tanti anni. Le storie si ripetono e si inseguono. Inquietanti, come i doppifondi che nascondono. Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura entrano nel libro mastro dei collaboratori che hanno spacciato menzogne come, a suo tempo, Giovanni Pellegriti, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a passare dalla parte dello Stato. Pellegriti accusa, nientemeno, Salvo Lima, a quel tempo proconsole di Giulio Andreotti a Palermo, di essere il mandante di uno dei tanti omicidi eccellenti, quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Giovanni Falcone, sempre evocato e qualche volta pure a sproposito, corre nel carcere di Alessandria a interrogarlo e capisce subito che il pentito mente. Non sa nulla di Mattarella né dei suoi assassini. Dovrebbe far arrestare Lima e mandare un avviso di garanzia ad Andreotti, invece incrimina per calunnia Pellegriti e lo fa condannare a quattro anni. Quattro anni per aver venduto menzogne allo Stato. Un caso unico che ora potrebbe ripetersi. Tanti anni e tanti pentiti dopo. Falcone, purtroppo, non c’è più, ma c’è un nuovo dichiarante - strana crisalide sul punto di trasformarsi a tutti gli effetti in pentito doc - che porta acqua al mulino delle accuse a Silvio Berlusconi. È Gaspare Spatuzza, il killer di don Puglisi, pentito, convertito e addirittura aspirante teologo. Spatuzza riporta le confidenze dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, sui rapporti di Cosa nostra col premier: dunque diventa importante, credibile, persino autorevole. Ma, incidentalmente, sconfessa anche Candura e Scarantino che si erano accusati di aver rubato la 126 usata per la strage di via DAmelio e la morte di Paolo Borsellino. Che fare? Tagliare a fette, come un prosciutto, il racconto di Spatuzza? No, non si può avallare lo Spatuzza che parla del premier e cancellare lo Spatuzza che riscrive via DAmelio. E allora si buttano nel cestino Scarantino e Candura, anche se i racconti dei due sono serviti per costruire una verità processuale che ha retto a tutti i gradi di giudizio. Per via DAmelio sono fioccate condanne, condanne pesantissime. Non importa. Ora la coppia Scarantino-Candura è indagata per calunnia e autocalunnia. Ma le prove dov’erano? E i riscontri? E gli elementi oggettivi a cui ancorare quelle pagine? Non c’erano, ammettono oggi i giudici. Ma ieri, con l’illustre eccezione del pm Ilda Boccassini, nessuno aveva seguito per via DAmelio il metodo Falcone. Quei verbali erano tappeti volanti che portavano i magistrati lontano, dove non sarebbero mai arrivati. E si faceva la gara per salirci sopra. Certo, era più semplice dare la parola come fosse un conferenziere, a chi raccontava e riaggiustava a ruota libera la storia d’Italia. Un innamoramento sconsiderato, come è stato spesso eccessivo, senza filtri critici, l’amore dei nostri investigatori per le nuove tecnologie scientifiche, per i test del Dna, per le elaborazioni alla Csi. Col risultato di avere un alto numero di delitti irrisolti. Il pm di Bologna Libero Mancuso ha composto una sorta di fenomenologia del pentito, o almeno di un certo pentitismo, incarnato da Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo, uno dei più fecondi inventori di storie a cavallo di criminalità comune e criminalità organizzata: «Si intuiva la volontà di soddisfare chi lo interrogava, al di là di quello che lui sapeva. Era come se prevedesse quello che l’inquirente voleva sentirsi dire e si adeguasse a questa previsione, per far contento il magistrato». Come un cinico seduttore che ha fatto i suoi calcoli. Così è proprio Izzo a ispirare Pellegriti che però trova sulla sua strada Falcone. Altri hanno fabbricato di tutto pur di continuare a coltivare, come tanti dottor Stranamore, i propri affari criminali sotto il velo del pentimento. Per cinque anni nessuno si accorge della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio che non ha mai smesso di gestire gli interessi della sua cosca. Giacomo Lauro, padrino della ndrangheta, da pentito si dedica al narcotraffico e, colto con le mani nel sacco, si giustifica candidamente: «Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovrei fare, non dovrei aiutarlo?». Come si fa a prendere a scatola chiusa, come pure talvolta è accaduto, personaggi di questo spessore? Giuseppe Ferone fa di più: nel 96 ordina addirittura una strage vicino al cimitero di Catania. E Balduccio Di Maggio, il principe dei collaboratori, quello del bacio da fiction tra Andreotti e Riina, andrà avanti per anni a organizzare indisturbato, se non sotto protezione, attentati, estorsioni, persino consulenze per un traffico di droga. L’unica chance con i pentiti è quella di pesarli, con le loro verità e le loro menzogne, sulla bilancia dei riscontri. Come insegna una memorabile udienza del processo Andreotti, dove un grappolo di collaboratori - perché uno non basta mai - ipotizzava un abboccamento fra il sette volte presidente del Consiglio e il capo della mafia catanese Nitto Santapaola. Alla fine, messi alle strette dopo un estenuante batti e ribatti, i collaboratori indicarono la data del presunto summit. Peccato che quel giorno Andreotti avesse stretto la mano a Mikhail Gorbaciov.

Pentiti, inganni e piani segreti. Ritorna il mafia-thriller, scrive Luca Crovi, Lunedì 15/07/2013, su "Il Giornale". La stagione del pentitismo che ebbe inizio negli anni 80 in Italia ha sostanzialmente cambiato le regole della lotta alla mafia. E se dietro certe confessioni si fosse nascosto un piano diabolico? Se certe dichiarazioni fossero state fatte per cambiare definitivamente l'assetto di un certo tipo di criminalità e dare spazio a un nuovo più insidioso sistema? E se le istituzioni nel loro intento di fare giustizia fossero state usate dai criminali stessi? Sono ipotesi inquietanti quelle che mette in scena il thriller Nessuno escluso di Enzo Russo, uscito originariamente nel 1995 e ora riedito da Barion. Un romanzo che ci suggerisce che il pentitismo sia stato talora in grado di attaccare in maniera virale lo Stato Italiano dando spazio a un nuovo ordine mafioso. Al centro delle vicende di questa storia fatta di silenzi, confessioni e inganni è il commercialista Ettore Milazzo, braccio destro di un latitante che temendo per la propria vita chiede protezione alle autorità e decide di vuotare il sacco facendo i nomi di una cosca mafiosa. Ma perché Milazzo sta facendo questo? E chi è davvero questo apparente anonimo individuo che si consegna alla polizia con una valigetta piena di denaro? Quanto gli inquirenti devono fare davvero affidamento sulle sue confessioni e quanto invece queste li costringono invece ad agire seguendo uno schema studiato al tavolino? Enzo Russo è abile nel costruire una storia densa di domande e di misteri che parte dall'ipotesi del cosa sarebbe successo se la mafia avesse deciso di infiltrare il tessuto giudiziario e investigativo dello Stato. Scopriamo così quanto il sistema dell'Anti Mafia possa risultare fragile. Come spiega lo stesso Russo in una lunga intervista che è posta in appendice a Nessuno escluso: «senza il pentitismo saremmo ancora al punto di partenza. Un fenomeno che tuttavia portava in sé delle insidie non facili da identificare. Che affidamento si poteva fare su gente del genere? Eppure bisogna chiedersi: quale giustizia senza i pentiti? Quale giustizia con i pentiti?». Prima che un romanzo di tesi sociali e giudiziarie «Nessuno escluso» è però un grande thriller dove nessuno è ciò che sembra, e dove la distinguere fra bene e male è impossibile. E il pentito Ettore Milazzo è un personaggio che per molti versi ricorda la spia George Smiley de La Talpa di John Le Carrè, un criminale da tempo abituato a fingere e a trattare gli altri come burattini del suo personale teatrino.

Tra corvi e pentiti trionfa la giustizia ingiusta, scrive Luca Rocca, Sabato 20/08/2005, su "Il Giornale".  È una storia di corvi e pentiti, calunniatori e calunniati, di inquietante malagiustizia e di garantismo sepolto quella raccontata da Mauro Mellini nel suo ultimo libro (edito da Koinè) e intitolato appunto «Tra corvi e pentiti. Un caso qualsiasi anzi... speciale». Una storia di provincia ma assolutamente emblematica del clima che si è respirato negli anni Novanta nel nostro Paese e dell’uso magistralmente distorto che a lungo si è fatto dei falsi pentiti. Mellini, avvocato, ex deputato dei Radicali, componente del Csm dal 1993 al 1994, narra la vicenda di Francesco Giangualano, «semplice» consigliere e assessore nel comune di Trani nelle fila della Democrazia Cristiana. Una vita non facile, quella di Giangualano. Diventato cieco all’età di 21 anni, mai avrebbe potuto immaginare che la sua vita sarebbe presto andata incontro a guai persino peggiori. Tutto ha inizio con la sua nomina alla carica di presidente dell’Amet, l’azienda municipale dell’elettricità e dei trasporti di Trani. Un ente quasi sempre utilizzato per «fare clientela» e che Giangualano rende invece un fiore all’occhiello della città. Ed è forse questo il suo «peccato originale», perché è da quel momento che si alza il venticello della calunnia attraverso lettere anonime, delazioni e denunzie apocrife con le quali si mettono in dubbio i sistemi utilizzati da Giangualano nella direzione dell’Amet. Lettere anonime che vengono inspiegabilmente tenute in seria considerazione dai magistrati di turno e che, passate al vaglio degli inquirenti, hanno portato a un ovvio nulla di fatto, senza però risparmiare all’accusato la solita gogna mediatica. Tra un’indagine e l’altra gli inquirenti arrivano persino a chiedersi come possa un cieco avere conseguito una laurea e addirittura a mettere in dubbio la reale cecità di Giangualano. E come al solito tutto si chiarisce solo dopo che il danno è stato fatto. Ma nel bel racconto di Mellini questa è solo la prima parte della storia. Siamo negli anni Novanta, su stampa e televisione non si parla daltro che di Tangentopoli e del processo per mafia a Giulio Andreotti. E mentre il senatore a vita si difende dalle accuse di decine di pentiti poi sbugiardati dalle sentenze, anche Giangualano entra nel vortice del «gioco del pentito». Un certo Salvatore Annacondia, collaboratore di giustizia, lo accusa infatti di aver ricevuto l’incarico proprio da Giangualano e da altre tre persone (che poi diventano quattro) di ammazzare Leonardo Rinella, procuratore della Repubblica presso l’allora Pretura di Trani dal 1989 al 94, da sempre scettico sul ruolo dei pentiti ma pronto a prenderli seriamente in considerazione quando si tratta di accuse che riguardano un «magistrato scomodo», come lui stesso si definisce. Annacondia non è un pentito qualunque. È noto alle cronache anche per essere stato ascoltato dalla fallimentare Commissione parlamentare Antimafia presieduta dal diessino Luciano Violante. Le sue versioni dei fatti, e non è una novità nel mondo dei pentiti, cambiano così tante volte e si contraddicono in così tanti punti che diventa difficile, se non impossibile, capire come possano dei bravi magistrati chiedere il rinvio a giudizio di un uomo sulla base di palesi menzogne raccontate da un pluriomicida reo confesso. Menzogne che però hanno avuto delle conseguenze gravi, perché le accuse di Annacondia hanno finito per tirare in ballo anche l’allora sindaco di Trani provocando lo scioglimento del Consiglio comunale. E che si tratti solo di bugie e calunnie lo dice Giangualano, che è venuto a conoscenza dei fatti attraverso la stampa e non tramite un’informazione di garanzia; lo dice l’autore del libro, che pure rende perfettamente chiaro come ci si trovi di fronte ad assurde falsità; lo dice anche solo la logica, scettica quando ci si trova di fronte a presunte colpe senza né capo né coda. Un caso più che simbolico, dunque, dell’Italia stravolta dall’ondata giustizialista che Mellini racconta con grande maestria. Un caso da tenere in seria considerazione ogni qualvolta si parla di pentitismo.

Diceva Manzoni: «Non credete ai pentiti», scrive Piero Sansonetti il 17 Agosto 2016, su "Il Dubbio". Il tribunale del riesame ha negato la scarcerazione al senatore Caridi e agli altri esponenti della politica calabrese catturati circa un mese un fa su ordine della Procura di Reggio Calabria. Non c’è nessuno al mondo – immagino – che creda all’ipotesi che la custodia cautelare del senatore Caridi sia necessaria per i motivi previsti dalla legge (rischio di fuga, o di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato). Ma evidentemente il tribunale del riesame ha voluto evitare di sottrarre ai Pm questo strumento di indagine, e cioè la pressione psicologica che la carcerazione preventiva esercita sull’imprigionato e che può spingerlo a parlare. E a dire eventualmente la verità, o più probabilmente a dire ciò che chi interroga vuole che dica. Dando così una qualche robustezza a una indagine che al momento robustezza non ha. In questi giorni, come sapete, stiamo pubblicando sul Dubbio, a puntate, il testo dell’opera di Manzoni intitolata Storia della Colonna Infame. Si raccontano le turpitudini commesse dai giudici del seicento, a Milano, per condannare a morte e al supplizio due poveretti, del tutto innocenti, accusati di essere untori, e cioè di spargere volontariamente per la città il morbo della peste bubbonica. E impossibile non metter a paragone la rabbia di Manzoni contro l’uso della tortura per costringere la gente a confessare fesserie, e il modo nel quale – meno sanguinosamente – oggi si adopera, illegalmente, la carcerazione preventiva. Ma nel capitolo che pubblichiamo oggi c’è qualcosa di più: Manzoni smonta come vero e proprio sopruso l’uso del pentitismo. E definisce i pentiti che parlano in cambio di un premio non solo inattendibili ma corrotti. Vi prego vivamente di leggere almeno il capitolo che pubblichiamo oggi della Colonna Infame. Manzoni ci spiega che la giurisprudenza di allora - feroce e medievale – considerava attendibile un pentito solo se parlava senza ricevere in cambio alcun premio (e dunque considerava illegali gli sconti di pena). E addirittura prevedeva che le accuse di un pentito (che comunque considerava infamia: parole sue) avessero una qualche validità silo se confermate dalla tortura. Avete capito bene? I giudici torturavano il pentito, per farlo ritrattare, e solo se non ritrattava la sua testimonianza veniva presa in considerazione, e comunque non come prova ma come indizio. Mi piacerebbe se tutti i Pm, ma anche tutti coloro che vengono eletti in Parlamento col compito di scrivere le leggi, fossero tenuti a leggere con attenzione la Colonna infame.

Il fenomeno del pentitismo: una questione sociale? Scrive Marco Arnesano su "Altri Confini" a Gennaio 2013. «Il pentito pratica un percorso che corre inesorabilmente verso il basso. Non più messia, non più Rambo, non più mattatore, il pentito è un uomo al tramonto che ha perduto i pedali, viaggia a ruota libera ed è solo in attesa di una morte naturale e violenta». [Greco G. Monda D. in Novecento Italiano raccontato da scrittori] Tra i diversi strumenti che lo Stato ha utilizzato, e continua ancora oggi ad utilizzare per contrastare l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso, quello più importante è l’acquisizione di quel bagaglio di conoscenze proprio dei collaboratori di giustizia (conosciuti semplicemente come “pentiti”) perché affiliati a quelle consorterie criminose basate sulla segretezza e sul vincolo dell’omertà. La rottura della compattezza interna della mafia, determinata dal pentitismo, rappresenta la condizione (oltre che per combattere) anche per conoscere il fenomeno mafioso. Per contrastare il fenomeno della “società criminale” (o “societas sceleris”), lo Stato non si accontenta di condannare gli esponenti mafiosi ma per avere di più “scende a patti” con gli adepti catturati. Chi sceglie di collaborare con la giustizia non è pentito degli atti criminali che ha compiuto, semplicemente decide di raccontarli per avere in cambio dei benefici. Tale scelta diventa “consapevole” per due motivi. Il primo è la consapevolezza che matura quando si viene catturati, alternativa rispetto al vivere il resto della propria vita rinchiusi in una cella. Il secondo è evitare di finire ammazzati per mano dei propri “amici”. Naturalmente il percorso che spinge gli affiliati delle cosche a collaborare, indipendentemente dalla motivazione, si accompagna sempre ad un processo di trasformazione dell’identità individuale. «Quella dei pentiti è una merce delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, sono degli sconfitti che abbandonano un capo per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile, che sappia davvero usarli per colpire i loro nemici. È un do ut des che ha i suoi rischi: loro vogliono vendetta, noi giustizia». Il collaboratore di giustizia è un persona che va alla ricerca di una nuova identità, affermandosi come testimone di professione, vendicatore della legalità infranta nel tentativo di sostituire l’identità del mafioso morto con una nuova: quella di collaboratore dello Stato. I collaboratori di giustizia quindi – come riportato sul sito web della Camera – sono: «Persone che hanno un passato di appartenenza ad un’organizzazione criminale o mafiosa. Essi sottoscrivono un “contratto” con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni che provengono dall’interno dell’organizzazione criminale, in cambio di benefici processuali penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari».

IL FENOMENO DEL PENTITISMO: LA GENESI, LA NORMATIVA, IL RUOLO DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA. Scrive Martedì 02 Settembre 2014 "Comirap". Il tema del pentitismo, altrimenti conosciuto come collaborazionismo, è di costante attualità ed il fenomeno presenta un andamento piuttosto regolare anche se i media periodicamente hanno la capacità di sollecitare picchi di interesse riferiti a particolari personaggi. L’Italia è il più grande produttore al mondo di “pentiti” anche per la presenza, nel nostro paese, di fenomeni di criminalità organizzata endemici nel meridione (mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita…). La nascita del fenomeno e riconducibile al momento storico in cui grandi boss hanno cominciato a “parlare” del proprio mondo malavitoso, forse per la loro stessa intolleranza ad una criminalità senza limiti (noti i casi di Buscetta e Contorno). L’interesse dello Stato e della magistratura a conoscere il mondo impenetrabile delle cosche mafiose e similari e la necessità di proteggere i pentiti da punizioni e ritorsioni da parte di boss e nemici hanno portato alla prima legge di disciplina del sistema di protezione: legge 82 del 15 marzo 1991, che ha convertito con modifiche il DL. 8 del 15 gennaio 1991. Il fenomeno viene quindi regolamentato (benefici carcerari, sconti di pena, carceri ad hoc, nuova identità per i pentiti, aiuti economici etc.) ma ci sono taluni buchi normativi, dovuti evidentemente alla prima emergenza, e gradualmente sanati dalle leggi di modifica (legge 13 febbraio 2001 n.45). Lo Stato e la magistratura fin dall’inizio incoraggiano il fenomeno ma non ci sono fondi neri come ritenuto indebitamente da qualcuno, anzi sul fenomeno c’è una puntuale relazione semestrale al Parlamento da parte degli uffici ministeriali interessati (Direzione centrale polizia Criminale).

Gli organi del sistema di protezione: innanzitutto l’Autorità Giudiziaria, che propone il sistema di protezione per i collaboratori e decide se il soggetto e a rischio e se e quali familiari necessitino di protezione. L’organo politico, ossia la Commissione mista insediata presso il Ministero dell’Interno e presieduta dal Sottosegretario con delega alla polizia, che decide sulla ammissione della proposta. Il Servizio Centrale di Protezione (Ministero Interno) è l’organo esecutivo, presieduto da un Questore o da un Generale dei Carabinieri (alternanza triennale), controllato da governo e forze politiche, che si occupa di dare attuazione all’intero programma di protezione.

Procedura: Può nascere con l’arresto di un criminale (il caso dei fratelli Brusca, ed è l’ipotesi più comune) che decide di parlare oppure può nascere con una collaborazione spontanea indipendentemente da un arresto. L’Autorità Giudiziaria fa la proposta di “protezione” al fine di avere notizie utili, la Commissione decide sulla ammissione e gli uffici ministeriali competenti mettono in atto il programma di protezione. Il Servizio Centrale di Protezione provvede all'attuazione degli speciali programmi di protezione e di assistenza, ivi compresa la promozione delle misure di reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma, formulati dalla Commissione Centrale di cui all'art. 10 del D.L. 15.1.91 n.8. Provvede inoltre all'attuazione delle misure adottate, in casi di particolare urgenza, dal Capo della Polizia - Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, a norma dell'art. 11 della legge n°82/91. A tal fine mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie e di Pubblica Sicurezza, nazionali ed estere, nonché con i competenti organi dell'Amministrazione Penitenziaria e con tutte le altre Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate. Attraverso 14 Nuclei Operativi, con competenza regionale o interregionale, cura la diretta attuazione delle misure di assistenza economica contemplate nel programma e garantisce il necessario supporto. Con “l’intervista” il personale ministeriale prende conoscenza diretta dall’imputato della sua intera esistenza, della sua personalità, della disponibilità a collaborare etc…. Differente è lo status del testimone di giustizia (Legge 45 del 2001), ossia di colui che ha assistito ad un evento delittuoso o ne è rimasto coinvolto ed ha pari bisogno di protezione. I numeri: attualmente in Italia ci sono circa 900 collaboratori di giustizia, più 5000 familiari; 70 testimoni di giustizia più 200 familiari. Perché il criminale collabora? Quasi mai per motivi morali, sempre per i vantaggi connessi alla protezione, soprattutto in presenza di figli minori. Il collaboratore di giustizia può avere permessi premio dal Giudice di Sorveglianza e può perfino essere messo in libertà dopo aver scontato una certa misura della pena, come previsto per legge. Il pentitismo ed il collaborazionismo hanno permesso l’arresto di pericolosi boss come Toto Riina, ma il problema della gestione di circa seimila persone esiste. Ci si chiede al riguardo: la legge ed il sistema di protezione funzionano? Il fatto che la legge originaria sia ancora vigente e che sia poi stata modificata in vari punti lascia pensare di sì.

Come funziona la protezione? La prima fase è il trasferimento (di solito di notte e dal sud al centro-nord) del personaggio “pentito” e dei suoi familiari, che viene allontanato dalla sua zona di origine e residenza (i familiari possono decidere di non seguire il pentito). La seconda fase e il trapianto del nucleo familiare in una nuova realtà sociale dove sorgono, soprattutto per i minori, problemi di lingua (spesso parlano in dialetto), di rapporti umani, di amicizie, di parenti abbandonati (Sindrome da sradicamento). I benefici possono riguardare il lavoro, la scuola, l’arredamento e tutto il necessario per una vita decente, a cui si aggiungono benefici carcerari se il collaboratore deve scontare una pena. Per un inserimento morbido dei pentiti nelle nuove realtà si preferisce la tecnica della mimetizzazione (il cosiddetto lasciarli stare) per non dare visibilità al “trapianto sociale”. Il problema più grande e la mentalità dei pentiti (non sono abituati a pagare le bollette, hanno comportamenti “strani”: qualcuno ha perfino si cementato il giardino, altri stendono i panni nell’androne del palazzo). Il contributo mensile ai pentiti, che si aggiunge alla disponibilità di un appartamento dignitoso, e parametrato al nucleo familiare, all’ indice Istat sul costo della vita, alla misura degli assegni sociali etc. La “collaborazione si fonda su un contratto che viene stipulato tra lo Stato ed il collaboratore di giustizia. Le lamentele di qualche pentito (Memorabile il caso di un incatenato di fronte alla questura Genova) trova fondamento in pretese eccessive (una villa anziché un appartamento) e non concordate nel contratto. Se il pentito continua e delinquere e inadempiente dal punto di vista contrattuale. Il programma di protezione contiene tutti gli elementi necessari a proteggere il collaboratore, con la correlata gestione del nucleo familiare, che la legge tende sempre a salvaguardare, in vista di una evoluzione dello stesso grazie all’inserimento in un ambito sociale più civile. Documenti di copertura: sono necessari per creare una nuova identità del pentito (c’è un regolamento specifico in tale materia). Se la nuova identità è bruciata, ossia svelata, si crea un'altra identità, si va in un altro luogo, in un’altra casa. Viene in pratica creata un’altra esistenza (dalle vaccinazioni, alle scuole fino agli eventi più recenti); nei casi estremi sembra che si ricorra anche ad un mutamento chirurgico della faccia. Quanto dura la collaborazione? Fino a quando c’è una fattiva collaborazione e fino a che esista un rischio per il pentito (decide al riguardo l’Autorità Giudiziaria). A fine protezione, al fine di un reinserimento sociale e nell’intento di evitare che il soggetto torni a delinquere, viene a questo corrisposta una somma di denaro, previa presentazione di un progetto di reinserimento (cosa fare con i soldi della “liquidazione”, che lavoro svolgere, come gestire l’economia familiare etc.).

Pentiti di averli pentiti? Giustizia e pentitismo. Meeting di Rimini Lunedì 24 agosto 1998, ore 18.30

Relatori:

Luigi Follieri, Senatore della Repubblica Italiana, Relatore della nuova legge sui pentiti;

Franco Coppi, Avvocato;

Armando Spataro, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano.

Follieri: I collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti, da circa sette o otto anni sono al centro della attenzione della pubblica opinione, perché hanno svolto un ruolo importante per la giustizia: sicuramente bisognava fare ricorso ai collaboranti per approdare a determinate verità che difficilmente potevano essere penetrate da una ordinaria attività di indagini. Nel contempo, è anche vero che dei pentiti si è fatto un uso improprio, si potrebbe dire un abuso, come è evidente da alcune cifre: in Italia vi sono circa 1600 collaboratori di giustizi, 1600 persone che ricevono la protezione - e non soltanto la protezione - da parte dello Stato per il solo fatto che hanno deciso di svelare alcuni segreti che hanno per oggetto fatti criminosi. A questo numero consistente bisogna sommare anche i familiari e altri personaggi gravitanti nell’orbita dei vari collaboranti. Proprio per questo, nel dicembre 1996, nel corso della relazione semestrale che il ministro dell’interno è obbligato a rassegnare al Parlamento, il ministro Napolitano denunziava la situazione in cui versava lo Stato per questo numero altissimo di protetti, e invitava le forze politiche a rivedere la legge del 1991: ho l’onore di essere relatore di un disegno di legge su questo problema, disegno sul quale stiamo lavorando da oltre un anno. L’intero pacchetto normativo ormai è passato in Commissione giustizia: vi sono stati degli emendamenti volti a modificare alcuni punti salienti. Il primo è quello di ridurre l’accesso alla protezione e questo lo si è fatto attraverso la riduzione dei reati rispetto ai quali è possibile accedere ad un programma tutorio: con il nuovo disegno di legge si è ristretto l’ambito di questi reati e si è stabilito che potranno accedere al programma soltanto coloro i quali riferiranno in ordine a fatti rientranti nella così detta attività criminale organizzata e riguardanti la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Un altro punto essenziale di questo disegno di legge è che colui il quale decide di collaborare con la giustizia, di svelare fatti noti o ignoti rispetto ai quali non sono state individuate delle responsabilità facenti il capo ai loro autori, deve entro il termine massimo di 180 giorni riferire tutto quello che sa; scaduto questo termine non potrà riferire di altri fatti e di altri episodi. Con questa disposizione si vuole evitare che il pentito riferisca un po’ alla volta fatti che gli vengono in mente o che gli possono anche essere suggeriti. Oltre a queste due finalità, il disegno di legge si caratterizza anche per un’altra peculiarità: oggi colui il quale decide di collaborare ottiene gli arresti domiciliari - o addirittura la libertà - anche se ha commesso decine e decine di omicidi. Secondo le previsioni del nuovo disegno di legge governativo, tutto questo non sarà possibile: non sarà possibile dire che il collaborante ottenga la revoca di una custodia cui è sottoposto oppure ottenga uno dei tanti benefici premiali. Questo per evitare che i pentiti ottengano, come spesso hanno ottenuto, la libertà con una facilità che non è degna di un paese civile come il nostro. Il punto critico e di arresto del disegno di legge è invece connesso a una disposizione del nostro Codice di procedura penale, che all’articolo 192, terzo comma, recita: "le dichiarazioni rese dal coimputato nel medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art.12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità". Il legislatore aveva così dimostrato con questa formulazione una certa diffidenza nei confronti del chiamante in correità o dell’imputato connesso o collegato, tanto che la sola dichiarazione di questi soggetti processuali, se non corroborata da riscontri, non poteva e non può assurgere ad elemento di prova piena utilizzabile dal giudice. Nonostante tutto questo, la giurisprudenza è approdata ad una soluzione secondo cui i riscontri possono essere rappresentati da atti dichiarativi facenti capo a altri collaboratori di giustizia. Su questo punto si è paralizzata l’attività riguardante il disegno di legge in questione, e come tutte le problematiche più importanti è stata rinviata a settembre.

Coppi: Il problema della collaborazione con la giustizia di persone che avendo preso parte alla commissione di reati, ad un certo momento decidono di rivelare quanto essi sanno, è un problema vecchio come il mondo. Lo Stato non ha mai rinunciato a servirsi di quelli che un tempo si chiamavano i delatori e che a Roma si chiamano gli spioni o in Sicilia gli infami. La differenza rispetto al passato sta che le dichiarazioni rese dai delatori di per sé non erano prova, tanto è vero che il confidente, lo spione, era tutelato dal fatto che l’inquirente che aveva ricevuto la confidenza non era tenuto a rivelare il suo nome. Mai è avvenuto che un soggetto nel passato fosse condannato esclusivamente sulla base di una confidenza anonima. Oggi lo Stato vuole qualche cosa di più: vuole che il delatore diventi egli stesso fonte di prova. Non basta quindi che il mafioso pentito spifferi qualche notizia all’autorità giudiziaria nascondendosi poi nuovamente nell’ombra; deve comparire nel processo, deve rendere le sue dichiarazioni e diventare quindi egli stesso prova. Si tratta dunque di una differenza essenziale rispetto al passato. In Italia si è maturata l’esperienza dei pentiti all’epoca del terrorismo, e peraltro in una prospettiva completamente diversa da quella in cui deve essere collocato il problema degli attuali collaboranti - non oso e non voglio usare il termine ‘pentiti’, perché questa espressione evoca catarsi spirituali, ripensamenti e revisioni della propria visione della vita e del mondo di cui io non riesco a far credito a queste persone -: la situazione era infatti completamente diversa perché effettivamente si doveva riconoscere che il terrorista che si staccava dalla lotta armata, che rinnegava la sua vecchia visione del mondo, che si staccava dai compagni al punto tale da addirittura indicare i nomi di coloro che facevano parte del partito armato, probabilmente giungeva al termine di questo suo travaglio non certo per i vantaggi che poteva ottenere, che pure erano cospicui, ma probabilmente per un ripensamento profondo della esperienza che egli aveva vissuto. E lo Stato di questo era consapevole, tanto che in occasione del terrorismo veniva addirittura prevista la non punibilità del terrorista pentito, il quale avesse portato particolari e consistenti contributi. Quindi non solo sconti consistenti di pena, ma addirittura in certi casi la non punibilità. A questo non si è giunti con gli attuali collaboranti, forse proprio perché ci si è resi conto che in realtà dietro le forme attuali di collaborazione non c’è nessuna forma di pentimento, non c’è nessuna forma di catarsi interiore. Usare l’espressione ‘pentiti’ mi pare eccessivo, ma mi sembra che anche l’espressione ‘collaboranti di giustizia’ conceda troppo a persone le quali comunque si presentano sul proscenio molte volte senza neppure sapere quante persone hanno ucciso, perché ne hanno perso il conto o perché essendo abituati alle stragi non sanno quante persone hanno ammazzato di strage in strage. Attualmente, il problema nasce da una valutazione che risponde alla categoria dell’utile: lo Stato infatti riconosce che attraverso le notizie ricevute da membri appartenenti alle organizzazioni criminali si possono apprendere dati che altrimenti lo Stato non sarebbe in grado di raggiungere attraverso le sue forze investigative, e quindi in omaggio alla categoria dell’utile si supera qualsiasi tipo di remora di carattere etico che pure il problema presenta. Personalmente, continuo a considerare raccapricciante il fatto che lo Stato sia costretto a superare ogni problema di natura etica, soltanto in funzione della categoria dell’utile, e che quindi debba scendere a patti con queste persone, e in certi casi trovarsi anche di fronte alla umiliante situazione di collaboranti che offrono la collaborazione e in seguito la ritirano perché - lo dichiarano esplicitamente - fino a quel momento non hanno avuto dallo Stato quei vantaggi ai quali ritengono di avere diritto. Beccaria, che viene presentato come un campione dell’utilitarismo illuministico, più di 200 anni or sono, postosi il problema se fosse giusto che lo Stato scendesse a patti con i delatori, dopo aver finto retoricamente di seguire il discorso della utilità, esprime uno scatto di sdegno nei confronti di una soluzione di questo genere, perché ritiene che il patto con il delatore offenda la santa maestà della legge. Fatta comunque la scelta in funzione dell’utile, occorre verificare come questa scelta venga praticata e se questa necessità di risolvere il problema secondo la categoria dell’utile non abbia portato a delle conseguenze che non sono accettabili neppure paragonate ai vantaggi che si possono eventualmente ottenere dalla collaborazione di questi signori. Ritengo che la gestione dei pentiti abbia portato a degli effetti perversi. Si continua a ripetere che senza i pentiti non si sarebbero scoperti determinati reati, non si sarebbe potuto penetrare negli organismi di Cosa nostra: anche io lo riconosco, però ci si trova ormai di fronte ad un abuso di questa gestione, e si deve tener conto anche di altri fatti. In primo luogo, oggi noi assistiamo ad un uso spregiudicato del pentito da parte della autorità giudiziaria, uso spregiudicato che si manifesta nella attività preliminare e nella attività di indagine che viene svolta dal pubblico ministero nel segreto della sua stanza, quando egli ha di fronte a sé soltanto il pentito. Il fatto stesso che egli abbia per le mani una persona la quale aspira alla qualifica di collaborante e quindi a tutti i benefici che ne deriveranno - dalla protezione al possibile cambiamento di generalità, dallo stipendio, alla assicurazione di un lavoro per sé e per i suoi famigliari - è sufficiente perché il pentito sia necessariamente ed inevitabilmente sollecitato ad allinearsi sulla linea che gli viene indicata dall’inquirente. Si verifica quindi un inevitabile fenomeno di adeguamento del collaborante alla linea investigativa che viene proposta. La seconda considerazione che va fatta è che, o per una rivelazione maliziosa da parte dell’inquirente di notizie che egli già possiede, o perché le indagini finiscono sulla stampa e vengono inevitabilmente divulgate, o perché si tratta di temi che vengono trattati in altri processi, è facile che il collaborante sappia quali sono i temi più delicati che bollono in pentola. Anche da questo punto di vista è dunque inarrestabile il tentativo del collaborante di porsi su una certa linea che in quel momento viene praticata. La terza rilevazione è la formazione di una giurisprudenza eccessivamente lassista in tema di valutazione delle dichiarazione del collaborante. L’esperienza ha anche dimostrato che i collaboranti, oltre tutto, si incontrano fra di loro e hanno tutta la possibilità di concordare le loro strategie rivelatrici. Quindi ammettere che possa costituire riscontro ciò che dichiara un altro collaborante è un altro tema sul quale si dovrà riflettere, soprattutto se sono esatte le indicazioni che abbiamo circa alcuni progetti di riforma della materia che stiamo trattando. Si è formata, contrariamente a quello che si dichiara, una vera e propria presunzione di veridicità delle dichiarazioni del collaborante. A tutto ciò aggiungo - questo fa parte della mia esperienza di avvocato - che i collaboranti fanno quello che vogliono, i collaboranti sono liberi di uscire di casa, di incontrarsi dove quando e come credono. Noi abbiamo avuto la confessione di collaboranti i quali avevano dichiarato la loro intenzione di collaborare, e che poi si incontravano nei ristoranti e nei caselli di autostrada, concordavano fra di loro le dichiarazioni che dovevano rendere per recare aiuto a vecchi amici di Cosa nostra concordavano la ricostituzione di cosche mafiose in quegli stessi territori nei quali avevano dominato. Dunque anche i riscontri incrociati sono estremamente pericolosi se si ammette che costoro abbiano a loro disposizione automobili, telefonini e libertà di incontro e che possano fare quello che vogliono, al punto tale di arrivare la mattina a dichiarare in tribunale la loro volontà di collaborare e di raccontare quel che sanno o che si ritiene che sappiano, e il pomeriggio di ammazzare qualche persona nel quadro della ricostituzione di una nuova cosca. Ma ci sono altri rischi connessi al sistema dei collaboranti. Dobbiamo ad esempio lamentare il sistema della rivelazione a rate che non può non generare il sospetto di un continuo adeguamento del collaborante a ciò che viene a sapere e a ciò che immagina possa far piacere all’inquirente. Dobbiamo rilevare che di fatto si è realizzata una non punibilità dei collaboranti; io ho chiesto infinite volte ai collaboranti quale era la loro situazione processuale, mi hanno risposto che non lo sapevano, non sapevano se erano stati condannati o meno. Ho chiesto loro se per i reati da loro commessi e confessati si fosse proceduto e si fosse intervenuto di conseguenza alla condanna: di fronte al collaborante che confessa il delitto, il processo potrebbe infatti essere sviluppato in termini rapidissimi e la condanna per quanto tenue potrebbe essere inflitta. La risposta di costoro che non si era proceduto, che erano in attesa di giudizio e via dicendo, permette di affermare che di fatto si giunge ad una sorta di non procedibilità dell’azione penale nei confronti di costoro. Bisogna anche riflettere sulla creazione cui ormai si è giunti di un nuovo ibrido, il mafioso in attesa di pentimento. I vecchi mafiosi, entravano gelidi nelle aule del tribunale, squadravano tutto l’uditorio con uno sguardo agghiacciante e poi in perfetto siculo si avvalevano della facoltà di non rispondere: sono persone ben diverse dai giovani mafiosi, i quali continuano a commettere delitti fino al giorno in cui non sono catturati, il giorno dopo si pentono e cominciano a collaborare, il che fa pensare che abbiano fatto un calcolo di convenienza molto evidente, continuare a fare i mafiosi finché non vengono scoperti e trovare tutti i vantaggi della loro pratica mafiosa, passando poi nella schiera sempre più nutrita dei collaboranti il giorno dopo essere stati catturati. Oltre a questo ibrido, c’è il pentito eterno, uno strumento tecnico raccapricciante: i pentiti sono sempre considerati imputati di reato connesso, e siccome sono tutti mafiosi si parte dal presupposto che Cosa nostra sia una cosa unica ed eterna, quindi tutti gli imputati collaboranti sono sempre imputati del reato connesso che viene ogni volta contestato al malcapitato sottoposto a procedimento, così che costoro in quanto imputati di reato connesso godono di tutte le garanzie che spettano all’imputato. È una sorta di consulente a vita, come Buscetta: qualsiasi cosa succeda in Italia, Buscetta viene prelevato dai suoi ozi sudamericani, viene portato in Italia e gli si chiede un parere su quello che è successo. L’ultimo rischio da segnalare è che lo Stato possa diventare inconsapevolmente il braccio secolare di vendetta ai mafiosi. Il processo al senatore Andreotti, ad esempio, si è svolto in questo contesto, lo squallido scenario delle lotte fra il clan di Brusca e il clan di Di Maggio.

Spataro: Alla domanda provocatoria che dà il titolo a questo dibattito "Pentiti di averli pentiti?", la mia risposta, e sono convinto di rappresentare le convinzioni di molti magistrati e non solo di pubblici ministeri, è no: assolutamente non pentiti, forse dispiaciuti di avere contribuito con i nostri discorsi ad aver condotto molti collaboratori in un tunnel buio da cui sarà difficilissimo uscire. Lo Stato italiano purtroppo si comporta nei confronti di chi, piaccia o non piaccia, ha fatto un salto nel buio troncando legami con famiglie, con i territori, togliendo vita e futuro ai figli, in un modo che non avviene in nessuna parte del mondo. Non condivido le affermazioni di Giorgio Vittadini sul pentitismo, affermazioni secondo cui una giustizia che si basa sui pentiti per la gran parte dei cittadini non è più credibile; sono affermazioni che non tengono minimamente conto di quella che è la realtà storica, la storia della nascita dell’utilizzo delle collaborazioni processuali, e che non tengono conto delle realtà attuali a livello internazionale. Intendo spiegarmi brevemente. Non è una invenzione dei pubblici ministeri o dei magistrati italiani il fenomeno della collaborazione processuale o il pentitismo - utilizzo questi termini solo perché termini imposti dalle esigenze di sintesi, queste definizioni non alludono al pentimento interiore ma alla collaborazione processuale, ed infatti si dovrebbe dire tecnicamente ‘collaboratori processuali’ -, perché da sempre e dovunque l’utilizzo dei collaboratori processuali è non il principale ma praticamente l’unico strumento di contrasto dell’attività del crimine organizzato, specialmente quello mafioso. Già nelle sentenze delle Corti d’appello delle Calabrie del 1890 o del 1901 si diceva che "senza gli uomini di onore che solo conoscono, per far parte dell’organizzazione, i segreti e le segrete cose, senza quegli uomini non possono farsi quei processi". Ed è così anche all’estero: prendiamo ad esempio il sistema statunitense, che è quello cui si ispira il nostro di protezione e di premio. Negli Stati Uniti non esiste neppure il problema, che anzi è rovesciato: ci si preoccupa di garantire la possibilità al collaboratore di rendere dichiarazioni senza pressioni, e il pubblico ministero arriva anche a patteggiare non una diminuzione della pena, ma che non procederà contro di lui per certi reati. Esiste addirittura un sistema per cui il ministro di grazia e giustizia degli Stati Uniti può autorizzare gli agenti sotto copertura, gli undercovered agents, ad infiltrarsi nelle organizzazioni non solo e non tanto per recepire egli stesso notizie, ma per individuare all’interno delle organizzazioni i personaggi criminali che per le loro caratteristiche personali saranno valutati potenziali futuri collaboratori. Un’infiltrazione dunque finalizzata a stabilire contatti personali e amichevoli tali che un agente sotto copertura potrà invitare ad un certo punto il collaboratore a saltare il fosso. Quando negli Stati Uniti si parla delle polemiche che in Italia ciclicamente si sviluppano attorno ai collaboratori processuali, la reazione è una risata e una successiva domanda: come fareste altrimenti la lotta alla mafia? Questa è la realtà statunitense, questa è la realtà tedesca, la realtà olandese e spagnola. Ho la fortuna di far parte della delegazione del ministero di grazia e giustizia di esperti di criminalità organizzata nei famosi paesi del G8: in questa sede, esiste un comitato che si occupa di criminalità organizzata, e il sistema italiano è la guida e l’esempio, ed infatti si fanno discussioni a livello internazionale - i paesi del G8 dovrebbero essere all’avanguardia nel mondo - che riguardano progetti di legge che per noi sono oziosi, perché siamo già avanti rispetto a certi problemi. Ci sono certamente dei fatti inquietanti intorno al fenomeno dei collaboratori; è necessario però affrontare luci ed ombre della questione con grande serenità, ad evitare da un lato di essere abbagliati e dall’altro che le ombre appaiano tenebre impenetrabili. Mi sono occupato di questo fenomeno anche ai tempi del terrorismo; a partire dal mio passaggio al settore della criminalità organizzata, che è coinciso con la fine del terrorismo, mi sono occupato del fenomeno per quanto riguarda mafia, traffico di stupefacenti e criminalità organizzata in generale. Per questa mia esperienza, sento di dover subito sfatare l’affermazione che dai terroristi si poteva accettare il pentimento, perché erano spinti da un movente ideologico, dai mafiosi invece non si può accettare perché sono spinti dal proposito di trarre vantaggi o addirittura talvolta di vendicarsi. L’unica vera differenza che ho riscontrato tra un tipo di collaboratori e l’altro è il livello culturale: anche il più ignorante dei terroristi aveva una cultura frutto di lettura di testi "sacri", che gli consentiva di tenere apprezzabili discorsi in qualsiasi sede. Ma la prospettiva del vantaggio processuale era una prospettiva valida per il terrorista pentito così come è valida oggi, ed è una prospettiva di fronte alla quale nessuno può scandalizzarsi. Il Parlamento italiano ha varato delle leggi al tempo del terrorismo e oggi del tutto analoghe quanto alla riduzione della pena possibile. Anche in tema di immigrazione clandestina è stata recentemente introdotta un’attenuante che prevede una riduzione di pena a chi dia notizie sui traffici di clandestini che entrano nel paese; quindi, la scelta premiale si va allargando. Mi è capitato di conoscere e incontrare mafiosi che hanno dimostrato una umanità e capacità di pentimento reale null’affatto diverse da quelle che ho conosciuto al tempo del terrorismo, gente che ha confessato piangendo ore dinanzi a chi li interrogava, gente che al dibattimento ha lasciato i giudici popolari e i giudicanti di stucco. Per sottolineare la necessità della collaborazione si possono ricordare i grandi magistrati che hanno lottato contro la mafia. Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino sono morti anche per questo, per la fede che avevano nella necessità di una legislazione premiale nei confronti dei collaboratori, una legislazione che assicurasse sicurezza e di reinserimento. Le bombe del 1993 sono esplose contro la legge della collaborazione processuale, le reazioni massicce che la mafia, anche con il sangue di tanti innocenti, ha realizzato, dimostrano chiaramente quanto la mafia senta mortale il pericolo che deriva dalla collaborazione degli ex adepti. Il problema di questo paese non è quello della mancanza di leggi più dure, dell’esercito nelle strade, il problema è la continua oscillazione sulle scelte di politica giudiziaria. Se salta un’autostrada o crolla un quartiere, l’unica misura che immediatamente si prende è quella della durezza di vita e di regime carcerario a favore dei pentiti; i pentiti vengono così scaraventati nella polvere, dopo essere stati posti altrettanto ingiustificatamente sull’altare. Questa campagna si scatena storicamente quando vengono individuati certi passaggi cruciali dell’attività della mafia, e questa oscillazione di senso opposto è anche favorita dai fatti inquietanti che riguardano le condotte dei collaboratori. È una progressione che passa attraverso la denigrazione morale, attraverso i riferimenti alla dolce vita che i pentiti indistintamente farebbero. Non accetto l’opinione secondo cui i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria non farebbero più indagini e non le saprebbero più fare da quando ci sono i collaboratori. È vero il contrario, lo spunto investigativo che scaturisce dalla dichiarazione del collaboratore rende le indagini molto più approfondite: non è possibile ad esempio interpretare i flussi di denaro in una indagine bancaria senza l’input che viene dal collaboratore. Si arriva a dire che gli avvocati sono inermi, impossibilitati a muoversi nei processi in cui i pentiti si affollano: anche questo non è vero in assoluto, talvolta vi può essere anche una obiettiva difficoltà di fronte alla necessità di sostenere la difesa di persone - come ad esempio Riina - accusate in una maniera totalmente impensabile e insuperabile. Non accetto l’idea che il difensore non possa esercitare il suo mandato in presenza di questo tipo di processo, e dunque non accetto certe posizioni che esprime l’unione delle camere penali. Anche per quanto riguarda l’incriminato articolo 192 del Codice di procedura penale, la norma che consente di ritenere valido il riscontro incrociato, se questa legge sarà cambiata sarà la fine dei processi di mafia. Non voglio ovviamente negare che il trattare materialmente con questo strumento di accertamento della verità è delicatissimo e richiede grande professionalità, e non voglio neppure negare che si sono verificati da questo punto di vista dei fatti devastanti. Se un collaboratore sottoposto ad un programma di protezione commette omicidi e rapine, è un fatto totalmente inaccettabile, come è inaccettabile che fugga, come è inaccettabile che si rifiuti di rispondere una volta che ha compiuto la scelta di collaborazione. Nonostante questo, trovo assolutamente non condivisibile il punto di partenza che è stato fatto proprio dal governo quando ha deciso di varare un disegno di legge per modificare l’attuale disciplina sui pentiti. Questo punto di partenza è che i pentiti sono troppi e bisogna ridurne il numero. È falso che un migliaio di pentiti sono troppi: in un sistema in cui non solo per effetto degli studi di tipo sociologico ma per effetto delle realtà processuali la popolazione mafiosa e di area contigua è valutata a decine di migliaia di collaboratori, il problema sarebbe quello di incrementare qualitativamente e quantitativamente i collaboratori e non diminuirne il numero. Ci si ispira a questa linea di tendenza e si introducono o si rischiano di introdurre delle modifiche all’attuale sistema molto pericolose. Alcune sono totalmente condivisibili: la separazione del momento del premio da quello della protezione, la riduzione delle categorie di reati per cui è possibile ottenere la protezione, la necessità di programmare un termine entro cui rendere le dichiarazioni, anche se bisogna tener presente che talvolta questo non avviene non per frutto della cattiva volontà del collaboratore, ma per gli impegni dell’ufficio che lo interroga. Va invece criticato del disegno di legge in discussione il fatto che saranno ammessi al programma di protezione speciale solo i collaboratori che saranno stati portatori di un contributo di novità nella indagine processuale. Si prevede anche la impossibilità di sottoporre a programma di protezione i familiari non conviventi del collaboratore. Quindi si sostiene la necessità di difendere solo la famiglia intesa come nucleo stretto, come se i tanti morti in quanto parenti dei pentiti non fossero stati invece familiari non conviventi. Si prevede che il collaboratore cada dai benefici, se non rende le sue dichiarazioni entro 180 giorni così escludendo la possibilità che per esempio una pausa di queste dichiarazioni possa essere imposta dalla minaccia alle famiglie, dal rapimento di un familiare. Il collaboratore che inizia a collaborare per sei mesi, dovrà essere in totale isolamento, con divieto di colloquio personale, telefonico, telegrafico anche con i parenti: questo significa che nel momento in cui più tragica e drammatica è la scelta di collaborare, tanto da comportare la necessità che se ne parli con i parenti, il collaboratore viene sottoposto ad un regime da 41bis, che la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo per i detenuti non collaboratori. Si chiede che il collaboratore versi tutto quello che ha, giudicandolo quindi implicitamente equiparabile ad un soggetto pericoloso i cui beni sono soggetti a confisca: la scelta potrebbe essere condivisibile solo se si riferisse esclusivamente ai beni di provento illecito. Seguendo questo disegno di legge ci troveremmo dunque di fronte ad una situazione in cui il collaboratore deve essere isolato in carcere, ricordare tutto e subito - altrimenti perde tutto - rinunciare a far proteggere tutti i familiari, consegnare tutti i suoi beni e sperare che qualcosa gli venga riconosciuto. Il collaboratore va incontro ad un calvario: solo in questo caso effettivamente potremmo chiamarlo pentito.

Rileggere Sciascia per svelare le aporie del pentitismo, scrive il 28 marzo 2010 "Magna Carta". E Sciascia si rivoltò nella tomba. Un po’ di qui e un po’ di là. Una volta a destra e una volta a sinistra… Il 25 novembre 2009, nella seduta del Senato chiamata a discutere il caso del senatore Cosentino, indagato dalla procura di Napoli per le accuse di alcuni pentiti di camorra, lo scrittore di Racalmuto ha collezionato un vero e proprio record di citazioni in aula, al fianco di mostri sacri come Montesquieu e Robespierre. Con un’esegesi più o meno felice e una riverenza assolutamente bipartisan è stato chiamato in causa da maggioranza e opposizione, da chi chiedeva a Cosentino di dimettersi per un gesto di “moralità politica” e chi invece invocava la presunzione di innocenza e la cautela di fronte alle accuse dei pentiti. Più tardi sono venuti il “papello” e le rivelazioni di Massimo Ciancimino, il pentito Spatuzza e le insinuazioni su Dell’Utri e Berlusconi: Sciascia ha continuato ad essere il nume tutelare dell’uno e dell’altro schieramento, dei garantisti e degli assetati di giustizia, riletto e a volte travisato per esigenze di propaganda. Ma esiste, al di là delle interpretazioni e delle strumentalizzazioni politiche, uno Sciascia “autentico”? Non è facile ricostruire, anche su un tema specifico come è quello dei pentiti, la traiettoria intellettuale di uno scrittore che in nome del pensiero “onesto” rivendicava il privilegio di correggersi e di contraddirsi. Esistono commenti estemporanei, più o meno “accidentali”; interviste, articoli, dichiarazioni ispirate ai fatti di cronaca, talvolta influenzate dallo “spirito dei tempi”, dalle emergenze e dai rivolgimenti della realtà quotidiana. E poi esiste un pensiero di fondo, meditato e sedimentato, che Sciascia ha affidato ai suoi scritti e che compone un quadro quanto mai coerente di principi ideali per la comprensione e il contrasto della mafia. La mafia non si combatte senza conoscerla, senza coglierne la valenza storica e sociale, senza studiare il contesto in cui si sviluppa; e non si combatte senza violare “i santuari del potere”, senza scardinare, cioè, il sistema di protezioni, collusioni, compiacenze che la avvolge e la difende. Infine, ma non da ultimo, la mafia si combatte affermando la superiorità morale dello stato di diritto, senza indulgere a “repulisti”, ricorrere a poteri speciali e misure eccezionali, ma usando la giustizia con la precisione di un bisturi, con l’accortezza che merita uno strumento delicato e devastante. Sulla base di queste premesse la posizione di Sciascia sul pentitismo è improntata alla cautela. Il primo approccio col tema riguarda piuttosto i pentiti politici, reduci dalla stagione efferata del terrorismo, che i pentiti di mafia. Nell’ introduzione all’edizione della “Storia della colonna infame” di Manzoni, da lui curata nel, lo scrittore pone un’analogia tra il pentimento e la tortura: i condoni che si fanno ai pentiti, la promessa di impunità, giunge agli stessi effetti delle punizioni corporali. Per Sciascia il vero pentimento è un moto autonomo della coscienza e sfocia nella “conversione”. Gli episodi che lo circondavano, e si moltiplicavano con sospetta progressione nell’Italia dei primi anni ’80, erano esempi di pentimento opportunistico e strumentale. Un pentimento indotto, o addirittura “estorto”, con la promessa di sconti di pena, privilegi carcerari e, nella migliore delle ipotesi, di una nuova, insperata e immeritata libertà. Nel febbraio del 1982, mentre in Parlamento si discute la cosiddetta “legge sui pentiti”, che prevede notevoli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, l’onorevole Leonardo Sciascia, deputato nelle file del Partito Radicale, insorge: “Mi pare che il Parlamento, votando questa legge, si metta sotto i piedi sia i principi morali sia il diritto”. A suo dire, “bisogna anche pensare alle famiglie delle vittime. La grazia si può concepire ma ci vuole sempre un certo consenso da parte di coloro che sono stati colpiti”. Con la cattura, nel 1983, del “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta e la vicenda del suo pentimento, che si intreccia in maniera decisiva, con la preparazione del maxiprocesso di Palermo contro la mafia, l’attenzione di Sciascia si sposta inevitabilmente dal pentitismo politico a quello mafioso. Mentre i partiti e l’opinione pubblica si interrogano sulla possibilità di estendere la legge 304 (finalmente approvata nel maggio del 1982) ai pentiti di mafia, Sciascia si esercita a scavare le ragioni e il significato del pentimento di Buscetta, indirettamente pronunciandosi sulla fondatezza dell’impianto accusatorio costruito dal pool antimafia di Falcone e Borsellino. Nel libro-intervista “Cose di cosa nostra”, scritto nel 1991 con la giornalista francese Marcelle Padovani, Giovanni Falcone afferma che i mafiosi si pentono per diversi motivi e Buscetta, in particolare, aveva deciso di collaborare con la giustizia perché non condivideva i crismi della “nuova” mafia, lontana anni luce dall’ideologia e dalla nobiltà della “vecchia”. Nel primo incontro ufficiale coi giudici del pool antimafia dichiarava candidamente: “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia”. Dalle colonne del Corriere della Sera, il 18 aprile 1986, Sciascia esprime un’idea non dissimile, ma non del tutto coincidente con quella di Falcone. Commentando la deposizione di Buscetta al maxiprocesso di Palermo, sostiene che don Masino sia semplicemente un uomo impaurito e amareggiato, “che ha visto intorno a sé cadere familiari ed amici, che sente in pericolo la sua vita e vuole dalla parte della legge trovare vendetta e riparo”. La natura opportunistica del pentimento di Buscetta sarebbe testimoniata dal suo iniziale rifiuto a collaborare e dalle sue ripetute omissioni Il pentito volontariamente tace circostanze che non può non conoscere, salta a pie’ pari il capitolo dei rapporti tra mafia e politica, incurante delle pressioni e del crescente scetticismo dell’informazione, per obbedire probabilmente ai “consigli” dei suoi protettori americani. Buscetta, avverte Sciascia, non è l’angelo sterminatore che incombe sulla mafia siciliana e internazionale. Sembra solo desideroso di far presto e tornarsene negli Stati Uniti, vuole scansare i pericoli che chi parla corre in Italia, tende a non moltiplicare il numero dei suoi nemici, e specie di quelli che ancora “possono”. Ha detto quello che sapeva, e che poteva dire, in istruttoria: sperare che aggiunga qualcosa nel processo dibattimentale è “insensato”, contrario alla prassi di tutti i processi di mafia, in cui semmai le dichiarazioni rese in istruttoria subiscono in aula una riduzione o una negazione. “La mentalità di Buscetta è perfettamente mafiosa […] dalla parte della legge continua a fare quello che avrebbe fatto dentro una famiglia ancora capace di far qualcosa: restituisce i colpi ricevuti, si vendica. Ed è appunto perciò credibile in quello che rivela”. Quanto alla fiaba della mafia di una volta, della mafia buona e della mafia cattiva, Sciascia la liquida con le stesse parole di Buscetta. All’avvocato che gli domanda perché Sindona fosse venuto in Sicilia a incontrare il boss Stefano Bontade, don Masino risponde: “Bontade mi disse che Sindona era solo un pazzo”. L’avvocato incalza: “Ma Sindona parlò di una rivoluzione. Bontade non era preoccupato di essere custode di simili segreti?”. Buscetta allora lo inchioda con una battuta: “I segreti di Sindona! Erano una piuma, in confronto ai segreti che aveva Bontade”. Poteva dirsi “buona”, si chiede Sciascia, una mafia che custodiva segreti tali da far impallidire quelli, indubbiamente compromettenti, del famigerato banchiere? Il discorso di Sciascia si dipana secondo i criteri della più rigorosa razionalità, perché è la razionalità, secondo lo scrittore, che muove i pensieri e le azioni degli uomini di mafia “In Sicilia si nascondono i cartesiani peggiori”, sosteneva Sciascia nel ricordo di Giovanni Falcone. Ma questa razionalità, formale e immorale, è piegata a uno scopo abominevole: “mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne”, secondo la battuta fulminante di Angelo Nicosia, parlamentare della commissione antimafia negli anni ’60 e ’70. Per Sciascia il pentitismo è legato indissolubilmente alla “sicilitudine”; come la mafia, si inserisce in un preciso contesto sociale e culturale; risponde a caratteri che ne certificano l’attendibilità. Il pentito di Sciascia ha una certa mentalità, agisce e parla secondo un certo codice, è tanto più credibile quanto più “mafioso”, quanto più racconta fatti compatibili col suo rango e la sua storia personale. Al di fuori di questi criteri il pentitismo, o presunto tale, è semplice delazione, calunnia, protagonismo. L’uso giudiziario dei pentiti, i comportamenti e le precauzioni che la giustizia deve osservare nei confronti del pentitismo, costituiscono un capitolo a parte, probabilmente il più delicato della questione.  Innanzitutto la parola del pentito non può essere l’unico elemento probatorio di un’indagine né tantomeno il più consistente. Al contrario si colloca al vertice di un castello accusatorio che ha ben altre fondamenta. Nel testo di un appello rivolto nel febbraio del 1985 al Presidente della Repubblica per assicurare “elementari garanzie di giustizia” ai 640 imputati di un processo per associazione camorrista a Napoli, e da Sciascia sottoscritto come primo firmatario, si dice che “un’imputazione, quanto più è fondata sulle dichiarazioni dei pentiti, tanto più deve essere confortata da altri riscontri probatori e vagliata con assoluta oggettività”. Per evitare che quanti, al contrario di Sciascia, temono la lupara (e la cella di rigore) più della querela straparlino per rabbia o convenienza oppure al servizio di oscuri “tessitori”. Un’esigenza riproposta in maniera drammatica dal caso Tortora, che Sciascia segue con passione e autentica partecipazione umana. L’appello del 1985, peraltro, esprime riserve verso la moda dei “maxiprocessi”, grandiose campagne propagandistiche contro la malavita organizzata, che impressionano l’opinione pubblica ma difficilmente rendono giustizia ai singoli imputati. “Come può un simile processo assicurare il diritto alla difesa di 640 imputati? Come può accertare la responsabilità penale, che nel nostro sistema è sempre personale?”: Sciascia se lo domanda per primo in ossequio al suo puntiglio e al suo spirito polemico, al culmine di una battaglia garantista condotta per tutti gli anni ’80. La giustizia, dice chiaro e tondo, deve operare con zelo e nel silenzio, assicurando anche ai suoi peggiori nemici le garanzie dello stato di diritto. Pur riconoscendo l’importanza del sistema dei pentiti, che fornisce la conoscenza “interna indispensabile per combattere la mafia”, Sciascia non rinuncia a illuminarne i paradossi. In un articolo del 2 gennaio 1987 sul Corriere della Sera, riferendosi ancora una volta al terrorismo ma adombrando sullo sfondo la questione della mafia, lamenta che, grazie al “folle” meccanismo giudiziario italiano, “assassini individuati e confessi lascino felicemente il carcere dopo minima detenzione e persone che non hanno ucciso, che hanno soltanto partecipato a delle azioni più dimostrative che letali, restino invece a scontare pene che appaiono gravi ed esorbitanti”. Si tratta per lo più di “giovani che, per la loro posizione periferica rispetto alle centrali eversive, per il loro disorganizzato spontaneismo, ad un certo punto consentirono alla polizia di prenderli tutti e di non poter quindi offrire quelle delazioni che leggi e giudici considerano come vero ed efficace pentimento. Curiosa e stravolta nozione del pentimento che non solo non ha nulla a che fare con la coscienza, con l’insorgere di sentimenti umani e principi morali, ma è preciso sinonimo di delazione e in quanto tale precluso all’ultimo di una banda, a meno che non si decida a denunciare qualcuno che della banda non faceva parte”. Oltre al solito scetticismo sulla natura del pentimento come fenomeno pragmatico e giudiziario, dalle parole di Sciascia traspare, in filigrana, una posizione interessante: gli unici pentiti “preziosi”, gli unici a poter fornire informazioni rilevanti e credibili sul funzionamento piuttosto che sulle regole, le decisioni e le articolazioni della mafia, sono quelli che hanno occupato posizioni di vertice nell’organizzazione. E’ una constatazione amara, che Sciascia fa non senza compassione per i “pesci piccoli”, ma anche un netto altolà alle presunte rivelazioni, e più spesso agli abbagli, degli ultimi della banda – manovali, fiancheggiatori e collusi – che parlano per sentito dire o accostano con troppa audacia spezzoni di verità. Da un punto di vista organico, la posizione di Sciascia verso i pentiti si inserisce in un discorso più ampio sulla giustizia, accusata già all’inizio degli anni ’70, nel romanzo “Il contesto”, di essere un sistema a sé stante, distinto e avulso dalla realtà dei fatti. La sua realtà la giustizia se la costruisce da sola, ed è una realtà fittizia e formale, artificiosa e insindacabile. L’atto del giudicare, fa dire Sciascia all’immaginario giudice Riches, è “qualcosa di molto simile a quanto avviene durante la messa, quando il pane e il vino si convertono in corpo, sangue e anima di Cristo. Mai, dico mai – anche se il sacerdote è indegno – può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi”. La legge 304 del 1982, la cosiddetta legge sui pentiti, rischia di essere, agli occhi di Sciascia, un altro strumento al servizio di questa transustanziazione. Qualche autorevole giurista può spiegare che lo Stato non richiede il pentimento (e in effetti le parole “pentito” e “pentimento” non compaiono mai nella legge), che le motivazioni del gesto sono indifferenti e invece conta il comportamento esterno, fattivo, che consente di combattere la malavita. Può discettare sul fatto che gli sconti di pena (fino alla metà per i collaboratori che forniscono prove decisive per la cattura di altri autori di reati) rientrino nel concetto di “diritto premiale”, che mira a stimolare nel criminale comportamenti virtuosi tesi a limitare gli effetti del crimine compiuto o a impedire crimini analoghi nel futuro. Addirittura qualche fine ideologo può rilevare che la logica della legge 304 aderisce perfettamente alla finalità rieducativa riconosciuta alla pena dalla stessa Costituzione.

Il ragionamento non fa una grinza. Ma Sciascia non è un giurista né un ideologo. E’ invece uno scrittore, guidato dalla “ragione, l’illuministico sentire dell’intelligenza, l’umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni”. E’ un eretico che difende la propria eresia, “un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo”. La legge sui pentiti mette in crisi la strategia del terrorismo e lui la critica, i “maxiprocessi” rivelano la mafia come organizzazione e lui invita alla prudenza. Contro l’assalto delle ondate emotive, delle mode e delle campagne politiche, Sciascia cerca di difendere la purezza e l’equilibrio dell’idea di giustizia, esercitando – a volte fino all’eccesso – il senso critico. Questa giustizia di cui Sciascia parla non scaturisce dal formalismo, dal rito di “celebrare” il processo, ma ha una dimensione sostanziale. Si rispecchia nella ragione e nella morale razionale, si fonda sul riconoscimento e sul rispetto della dignità umana. E al suo interno si contemperano la pietà per il criminale e per le vittime del crimine, il carattere “oggettivo e probatorio” degli indizi di colpevolezza, la certezza, la proporzionalità e il carattere “retributivo” della pena. In questa ottica la natura del pentimento non è irrilevante per giustificare, moralmente e umanamente, di fronte all’opinione pubblica e alle vittime di crimini spesso atroci, i benefici e gli sconti di pena. Né si possono creare, al di fuori di circostanze del tutto eccezionali, canali privilegiati per gli ex terroristi o gli ex mafiosi. Sciascia lo suggerisce sommessamente eppure con tutta la forza del suo magistero. A ben vedere l’intera opera dello scrittore siciliano (decine di libri e centinaia di articoli di una chiarezza lampante) è un monito a recuperare l’obiettività, la moralità e l’umanità della giustizia. All’ordine morale e alla realtà sostanziale il diritto deve conformarsi senza pretendere di rifondarli, ingoiarli e risputarli come un nuovo Leviatano. Magari dalla bocca di un pentito.

Sbirri e malacarne, così il pentitismo mediatico ha ribaltato verità e ruoli. “Succede che i processi, questi riti difficili che semplificano tutto, non riescono più a semplificare nulla, e anzi ingarbugliano e si ingarbugliano per sempre”. Lo dice Massimo Bordin, ex direttore di Radio radicale – voce della rassegna “Stampa e regime” – e uno degli osservatori più attenti delle vicende giudiziarie e mafiologiche d’Italia. Si riferisce alle inchieste di Caltanissetta e di Palermo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, scrive Salvatore Merlo il 28 Ottobre 2010 su "Il Foglio". “Succede che i processi, questi riti difficili che semplificano tutto, non riescono più a semplificare nulla, e anzi ingarbugliano e si ingarbugliano per sempre”. Lo dice Massimo Bordin, ex direttore di Radio radicale – voce della rassegna “Stampa e regime” – e uno degli osservatori più attenti delle vicende giudiziarie e mafiologiche d’Italia. Si riferisce alle inchieste di Caltanissetta e di Palermo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza che gettano un’ombra d’infamia sull’agente dei servizi Lorenzo Narracci. Ma Bordin parla anche delle rivelazioni insinuanti di Massimo Ciancimino contro il generale Mario Mori, nuovamente accusato di fatti per i quali è già stato assolto. “In un universo ormai scardinato, i superpoliziotti di ieri sono i colpevoli di oggi, i superpolitici di ieri sono i mascalzoni di oggi, e i pentiti, anche i meno credibili, riscrivono la storia secondo un copione che ha già conquistato gli italiani”. La trattativa stato-mafia? “Secondo loro Mori avrebbe negoziato con Riina. Ma allora com’è possibile che poi, proprio lui, lo ha arrestato? Così come è stato arrestato anche Provenzano. E questo famoso ‘papello’? Non una delle richieste si è realizzata. La fantomatica trattativa non ha avuto alcun esito”. I dichiaranti pentiti sono credibili non perché in grado di provare ciò che dicono, ma perché raccontano, in modo variopinto e a volte ridicolo, quel che abbiamo nel cuore e nel cervello, dice Bordin: “Retribuiti, ridistribuiscono a piene mani la verità di un popolo senza più passato che cerca la propria comunione intorno alle aule di giustizia trasformate in ring. A dispetto della logica, della consequenzialità dei fatti, dei rapporti di causa e di effetto. Certi pentiti raccontano i rapporti tra la politica, lo stato e la criminalità secondo gli schemi della fiction cinematografica. Come fosse la ‘Piovra’”. Narracci e Mori, secondo la traiettoria che accomuna, pur con sfumature diverse, l’azione delle procure di Caltanissetta e di Palermo, e che si basa anche sulle dichiarazioni di Spatuzza e Ciancimino, avrebbero avuto un ruolo nel negoziato tra lo stato e la criminalità organizzata. Spatuzza accusa Narracci di “assomigliare” a una persona che avrebbe incontrato per pochi minuti, più di diciotto anni fa, nel corso del nauseante rituale con il quale in un garage di Palermo veniva confezionata l’autobomba che il 19 luglio 1992 ha poi ucciso Paolo Borsellino. Sono spicchi della teoria giudiziaria che disegna la “trattativa stato-mafia”. C’è chi non ci crede. “La polizia e i servizi di intelligence, in molti casi, nei rapporti con la mafia si muovono su un crinale scivoloso. Ma un negoziato con lo stato è altra roba”, dice lo storico Salvatore Lupo. “E’ sempre successo che la polizia avesse rapporti con i criminali. E’ fisiologico, o patologico, a seconda dei casi. Nell’800 non sarebbe mai successo che un magistrato decidesse di inquisire un poliziotto per questa ragione. Il primo caso credo sia stato intorno al 1870. Il giudice Diego Taini incriminò il questore di Palermo, Albanese. Come andò a finire? Il magistrato venne trasferito, ma poi si fece eleggere dall’opposizione in Parlamento e creò grande scandalo”. Dunque è possibile che ci sia stata una trattativa con la mafia negli anni Novanta? “Quando si parla di trattativa stato-mafia mi viene da sorridere. Può esserci un singolo funzionario che per qualche motivo, di servizio o per collusione, coltiva dei rapporti con una fazione della mafia. Ma lo stato cosa c’entra? I rapporti non sono mai apicali. Non lo sono mai stati. La grande politica non c’entra nulla anche se i mafiosi, persino in buona fede, credono che sia così. Credo sia vero che Stefano Bontade dicesse ai suoi uomini frasi del tipo: ‘Tranquilli, ci penserà Andreotti’. Ma questo non significa che Andreotti fosse mafioso o avesse rapporti diretti con loro. Erano semmai i mafiosi a essere andreottiani. Gente volgare, non certo stupida, ma che ragiona in maniera rozza”. Il professore esce di metafora: “Le bombe le ha messe Riina. E’ stato lui a prendere la decisione. Era funzionale alla sua strategia, che è poi quella che aveva imparato dai suoi predecessori e che lui stesso aveva già applicato in precedenza. Gli omicidi di Falcone e Borsellino non sono diversi da quelli di Dalla Chiesa e di Chinnici, due personaggi di prima grandezza. Riina era in difficoltà, puntava sull’annullamento del maxiprocesso e avviò le stragi”. Eppure la teoria giudiziaria, forse più avvincente, è un’altra. Sembrano pensarla come quel personaggio di Sciascia: “La vera mafia non dovete cercarla a Palermo, è a Roma che abita il capo di tutte le mafie”.

«Pentiti»: libro di Paolo Sidoni e Paolo Zanetov. Fondamentale per il lavoro investigativo degli inquirenti, il pentitismo è diventato nel tempo un vero e proprio fenomeno sociale, che soprattutto in Italia assume connotati particolari. Se da un lato, infatti, i pentiti hanno permesso di smantellare organizzazioni criminali e famiglie mafiose, dall'altro non sono mancate violente polemiche sul trattamento di favore riservato loro e sull'utilizzo indiscriminato delle loro confessioni, a volte alla base di veri e propri depistaggi. E l'immagine dei collaboratori di giustizia - dai protagonisti pentiti della dolorosa stagione del terrorismo nero e rosso ai mafiosi "redenti" - è spesso controversa, pur senza arrivare all'estremo dei loro ex sodali, che li considerano soltanto dei traditori o degli opportunisti. Grazie a questo libro, potremo per la prima volta conoscere da vicino una realtà poco nota, e i meccanismi giudiziari e psicologici che hanno portato a parlare alcuni dei criminali più feroci che la nostra storia recente ricordi. l pentitismo è diventato, nel tempo, un vero e proprio fenomeno sociale. In Italia, in particolare, la figura del collaboratore di giustizia ha generato polemiche e controversie. Se da un lato, infatti, i pentiti hanno permesso di smantellare organizzazioni criminali e famiglie mafiose, dall'altro sono stati, spesso, protagonisti di veri e propri depistaggi. Accusati di essere infami, traditori e opportunisti dai loro ex sodali. Esposti alle critiche feroci dell'opinione pubblica per via del trattamento di favore ricevuto e per l'utilizzo indiscriminato delle loro confessioni. Sono proprio loro, i pentiti, i protagonisti di questo libro: da quelli che hanno contribuito alla dolorosa stagione del terrorismo nero e rosso ai mafiosi "redenti". Paolo Sidoni e Paolo Zanetov ci regalano un saggio che ci mostra una realtà poco nota, e i meccanismi giudiziari e psicologici che hanno portato a parlare alcuni dei criminali più feroci del nostro tempo.

Paolo Sidoni è nato a Verona nel 1962. Saggista, documentarista e ricercatore storico, ha collaborato con l’Istituto Luce e con l’Istituto Studi Storici Europei. Ha organizzato eventi e convegni sulla storia moderna e contemporanea, e collabora con i mensili «BBC History Italia» e «Classic Rock». Ha collaborato con il quotidiano «Rinascita», i mensili «Storia in Rete», «Storia del Novecento», «Area» e il bimestrale «Storia Verità». Insieme a Paolo Zanetov, con la Newton Compton, ha pubblicato Cuori rossi contro cuori neri e Pentiti. Paolo Zanetov, nato a Roma nel 1949, laureato in lettere con una tesi sul brigantaggio politico post-unitario, continua a interessarsi al rapporto tra politica e criminalità. Già membro del consiglio di indirizzo dell’Istituto Studi Storici Europei, coordina attualmente l’osservatorio sul federalismo nazionale della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice; è presidente del Centro Studi sul brigantaggio e consulente dell’Istituto Luce, per cui ha prodotto numerosi documentari.

Paolo Zanetov, nato a Roma nel 1949, laureato in lettere con una tesi sul brigantaggio politico post-unitario, continua a interessarsi al rapporto tra politica e criminalità. Già membro del consiglio di indirizzo dell’Istituto Studi Storici Europei, coordina attualmente l’osservatorio sul federalismo nazionale della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice; è presidente del Centro Studi sul brigantaggio e consulente dell’Istituto Luce, per cui ha prodotto numerosi documentari.

Storia segreta dei criminali diventati collaboratori di giustizia. Recensione del libro. Libro presentato da Mario Bonanno. Recensione pubblicata il 20 luglio 2013. I Giuda degli anni di fango si chiamavano ‘o Pazzo, er Sorcio, ‘o Animale: prima sparavano poi parlavano e la giustizia si fidava. Le sedi di tribunale dell’Italia che se la beve (dalla strage di Portella della Ginestra in poi, in fondo, l’Italia se l’è sempre bevuta) hanno accreditato le confessioni di mentitori di professione, opportunisti, psicolabili, mafiosi, camorristi, rivoluzionari d’accatto; in altre parole collaboratori di giustizia per caso o per necessità, delatori della risma di Patrizio Peci, Angelo Epaminonda, Felice Maniero, Giovanni Pandico. Dietro ogni nome un “caso”, dietro ogni “caso” una storia, fatta di volta in volta da affiliazioni segrete, omicidi, denaro, vendette, ideali quasi mai, fino alla redenzione, allo svuotamento del sacco dei delitti con tanto di nomi e cognomi dei complici e dei covi. Bell’impresa, ma tant’è che ci sono stati stagioni che il “pentitismo” è impazzato più di “Vamos à la playa”. Nelle aule di giustizia è stata la moda del momento, guardie e ladri all’acqua di rose, come nel film con Totò e Fabrizi: io spiffero tutto (o quasi) e tu mi guardi le spalle da eventuali ritorsioni. La storia del potere giudiziario all’italiana – dalle Brigate Rosse al processo Tortora, dalla banda della Magliana alla strage di Bologna - è andata avanti e si è scritta anche in questo modo. “Pentiti” di Paolo Sidoni e Paolo Zanetov (Newton Compton, 2013) è il libro che stavamo aspettando e che mancava sull’argomento. Uno studio più che esauriente su quello che - in traslato - è possibile leggere come un vero e proprio “fenomeno” sociale, chiave d’accesso a molte zone d’ombra, blitz, diffamazioni, livori, querelle infinite. Il pentitismo è un Giano infido e bifronte: da un lato scardina dall’interno micro e macro galassie di organizzazioni criminali, dall’altro ha il naso lungo e le gambe corte, per via delle bugie, che qualche volta sfociano in depistaggi veri e propri (vedi le accuse surreali a Enzo Tortora, vedi il sospetto coinvolgimento dei terroristi Mambro e Fioravanti nella strage di Bologna). Stigmatizzato, odiato, bollato col marchio di infamia dagli ex compagni di malefatte (ma non soltanto: l’ex brigatista Patrizio Peci viene descritto da Sandro Pertini come “un uomo di poca fede, non un rivoluzionario, perché ha parlato. Vuol dire che non aveva ideali”), l’esercito articolato e trasversale dei pentiti è l’assoluto protagonista di questa inchiesta firmata Sidoni e Zanetov: un saggio accuratissimo che ha il passo narrativo del grande romanzo corale & criminale. Dentro ci passa buona parte della storia in nero della Repubblica Italiana, resa nei suoi risvolti eclatanti e meno noti, alla ricerca di quelle istanze - manifeste e più sottese - che hanno condotto, un giorno, alcuni criminali a saltare il fosso e a farsi paladini di giustizia. Con tutte le ombre (prima fra tutte quella - onnipresente - dei servizi segreti), e la diffidenza che di solito accompagnano i cambiamenti drastici e ben remunerati (leggi sconti di pena e protezione) di rotta. A quanto mi risulta, “Pentiti” è un lavoro assolutamente inedito, il consueto librone Newton Compton di quattrocento e passa pagine a prezzo stracciato: nemmeno dieci euro.

PINO MANIACI E LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

Caso Saguto, tutte le parti civili, scrive il 17 luglio 2017 "Live Sicilia”. Al processo per illeciti nella gestione della sezione misure di prevenzione di Palermo, in corso a Caltanissetta, il gup ha ammesso la costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio dei ministri, dei Ministeri dell'Interno e della Giustizia, del Comune di Palermo e di tutte le amministrazioni giudiziarie delle società destinatarie di provvedimenti della sezione all'epoca in cui era presieduta da Silvana Saguto, magistrato imputato di corruzione. Le amministrazioni giudiziarie ammesse sono quelle delle aziende Ingrassia, Rappa, Vetrano, Acanto, Buttitta, Leone e Di Bella. All'udienza preliminare gli imputati per i quali si dovrà decidere il rinvio a giudizio sono 18 e sono accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, truffa e falso. Tra gli imputati Silvana Saguto, il marito, il padre e un figlio del magistrato, l'ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, amministratori giudiziari, un colonnello della Dia e i giudici Lorenzo Chiaramonte, Tommaso Virga e Fabio Licata. L'avvocato Lillo Fiorello, difensore di Luca Nivarra, ha chiesto che gli atti riguardanti la posizione di quest'ultimo tornino a Palermo, sostenendo che le accuse che gli vengono contestate non sarebbero collegate con quelle mosse nei confronti di Silvana Saguto nel suo ruolo di magistrato. La Procura si è opposta e il gup deciderà sull'eccezione nella prossima udienza, fissata per il 6 settembre; l'udienza preliminare proseguirà poi il 20 settembre. (ANSA).

Scandalo Saguto, comune di Palermo chiede di costituirsi parte civile. Procura si oppone, scrive il 13 luglio 2017 "Telejato". Il Comune di Palermo ha chiesto di costituirsi parte civile nell’udienza preliminare che vede al centro le presunte irregolarità nella gestione dei beni sequestrati alla mafia e nell’assegnazione degli incarichi di amministrazione giudiziaria da parte della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo all’epoca in cui era presieduta da Silvana Saguto, anche lei imputata insieme ad altre 17 persone. Ma la Procura di Caltanissetta si è opposta alla richiesta avanzata dal legale del Comune di Palermo, l’avvocato Giovanni Airò Farulla. Quest’ultimo ha motivato la richiesta sostenendo che l’ente avrebbe subito un danno patrimoniale in quanto diversi beni ricadono nel territorio comunale, ma per i magistrati nisseni il Comune non ha titolo a entrare in giudizio in quanto non ci sono i presupposti per considerarlo parte offesa. Il gup Marcello Testaquatra, che sta celebrando l’udienza preliminare, deciderà nell’udienza fissata per lunedì prossimo. Gli imputati rispondono a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, truffa e falso. I difensori dei 18 imputati nell’udienza preliminare del caso Saguto – accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, truffa e falso – si sono opposti alla costituzione di parte civile di alcune amministrazioni giudiziarie – che avevano avanzato tale richiesta lo scorso 22 giugno – in quanto non sono assistite dell’Avvocatura dello Stato. I legali hanno motivato l’opposizione sottolineando che le amministrazioni giudiziarie possono costituirsi parte civile per conto proprio solo se l’Avvocato generale dello Stato esprime parere contrario al patrocinio. Inoltre gli avvocati Giuseppe Dacquì e Carmelo Peluso si sono opposti alle richieste di costituzione di parte civile del ministero dell’Interno e del Ministero della Giustizia, in quanto non rappresenterebbero gli interessi della collettività, visto che, secondo i due componenti del collegio di difesa, l’unico rappresentante dell’interesse della collettività è la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il gup Marcello Testaquatra comunicherà le proprie decisioni nell’udienza fissata per lunedì prossimo.

Telejato chiede che sia tolto il bavaglio al processo contro Pino Maniaci, scrive il 14 luglio 2017 "Telejato". Il divieto che la procura di Palermo, a nome del presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo Benedetto Giaimo, che non ritiene che il processo abbia rilevanza sociale e a nome del pm Amelia Luise, che ritiene “difficoltoso proteggere le opposte esigenze di tutte le altre parti del processo”, ha suscitato in tutta Italia, e in particolare tra i giornalisti siciliani un coro di proteste e di solidarietà nei confronti di Pino Maniaci, perché, senza porre troppi termini in mezzo, è proprio la ripresa delle fasi del processo che lo riguardano, che non si vuole rendere nota al pubblico. Ultimo comunicato è quello del presidente dell’Ordine regionale dei giornalisti Riccardo Arena. Quello della trasmissione integrale delle udienze è un servizio pubblico che dai tempi del maxiprocesso viene garantito, a vantaggio di tutti, non solo dei giornalisti, ma anche degli avvocati e dei magistrati. Perché adesso e in questo processo quest’ordine di silenzio? È una domanda che da ieri circola, anche sui vari dibattiti in rete e che lascia forti ombre sulla democraticità garantita alle informazioni e sulla trasparenza degli atti di un dibattito che, sino a prova contraria, non sarà fatto a porte chiuse. Si potrebbe replicare che nessuno impedisce ai giornalisti di prendere appunti, ma la stenografia è una scrittura che ormai pochi conoscono. Per quel che riguarda le richieste di alcuni mafiosi di non volere essere ripresi, il problema si chiude subito: nelle fasi che il tribunale, al momento dell’apertura dell’udienza e non preventivamente, come invece è stato fatto, ritiene non debbano essere trasmesse, basta o bastava prescrivere tale indicazione e il problema era risolto. A parte il fatto che i mafiosi, per quel che sembra, non vogliono essere ripresi dalla telecamera, ma sulle riprese microfoniche non si sa perché preferirebbero non essere registrati. Quindi, senza girarci troppo intorno il divieto è fatto essenzialmente per inibire l’accesso a Telejato, per non dare troppa importanza al processo, per farlo sembrare un procedimento secondario e senza importanza e per poi concluderlo con la mazzata di una qualsiasi condanna, a conferma che l’impianto accusatorio era fondato ed ha retto. Si tratta di “strategie” che ovviamente hanno qualche stratega e lo hanno avuto sin dall’inizio, con l’obiettivo di buttar fango sull’emittente, isolarla dal contesto di informatori, collaboratori e promotori pubblicitari che ne consentono una già molto precaria conduzione e arrivare in ultima soluzione alla sua chiusura. Un processo amplificato potrebbe far correre il rischio di svelare queste strategie e dissolvere un impianto accusatorio fondato sul nulla, che ha il suo più brillante ritrovato nell’associazione di Pino Maniaci con i mafiosi di Borgetto, loro estorsori per mafia, Maniaci estorsore semplice di pochi spiccioli, ma sempre estorsore. Quello che da questa emittente ci permettiamo di suggerire ai colleghi giornalisti che lavorano soprattutto nelle radio e nelle televisioni private e, oseremmo dire, anche in quelle nazionali, è di inoltrare richieste a ripetizione di effettuare riprese e obbligare la procura a notificare i suoi divieti e le sue censure a ognuno. Dopodiché ci sarà da vedere se il rispetto delle esigenze di alcuni mafiosi, che possono benissimo essere tutelati, non permettendo le riprese delle loro “deposizioni”, debba essere prevalente sul diritto di un imputato che vuole rendere note le lacune del procedimento cui è stato sottoposto. Insomma, vanno tutelati solo i mafiosi? Se è così meglio fare uscire di carcere Totò Riina per consentirgli “una morte dignitosa”.

Processo Maniaci e il no a Radio Radicale. Ordine e Assostampa: “Scelta non condivisibile”, scrive il 13 luglio 2017 "Telejato". La decisione della seconda sezione del Tribunale di Palermo di negare a Radio Radicale l’autorizzazione alla registrazione delle udienze di quello che per gli organi di informazione è il cosiddetto “processo Maniaci”, appare non condivisibile per una serie di aspetti. Tralasciando il carattere tecnico-giuridico del provvedimento, che in sé lascia molti dubbi anche ai profani, non si comprende come la richiesta non susciti “il consenso unanime delle parti” se il dibattimento non è ancora cominciato. Soprattutto, poi, non si capisce come si possa sostenere che non ricorra “alcun interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza” di un dibattimento in cui è imputato, fra gli altri, un giornalista ritenuto particolarmente impegnato nell’antimafia, accusato di estorsione nei confronti di amministratori pubblici, che sarebbero stati ricattati con la minaccia di pubblicare notizie e servizi televisivi sfavorevoli nei loro confronti. Negare l’importanza e la rilevanza sociale e pubblica della documentazione di un processo del genere è a nostro avviso veramente arduo: sta al tribunale, semmai, contemperare l’innegabile interesse pubblico per questa parte del giudizio con le esigenze delle altre parti e degli altri imputati che sono estranei alle contestazioni mosse a Maniaci. Quanto al collega imputato, non riteniamo che egli intenda non far conoscere ciò che avviene nel processo a suo carico: è anzi suo interesse che si sappia come sono andate veramente le cose. Invitiamo dunque il tribunale a rivalutare la questione alla prima udienza, interpellando in particolare Maniaci e stabilendo forme e misure che possano consentire, ad esempio, la registrazione delle udienze e degli atti dibattimentali che coinvolgono la posizione del giornalista pubblicista ed escludendo gli atti non inerenti questo contesto. 

Proibite le riprese televisive per il processo di Pino Maniaci. Siamo tornati al ventennio fascista, scrive il 13 luglio 2017 Salvo Vitale su "Telejato". I nove imputati sono sotto processo essenzialmente per estorsione mafiosa fatta nei confronti di alcuni commercianti della zona. Il caso di Pino Maniaci, in questo contesto si presenta anomalo, trattandosi, la sua, di estorsione semplice, che quindi non andrebbe giudicata da una corte, ma da un giudice monocratico. La richiesta di uno stralcio del processo è stata rigettata, e quindi Maniaci non potrà separare la sua vicenda da quella degli altri mafiosi, anche se con loro non ha nulla da spartire e malgrado ne abbia denunciato le malefatte attraverso la sua emittente. L’intenzione di chi dirige le operazioni della procura è chiara: Maniaci va trattato come mafioso e omologato ai mafiosi sotto processo. Ci sarebbe già da discutere molto su questa circostanza, ma è successo e sta succedendo di più: l’emittente Radio Radicale ha chiesto al presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, Benedetto Giaimo, di registrare le udienze del processo che inizierà mercoledì prossimo e tale richiesta è stata rigettata con curiose motivazioni, scritte a mano a margine della richiesta: Il Pubblico Ministero Amelia Luise ha scritto che «si nega il consenso risultando difficoltoso proteggere le opposte esigenze di tutte le altre parti del processo». Sembra di capire che i mafiosi non vogliono essere ripresi neanche radiofonicamente e, per tutelare le loro esigenze, a seguito di inspiegabili “difficoltà”, si ritiene necessario non tutelare il diritto di cronaca né tantomeno rendere pubbliche le immagini che riguardano esclusivamente la linea difensiva di Pino Maniaci. Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale, in una nota pubblicata su MeridioNews ha subito commentato: «Mai successo a Palermo per un pubblico dibattimento. L’articolo che regola la pubblicità del dibattimento parla chiaro: all’inizio il titolare del processo sente le parti una volta costituite e persino in caso di totale opposizione la sua decisione è sovrana e può comunque decidere di dare accesso a radio e televisioni in un processo che peraltro ha i requisiti di interesse pubblico – spiega Scandura – Anche la codicistica italiana è ormai obsoleta, perché la Cedu, la giurisprudenza europea, non consente più processi sottratti all’opinione pubblica». La decisione del tribunale arriva solo a una settimana dall’inizio del procedimento. «Serve una mobilitazione di Ordine e sindacato, perché l’archivio di Radio Radicale è un servizio pubblico che a Palermo viene garantito dai tempi del maxi processo con l’integralità delle udienze, servizio di cui usufruiscono tutti, non solo i giornalisti, ma anche magistrati e avvocati», dice ancora il giornalista. Questa decisione rischia di ostacolare il lavoro anche di altri colleghi e di rendere il processo a porte chiuse. «Stupisce che il tribunale abbia preso questa decisione, rigettando la nostra richiesta prima che inizi il processo, così come recita codice». Si aggiunga che il presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, Benedetto Giaimo, nell’accogliere la proposta del p.m. ha aggiunto, di suo pugno che il rigetto è motivato dalla “mancanza di rilevanza sociale del processo”. E qua si salta dalla sedia: ma come, il 4 maggio 2016, attraverso la email servizinazionali@alice.it è stato inviato dal Comando Provinciale dei Carabinieri ai giornali di tutto il mondo il testo di 400 pagine di intercettazioni e il video sapientemente confezionato dai carabinieri di Partinico, perché bisognava sbattere il mostro in prima pagina, rilevando in tale notizia chissà quale importanza sociale, mentre ora tale importanza è venuta meno? Andrea Tuttoilmondo, presidente regionale dell’Unci, (Unione nazionale cronisti italiani) ha già manifestato solidarietà alla denuncia lanciata oggi dalla testata dicendo che “sorprende la decisione della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, presieduta da Benedetto Giaimo, di respingere la richiesta registrazione audio avanzata da Radio Radicale: «Dispiace prendere atto di questa censura. Auspico che si possa valutare diversamente l’istanza presentata dai colleghi di Radio Radicale. Per la rilevanza sociale di chi è coinvolto, consentire la registrazione di questo processo significa contribuire a realizzare pienamente quella missione di pubblico servizio che guida lo spirito di chiunque faccia informazione seria e con coscienza». La rilevanza sociale, sembrava scontata in una vicenda, che, per via dei personaggi coinvolti, a partire da Maniaci è stata accompagnata da grande attenzione da parte dei mass media. In tal senso l’art. 147 del cpp, citato da Scandurra è chiaro: «L’autorizzazione può essere data anche senza il consenso delle parti quando sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Il citato articolo di Silvia Buffa richiama la legge, secondo cui le riprese non possono essere autorizzate invece quando «la pubblicità può nuocere al buon costume ovvero, quando può comportare la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato. O, ancora, in caso di assunzione di prove che possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni. O, infine, in caso debbano essere ascoltati dei minorenni», secondo i commi uno, due e quattro di un altro articolo che regola la decisione di procedere a porte chiuse. Tutte condizioni che in questo caso non sembrano sussistere. Nel frattempo anche l’ordine dei giornalisti di Sicilia e l’Assostampa si sono pronunciati: “No a Radio Radicale? Scelta non condivisibile”. Non ci si può sottrarre a una domanda spontanea: che cosa si vuole nascondere? Di che cosa ha paura il tribunale di Palermo? Forse che tutta la polpetta preparata per incastrare Pino Maniaci si sbricioli e che tutti possano rendersi conto che si è voluto deliberatamente mandare alla gogna una persona scomoda per le sue inchieste sui beni sequestrati in cui erano coinvolti pezzi del tribunale stesso di Palermo che adesso deve giudicare Maniaci? La domanda è inquietante, perché se è deciso che una condanna qualsiasi dovrà essere affibbiata a Maniaci, nell’eventualità remota di un’assoluzione si correrebbe il rischio di fare la figura di coloro che hanno perso tempo inseguendo dei fantasmi. Ma sono cose tipiche dei tribunali in Italia paese che, per la libertà di stampa si piazza al 68° posto nel mondo.

Pino Maniaci, da eroe a criminale. Articolo di Antonio Ingroia pubblicato l'11 luglio 2017 su Telejato e su il magazine n. 25 de "I Siciliani". Antonio Ingroia. Avvocato, giornalista, ex pm antimafia e politico italiano. Legale di Pino Maniaci insieme a Bartolo Parrino. Diciamolo pure, Pino Maniaci se l’è cercata. Da eroe dell’informazione, stimato e apprezzato in tutto il mondo per le sue inchieste, poteva tranquillamente starsene seduto a una scrivania a godersi la meritata fama, saltando magari da un salotto televisivo all’altro, come tanti giornalisti titolati, pronti talvolta anche a rinnegare se stessi per restare ben dentro al giro che conta. Con la sua storia, con la sua vita da romanzo, con la sua faccia da personaggio del Commissario Montalbano, Pino poteva permetterselo. Nessuno gli avrebbe detto niente, nessuno gli avrebbe potuto dire niente: il diritto di godersela se l’era guadagnato sul campo. E invece no. Lui non si è voluto fermare, ha preteso di continuare a fare quello che ha sempre fatto – e fatto bene – da quando ha preso in mano Telejato, e cioè denunciare il marciume diffuso che inquina e corrode la Sicilia. Era ovvio che prima o poi gli avrebbero presentato il conto e così è stato. E allora Pino è colpevole: colpevole però non del reato di estorsione, come sostiene la procura di Palermo con un’accusa fondata sul nulla, ma di aver dato fastidio a troppe persone con le sue inchieste, con il suo lavoro quotidiano di cronista di strada, con il suo telegiornale libero, sempre pronto a denunciare il malaffare e il potere criminale in tutte le loro sfaccettature e ovunque annidati. È colpevole ed è anche indifendibile, perché nonostante ripetuti avvertimenti non ha voluto farsi i fatti propri, perché ha deciso di non voltarsi dall’altra parte per non vedere, come pure prescrive l’antica, diffusa e purtroppo ancora oggi troppo rispettata legge dell’omertà. Ha continuato a fare lo scassaminchia, senza guardare in faccia a nessuno, che si trattasse di Matteo Messina Denaro o di intoccabili colletti bianchi, denunciando tanto gli affari di mafia quanto gli interessi convergenti di amministratori locali, pezzi di magistratura, prefetti, professionisti a vario titolo. Come quelli al centro dell’indagine della procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni confiscati, uomini e donne di Stato solo sulla carta, ma in realtà al servizio di se stessi, di amici, di parenti. È tutto scritto negli atti dell’inchiesta nissena, un’inchiesta partita solo dopo la denuncia di Telejato, ed anche grazie ad essa: Pino ha sentito puzza di marcio e da buon giornalista è andato a indagare, svelando il sistema Saguto-Cappellano Seminara. Non mafiosi, ma colletti bianchi. E per questo stavolta c’è chi ha deciso di fargliela pagare. C’era bisogno di togliersi di torno lo scassaminchia ed il modo è stato trovato. C’era bisogno di creare un mostro da copertina, per picconare e delegittimare l’Antimafia tutta, ed il mostro è stato sbattuto in prima pagina. Pochi hanno ritenuto di approfondire, di leggersi le carte, di capire quanto ci fosse di vero e quanto invece di ricamato nell’accusa di estorsione, perché poi di questo si tratta. Gli altri hanno visto e hanno voluto vedere nel video confezionato ad arte dai carabinieri, e passato alla stampa come la prova regina, la pistola fumante in mano a Pino. Che così è stato subito crocifisso e processato mediaticamente, con superficialità e approssimazione, e condannato con una sentenza inappellabile. Si è data per buona la tesi della procura, in una dimostrazione di sconcertante conformismo. Prima ancora, ovviamente, che iniziasse il processo vero, quello in tribunale, cominciato qualche settimana fa nel disinteresse generale dei mezzi d’informazione. Tanto rumore prima, il silenzio poi. In Italia del resto funziona così, lo sappiamo. Fuori, invece, si è scomodata persino la CNN, per cercare di capire qualcosa in una vicenda per tanti versi surreale. Ora però siamo in tribunale, dove conteranno le prove e non le suggestioni, e sono sicuro che in tribunale emergerà la totale estraneità di Pino alle accuse che gli sono contestate. Anche se, purtroppo, ci vorranno anni per avere una sentenza. Così va la giustizia. Oggi, soprattutto. Ma, andiamo con ordine. Perché un ex PM della Procura di Palermo come me ha deciso di difendere, oggi da avvocato, Pino Maniaci, andando contro i magistrati del suo ex-ufficio? Perché sono convinto totalmente dell’innocenza di Pino e dell’ingiustizia inusitata che è stata usata contro di lui. Tante sono le cose che non tornano in tutta la vicenda, troppe le stranezze. Vale la pena riepilogare: l’accusa è di estorsione nei confronti dei sindaci di Borgetto e Partinico e di un ex assessore di Borgetto. Ai sindaci Pino avrebbe promesso un trattamento di favore da parte di Telejato in cambio di soldi. Per quanto? Per meno di 400 euro. Estorsione in saldi, evidentemente. Mancano però le prove. Non c’è una minaccia, condizione necessaria per configurare l’estorsione. Non c’è la promessa di un cambio di linea editoriale, di un ammorbidimento nei servizi giornalistici verso i sindaci. Ci sono solo una richiesta di acquisto di magliette a un assessore di Borgetto che lo stesso GIP di Palermo ha ritenuto non costituisse estorsione e una richiesta di denaro al sindaco di Borgetto già ampiamente spiegata: la moglie del sindaco ha un negozio per il quale aveva acquistato spazi pubblicitari su Telejato, costo al mese 300 euro più Iva. Cioè 366 euro. Quelli che vengono appunto chiesti al sindaco insieme a 100 euro di una rata precedente non ancora saldata. Tutto qua. Dove sarebbe l’estorsione? Secondo la legge penale, per configurarsi il reato di estorsione, occorrono due elementi essenziali: la minaccia e la costrizione a pagare per effetto della minaccia. E qui dove sono le minacce? Non ce n’è nemmeno traccia, e tantomeno c’è traccia di prova che Maniaci abbia “costretto” alcuno a dargli denaro sotto minaccia. L’accusa più spregevole che Maniaci ha subito è quella di avere strumentalizzato la sua attività giornalistica per ricattare. E qui non c’è un’ombra di prova che sia mai successa una cosa del genere. Anzi, c’è la prova del contrario, e cioè che le dazioni di denaro, del tutto legittimamente imputabili a diritti pubblicitari, non hanno avuto alcuna incidenza sulla sua attività giornalistica, tanto che Maniaci ha continuato ad attaccare e criticare anche coloro i quali gli avevano dato legittimamente delle somme di denaro, ovviamente in modo del tutto indipendente dalla sua attività giornalistica. Non solo. Pino è stato accusato di minacciare il sindaco di Borgetto, di spaventarlo con la notizia che il Comune sarebbe stato sciolto per mafia. Un bluff, secondo l’accusa, studiato a scopo estorsivo. Ebbene, il tempo sa essere galantuomo e così qualche giorno fa il Comune di Borgetto è stato effettivamente sciolto per infiltrazione mafiosa, a conferma che Pino non si era inventato nulla, che aveva ragione sulle collusioni con Cosa nostra all’interno dell’amministrazione e che aveva semplicemente pensato bene di avvisare il sindaco affinché facesse quanto prima pulizia all’interno del suo Comune, liberandosi di quelle presenze mafiose che hanno portato poi allo scioglimento. Nessun reato, semmai fiuto giornalistico. Fosse stato qualcun altro, sarebbe stato celebrato come un grande giornalista e come un esempio di impegno civile. Trattandosi di Pino Maniaci, è stato rinviato a giudizio per estorsione. Così funziona in Italia. In ogni caso, tutte le presunte prove ed intercettazioni strombazzate in TV e sui giornali nazionali si sono rivelate del tutto irrilevanti penalmente. Eppure Pino è stato prelevato a casa sua in piena notte e portato in caserma insieme a dodici sospetti mafiosi, e insieme a questi sospetti mafiosi si è voluto che fosse processato. Come se fosse uno di loro. Rilievi penali non ce ne sono, lo dico ovviamente da avvocato difensore ma anche da ex magistrato con 25 anni di esperienza. E allora si è messo sotto accusa persino il linguaggio di Pino, come se fosse una colpa il suo non essere esattamente un accademico della Crusca. Del resto chi lo conosce sa com’è e come parla: modi diretti, anche ruvidi, diplomazia zero, ogni dieci parole due parolacce. È reato questo? Lo è evidentemente per i tanti falsi moralisti sempre pronti a emettere sentenze, quelli che insieme ai colpevolisti senza prove e ai professionisti del voltagabbana si sono subito iscritti alla gara di lancio del fango, attaccando Maniaci con una campagna denigratoria di inaudita violenza e con un accanimento pari solo alla prudenza con cui si erano invece tenuti alla larga dall’approfondire il sistema Saguto denunciato per prima da Telejato. Maniaci, uomo della TV, è stato giustiziato sui media avvalendosi di un’arma mediatica, un video confezionato a bella posta per i TG di tutta Italia, montando in modo capzioso e con finalità calunniatorie immagini e intercettazioni del tutto irrilevanti. E non meno vigliacchi sono stati certi silenzi, perché quando Pino l’eroe è stato trasformato in Maniaci l’estortore, tanti ‘amici’ (con virgolette doverose) si sono dileguati, sono spariti. Torneranno magari quando tutto sarà finito, per dire che non avevano mai creduto alle accuse, che erano sempre stati convinti si trattasse di una montatura. Anche questo è un classico. Ma la colpa è di Pino. Doveva continuare a prendersela solo con i mafiosi con coppola e lupara, lasciando perdere il resto. Gli avrebbero perdonato persino le parolacce. Ha voluto fare diversamente, così impara. È una sorte che è toccata a lui come ad altri. Ed anche io ne so qualcosa. Ma Pino, così come pochi altri, è un irriducibile. Per fortuna. Grazie, Pino.

 “Meno attacchi in cambio di soldi”: indagato a Palermo paladino della tv antimafia. Pino Maniaci, direttore di Telejato. Il direttore di Telejato Pino Maniaci è sospettato di aver estorto favori e compensi a due sindaci. Le conversazioni intercettate, scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 “La Repubblica”. Chiedeva, e avrebbe ottenuto, "contributi" e posti di lavoro in cambio di una linea morbida della sua televisione nei confronti di alcuni sindaci del Palermitano. Pino Maniaci, giornalista e direttore di Telejato di Partinico (Palermo), tv di frontiera antimafia, è sotto inchiesta, come racconta "Repubblica" oggi in edicola. La procura di Palermo ipotizza il reato di estorsione. Un'accusa gravissima per un personaggio che, da anni, dalla sua tv conduce battaglie contro mafia e malaffare. L'ultima, quella contro la gestione dei beni confiscati in cui sono coinvolti l'ex presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto (sospesa dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm), altri tre magistrati e l'amministratore giudiziario, Gaetano Cappellano Seminara, tutti indagati per vari reati e costretti alle dimissioni. "La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato", replica il direttore di Telejato a "Palermo Today". Maniaci è stato più volte ascoltato e intercettato dai carabinieri nell'ambito di altre indagini: avrebbe ottenuto favori in cambio di una "linea morbida" della sua emittente nei confronti dei due amministratori comunali, i sindaci di Partinico e Borgetto. Dalle conversazioni intercettate sarebbero emersi altri elementi a carico di Maniaci che avrebbe ottenuto dal sindaco di Partinico e da quello di Borgetto, Gioacchino De Luca, finanziamenti sotto forma di pubblicità per la sua emittente televisiva. I due sindaci, interrogati da carabinieri e magistrati, avrebbero fatto delle ammissioni. Gli inquirenti avrebbero espresso anche qualche dubbio in relazione ad uno degli ultimi atti intimidatori che Pino Maniaci avrebbe subito nel dicembre del 2014 quando due suoi cani furono avvelenati ed impiccati. Per gli investigatori non si tratterebbe di una intimidazione mafiosa, ma sarebbe legata ad una vicenda privata. Ad aggravare la posizione di Maniaci, proprio le ammissioni di Salvatore Lo Biundo e Gioacchino De Luca, rispettivamente sindaci di Partinico e Borgetto. Maniaci tuttavia si ritiene estraneo ai fatti e così commenta: “La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”. Da parte sua Pino Maniaci rispedisce le accuse al mittente: “La vendetta della procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”, ha detto il giornalista a PalermoToday. “Sapevamo di questa inchiesta, nata prima dello scandalo Saguto e che parte da alcune intercettazioni ben precise. Una – ha detto ancora al quotidiano – è quella fra l’ex prefetto di Palermo Silvana Cannizzo e la stessa Saguto, che a domanda rispose: ‘Ha le ore contate’. Penso possa entrarci anche la denuncia per stalking di Cappellano Seminara, che aveva l’obiettivo di farmi mettere sotto controllo il telefono. Il piano era ed è quello di bloccarmi per impedirmi di fare il mio lavoro. Chiederemo con il mio avvocato di essere sentiti, perché siamo sicuri che quello che dicono i magistrati sulle ammissioni è totalmente falso. Qualcuno non vuole che nostra inchiesta su incarichi Ctu e sezione Fallimentare continui. Ma noi andiamo avanti”.

Telejato, Maniaci: "Io indagato? L'Antimafia mi vuole fermare". Il direttore di Telejato Pino Maniaci risponde alle accuse in un'intervista di Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it il 22 aprile 2016.

"Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia". Pino Maniaci, il direttore dell'emittente tv Telejato noto per le sue scomode inchieste antimafia, commenta a caldo in un'intervista su Affaritaliani.it la notizia riportata da Repubblica secondo la quale sarebbe indagato dalla Procura di Palermo con l'ipotesi di reato di estorsione.

Pino Maniaci, Repubblica scrive che lei sarebbe indagato con l'ipotesi di reato di estorsione.

«L'avvocato mi aveva detto di aspettare e non fare dichiarazioni prima di parlare con lui ma io non sono il tipo. Non avendo nulla da nascondere non ho nessun problema a parlare».

Ha ricevuto l'avviso di garanzia?

«Io non ho ricevuto nessun avviso di garanzia, non si capisce nemmeno che inchiesta è. Vogliono tirarmi un po' di merda addosso».

Si scrive che lei avrebbe ottenuto favori in cambio di un linea morbida della sua emittente Telejato nei confronti di due amministratori comunali.

«Intanto siamo nel campo delle ipotesi, ho letto testualmente. Quindi non capisco come sul campo delle ipotesi e su delle indagini in corso ci sia questa violazione grave. Come la possiamo definire, fuga di notizie? Non so come definirla...»

Ma che cosa risponde alle accuse?

«Entrando nel merito di quello che ho letto personalmente siamo stati querelati come emittente dal presidente del consiglio comunale di Borgetto perché in un servizio abbiamo detto che sono andati in America sia il presidente sia il sindaco a incontrare dei malavitosi. Tra le altre cose, il Comune tramite il sindaco si è costituito parte civile nel processo quindi non capisco dove sarebbe questa linea morbida di cui si parla».

Nessuna linea morbida neppure verso il Comune di Partinico?

«Sul Comune di Partinico abbiamo fatto giornalmente dei servizi sulla mala gestio che sono ovviamente verificabili negli archivi di Telejato».

Si scrive anche che sua moglie sarebbe stata assunta dal Comune di Partinico.

«Tutte minchiate. Sul campo delle assunzioni, io ho tutta la famiglia disoccupata e quindi non capisco come sia venuta fuori questa cosa. O meglio, forse lo capisco...»

Che cosa vuole dire?

«Partiamo da una denuncia che ho ricevuto a suo tempo per stalking da Cappellano Seminara. Una denuncia che ha fatto sì che mi tenessero sotto controllo non per diffamazione ma, appunto, per stalking. E poi c'è la questione dell'inchiesta sui beni sequestrati. E' un'inchiesta che non è piaciuta a molti e probabilmente c'era qualcuno che voleva bloccarla. Sa che cosa mi ha detto un magistrato? Mi ha detto così: "A questo punto stai attento che non ti ammazza la mafia ma l'antimafia"».

Pino Maniaci non potrà risiedere nelle province di Palermo e Trapani. Le intercettazioni svelano che non era minacciato dai boss, ma dal marito della sua amante, che gli avrebbe bruciato l'auto e impiccato i cani. Ma lui diceva in Tv: “Sono perseguitato per le mie inchieste”. Lo aveva chiamato pure Renzi per esprimergli solidarietà e poco dopo Maniaci commentava: "Mi ha telefonato quello stronzo", scrive Salvo Palazzolo il 4 maggio 2016 su “La Repubblica”. Non sono stati i boss di Cosa nostra a bruciare l’auto di Pino Maniaci, il direttore di Telejato diventato in questi anni un simbolo dell’antimafia. Non sono stati i boss a impiccare i suoi due amati cani. La mafia non c’entra proprio niente in questa storia. Le intercettazioni disposte dalla procura di Palermo svelano che le intimidazioni a Pino Maniaci le avrebbe fatte il marito della sua amante. E lui ne era ben consapevole. Ma ai giornali e alle Tv annunciava in pompa magna: “E’ stata la mafia a minacciarmi per le inchieste del mio tg”. Quel giorno, era il 4 dicembre dell’anno scorso, gli telefonò persino il presidente del Consiglio per esprimere solidarietà. E qualche minuto dopo, lui si vantava al telefono, con un’amica: “Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi”. E’ un altro Pino Maniaci – niente affatto eroe della legalità - quello che emerge dalle intercettazioni dei carabinieri della Compagnia di Partinico. Il giornalista è indagato per estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e Borgetto, come anticipato nei giorni scorsi da Repubblica: avrebbe preteso soldi e favori per ammorbidire i suoi servizi televisivi. Questa mattina, gli è stato notificato un provvedimento di divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Il provvedimento è stato emesso dal gip Fernando Sestito su richiesta dei sostituti procuratori Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Roberto Tartaglia e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Un’inchiesta che si aggiunge alle altre di questi ultimi mesi sui simboli dell’antimafia finiti nella cenere. Pino Maniaci è accusato di aver estorto al sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo anche un’assunzione per la sua amante. Un contratto di solidarietà al Comune per tre mesi: “Alla scadenza, non poteva essere rinnovato – ha ammesso il sindaco interrogato dai carabinieri – ma Maniaci diceva che dovevamo farla lavorare a tutti i costi e allora io e alcuni assessori ci siamo autotassati per pagarla”. Intanto, lui si vantava al telefono con l’amante: “Per quella cosa ho parlato, già a posto, stai tranquilla, si fa come dico io e basta. Qua si fa come dico io se ancora tu non l’avevi capito… decido io, non loro… loro devono fare quello che dico io, se no se ne vanno a casa”. Per i magistrati è la prova chiarissima delle “vessazioni” imposte dal giornalista antimafia. Maniaci era ormai in pieno delirio di onnipotenza. All’amante diceva di volerle fare vincere un concorso all’azienda sanitaria locale di Palermo. Grazie alle sue solite buone amicizie. “Quello che non hai capito tu è la potenza… tu non hai capito la potenza di Pino Maniaci. Stai tranquilla che il concorso te lo faccio vincere”. E spiegava di essere in partenza per ritirare un premio antimafia: “A me mi hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi, appena intitolato l’oscar di eroe dei nostri temi”. Era il novembre 2014. In un’altra occasione: “Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione”. Nei giorni scorsi, il giornalista si è difeso sostenendo di essere vittima di un complotto, per le sue denunce sulla gestione dei beni confiscati. Ma nel novembre 2014, l’inchiesta sulla gestione allegra della sezione Misure di prevenzione di Palermo non era neanche nella mente dei magistrati di Caltanissetta, che iniziarono a indagare nel mese di maggio successivo. L'indagine su Maniaci è nata per caso, durante alcuni accertamenti dei carabinieri sulle amministrazioni comunali. E stanotte è anche scattato un blitz dei carabinieri del Gruppo Monreale, fra Partinico e Borgetto, coinvolge nove presunti mafiosi. “C’è il sindaco che mi vuole parlare – diceva ancora all’amante – per ora lo attacco perché gli ho detto che se non si mette le corna a posto lo mando a casa, hai capito? A natale non ti ci faccio arrivare, che te ne vai a casa e non ci scassi più la minchia”. Poi aggiungeva: “Mi voglio fare dare 100 euro così domani te ne vai a Palermo tranquilla”. Intercettazioni che per la procura diretta da Francesco Lo Voi non lasciano spazio a interpretazioni. Il direttore di Telejato sussurrava ancora, a proposito del sindaco: “Dice che in tasca non ne aveva e che stava andando a cercare i soldi… i piccioli li deve andare a cercare a prescindere… così ne avanzo 150 di iddu”.

Indagine su Maniaci, il giornalista: "Abbiamo toccato poteri forti, me l'aspettavo". Il direttore di TeleJato è un fiume in piena: "Non ho nulla da temere, dopo il caso Saguto mi immaginavo qualcosa del genere. A proposito, a che punto è quell'inchiesta?", scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 su “La Repubblica”. Da accusatore ad accusato dalla procura di Palermo con l’ipotesi di reato di estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e di Borgetto dai quali avrebbe ottenuto favori e contributi, cosa succede? “Abbiamo toccato poteri forti ed ovviamente ci aspettavamo una reazione che è puntualmente arrivata”. Pino Maniaci, direttore della emittente Telejato che copre un vasto territorio del palermitano e del trapanese, è un fiume in piena, si difende poco ma attacca molto come è nel suo stile preannunciando che attraverso il suo avvocato, l’ex pm antimafia Antonino Ingroia, denuncerà i magistrati che lo hanno indagato. Intanto su Facebook e Twitter il popolo del web si divide fra colpevolisti e innocentisti.

“L’iniziativa della Procura – afferma Maniaci - è un vero e proprio agguato ed una vendetta per il lavoro che abbiamo fatto e che facciamo ancora oggi contro il malaffare e l’ illegalità anche all’ interno della magistratura come nel caso dell’ inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia dove a capo di tutto c’era l’ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto ed il suo clan, che è stata indagata e punita dal Csm che l’ha sospesa dalle funzioni e dallo stipendio anche se lei continua a prendere oltre 5000 mila euro al mese”.

La Procura che tende agguati e che si vendica? Mi pare un po’ eccessivo o no?

“Guarda che già nel settembre scorso qualcuno dentro la procura di Palermo mi aveva avvertito dicendomi che entro dicembre sarei stato arrestato e che sarebbe stata proprio l’antimafia e non la mafia ad attaccarmi cosa che è puntualmente accaduta”.

Ma ci sarebbero delle intercettazioni che, secondo l’accusa, dimostrerebbero che avresti compiuto dei reati, ottenendo favori dai due sindaci di Borgetto e Partinico in cambio, diciamo così, di un occhio di riguardo nei loro confronti nei tuoi servizi giornalistici.

“Allora io dal sindaco di Borgetto contro cui ho fatto dei servizi per alcuni suoi viaggi sospetti negli Stati Uniti (e per questo mi ha anche querelato) dove avrebbe incontrato alcuni mafiosi, non ho ottenuto nulla. Da sua moglie, invece si”.

Che cosa?

“Dei contratti pubblicitari per Telejato dove pagava 250 euro al mese, cifre che fanno veramente ridere”.

Ed il posto di lavoro per una sua conoscente al comune di Partinico?

“Io non ho fatto assumere nessuno e dico e ripeto che nella mia famiglia, sono tutti disoccupati”.

Quindi nessuna assunzione di favore?

“Ripeto, nella mia famiglia sono tutti disoccupati”.

Quindi nulla di illegale? Ne sei proprio certo?

“Non ho nulla da temere, queste accuse della Procura di Palermo mi fanno ridere. Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia né di conclusione delle indagini e questa è stata una vendetta per le mie inchieste sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Le mie intercettazioni sono nate a “tavolino”. Ci aspettavamo una cosa del genere soprattutto dopo la denuncia dell’avvocato Cappellano Seminara, amico della Saguto, anche lui finito indagato, che ha dato modo e possibilità alla procura di mettere sotto controllo il mio telefono e di intercettarmi. In Italia guai a toccare i poteri forti e tra questi la magistratura ma io continuerò il mio lavoro ed anche per questa indagine, attraverso il mio avvocato, Antonino Ingroia, li denuncerò, per competenza, alla Procura di Caltanissetta”.

Con quali accuse?

“Non posso anticipare nulla per il momento, ma starete a vedere….Proprio nei giorni scorsi su Telejato abbiamo ampliato lo spettro della nostra inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a quella sulla sezione fallimentare del Tribunale di Palermo, dove ci sono interessi enormi e dove girano gli stessi nomi e cognomi, di amici degli amici dei magistrati e di altri amministratori giudiziari. Tutto questo dà fastidio, molto fastidio, ecco perché tentano di fermarmi con indagini che non hanno nè capo nè coda”.

Ma sapevi di questa inchiesta nei tuoi confronti?

“Qualcosa avevamo intuito proprio dalle intercettazioni relative alla Saguto ed ai suoi amici che sono stati tutti indagati dalla Procura di Caltanissetta: a proposito a che punto è questa inchiesta?”.

CE LO ASPETTAVAMO DA TEMPO E ALLA FINE È ARRIVATO. Scrive Salvo Vitale il 22 aprile 2016 su "Telejato". “Quello là è questione di ore” aveva detto la signora Saguto, quando era ancora “come un dio” sull’alta sedia di Presidente dell’Ufficio misure di prevenzione. Una battaglia Portata avanti dalla redazione di Telejato aveva svelato un “sistema di potere” attorno a cui ruotavano e continuano a ruotare quelli che oggi si possono considerare la nuova classe dominante di Palermo, ovvero avvocati, magistrati, cancellieri, curatori ed amministratori giudiziari, commercialisti, giornalisti, sindaci, imprenditori e commercianti mafiosi che hanno fatto professione di antimafia, affaristi, pentiti usati con il telecomando, a seconda delle cose che gli dicono di dire. Quando è scoppiato il terremoto ed è saltato il tappo, alcuni giudici hanno dovuto lasciare la poltrona, sono stati spostati ad altri incarichi, alcuni amministratori giudiziari sono stati sostituiti, ma sono ancora al loro posto, nessuno di loro si è preoccupato di fare le consegne e pertanto è stato necessario nominare qualcuno che se ne preoccupasse. Era chiaro che, alcuni dei responsabili di questo finimondo non potevano passarla liscia. Non sappiamo che cosa succederà ai giudici di Caltanissetta, che stanno indagando sui loro colleghi, probabilmente saranno “ammorbiditi” dai loro superiori, nella stessa misura in cui Maniaci è accusato di essersi ammorbidito con due sindaci, ma sappiamo oggi che cosa è successo a Pino Maniaci. Il suo telefono, da tempo sotto controllo, probabilmente dopo la denuncia per stalking avanzata da Cappellano Seminara, avrebbe fornito chissà quali elementi, in base ai quali si poteva studiare un bel capo di accusa. Non è stata una “questione di ore”, ma, da settembre ad adesso ci sono voluti quasi nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un parto. Sarebbe stato troppo sfacciato far partire l’accusa nel momento in cui è scoppiato lo scandalo, e perciò, in base alla norma tutta nostra, secondo cui “la vendetta è un piatto che si mangia freddo”, la procura di Palermo ha deciso di mollare il missile adesso che le acque si sono calmate, o, come si dice in siciliano, “a squagghiata di l’acquazzina”, quando la brina si è sciolta. Il metodo è sempre lo stesso: chiamare un giornalista con cui la procura è in contatto, dargli la notizia, quasi sempre anche all’insaputa dell’indagato, fornirgli anche qualche brano sospetto di intercettazioni, da trasmettere, non tutte insieme, ma un poco al giorno, per tenere la vicenda in caldo, ed è fatta. [Pino era stato sentito dai magistrati della procura di Palermo qualche mese fa e pensava di avere chiarito tutto, e invece no]. Ha dovuto nominare due difensori, uno dei quali è Antonio Ingroia, l’altro Bartolo Parrino. L’accusa è ridicola e non merita di essere commentata. Basta ascoltare i telegiornali, per rendersi conto che quotidianamente i sindaci di Partinico e di Borgetto sono “massacrati” da Pino per la loro, diciamo “presunta”, incapacità a risolvere gli enormi problemi del loro territorio. Non parliamo poi della triste vicenda dei cani impiccati: quella che circolava a Partinico, allora, era la tremenda accusa che i cani fossero stati uccisi dallo stesso Maniaci per farsi pubblicità, e un nutrito gruppo della gente di facebook si è apprestato a condividere questa infame accusa, così come oggi mostra soddisfazione per quello che è venuto fuori, con le loro idiote condivisioni. Costoro non si aspettano una condanna: Pino è già stato da loro condannato e da tempo. Fra l’altro, proprio per non farla “vastasa” si è fatta scivolare l’ipotesi che il “canicidio” sia stata opera di qualcuno che si voleva vendicare personalmente e non un’intimidazione mafiosa. Così si toglie, guarda un po’ dove arriva l’intelligenza inquirente, anche, oltre che credibilità, questa sventolata patente di giornalista antimafia che Maniaci si è guadagnata sul campo. La notizia è arrivata dopo che Maniaci, assieme a Lirio Abbate, è stato ritenuto uno dei giornalisti più impegnati in Italia, ma anche dopo che “Reporter sans frontieres” ha pubblicato la graduatoria sui paesi in cui la libertà di stampa è in pericolo: l’Italia è scivolata dal 65simo al 74esimo posto. Fare giornalismo in Sicilia è già difficile. Le querele per diffamazione fioccano e ormai non si contano più, ma quando si ci mette anche la magistratura è il caso di chiedersi se non è meglio cambiar mestiere.

RETTIFICA. Si rettifica l’affermazione, nel senso che Pino Maniaci non è stato mai sentito dalla Procura di Palermo e, sino ad oggi, non ha ricevuto alcun avviso di garanzia. Tutto quello che è venuto fuori è stato reso noto da un articolo su “La Repubblica”, a firma F. Viviano. In tal senso i legali di Maniaci hanno annunciato che lunedì prossimo sarà presentata alla Procura di Palermo una formale richiesta di accesso agli atti per sapere se esiste un capo d’imputazione, su che cosa e su quali elementi è fondato e per chiedere l’audizione dello stesso presunto imputato. Anche ai giudici di Caltanissetta sarà inviata dal collegio di difesa di Maniaci, formato da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino, una richiesta di accesso degli atti e alle intercettazioni da cui si evincerebbe che, da parte di alcuni settori della Procura di Palermo e di altre forze istituzionali ci sarebbero state manovre e tentativi di fermare l’azione di Telejato.

Pino Maniaci aveva previsto tutto: ecco l’intervista del 13 Novembre 2015 di Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York". In questa intervista, ripetiamo, siamo a Novembre dell’anno scorso, commentiamo con lui le voci – già ricorrenti in quel periodo - di una inchiesta a suo carico e, addirittura, di un suo arresto. Rileggiamola:

Caso Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci?

Gira voce che vogliono arrestarla…ci faccia capire, direttore, alla fine il mafioso è lei? 

Maniaci: “Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto notizie su di lei…

Maniaci: “La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

Maniaci: “Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non entusiasmante, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

Maniaci: “Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

Maniaci: “Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

Maniaci: “E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: ‘Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pi no Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

Maniaci: “Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per raccontare vent’anni di antimafia, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi – con riferimento anche al mio operato – sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

Maniaci: “Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

Maniaci: “Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

Maniaci: “Mi denunciano per stalking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

Maniaci: “Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

Maniaci: “Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

Maniaci: “Pagavano il ‘pizzo’. Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

Maniaci: “No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

Maniaci: “Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

Maniaci: “Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

Maniaci: “Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono ‘artisti’. Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

Maniaci: “Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

Maniaci: “Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato ‘promosso’: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

Maniaci: “Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent’anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

Maniaci: “Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

La doppia vita di Pino Maniaci: dalla lotta alla mafia alle estorsioni. Il direttore di Tele Jato era un paladino della legalità, accusatore di magistrati per la gestione dei beni confiscati. Ricattava i sindaci per far assumere la sua amante, scrive Felice Cavallaro il 4 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. I cani glieli avrebbe impiccati il marito della sua amante. E per fare lavorare la stessa signora nel Comune di Borgetto avrebbe ricattato sindaco e consiglieri. Sarebbe questa la verità di una classica estorsione e di una storia di «femmine» maturate fra le pieghe di un impegno antimafia che ha visto per anni nei panni di un inflessibile paladino il direttore della piccola e combattiva emittente di Partinico, Pino Maniaci. Lo stesso implacabile accusatore di magistrati e amministratori finiti a Palermo sotto inchiesta per la gestione dei beni confiscati. A cominciare dalla ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, intercettata a maggio dell’anno scorso con il prefetto: «Quando matura la cosa di Maniaci...?». Stavolta le intercettazioni sono tutte a carico di quest’altro simbolo dell’antimafia che cade sotto il sospetto di essersi inventato una parte delle intimidazioni mafiose. Una parte. Non dimentichiamo lo sfogo del boss di Partinico, Vito Vitale, soprannominato Fardazza, intercettato qualche anno fa in carcere a Torino: «Sta televisione si sta allargando troppo». Anche questo tassello deve aver pesato nel 2009 quando il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia iscrisse come «pubblicista» d’ufficio Maniaci, editore e conduttore del Tg di TeleJato, nonostante i suoi precedenti penali: furto, assegni a vuoto, truffa, omissione di atti d’ufficio. Tutto considerato ininfluente e cancellato dal rinnovato impegno antimafia. Conteso da tutte le scuole italiane per raccontare la sua vita, le continue presunte minacce ricevute e la storia dei Cento passi di Peppino Impastato, modello al quale si ispirava, Maniaci adesso non potrà nemmeno soggiornare nel suo paese accusato di estorsione «per aver ricevuto somme di denaro e agevolazioni dai sindaci di Partinico e Borgetto onde evitare commenti critici sull’operato delle amministrazioni». Si tratta però di «cifre ridicole», come le ha definite lo stesso Maniaci la scorsa settimana, intervistato in Tv dalle Iene. Di volta in volta avrebbe «strappato» al sindaco di Borgetto e ad altri personaggi politici locali poche centinaia di euro, «pezzi da 100 o 150 euro». Il sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo e i suoi consiglieri si sarebbero addirittura autotassati pur di pagare lo stipendio all’amante di Maniaci, dopo un corso trimestrale non rinnovabile. E questo sempre per il timore di ricatti. Accusa pesantissima di un’inchiesta condotta dai carabinieri di Monreale e Partinico, sotto il diretto controllo del procuratore Francesco Lo Voi, dell’aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Roberto Tartaglia. Una squadra di magistrati al completo proprio per le ovvie ripercussioni che la notizia può determinare all’interno di un pianeta antimafia che vede ormai cadere i suoi simboli uno dopo l’altro. Dal presidente della Camera di commercio Roberto Helg alle inchieste tutte da definire contro il presidente di Confindustria Antonello Montante e del vice presidente nazionale di viale dell’Astronomia Ivan lo Bello, inciampato nella storiaccia del porto di Augusta con il compagno della dimissionaria ministra Guidi. Nel caso di Maniaci le voci delle scorse settimane erano state clamorosamente smentite dallo stesso direttore parlando di una «vendetta» covata fra i magistrati dopo le accuse alla Saguto. Le intercettazioni a suo carico sarebbero però precedenti al cosiddetto «caso Saguto» ufficialmente esploso solo nel maggio 2015. Ma è anche vero che Maniaci le sue battaglie (fondate) sulla gestione dei beni confiscati le cominciò un anno prima. Quando anche il prefetto Giuseppe Caruso denunciò gli stessi imbrogli. A prima vista sembra però che quelle denunce e le presunte estorsioni procedano su due linee parallele. Con un solo punto di incontro: l’amante e il marito tradito, disposto a impiccare due cani e bruciare l’auto di Maniaci. Storia dello scorso dicembre, quando su Tele Jato rimbalzarono le solidarietà di mezzo mondo e la telefonata di Renzi della quale parlava, ignaro di essere intercettato, il direttore-simbolo, travolto da un delirio di onnipotenza: «Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione... Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi».

TELEJATO: PESANTI OMBRE SUL PASSATO DI PINO MANIACI. Scrive Dario Milazzo il 26 aprile 2016 su l’Urlo”. Episodi inquietanti sembrerebbero contraddistinguere il passato di Pino Maniaci: l’imprenditore avrebbe commesso diversi reati quando era ancora imprenditore edile. Dopo l’indagine per estorsione spuntano altri elementi che potrebbero macchiare l’immagine di Pino Maniaci. Pino Maniaci è l’editore di Telejato, emittente comunitaria famosa per le inchieste e per le battaglie anti-mafia. Come sappiamo Maniaci risulta attualmente indagato a Palermo per il reato di estorsione (Indagato il direttore di Telejato per estorsione). Da fonti autorevoli abbiamo appreso che l’editore di Telejato avrebbe avuto in passato diversi problemi con la giustizia. Si tratterebbe di una sfilza di condanne, tutte passate in giudicato, che avrebbero portato il Maniaci a scontare pene detentive (non possiamo dire se ai domiciliari o in carcere).  Ma l’imprenditore di Partinico nel periodo “pre-Ordine” avrebbe goduto anche di indulto e di amnistia. I reati contestati sarebbero: emissione di assegni a vuoto, furto, abuso d’ufficio, truffa e ricettazione. Ricordiamoci inoltre che Pino Maniaci era stato processato nel 2009 per il reato di esercizio abusivo della professione. Come ci ha confermato l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Maniaci fu processato perché, dopo circa 10 anni di attività giornalistica, non aveva mai presentato le pratiche per ottenere il tesserino di giornalista commettendo così, ovvero scrivendo senza essere iscritto all’Ordine, il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica. Dal processo per esercizio abusivo della professione giornalistica Pino Maniaci venne assolto per insussistenza del fatto. Tornando ai fatti passati, pesanti sono le accuse che sono state lanciate a Pino Maniaci dall’ingegnere Vincenzo Bonomo, ex assessore di Partinico. In base a quanto asserito dall’ingegnere ed insegnante di Partinico, l’editore di Telejato avrebbe gestito in passato un laboratorio d’analisi cliniche di Montelepre sfoggiando una falsa laurea. Da sottolineare il fatto che fra Vincenzo Bonomo e Pino Maniaci non correrebbe buon sangue: in passato l’ingegnere ha querelato per diffamazione ben 5 volte l’editore di Partinico. I guai giudiziari che in passato avrebbero coinvolto l’editore non hanno nulla a che vedere con la sua attività giornalistica e con l’indagine che lo coinvolge attualmente. Ribadiamo inoltre che Pino Maniaci ha dato tantissimo all’antimafia e alla sua Sicilia, proprio per questo motivo ci aspettiamo da lui una presa di posizione chiara e forte che sia una smentita o una conferma dei fatti contestati.

Indagini su Pino Maniaci: alcuni tasselli del mosaico, scrive Salvo Vitale il 28 aprile 2016 su "Telejato. L’ESTORSIONE È UN REATO. IL SINDACO È UN PUBBLICO UFFICIALE. SE IL SINDACO SUBISCE UNA ESTORSIONE O È AL CORRENTE CHE UNA ESTORSIONE SIA STATA COMPIUTA DA QUALSIASI CITTADINO, HA IL DOVERE DI DENUNCIARE L’ESTORTORE. Quindi, se il sindaco non denuncia rischia di diventare omissivo e compie un reato, anzi, diversi reati, a cominciare dall’omissione di atti d’ufficio. Sono passati due anni, almeno da quello che è trapelato fuori dalla presunta indagine su Pino Maniaci, della quale ancora non gli è stato notificato NULLA, così come nessuna denuncia è stata fatta dai due sindaci per il presunto tentativo di estorsione. Ergo, o il giornalista della Repubblica si è inventato tutto, o la Procura si è inventato tutto, oppure ha cercato in tutti i modi di costruire e imbastire un atto d’accusa farlocco, oppure ancora abbia interpretato male alcune frasi, oppure non è vero che i sindaci abbiano subito un’estorsione, ma rimane il fatto che se il fatto è successo, un reato, quello di non denunciare l’estortore, è stato commesso dai due sindaci. Perché questo reato non è stato loro contestato? Non dovrebbero essere oggi in galera o lì vicino? Forse quel reato non c’era, ma se non c’era tutto dovrebbe sgonfiarsi come un palloncino. SI VA DELINEANDO A POCO A POCO IL QUADRO E I VARI TASSELLI DEL PUZZLE CHE LO COMPONGONO, CON IL QUALE SI È CERCATO DI TAGLIARE L’ERBA AI PIEDI DI PINO MANIACI, DI ZITTIRE UNA BOCCA DIVENTATA TROPPO FASTIDIOSA E POSSIBILMENTE DI INCHIODARLO DISTRUGGENDO L’ALONE DI PALADINO DELL’ANTIMAFIA CHE EGLI HA CERCATO DI COSTRUIRE ATTORNO A SÉ. L’infamia ha una sua base nell’affermazione, che abbiamo letto sulla Repubblica, secondo la quale l’efferata morte dei due cani di Pino sarebbe motivata da questioni personali. Niente minacce mafiose, la mafia è innocente. Anche per tanti altri delitti, da Peppino Impastato a Mauro Rostagno, a Beppe Alfano, a Pippo Fava, all’inizio l’affermazione è stata sempre quella: la mafia è innocente. È la posizione tipica dei mascalzoni che vogliono distruggere l’immagine di una persona proprio in quello che lo caratterizza positivamente. Ma andando indietro, è il 16 febbraio 2016, si tratta di un’intervista a Pino. Emerge dalle sue dichiarazioni che non è una novità che il suo telefono è intercettato e che si sta mettendo assieme la trappola per incastrarlo. Una serie di persone che lo hanno contattato telefonicamente, come risulta dai tabulati, sono chiamate dalla Procura e sono talora invitate a confermare quanto è stato già scritto deciso a tavolino, invitate a firmare quello che dovrebbero dire, in modo abbastanza perentorio. “Sto venendo a prendere i soldi delle magliette. Vedi chi ti tappiu”. Che vogliamo di più, è una chiara richiesta di pizzo. Oppure, se vogliamo andare indietro, c’è una dichiarazione di Pino sul presidente del consiglio comunale di Borgetto: egli sostiene che è collegata a certi ambienti mafiosi. Il presidente reagisce denunciando Maniaci. I consiglieri comunali chiedono che la cosa sia chiarita, il sindaco denuncia Maniaci ritenendo che sia stato offeso il Comune, così sarà il Comune a pagare l’avvocato, e il resto, su come andrà a finire, è tutto da scrivere, ma è chiaro che le dichiarazioni non possono essere lette a pezzettini, e che fanno parte di un insieme. Quell’insieme che Silvana Saguto ha cercato di mettere su, con l’assenso e il benestare degli amici giudici di Magistratura Indipendente, tutti suoi colleghi affettuosi, Virga, Lo Voi, Petralia, ma anche con le riserve e l’opposizione di altri giudici, al punto da arrivare a farle affermare: “Se quelli lì si sbrigassero non ci sarebbe bisogno di ….”. Chi sono quelli lì che ci stanno andando con i piedi di piombo? Insomma si ha l’impressione che la nuova linea è stata lanciata, dopo che Vespa, tanto per mettere una pezza alla minchiata dell’intervista a Salvuccio Riina, chiama in televisione Angelino Alfano, e questo gli dice, più o meno che, visto che la mafia sta finendo, anche l’antimafia dovrebbe finire. Cazzate dietro cazzate con l’annuncio a cui oggi tutti i pennivendoli di regime si sono associati: l’antimafia è morta, sono tutti corrotti, tutti sono nella stessa barca che affonda, la Saguto, Pino Maniaci che l’ha impallinata, Saviano, che rilascia false notizie, Salvatore Borsellino che abbraccia Massimo Ciancimino, Helg, Montante, Lo Bello, Ciancio, ricchi e poveri, colpevoli e innocenti, boss e vittime, don Ciotti e Libera, Addio Pizzo, tutti nello stesso mucchio, tutti uguali, tutti a mare, dopo di che, dopo questa grande piazza pulita di discredito e di merda, Cosa Nostra, con i suoi colletti bianchi, con le sue toghe, con i suoi avvocaticchi, con i suoi imprenditori, con le sue aziende liberate dalla paura di finire sotto inchiesta, davanti a una magistratura intimidita potrà tornare a imperare, senza più bisogno di boss nascosti: basterà metterli bene in evidenza come componenti del sistema politico che ci regge, farli diventare onorevoli, oggi si decide a tavolino, presidenti ecc. e tutto sarà risolto. Insomma, il sogno fatto in modo un po’ rozzo da Totò Riina e in modo più sapiente da u zzu Binnu in Sicilia e da Licio Gelli nel resto d’Italia, diventerà realtà.

Pino Maniaci: il fango, la stampa e l’ignoranza, scrive Massimiliano Perna il 30 aprile 2016 su “Il Megafono”. Pino Maniaci è un delinquente, un finto paladino dell’antimafia. È anche un pregiudicato, come qualcuno, con eccitazione, sta urlando ai quattro venti in queste ore. Pino Maniaci è pure un estortore. Non presunto, per carità, lo è e basta. Lo avete deciso voi. Lo ha deciso la stampa, o almeno quella parte che non vede l’ora di beccarne un altro che possa aggiungere crepe a un movimento sempre più instabile. Lo ha deciso una parte dello stesso movimento antimafia, soprattutto quella che non è mai stata sul campo e ha fatto il proprio nido sulle tastiere e dietro uno schermo, pontificando, accusando, giudicando senza appello persone e storie, vite e vissuti. Pino, oggi, per molti colleghi e per diversi presunti antimafiosi di questo Paese non è più quel giornalista coraggioso, onesto e ostinato che da anni denuncia, a suo rischio, tutto quel che non va nella provincia palermitana e in Sicilia. Uno della cui amicizia si può andare fieri. Pino adesso, d’improvviso, è diventato un uomo da osservare con sospetto. La campagna denigratoria nei suoi confronti è di una violenza inaudita e non sono violenti soltanto gli attacchi velenosi dei detrattori o il ghigno dei nemici nascosti, ma anche i silenzi di chi dovrebbe sostenerlo e che invece preferisce non dir nulla, non esporsi. Tutti ad accettare giudizi vergognosi, senza battere ciglio. Sintomo non di cautela, ma di profonda ignoranza, che è uno dei problemi più grandi anche del movimento antimafia. Un movimento troppo affollato, dove entra chiunque e dove chiunque, solo in virtù della partecipazione a qualche evento o presidio o della lettura di qualche libro o articolo, si sente in diritto di esprimere qualsiasi giudizio nei confronti di chi la mafia la sfida ogni giorno o l’ha sfidata per anni. Sul campo. Il tutto in un Paese (e in un contesto giornalistico) che vive di antipatie, invidie, fazioni, manie, fanatismi e che perde spesso di vista la realtà. Così, in molti hanno partecipato, più o meno direttamente e senza condizionali, alla gara di lancio del fango su Pino Maniaci e Telejato. E lo hanno fatto nonostante non avessero a disposizione nient’altro che un articolo nel quale si parla di una grottesca estorsione (soldi e posti di lavoro chiesti ai sindaci di Borgetto e Partinico in cambio di una linea morbida di Telejato nei loro confronti) e si annunciano intercettazioni sensazionali. Stop. Non si fa riferimento ad altro, non si racconta la storia più recente di Pino e della sua tv, non è chiaro quale sia il contesto di queste intercettazioni, quale sia il loro contenuto, non sappiamo nemmeno se esistano davvero. C’è solo un articolo con una notizia frammentata e ciò basta a scatenare l’inferno. Poco importa che a Pino non sia arrivata alcuna notizia di indagine, non sia giunto alcun avviso di garanzia. Di sicuro, però, qualora questa indagine fosse reale, qualcuno andrebbe punito per violazione del segreto di ufficio e dovrebbe spiegare come mai la stampa abbia saputo prima del diretto interessato. Ovviamente, la maggior parte finge di ignorare che Pino, in questi ultimi due anni, ha smascherato il malaffare nella gestione dei beni confiscati alla mafia, mettendo nei guai giudici molto potenti, come Silvana Saguto, e avvocati altrettanto potenti. Sappiamo benissimo come vanno queste cose e come, quando tocchi certi ambiti, la reazione (peraltro attesa) possa in qualche modo arrivare colpendoti sempre nel tuo punto più caro. Accusano Pino, infatti, proprio delle cose contro le quali si è sempre battuto. Provano a gettare un’ombra su di lui e sul suo impegno e lo fanno comunicando alla stampa una notizia che aizza i suoi detrattori. Qualcuno poi decide di andare oltre e finisce per affondare le mani nel passato di Pino, tirando fuori storie note come se fossero sensazionali e inedite. “Pino Maniaci ha avuto problemi con la giustizia”, scrive un giornale online a cui non diamo nemmeno l’onore del nome per non fargli pubblicità (visto che lo leggono in quattro), elencando tutta una serie di presunti reati, oltre a raccogliere l’accusa non dimostrata di un nemico dichiarato di Telejato, un ex assessore del Comune di Partinico. A tal proposito, sempre l’ignoranza e la disinformazione fanno sì che la gente non presti attenzione al fatto che i comuni di Borgetto e Partinico siano attaccati quotidianamente e duramente dall’emittente Telejato. Addirittura la presidenza del consiglio comunale di Borgetto aveva querelato la tv di Pino Maniaci per diffamazione e lo stesso sindaco si era costituito parte civile contro l’emittente. Non vi pare allora quantomeno contraddittoria la storia della “linea morbida” verso i due sindaci in cambio di soldi e favori?  Ma torniamo indietro al passato “burrascoso” di Maniaci. Dove starebbe la notizia? Lo stesso Pino (nel libro Dove Eravamo – Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio, Caracò editore, 2012) aveva scritto e raccontato del suo passato e dei problemi vissuti, della galera per un caso di omonimia, della sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e infine del suo momento di svolta, legato a quanto accaduto a Capaci e in via D’Amelio. Riportiamo qui alcuni passaggi che qualche giornalista sprovveduto farebbe bene a leggere: “…I miei delatori lo sanno bene ed ogni volta che qualcuno mi vuol attaccare, non avendo altro, subdolamente non fa che ricordare che Pino Maniaci non è altro che un pregiudicato della peggior specie e non un giornalista accreditato. Già perché io non ho fatto sempre questo mestiere. Proveniente da una famiglia non proprio agiata ma neanche mala cumminata, sin da ragazzo mi sono sempre sbracciato. […] Ho fatto mille lavori sino a diventare anche un piccolo imprenditore edile, ed è qui che cominciano i miei guai. Siamo negli anni ’80, lavorare nel settore edile e nel mio territorio non è cosa facile. I soldi non bastano mai ed è così che l’impresa che costituisco cammina sempre sul filo del rasoio. Si vive di pagherò e di assegni postdatati e ai fornitori sta pure bene”. Pino racconta di essere stato arrestato in una operazione antimafia, ma per errore, perché omonimo di un affiliato (che poi si scopre essere un suo lontano parente). Sarà Giovanni Falcone ad accorgersi dell’errore e a liberarlo. Ma mentre è in galera, fuori per l’attività di Pino le cose peggiorano: “Con me lontano, i lavori non vanno avanti, i creditori spariscono mentre rimangono i debiti e i fornitori che incassano gli assegni, ovviamente scoperti. Le cose si mettono male ed oltre a una denuncia per mafia, cominciano i miei guai per gli assegni non pagati”. Eccolo il passato “ombroso” di Pino, quello dal quale derivano la sua forza e, soprattutto, la sua scelta, dovuta alla rabbia provata per le stragi del ‘92, di ritirare la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione e di impegnarsi attivamente nella lotta alla mafia. Un impegno che da quel momento non si è mai fermato, che ha portato alla bellissima realtà di Telejato, palestra ed esempio per tanti giovani e per tanti giornalisti liberi. Un uomo onesto, sia nel raccontare il suo passato che nel vivere il suo presente, con coraggio e senza fare sconti a nessuno. Anche se questo atteggiamento poi, come vediamo, qualcuno glielo fa pagare. Noi, che persone come Pino le abbiamo avute accanto, le abbiamo conosciute da vicino, sul loro campo di battaglia, ci schieriamo dalla sua parte e dalla parte di chi resiste e rifiuta di farsi mettere cappelli politici o di movimento. Siamo in attesa di vedere come evolverà questa vicenda, convinti che sia solo un tentativo, anche piuttosto banale e goffo, di screditare chi ha osato troppo. Più avanti, quando tutto sarà chiarito, avremo poi tutto il tempo per ricordarci di chi oggi, senza nulla in mano, dalle tastiere e dalle pagine di certi giornali, ha già emesso illegittime sentenze e sputato calunnie.

La calunnia è un venticello. Pino Maniaci e le indagini presunte, scrive il 30 aprile 2016 Martina Annibaldi su "Stampa Critica”. Da circa vent’anni è il volto di Telejato. Unico tra gli italiani, insieme a Lirio Abbate, a finire nella lista dei 100 eroi mondiali dell’informazione stilata da Reporter Sans Frontier. Pino Maniaci è per tanti di noi il simbolo vivente di una lotta alla mafia che è fatta di impegno quotidiano e di coraggio. Quel coraggio di raccontare le distorsioni e i veleni di una terra, la propria. Anni di battaglie, di intimidazioni, di violenza, di querele a catinelle (più di duecento, ad oggi!) nel tentativo ancora mai riuscito di tappare la bocca a lui e alla sua redazione. Pino è sempre andato avanti ma, si sa, prima o poi dove non arriva la crudeltà o la minaccia arriva quel leggero venticello dell’infamia a colpire chi avrebbe dovuto tacere e non lo ha fatto. “Meno attacchi in cambio di soldi: indagato a Palermo paladino della tv antimafia”, è il titolo dell’articolo pubblicato da Repubblica venerdì 22 Aprile che apre il caso Maniaci. Secondo la ricostruzione fornita dal giornalista, Pino Maniaci sarebbe indagato dalla Procura di Palermo per estorsione ai danni del sindaco di Partinico, Salvo Lo Biundo, e del sindaco di Borgetto, Gioacchino De Luca. In cambio di soldi, il volto di Telejato, avrebbe promesso ai due primi cittadini un ammorbidimento dei servizi che li riguardavano e richiesto posti di lavoro per i propri familiari. Le indagini sarebbero state aperte dopo una serie di intercettazioni da parte dei Carabinieri e, alla luce di quanto emerso, avrebbe persino spinto gli inquirenti a ripensare la matrice delle intimidazioni violente subite dal giornalista siciliano nel 2014, quando i suoi due cani vennero prima avvelenati e poi impiccati dalla mafia. Per un istante, un solo istante di spaesamento, a molti di noi si è gelato il sangue. Ma si è trattato di un istante e nulla più. Perché in fin dei conti hanno ragione a Telejato quando dicono che se lo aspettavano. Perché la mafia ha smesso di essere solo quella dei Messina Denaro e dei Riina. La mafia ha smesso di fare patti con lo Stato. La mafia si è fatta Stato attraverso la corruzione e l’insediamento nei poteri forti. E quei poteri forti non vogliono essere toccati, perché se li tocchi ti fanno male, molto male ma senza colpo ferire. Pino Maniaci a quei poteri forti ha dato fastidio, e tanto. Lui e la sua redazione da anni si battono per portare alla luce non solo i traffici della mafia “ufficiale” ma anche i movimenti occulti di quell’antimafia intrisa di cultura mafiosa che solo di recente è finalmente venuta alla luce, permettendo di mandare a casa la ormai ex Presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, finita sotto inchiesta insieme a tre magistrati e ad una serie di amministratori giudiziari per aver messo su un sistema fatto di favori, di clientelismo e di enormi quanto loschi guadagni sui beni confiscati alla mafia. È la stessa Saguto che, intercettata al telefono con l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo (indagata a sua volta per concussione) riferendosi a Telejato parla di “ore contate”. “Mi sembra che la storia sia chiarissima: l’avvocato Cappellano Seminara mi ha denunciato per stalking solo per fare in modo che io venissi intercettato: ma basta andare a vedere i servizi del mio telegiornale per capire che i sindaci in questione vengono attaccati almeno una volta al giorno. Senza contare che il presidente del consiglio comunale di Borgetto mi ha persino querelato di recente”, dichiara Maniaci, assistito dagli avvocati Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino. Finora nessun avviso di garanzia a carico del giornalista siciliano (peraltro, come già sottolineato dallo stesso Ingroia, grave violazione del segreto d’ufficio, qualora l’inchiesta esistesse realmente) solo indiscrezioni di stampa che continuano a montare nel silenzio assoluto della Procura di Palermo. Maniaci si dichiara pronto a chiarire ogni dettaglio, qualora questa inchiesta passasse dell’essere presunta all’essere reale. Certo è che, in un Paese in cui gli avvisi di garanzia, i rinvii a giudizio e persino le condanne a carico dei politici e dei potenti passano sempre in secondo piano o si gonfiano in polemiche mordi e fuggi, fa sorridere (o forse fa piangere) il polverone sorretto da presunti e da condizionali. Quello che sta montando nei confronti di Pino Maniaci ha il sapore esatto delle macchinazioni a cui la mafia, nel senso più ampio ed onnicomprensivo del termine, ci ha abituati da sempre. Infangare, affossare, calunniare. Delegittimare, insinuare il dubbio su tutto, persino sulla violenza subita. Come quei tanti giornalisti morti di mafia su cui ancora aleggia il sospetto del delitto passionale. A Maniaci i cani li hanno ammazzati per motivi personali, questa sarebbe la nuova versione dei fatti. E forse tanto basterebbe per far riflettere. E poi quella denuncia per stalking, perché per stalking? Cappellano Seminara avrebbe, forse, potuto tentare la denuncia per diffamazione ma sceglie lo stalking. Perché, si sa, non serve che il reato sia realmente accaduto, basta qualche stralcio di intercettazione qua e là, o forse neanche quello, per gettare un’ombra indelebile su alcuni personaggi. Lo scandalo è montato, e forse cadrà nell’ombra una volta raggiunto il suo apice, cadrà nell’ombra prima che arrivi la versione ufficiale, prima che la Procura faccia chiarezza su questa indagine fantasma. Pino Maniaci resta in attesa che questo silenzio venga dissipato. Altrettanto sarebbe opportuno che facesse l’intera comunità, perché non si giudichi, ancora una volta, sospinti solo da quel famoso venticello dell’infamia.

"Caso Saguto, che fine ha fatto?". L'e-mail e la ferita aperta, scrive Riccardo Lo Verso il 28 aprile 2016 su "Live Sicilia". Va bene il convegno. Va bene il confronto “meritorio” sul tema della disabilità, ma l'indagine sulla Saguto che fine ha fatto? A rivolgere la domanda al procuratore aggiunto di Caltanissetta, Lia Sava, è un magistrato di Palermo. “Cara Lia...”, comincia così la lettera che Maria Patrizia Spina, presidente della quinta sezione della Corte d'appello, ha girato a una mailing list di colleghi. Una sezione, la sua, particolarmente attenta all'argomento visto che tratta, nel secondo grado di giudizio, le decisioni che un tempo venivano prese dal collegio presieduto da Silvana Saguto, oggi sospesa dal Csm. Un collegio azzerato dall'inchiesta dei pm di Caltanissetta, coordinati proprio dalla Sava che, oltre a fare l'aggiunto, oggi è anche il capo pro tempore dei pm nisseni in attesa della nomina del nuovo procuratore. La Sava è promotrice di un convegno in programma fra qualche giorno a Palermo. Ecco perché è a lei che la Spina chiede se sia “opportuno” organizzare un convegno a Palermo “mentre si attendono gli esiti sul caso Saguto”. Caso che, in un passaggio della lettera, viene definito “sistema” e per il quale tutti “ci aspettavamo gli esiti dell'indagine”. La Spina mette per iscritto un'esigenza diffusa tra i magistrati palermitani. Quando scoppiò lo scandalo si disse che in gioco c'era la credibilità dell'intero distretto giudiziario palermitano. Non restava che aspettare che venisse fatta chiarezza nel più breve tempo possibile. Il punto è che bisogna fare i conti con i tempi delle indagini e con quelli che servono ai giudici per tirare le somme. Il fattaccio beni confiscati venne a galla nel settembre 2015, quando i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria fecero irruzione nella stanza della Saguto, al piano terra del nuovo Palazzo di giustizia. Si scoprì che c'erano le cimici nel suo ufficio. L'indagine era partita qualche mese prima, quando i pm di Palermo si accorsero che c'erano finiti dentro alcuni magistrati e trasferirono il fascicolo a Caltanissetta per competenza. La conferma dei tempi dell'inchiesta si è avuta fra dicembre e gennaio quando gli indagati - dalla Saguto all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dal giudice Tommaso Virga al figlio Walter, all'ex prefetto Francesca Cannizzo - ricevettero l'avviso di proroga delle indagini. I termini scadono fra giugno e luglio prossimi, ma se i pm non avranno finito di analizzare le informative dei finanzieri in teoria avrebbero l'opportunità di chiedere una nuova e ultima proroga di ulteriori sei mesi. E torniamo al tema sollevato dal giudice Spina nella sua e-mail. I magistrati, ma non solo loro, aspettano “gli esiti delle indagini”. Aspettano di conoscere il contenuto completo di quel quadro che, a giudicare da quanto finora emerso, sarebbe connotato da favori, soldi e forse anche mazzette. Tra i reati ipotizzati, infatti, c'è pure la corruzione. Il punto è che i bene informati continuano a ripetere che quanto finora trapelato è poca roba rispetto al materiale raccolto. Si vedrà. Intanto l'attesa pesa. Innanzitutto ai magistrati stessi. L'e-mail del giudice sta facendo parecchio discutere nelle stanze del Palazzo. Non sappiamo se altri colleghi abbiano contributo al dibattito on line, oppure se abbiano scelto la strada del silenzio. Il silenzio che ha caratterizzato la polemica sollevata, sempre via e-mail, dal pm Antonino Di Matteo sulla presenza del professore Giovanni Fiandaca a un evento formativo della Scuola superiore della magistratura. Invitare il "nemico" del processo sulla Trattativa Stato-mafia a "fare lezione" ai magistrati palermitani: è opportuno?, si è chiesto di Di Matteo. Fiandaca ha risposto a muso duro: "Da lui censura fascista". Nessuna risposta dai colleghi a cui il pm ha girato il messaggio di posta elettronica.

Il mare magnum del caso Saguto. Obiettivo: "Blindare" le prove, scrive Riccardo Lo Verso il 29 aprile 206 su "Live Sicilia”. Un numero maggiore di indagati di quanti finora emersi, decine di amministrazioni giudiziarie setacciate, tonnellate di carte da spulciare, un elenco sterminato di favori, o presunti tali, e assunzioni. Ed ancora: nomine, consulenze e soprattutto passaggi di denaro. Benvenuti nel mare magnum dell'inchiesta sui beni confiscati alla mafia. “Che fine ha fatto il caso Saguto?”, si chiede, come ha raccontato Livesicilia, un giudice della Corte d'appello di Palermo. Risposta complicata perché complesse sono le indagini che la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha delegato ai finanzieri della Polizia tributaria di Palermo. Considerata la mole di lavoro, a dire il vero, gli undici mesi finora trascorsi sembrano persino pochi per potere già tirare le somme. Eppure almeno una parte delle indagini sembra destinata ad arrivare alla conclusione prima dei caldi mesi estivi, quando scadrà la proroga di sei mesi iniziata fra dicembre e gennaio scorsi. Di proroga i pm nisseni, coordinati dall'aggiunto Lia Sava, potrebbero sfruttarne un'altra, sempre di 180 giorni. Il punto è che si è partiti da un caso singolo - la gestione della concessionaria Nuova Sport Car sequestrata ai Rappa e affidata dal giudice Silvana Saguto al giovane avvocato Walter Virga, figlio di un altro giudice, Tommaso - e si è scoperto un fenomeno. Un sistema, come viene definito, dove la gestione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sarebbe stata piegata ad interessi personali fino a ipotizzare reati pesantissimi come la corruzione e l'autoriciclaggio. Il caso è esploso nella sua drammatica evidenza una mattina di settembre con i finanzieri che piombano nella stanza della Saguto e nella cancelleria del Tribunale. Tutti, gli indagati per primi, a quel punto sanno di essere finiti sotto inchiesta, anche se dalle intercettazioni sembrava che lo avessero già intuito da un po'. Nell'ufficio dell'ex presidente, infatti, c'erano le cimici. Perché svelarne l'esistenza e spegnere la microspia nella stanza dei bottini? Perché, evidentemente, era giunto il momento di scoprire le carte forse per stoppare qualcosa, oppure perché gli investigatori avevano ascoltato già ciò che serviva. Che deve essere molto di più di quanto finora trapelato. Le intercettazioni finora conosciute ci hanno svelato un sistema di nomine clientelari, favori, piccoli e grandi - cassette di frutta e laurea del figlio della Saguto inclusa -, ma non è tutto. Da approfondire, secondo i pm, è il corposo capitolo del presunto patto corruttivo fra Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara che avrebbe ottenuto la gestione di grossi patrimoni in cambio di consulenze per il marito del'ex presidente, l'ingegnere Lorenzo Caramma, pure lui sotto inchiesta. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati a Caramma dal 2005 al 2014, in un arco temporale che è iniziato quando la Saguto era membro del collegio delle Misure di prevenzione ed è proseguito quando dello stesso collegio il magistrato è divenuto presidente nel 2010. C'è un dato certo perché scolpito nei nastri delle intercettazioni. La famiglia della Saguto aveva un tenore di vita altissimo, che ad un certo punto divenne insostenibile. Il magistrato diceva a Elio, uno dei suoi tre figli: "Dobbiamo parlare, perché la situazione nostra economica è arrivata al limite totale, non è possibile più... voi non potete farmi spendere 12,13,14 mila euro al mese noi non li abbiamo questi introiti perché siamo indebitati persi". In realtà, dall'analisi della carta di credito del magistrato, si è scoperto che di soldi ne arrivavano a spendere in un mese fino a 18 mila euro. Per rimediare, secondo la Procura nissena, l'ex presidente avrebbe ottenuto soldi in contanti da Cappellano Seminara. E qui si innesta un altro passaggio delicato. L'ipotesi, smentita dai presunti protagonisti, è che una sera di giugno l'amministratore giudiziario possa avere portato ventimila euro in un trolley a casa Saguto. Nelle intercettazioni si parlava di “documenti”. Altra domanda: perché non bloccare Cappellano con la prova regina? Possibile risposta: perché a fini investigativi la prova, o presunta tale, poteva essere meglio cristallizzata seguendo i successivi passaggi del denaro. "Non è emersa alcuna traccia di scambi di denaro tra la mia assistita e gli amministratori giudiziari, e gli accertamenti bancari lo confermano - disse l'avvocato della Saguto, Giulia Bongiorno - le accuse sono palesemente sbagliate". In altre conversazioni fra l'ex presidente e il padre si parla di mazzettine di denaro. Non sarebbero solo i soldi in contanti, però, che i finanzieri hanno cercato per riscontrare le parole intercettate. Parole da cui emergerebbe la convinzione di potere godere dell'impunità. Una sicurezza che avrebbe spinto i protagonisti a commettere degli errori e a lasciarne traccia? Lo scopriremo e forse non si dovrà neppure attendere molto tempo ancora. Il lavoro degli inquirenti impegnati a "blindare" ciò che sarebbe già stato acquisito sembra muoversi su più livelli. C'è quello più alto dove compaiono i nomi della Saguto, di Cappellano, dei Virga e di qualche altro rappresentante delle istituzioni come l'ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo. La sola Saguto è stata sospesa, tutti gli altri trasferiti. E poi, a cascata, ci sono i livelli più bassi che arriverebbero fino ai “raccomandati” per un post di lavoro o per una consulenza. L'inchiesta potrebbe procedere per step.

Amministrazioni giudiziarie e curatele fallimentari: “U mancia mancia”, scrive il 19 aprile 2016 Salvo Vitale su Telejato. Sono state dissequestrate alcune aziende che erano finite sotto le grinfie della dott.ssa Saguto senza sufficienti motivazioni, ma solo perché alcuni protagonisti del cerchio magico, in particolare i cosiddetti “quotini”, avevano pensato di sistemarsi a vita spolpandone le risorse. Il caso del capo dei “quotini”, Cappellano Seminara è uno dei più sconvolgenti e ancora oggi aspetta di essere esplorato in tutte le sue “malefatte”. Man mano che i nuovi amministratori giudiziari, nominati per effettuare le consegne scavano per cercare di capire dove sono finiti i soldi, si configurano casi di falso in bilancio, casi di fornitori non pagati che reclamano i loro soldi, addirittura di vasche da bagno strappate dal loro posto e messe in vendita di nascosto o portate in altra struttura. Milioni di debiti che sicuramente non saranno pagati da chi ha combinato questi dissesti, ma che, come al solito graveranno sulle spalle dei proprietari cui è stato riconsegnato il bene sotto sequestro. Sono stati cambiati alcuni amministratori giudiziari, ma in qualche caso, come per i beni dei Virga, dove Rizzo è stato sostituito con Privitera, tutto è rimasto come prima, anzi peggio di prima, perché Privitera viene da Catania una volta la settimana, riceve solo chi decide lui e non vuole prendere alcuna decisione se non con l’autorizzazione di Montalbano. Addirittura a una ragazza ha fatto firmare una ricevuta di un acconto datole per il suo lavoro di cento euro, cioè l’elemosina e a qualche altra lavoratrice che reclamava un minimo di acconto e che aveva ritirato dalla scuola la figlia, perché non poteva darle nemmeno i soldi per il panino, ha detto che ci vuole sempre l’autorizzazione di Montalbano per avere un sussidio. Insomma, storie di ordinaria miseria all’ombra dell’antimafia. Ma se in questo settore si aprono spiragli, altre porte sembrano chiudersi: si presentano in redazione lavoratori disponibili e pronti a prendere in mano aziende sotto sequestro e destinate al fallimento, ma Montalbano li indirizza agli amministratori giudiziari, i quali dicono che “ci pensano loro” e che non hanno bisogno di aiuto. Spiragli di lavoro che potrebbero funzionare, ma ai quali viene chiusa ogni possibilità prima di cominciare. Ben più serrata e impenetrabile è la situazione degli uffici che si occupano di fallimenti e di curatele giudiziarie. Qua diversi avvocati, nominati, non si sa se frettolosamente o in modo complice dal tribunale, sono stati capaci di costruire le proprie ricchezze acquistando o facendo acquistare da prestanomi i beni messi in vendita, anzi svenduti in un particolare momento in cui all’asta si presentava solo chi era stato deciso che doveva acquistare. Beni immobili di milioni di euro venivano e vengono aggiudicati per pochi spiccioli e, se in qualche occasione il proprietario ha deciso di ricomprare ciò che era suo, allora il prezzo sale. Una vera e propria casta della piccola e media borghesia palermitana si è proposta e agisce come classe dominante, non facendosi scrupoli anche di amministrare e gestire le risorse di Cosa Nostra. L’arresto di alcuni professionisti fatto anche recentemente, è un semplice indizio di quanto serpeggia in modo sotterraneo. Quella che il grande Mario Mineo e poi Umberto Santino e altri chiamano “borghesia mafiosa”, è in grado persino di spremere soldi a Cosa Nostra, dal momento che i mafiosi fanno collette tra i loro amici per pagare gli avvocati dei loro parenti in carcere. Ma le nostre sono solo parole e considerazioni tratte da quanto sono venute dichiararci le persone danneggiate da queste trappole. Sicuramente sotto c’è ben altro che forse non sapremo mai, c’è un verminaio altrettanto grave di quello dei sequestri giudiziari e di cui qualche spiraglio speriamo che si apra con il nuovo presidente della sezione Fabio Marino.

Il Paladino, la mafia, le corna, scrive Vincenzo Marannano il 4 maggio 2016 su “Di Palermo”. L'indagine su Pino Maniaci, la mafia spacciata per una trita storia di amanti e di vendette e quella verità, se di verità si tratta, che arriva sempre tardi. Troppo tardi. La prima vittima eccellente, in questa ennesima storia nebulosa, è sicuramente la verità. Azzoppata intanto da mesi di indiscrezioni, colpita duramente da chi ha accreditato – con premi, patenti di legalità e attestati di stima – qualcuno che a quanto pare non era poi così accreditabile, e trafitta infine da indagini troppo lunghe. Perché – se confermata la ricostruzione degli investigatori – due anni per dirci che a bruciare un’auto non era stata la mafia ma un marito geloso forse sono un po’ troppi. E perché consentire per mesi a carovane di associazioni e rappresentanti delle istituzioni di sfilare quasi in pellegrinaggio verso la sede di una televisione che (sempre se le prove supereranno l’esame del processo) invece estorceva denaro in cambio di una linea più morbida, fa male anche e soprattutto alle credibilità delle istituzioni e alla parte sana del movimento antimafia. La verità in Italia purtroppo viaggia spesso a due velocità. Il tribunale dell’opinione pubblica, basato solitamente su semplici indiscrezioni, è molto più rapido di quello della giustizia. E un cittadino tante volte finisce per essere condannato anni prima di vedere conclusa, in un modo o nell’altro, la sua vicenda processuale. I tempi della giustizia sono lunghi. Le prove o gli indizi impiegano ancora troppo per diventare informative degli investigatori prima, richieste della Procura dopo e, infine, ordinanze dei gip. Così ci ritroviamo con reati compiuti a partire dal 2012 che, se va bene, approderanno in un’aula di tribunale dopo cinque anni. Con tutti i limiti e i problemi che questo comporta. Sia per chi i reati li commette, ma anche per chi deve discolparsi di qualcosa che non ha mai fatto. C’è poi un altro aspetto che non va sottovalutato. Nell’era di internet e dei social network – e dei pulpiti offerti a chiunque grazie a strumenti come Twitter o Facebook – qualsiasi notizia lascia ormai una traccia quasi indelebile, nel bene e nel male. Se un’inchiesta impiega cinque o vent’anni per arrivare a sentenza, fino a quel momento l’unica verità, parziale, sarà quella emersa dalle indagini o dalle indiscrezioni. A questo aggiungiamo che ogni giorno plotoni di internauti si svegliano, leggono il tema del momento e si improvvisano arbitri, giudici, allenatori, investigatori, opinionisti. E che, purtroppo, le chiacchiere da bar non si disperdono più tra un bicchiere e l’altro ma restano impresse e spesso diventano verità a uso e consumo di chi non è in grado di selezionare e capire cosa è informazione e cosa, invece, è solo opinione. O “curtiglio”. Questa leggerezza porta a condannare semplici indagati o ad esaltare modelli impresentabili. E in questa continua improvvisazione si finisce col rovinare carriere o (chissà cosa è peggio) col costruire o inventare di sana pianta eroi, paladini o semplici “bolle” che quando si sgonfiano o esplodono danneggiano tutto l’ambiente in cui hanno proliferato. La storia di Pino Maniaci non fa differenza. Autoproclamatosi paladino dell’antimafia, in questi anni è stato celebrato da un capo all’altro del Paese (e perfino all’estero) grazie anche alla ribalta concessa da televisioni nazionali abituate a fare informazione semplicemente mettendo un microfono davanti alla faccia dell’intervistato. Senza scavare o chiedere conferme. Perché a molti è bastato sentire dalla sua viva voce che la mafia aveva bruciato la sua auto per costruire una verità che invece spettava a qualcun altro accertare. Perché in un momento storico in cui comandano l’audience e i like su Facebook, è sicuramente più popolare una storia di ribellione a Cosa nostra che la solita trita e ritrita questione di corna. Perché c’è sempre qualcuno, prima degli investigatori, pronto a dire che è stata la mafia a bruciare quella macchina o a piazzare quella finta bomba. Perché – spesso anche nella categoria dei giornalisti – bisogna arrivare sempre primi (per vincere cosa?), dare una notizia in più anche se non verificata o (peggio) sostituirsi agli investigatori nelle analisi o ai giudici nelle sentenze. A scapito di una verità che, come un frutto rarissimo, purtroppo ha ancora tempi troppo lunghi per maturare.

Per l'avv. Antonio Ingroia “il corpo del reato è un video che è stato montato dai Carabinieri (c’è la firma, perché c’è lo stemma dei Carabinieri), ed è stato distribuito inserendo intercettazioni e atti giudiziari che noi ancora non conosciamo se non attraverso quel video, perché non fanno parte degli atti trasmessi al giudice e comunque non fanno parte dell’ordinanza cautelare, trattandosi di fatti penalmente irrilevanti, ma servivano soltanto a distruggere l’immagine di Pino Maniaci. Perché dentro queste indagini ci sono rancori e vendette di amministratori locali, che hanno avuto la grande occasione di liberarsi della voce libera di Telejato e di Pino Maniaci. Ma c’è stata anche un’operazione che era attesa… L’operazione era attesa, com’è noto dalle intercettazioni della Procura di Caltanissetta, sui magistrati e gli amministratori giudiziari indagati per gravissimi reati, per i quali, invece, al contrario di Pino Maniaci, sono a piede libero. La verità vera è che si voleva macchiare Pino Maniaci, e si è macchiato, per due o tre piccole presunte piccole estorsioni (parliamo di centinaia di euro) a fronte di magistrati, avvocati, professionisti e amministratori giudiziari che sono imputati per centinaia di milioni di euro, che sono stati sottratti allo Stato, e sono oggi a piede libero, e altro non aspettavano in questi mesi, che approdasse a destinazione questa indagine. E’ grave e inquietante e noi faremo denuncia di questo, per il fatto che questi, magistrati, prefetti e avvocati sapessero che c’era questa inchiesta che bolliva in pentola e gradivano che arrivasse in porto. Per questo presenteremo denuncia”.

Ingroia diventa garantista per incassare una parcella. L'ex pm è l'avvocato del direttore di "Telejato" Maniaci, icona antimafia accusata di estorsione. Ora scopre che la sua vecchia Procura fa "indagini mediatiche". E denuncia pure i carabinieri, scrive Paolo Bracalini, Sabato 07/05/2016, su "Il Giornale". Da pm d'assalto a paladino degli imputati, la rivoluzione (personale, più che civile) di Antonio Ingroia è compiuta. Si fatica a riconoscere nell'ex pasdaran della Procura di Palermo pronto a mettere sotto accusa anche il Quirinale, l'autore di esternazioni tipo «questo provvedimento (della sua ex Procura, ndr) è sproporzionato», «c'è un accanimento accusatorio», «Pino Maniaci è stato crocifisso mediaticamente», «è grave e inquietante che i magistrati sapessero prima dell'inchiesta», «siamo di fronte a gossip, ad un processo mediatico alla vita privata», e poi indignarsi perché i pm avrebbero fatto «il copia incolla delle informative dei carabinieri», infilando nell'ordinanza anche «chiacchiere senza alcuna rilevanza penale», utili solo a «sporcare l'immagine» delle persone. Dopo la carriera da pm finita con un duello (perso) col Csm e l'addio alla toga, e poi la brevissima carriera da leader politico finita con il disastro elettorale, l'incarico ricevuto da Crocetta in una partecipata regionale siciliana andato a schifìo pure quello, Ingroia è tornato in pista come avvocato. Ma nemmeno in questo campo mancano incidenti e scivoloni per 'U comunista immuruteddu (il gobbetto comunista), soprannome affettuoso che gli diede Borsellino ai tempi in cui Ingroia era il suo vice a Marsala. Tra i suoi primi assistiti, dopo aver detto che «per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti», l'ex pm si è scelto Augusto La Torre, già boss della camorra di Mondragone (spiegando che «si può condurre una battaglia antimafia anche difendendo un pentito»). E adesso è proprio lui, l'avvocato Ingroia, a difendere il direttore di Telejato, Pino Maniaci, già simbolo dell'informazione antimafia, accusato dai giudici di Palermo di aver usato la sua posizione per estorcere denaro a politici. Ingroia ha un debole per i paladini dell'antimafia, ma non sempre ci prende, anzi. Nei lunghi mesi del processo sulla presunta «trattativa Stato-mafia», sua ultima ossessione giudiziaria, Ingroia è arrivato a riconoscere «quasi un'icona dell'Antimafia» in Ciancimino jr, rivelatosi poi un testimone tutt'altro che affidabile (condannato per calunnia), dopo essere stato elevato però (anche grazie ai talk show dei giornalisti amici di Ingroia) a fonte di verità suprema sulle malefatte della politica collusa coi clan, quasi sempre di centrodestra. Ma adesso che il segugio delle trame occulte e dei segreti inconfessabili della Repubblica è passato dall'altra parte della barricata, ha sposato con lo stesso impeto il garantismo. Nel difendere Maniaci, l'ex pm minaccia sfracelli. Accusa la Procura di Palermo di «inseguire il gossip» e di aver costruito un'indagine sul nulla, minaccia la Procura di Caltanissetta («Non possiamo non denunciarne l'anomalia...), vuol portare in tribunale pure i carabinieri, «per avere distribuito lo spot promozionale dell'accusa, un video fatto intenzionalmente per distruggere Maniaci, inserendo la faccende dei cani e di Matteo Renzi (a cui Maniaci dà dello str..., ndr), faccende che non avevano alcuna rilevanza penale. La Procura ha il dovere di chiedere formalmente all'Arma chi ha predisposto questo video e poi chi lo ha distribuito». Ma non denuncia mica solo i carabinieri, mezza Sicilia: «Faremo anche una denuncia al sindaco di Borgetto e del suo addetto stampa, e denunceremo per calunnia alcune delle persone che hanno agito per motivi di rancore contro il nostro cliente». Anche qui Ingroia intravede una trattativa nascosta: «Si voleva marchiare Pino Maniaci per due o tre presunte piccole estorsioni», che invece per il suo legale corrispondono alla riscossione di diritti pubblicitari. Maniaci è stato interrogato dal gip, a cui ha esposto la sua linea: «Mi hanno buttato addosso merda perché qualcuno vuole fermarmi». Per un complotto, non c'era migliore avvocato di Ingroia. Sempre che abbia più fortuna come legale che non come pm o leader di partito.

Il mio amico Maniaci. Masaniello, Pancho Villa, il contadino o il brigante che dopo anni di ribellione viene infine scoperto dai nobili, dalla corte, scrive Riccardo Orioles il 05/05/2016 su “I Siciliani”. “Ha visto com’è spontaneo, don Alonzo? Mangia colle mani! Es un hombre del pueblo, poco da fare…”. “È un campesino, si vede. Un liberal campesino. Però potrebbe anche farsi la barba ogni giorno”. “Ed ecco a voi… Pino Maniaci! Il coraggioso giornalista di…”. “Di Partinico”. “Ecco, di Partinico! Nel cuore della Sicilia maffiosa! Ci dica, Maniaci, lei ha paura quando affronta la mafia?”. E Maniaci – e Pancho Villa, e Masaniello – risponde, come tutti si aspettano, con una parola volgare. “Eh eh – sorride il presentatùr – Pane al pane, eh? Scusate, amici telespettatori, ma stiamo parlando con un protagonista della lotta alla maffia… Uno che non bada certo a parlare da intellettuale…”. Altra malaparola di Masaniello (o di Pancho Villa, o di Maniaci), altro sorriso complice del presentatore. E lo spettacolo va avanti. Francisco Arango Arambula di San Juan del Rio in realtà era uno dei migliori generali del Ejercito Republicano. Aveva cominciato con quattro compagni, poi dieci, poi cinquanta. Abilissimo tattico, uno dopo l’altro aveva sfasciato i battaglioni del dittatore, lassù nel Norte. E ora eccolo qua, nel Palazzo Presidencial, imbarazzato e felice, lisciandosi i baffoni e cercando di rispondere alle domande dei capi liberales con l’occhialino. (E anche Gennaro Aniello, come sindacalista e politico, non era poi tanto male. L’unico, in tutta Napoli, a capire che la gabella sul pesce era la chiave di tutto, che là si doveva insistere, coprendosi con “Viva el Rey” ma senza mollare un momento). Pino Maniaci è uno dei migliori cronisti che ho conosciuto, e ne ho conosciuti un bel po’. “Dilettante” all’inizio, ma rapidamente cresciuto, e all’antica, in questo mestiere. Uno che è in giro all’alba, per colline e campagne, per prendere i particolari, non solo le grandi linee, dell’ultimo omicidio o di una cronachetta qualunque. E buona capacità, anche, di coordinare un’inchiesta grossa, di mettere insieme dati, di trarne conclusioni razionali (la dottoressa Saguto ne sa qualcosa). E ora eccolo qui, insieme a los generales e ai marchesi, coccolato e schernito (ma elegantemente): “Don Pancho!”, “Excellencia!”, “Gran Maniaci!”. Finché un bel giorno – come Tomaso Aniello, come Francisco – è scasato di testa. Come la nobiltà, del resto, pazientemente aspettava. È una storia di poveri. Decine o centinaia di euri, banconote e monete, raccolte senza osar crederci, impaurito e spavaldo. “Hai finito di stentare”, dice alla donna. Potrà lavare i pavimenti trecento euri al mese, una ricchezza. “Hai visto? Fanno quello che voglio! Comando io!”. È un nobile pure lui adesso, uno che può afferrare le cose, può comandare. Così fanno i signori, i ricchi della città, i generali, gli avvocati. E così, se dio vuole, faremo pure noialtri, d’ora in avanti. Ce lo siamo meritato. Inizia la breve ricchezza, la povera ricchezza, soldini di rame e di tolla (ma ai poveri pare oro sonante) del campesino Francisco, del pescatore Masaniello. “Comando io!”. E i nobili, con pazienza, aspettano allegramente il passo falso. “Avete visto? – si preparano a dire – Don Montante, el senor Costanzo, il barone Lo Bello: v’incazzavate con loro, voi communisti, ma in fondo che cos’è mai successo? Chi vede quattrini se li piglia, e voi non siete meglio degli altri: guardate il vostro eroe, che cos’ha fatto!”. Cosi i milioni dei ricchi si confondono colle quattro monete dei poveracci: tutta roba rubata, tutta la stessa cosa. “Vi prego, voi velocisti, telegiornali, giornali vari, che mai avete fatto inchieste… Che fate servizi fiume sull’eroe antimafia decaduto, e ci godete. Noi siamo i ragazzi di Telejunior. In quelle stanze di Telejato ci abbiamo passato giornate intere. A impappinarsi nel registrare i servizi, a fare le rassegne stampa, a montare. In giro a fare domande, a Borgetto, a San Giuseppe Jato, al tribunale di Palermo. I vostri coltelli feriscono, fanno un male che nemmeno vi immaginate. Ma io devo fare scudo. Con gli occhi gonfi, la nausea che va e viene, il naso rosso paonazzo. Io devo fare scudo ai miei ragazzi, ai ragazzi di Telejunior. Io Michela, e Salvo e Arianna e Danilo, e Marco, Ivano, Eleonora, Pasquale e Giulia e tutti gli altri”. Un altro ragazzo, un militante, da Milano: “Da me su Maniaci non avrete parole, solo dolore”. Telejato deve continuare. Come la lotta contro la gabella a Napoli, come la tierra y liberdad dei contadini. Con Masaniello, con Pancho Villa, dopo Pancho Villa, dopo Masaniello. Perché siamo noi questa lotta, noi popolo, noi banda di disperati. Non un singolo capo, che prima o poi può crollare. Voi nobili, voi giornalisti importanti, guardate solo ai capi. Ma noi abbiamo vissuto un’altra storia, un’altra grande speranza e sofferenza. Noi siamo qui, noi non molliamo. Caro Pino, rimettiti dall’ubriacatura, ingollati ‘sto caffè e torna com’eri prima. In culo alla nobiltà e a tutto il gran giornalismo italiano: noi siamo viddani zappaterra, non baroneddi. Ce ne fottiamo di comandare, non c’interessa diventare come loro, vivere è ciò che ci piace. Ti aspetto e ti stringo la mano. (Fino a un minuto fa, altro che stretta di mano, volevo salutarti con un calcio nel sedere. Ma abbiamo cavalcato insieme, stracciati e miserabili ma orgogliosi. Gliene abbiamo date, ai signori. E torneremo a dargliene. Forza, un altro caffè, tutto d’un fiato. Ti aspetto). Collega Letizia, aspetto i suoi ordini. Lei è la mia nuova direttrice. Telejato continua, non c’è bisogno di dirlo. Mi spiace per lorsignori, ma si va avanti. Sono già al computer, mi dica cosa debbo fare. “Perché, la storia di Telejato, e di tutti noi ragazzi, non si può cancellare così. Siamo tutti stretti l’uno all’altro, e rimarremo in questo modo, qualunque sia il pensiero di ciascuno, qualunque emozione. Qualunque cosa accada. Uniti. Insieme”.

Il ruolo dei Carabinieri e della Procura nella vicenda di Pino Maniaci, scrive il 10 agosto 2016 Salvo Vitale su "Telejato". MAN MANO CHE IL TEMPO PASSA ED È FINITO LO STUPORE SUSCITATO NEL MOMENTO IN CUI È VENUTA FUORI LA NOTIZIA, I MARGINI DELLA VICENDA CHE HA INTERESSATO PINO MANIACI SI FANNO PIÙ CHIARI E, PER MOLTI VERSI, PIÙ INQUIETANTI. Tutto è iniziato nel 2013, quando “per caso”, nell’ambito di una serie di intercettazioni disposte per indagare eventuali collusioni tra i mafiosi e i politici di Borgetto, viene registrata una sospetta telefonata di Maniaci al Sindaco di Borgetto. Va detto che Maniaci si era occupato, attraverso la sua emittente, di strane commistioni che vedevano un consigliere comunale che aveva preoccupanti parentele mafiosi o, addirittura, rapporti di comparaggio con un esponente delle forze dell’ordine. Non si sa le intercettazioni abbiano preso il via, grazie alle denunce di Maniaci o se siano state decise da altri canali d’indagine. La telefonata di Maniaci consentiva l’apertura di un capitolo su di lui, dal momento che vi si raffiguravano le caratteristiche dell’estorsione. Maniaci avrebbe chiesto dei soldi al sindaco di Borgetto in cambio di un ammorbidimento della linea del suo telegiornale nei suoi confronti. Da allora non un respiro, non una parola è sfuggita all’orecchio vigile degli inquisitori, che hanno accumulato oltre 4 mila pagine di intercettazioni per cercare prove e provini che potessero costituire elementi d’accusa nei suoi confronti. Ben più di quanto non ne siano state raccolte sui nove mafiosi di Borgetto, che avevano rimesso in funzione una gigantesca macchina di estorsioni e taglieggiamenti tra Borgetto e Partinico. Contemporaneamente Telejato ha, in quel periodo, aperto una serie d’inchieste sull’operato della sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Palermo, in particolare sull’accoppiata Saguto-Cappellano Seminara e ha messo in onda una serie di interviste e di servizi di operatori economici e commerciali ai quali era stato sequestrato tutto, senza che penalmente ci fosse nessuna condanna e nessun capo d’imputazione. Una delle caratteristiche emerse dall’inchiesta è che al tribunale di Palermo tutti sapevano, ma nessuno era intervenuto né tantomeno aveva il coraggio di intervenire sulle distorsioni della giustizia che venivano consumate all’interno della citata sezione. Una convocazione, di Maniaci, da parte del tribunale di Caltanissetta, giudice Gozzo, si era conclusa con un’audizione di tre ore e con l’impegno di una nuova convocazione, cui non era seguito più nulla. Il controllo dei telefoni di Telejato consentiva agli intercettatori di ricostruire la rete di informazioni e le persone che venivano a raccontare le loro storie: i carabinieri sapevano benissimo delle visite dei Niceta, dei Giacalone, dei Virga, degli Impastato, degli operai della 6Digi di Grigoli, dei lavoratori dell’Hotel Ponte, di quelli dell’ex immobiliare Strasburgo, di Rizzacasa, di Lena, di Di Giovanni, di Ienna ecc. Dall’altro lato la Saguto sapeva benissimo che Telejato era sotto controllo e che in qualsiasi momento la procura avrebbe potuto intervenire per bloccarne le iniziative. “Quello lì è questione di ore…” diceva il prefetto Cannizzo alla Saguto, la quale poi si lamentava con la stessa per il ritardo della procura: “Se quelli lì si spicciassero…”, mentre scherzava con Cappellano sul “dover chiedere il permesso” a Telejato per prendere la decisione di un sequestro. Una corsa contro il tempo che è finita con l’apertura dell’indagine da Caltanissetta sulla Saguto e sui provvedimenti di sospensione o di trasferimento, del prefetto, dei giudici Licata e Chiaramonte e di Tommaso Virga e sul rinnovo dei magistrati di tutta la sezione. È sembrato poco opportuno, in quel momento, ai magistrati, coinvolgere Maniaci, perché la cosa avrebbe potuto avere il sapore di una ritorsione, così l’indagine è stata raffreddata e la miccia è stata accesa circa sette mesi dopo, come si dice in siciliano “’a squagghiata di l’acquazzina”, cioè quando si è sciolta la brina. CERCHIAMO DI RICOSTRUIRE, CON L’ABBUONO DELL’IMMAGINAZIONE, LA STRATEGIA DELLA PROCURA. Primo obiettivo, distruggere l’immagine del giornalista antimafia, e quindi nullificare il suo lavoro, per ribadire che l’antimafia, le indagini, le denunce non appartengono all’operato di un giornalista che si è allargato troppo, ma solo agli investigatori, alle istituzioni o agli organismi riconosciuti come soggetti istituzionalmente interlocutori. Non pare importante in ciò l’esistenza di reati penali o la presunzione d’innocenza: basta mettere insieme alcuni elementi di presunta colpevolezza e il lavoro di Telejato avrebbe dovuto crollare come un castello di carta. Mettere Maniaci assieme ai nove mafiosi di Borgetto, di cui egli stesso aveva denunciato da anni le malefatte è stato un colpo da maestri, perché si è creato di tutta l’erba un fascio e perché così si è dimostrato che tra le estorsioni dei mafiosi, per richiesta di protezione e le richieste di denaro di Maniaci non c’era nessuna differenza. Le prime garantivano protezione, da se stessi, quella di Maniaci garantiva un trattamento morbido dell’informazione sulla persona estorta. In tutto questo c’è un elemento che non quadra, che non ha il dovuto riscontro, ovvero che quel “trattamento morbido” non esiste, che non c’è alcuna trasmissione benevola nei confronti dei due sindaci di Borgetto e Partinico e che, nell’arrivare a questa affrettata conclusione, come ha detto uno dei giudici, Vittorio Teresi, “ci siamo fidati dei carabinieri”. Altra trovata: non essendoci ancora processo, bisognava pure studiare qualcosa per dimostrare all’opinione pubblica che un provvedimento era stato adottato, perché sotto c’era qualcosa di penalmente rilevante, e allora si è pensato di adottare la misura cautelare del divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Perché? Quale reato avrebbe potuto reiterare Maniaci, al punto da disporne l’allontanamento dalla sua televisione? Pare di capire che l’obiettivo non tanto occultato, è stato quello di togliere alla televisione il suo principale protagonista e provocarne la chiusura. Caduto l’elemento d’accusa, dal momento che i pochi euro “estorti” ai due sindaci riguardavano, da una parte il pagamento d’una pubblicità, dall’altra una sorta di contributo assistenziale “per comprare il latte” o qualche vestitino a una bambina malata, figlia di una donna sposata con un “malacarne” e additata a tutta Italia come la sua “amante”, si è disposta la revoca della misura, costata a Maniaci una ventina di giorni d’esilio, e si è trovato un altro escamotage per tornare a riproporne l’allontanamento: c’era un passaggio, nelle intercettazioni, tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e il già citato Polizzi in cui si parla della commissione, da parte di Maniaci, di un blocco di magliette che non sarebbero mai state pagate, così come non erano stati pagati tre mesi d’affitto per ospitare alcuni ragazzi di Telejunior. Polizzi ha negato tutto, ma è stato indagato per le discordanze tra l’intercettazione e la sua dichiarazione, mentre Davì, che aveva concesso a Maniaci l’uso provvisorio di uno stabile affittato come sede della Protezione civile, non è stato mai sentito. A questo punto il ricorso è finito in Cassazione, la quale, ad ottobre, dovrà pronunciarsi se reiterare l’allontanamento di Maniaci, dopo che egli è rientrato da parecchio tempo in sede e non ha reiterato alcun reato. Sono vicende che sfiorano il comico e l’incredibile, ma che svelano quanta acredine e quanta determinata voglia di “fottere” Maniaci, di colpirlo e di mettere a tacere la sua emittente, ci sia dietro. Il montaggio del video e la contestuale distribuzione delle registrazioni delle intercettazioni sembra uno dei capolavori usati per avere lo strumento principe nella demolizione dell’immagine di Maniaci. C’è tutto: il sindaco di Borgetto che gli conta i soldi in bella mostra, la sparata offensiva nei confronti della telefonata di Renzi, il disprezzo per una targa-premio che gli era stata conferita, gli apprezzamenti della presunta amante sulla capacità, anzi sulla “potenza” di Maniaci nel tenere in scacco gli amministratori di Partinico, il disprezzo per tutte le istituzioni, dai politici, alle forze dell’ordine, a magistrati, definite corrotte ed espressione del malaffare e infine l’accusa più infamante, quella di avere utilizzato l’uccisione dei due cani, di cui egli conosceva l’esecutore, non come un atto di gelosia di un marito cornuto, ma come un attentato mafioso nei confronti della sua attività giornalistica… Per quest’ultimo caso viene abilmente occultata la denuncia, presentata da Maniaci, con l’indicazione della persona da lui sospettata e non si fa alcun accenno al fatto che, non essendo stata questa persona indagata, interrogata o ritenuta responsabile, avrebbero potuto essere proprio i mafiosi borgettani con i quali egli è stato messo insieme nell’operazione Kelevra, ad aver compiuto il barbaro gesto. Una volta confezionata la polpetta avvelenata ci sono, ci siamo cascati tutti, senza renderci conto che dietro tutto non c’erano reati, ma elementi d’accusa deboli, ma erano evidenti altri elementi che riguardavano il senso della morale, nei confronti di una persona atteggiatasi a fustigatore dei costumi e a giudice delle immoralità altrui. Persino i più noti antimafiosi, come Lirio Abbate, che ha chiesto a “Reporters sans Frontieres” di cancellare il nome di Maniaci dall’elenco dei giornalisti a rischio, o Claudio Fava, che, sbagliando premio, ha dichiarato Maniaci indegno di potere ricevere il premio Mario Francese hanno condiviso quanto propinato dai magistrati. Un passaggio che occorre inserire nel quadro di questa indagine è la nomina a Palermo del Procuratore Lo Voi, inframezzata dai ricorsi dei colleghi Lari e Lo Forte e dalle supplenze del procuratore Facente Funzione Leonardo Agueci, indicato da Maniaci e da qualche altro giornalista, come cugino della titolare della distilleria di Antonina Bertolino, a Partinico, uno dei suoi principali bersagli. Lo Voi, la cui nomina è stata definita come una “nomina politica”, ovvero voluta direttamente da Renzi e da Alfano, si è insediato a Palermo nel 2015. Fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, la stessa di quella della Saguto e di Tommaso Virga. Egli ha affermato subito che l’indagine sulla Saguto è partita su segnalazione del tribunale di Palermo, da Caltanissetta si affrettano a dire, subito, che Maniaci non c’entra niente, certamente è lui ad affidare il caso “Maniaci”, più nove, a quattro magistrati, Teresi, Del Bene, Picozzi, Tartaglia e Luise, che si occupano di vicende di mafia e che con una dedizione più degna di altra causa, hanno usato i giornalisti che ruotano attorno alla procura come amplificatori di una strategia che sembra avere qualche tinta diffamatoria. La materia prima su cui muoversi è data da quanto è in mano alla caserma dei carabinieri di Partinico, la quale, per un verso non invia più le informazioni sulla propria attività a Telejato, per l’altro assicura ancora la tutela. La pubblicazione di pruriginose intercettazioni con la ragazza definita amante offre Maniaci in pasto alle possibili ritorsioni e all’eventuale rischio della vita, da parte di un soggetto che potrebbe ancora voler vendicare il proprio onore ferito. Una preoccupante sentenza di morte che avrebbe potuto essere evitata se chi ha diffuso intercettazioni che non avevano nulla di penalmente rilevabile, ma che riguardavano la vita privata, le avesse cancellate o omesse. È di questo che Maniaci accusa la Procura e i Carabinieri, in una sua denuncia. Altre cose sono in itinere, ma sembra profilarsi all’orizzonte una ben più preoccupante situazione, quella di una sorta di gioco di fioretto tra l’ex magistrato Antonio Ingroia, difensore di Maniaci, che conosce bene tutti i modi di muoversi e d’agire dei suoi ex colleghi, e quella di costoro, che forse ci tengono a dimostrare che sono più bravi di lui e che, in un modo o nell’altro troveranno come condannare Maniaci, almeno in primo appello, mentre continua all’infinito la strategia della graticola, quella su cui venne bruciato San Lorenzo, di cui oggi ricorre l’anniversario: cuocere a fuoco lento l’imputato, sino a demolirne progressivamente qualsiasi capacità di difesa. Cosa che potrebbe andare bene quando l’imputato è colpevole. Si può concludere che la motivazione strisciante di tutto quello che è successo sarà stata presa un po’ più in alto, da parte di qualcuno che ha ritenuto essere arrivato il tempo di chiudere un’emittente anomala che non sa stare in linea con il modo di agire delle altre emittenti. E cioè siamo sempre lì, nel conformismo dell’informazione, che ha relegato l’Italia agli ultimi posti per la libertà di stampa.

Sul rapporto tra i Carabinieri e Telejato, scrive il 6 agosto 2016 Salvo Vitale su Telejato. COM’ERA E COS’È CAMBIATO DOPO L’OPERAZIONE KELEVRA. Il video diffuso in tutta Italia su Pino Maniaci e i testi delle intercettazioni ripropongono il problema del ruolo che hanno avuto i carabinieri dietro tutta questa vicenda e lascia diversi interrogativi sulle motivazioni che stanno dietro le loro azioni. Va premesso che Telejato ha sempre avuto con i carabinieri uno stretto rapporto di collaborazione, che ne ha da sempre trasmesso i comunicati, anche quando questi riguardavano trascurabili vicende, tipo il sequestro di un grammo di marjuana e di 20 euro considerati come proventi della sua vendita. Ai carabinieri sono state dirottate alcune lettere anonime, ben dettagliate su nomi e affari loschi, ricevute a Telejato. Con i carabinieri, e in particolare con una figura “leggendaria”, come il capitano Cucchini, sono state portate avanti alcune attività che poi hanno condotto al sequestro dell’impianto della distilleria Bertolino, chiusa per quattro anni o all’arresto dei Fardazza e alla lotta per la demolizione delle stalle. Va detto che Cucchini aveva spostato l’allora Nucleo Operativo, che ancor oggi è composto dalle stesse persone e che scherzando abbiamo ribattezzato Nucleo aperitivo, a espletare servizi d’ufficio e si era servito di personale più giovane. Il principio da lui seguito era che dopo trent’anni, poco più poco meno, chi lavora in una caserma diventa sì un esperto del territorio e dei suoi problemi, ma può talmente affezionarsi al suo ruolo sino a mettere casa e famiglia e ad avviare contatti, richieste di lavoro per i propri familiari e conoscenze che potrebbero finire con il gettare un cono d’ombra sulla trasparenza dell’operato dal personale di cui parliamo. Non saremo noi a parlare di queste cose, in quanto, se ne hanno voglia, spetta a chi fa le indagini indagare, magari anche al proprio interno. Ottimo anche il rapporto con i carabinieri ai quali è stato affidato l’incarico di far la tutela a Maniaci. Il 2013 è un anno in cui cominciano le intercettazioni che riguardano Maniaci, ma è anche l’anno in cui vengono spediti alla caserma di Partinico il capitano De Chirico e il tenente Alimonda, i quali fra poco, ultimati i loro tre anni, saranno promossi e trasferiti. Di qualcuno di essi Telejato ha detto che a Partinico non ci volevano ragazzini di 22 anni usciti dal corso da poco, ma gente con le palle quadrate. Apriti cielo!!! A qualche altro che gli chiedeva come mai la gente si rivolge a Telejato e non ai carabinieri, Maniaci ha detto che la gente ritiene Telejato un’istituzione più seria di altre istituzioni. Anche qua apriti cielo. E tuttavia anche questo sembra troppo poco per motivare alcune azioni, come quella della diffusione del “gossip” ovvero di tutta una serie di telefonate personali tra Maniaci e la sua presunta amante, che non hanno alcuna rilevanza penale, ma tali da ingenerare nel di lei marito la volontà di arrivare all’eliminazione fisica della persona che aveva offeso il suo onore. E che tale sospetto sia, sino ad oggi, motivato, lo si può ricavare dalla fedina penale dell’interessato, che risulta, agli atti, essere tossicodipendente (è schedato al SERT come cocainomane), alcolizzato, spacciatore, individuo violento con sei denunce fatte dalla moglie per maltrattamenti vari, al punto che questa ha scelto la separazione. Ultimamente è stato beccato con otto grammi di cocaina e un coltello a serramanico ma rimesso a piede libero. Quindi è evidente, dopo la diffusione delle telefonate morbosamente registrate dai carabinieri di Partinico, che l’esposizione di Maniaci, ne comporta il rischio dell’eliminazione fisica. Inutile chiedersi se i carabinieri si sono posti il problema e come mai la loro “presa di distanze” è arrivata al punto che non vengono più fornite notizie e informazioni all’emittente Telejato, mentre, per contro, viene ancora effettuata la tutela. C’è qualcosa che non funziona.

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

I 100 EROI DELL’INFORMAZIONE SONO 99 – GIUSTIZIALISMO TRIONFERÀ. REPORTER SENZA FRONTIERE CONDANNA PINO MANIACI ALLA DAMNATIO MEMORIAE. Quanti sono i 100 eroi mondiali dell’informazione? Sembra una domanda simile a quella sul colore del cavallo bianco di Napoleone, ma è meno scontata di quanto appaia. Perché i “100 Information heroes” selezionati da Reporters sans frontières, la nota ong che si occupa di libertà di stampa, in realtà sono 99. Ne manca uno, tra l’altro uno dei due italiani originariamente presenti nella lista, il giornalista siciliano Pino Maniaci (l’altro è Lirio Abbate, che invece mantiene lo status di eroe). Maniaci era entrato nel club dei 100 giornalisti che nel mondo si erano distinti per aver svolto il loro lavoro in contesti pericolosi e per aver affermato il principio della libertà di stampa anche a rischio della propria incolumità. Reporter senza frontiere (Rsf) descriveva Giuseppe ‘Pino’ Maniaci come il coraggioso direttore di “una piccola stazione televisiva antimafia”, Telejato, che si occupa di “omicidi e racket, che sono una parte della vita quotidiana in Sicilia”. “È stato citato in giudizio centinaia di volte e ripetutamente minacciato e una volta è stato picchiato dal figlio di un boss mafioso”. Ora però sul sito Rsf la foto di Maniaci non c’è più, al suo posto c’è uno spazio vuoto, la sua scheda è stata eliminata: i 100 eroi sono diventati 99 e la ong che si batte per la libertà di stampa non spiega da nessuna parte perché. Cos’è successo? A maggio su tutti i giornali è scoppiato il “caso Maniaci”: il giornalista impegnato da anni nella lotta alla mafia e all’illegalità è indagato dalla procura di Palermo con l’accusa di estorsione, avrebbe ricevuto da alcuni sindaci poche centinaia di euro e favori in cambio di soldi. Pochi spiccioli, ma comunque un comportamento deprecabile. Dalle intercettazioni sono emersi altri aspetti poco piacevoli, come ad esempio la possibilità che alcune intimidazioni che avrebbe subìto – e per cui aveva ricevuto la solidarietà anche del premier Matteo Renzi – in realtà non sarebbero minacce mafiose ma vendette personali del marito della sua amante. Maniaci ne era consapevole, ma ha cavalcato l’ipotesi dell’intimidazione per aumentare il proprio prestigio di giornalista antimafia. In ogni caso questi aspetti più personali, per quanto censurabili, non vengono contestati dalla procura e rispetto alle accuse di estorsione il giornalista si difende dicendo che il passaggio di denaro si riferisce all’acquisto di spazi pubblicitari. L’indagine va avanti e, come si suol dire, la giustizia farà il suo corso. Rsf invece ha già emesso una sentenza di condanna, senza però pubblicare la sentenza. Perché Maniaci è stato rimosso dal sito? Ne è stato informato? Rsf ha pubblicato un comunicato ufficiale sulla vicenda? “Ci è capitato di apprendere che l’onestà di Giuseppe Maniaci è stata seriamente messa in discussione e che lo scorso maggio è stato incriminato”, ha risposto alla richiesta di spiegazioni del Foglio il chief editor di Rsf Gilles Wullus. “Fino a quando l’indagine non sarà fnita, abbiamo scelto di ritirarlo dalla nostra lista di ‘Eroi dell’informazione’”. La scelta sarebbe anche legittima, ma restano aperte alcune questioni gravi sul modo di operare della ong che stila classifiche sulla libertà d’informazione del mondo. La prima è un dettaglio, che però indica il livello di approfondimento che Rsf ha dedicato alla vicenda: Maniaci non è “incriminato”, ha solo ricevuto un avviso di garanzia e i pm non hanno ancora chiesto il rinvio a giudizio. L’altra è la totale assenza di trasparenza: mai Rsf ha comunicato che la posizione di Maniaci è sospesa e per quali motivi, né ha chiesto spiegazioni al giornalista, sia per avere gli elementi per una valutazione giusta sia per garantire il diritto di difesa. Rsf ha semplicemente sbanchettato Maniaci, come si faceva in Unione Sovietica con le foto dei compagni caduti in disgrazia dopo le purghe, come fanno ancora oggi tutti quei regimi autoritari e totalitari nemici della libertà di stampa. Al posto della sospensione e di un giudizio pubblico e trasparente, Rsf ha scelto la damnatio memoriae, la cancellazione di ogni traccia del sospetto, come se Maniaci non fosse mai stato uno dei 100 “Eroi dell’informazione”. Che Rsf e i suoi premi non sono una cosa seria l’aveva intuito lo stesso Maniaci che, mentre in pubblico era impettito per il premio simbolo del giornalismo impegnato, in un’intercettazione diceva: “M’hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi”. Non più dell’informazione, ma eroe della sincerità. Il Foglio Quotidiano – anno XXI numero 179 – pag. 2 – 30/07/2016 Autore: Luciano Capone

Il dito e la Luna. A proposito di Pino Maniaci di Telejato. L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Chi parla di Mafia e antimafia dice a sproposito la sua e non so cosa ne capisca del tema. Chi mi conosce sa che sono disponibile a dar lezione! Nel caso di Pino Maniaci ci troviamo a bella a posta a sputtanare qualcuno con notizie segretate con tanto di video e senza sentire la sua versione, così come io ho fatto. A prescindere dal caso specifico, Pino Maniaci da vero giornalista ha indicato sempre la luna e ora si sta a guardare questo cazzo di dito. Vi siete chiesti perché tutto è successo nel momento in cui è stata attaccata “Libera” ed i magistrati e tutta la carovana antimafia con i suoi carovanieri? In quel momento i paladini mediatici e scribacchini dell’antimafiosità ed i magistrati delatori (non è sempre un reato?) si son dati da fare a distruggere un mito, prima di una sentenza. I codardi, poi, che prima osannavano Pino, oggi lo rinnegano come Gesù Cristo. Comunque io sto con chi ha le palle, quindi con Pino Maniaci. Mi dispiace del fatto che a Palermo si vede la Mafia anche dove non c’è, giusto per sputtanare un popolo e fottersi i beni delle aziende sane. E di questo tutti tacciono. Se a Palermo si stanno dissequestrando i beni sequestrati dagli “Antimafiosi” è grazie a Pino. Pino colpevole, forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato, ma guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Storia di Pino Maniaci su Cnn: «Ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio», scrive il 26/12/2016 “La Sicilia”. La celebre rete televisiva americana dedica al direttore di Telejato, recentemente indagato per estorsione, un ampio servizio sulle sue pagine on line. "Pino Maniaci è stato uno dei pochi ad avere avuto il coraggio di denunciare la mafia in Sicilia". La Cnn dedica al direttore di Telejato un lungo servizio pubblicato sulle sue pagine on line, un servizio dove ricostruisce la vicenda di Maniaci finito sotto inchiesta a sua volta per estorsione ai danni di un amministratore locale. "He goes after the mob; now he’s the target", ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio, scrive il reporter Joel Labi, in una lunga inchiesta nella quale compare anche una intervista video intitolata "The Mafia Hunter", "Il Cacciatore di mafiosi". "Il reporter Pino Maniaci - scrive la Cnn - è stato una delle poche persone a denunciare pubblicamente la mafia in Sicilia". Maniaci, sottolinea l’influente emittente televisiva statunitense, "ha usato la sua piccola televisione fatta in casa per combattere il crimine organizzato" da allora "è diventato bersaglio a sua volta".

Parola anche ad Antonio Ingroia, legale di Maniaci: "non ho mai visto niente di simile nei miei vent'anni come magistrato e avvocato", afferma l’ex pm. "Si sta utilizzando un video (quello delle intercettazioni ambientali, ndr) per distruggere un uomo di televisione...". Non è la prima volta che la storia di Maniaci finisce sulla stampa internazionale. In passato anche The Guardian e l’Economist hanno dedicato spazio al direttore di Telejato.

Caso Maniaci, Ingroia: “Ci voleva la CNN per ricordare un processo surreale”, scrive "Telejato" il 26 dicembre 2016. “C’è voluta la CNN per ricordare che in Italia sta per cominciare un processo surreale come quello a carico di un giornalista coraggioso come Pino Maniaci. Pur avendo milioni di notizie da dare, la più grande tv del mondo ha deciso di raccontare con un lungo articolo sulla homepage del suo sito internet la storia di un’indagine basata sul nulla, costruita dalla Procura di Palermo su accuse infondate o su fatti per i quali Maniaci ha fornito ampia e puntuale spiegazione”. Così l’avvocato Antonio Ingroia, difensore con l’avvocato Bartolomeo Parrino di Pino Maniaci. “Dovrebbe far riflettere – aggiunge – com’è stato trattato il caso in Italia, dove la gran parte della stampa ha già processato e condannato mediaticamente Maniaci, con superficialità e approssimazione, dando per certa la tesi della Procura. Una dimostrazione di sconcertante conformismo, un conformismo confermato anche dalla reazione di alcuni organi di stampa nazionali, subito pronti a criticare la CNN con l’accusa di aver dimenticato di dare la notizia dell’uccisione dei cani di Maniaci e della reazione che Maniaci ebbe. Una circostanza non rilevante ai fini del processo e di cui comunque Maniaci ha ampiamente dato spiegazione nelle sedi opportune. Ma tant’è – conclude Ingroia – c’è chi ha già emesso la sua sentenza e non vuole sentirsi dire che forse si è sbagliato”.

Lettera aperta di Pino Maniaci ai colleghi giornalisti, scrive il 28 settembre 2016 "Telejato". «Cari colleghi, sin dal primo giorno in cui vi è stata data la notizia, il video e le intercettazioni delle vicende in cui la Procura di Palermo ha deciso di “impallinarmi”, assieme a nove mafiosi di Borgetto che con me non c’entravano niente, a nessuno di voi è venuto il minimo dubbio che ci fosse qualcosa che non quadrava. Conosco il vostro rapporto con i magistrati: sono loro che vi passano le notizie e il materiale per integrarle, quindi nessuno di voi oserebbe mettere in discussione l’operato di chi, alla tirata delle somme, offre gli elementi per mandare avanti il proprio lavoro, di chi vi fa campare. Tutti avete emesso, in partenza la sentenza di condanna, sia perché quello che dice la Procura non si discute, sia perché rispetto a voi io non sono un giornalista, non merito questa etichetta e, addirittura, diffamo la vostra categoria. Ad alcuni non è parso vero di potere dilatare la macchina del fango messa in moto nei miei confronti. Altri hanno sottilmente distinto l’aspetto penale, per la verità molto fragile, da quello “morale” o etico, arrivando alla conclusione che se i risvolti penali di ciò di cui ero accusato erano irrilevanti, dal punto di vista morale io ero condannato e condannabile perché le intercettazioni che abilmente erano state confezionate e vi erano state date in pasto, mettevano in evidenza una persona senza scrupoli e senza rispetto per i valori minimi della convivenza e della morale comune: come potevo io fare la predica agli altri, quando non avevo rispetto per le istituzioni, per la magistratura e la legalità da essa rappresentata, per i politici, per il Presidente della Repubblica e persino per la mia famiglia? Anche adesso che, dopo essere stato finalmente ascoltato, alcune cose sono state chiarite, molti di voi sono rimasti fermi alla prima devastante impressione che vi è stata offerta e che escludeva addirittura qualsiasi personale rivalsa da parte di quei settori del tribunale di cui avevo messo in luce la vergognosa gestione. Sono stati ignorati, da parte vostra, che pur li conoscevate bene, anni d’impegno, di denunce, di servizi a rischio, di documentazione di attività sociali, culturali, religiose. È stato ignorato il ruolo di una redazione in costante rinnovo, ignorata la presenza di scolaresche, associazioni, volontariato, sincera collaborazione, il tutto senza un minimo di risvolto o di vantaggio economico. Cosa aggiungere? Che nessuno di voi, diversamente da quanto posso io fare, ha la piena libertà di scrivere ed esprimere i propri giudizi, dal momento che questi si uniformano a quelli di chi vi paga o vi dà le informazioni? La libertà di stampa non è acqua fresca e lo si nota giornalmente dal modo in cui vengono confezionati giornali e telegiornali e dalla scarsa capacità di chi vede e ascolta, di maturare un proprio giudizio e di notare subito dove sta il trucco o lo stravolgimento della notizia. Che aggiungere? Il regime non è finito, anzi sta cercando di rafforzarsi sia con lo stravolgimento dei principi costituzionali su cui andremo a votare, sia con le minacce di coloro che da sempre hanno agito indisturbati, sia con gli avvertimenti mafiosi, sia con il reato di diffamazione a mezzo stampa, che non si ha nessuna voglia di cambiare per agevolare il nostro lavoro. La titolare della Distilleria Bertolino una volta lo disse con chiarezza: “Una volta c’era la pistola, adesso basta la denuncia”. Oppure un buon servizio giornalistico. Una volta che la pietra è stata buttata ritirarla diventa difficile, anzi impossibile.»

Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York.

Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e, distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me dà fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset. 

Allusioni, illazioni, mascariamenti. Ecco il partito della maldicenza, scrive Accursio Sabella sabato 1 aprile 2017 su "Live Sicilia". Il gioco è semplice. Basta dire, ma allo stesso tempo non dire. Alzare non il vento della polemica, ma la brezza della maldicenza. Diffondere il cattivo odore dell'illazione, dell'allusione. E ovviamente, è necessario non citare alcun fatto concreto, ma fermarsi alla superficie dello scandalicchio sotto la quale, spesso, non trovi nulla. Ma intanto, il gioco è fatto. Basta quello per lanciare un avvertimento, per avvisare l'avversario: qui si gioca sporco. Per intimidire e delegittimare, per allungare l'ombra del discredito con un solo fine: quello di allontanare da sé la critica, l'appunto, la contestazione. È il gioco antico e sempreverde del mascariamento. Che in Sicilia negli ultimi tempi ha raggiunto le vette dell'arte. Arte povera, ovviamente. Poveraccia, in qualche caso. Perché in realtà va a scavare con le mani nel torbido, pescando il fango anche dove non c'è, pur di gettarlo in faccia all'avversario. Nell'Isola, del resto, di fuoriclasse nell'arte della maldicenza ne esistono diversi. A formare una specie di partito diffuso, fondato sulla retorica legalitaria, sull'antimafia dei pennacchi, come la definì il vicepresidente della Commissione antimafia Claudio Fava. “La mafia dell'antimafia” ha osato qualcuno, a cominciare dall'ex candidato a Palazzo d'Orleans Nello Musumeci, nel corso di una drammatica seduta d'aula a Sala d'Ercole.

E in effetti, la legislatura del mascariamento iniziò proprio con lui. In piena campagna elettorale, l'aspirante governatore Rosario Crocetta recitava le sue litanie antimafiose, a volte, probabilmente, strabordando un po'. “Farò i nomi e cognomi – disse Crocetta - sull'accordo tra Musumeci e Miccichè (Gianfranco, leader siciliano di Forza Italia, ndr) per riprendere il discorso sui quattro termovalorizzatori gestiti dalla mafia. So per certo – ha aggiunto - che Musumeci e Miccichè hanno fatto un accordo per riprendere la realizzazione dei quattro termovalorizzatori in una gara falsa: un appalto che, è stato provato, è controllato dalla mafia”. E ancora: “Noi non abbiamo candidati indagati, condannati, né gente sul cui curriculum pesano dubbi. Musumeci, invece, gli dico: avrebbe dovuto farlo perché di gente da arrestare nelle loro liste ce n'è parecchia”. Eccola qua una bella secchiata di fango a chi aveva osato correre contro di lui alle elezioni. Come è finita? Nessuna indagine da parte della Procura su quel fantomatico accordo. E così Musumeci ha denunciato Crocetta. Il governatore, dal canto suo, è andato a rannicchiarsi, probabilmente preoccupato dalla querela per diffamazione, dietro lo scudo dell'immunità che gli veniva offerta dal Parlamento europeo di cui era ancora membro nel corso di quella campagna elettorale.

Iniziò con Musumeci, ma andò avanti a lungo. E andò meglio a Crocetta quando dal palco di una convention politica provò a indossare i panni di un novello Pio La Torre, puntando il dito contro un esponente della sua maggioranza che proprio quella mattina fu citato in un articolo di giornale per presunti rapporti con imprenditori dell'eolico in odor di mafia: “Qui dentro c'è qualcuno che non dovrebbe starci”, recitò Crocetta dal palco. La querela, puntuale anche stavolta, verrà archiviata. Ma intanto, il mascariamento era arrivato: quel consigliere infatti non fu mai nemmeno indagato per quella vicenda. Dettagli, ovviamente. Così come un dettaglio era il fatto che una piscina costruita nella casa di un assessore regionale era del tutto in regola. Ma contro Mariarita Sgarlata, cacciata con ignominia dalla giunta, si rovesciò la furia del governatore. Anche quell'indagine evaporerà come una bolla. E lascerà il dubbio che quella manovra ad altro non servisse se non a nominare un altro assessore, politicamente più utile. Un mascariamento al servizio degli equilibri in giunta. In fondo, l'assessore Sgarlata se la cavò con poco. Il mascariamento, sebbene assai efficace, si arrestò a una semplice, seppur infondata, accusa di abusivismo edilizio. Altre e più sottili illazioni furono quelle che Crocetta sollevò nei confronti del presidente della commissione Salute del parlamento siciliano, Pippo Di Giacomo, consigliere del Pd e colpevole, in quei mesi, di sostenere una “opposizione interna” al governatore. E così, ecco servita la mascariata, fondata sulla visita all'Ars di un imprenditore 'discusso': “La frequenza di quell'imprenditore non ci sembra proprio una frequentazione da suore orsoline”. Digiacomo si limitò a ricordare al governatore che quell'uomo era stato introdotto da “esponenti politici molto vicini a Crocetta”. E guarda caso, la polemica si esaurì in un baleno.

Perché uno dei rischi compresi nell'allegro gioco dei mascariamenti, è quello di fare autogol. Di scivolare nel paradosso. Come nella vicenda di Caterina Chinnici, figlia del magistrato Rocco ideatore del “pool antimafia” e ucciso da Cosa nostra nel 1983, scelta dal Pd per guidare la lista alle ultime elezioni europee. I leader siciliani avevano in quell'occasione chiuso la porta a Beppe Lumia, il braccio destro del governatore Crocetta. Come reagì il presidente siciliano? Ricordando che la figlia di Rocco “è stato un assessore di Lombardo, condannato per mafia”. Eccolo lo schizzetto anche su una persona limpida come Caterina Chinnici. Un mascariamento risibile, in questo caso, anche perché pochi minuti dopo Crocetta rilancerà, chiedendo la candidatura di Lumia. Proprio uno dei più convinti sostenitori dell'intesa con Raffaele Lombardo. Un sostegno così deciso da portare il senatore a uno scontro frontale con Rosi Bindi, allora presidente del Pd: Lumia voleva creare un governo politico con Lombardo, già indagato per mafia. Ma Crocetta pensò bene di omettere, in quella occasione, questo particolare. Del resto erano i giorni in cui le maldicenze finirono per colpire anche il docente di diritto penale Giovanni Fiandaca. La sua colpa? Non tanto quella di avere scritto, insieme all'autorevole storico Salvatore Lupo, un libro che avanza dubbi sulla “portata” del processo sulla cosiddetta Trattativa (“La mafia non ha vinto”), ma quella di essersi, appunto, candidato nella corrente del Pd ostile a Crocetta. E così, ecco servita anche per lui la maldicenza: “Fiandaca è il negazionista della trattativa Stato-Mafia e vuole l'abolizione del 416 bis. Questo Fiandaca è tutto un pelo e un peliddu”. Fiandaca insomma, secondo Crocetta, negava “la storia della lotta alla mafia. Negando l'intuizione di Pio La Torre. Questo partito non può candidare nelle proprie liste – aggiunse Crocetta - chi vuole offuscare la battaglia e il successo di Pio La Torre”. Come è andata a finire questa storia? Dopo un po', Crocetta ha nominato Fiandaca garante siciliano per i detenuti: “Un uomo – disse il governatore in quell'occasione - che in questi anni ha condotto una battaglia democratica per la tutela di ogni cittadino”. Lungo le misteriose vie del mascariamento, insomma, è bene anche avere la memoria corta.

Solo in tempi più recenti, Crocetta ha lanciato la sua fatwa persino contro un assessore in carica e nominato dallo stesso governatore: Alessandro Baccei ha la colpa di rappresentare in giunta l'area renziana del Pd, in particolare quella che fa capo al sottosegretario Davide Faraone, gran nemico di Crocetta. E così, ecco saltare fuori un dossier su un consulente dell'assessore, citato nelle carte dell'inchiesta Consip, ma mai indagato. Baccei non batterà ciglio, assicurando di voler revocare quell'incarico, a patto che anche tutti gli indagati e i condannati attorno a Crocetta ricevessero lo stesso trattamento. Da quel momento Crocetta, contornato da un cerchio magico sul quale sono piovute in questi anni indagini contabili e penali e anche qualche condanna della Corte dei conti, ha rimesso la polemica nel cassetto. Pochi giorni prima, però erano sorte altre illazioni. Rilanciate in forme assai simili, anche da due “compagni” di partito. Il partito della maldicenza, ovviamente: l'avvocato Antonio Fiumefreddo oggi a capo dell'azienda che riscuote (o prova a riscuotere) le tasse in Sicilia e l'ex pm Antonio Ingroia.

Baccei, la denuncia di Palazzo d'Orleans, si sarebbe recato ad alcuni incontri con i dirigenti della Monte dei paschi di Siena, istituto col quale la Regione ha in corso un contenzioso milionario. “Tale avvenimento – ha fatto sapere Crocetta in una lettera aperta inviata all'assessore - assumerebbe ulteriore rilevanza anche alla luce del fatto” che l'assessore “avrebbe prestato attività di consulenza a favore del Monte per conto della società Ernest & young”. Fatti smentiti categoricamente dal diretto interessato. Ma l'ombra del mascariamento è tutta nelle parole del sottosegretario Faraone, amico dell'assessore: “C'è chi ama lavorare, chi ama fare provvedimenti concreti e chi ama invece passare pomeriggi all'arena di Giletti o intere giornate a costruire dossier fasulli nei confronti di avversari politici ed alleati. Buttare fango su persone perbene”.

Ma il partito della maldicenza, guidato da Crocetta, può contare, come detto, su luogotenenti assai attivi. Come uno dei fedelissimi del governatore siciliano, l'ex pm Ingroia, che, dopo avere smesso la toga per accucciarsi nel munifico sottogoverno di Sicilia, non ha abbandonato i vezzi dell'inquisitore. Sparando, però, spesso a salve, contro chi avesse osato muovere una critica qualsiasi. Figuriamoci un'inchiesta. È il caso del Procuratore della Corte dei conti Gianluca Albo, colpevole di avere aperto una inchiesta su un presunto danno erariale legato alle assunzioni volute da Ingroia nel carrozzone regionale “Sicilia e-servizi”. Una indagine contabile che fece avviare una inchiesta penale, poi archiviata. E così, Ingroia decise di affidare al giornale Huffington post la sua 'dedica' al Procuratore. Per stigmatizzare il comportamento dell'ex collega, Ingroia, innanzitutto, ha rivendicato il merito di avere fatto condannare Marcello Dell'Utri. Poi, ecco l'allusione: Albo, scrive Ingroia, che “pensò bene nell'aprile 2014 di accusarmi di un presunto danno erariale” è nipote dell'avvocato di Dell'Utri al quale aveva ricevuto una consulenza. Ed ecco spiegate meglio le “affinità parentali” e gli “incarichi consulenziali” di Albo: il magistrato contabile, nel 2003, era stato scelto come consulente dalla Commissione parlamentare d'inchiesta su Telekom Serbia, allora presieduta dallo zio di Albo, (è nipote della moglie, ndr), il senatore e penalista Enzo Trantino. La consulenza ci fu, ma a titolo gratuito. Albo, che si dimise, incassò solo poche centinaia di euro per il rimborso delle spese di viaggio.

Gli ex colleghi del resto sembrano tra i destinatari preferiti delle maldicenze di Ingroia. E la Procura di Palermo è stata l'obiettivo degli strali dell'ex pm in più occasioni. È il caso, ad esempio, della inchiesta sul giornalista Pino Maniaci, difeso da Ingroia. Una indagine “surreale, basata sul nulla, costruita dalla Procura su fatti infondati” secondo l'ex pm. Una operazione nata per “distruggere – disse Ingroia - un uomo di televisione”. Stesso discorso in occasione di un'altra inchiesta, quella sull'imprenditore Rosario Basile, patron della Ksm, finito dentro una storia di minacce e violenze relative a una vicenda personale e difeso sempre da Ingroia. Di fronte a una prima pronuncia che sembrava alleggerire la posizione dell'imprenditore, l'ex magistrato-avvocato-amministratore ha chiesto alla Procura di “tornare sui suoi passi, chiedendo scusa a Basile”. L'ultima polemica con la Procura riguarderà una indagine proprio su Ingroia, accusato di peculato per le spese compiute in qualità di amministratore unico della società regionale della quale è alla guida grazie alla nomina dell'amico Crocetta. In quel caso, l'ira di Ingroia, non certo passato alla storia come un magistrato allergico ai riflettori, piombò contro le “continue fughe di notizie che vengono tollerate, quasi plaudite, con incredibile leggerezza”. Oltre che nei confronti del pm che lo stava indagando sulla base “di una legge che non esiste più”: insomma, ignorante o in malafede, tertium non datur.

A proposito del carrozzone guidato da Ingroia, ecco che il mascariamento arrivò puntuale anche contro un dirigente regionale che aveva osato far notare che forse quell'azienda costava un po' troppo e che bisognava tagliare circa due milioni di spese. E così, ecco le solite misurate parole dell'ex pm, che ha voluto ricordare come ai tempi in cui la Regione veniva saccheggiata “davvero”, c'era proprio quel dirigente “a controllare”, “mentre io – ricordava Ingroia - stavo in Procura a cacciare i latitanti mafiosi e i loro complici”. Un po' pm, un po' manager, un po' avvocato. La tavolozza dei colori tra i quali scegliere per il mascariamento del nemico, per Ingroia è assai ricca. E così ecco spuntare le altre ombre su quel burocrate. Il “taglio” chiesto dal dirigente “guarda caso”, disse Ingroia, è equivalente alla “cifra che risulta essere stata distratta proprio dall’Ufficio da lui diretto, per coprire debiti fuori bilancio dell’amministrazione Regionale, in favore di un fornitore scelto come beneficiario, fra tutti i creditori della Regione, in modo così tanto discrezionale, da dare adito a giustificati sospetti”. Nuovi sospetti. Ma giustificati, ci mancherebbe. Come è finita? Non risulta alcuna denuncia, e quel dirigente oggi è tra i più vicini al presidente della Regione Crocetta. Anche stavolta i giustificati sospetti sembrano poggiare sul nulla. Ma il gioco delle ombre resta il preferito tra i militanti del partito della maldicenza. Ingroia recentemente se l'è presa anche col giornale online Livesicilia, “colpevole” di avere svelato e descritto gli escamotage utilizzati dal governo regionale per consentire il rinnovo dell'incarico dello stesso Ingroia. Nessuno lo può giudicare. Nessuno osi muovere una critica al partito della maldicenza. C'è un mascariamento pronto per chiunque.

Dall’altro lato del faro. La Telejato che non avete saputo vedere, scrive "Telejato" Sabato 01 Aprile 2017. La notizia che fa tremare l’antimafia e che fa brindare i mafiosi e non solo è: “Pino Maniaci indagato perché avrebbe ammorbidito l’attenzione sul lavoro dei sindaci di Partinico e Borgetto in cambio di soldi e di posti di lavoro” con tanto di ordinanza, ieri confermata dal g.i.p. lo stesso che l’ha emessa, di divieto di dimora nelle provincie di Palermo e di Trapani. L’operazione delle forze dell’ordine ha definito alcuni contorni della vicenda e ha mostrato anche altri elementi che pur non avendo rilevanza penale offrono uno spaccato assai diverso dalla verità “pubblica” a cui siamo stati abituati. Non ci soffermeremo sugli aspetti relativi alla presunta estorsione che sono di competenza della magistratura, consapevoli che il tempo ci aiuterà a chiarire una vicenda dolorosissima e triste, da qualunque parte la si guardi. Intanto una piccola considerazione l’abbiamo fatta e abituati alle estorsioni che piegano in due l’economia siciliana, facendola arretrare ai minimi storici rispetto al resto del mondo, ci viene difficile immaginare il peggior estorsore, o migliore scegliete voi, che “mediante violenza o minaccia” costringa un sindaco a sborsargli 366 euro + 100 di arretrati, una somma un po’ esigua. Il nostro ragionamento critico, non lanciandosi in considerazioni affrettate, in attesa di eventuali altri risvolti della vicenda, non esclude che quella somma possa essere stata pagata dal sindaco per la pubblicità. Un’ipotesi o una speranza, fate voi. Ma andiamo avanti: dal video fornito dai Carabinieri, tra le altre cose si evince come il patron di Telejato sospettasse chi ha ucciso Billy e Cherie. Lui risponde: “Ho fatto la cazzata di dire minchiate per farmi bello con una donna. Le ho detto così perché volevo che si sentisse in colpa. Per farle capire che la potevo proteggere. E ho fatto una cazzata. La mia denuncia è contro ignoti, infatti”. E noi possiamo scegliere di crederci o meno ma sempre non distaccandoci troppo da quel ragionamento critico e razionale, anche se, lo confessiamo, in tal caso è ancora più difficile perché ancora sentiamo il sapore salato di quelle lacrime per quei due poveri cani impiccati. Ma rimaniamo comunque in attesa di sapere, quali sono i risvolti delle indagini, perché siamo certi che siano state fatte, anche con riguardo a quell’uomo accusato da Pino nella telefonata di aver commesso questo scempio. Ovviamente, rimangono molti i punti interrogativi su questa vicenda e forse anche in tal caso è giusto ponderare e non spingersi in giudizi affrettati, considerato che non spetta a noi, ma a chi sta conducendo le indagini, fornire risposte.

Ora come ora, tutta l’attenzione catalizzata attorno al personaggio Maniaci fa riflettere e fa paura. Allo stato dell’arte, rimane l’amarezza della storia di un uomo che prima ha regalato speranza e fiducia e poi ha gettato tutti nello sconforto e nell’incredulità, forse solo per farsi bello agli occhi di una donna. Insomma sono cose non da eroi ma da uomini. E senza voler giustificare nessuno, non è il caso di aprire la parentesi su cosa sono capaci di dire gli uomini al telefono, durante conversazioni private, per carpire l’attenzione di una donna. E ce lo ha ricordato Pif: “Quelli che si sono messi in gioco, magari non sono dei santi, avranno tutti i difetti di questo mondo. Perché siamo schifosamente umani. Ma i difetti di una persona non possono essere un alibi per non fare un’emerita minchia… E nel frattempo la mafia ci ride sopra”. Ma in tutto questo frastuono di donne, paroloni, parolacce, presunte minacce, minchiate e pettegolezzi vari ed eventuali alcuni giornalisti, nella gara per trovare il prossimo scoop più avvicente, si sono dimenticati di scrivere che Telejato non è solo Pino Maniaci ma e anche Letizia, Gianni, Simona e tutti noi ragazzi di Telejunior a cui la vera storia della legalità, una legalità spuria da utopie e completamente gratuita, quell’idea che al mafioso va riconosciuto il solo titolo di pezzo di merda, senza paura, con gli occhi dritti verso la telecamera, ci è stata trasmessa durante quelle calde estati a Partinico, proprio da quell’uomo, da quel Pino Maniaci, che mostro cattivo oggi e eroe dei nostri tempi ieri, con il suo modo di esprimersi da sempre irruento e indisponente per molti, comunque si è sempre speso a 360° e forse ora sta pagando il conto più gli interessi (inclusa l’IVA). Vogliamo dire a chi legge che è dai giovani che parte il cambiamento, o almeno così spesso si sente dire, e visto che a noi di Telejunior la volontà di cambiare le cose non manca vi diciamo, anche se non ce lo avete chiesto, che siamo pronti a difendere il lavoro fatto insieme e tutte le inchieste portate avanti negli anni da Telejato e siamo sempre lì con Letizia, Donna forte che non è arretrata di un centimetro ma come al suo solito, con la dolcezza dei suoi modi e l’esperienza del mestiere, manda in onda “l’odierna edizione di Telejato Notizie” a ricordare a tutti, anche a quelli che hanno puntato il dito, che tutti siamo importanti e nessuno è indispensabile. Telejunior sono le centinaia di giovani che sono passati da quella piccola redazione ma anche e soprattutto quegli amici che proprio lì, hanno collaborato assieme, sempre uniti, come oggi, credendo fermamente che per questa terra “bella e maledetta” possa esserci ancora una speranza, e tutto questo grazie a te Pino. Perché in questi anni sei riuscito a costruire cose di una bellezza rara. E nessuno si può permettere di metterlo in dubbio o di distruggerle, perché per noi Telejato è casa, Telejato, come ci ricorda in un vecchio articolo l’amico Ivano, è Palestra di vita, è un presidio di legalità e di libertà, perché le vicende che “sporcano” il nome o la credibilità di Pino Maniaci non vanno estese all’attività di Telejato perché in tal modo si commetterebbe una grave ingiustizia e un danno irreparabile per noi persone oneste. Oggi Telejato va avanti, o almeno prova ad andare avanti così come fa da molti anni a questa parte, con difficoltà raddoppiate perché mancano i fondi e continuano ad aggiungersi novità poco incoraggianti. Dicevano gli antichi si prosegue a “pani e alivi” tra una querela e una bolletta della luce da pagare, quelle non mancano mai, consapevoli che anche in silenzio, molti guardano a quella tv tanto strana quanto vera. Telejato arranca ma non molla insieme all’amico Salvo Vitale che è rimasto lì, a rispondere alle domande e a dare l’esempio di chi sa come va il mondo. Almeno fin quando c’è passione e coraggio. Per favore non facciamo tramontare questo locus amenus, forse unico spunto per noi giovani per non emigrare.

Pif difende Pino Maniaci: "Non si è mai visto un estorsore chiedere 466 euro. Pino fa il figo con le donne ma ha fatto l'antimafia", scrive il 9/05/2016 Laura Eduati su "L'Huffington Post". E' un amico e pensa che a suo modo "abbia fatto davvero l'antimafia". Pif sceglie di girare un video di otto minuti per difendere a spada tratta Pino Maniaci, il fondatore e direttore di Telejato ora accusato di estorsione ai danni di due sindaci della provincia di Palermo. Una accusa infamante che secondo i magistrati del capoluogo siciliano è provata da una serie di telefonate di Maniaci. Tuttavia Pif prova a dare una versione differente: "Ho ascoltato le intercettazioni e non ho trovato estorsione. Rimane quello scambio di denaro con il sindaco di Borgetto: ma quale estorsore chiede 466 euro? E Pino gli avrebbe dato 4 euro di resto?". Per il regista di "La mafia uccide solo d'estate", l'incontro con il sindaco di Borgetto è l'unica possibile ombra sul comportamento di Maniaci, interrogato dal gip lo scorso venerdì dopo aver ricevuto un divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani: "Mi astengo. Non so se sperare che ci sia qualcos'altro a suo carico, oppure no". A scandalizzare sono soprattutto gli audio delle sue chiamate, ma secondo Pif nessuna di queste può essere una prova del reato di estorsione. "Pino che fa il bullo con le donne e dice ti sistemo io non è estorsione, Pino che dà dello stronzo al presidente del Consiglio non è estorsione, tra l'altro può essere definito un bersaniano e figurarsi quante volte dà dello stronzo a Matteo Renzi", scherza il presentatore che confessa: "Se mi intercettassero mi metterebbero subito in galera". Pif ironizza: "I carabinieri avrebbero dovuto mettere le emoticon" accanto al testo delle intercettazioni così i lettori avrebbero capito che Maniaci esagera. Dopo aver analizzato l'aspetto penale della vicenda, Pif passa all'aspetto "morale": è vero, ammette, Maniaci è un personaggio sui generis che adora fare il fanfarone specialmente con il sesso femminile. Ma questo non è censurabile in un aula di tribunale: "In quelle intercettazioni ho riconosciuto il Pino Maniaci, ho immaginato come potesse essere al telefono con una donna, facendo il figo". In quel momento, continua l'attore di origini siciliane, "ho visto che la sua forza è diventata un limite". E così lancia un appello allo stesso Maniaci: "Pubblicamente vorrei che rispondesse a questa domanda: ti sei accorto di cosa ha costruito in questi anni?".Pif fa riferimento proprio a Telejato, piccola emittente di frontiera con una redazione combattiva che ha attirato giovani giornalisti da tutta Italia convinti di agire seriamente contro la mafia. "Telejato ha davvero fatto antimafia e in questo momento ci sono ragazzi che hanno deciso di farla vivere", prosegue, menzionando Salvo Vitale, molto legato a Giovanni Impastato. "Telejato non deve chiudere anche perché una famiglia mafiosa di Partinico, i Vitale, si stanno sbellicando dalle risate". "Si parla molto della crisi dell'antimafia ma credo che sia concettualmente sbagliato parlare di "antimafia", perché se un regista è antimafia allora gli altri sono a favore? Le cose non cambiano con questo atteggiamento, forse bisognerebbe fare un'antimafia 3.0 cioè che smette di delegare a qualcun altro" la lotta contro la criminalità organizzata. "Siamo tutti dentro il recinto dell'antimafia, finora è stato un continuo sputtanarsi a vicenda e intanto c'è qualcuno che ride. E' un brutto momento ma finirà".

Storia del cane rabbioso, scrive il 10 gennaio 2017 "Telejato".

È OPPORTUNO SEGUIRE LO SVILUPPO CRONOLOGICO DEGLI EVENTI PER RICOSTRUIRE IL MOSAICO:

L’origine. 8 MAGGIO 2013: la storia prende l’avvio allorché i carabinieri di Partinico ascoltano un’intercettazione tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e un consigliere comunale, Polizzi, il quale si lamenta perché Pino Maniaci gli avrebbe commissionato 2000 magliette senza pagargliele e non gli avrebbe pagato nemmeno tre mesi di affitto, comportandosi, in nome dell’antimafia, in un modo simile a quello che i mafiosi usano quando fanno estorsioni. Si tratta del procedimento 3642/2013, iscrizione a carico di Maniaci Giuseppe. Sarà questa l’accusa con cui è stato reiterato e poi revocato il divieto di soggiorno, in quanto Maniaci ha chiarito di non avere mai avere ricevuto le magliette e di non avere mai abitato a Borgetto e il Polizzi non ha confermato quanto rilevato dalle intercettazioni, ma è stato ritenuto inattendibile. Polizzi ha un parente mafioso, ma ha sempre preso le distanze da lui.

30 OTTOBRE 2013: i magistrati in servizio presso la Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto, Fabio Licata, Lorenzo Chiaramonte e Claudia Rosini chiedono un intervento a tutela della loro attività “a fronte della campagna di denigrazione e delegittimazione dell’operato della sezione e del suo Presidente, svolta attraverso alcuni servizi giornalistici e televisivi (questi ultimi diffusi dall’emittente Telejato)”. Nell’ambito di questa procedura, il 20 dicembre 2013, una delegazione del CSM, composta tra gli altri anche da Tommaso Virga, visita agli Uffici giudiziari di Palermo e incontra i magistrati in servizio presso la Sezione Misure di prevenzione. La pratica viene definita il 6 febbraio 2014, con proposta di archiviazione motivata con l’insussistenza dei presupposti per l’avvio della procedura a tutela del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione. Non contento di ciò Virga accompagna la Saguto presso il sottosegretario Ferri, che non prende posizione, ma che aveva votato a suo tempo, poiché faceva parte del CSM, per la nomina della Saguto. Lo stesso Virga il giorno dopo si reca presso il suo amico Claudio Galoppi, componente del CSM che aveva votato favorevolmente alla nomina di Lo Voi a procuratore capo a Palermo.

8 DICEMBRE 2013: Secondo il colonnello della Finanza, Fabrizio Nasca, in servizio alla DIA di Palermo, l’indagine nasce invece in questa data, a seguito di un incidente intercorso alla figlia di Maniaci e al fidanzato che era alla guida: il ragazzo sarebbe stato trasferito all’ospedale di Partinico, onde accertare se fosse in preda all’alcool o avesse assunto droghe, ma  la perizia ha esito negativo in quanto egli non fuma e non beve: la cosa fa arrabbiare Maniaci, che ritiene eccessivo e pretestuoso l’atto di controllo dei carabinieri: ecco parte dell’intercettazione tra Nasca e la Saguto del 24.6.2015: “Perché la cosa nasce dai Carabinieri, te l’avevo raccontato… allora praticamente questo stronzo (Maniaci, ndr), prima che noi facessimo il sequestro Parra, un giorno… una sera lì a Partinico ha un incidente… c’è un incidente… quindi chiamano i Carabinieri, chi è l’oggetto dell’incidente? Una macchina, una 147 con dietro c’è scritto ‘Tele Jato’ e roba del genere, alla guida, cioè accanto al guidatore, c’è sua figlia, Letizia Maniaci… alla guida il fidanzato, che poi sarebbe il genero, non sono sposati e si frequentano da anni… la macchina intestata a Luigi Impastato, il figlio di Impastato… I Carabinieri relazionano…a quanto pare, quindi incidente col motorino, quindi mezzo ferito, gli fanno… gli fanno… il coso per… per tasso alcolemico, questo (incomprensibile)… arriva lui, MANIACI e comincia a inveire ‘ah perché? Di qua di là’… il giorno dopo la stessa cosa… quindi la questione va a finire in ospedale e lui sempre a inveire contro i Carabinieri… il giorno dopo fa la piazzata e dice ‘ah…’ (S): Neanche si può fare il test alcolemico a suo genero (N): Esatto… ‘io non vi voglio più’, perché ci ha la vigilanza generica radiocollegata…di quelle là… ‘io non vi volevo più vedere, non ho più bisogno e qua e di là, quelli fanno un’informativa e la mandano in Procura… Compagnia Carabinieri di Partinico… da questa nasce l’indagine, okay, vengono messi sotto controllo i telefoni e lì emergono i rapporti… cioè… praticamente lui è strumentale, coso (Maniaci, ndr)… anche mi hanno detto che il fatto del cane… l’ultima delle intimid… (incomprensibile) la stessa cosa…strumentale… ma peraltro loro hanno delle intercettazioni fatte in ambito Parra che però non sono state poi… ehh… trascritte”.

24 MARZO 2014: qualche mese dopo l’intercettazione Polizzi, viene deciso dalla coppia Nasca-Saguto il sequestro dei beni dei Rappa, che rappresenta la pietra d’inciampo dei due: secondo le stime della DIA si parla di un valore dai 600 agli 800 milioni di euro: ville, edifici, terreni, la concessionaria di pubblicità Pubblimed, le concessionarie di auto, con sede a Isola delle Femmine e Catania, che commercializzano marchi di lusso come Bmw, Mini e Jaguar, il palazzo del TAR di via Butera,  alcune palazzine liberty del centro ed alcune ville tra Mondello e l’Addaura. Bloccate inoltre alcune società immobiliari che fanno capo ad una holding milanese. Colpisce soprattutto il sequestro di TRM, una delle prime emittenti televisive private in Sicilia, fondata da Filippo Rappa nel 1976 e che, nel 1984 aveva siglato l’accordo con il gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi cedendo al network nazionale di Retequattro alcune frequenze televisive. Una circostanza che, anni dopo, sarebbe finita in diversi processi di mafia, da quello a Marcello Dell’Utri, amico dei Rappa, a quello agli stessi imprenditori, padre e figlio, poi arrestati nel 1997. Nel frattempo i due nipoti giovani, Gabriele e Vincenzo, hanno costruito proprie attività imprenditoriali, fatturando cifre consistenti e dando lavoro a circa un centinaio di dipendenti, e sono andati avanti rifiutando qualsiasi contatto con Cosa Nostra. Tra l’altro il sequestro dei beni Rappa era già stato proposto una prima volta ma la proposta era stata rigettata. I beni sono affidati a Walter Virga, lo stesso che amministra i beni della famiglia Giardina, proprietaria dei negozi Bagagli. Walter, titolare di uno studio legale a Palermo, è figlio di Tommaso Virga, presidente della seconda sezione penale del Tribunale di Palermo, componente del direttivo della Associazione Nazionale Magistrati ed ex-componente del Consiglio Superiore della Magistratura, per la corrente Magistratura Indipendente. Nel darne la notizia Telejato annuncia che, “da voci raccolte e non confermate”, Virga padre avrebbe evitato in passato alla dottoressa Saguto un procedimento disciplinare. È questo l’elemento che fa scattare l’intervento della magistratura di controllo, al punto che il 10 giugno 2014 la Saguto è chiamata a chiarire le motivazioni sulla nomina di Virga figlio.

NOVEMBRE 2014: ha inizio ufficialmente il monitoraggio delle utenze telefoniche che metterebbero in luce “l’indole criminale” di Maniaci: viene citata una telefonata con Antonio Ingroia e con un’altra giornalista Federica Delogu fatta il 25-11-2014.

DICEMBRE 2014: a sorpresa, Francesco Lo Voi è nominato procuratore capo della Procura di Palermo, dopo alcuni mesi di reggenza affidata a Leonardo Agueci e sostituice Francesco Messineo. Ha battuto in volata, per la nomina, i colleghi Sergio Lari, e Guido Lo Forte, più titolati di lui nell’aspirare a quell’incarico. Lo Voi ha ricevuto i voti della corrente di Magistratura Indipendente, (tra cui Claudio Galoppi), di cui fa parte, quello della laica di Forza Italia Maria Elisabetta Alberti Casellati in commissione incarichi direttivi, quello dei consiglieri del centro destra e dei laici del Pd. Quindi un candidato gradito a tutti, un candidato per tutte le stagioni, voluto da Napolitano e da Renzi, espressione del patto del Nazareno. La sua nomina ha colto di sorpresa soprattutto perché egli non aveva mai avuto ruoli dirigenziali alla Procura di Palermo. Lari e Lo Forte hanno presentato ricorso al Tar che il 25 maggio 2015 ha dato loro ragione, ma anche Lo Voi ha fatto ricorso contro la sentenza del TAR al Consiglio di Stato, il quale, ha lasciato Lo Voi al suo posto, sostenendo che non si poteva lasciare sguarnita la Procura, e successivamente, il 28 gennaio 2016 ha reso definitiva la sua nomina. Proprio sotto la gestione di Lo Voi il procedimento contro Pino Maniaci arriva alla sua fase conclusiva. Dietro tale accanimento sembra esserci un’ombra, quella della Saguto e di Cappellano Seminara, per arrivare a un’ultima inquietante domanda: la moglie di Lo Voi, che è anch’essa un giudice del tribunale di Palermo si chiama Pasqua Seminara. Vuoi vedere??????

DICEMBRE 2014: i due cani di Maniaci vengono trovati strangolati. Arrivano solidarietà da tutta Italia, persino da Renzi. È opinione comune che si tratti di un gesto intimidatorio mafioso, ma le intercettazioni, o almeno le parti di intercettazioni rese note lasciano pensare che si sia trattato di un gesto compiuto da Gioacchino Bono, marito di Valentina Candela definita amante di Maniaci. È lo stesso Maniaci a dare adito a questo sospetto: …………….. In realtà, quando il fatto viene scoperto Maniaci sporge denuncia ai Carabinieri, manifestando anche i suoi sospetti su Bono: solo qualche giorno dopo i carabinieri vanno a rilevare sul posto le tracce, raccogliendo un tubo servito per strangolare gli animali e comunicando, dopo alcuni mesi ………… chiudono l’indagine dicendo che non erano state rilevate impronte. Non risulta che la persona indicata da Maniaci come responsabile del gesto sia mai stata interrogata. Nell’ipotesi che lo sia stata e non abbia confermato l’accusa rimane la conseguente ipotesi o che abbia mentito o che non sia responsabile. E allora, se non è stato lui, chi è stato?

6 GENNAIO 2015: La figura del Ten. Col. Rosolino Nasca e la diffusione, ad opera sua, della notizia dell’organizzazione di un attentato ai danni di Silvana Saguto. Prima di entrare nel merito dei gravi indizi di colpevolezza dello scambio corruttivo tra Silvana Saguto e Rosolino Nasca e della concussione in concorso con Carmelo Provenzano ai danni di Giuseppe Rizzo, è necessario chiarire in quale forma e in quale contesto la figura del Ten. Col. della Guardia di Finanza, Rosolino Nasca, in servizio presso il Centro Operativo della DIA di Palermo, sia comparsa nella presente indagine. All’indomani del servizio de Le Iene del maggio 2015 sulla gestione dei beni in sequestro di prevenzione, Silvana Saguto si adoperava per controbilanciare gli effetti della trasmissione televisiva e per creare attorno alla propria persona una sorta di rete di solidarietà attraverso la diffusione – proprio mediante l’intervento del Ten. Col. Nasca – della risalente notizia relativa alla pianificazione di un attentato ai suoi danni; notizia che veniva pubblicata su Live Sicilia e su quotidiani locali. Il 22 maggio 2015, Tommaso Virga si era interessato perché l’ANM di Palermo redigesse un comunicato di solidarietà nei confronti di Silvana Saguto, la quale, peraltro, aveva ricevuto, grazie all’intervento di Guglielmo Muntoni, l’interessamento dell’ANM nazionale.

10 FEBBRAIO 2015: intercettazione e filmato con De Luca, che, messo in bella posta davanti alla telecamera viene ripreso mentre dà 300 euro a Maniaci. Secondo la Procura è una prova documentaria dell’estorsione fatta da Maniaci in cambio della promessa di non usare la sua emittente per denunciare le parentele mafiose di alcuni consiglieri e assessori, secondo Maniaci è il pagamento, documentato da fattura, di quanto dovuto a seguito della pubblicità, fatta dalla sua emittente, del locale “La Carcara”, di proprietà della moglie del sindaco. Maniaci ha chiesto ripetutamente che venisse prodotta una prova su un presunto “ammorbidimento” del suo telegiornale, che per contro, con scadenza quasi quotidiana, non ha smesso di accusare le discrasie dell’amministrazione di Borgetto e le parentele mafiose di alcuni consiglieri.

31 MARZO 2015: nota dei carabinieri di Partinico su quello che Telejato ha detto riguardo Walter Virga.31 MARZO 2015: i carabinieri di Partinico trasmettono alla procura il testo dell’articolo su Virga e il 5 maggio 2015 viene concessa dal GIP la proroga dell’autorizzazione alle intercettazioni.

9 APRILE 2015: “il Procuratore di Palermo trasmette a Caltanissetta la nota 589/1-4 del 31 marzo 2015, redatta dai Carabinieri della Compagnia di Partinico, contenente alcuni degli esiti dell’attività di intercettazione svolta su due utenze in uso a Giuseppe Maniaci, direttore dell’emittente Telejato, nell’ambito del procedimento iscritto a suo carico. Nel corso delle conversazioni intercettate, il direttore di Telejato sosteneva con diversi interlocutori, tra i quali magistrati e colleghi giornalisti, l’esistenza di un sistema clientelare, di un “verminaio”, di un “cerchio magico“, della “mafia nell”antimafia” che sfruttava le opportunità offerte dalla gestione di patrimoni sottoposti a sequestri di prevenzione per ottenere arricchimenti illeciti. Al vertice di questo sistema, secondo Maniaci, vi sarebbero stati la Presidente della sezione, Silvana Saguto, e l’amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara. Più in dettaglio, Maniaci denunciava, nel corso delle conversazioni con Antonio Ingroia (22 novembre 2014) e con la giornalista Federica Delogu (25 novembre 2014) la circostanza che Silvana Saguto sarebbe stata sottoposta ad un procedimento disciplinare e che Tommaso Virga, padre dell’amministratore giudiziario Walter Virga, membro della sezione disciplinare presso il CSM, aveva determinato l’archiviazione del procedimento a carico della Saguto. Il giorno dopo l’archiviazione, secondo Maniaci, Silvana Saguto avrebbe nominato Walter Virga come amministratore giudiziario del sequestro Rappa, e Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli della Saguto, avrebbe ricevuto incarichi nell’ambito della medesima amministrazione. (Nota redatta il 31 marzo 2015 dalla Compagnia dei Carabinieri di Partinico e acquisita agli atti il 27 aprile 2015.)

5 MAGGIO 2015: “per documentare la rituale autorizzazione delle operazioni di intercettazione telefonica sulle utenze in uso a Maniaci, venivano acquisiti i decreti autorizzativi e i decreti di proroga del GIP di Palermo. Le conversazioni di Maniaci si collocavano in un contesto caratterizzato dalla pubblicazione di alcuni servizi e articoli di stampa comparsi su Telejato e su La Repubblica, acquisiti in copia agli atti del presente procedimento, relativi alla gestione dei beni sottoposti a sequestro di prevenzione. In particolare, il 20 marzo 2015, Alessandra Ziniti, su La Repubblica, scriveva di “sprechi’, di “gestione discutibile” delle società sotto sequestro di prevenzione, spesso destinate al fallimento; evidenziava il paradosso di “inspiegabili assunzioni di personale con stipendi doppi presso catene di negozi ove erano stati chiusi punti vendita, dimezzato il fatturato e messi in solidarietà i dipendenti; citava l’esempio della concessionaria d’auto il cui amministratore giudiziario utilizzava durante il week-end auto da migliaia di euro “prese in prestito” dalla concessionaria stessa. L’articolo di Alessandra Ziniti, come si è colto dalle attività di ascolto, suscitava la reazione dei Giudici in servizio presso la Sezione Misure di prevenzione e, infatti, il 21 marzo 2015, la giornalista pubblicava un altro articolo rappresentando il punto di vista dei magistrati – “in quattro a far fronte a una montagna difascicoli”. Più duri gli articoli comparsi su Telejato. In un servizio firmato dalla redazione, Gaetano Cappellano Seminara veniva dipinto come “il re degli amministratori giudiziari”; in un servizio a firma di Monica Cillerai, Cappellano Seminara veniva descritto come “l’uomo dei cinquantasei incarichi”, giunto ad amministrare circa “una sessantina di beni”, “circa 254 tra imprese, aziende, immobili” e veniva denunciata la circostanza che sarebbe stato incompatibile con alcuni degli incarichi ricevuti. In un articolo comparso su Telejato il 19 febbraio 2015, Salvo Vitale scriveva: “C’è chi parla, senza poterlo dimostrare, di rapporti d’affari tra Cappellano Seminara e il marito della sig.ra Saguto, tal ingegnere Caramma, si dice che la convivente del figlio della Saguto, un’altra avvocatessa dal nome esotico, Donna Pantò, gestirebbe i beni delle aziende Rappa assieme a Walter Virga, figlio del magistrato Virga del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha archiviato un procedimento giudiziario nei confronti della Saguto”. A parte le imprecisioni (come ad esempio, l’effettivo numero delle gestioni affidate a Cappellano Seminara, il nome di Mariangela Pantò, la circostanza che la stessa non fosse convivente del figlio della Saguto, il fatto che il CSM non tratti “procedimenti giudiziari”), gli articoli sintetizzati, soprattutto quelli pubblicati su Telejato, descrivevano un contesto e denunciavano la presenza di “un cerchio magico che ruota[va] intorno agli amministratori giudiziari ed ai “quotini”, ossia l’insieme di coadiutori e collaboratori, coloro che erano “in quota” dell’amministratore giudiziario, “nella quota del loro re, cioè di colui che li fa lavorare” e che determinava arricchimenti indebiti attraverso la gestione dei compendi in sequestro di prevenzione. Le notizie di stampa e le conversazioni registrate sulle utenze di Maniaci, il quale, peraltro, rivestiva la posizione di persona sottoposta ad indagini nel procedimento iscritto presso la Procura di Palermo e la cui credibilità andava scrupolosamente vagliata, erano solo il punto di partenza per gli accertamenti da svolgere. Veniva acquisita agli atti del presente procedimento copia delle sommarie informazioni testimoniali rese da Silvana Saguto il 10 giugno 2014, nel corso delle quali la stessa dichiarava che la scelta degli amministratori avveniva normalmente su base fiduciaria ad opera del collegio – così come collegiali erano le autorizzazioni per tutti gli atti di straordinaria amministrazione dei beni in sequestro – con il solo divieto, imposto dalla legge, di nominare i proposti, nonché i parenti ed i prestanome dei proposti. Dichiarava, inoltre, che non vi erano rapporti di parentela o di amicizia tra Giudici della sezione e amministratori nominati, ma che era capitato che qualche incarico fosse conferito a parenti di colleghi: a questo proposito, citava – senza che le fosse chiesto e trincerandosi dietro il fatto che non fosse vietato “da nessuna legge” – proprio il caso di Walter Virga, figlio di Tommaso Virga. “C’è qualche parente di qualche collega, e questo è vero f…] per esempio noi abbiamo Walter Virga, che è il figlio di Tommaso Virga, due incarichi in tutto […] Poiché Tommaso Virga è stato al Consiglio Superiore, che significa, che uno che c’ha un magistrato che è a Roma, quindi centrale, non può essere nominato né a Bolzano, né a Palermo, né in nessun altro posto? Questo non è stabilito da nessuna legge”. (Dalla trascrizione delle dichiarazioni rese da Silvana Saguto il 10 giugno 2014). Alla luce di questi elementi, delle notizie di stampa e delle conversazioni registrate sull’utenza di Maniaci, si riteneva di iscrivere Tommaso Virga per il delitto di cui all’art. 319 quater co. 1 cp, commesso in data antecedente il 24 marzo 2014 (data del sequestro Rappa), ipotizzando che lo stesso, abusando della sua qualità di consigliere del CSM – il quale, stando alle conversazioni captate sull’utenza di Maniaci, avrebbe avuto in carico una non meglio definita pratica riguardante Silvana Saguto, forse un procedimento disciplinare, che comunque è giudicato da un organo collegiale – avesse indotto quest’ultima a dare indebitamente un’utilità al proprio figlio Walter Virga, nominandolo amministratore giudiziario nell’ambito del proc. 34/2014 RMP.

14 MAGGIO 2015: Provenzano Carmelo contatta Saguto Silvana chiedendo se ha visto la trasmissione “Le Iene”. La donna risponde negativamente e chiede “com’è andata?”. Provenzano risponde “malissimo, cioè Maniaci su Telejato ha organizzato sta cosa sulle Iene con l’avvocato Dalia (rectius DELL’AIRA Andrea, ndr) e Gaetano (Cappellano Seminara, ndr) è stato pochissimo performante, cioè proprio non ha avuto smalto, anzi cioè”. Provenzano aggiunge “ma lei perché ha dato questi incarichi al marito della Saguto, è nel consiglio d’amministrazione della società da lei, lui non è bravissimo su quel punto, perché non dice che è 2005 l’incarico, ante il tuo ingresso alla reggenza, lo dice ma…eh eh la sensazione che si ha, infatti, è che è stata fatta male sta cosa, bisognerà riprenderla bene anche a livello mediático”. La donna chiede “e cioè? Cosa si può fare?”. Provenzano dice che, dato che “Le Iene” è un programma seguito prevalentemente da giovani, vorrebbe organizzare “un convegno con un sacco, ma proprio un sacco, un sacco di giovani, proprio per la difesa dei magistrati ora che lavorano, non quando non lavorano più e quando non ce li abbiamo più, la butterei proprio sulla problematica destabilizzazione del sistema”, aggiungendo che non farebbe nessuna querela ma che vuole fare qualcosa “d’impatto”, incentrando l’incontro sui “giovani che vogliono preservare proprio gli eroi del contrasto alla criminalità, quindi voglio fare una giornata su di te”.

17 MAGGIO 2015: “Saguto Silvana contatta Pignatone Giuseppe […] sono le solite cose vecchie di due…dell’anno passato che sono state già risolte dalla Bindi non è accaduto null’altro di nuovo, nessuno né ha dato incarichi a Cappellano né, tantomeno, a mio marito che non ne ha completamente, manco mezzo, per errore, con Cappellano e con nessuno, io più di non fare niente non posso fare, oltre che le nomine di tutti (incomprensibile). Adesso siamo arrivati non so a quanti nominati di soggetti perché abbiamo un mare di sequestri, abbiamo un mare di amministratori nuovi che il Signore ce la mandi buona perché non facciamo manco più a due a due gli incarichi, ad uno ad uno, veramente e c’è gente che ha un solo incarico”. La Saguto comunica a Pignatone che c’è il Prefetto disponibile a rilasciare un’intervista in suo favore ed a parlare con Scarpinato “a fare uscire insomma le minacce varie che andiamo ricevendo ogni minuto e poi mi hanno ribadito il concetto che quello è sotto inchiesta, Maniaci, perché l’ispiratore lui è”. Pignatone ritiene “che lui solo sia l’ispiratore mi sembra impossibile'”. Nel corso della telefonata, la Saguto afferma “veramente, Giuseppe, non ho più che cosa dire, che cosa fare, più di come mi sono mossa, più di non avere fatto assolutamente nulla con l’anno passato, se non una popolazione di sequestri nuovi mai dati a Cappellano né ad altri di quelli storici ma sempre a persone nuove, io più di questo non posso fare” e che andrà a parlare con Scarpinato “e ci faccio parlare il Prefetto perché sono molto amici”. Pignatone consiglia di predisporre una “relazione” in cui evidenziare come siano stati nominati vari amministratori giudiziari.

18 MAGGIO 2015: Cannizzo Francesca contatta Saguto […]: “I tuoi colleghi sono “gelosi” perché lei (la Saguto, ndr) è “la regina incontrastata” e che andrà da Scarpinato Roberto per dirgli “senti, ma io sono buona solo quando servo per certe cose?” La Saguto dice “loro, Le Iene, cosa contestano che mio marito, ha…avrebbe, che non è vero, un incarico, minchia io sii do tutte cose a Cappellano perché lui gentilmente gliene dà uno a mio marito, ma è veramente tirchio, perché ti voglio dire, la cosa che mi fa impazzire in tutto questo, io ci avrei guadagnato che Lorenzo c’ha una cosa, minchia ma veramente, è una cosa dell’altro mondo”.

20 MAGGIO 2015: Visconti Costantino contatta Saguto Silvana. I due interlocutori commentano l’articolo pubblicato sul Giornale di Sicilia. […] Nel corso della telefonata, la Saguto afferma “il Colonnello NASCA m’ha detto che farà…muoverà qualche altra persona che parlerà sui giornali vari’ […1 Si interrompe la comunicazione (comunicazione contraddistinta dal progressivo n. 10034 del Decreto 488/15 R.I.); riprende la comunicazione interrotta precedentemente. SABELLI Rodolfo contatta SAGUTO Silvana la quale parla del rischio delegittimazione della Sezione Misure di Prevenzione a seguito degli attacchi mediatici e delle minacce ricevute da parte di alcuni mafiosi. Poi, cita Cappellano SEMINARA che “per il sequestro PIAZZA” avrebbe “fatto arrivare allo Stato 36 società” su 6 affidate inizialmente. La SAGUTO dice che manderà tutti i dati a SABELLI il quale comunica il seguente indirizzo di posta elettronica: Silvana Saguto, il 23 maggio 2015 – come risulta dall’ascolto diretto del file audio – da Milano, parlava della notizia relativa al progetto di attentato con la madre (che le diceva come anche “don Salvatore” avesse letto il giornale e pregasse per lei), e poi si informava se i suoi figli avessero “saputo niente”. La madre le passava poi il figlio Emanuele (e non Francesco, come risulta da un ascolto diretto del fde audio), al quale raccontava che, nel corso di un dibattito, l’Assessore Caleca le aveva fatto “un panegirico” dicendo che lei era “quella che sequestrala] tutto e che la lotta alla mafia si fa[ceva] così” e poi commentava che i colleghi, salvo pochi amici, non le avevano manifestato solidarietà perché lei era “nota” e “le cose che faceva lei non le faceva nessuno”. Alla fine della conversazione, il figlio le manifestava preoccupazione invitandola a stare in casa nei giorni successivi al rientro. Né la madre né il figlio di Silvana Saguto erano a conoscenza del fatto che l’iniziativa di rendere pubblica la notizia fosse partita congiuntamente dalla stessa Saguto e da Nasca senza che ricorresse alcun pericolo accertato e, quindi, Emanuele le chiedeva se Nasca “quella cosa ¡'[avesse] controllata”, ossia, se fosse entrato nel merito delle verifiche sulla fondatezza della notizia. in data 23.05.2015 (dal min. 17:56:10), CARAMMA Francesco contatta SAGUTO Silvana. Nel corso della telefonata, CARAMMA chiede alla madre se ha “sentilo il Colonnello NASCA” e se questi “quella cosa là l’ha controllata?”. La donna risponde “Francè, lo farà, di sabato pomeriggio non credo che si metta a controllare cose, s’è segnato i nominativi, le cose, ieri era sera, oggi è sabato, diamogli il tempo alle persone di fare le cose” (comunicazione contraddistinta dal progressivo n. 7434 del Decreto 488/15 R.I., nota del NPT del 3 giugno 2015).

20 MAGGIO 2015: Saguto Silvana contatta Licata Fabio il quale dice che sta “scrivendo” un provvedimento relativo alla GAS NATURAL. Nel corso della telefonata, i due interlocutori parlano dell’articolo di Gargano Leopoldo, quindi Saguto riferisce che in ufficio da lei “è venuto il Colonnello Nasca, ha detto che ora la fa uscire…ha parlato con uno di Repubblica, con un altro che non so chi sia, me l’ha detto ma io me li scordo i nomi, che farà su Esse Sicilia e su Live Sicilia, che girano, questi girano molto” […] “Nel corso di altra  conversazione, Silvana Saguto commentava la pubblicazione della notizia della progettazione di un attentato ai suoi danni con Costantino Visconti e gli riferiva che Nasca si sarebbe impegnato a “[muovere] qualche altra persona che [avrebbe parlato] sui giornali vari “.

22 MAGGIO 2015: Tommaso Virga si interessava perché l’ANM di Palermo redigesse un comunicato di solidarietà nei confronti di Silvana Saguto, la quale, peraltro, aveva ricevuto, grazie all’intervento di Guglielmo Muntoni, l’interessamento dell’ANM nazionale: “Saguto Silvana contatta Muntoni Guglielmo dicendo che Sabelli non l’ha ancora chiamata. Muntoni chiede se vuole il numero ma la donna risponde negativamente. Muntoni dice che io chiama lui “.

In seguito l’ANM è venuta a fare un controllo in Sicilia e non se n’è fatto niente, ha ritenuto che non c’erano gli estremi.

23 MAGGIO 2015: Silvana Saguto da Milano, parlava della notizia relativa al progetto di attentato con la madre (che le diceva come anche “don Salvatore” avesse letto il giornale e pregasse per lei), e poi si informava se i suoi figli avessero “saputo niente”. La madre le passava poi il figlio Emanuele al quale raccontava che, nel corso di un dibattito, l’Assessore Caleca le aveva fatto “un panegirico” dicendo che lei era “quella che sequestrava tutto e che la lotta alla mafia si fa[ceva] così” e poi commentava che i colleghi, salvo pochi amici, non le avevano manifestato solidarietà perché lei era “nota” e “le cose che faceva lei non le faceva nessuno”. Alla fine della conversazione, il figlio le manifestava preoccupazione invitandola a stare in casa nei giorni successivi al rientro. Né la madre né il figlio di Silvana Saguto erano a conoscenza del fatto che l’iniziativa di rendere pubblica la notizia fosse partita congiuntamente dalla stessa Saguto e da Nasca senza che ricorresse alcun pericolo accertato e, quindi, Emanuele le chiedeva se Nasca “quella cosa ¡'[avesse] controllata”, ossia, se fosse entrato nel merito delle verifiche sulla fondatezza della notizia”.

26 MAGGIO 2015: Silvana Saguto riceveva la telefonata di solidarietà di Alfonso Sapia, sindaco di Casteltermini, e gli raccontava che la notizia della pianificazione dell’attentato ai suoi danni era stata diffusa in quel momento perché uno dei “militari [suoi] amici, che la riteneva “tanto brava”, aveva voluto “ristabilire l’ordine” dopo il servizio del Le Iene. in data 26.05.2015, SAPIA Alfonso contatta SAGUTO esprimendo la sua solidarietà a seguito delle minacce pubblicate su alcuni organi stampa. La donna afferma che era già a conoscenza di tali minacce ma che “nisciu (è uscito, ndr) ora perché qualcuno dei militari miei amici, secondo loro, gli interessava perché siccome c’era stato quel servizio delle Iene un poco diffamatorio, allora dice ora ristabiliamo l’ordine che lei è tanto brava”.

26 MAGGIO 2015: dopo il servizio de Le Iene sulla gestione dei beni in sequestro di prevenzione, Silvana Saguto si adoperava per controbilanciare gli effetti della trasmissione televisiva e per creare attorno alla propria persona una sorta di rete di solidarietà attraverso la diffusione – proprio mediante l’intervento del Ten. Col. Nasca – della risalente notizia relativa alla pianificazione di un attentato ai suoi danni: la notizia veniva pubblicata su Live Sicilia e sul Giornale di Sicilia. Molto prima degli altri Telejato diceva subito che si trattava di un attentato farlocco.

26 MAGGIO 2015: Silvana Saguto riceveva la telefonata di solidarietà di Alfonso Sapia, sindaco di Casteltermini, e gli raccontava che la notizia della pianificazione dell’attentato ai suoi danni era stata diffusa in quel momento perché uno dei “militari [suoi] amici, che la riteneva “tanto brava”, aveva voluto “ristabilire l’ordine” dopo il servizio de Le Iene. In data 26.05.2015, SAPIA Alfonso contatta SAGUTO esprimendo la sua solidarietà a seguito delle minacce pubblicate su alcuni organi stampa. La donna afferma che era già a conoscenza di tali minacce ma che “nisciu (è uscito, ndr) ora perché qualcuno dei militari miei amici, secondo loro, gli interessava perché siccome c’era stato quel servizio delle Iene un poco diffamatorio, allora dice ora ristabiliamo l’ordine che lei è tanto brava”.

29 MAGGIO 2015: Saguto contatta Provenzano Carmelo. Terminata la comunicazione, Sabelli Rodolfo contatta Saguto Silvana dicendo che “‘l’amico comune Guglielmo Muntoni mi riferiva di questo servizio televisivo in cui mi ha detto sono state diffuse tutta una serie di falsità e di attacchi””. La Saguto dice che il servizio de Le Iene è ispirato da un soggetto (Maniaci, ndr) vicino ad alcuni mafiosi di Partinico e che da questi riceve elargizioni per cui, invece di fare “antimafia” è diventato “filomafia”. La donna precisa che l’emittente è Telejato e che manderà una nota con tutti i dati dell’ufficio Misure di Prevenzione e che gli stessi dati sono consegnati al Presidente del Tribunale di Palermo. Sabelli dice che come ANM sono attenti al tema delle “retribuzioni degli amministratori giudiziari” in quanto è un “settore” intorno al quale si “scatenano vari appetiti” e la Saguto risponde che la Sezione di Palermo “è riuscita ampiamente a mediare” e che negli ultimi 4 anni e mezzo il “numero degli amministratori sì è “quintuplicato”…passando da una ventina a 120 circa. La circostanza che fosse stato proprio Nasca a favorire la pubblicazione della notizia dell’attentato emerge dalle conversazioni 20/23 maggio che Silvana Saguto intratteneva, rispettivamente, con il collega Fabio Licata, con Costantino Visconti, con il figlio Emanuele Caramma e con Alfonso Sapia. Nel corso della prima conversazione, Silvana Saguto riferiva a Licata che Nasca aveva parlato con alcuni giornalisti, i quali avrebbero fatto “uscire” la notizia su La Repubblica, su Esse Sicilia e Live Sicilia ossia su quotidiani, anche online, “che girano, girano molto”.

29 MAGGIO 2015: Walter Virga racconta al padre dell’incontro avuto la mattina stessa con Silvana Saguto e Fabio Licata. Sia pure riportato al padre in termini allusivi (“a livello diciamo generale del problema ecco, del rompimento di palle sembrerebbe, poi ne parliamo…a meno che non gli hanno detto fesserie ma sembrerebbe questione di poco proprio…”), sembra che la Saguto – che si dice contraría all’idea di Walter che le aveva prospettato di “mettere un punto”, ossia di chiudere con le amministrazioni giudiziarie – abbia detto al suo interlocutore di avere saputo che Maniaci era in procinto di essere sottoposto ad una misura cautelare.

12 GIUGNO 2015: La Pantò (fidanzata di un figlio della Saguto), comunica che se ne sarebbe andata e che avrebbe approfittato della presenza degli operai a casa propria per farsi allestire una stanza a studio professionale. Francesco Caramma prova, senza esito, a dissuaderla – anche facendo riferimento all’imminente applicazione di una misura cautelare a carico di Maniaci (“Siamo sicuri che lo arrestano a breve, a giorni? Io lo spererei, lo spererei”: nella trascrizione del dialogo contenuta nella nota del NPT del 12 giugno “Siamo sicuri (incomprensibile) a giorni? Io lo spellerei, io lo spellerei questo” (pag.206).

15 GIUGNO 2015: dialogando allo studio legale con i colleghi Cordova e Majuri, Walter Virga rifletteva sul fatto che Provenzano – dal lui definito come “farabutto” e “lestofante” – avesse ottenuto cinque o sei incarichi in due anni, che si stesse “facendo i bagni’ (nel denaro), che potesse “permettersi di mettere in liquidazione le società” e che nessuno “gli [rompesse] i coglioni’, neanche “il baffo” (intendendo che i servizi di Maniaci e Telejato non lo avevano assunto come obiettivo di attacchi mediatici). …….. Nasca dice che aveva cercato Virga “perché sto cercando di fare il punto su MANIACI e gli volevo chiedere: scusa, ma per caso l’autorizzazione di TMR, gliela dai tu e roba del genere”.

20 GIUGNO 2015: Saguto contatta Cappellano. Parlano di Maniaci e dell’articolo di Telejato. Cappellano dice che domani presenta la querela a “PETRALIA” e che ha sentito “LICATA” molto “incavolato” con “SCALETTA”. ……afferma “io avevo qualche dubbio se parlare con il presidente (MUNTONI, ndr) per quella cosa che mi ha dato…non lo so, in questo momento”.

24 GIUGNO 2015: Saguto Silvana contatta Cappellano il quale racconta l’esito del processo in cui ha testimoniato a Roma. L’uomo dice che ha finito l’esame del PM e che il 15 luglio ha il controesame della difesa. Cappellano dice che ha parlato con Gargano il quale ha parlato anche con l’avvocato Monaco Sergio. Quindi, parlano di MANIACI che entrambi definiscono “un provocatore”. La SAGUTO dice che “il figlio” è stato trovato con la “macchina di IMPASTATO”.

24 GIUGNO 2015: dialogo tra Saguto e Nasca. Saguto: “Per capire se… da che cosa ci dobbiamo guardare, visto che (incomprensibile)… io ieri ho visto la Bindi e Claudio Fava. Claudio FAVA mi ha detto ‘ma noi abbiamo chiesto, ma MANIACI non è pronto per…’, lasciando puntini puntini… quindi lo sanno pure loro. (N): Ah, pure loro, sì ma oramai è voce comune (S): Però… (N): Dove escono…escono, cioè le cose (S): E però… (N): E però… (S): …nessuno si smuove (N): Il punto è che non so se è… è passato già al GIP oppure… (S): Io penso di sì (N): Eh bisogna capire… (S): Anche quello, bisognerebbe capire se lui è l’indagato principale… (N): Quale GIP… (S): …e se potete capire se gli pende procedimento, se voi lo potete sapere… (N): No, è lui, è lui (MANIACI, ndr) l’indagato principale, questo è… (S): E allora vedi… (N): Cioè le intercettazioni erano su di lui, capito? Erano su di lui (S): Non è su PARRA? (N): No, su di lui… su di lui… su di lui… sull’attività…. Commentano la notizia che INGROIA difenderà MANIACI nel processo per stalking a danno di CAPPELLANO. Poi, questi dice che incaricherà l’avvocato MONACO di andare a Caltanissetta per sapere a chi è stato assegnato il fascicolo con la denuncia per diffamazione a mezzo stampa nei confronti dei giornalisti de “Le lene”.

24 GIUGNO 2015: Saguto chiede se la misura cautelare a carico di Pino Maniaci fosse già stata depositata al GIP: già un anno prima la sorte di Maniaci era segnata.

29 GIUGNO 2015: giorno del deposito del decreto di sequestro e di nomina di Giuseppe Rizzo ad amministratore giudiziario nella procedura 156/2015 RMP Virga – il Ten. Col. Nasca dava un riscontro alla richiesta formulata da Silvana Saguto il 24 giugno 2015 e le diceva di avere “mosso delicatamente una pedina” per avere informazioni circa il fascicolo iscritto presso la Procura di Caltanissetta.

28 LUGLIO 2015: dichiarazione di Panettino, consigliere comunale di Borgetto, su Maniaci, che conferma che chiede soldi in cambio di una linea morbida della sua TV nei confronti delle presenze mafiose al Consiglio comunale.

30 LUGLIO 2015: Provenzano Carmelo contatta TONA Giovanbattista. I due interlocutori parlano del “mondo” delle amministrazioni giudiziarie e della competizione che vi è tra i vari professionisti coinvolti. TONA afferma […] “io ho sentito dire cose di CAPPELLANO poco sotto quello che può fare satana in persona…nel 2005, ho fatto le mie verifiche, mi sono fatto sii accertamenti, ho saputo  anche delie cose che non sono bellissime, quelle di cui abbiamo parlato ben due volte, ma che non appartengono diciamo… non sono di natura penale, certo possono essere piccole, come dire, furbizie, scorrettezze e però ancora non ci hannu arrinisciuto (non ci sono riusciti, nàx)…può darsi ci arrinescinu perchè sai ognuno di noi…lui tra l’altro proprio perchè è fatto come è fatto, potrebbe scivolare, potrebbe farlo qualche scivolone no…quindi…potrebbe averlo fatto… però ancor non ci hanno potuto fare niente, cioè un anno e mezzo di Telejato,  solo che siccome noi siamo in un paese nel quale simu tutti…ni pitumu pigliar pi fissa tra rinatri (ci possiamo prendere in giro tra di noi, ndr), quando uno tu non lo riesci ad incastrare, non è che puoi dire che sei tu che non sei capace di incastrarlo, devi dire che ci sono i poteri oscuri, le protezioni, i poteri forti…”. Provenzano dice che “condivide tutto” e che “mastini come te o come magistrati con tutti i diritti cahannu (difetti che hanno, ndr) (incomprensibile), ma chiddi a un certo punto si misero cha dove avirono (dovevano, ndr) arrivare, dovevano arrivare e non c’è nè così tanti ah…. MANIACI è chiddu (quello, ndr) che è, MANIACI, va bè Le Iene è quello che è, ma ancora un mastino cà sa mmiso (si è messo, ndr) serio, tipo pi (per, ndr) RIINA, non c’è stato però…

9 SETTEMBRE 2015: scoppia la bomba: la procura di Caltanissetta invia un avviso di garanzia alla presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto e al più noto fra gli amministratori giudiziari palermitani, Cappellano Seminara. Corruzione, induzione alla concussione, e abuso d’ufficio sono i reati notificati. I finanzieri del Nucleo di Polizia tributaria perquisiscono la cancelleria e l’ufficio del magistrato. Nell’inchiesta è coinvolto    anche il marito della Saguto, Lorenzo Caramma che avrebbe ottenuto vari incarichi relativi al settore di pertinenza della moglie. Vengono fuori una serie di nomi, alcuni dei quali non direttamente coinvolti nelle vicende della Saguto, altri suoi amici, cui chiedere favori e appoggi: tra gli indagati Tommaso Virga e il figlio Walter, i collaboratori della Saguto Chiaramonte, Licata, il colonnello della DIA Fabrizio Nasca, ma spuntano anche i giudici Pignatone, Scarpinato, Muntoni, (Roma), gli amministratori Scimeca, Rizzo, Carmelo Provenzano, Santangelo, Gigante, quello del sottosegretario Ferri, tutti all’interno del “cerchio magico” con cui la Saguto ha creato intorno a sè una cintura di protezione che le garantirebbe l’impunità.

13 SETTEMBRE 2015: veniva registrata una conversazione nel corso della quale Silvana Saguto si rivolgeva al Procuratore Giuseppe Pignatone chiedendogli un consiglio su un collega che avrebbe potuto difenderla in occasione del procedimento disciplinare che sarebbe scaturito dalla presente indagine (“tu ci devi cominciare a pensare, tu sei il mio referente, mi devi dire chi devo prendere, chi non devo prendere, che devo fare, tutto tu mi devi dire”). Chiedeva, inoltre, al suo interlocutore di indicargli un difensore “un poco carismatico”, perché, in occasione del procedimento per i ritardi nei depositi delle sentenze, Francesco Lo Voi le aveva suggerito un collega “che era un poco moscio” (“quando non ci fu il procedimento disciplinare, ma io avevo i ritardi, mi diedero quello… Franco Lo Voi mi diede quello che non mi ricordo manco come si chiamava di M.I. che era un poco moscio, poi andò bene perché andò bene, ma mi sono autodifesa praticamente”).

6 OTTOBRE 2015: Per comprendere se il procedimento “per/ritardi” di cui aveva parlato Silvana Saguto al Procuratore Giuseppe Pignatone fosse quello del 2005, conclusosi con il non luogo a procedere, il Pubblico Ministero, assumeva informazioni dal Procuratore di Palermo. Francesco Lo Voi. Lo Voi riferiva di conoscere Silvana Saguto da prima del suo ingresso in magistratura e di avere intrattenuto con lei buoni rapporti, anche di frequentazione, improntati alla cordialità, ma che, negli ultimi anni, i loro rapporti personali si erano “raffreddati sino a scomparire del tutto”. Lo Voi – al quale veniva data lettura della conversazione e al quale veniva chiesto se ricordasse di avere suggerito, in passato, a Silvana Saguto il nome di un collega che l’avesse assistita nell’ambito di un’istruttoria predisciplinare o di un procedimento disciplinare e, in caso positivo, di indicare chi fosse il collega individuato – premetteva di essere stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 31 luglio 2002 al 31 luglio 2006, e ricordava che, negli anni 2003- 2004, Silvana Saguto aveva avuto un procedimento disciplinare per i ritardi nei depositi delle sentenze che doveva essersi concluso con una richiesta di proscioglimento da parte del Procuratore Generale della Cassazione, provvedimento successivamente esaminato dalla sezione disciplinare del CSM. Silvana Saguto – continuava Lo Voi, che specificava di non essere stato parte della sezione disciplinare, perché diversamente si sarebbe astenuto anche solo dal trattare l’argomento – si era rivolta a lui per avere un’indicazione su un difensore che la potesse assistere nella fase istruttoria innanzi al Procuratore Generale e lui, dopo avere chiesto ad alcuni colleghi romani, le aveva indicato il nome di Stefano Schirò. […] ……Mi dissero che era bravo e competente nella materia disciplinare; io lo suggerii alla collega Saguto, dicendole: “Prendi contatto con lui, perché se… deve assistere e deve innanzitutto essere disponibile, poi ti deve dire se lo vuole fare, se non lo vuole fare”, come normalmente si fa. Seppi poi che lei aveva preso contatto con Schirò, perché Schirò me ne diede conferma, e fini li. Cioè finì lì il mio interessamento, evidentemente. Dopodiché seppi, ma non so, questo davvero non riesco a collocarlo nel tempo, seppi che la… la dottoressa Saguto aveva ottenuto un proscioglimento da parte della sezione disciplinare, credo proprio su richiesta della stessa Procura Generale della Cassazione. Ma su questo non so essere preciso, né sui tempi di definizione, né sulle modalità o motivi, ecco, del proscioglimento stesso, perché non mi interessava e non lo seguivo. (Dalla trascrizione delle dichiarazioni di Francesco Lo Voi del 6 ottobre 2015, pp. 8-10).

24 APRILE 2016: sul giornale “La Repubblica” un articolo di Francesco Viviano anticipa l’apertura di un’indagine giudiziaria su Pino Maniaci, con possibili provvedimenti penali nei suoi confronti. Chi ha passato l’informazione? Facile intravedere il primo passo preparatorio della strategia della Procura.

2 MAGGIO 2016: Pino Maniaci, attraverso i suoi legali, chiede di essere ascoltato dai magistrati. La richiesta non è accolta, poiché si fermerebbe il procedimento nei suoi confronti, già pronto.

4 MAGGIO 2016: il Pubblico Ministero chiede al Procuratore di Palermo di trasmettere le trascrizioni o i brogliacci delle intercettazioni telefoniche – registrate nell’ambito del procedimento a carico di Giuseppe Maniaci – dalle quali risultava che l’uccisione dei cani del giornalista non costituiva l’esito di un’intimidazione mafiosa,… le trascrizioni delle conversazioni intercettate in particolare quelle dalle quali si evinceva che l’uccisione dei cani di Maniaci del 3 dicembre 2014 era stata opera di Gioacchino Bono, marito di Valentina Candela, amante del direttore di Telejato; e un CD contenente i fìles audio delle conversazioni rilevanti.  Nel comunicare con Silvana Saguto, Nasca confondeva contesti diversi (l’indagine penale su Parra condotta dalla DIA, l’episodio dell’incidente occorso a Letizia Maniaci che aveva visto l’intervento dei Carabinieri di Partinico e la circostanza che l’uccisione dei cani di Maniaci non fosse l’esito di un’intimidazione mafiosa), operava deduzioni incongrue e giungeva a conclusioni improprie mettendo insieme frammenti di informazioni apprese per ragioni d’ufficio e rivelando, tuttavia, a Silvana Saguto almeno due notizie coperte da segreto: le notizie relative agli accertamenti dei Carabinieri di Partinico sul sinistro stradale e sull’impiccagione dei cani di Maniaci (e in particolare la circostanza che non si trattava di un’intimidazione mafiosa, bensì di un’iniziativa del marito della sua amante – per questo Nasca aveva detto alla Saguto che era “strumentale”).

Non si ha precisa contezza di come Nasca sia venuto a conoscenza degli accertamenti condotti dai Carabinieri di Partinico sul sinistro e sull’uccisione dei cani di Maniaci ma, chiaramente, per ragioni legate al suo ufficio, e le rivelava a Silvana Saguto violando i doveri inerenti alle funzioni o comunque abusando della sua qualità.

4 MAGGIO 2016: scatta l’operazione Kelevra: in una conferenza stampa viene annunciato pomposamente l’arresto di nove mafiosi di Borgetto e, all’interno dell’operazione si inserisce il procedimento contro Pino Maniaci, la cui immagine viene associata a quella dei mafiosi, anche se l’accusa non ha nulla a che fare con questi, trattandosi di semplice estorsione. Kelevra, (cane rabbioso) riprende il titolo di un noto film e sembra evidente che il cane rabbioso sia lo stesso Maniaci, che “abbaia” attraverso la sua emittente, che tutta l’operazione sia stata progettata per lui e che i mafiosi gli facciano da contorno. Viene reso noto a tutte le testate d’informazione un video di sette minuti, confezionato attraverso sapienti tagli e passaggi di immagini e intercettazioni, da cui si evince che Maniaci è un ricattatore, che usa la sua emittente per estorcere piccole somme di denaro ai sindaci di Borgetto e di Partinico, minacciando di diffondere notizie che ne compromettano l’immagine agli occhi dell’opinione pubblica. Che si scaglia contro ogni tipo di istituzione (giudici, politici, forze dell’ordine), che da dello stronzo anche a Renzi, che gli aveva espresso solidarietà, che ha un’amante alla quale fa ottenere un posto di lavoro al comune di Partinico, suggerendole di incassare un doppio stipendio, che la vicenda dei due cani strangolati era opera del marito geloso e non un avvertimento mafioso, come tutta l’Italia aveva creduto. I risvolti penali sono, a prima vista irrilevanti, ma il danno all’immagine e alla credibilità del personaggio è devastante. Per di più viene disposta la misura cautelare del divieto di dimora nelle province di Trapani e Palermo, con l’intenzione, neanche tanto mascherata, di fermare l’attività dell’emittente Telejato. E’ anche un’occasione ghiotta che si offre ai detrattori dell’antimafia, per aggiungere un altro tassello alle loro fumose analisi, come del resto annunciato da uno dei magistrati che si occupano dell’inchiesta, Vittorio Teresi: “non abbiamo bisogno dell’antimafia di Pino Maniaci”.

20 MAGGIO 2016: Passano 15 giorni e l’ordinanza viene revocata, ufficialmente per un errore di notifica, e Maniaci può tornare a casa, ma i PM che si occupano del caso trovano un altro motivo cui appigliarsi per chiedere il ripristino del confinio: in prima battuta si erano prese in considerazione le due motivazioni dell’estorsione ai sindaci di Borgetto e di Partinico e si era esclusa quella riguardante Polizzi, che viene ripresa e accettata dal tribunale del riesame. Il 6 giugno 2016 viene depositata la richiesta.

3 GIUGNO 2016: Ordinanza tribunale riesame e accoglimento proposta nuovo divieto di dimora depositata il 26.6., ma i legali di Maniaci si oppongono e fanno ricorso in Cassazione: la Cassazione sentenzia che non ci sono gli estremi per accogliere il ricorso, a Maniaci viene notificato un nuovo ordine di divieto di soggiorno ed egli è costretto a tornare in esilio.

18 OTTOBRE 2016: i legali di Maniaci presentano ricorso al GIP per l’annullamento del provvedimento.

20 OTTOBRE 2016: I GIP Aiello e Sestito ascoltano Maniaci e cinque giorni dopo, il 25 ottobre viene annullata la disposizione del divieto di dimora: Nella sentenza si legge: “può rilevarsi la inutilità della misura del divieto di dimora, potendo l’indagato svolgere l’attività di denigrazione pubblica anche dal sito presso il quale attualmente si trova. Ma ciò che impone l’accoglimento della richiesta difensiva è la valutazione della insussistenza di un attuale pericolo di reiterazione specifica in ragione del tempo trascorso dal commesso reato”. Tommaso Virga, Francesco Lo Voi, Cosimo Ferri, Claudio Galoppi, Saguto, appartenenti alla corrente di Magistratura Indipendente,  in un giro impressionante di amicizie e di scambi, altre volte di conoscenze tra colleghi, cui si aggiungono, come si evince dagli atti del sequestro Saguto, altri magistrati, Pignatone, Scarpinato (che è solo chiamato in causa), Francesca Cannizzo, già prefetto di Palermo, Muntoni, presidente della sezione Misure di prevenzione a Roma, Vincenti, predecessore della Saguto, Elio Grimaldi, cancelliere del tribunale di Palermo, Dorotea Morvillo, cancelliera del tribunale di Palermo, Tona, giudice di Caltanissetta, Claudio Castelli di Magistratura Democratica, Giuliana Merola, magistrato milanese, adesso in Commissione Antimafia, Matteo Frasca, presidente ANM Palermo, Rodolfo Sabelli, presidente ANM nazionale, Renato Di Natale, procuratore capo di Agrigento, il cui figlio ha affittato una parte del suo residence a Mondello al figlio della Saguto Elio Caramma, e dove abita anche Costantino Visconti, docente diritto penale a Palermo, Luca Nivarra, docente di diritto civile univ. Palermo, Antonio Cristaldi, docente diritto romano univ. Enna, Carmelo Provenzano, docente Università di Enna.

Valentina Candela nipote di quel Rosario Candela della Banda Giuliano. Valentina si è rivolta a Pino Maniaci per ottenere i diritti di una madre bisognosa e con una bambina portatrice di idrocefalo, spastica con deficit motorio e con 15 interventi subiti. Anche le istituzioni le hanno rivolto le spalle. Le sue denunce sono state sempre archiviate. Solo Pino Maniaci ha cercato una interlocuzione con gli organi preposti per aiutare la donna.

Signori, si chiude, scrive il 4 aprile 2017 "Telejato". CI STIAMO GUARDANDO NEGLI OCCHI, LA REDAZIONE O QUEL CHE NE RESTA E ABBIAMO DECISO CHE COSÌ NON SI PUÒ ANDARE AVANTI. MEGLIO VENDERE TUTTO, MEGLIO CHIUDERE. Continuano a piovere querele, questa volta non da comuni cittadini o dalla Bertolino, ma da alti magistrati, da funzionari e elementi di spicco che si occupano di gestione dell’ordine pubblico, persino da amministratori giudiziari e da giornalisti che non sopportano le nostre reazioni alle loro provocazioni e alle “minchiate” che scrivono, il tutto nell’ambito di un impressionante attacco all’antimafia, nel tentativo di cancellarne l’esistenza. Ci querelano persino i mafiosi, anzi i presunti mafiosi, i quali, pur essendo stato loro confiscato il patrimonio per mafia, ci accusano di diffamazione perché non esiste una sentenza che li dichiari mafiosi. Così piovono avvisi e denunce sul responsabile della testata, sul suo direttore, sui suoi redattori. Tutto questo significa andare a cercarsi i legali, andare a sottoporsi agli interrogatori della polizia giudiziaria postale, perdere tempo e salire le scale dei tribunali, da Caltanissetta, competente sulle denunce inoltrate dai magistrati di Palermo, ad Enna, dove l’Università Kore si è sentita diffamata per l’inevitabile commento sulla laurea regalata al figlio della Saguto. Tutti diffamati, e noi siamo i diffamatori. Rispetto a questa velenosità la Bertolino rischia di sembrare un’angioletta. Si aggiunga a tutto questo la difficoltà di portare avanti una struttura dove la macchina del fango azionata dai Carabinieri di Partinico e dalla Procura di Palermo, ha prodotto danni devastanti, molto più gravi di quanto non possano essere le diffide dei mafiosi ai commercianti, perché non facciano pubblicità attraverso Telejato. Per non parlare di altre incredibili vicende, dove si sciolgono comuni come Giardinello o Corleone, e, in passato Recalmuto, senza che ai sindaci sia stato contestato alcunché di rilevante, mentre si lascia al suo posto qualche altro sindaco che ha privatamente portato avanti la collaborazione coi mafiosi del suo paese. Siamo costretti a parlare in generale, perché c’è chi ci ascolta e ci sta registrando, magari poi viene a chiederci copia della trasmissione, in attesa di cogliere mezza parola con cui arrivare all’obiettivo finale, cioè chiedere la definitiva chiusura dell’emittente. Ebbene, così andando avanti chiudiamo noi. Abbiamo creduto che qualcosa potesse cambiare attraverso questa voce libera. Ma invece non cambia e non cambierà nulla perché questa terra, per dirla con Sciascia, è irredimibile. Chi ci ama ci scusi. È stato bello.

Troppe querele, chiude Telejato. Quando l'antimafia impazzisce, scrive Salvo Toscano su "Live Sicilia", Martedì 4 Aprile 2017. La dolorosa vicenda della tv di Partinico si presta a una riflessione sul lessico e sullo stile di una certa antimafia. Telejato chiude. L'annuncio lo ha dato la stessa emittente con un'amarissima nota pubblicata oggi sul sito della Tv. Sommersa da querele e azioni legali, la televisione di Partinico che tra l'altro denunciò le anomalie nella gestione dei beni confiscati alla mafia sta valutando di mollare. È davvero la fine per la creatura di Pino Maniaci, il paladino dell'antimafia caduto nella polvere per le accuse di estorsione che lo vedono imputato a Palermo? C'è da augurarsi che non sia così. Una voce che si spegne è sempre una perdita. E quando a spegnersi è una testata fuori dai potentati editoriali, che per di più agisce su un territorio difficile, la perdita è doppia. Ma la vicenda di Telejato, inclusa la nota intrisa d'amarezza con cui Maniaci sembra volere accomiatarsi dal suo pubblico, offre lo spunto per una riflessione più ampia. Che riguarda il giornalismo, l'antimafia e l'uso più o meno legittimo della querela. Che, va detto senza giri di parole, può anche diventare uno strumento temerario che può servire a intimidire e imbavagliare voci scomode. Al contempo, però, la vicenda di Telejato, si intreccia con quella umana e giudiziaria del suo fondatore. Con certi suoi eccessi e con le ombre dei reati a lui contestati dalla procura, addebiti che Maniaci ha sempre respinto con forza protestandosi innocente. Il caso di Telejato si presta, in questo suo drammatico epilogo, a una riflessione sul lessico e sullo stile di una certa antimafia. Sui suoi eccessi, su certe accuse iperboliche che non sempre camminano di pari passo a denunce circostanziate. Sul sospetto che da anticamera della verità può trasformarsi in salotto buono del processo sommario. Sulle parole come pietre lanciate con disinvoltura, sul modus operandi dei comunicatori ammantati da una coperta legalitaria che ha illuso i suoi aedi di un diritto all'impunità a fronte di mascariamenti d'ogni sorta. Marchi d'infamia, sentenze mediatiche definitive di colpevolezza vergate senza troppa prudenza. Quella prudenza il cui sapiente dosaggio, nel denunciare guasto e malaffare, è ingrediente irrinunciabile per un giornalismo corretto. Il rovinoso impazzimento tutto interno alla galassia antimafia a cui si è assistito negli ultimi anni tra scandali, sputtanamenti e anatemi, ha forse contribuito a innalzare i toni, sempre più aspri, del dibattito. Ma non sempre chi grida più forte ha ragione. È probabile che questo impazzimento abbia offerto il fianco all'exploit di querele e azioni legali, più o meno fondate, di cui parla la nota di Telejato. La cui vicenda offre un ulteriore ammonimento da contrappasso dantesco, già sperimentato da altri campioni o ex campioni dell'antimafia: la retorica legalitaria sopra le righe può ritorcersi contro i suoi stessi cantori, come sta dolorosamente sperimentando sulla sua pelle lo stesso Maniaci.

Telejato alza bandiera bianca, Maniaci: "Troppe querele, chiudiamo". Lo annuncia lo staff con una nota: "Le vicende giudiziarie del direttore non c'entrano. La redazione non riesce più ad andare avanti così, meglio vendere tutto. Abbiamo creduto che qualcosa potesse cambiare attraverso questa voce libera, ma questa terra è irredimibile", scrive il 4 aprile 2017 "Palermo Today". Non c'è pace per Telejato. La televisione di Partinico, diretta per anni da Pino Maniaci e travolta dalle vicende giudiziarie del giornalista accusato di estorsione, annuncia la chiusura. A comunicare lo stop alle trasmissioni è l'emittente stessa pubblicando una nota sul sito: "Continuano a piovere querele, questa volta non da comuni cittadini o dalla Bertolino, ma da alti magistrati, da funzionari e elementi di spicco che si occupano di  gestione dell’ordine pubblico, persino da amministratori giudiziari e da giornalisti che non sopportano le nostre reazioni alle loro provocazioni e alle 'minchiate' che scrivono, il tutto nell’ambito di un impressionante attacco all’antimafia, nel tentativo di cancellarne l’esistenza. Ci querelano persino i mafiosi, anzi i presunti mafiosi, i quali, pur essendo stato loro confiscato il patrimonio per mafia, ci accusano di diffamazione perché non esiste una sentenza che li dichiari mafiosi". Troppo complicato andare avanti. La redazione ha deciso: "Signori si chiude o si vende". Le denunce sono diventate troppe. Difendersi, lo sa bene chi fa lo stesso mestiere, significa "andare a cercarsi i legali, sottoporsi agli interrogatori della polizia giudiziaria postale, perdere tempo e salire le scale dei tribunali, da Caltanissetta, competente sulle denunce inoltrate dai magistrati di Palermo, ad Enna, dove l’Università Kore si è sentita diffamata per l’inevitabile commento sulla laurea regalata al figlio della Saguto". Tutto questo aggrava una situazione diventata già difficile dopo il caso Maniaci. "La macchina del fango azionata dai carabinieri di Partinico e dalla Procura di Palermo - scrive la redazione - ha prodotto danni devastanti, molto più gravi di quanto non possano essere le diffide dei mafiosi spingendo i commercianti affinchè non facciano pubblicità attraverso Telejato". Già nel 2012 l'emittente ha rischiato l'interruzione delle trasmissioni perchè non godeva delle caratteristiche tecniche introdotte con l'entrata in vigore del digitale terrestre. Allora, prima il sindaco di Partinico Siviglia, poi Sabina Guzzanti, l'imprenditore Dragotto, associazioni e deputati si mobilitarono per salvare la tv di provincia che riuscì ad evitare il peggio ottenendo dal ministero dello Sviluppo Economico - Dipartimento per le Comunicazioni - le frequenze. Stavolta però le cose stanno diversamente. "Abbiamo creduto che qualcosa potesse cambiare attraverso questa voce libera. Ma invece non cambia e non cambierà nulla perché questa terra, per dirla con Sciascia, è irredimibile. Chi ci ama ci scusi - conclude la nota -. È stato bello".

Telejato, chiude l’emittente di Pino Maniaci: “Rovinati dalle querele”. Diventato famoso per le battaglie contro le cosche mafiose locali, la stella di Maniaci si è offuscata nell'aprile del 2016 quando il giornalista è finito indagato per estorsione. Dietro alla chiusura dell'emittente, però, non ci sarebbero i problemi legali del suo direttore, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 aprile 2017. “Chi ci ama ci scusi. È stato bello”. Trenta righe pubblicate online per comunicare la chiusura di Telejato, la piccola emittente televisiva di Pino Maniaci. Diventato famoso per le battaglie contro le cosche mafiose locali, la stella di di Maniaci si è offuscata nell’aprile del 2016 quando il giornalista è finito indagato per estorsione. Per la procura di Palermo, infatti, Maniaci avrebbe estorto denaro ad alcuni sindaci della zona – Borgetto e Partinico, da dove trasmette Telejato – in cambio di un atteggiamento morbido del suo telegiornale nei confronti dei due politici. Dietro alla chiusura dell’emittente, però, non ci sarebbero i problemi legali del suo direttore.  “Continuano a piovere querele, questa volta non da comuni cittadini o dalla Bertolino, ma da alti magistrati, da funzionari e elementi di spicco che si occupano di gestione dell’ordine pubblico, persino da amministratori giudiziari e da giornalisti che non sopportano le nostre reazioni alle loro provocazioni e alle minchiate che scrivono, il tutto nell’ambito di un impressionante attacco all’antimafia, nel tentativo di cancellarne l’esistenza. Ci querelano persino i mafiosi, anzi i presunti mafiosi, i quali, pur essendo stato loro confiscato il patrimonio per mafia, ci accusano di diffamazione perché non esiste una sentenza che li dichiari mafiosi”, si legge sul sito dell’emittente. Prima di finire indagato per estorsione, infatti, Maniaci aveva avuto il merito di portare allo scoperto il sistema creato da Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, per la quale la procura di Caltanissetta ha chiesto il processo con le accuse di corruzione, induzione e abuso d’ufficio. Gli investigatori, infatti, hanno ricostruito un gigantesco cerchio magico fatto di favori, regali e prebende cresciuto all’ombra dell’amministrazione delle ricchezze sottratte ai boss. Una situazione che l’emittente di Maniaci ha denunciato in anteprima, e che adesso – evidentemente – sta portando alla chiusura dell’emittente. Nel messaggio che annuncia la fine delle trasmissioni si fa cenno poi all’inchiesta a carico di Maniaci. “Si aggiunga – si legge sempre sul sito dell’emittente – a tutto questo la difficoltà di portare avanti una struttura dove la macchina del fango azionata dai Carabinieri di Partinico e dalla procura di Palermo, ha prodotto danni devastanti, molto più gravi di quanto non possano essere le diffide dei mafiosi ai commercianti, perché non facciano pubblicità attraverso Telejato”.

Scandalo Saguto, chiesto il processo per 22 indagati, Le persone coinvolte nell’inchiesta del Gruppo tutela spesa pubblica del nucleo di polizia tributaria di Palermo rispondono a vario titolo di reati che vanno dall’associazione per delinquere, contestata alla Saguto, al marito e all’avvocato Cappellano Seminara, ma anche dalla corruzione all’abuso d’ufficio, passando per il falso, la truffa e il peculato. Il gruppo di magistrati, avvocati, amministratori giudiziari e investigatori avrebbe gestito in maniera privatistica e con una serie di favoritismi i beni sequestrati a Palermo, città in cui si registra il numero massimo in Italia di questo tipo di provvedimenti. L’udienza preliminare si terrà il 22 giugno, davanti al giudice Marcello Testaquatra. Nella lista degli indagati ci sono anche altri giudici, tra cui Tommaso Virga, ex componente del Csm, ma anche gli altri giudici del collegio presieduto dalla Saguto, Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte. Poi l’ex prefetta di Palermo, Francesca Cannizzo, sostituita proprio dopo lo scandalo. In elenco anche Carmelo Provenzano, Roberto Nicola Santangelo, Walter Virga, figlio di Tommaso, all’età di 33 anni, nominato amministratore di un patrimonio da 800 milioni di euro. Nella lista uno dei figli dell’ex presidente sotto inchiesta, Emanuele Caramma, il padre dello stesso magistrato, Vittorio Pietro Saguto, e ancora Roberto Di Maria (a capo della facoltà di Scienze Economiche e giuridiche della Kore di Enna), Maria Ingrao, Calogera Manta, Rosolino Nasca (tenente colonnello della Guardia di finanza), Luca Nivarra (docente della facoltà di Giurisprudenza di Palermo), Aulo Gabriele Gigante, Antonino Ticali (amministratori giudiziari) e infine Elio Grimaldi, assistente giudiziario del tribunale di Palermo, che ha perso un figlio, coadiutore di una amministrazione di una cava confiscata, fu ucciso da un operaio trasferito da una cava a un’altra. Il delitto avvenne nei giorni successivi alle perquisizioni e al venir fuori dell’inchiesta sulla sezione misure di prevenzione. Di Salvo Palazzolo – tratto da: palermo.repubblica.it 31 marzo 2017.

Chiesto dalla la procura di Caltanissetta il rinvio a giudizio per la Saguto e altri 18 suoi compagni di merenda, scrive l'1 aprile 2017 da Telejato. Il discorso della denuncia è serio e vogliamo, da questa emittente, porlo all’attenzione di tutta la stampa nazionale: Telejato oggi si trova sotto la lente d’ingrandimento di alcuni settori della magistratura e qualsiasi virgola qualsiasi mezza parola in più di quanto non sia la banale e fredda cronaca dei fatti, comporta una denuncia per diffamazione, oltre che l’uso della denuncia come atto intimidatorio per impedire la messa in onda di pareri, di commenti, di scherzi satirici e di tutto quanto da sempre ha caratterizzato l’originalità di questa emittente. Così non si può più lavorare. La cautela è anche dovuta al fatto che, trattandosi di avvocati, magistrati e militari, per costoro non è un problema utilizzare la legge come “fiato sul collo”, cioè come atto di pressione per evitare qualsiasi vago riferimento all’onorabilità e all’intoccabilità della propria persona. Ma torniamo agli imputati: sono tre magistrati – Fabio Licata, Lorenzo Chiaramonte e Tommaso Virga – l’ex prefetto della città, Francesca Cannizzo, il marito della Saguto Lorenzo Caramna, il figlio Emanuele e il padre, Vittorio Pietro Saguto, alcuni amministratori giudiziari, da Cappellano Seminara, a Nicola Santangelo, ad Aulo Giganti, a Carmelo Provenzano, a Walter Virga, alcuni collaboratori imparentati con gli amministratori e incaricati da costoro di svolgere servizi nelle amministrazioni affidate, come Elio Grimaldi, Calogera Manta, Antonio Ticali, Roberto Di Maria, Maria Ingrao, il colonnello della Finanza Rosolino Nasca, il professor Luca Nivarra. Le accuse sono pesanti e vanno dalla corruzione alla concussione, dalla truffa aggravata, al riciclaggio. Secondo le indagini condotte dal Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, il quale, su disposizione dei magistrati ha proceduto anche al sequestro penale di 800 mila euro, la “banda” che aveva al suo centro, la presidente dell’ufficio misure di prevenzione, aveva, anzi, “pare che avesse” costruito un sistema di potere volto all’amministrazione dei beni che la stessa faceva sequestrare e, che poi affidava a una cerchia di persone a lei legate da vincoli di vario genere. I 19 indagati che, dal prossimo 22 giugno, dovranno presentarsi con i loro legali davanti al gup di Caltanissetta Marcello Testaquatra per l’udienza preliminare. Il procuratore capo Amedeo Bertone, gli aggiunti Lia Sava e Gabriele Paci e il sostituto Cristina Lucchini hanno stralciato la posizione di Antonino Ticali per il quale stanno ora valutando se chiedere l’archiviazione. Ticali era “compagno” del giudice Chiaramonte che gli aveva affidato un incarico. Pare giusto: se nell’inchiesta non c’è il nome di Mariangela Pantò, destinataria anch’essa di incarichi legati alla gestione del sequestro Rappa, perché dovrebbe esserci Ticali, che poveretto ha intascato, pare, attenzione, la sua parcella. E poi, quando c’è in mezzo l’amore…Dall’inchiesta, al momento, escono puliti una serie di altri nomi di magistrati, politici, avvocati, giornalisti che hanno ruotato intorno a questo sistema, che hanno favorito l’ascesa della Saguto al posto di vertice che occupava e hanno provato a difenderne la linea d’azione. Ma soprattutto ne esce fuori l’operato degli amministratori giudiziari che hanno raso al suolo le aziende loro affidate, che hanno fatto mangiare, con i pezzi di queste aziende i loro amici, che hanno distrutto intere economie e lasciato numerose famiglie in mezzo alla strada. Costoro non pagheranno e non c’è da illudersi che possano in qualche modo pagare, perché, né le attuali norme, né quelle che si stanno discutendo al Senato nel disegno di legge che dovrebbe rivedere tutta la materia delle norme antimafia, non è previsto che possa pagare né l’amministratore giudiziario, né il giudice che lo ha nominato, e che dovrebbe essere responsabile del suo operato. Quindi, conclusione: nessuna delle vittime di questo criminale sistema di potere potrà essere risarcita, anche nell’eventuale caso di condanna di alcuni dei responsabili. Tutto in nome dello stato italiano…

Collovà e l’antimafia delle sinergie, scrive il 4 aprile 2017 Salvo Vitale su "Telejato". Abbiamo incontrato, nel corso delle nostre inchieste, l’amministratore giudiziario Collovà parlando, dell’azienda agricola Savignano, uno dei più grandi poderi della Toscana, già di proprietà di Giuseppe Piazza e affidato, in amministrazione giudiziaria, così come del resto tutti i suoi beni, a Cappellano Seminara. Nel suo libro Confische spa racconta che, essendo andato in Toscana per una verifica su incarico del tribunale di Palermo, assieme a Cappellano, a bordo di una jeep, girarono per un’intera giornata senza riuscire a circoscrivere l’estensione della proprietà. Collovà era già nelle grazie dell’Ufficio misure di prevenzioni sin dal 1995, allorché gli era stato affidato il sequestro dei beni di Antonino Madonia e successivamente quello di altri mafiosi di spicco, come Noicolò Eucaliptus di Gela, Francesco Paolo Bontade, fratello di Stefano, Marcianò, Inzerillo, Mannino, Marcello Sultano, D’Agati Giovanni Francesco Zummo. A quest’ultimo, assieme a Francesco Civello, veniva sequestrato l’intero capitale il 23.9.2002, in quanto ritenuti prestanomi di Vito Ciancimino legati al re dei costruttori palermitani Vincenzo Piazza, suocero di Ignazio Zummo, figlio di Francesco e uomo della cosca mafiosa dei fratelli Graviano di Brancaccio, al quale in precedenza erano stati confiscati beni per oltre mille miliardi di lire. A Francesco Zummo, arrestato il 28 novembre 2001 per concorso in associazione mafiosa, erano state sequestrate 4 quote societarie di due imprese edili di Palermo (San Pietro Costruzioni srl) e di un’azienda agricola di Terrasini (Agricola Sif sas) intestata a Flora Zummo, figlia di Francesco.

Altro amministratore nominato, Andrea Dara, uno della cupola. Condannato, in primo giudizio a cinque anni, per concorso in associazione mafiosa. Il 15 aprile 2009 Zummo è stato assolto, assieme al figlio Ignazio (condannato a tre anni), alla moglie Teresa Macaluso e alle figlie Sonia, Gabriella e Flora, già assolte dal Gup. I giudici hanno disposto anche la restituzione dei beni che il Gup aveva confiscato: si tratta delle società Quadrifoglio immobiliare, Gardenia e Mec. Gli Zummo sono anche assolti o prescritti dall’accusa di fittizia intestazione di beni, per 13 milioni di euro, in concorso con l’avvocato milanese Paolo Sciumè, il quale avrebbe dato indicazioni per occultare una parte del loro patrimonio in un paradiso fiscale, presso la ArnerBank, alle Bahamas, tramite uno dei suoi fondatori, Nicola Brivetti, molto legato a Berlusconi. Quasi tutti i beni degli Zummo, malgrado le assoluzioni e le disposizioni di dissequestro, sono sempre sotto amministrazione giudiziaria, oggetto di procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione. L’amministrazione giudiziaria è passata disinvoltamente da Dara a Elio Collovà e viceversa anche in altri casi, vedasi per esempio il sequestro del Gruppo Immobiliare Gitex e della Romana costruzioni spa fatto il 26.11.2001, della Rovigo Costruzioni, della Immobiliare Quadrifoglio, della Ponte Tresa costruzioni, tutte con sede in Viale Regione Siciliana 7275 Palermo.

Collovà ha una carriera di tutto rispetto, di dottore commercialista, di revisore dei conti, di perito del tribunale sia della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, incaricato di consulenze tecniche e di amministrazioni giudiziarie distribuite tra le procure di Trapani, Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Messina e persino Cuneo. È considerato un autentico “esperto” delle misure di prevenzione, di sezioni fallimentari, di riciclaggio, di illeciti nella pubblica amministrazione, autore di risposte a quesiti e interpelli inoltrati al Ministero delle Finanze, per sette anni revisore dei conti del comune di Palermo e collaboratore della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna.

Parallelamente a quella di Zummo si sviluppa la vicenda di Pietro Di Vincenzo, un imprenditore già presidente di Confindustria Caltanissetta. Arrestato nel febbraio 2002 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Di Vincenzo fu condannato in primo grado e assolto dalla Corte d’appello di Roma nell’aprile del 2008. Più recentemente è stato condannato dal tribunale di Caltanissetta a 10 anni di reclusione per estorsione ai danni dei suoi dipendenti, a cui avrebbe dato meno soldi di quanto risultasse in busta paga. Nella requisitoria al processo d’appello sulla confisca confermata i procuratori generali Roberto Scarpinato e Franca Imbergamo avevano sottolineato la vicinanza di Di Vincenzo con Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra. Grazie alle sue collusioni con Cosa nostra avrebbe ingrossato il suo patrimonio. Accusa respinta dal difensore dell’imprenditore, l’avvocato Gioacchino Genchi: “Non c’è una sola sentenza a confermare l’assunto accusatorio della Procura generale che ritiene illegittima la provenienza del patrimonio”. Nel corso della sua arringa difensiva, Genchi aveva aggiunto: “Di Vincenzo pagava il pizzo, ha subito estorsioni. Sicuramente ha dovuto piegarsi ai compromessi e agli accordi che regolano il mondo dell’imprenditoria. Ha pure pagato il pizzo, ma se è stato sottoposto a estorsioni come si può affermare che era vicino alla mafia? Vi risulta che la mafia faccia pagare il pizzo a chi considera amico?”

I beni di Di Vincenzo, posti sotto sequestro, ammontano a 280 milioni e vengono affidati, nel 2009 ad Elio Collovà il quale ha un colpo di genio, sapendo di potere contare sull’assenso delle procure di Palermo e Caltanissetta che gli hanno dato le amministrazioni Zummo e Di Vincenzo. Crea una nuova azienda, la AG Sinergie, con capitale di 6,4 milioni, nella quale confluiscono i beni di quattro aziende del gruppo Zummo, compra con questi capitali dalla Palmintelli di Caltanissetta, del gruppo Di Vincenzo, un’area di 5.400 m.q. al centro di Caltanissetta, con rispettiva concessione edilizia rilasciata, ottiene da Banca Nuova un prestito di 9 milioni e affida i lavori alla Di Vincenzo spa. Collovà afferma, in un’intervista, che si tratta di un’operazione di 24 milioni di euro. C’è lavoro per una parte dei 500 operai della Di Vincenzo, per la costruzione di quello che ampollosamente viene definito il palazzo della legalità e tutti, giornalisti, politici, magistrati, imprenditori, si mettono a decantare questa operazione “geniale ed unica nel suo genere in tutta Italia”, cioè “l’antimafia che diventa imprenditrice“, i risvolti positivi che ricadono sull’occupazione, sull’economia e persino sull’assetto urbanistico, per una così intelligente operazione di sinergia tra due imprese confiscate. Ma proprio sulle cifra c’è qualcosa che rimette in discussione tutto il “sano e intelligente” operato di Collovà, a partire dalla vendita “a se stesso”, in quanto amministratore sia del gruppo che vende che del gruppo che acquista: la valutazione del terreno della Palmintelli è stimata in 6 milioni 400 mila euro, ma in realtà, chi ha seguito il servizio de Le Iene del 2 aprile si è reso conto che, secondo gli intermediari intervistati, quell’area valeva meno della metà. All’atto della costruzione sono state rilevate alcune situazioni abnormi alle quali nè postiglione, prefetto Nazionale dell’Agenzia Beni Sequestrati e Confiscati, nè lo stesso Collovà, che si è prestato all’intervista, hanno saputo rispondere. Primo fra tutti il doppio incarico di Collovà e quindi la doppia retribuzione di amministratore giudiziario e di presidente del consiglio di amministrazione della AG Sinergie. Il solo Collovà, nei sette anni di amministrazione giudiziaria avrebbe incassato 2 milioni di euro, ma la totalità dei compensi si aggira sui 10 milioni e comprende retribuzioni per incarichi dati a parenti, allo stesso figlio e all’architetto Teresi, fratello del noto magistrato, per i cui servigi sarebbe stata liquidata una parcella di 697 mila euro. Siamo al solito nodo della “famiglia”, di cui in Italia non si può fare a meno e per la quale tutto si può fare. Intanto gli appartamenti sono stati messi in vendita al doppio del prezzo di mercato e nessuno li acquista, mentre i circa 500 operai che ruotavano intorno alle imprese di DI Vincenzo sono in mobilitazione o disoccupati. Nel 2009, all’atto del sequestro la famiglia Passere aveva stipulato un contratto d’acquisto, sperando di prendere possesso della sua proprietà e scoprendo poi, che, in nome della legalità di cui si era fidata, il loro appartamento era occupato da un funzionario della DIA. Alla fine si è arrivato al solito assurdo giudiziario: assoluzione penale, sia per Zummo che per Di Vincenzi, e conferma della confisca preventiva dei beni.

NOTA: La presenza del fratello del procuratore Teresi in questa vicenda ha lasciato l’amaro in bocca al direttore di Telejato, Pino Maniaci che da anni si occupa di beni sequestrati e confiscati: “Teresi ha affermato, alla conferenza stampa in cui annunciava la mia incriminazione, di non avere bisogno dell’antimafia di Pino Maniaci. Avremmo preferito che non avesse bisogno neanche dell’antimafia di tutti coloro che dell’antimafia hanno fatto una fonte d’introiti di gran lunga superiori al valore delle prestazioni effettuate e che li mandasse sotto inchiesta per truffa, false attestazioni e altro. Purtroppo diventano elementi processuali i 50 euro chiesti al sindaco di Partinico e non il milione e centomila euro liquidato a Cappellano Seminara per le prestazioni a Villa Teresa, e non quello delle parcelle liquidate da Cappellano a Lorenzo Caramma, marito della Saguto, che sommate approssimativamente per difetto si aggirano sui 170 mila euro. Per non parlare delle parcelle di tutti i quotini i petali della margherita Saguto, dello stesso Collovà e dell’architetto Teresi. Se proprio dobbiamo dirla in siciliano, non è vero che la legge è uguale per tutti: c’è cu a pigghia nt’o culu e c’è cu futti”.

Palermo, il presunto estorsore viene assolto: le associazioni antiracket condannate a pagare le spese. A risarcire le spese processuali anche la famiglia dell'imprenditore che denunciò le pressioni della cosca. "Siamo amareggiati", dice il figlio. Il giudice assolve 11 presunti mafiosi e ne condanna 5. Scarcerato il vecchio boss di Bagheria Pino Scaduto, scrive Romina Marceca il 3 aprile 2017 su “La Repubblica”. Stupore e prese di posizione dopo la condanna del giudice Gigi Omar Modica al pagamento delle spese processuali da parte della famiglia dell'estorsore che denunciò il pizzo e delle associazioni antiracket che si erano costituiti parti civili nel processo. La decisione è di ieri. Il giudice ha assolto 11 presunti capimafia, gregari ed estortori dei clan mafiosi di Bagheria, Villabate, Ficarazzi, Casteldaccia e Altavilla Milicia (quattro vengono scarcerati) e ne ha condannati 5. Per uno degli assolti Giovanni Mezzatesta arriva anche il rimborso delle spese processuali. «Siamo molto amareggiati. Oggi ci confronteremo con il nostro avvocato», dice Tommaso Toia, il figlio dell’imprenditore. «Impugneremo e faremo valutare alla corte d’Appello la correttezza di questa decisione», afferma Fausto Maria Amato, l’avvocato di Solidaria, Sos Impresa e Coordinamento delle vittime dell’estorsione, dell’usura, della mafia. «Il problema più grosso è comprendere come si arriva a un’assoluzione. Il giudice – dice Enrico Colajanni, volto storico di Libero Futuro – avrà avuto i suoi buoni motivi. Se questo determina un danno per le parti civili poi sarà la legge a stabilirlo. Noi non abbiamo un euro, penso che impugneremo il provvedimento. E di certo non abbiamo mai ottenuto nemmeno uno dei risarcimenti che ci sono stati riconosciuti. Spesso i mafiosi non hanno nulla di intestato». La decisione del giudice Modica arriva dopo la presa di posizione di altri giudici di cassare alcune parti civili nei processi di estorsione. I giudici ormai hanno capito l’antifona e cominciano a decimare le parti civili, sottolineando come non sia sufficiente uno «scopo sociale generico e astratto». Di certo questa sentenza si impone come un precedente per chi, assolto in un processo di mafia, vorrà rivalersi sulle parti civili. E così la famiglia degli imprenditori Toia che denunciò le pressioni della cosca dovrà risarcire i duemila euro di spese avanzate da Mezzatesta, insieme alle altri parti civili: il Comune di Ficarazzi, Addiopizzo, Sos Impresa Palermo, Confesercenti Palermo, la Fai, l'associazione anrtiracket e antiusura "Coordinamento delle vittime della estorsione, dell'usura e della mafia", Solidaria, Confindustria Palermo, Confcommercio, Libero Futuro, associazione antimafia e antiracket Libero Grassi, associazione antimafie e antiracket Paolo Borsellino, centro studio e iniziative culturali Pio La Torre. Il processo nasce da un'inchiesta della Dda di Palermo che, nel 2014, portò al fermo di 31 persone accusate a vario titolo di mafia, estorsione e favoreggiamento. I pm, nel corso della requisitoria, avevano chiesto condanne per 150 anni di carcere. Francesco Centineo e Silvestro Girgenti sono stati condannati a 6 anni e 8 mesi, Giacinto Di Salvo a 9 anni, Francesco Mineo a 7 anni e un mese e Pietro Liga a 6 anni 8 mesi. Tutti dovranno risarcire i danni riconosciuti, come provvisionale immediatamente esecutiva, alle parti civili costituite: i Comuni di Santa Flavia, Ficarazzi, Altavilla e Bagheria, alle vittime del racket e all'associazione antiracket Libero Futuro. L'indagine, alla quale hanno contribuito diverse vittime del racket, svelò che a pagare il pizzo al clan di Bagheria era anche una casa di riposo. Nella lista degli estortori c'erano anche agenzie di scommesse, autofficine, commercianti di pesce e 28 imprenditori edili. Gli assolti sono Salvatore Lauricella, Giovanni Mezzatesta, Umberto Guagliardo, Onofrio Morreale, Giacinto Tutino, Andrea Carbone, Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto, Giovanni Trapani, Gioacchino Mineo e Francesco Lombardo. Per l'anziano boss di Bagheria, Pino Scaduto, e Gino Mineo, il mafioso col pallino della poesia, è stata decisa la scarcerazione. Scaduto era al 41 bis dal 2008, Mineo da due mesi era agli arresti domiciliari. Scarcerati anche Umberto Guagliardo e Giacinto Tutino.

Accusato di estorsione e assolto. La vittima dovrà risarcirlo, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia" il 3 aprile 2017.  Ha denunciato il racket del pizzo e si è costituito parte civile contro i taglieggiatori. Nel frattempo è morto e la sua battaglia è stata continuata dai figli. Oggi il giudice ha assolto il presunto estorsore, Giovanni Mezzatesta (assistito dall'avvocato Salvo Priola) e ha condannato gli eredi dell'imprenditore Giuseppe Toia - i figli Daniele, Tommaso e Fabrizio - a pagare le spese sostenute per il processo dall'imputato. Ai costi del procedimento dovranno partecipare anche le associazioni antiracket -Libero futuro, Addiopizzo, associazione Paolo Borsellino, Fai e Centro Pio La Torre, pure costituitesi parte civile, e il Comune di Ficarazzi. La decisione è del gup, Gigi Omar Modica, e dovrebbe essere collegata al fatto che già la Cassazione aveva annullato il semplice obbligo di dimora imposto a Mezzatesta ritenendo che nei suoi confronti non ci fossero neppure i semplici indizi di colpevolezza. Nonostante la sentenza della Cassazione è arrivata lo stesso la costituzione di parte civile. Da amico dei boss a stritolato dai boss. “Mi consideravano praticamente come la loro cassa privata.”, aveva raccontato Domenico Toia, ucciso da una brutta malattia. Toia si era ribellato al racket nel 2013. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta le commesse, pubbliche e private, però, arrivavano a pioggia. La mafia che, per stessa ammissione dell'imprenditore, lo aveva agevolato alla fine gli avrebbe presentato il conto. Forse è per questa passata contiguità che è caduta l'estorsione, ma per saperlo si dovranno attendere le motivazioni. I boss si fecero vivi per la prima volta “verso la fine degli anni 80-inizi anni '90, ancor prima che venisse pubblicato il bando relativo alla manutenzione dell'impianto di illuminazione pubblica comunale di Bagheria”. Poi, qualcuno dell'ufficio tecnico gli fece sapere che "gli amici avrebbero avuto il piacere dell'aggiudicazione dell'appalto alla mia ditta”. E aggiudicazione fu. Subito dopo cominciarono le richieste di assunzioni di parenti e amici dei mafiosi. E soprattutto di soldi. Per la precisione “3 milioni di lire al mese per i parenti di Pino Scaduto, che nel frattempo era finito in cella”, per un totale di 360 milioni.

Dal 41 bis alla scarcerazione. Liberi il boss e il suo vice poeta, scrive ancora Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia" il 3 aprile 2017. Il padrino e il suo vice. Così venivano descritti dagli investigatori. L'anziano boss di Bagheria, Pino Scaduto, e Gino Mineo, il mafioso che amava la poesia, condividono in queste ore la scarcerazione. Il primo passa dal 41 bis, regime a cui era sottoposto dal 2008, alla libertà. Il secondo, invece, da due mesi era agli arresti domiciliari. Scaduto e Mineo erano stati condannato perché presero parte alla restaurazione di Cosa nostra stoppata dal blitz dei carabinieri denominato Perseo. Ora entrambi, assistiti dall'avvocato Jimmy D'Azzò, sono stati assolti dal giudice per l'udienza preliminare Gigi Omar Modica che ne ha ordinato l'immediata scarcerazione. Così come per Umberto Guagliardo e Giacinto Tutino difesi dagli Antonio Turrisi, Salvo Priola e Raffaele Bonsignore. “Un intimo amico mio che sta assime a me…”, diceva Scaduto parlando di Mineo al quale nel gennaio scorso erano stati concessi gli arresti in casa con il parere favorevole della stessa Procura. L'avvocato D'Azzò aveva tracciato il profilo di un uomo che in carcere sarebbe cambiato. A Voghera ha iniziato a scrivere poesie e sceneggiature di spettacoli teatrali. Niente a che vedere con il mafioso che, dopo, avere già scontato una pena negli anni Novanta, finì di nuovo in carcere nel 2008. Ora la notizia dell'assoluzione che chiude le sue pendenze giudiziarie.

Sempre in riferimento a quel giudice....

“Erano minacciati di morte”, il giudice di Palermo assolve due scafisti. Costretti a pilotare un gommone dalla Libia alla Sicilia. Nel naufragio erano affogati in 12. I pm volevano l’ergastolo. Il dramma. Nel corso della traversata il gommone si era forato. Erano morti 12 migranti, scrive l'8/09/2016 Riccardo Arena su “La Stampa”. Scafisti per caso, scafisti per forza: un giudice di Palermo assolve due migranti, accusati di avere pilotato un gommone stracarico di altri disperati come loro, 12 dei quali annegarono perché l’imbarcazione di fortuna si sgonfiò nel Canale di Sicilia, durante la traversata tra la Libia e la Sicilia. I due imputati, che rispondevano di omicidio plurimo, sono stati assolti dal gup Gigi Omar Modica col rito abbreviato: applicata la discriminante dello «stato di necessità», perché i due fecero da scafisti ma non decisero «autonomamente e liberamente di avventurarsi per il Mediterraneo alla guida di un mezzo di fortuna, carico all’inverosimile di persone», con un centinaio di passeggeri in un natante di dieci metri. Tutto fu organizzato piuttosto da «soggetti libici armati», che minacciarono i due, ieri assolti perché il fatto non costituisce reato. Sentenza a sorpresa, quella emessa nei confronti di Jammeh Sulieman, di 21 anni, originario del Senegal, e Dampha Bakary, di 24, gambiano, che sono stati anche rimessi in libertà: e contro di loro, difesi dagli avvocati Cinzia Pecoraro e Chiara Bonafede e imputati di omicidio plurimo, la Procura, che aveva chiesto l’ergastolo, si prepara a presentare il ricorso in appello. La decisione provoca sconcerto tra i pm (il titolare del fascicolo è Claudio Camilleri, coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia), che tuttavia non fanno commenti. Oltre che sulla mancata dimostrazione del legame tra i due imputati e i libici trafficanti di uomini, la motivazione, racchiusa in 17 pagine, punta anche su un altro aspetto considerato fondamentale dalla Procura, la credibilità degli altri migranti. Il gup Modica manifesta infatti dubbi sulla genuinità di testimonianze che consentono di ottenere il permesso di soggiorno («beneficio non secondario») e parla di «preciso interesse a rendere dichiarazioni accusatorie», che per questo motivo «devono essere sottoposte ad un attento vaglio di credibilità intrinseca ed estrinseca». La traversata oggetto dell’inchiesta risale al luglio 2015: i passeggeri superstiti del gommone furono salvati dalla nave Dattilo e trasportati al porto di Palermo. Sulieman e Bakary furono individuati grazie alle testimonianze raccolte - non senza difficoltà, dati i problemi di comprensione di lingue e dialetti - dalla polizia. A parlare furono soprattutto tre maghrebini, le cui deposizioni sono apparse però contraddittorie e per niente coerenti al gup. Sin dall’inizio gli avvocati Pecoraro e Bonafede avevano sostenuto che i libici, armati di kalashnikov e attrezzati per queste operazioni, per evitare l’arresto di loro uomini, ricorressero a minacce e pesanti intimidazioni nei confronti di alcuni passeggeri, scelti a caso, costringendoli a pilotare da sé le imbarcazioni di fortuna. Il giudice concorda con i difensori: i due scafisti per forza «non avevano altra scelta se non quella di commettere i reati» a loro attribuiti, «per salvare la loro vita da una situazione superiore alla loro volontà». Non parlavano la lingua dei libici, non si capivano nemmeno tra di loro, Sulieman e Bakary («Nessuno dei testi riferisce di un ruolo organizzativo di tipo preparatorio») e, «quando giungono in spiaggia, trovano già il natante carico di migranti... sotto la minaccia di armi da guerra non possono che accondiscendere alla determinazione dei libici su chi dovesse guidare l’imbarcazione. Tornare indietro sarebbe stato un atto del tutto scellerato». Si sarebbero opposti infatti gli altri migranti, che avevano «pagato un prezzo esoso», ma il rischio di essere uccisi dai trafficanti di uomini sarebbe stato molto concreto. «Proseguire invece nella rotta - conclude la sentenza - poteva significare invece coltivare una qualche speranza di giungere sani e salvi in un Paese sicuro e libero come l’Italia». 

Anche un magistrato fra i clienti dei pusher. Mille consumatori nella rete delle indagini. Quindici avvocati, un carabiniere, un dentista, un assistente di volo, due noti ristoratori. Un giro d'affari da 300mila euro al mese, scrive Salvo Palazzolo il 15 febbraio 2017 su "La Repubblica". C'è anche un magistrato in servizio ad Agrigento fra i clienti degli spacciatori, era in contatto con Antonino Di Betta, uno degli arrestati del blitz della squadra mobile. E' lunghissima la lista dei consumatori finiti nella rete dell'indagine. Quindici avvocati, un appuntato dei carabinieri, un dentista, un assistente di volo, un assicuratore, alcuni commercianti e due noti ristoratori del centro città. L’ultima inchiesta della procura diretta da Francesco Lo Voi su due gruppi di attivissimi spacciatori ha registrato 919 clienti. I consumatori di polvere bianca chiamavano a tutte le ore i cinque pusher arrestati la scorsa notte: si tratta di Stefano Macaluso, 32 anni; Antonino Di Betta, 27; Danilo Biancucci, 27; Giovanni Fiorellino, 25; Alessandro La Dolcetta, 21. Gravitavano tutti nella zona della Zisa, sono delle vecchie conoscenze delle forze dell’ordine. Offrivano la sostanza stupefacente a prezzi concorrenziali: 50 euro per due dosi. Ricevevano una media di 300-400 chiamate al giorno, 30mila chiamate in tre mesi. Numeri che offrono uno spaccato inquietante del consumo di cocaina a Palermo. Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Maurizio Agnello, hanno svelato una vera e propria agenzia dello spaccio, che era attiva 24 ore su 24. I due gruppi erano specializzati nelle consegne a domicilio. I clienti facevano riferimento a due utenze cellulari, una sorta di call center, in cui si alternavano i componenti delle bande. Molti dei clienti sono stati già segnalati alla prefettura, come assuntori abituali di droga. Acquistavano dalle due alle sei dosi a settimana. Il boom di richieste era nel week-end. Le indagini della sezione Narcotici proseguono per accertare i componenti dell’organizzazione che riforniva di droga i due gruppi. Il giro d’affari mensile dello spaccio è stato stimato in 300mila euro. Fra i clienti anche molti giovani, studenti universitari.

Il giudice di Agrigento sorpreso con lo spacciatore. Si allarga l'inchiesta sulla cocaina nella città bene. La polizia è intervenuta mentre il magistrato incontrava il pusher nel centro di Palermo. E lui ha mostrato il tesserino agli agenti, scrive Salvo Palazzolo il 16 febbraio 2017 su "La Repubblica". Venerdì tre febbraio, il telefonino di Antonino Di Betta, attivissimo spacciatore della cosiddetta “Palermo bene”, è rovente. Nel fine settimana, è sempre così. «Compare, dove sei?», gli chiede un giovane. Una telefonata come tante, quella sera. Però, l’uomo che chiama Di Betta sembra avere particolarmente fretta. È un giudice, ha 35 anni, è in servizio al tribunale penale di Agrigento. Ma i poliziotti della Narcotici ancora non lo sanno: da ore stanno intercettando il pusher e stanno seguendo i suoi movimenti. Una squadra è incollata alle cuffie, nella sala ascolto della squadra mobile; un’altra è mimetizzata fra i ragazzi della movida e osserva ogni passo di Antonino Di Betta, che è sfuggente, prudente più che mai, gli investigatori non sono ancora riusciti a sorprenderlo con un cliente. Da qualche minuto è passata la mezzanotte. Il giudice telefona tre volte allo spacciatore per avere un appuntamento. «Compare dove sei?», ripete. «Sono in via Mazzini», gli dice Di Betta. È davanti al Chatulle pub, uno dei locali più gettonati delle notti palermitane. Lo spacciatore e il giudice si salutano, scambiano qualche parola. È un attimo. I ragazzi della Narcotici piombano sull’insolita coppia. Di Betta ha 25 dosi di cocaina in tasca, evidentemente sperava di fare grandi affari. Invece, si ritrova in manette. L’uomo che è accanto a lui non ha droga in mano, e neanche in tasca. Ma appare comunque nervoso. Mette la mano nella giacca e tira fuori un tesserino: «Sono un giudice», dice. Come a chiedere chissà cosa. Ma fa poca differenza per i poliziotti della Mobile di Palermo. Si segue la procedura di ogni volta, si segue la legge. E, adesso, c’è anche il nome del giudice nella lista dei clienti eccellenti degli spacciatori della cosiddetta “Palermo bene”. Accanto ai 15 avvocati, all’assistente di volo, a due noti ristoratori del centro città, al dentista, all’assicuratore.

Pizza, vino e droga: mille clienti. Quelle notti bianche a tutta coca, scrive Riccardo Lo Verso il Riccardo Lo Verso, Mercoledì 15 Febbraio 2017, su "Live Sicilia". Dicembre 2016. Una coppia è seduta al tavolo di una delle pizzerie più apprezzate della città. L'uomo prende il telefonino e compone il numero di Antonino Di Betta, uno dei cinque arrestati del blitz antidroga della Squadra mobile di Palermo. Quel telefono era sotto controllo e ha registrato una delle tantissime ordinazioni di cocaina. I numeri fotografano un fenomeno dilagante. I clienti censiti sono stati quasi mille. Poi, ci sono quelli non identificati che fa schizzare ad oltre seicento il numero dei consumatori. Uomini e donne, un magistrato che lavora fuori città, avvocati, commercianti, assicuratori, gestori di pizzerie, ristoranti e botteghe di generi alimentari molto conosciuti in città, assistenti di volo, studenti, un dentista e forse anche un carabiniere: l'inchiesta svela livelli preoccupanti di consumo di cocaina.  In pochi mesi gli agenti coordinati dal procuratore Francesco Lo Voi e dal sostituto Maurizio Agnello hanno registrato ottanta richieste di droga al giorno, che raddoppiavano nei giorni festivi, finendo col toccare quota 22 mila conversazioni in appena due mesi. Oltre cinquemila messaggi. Veniva spacciata un chilo di cocaina al mese che giungeva dai mercati, calabrese e campano, per un giro d'affari di 400 mila euro. Il capitolo investigativo sugli approvvigionamenti resta aperto. Di Betta e Stefano Macaluso avevano un gran bel da fare per accontentare i clienti, di cui una buona fetta era composta da avvocati, giovani e meno giovani, ora segnalati alla Prefettura come consumatori. Il telefono di servizio dei pusher era attivo 24 ore su 24. Le consegne erano immediate, gli spacciatori si muovevano in sella a scattanti scooter modello Honda Sh. Consegne immediate, ma anche alla luce del sole. Spacciatore e consumatori non si infrattavano in luoghi bui e isolati. Sceglievano locali molto frequentati e strade affollate. Di sera, ma anche durante la pausa pranzo. Si mescolavano fra la gente, credendosi forse al di sopra di ogni sospetto. Frequentavano i locali più alla moda. Ed invece i poliziotti si erano appostati a poche decine di metri da loro. Leggere i passaggi delle intercettazioni significa instillare il dubbio che uno dei tanti episodi di spaccio possa essere avvenuto sotto i nostri occhi. “In via Mazzini”, “al tennis”, “al bowling”, “in via Sciuti”, “al Politema”, “al Motel Agip”: Macaluso e soci non temevano di essere scoperti. Le intercettazioni sono zeppe di nomi di strade ma anche di pub, enoteche, bar, ed altri esercizi commerciali dove venivano fissati gli appuntamenti. Per non parlare degli indirizzi degli studi legali, molti nella zona del Palazzo di giustizia, e delle abitazioni dei tanti avvocati-clienti. Il loro non era un consumo occasione, ma un'abitudine. Le cimici dei poliziotti hanno registrato 50, 70, 90 contatti fra ogni singolo avvocato e il pusher. Un paio di dosi costavano cinquanta euro. “... vado a fare bancomat e ci vediamo sotto lo studio”, diceva un legale. Ce n'è abbastanza per sostenere che “gli acquirenti cercavano insistentemente i pusher - si legge nel provvedimento del giudice per le indagini preliminari Guglielmo Nicastro - chiedendo loro una o più dosi e dichiarandosi pronti a consegnare il denaro dandosi appuntamento nei pressi dei rispettivi studi legali ovvero nei locali pubblici centro della cosiddetta movida palermitana.

Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro . E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell'anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un'Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l'effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l'aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l'azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l'affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell'esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell'elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è un’autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.

Chi sono i nemici di Di Matteo nel Palazzo di Giustizia? L’inquietante denuncia del PM, scrive Salvatore Parlagreco il 18 marzo 2017 su "Sicilia Informazioni". Non capirò mai perché il magistrato è l’unico professionista dipendente dallo stato (in pratica un impiegato statale) che qualunque cosa faccia nel suo ufficio, ha sempre da recriminare nei confronti di lobby, poteri occulti, discriminazioni, etc. Se non riceve una promozione, allora c’è sotto qualcuno o qualcosa che lo ostacola nelle sue attività (lì si aprono sempre scenari inquietanti, dietrologie che lascino presagire chissà cosa), se invece la promozione la riceve, allora subito a fare dietrologia sul passato perché il magistrato è un indomito lavoratore che in caso di trasferimento deve subito precisare che non fugge anche se nessuno ancora lo aveva fatto notare. Ma quando finirà mai tutto questo …Il commento, ospitato dalla nostra testata, è del signor Andrea. Rappresenta una parte dell’opinione pubblica, quella che dà segni di insofferenza verso una categoria di dipendenti dello Stato che pure, nel servizio, si guadagna la paga e, talvolta, rischia la vita. Ha qualche fondamento questa insofferenza? La recriminazione del magistrato è più che comprensibile, la denuncia invece ha ben altro peso. Il magistrato non può “solo” denunciare al pari di un semplice cittadino, deve sottoporre a indagine il sospetto. Deve aprire un fascicolo, la legge non gli consente di fare diversamente, ha l’obbligo di compiere accertamenti, al termine dei quali farà conoscere l’esito della sua attività. Non può sfuggire cioè alla notitia criminis. Il nostro lettore, Andrea, ha postato il commento sull’articolo che riferiva le recriminazioni del valente magistrato inquirente Nino Di Matteo, il quale denunciava di avere subito ostruzionismi ed ostacoli nel corso del suo lavoro a Palermo, particolarmente delicato perché il magistrato rappresenta la pubblica accusa nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. Il Csm ha accolto la sua domanda di trasferimento alla Direzione Nazionale Antimafia di Roma, aspirazione che non aveva potuto coronare. L’attesa non gli avrebbe reso giustizia.  Il “placet” del Csm avrebbe dovuto essere accolto con favore da Di Matteo, e così è stato a botta calda, ma trascorso qualche giorno, con interviste e dichiarazioni molto nette, il PM palermitano ci ha resi edotti delle difficoltà incontrate a Palermo nell’espletamento del suo lavoro. Di Matteo dice di essere stato costretto ad andare in Dna per potere svolgere appropriatamente la sua attività, e continuare indagini cui si dedica ormai da anni. Aggiunge di avere affrontato “un percorso irto di ostacoli strumentalmente posti lungo il cammino”. Il suo trasferimento, precisa ancora, “non è una fuga”, ma un tentativo di arrivare ai risultato cui tende godendo della libertà necessaria (a Palermo gli affidavano anche “rapine e furti”…). La denuncia del PM suscita domande inquietanti: chi aveva interesse a lastricare di ostacoli il cammino verso la verità che Di Matteo percorre con tenacia? Gelosie di mestiere oppure contiguità inconfessabili? Di qualunque cosa si tratti, dobbiamo prendere atto che in qualche luogo – Palermo o Roma – ci sarebbero, ancora oggi, personaggi importanti – nelle istituzione e nella magistratura – che mettono i bastoni fra le ruote a chi indaga sugli inconfessabili patteggiamenti con il crimine organizzato. E’ questo che siamo portati a credere. La realtà, ovviamente, potrebbe essere altra. Una delle forze politiche più importanti del Paese, il Movimento 5 Stella, si è mobilitato, per denunciare, a sua volta “gli inaccettabili ostruzionismi nella gestione dell’antimafia”. I sospetti di Di Matteo suscitano legittimamente il bisogno di vederci chiaro. Ma i 5 Stelle hanno fatto altro. Con una tempestività encomiabile hanno concesso la cittadinanza del comune di Roma al PM di Palermo. Il conferimento non è una novità, Di Matteo ha collezionato, grazie soprattutto ai 5 Stelle, la cittadinanza onoraria di tante città italiane, ma ottenere la cittadinanza della Capitale ha ben altro rilievo. I riconoscimenti, perorati dai 5 Stelle, premiano la sagacia del magistrato, la sua dedizione, ma anche la sua tesi, cioè le colpevolezza di servitori dello Stato coinvolti nella trattativa che siedono sul banco degli imputati. Non si processa a Palermo solo degli uomini, ma un “regime”, che i 5 Stelle vogliono abbattere perché lo ritengono ancora in sella. C’è dunque anche un interesse politico affinché la bilancia penda dalla parte della pubblica accusa. Che cosa accadrà se il processo si conclude con una assoluzione degli imputati? La verità processuale conterà poco o niente, prevedono in tanti, si sospetterà che siano prevalsi gli ostruzionismi denunciati dal PM. Una ragione in più per esercitare l’attitudine alla morigeratezza. Nel corso di una manifestazione pubblica del M5S, inoltre, è stata avanzata la proposta di una candidatura di Nino Di Matteo alle prossime consultazioni. Il leader 5 Stelle siciliano, Cancelleri, ha spiegato però che sarà la consultazione in rete a decidere. Se dovesse accadere, non abbiamo dubbi sull’esito della consultazione on line, favorevole al PM. E’ possibile, anzi certo, che Di Matteo non c’entri niente con le volontà di annessione dei 5 Stelle, ma questo non cambia le cose, grazie al battage grillino, che lo schiera “a sua insaputa”.Quando le denunce di un magistrato non aprono fascicoli, le implicazioni sono inevitabili: la prima è propriamente legata all’attività inquisitoria, perché lascia impuniti comportamenti scorretti, e la seconda, di natura politica, fa nascere ingiusti sospetti su presunti interessi politici o ideologici del magistrato nell’espletamento della sua attività, facendogli perdere il fumus dell’imparzialità. La popolarità non paga nel delicato compito di una toga. Una cosa è amare la giustizia, anche quando non ci piace, un’altra amare il singolo magistrato che colpisce la parte politica e gli uomini che detestiamo. Vi pongo un quesito: avete avuto notizia di applausi indirizzati all’arbitro alla fine di una partita di calcio, basket, pallavolo ecc? Si inneggia il direttore di gara che punisce gli avversari durante la competizione su un singolo episodio, mai la sua imparzialità a fine gara. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non furono molto amati in vita, perché pestavano i calli a destra e manca, come capita a chiunque faccia il mestiere di giudicare. Solo “dopo” sono arrivati gli applausi, strameritati.

Processo Trattativa, se Stato e Mafia sono…coimputati, chi rappresenta la pubblica accusa? Scrive Salvatore Parlagreco il 19 marzo 2017 su "Sicilia Informazioni". Il lettore Paolo Faraone, commentando l’articolo a mia firma, dedicato al trasferimento del P.M. dalla Procura di Palermo alla Direzione nazionale antimafia, trasferimento che corona una aspirazione del magistrato, mi ha chiesto quale fosse la funzione del P.M Nino Di Matteo nel processo per la Trattativa Stato-Mafia. La risposta era semplice: “la funzione di Di Matteo è di rappresentante della pubblica accusa…”. Ma ho aggiunto, sospettando che fosse insufficiente: “Lo so che non basta, ma cosa vorrebbe farmi dire?” Il signor Paolo Faraone, a questo punto, ha sentito il bisogno di giustificarsi, non era sua intenzione fare alcuna provocazione, sospetto che invero non avevo avuto. Poi ha affermato: “Su questo potrei essere d’accordo ma lui rappresenta la pubblica accusa di chi?” Se il lettore si fosse fermato qui, mi avrebbe lasciato in balia al “non detto”, “ma anche”, aggettivi e nuove domande per sfuggire al quesito, forse non avrei trovato una via d’uscita. Per buona sorte ha proseguito nel suo ragionamento. “Ah, forse Lei intende che è la Pubblica accusa in rappresentanza dello Stato”, ha incalzato, “ma se non sbaglio, in una Trattativa Stato/mafia (coimputati), la pubblica accusa chi rappresenta? Spero che Lei scusi il mio ardire, ha concluso il mio interlocutore, “ma io credo che da Ingroia in poi questa gente sfrutta il proprio ruolo per rappresentare solo se stessa.” Non sarei così drastico, come Paolo Faraone, perché sulla base degli elementi che possediamo il giudizio, tranchant, costituirebbe una illazione, non avendo prove né indizi utili per affermare che Cicero agisca “pro domo sua”.

«Se lo stato italiano volesse davvero sconfiggere la mafia, dovrebbe suicidarsi» Leonardo Sciascia

Vittorio Sgarbi il 4 maggio 2017 sul suo profilo facebook "Tra i beneficiari del «sistema Collovà» (con incarichi di progettazione per circa 1 milione di euro) c'è anche l'architetto Teresi, fratello del Pm antimafia Vittorio Teresi. Quest'ultimo il 4 maggio 2016 al quotidiano «La Repubblica» ha dichiarato: «Non ci serve l’antimafia del signor Pino Maniaci, noi facciamo antimafia ogni giorno. A noi piace l’antimafia pulita, sociale, che si occupa di contrasto a Cosa Nostra senza interessi personali». A voi ogni commento".

Lettera aperta al procuratore antimafia Vittorio Teresi, scrive il 22 aprile 2017 "Telejato".

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. GIANFRANCO BECCHINA SCRIVE AL PROCURATORE ANTIMAFIA VITTORIO TERESI.

Signor procuratore Teresi, recentemente, ho seguito una sconvolgente inchiesta televisiva de Le Iene, sull’operato dell’amministratore giudiziario Elio Collovà. Personaggio, di cui, si dà il caso, abbia personalmente avuto modo di constatare la perversa maniera di amministrare i patrimoni affidatigli. Un servizio, quindi, altamente apprezzabile per aver messo inaspettatamente in luce l’attitudine del detto amministratore ad abusare di cariche ed incarichi nel mondo delle misure di prevenzione, dallo stesso troppo spesso considerati funzionali ai suoi interessi personali e a quelli, ancor più meschini, di bottega. Nulla di nuovo sotto il sole, si direbbe, se consideriamo che del malvezzo di incamerare beni altrui, abusando di posizioni dominanti, ne troviamo abbondanti riprove nella storia di tutti i tempi. Una condotta, quella del nostro amministratore, di una torbidezza più che inquietante, in totale contraddizione con le finalità di un’antimafia nata dall’eroico sacrificio di un lungo elenco di servitori fedeli alla legalità, dei quali nessuno dovrebbe potersi permettere di svilire i grandi meriti. E, ancor meno, di squalificare l’operato di coloro che nell’antimafia ci credono e continuano a profondervi il massimo impegno. E non escluderei, per certi versi, quegli imprenditori incolpevoli che, obtorto collo, sopportano la perdita dei loro beni senza neanche la consolazione di assistere al traghettamento della propria terra, che da troppo tempo brancola nel buio del compromesso morale, verso un’alba radiosa di legalità non più differibile; giammai ad avvicendamenti nell’eterno sistema – sin troppo facile da caratterizzare criminalmente – di cui si dovrebbe perdere la memoria, piuttosto che – parafrasando il presidente della Suprema Corte Davigo – perpetuarlo senza nemmeno vergognarsi. Non voglio farla lunga, signor Procuratore, ma nella storia portata alla luce da Le Iene, oltre agli innumerevoli pastrocchi, si evince l’esistenza di un importante incarico professionale a suo fratello, lautamente remunerato, relativo a perizie e progettazioni su beni sotto sequestro. Per tutti questi giorni sono rimasto nella vana attesa di leggere o ascoltare un suo intervento; una sua presa di posizione su quanto emerso nell’intervista; una smentita o precisazioni tout court. Non fosse che per non far pensare a favoritismi indotti dalla sua carica istituzionale. Non voglio, signor procuratore, fare lo storico di fatti e vicende, dei quali si parlerà in seguito – e se ne parlerà – quando emergerà pienamente la melma più stagionata dal profondo letamaio nel quale affonda l’Antimafia della banda Saguto, Seminara e – scopriamo adesso – Collovà e soci, con l’immancabile copertura istituzionale: giudici di merito compresi, che di superficialità non sembra abbiano mostrato di saper fare economia, considerato che è a loro che compete l’ultima parola. In ogni caso, quello che principalmente va chiarito, è il suo apparente coinvolgimento (a sua insaputa?), attraverso il ruolo di suo fratello, in una faccenda organizzata dall’amministratore giudiziario allo scopo evidente di trarre indebito profitto personale, attraverso le più che discutibili iniziative nell’amministrare beni per conto del sistema giudiziario antimafia. Le faccio grazia dell’insieme dei pastrocchi legati alla compravendita dei terreni, e alle relative opinabili valutazioni degli stessi – anche in termini dei futuri ricavi – nonché all’utilizzo dei capitali di una delle due aziende sequestrate a favore dell’altra, giusto per non incorrere in una ripetizione pedissequa di quanto è stato magistralmente trattato da Le Iene. È, mi ripeto, egregio procuratore, principalmente il ruolo di suo fratello – molto più significativo di tutto il resto dell’imbroglio – che va chiarito. Di suo fratello, dunque, architetto di professione, oggetto di incarichi professionali per conto del Collovà. “Che c’è di male?” dice con una invidiabile faccia di bronzo l’imperterrito amministratore nel corso dell’intervista. Il male c’è, ed è grave e grosso, signor procuratore Teresi. Stiamo parlando di suo fratello, remunerato ad abundantiam per prestazioni ad aziende in amministrazione giudiziaria per fatti di Mafia! Si rende conto, o glielo devo spiegare io, della gravità del fatto? Lei è consapevole, oppure no, del suo ruolo di procuratore antimafia? E, il giudice di merito che ha liquidato a suo fratello un compenso vicino al milione di euro, era al corrente di quello che stava facendo? È plausibile che nessuno abbia percepito l’anomalia di un simile azzardo operativo? È inammissibile, in nome dell’antimafia, dare licenza a ogni sorta di equivoci personaggi, materializzatisi improvvisamente dall’eterno sottobosco in agguato, di dilaniare tutto e tutti in perfetta coerenza con i sistemi del male che si pretende di combattere; attenti solamente al conseguimento di profitti che definire sporchi rappresenta il più pietoso degli eufemismi. Per non dire – e mi ripeto – di quanto questa realtà adombri l’impegno eroico di quella magistratura – di ieri e di oggi – che generosamente ha lottato, e lotta, contro quel coacervo di mali che mostra di persistere dove non dovrebbe. Siamo sempre lì, signor procuratore: l’architetto è suo fratello! E, purtroppo, lei non può ignorare che non poteva esserci spazio alcuno, nel modo più categorico, per consentire una così palese situazione che di dubbi ne alimenta più del necessario. Se c’è una tesi al riguardo, va sviscerata senza indugio alcuno. Tocca a lei farlo, interrompendo il suo eloquente silenzio sul servizio andato in onda. Ancor prima di trarre le dovute conseguenze del suo coinvolgimento – involontario per quanto possa essere stato – in tanta cupa vicenda. Intanto che l’operato di ognuno dei protagonisti verrà passato al pettine fine! Mi chiedo quanto questa orribile storia possa differenziarsi da quella della sua collega Saguto, che, forte della inaspettata stampella, potrà (terribile!) opportunamente dire: “lo facevamo in tanti!”. Un’ultima cosa: l’inqualificabile personaggio Collovà è uso amministrare trasferendo le liquidità delle aziende cadute sotto la sua rapacità a quelle prive di mezzi finanziari, ottenendo con questa tipologia di allegra gestione la possibilità di assegnarsi emolumenti multipli finché dura la pacchia allargata. Non facendosi scrupolo, quando non c’è più nulla da sfruttare, di consegnare all’oblio della storia aziende importanti e meritevoli di sopravvivere a patto di una gestione oculata. E so di cosa parlo, e anche lei dovrebbe saperlo, signor procuratore, considerato che un caso simile a quello trattato da “Le Iene” mi ha visto soccombere all’arrogante arbitrio del Collovà. Ma questa è un’altra storia che verrà dopo. Ad ogni buon conto, nell’ipotetico caso lei non avesse tuttora conoscenza del servizio televisivo de Le Iene, le trasmetto il relativo link perché possa ascoltarne gli scandalosi contenuti. Castelvetrano, 21 aprile 2017 Gianfranco Becchina 

P.S.: Forse, è il caso che io le ricordi una sua inconciliabile dichiarazione con gli assunti di cui sopra, da lei rilasciata il 4 maggio 2016 al quotidiano “la Repubblica”, e che qui di seguito le trascrivo: “Non ci serve l’antimafia del signor Pino Maniaci, noi facciamo antimafia ogni giorno. A noi piace l’antimafia pulita, sociale, che si occupa di contrasto a Cosa nostra senza interessi personali”. Eppure, non è passato molto tempo da tante lodevoli enunciazioni di principio. Non si impara mai … a riflettere, prima di parlare! Soprattutto in considerazione del fatto che le vicende narrate da “Le Iene”, sono ben anteriori alla sua dichiarazione. Gianfranco Becchina  

La patente antimafia. I buoni e i cattivi, scrive il 4 maggio 2017 "Telejato".

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA LETTERA DI JOE SERPE, UN NOSTRO LETTORE. L’AUTORE, CHE FA IL PUNTO ANCHE SULLE VICENDE GIUDIZIARIE CHE VEDONO COINVOLTO PINO MANIACI, SI ASSUME LA RESPONSABILITÀ DI QUELLO CHE SCRIVE.

Cari amici, oggi voglio raccontarvi una storia. Mi serve un po’ di tempo per raccontarvela, ma se avrete la pazienza di ascoltarmi, forse vi accorgerete che non sarà stato tutto tempo perso. I personaggi principali di questa storia sono tre, tutti siciliani. Ma la storia è italiana, nazionale, talmente nazionale che uno dei tre personaggi principali è, niente di meno che, l’attuale Presidente della Repubblica Italiana. Tutti e tre i personaggi sono (o sono stati) considerati protagonisti di alto spicco della lotta antimafia.

Ma cominciamo dal primo: Pino Maniaci, ex “eroe antimafia”. Pino Maniaci è il direttore di Telejato, una piccolissima emittente che ha fatto notizia in tutto il mondo per il suo impegno contro le attività criminali e mafiose a tutti i livelli. Partendo dal nulla è riuscita a raggiungere una visibilità internazionale. Arrivando a colpire anche potenti esponenti di spicco della magistratura e dei palazzi di giustizia. Tutti osannavano, tutti ammiravano, tutti solidarizzavano, molti si rodevano le mani in privato studiando il modo di mettere a tacere quel “cane rabbioso”, ma intanto tutti si facevano i selfie a braccetto con Pino Maniaci e, in sua assenza, col logo di Telejato. Andare a braccetto con Pino era uno di quei vessilli antimafia universalmente riconosciuti. Poi un bel giorno, il fango. Pino Maniaci viene mandato a giudizio, è sotto processo. Per estorsione! Avrebbe estorto qualche centinaio di euro a qualche sindaco per non parlar male della giunta comunale su Telejato. Su questa storia dell’estorsione non mi soffermo, altrimenti mi dilungherei troppo. Dico solo che se vorrete approfondire, potrete farlo, è tutto on-line. Torniamo a noi. Come sempre accade quando scatta un’indagine nei confronti di un personaggio noto, le autorità, attenendosi scrupolosamente alla prassi giurisprudenziale più corretta, hanno immediatamente passato le carte ai giornali per poter dar voce al Tribunale Morale del Popolo. Ma nel caso di Pino Maniaci addirittura i carabinieri di Palermo si sono scomodati a confezionare loro stessi un video montaggio in cui c’erano anche spezzoni scelti di conversazioni telefoniche private che ovviamente non avevano nessuna rilevanza penale, ma che comunque facevano da contorno per inquadrare il personaggio o, se vogliamo dirlo con un termine più tecnico, per sputtanarlo. E così i Giudici del Tribunale Morale del Popolo, sempre vigili e attenti, irreprensibili, ligi al dovere, velocissimamente hanno dato la sentenza. E i reati accertati sono gravi, vanno dal “pavoneggiamento” fino alla “scurrilità telefonica”, ma ancora più grave è il movente, anzi gravissimo: “relazione con amante molto più giovane di lui”. Cioè, diciamocelo chiaramente, senza giri di parole: se Pino Maniaci si è vantato della sua attività antimafia per farsi una scopata, allora Pino Maniaci non può essere un vero giornalista antimafia. Sì, è giusto così, perché il “vero” giornalista antimafia è un eroe, e un eroe non si vanta, non si pavoneggia, un eroe è umile, sobrio, elegante, modesto, anche un po’ malinconico, e soprattutto non pensa mai a scopare. Cioè, ma voi ve lo immaginate SuperMan che tenta di fare colpo su una donna dicendole al telefono cose del tipo «io sono potentissimo! tutti fanno quello che dico io!», ve lo immaginate cosa succederebbe? Ma no, dai, si perderebbe tutto l’incanto della narrazione eroica, infangherebbe tutta la categoria, e allora, giustamente, il giorno dopo vedremmo Batman, Wonder Woman, L’Uomo Torcia, L’Uomo Roccia, e perfino L’Uomo Gomma e La Donna Invisibile a prenderne le distanze, – ma giustamente! – a chiederne spiegazioni. Poco importano i meriti passati di SuperMan, o se era annoverato nell’Albo degli Eroi fino al giorno prima. Appena si viene a sapere che SuperMan si è vantato delle sue gesta al telefono con una sua amica, per giunta usando il turpiloquio – Il turpiloquio! -, allora chiaramente SuperMan non può essere più un vero eroe. Perché gli manca la perfezione dell’eroe, punto. E basta. È caduto il mito. È crollato il castello. E tutti quelli che si erano fatti i selfie con lui adesso devono correre ai ripari. E chissà invece come se la ridacchieranno contenti i nemici di SuperMan… «hihihihi! pochi spezzoni scelti di intercettazioni telefoniche private sono state meglio della kryptonite!». Ma il Tribunale Morale del Popolo è bello proprio per questo, applica una giurisprudenza chiara, semplice semplice, veloce, perfino un bambino potrebbe giudicare, niente cavilli, niente inutili orpelli garantistici, niente burocrazia, interrogatori, eccezioni, obiezioni, perdite di tempo, niente. Si va diritti alla sentenza. Bastano due o tre spezzoni di conversazioni telefoniche e la sentenza è pronta. Ci sono gli spezzoni? Esistono? Si è vantato? Ha detto anche “cazzo di eroe dei nostri tempi”? Non è un eroe! Basta. Facile, alla portata di tutti. Questa è la giustizia veloce che ci serve. Altro che irragionevole durata dei processi. Giustizia prêt-à-porter.

Passiamo ora al secondo personaggio, (rullo di tamburi) signore e signori, presentiamo adesso niente poco di meno che il Presidente della Repubblica Antimafia Sergio Mattarella. Uomo delle istituzioni, sobrio, elegante, affascinante, tutto d’un pezzo, gentile ma riservato, raccolto, tendenzialmente taciturno, quando parla ha voce calma, pacata, morbida, musicale, avvolto nel suo completo scuro, con i suoi modi candidi e la sua Fiat Panda grigia, è di una bellezza discreta e rassicurante. Ma al momento della sua elezione a presidente della repubblica, soprattutto è stata decantata la sua schiena: in molti tra politici e giornalisti hanno ammirato quella schiena presidenziale per la sua inenarrabile drittezza. Lui è uno di quelli che il titolo antimafia l’ha ottenuto purtroppo tragicamente: il fratello Piersanti è stato brutalmente ucciso dalla mafia nel 1980, mentre era Presidente della Regione Siciliana. Quale sia stato il preciso movente non è chiaro. Le ipotesi furono tante, persone come Leonardo Sciascia e Giovanni Falcone dubitarono che si fosse trattato di delitto mafioso, ma negli anni ’90 venne accertato in tribunale che si trattò di mafia. Non mi dilungo ulteriormente, ci sono tante pubblicazioni e documenti on-line per chi ne vuol sapere di più. Il presidente ha militato per circa un trentennio nella Democrazia Cristiana e proviene da una famiglia di politici di professione, tutti militanti nella Democrazia Cristiana siciliana. Il padre, Bernardo Mattarella, non godeva sempre di buona fama, venne accusato di reati, frequentazioni e connivenze gravissime, ma dobbiamo chiarire subito che non venne mai accertato nessun reato a suo carico, né tanto meno che avesse rapporti con la mafia. Del resto a quei tempi di mafia si parlava poco e niente, morì di morte naturale nel 1971. Sebbene fosse penalmente immacolato, diversi politici e giornalisti ne dissero tanto male, tra questi anche il noto Pippo Fava, poi ucciso dalla mafia nel 1984. Pippo Fava di Bernardo Mattarella scrisse: «Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta.» (da “I cento padroni di Palermo” di Giuseppe Fava – “I Siciliani”, giugno 1983). In ogni caso, comunque siano andate le cose, non sarebbe giusto che le eventuali colpe dei padri venissero scaricate sui figli… ma nemmeno gli eventuali meriti dei fratelli sui fratelli. O no?

E andiamo adesso al terzo personaggio, Claudio Fava. Giornalista e politico antimafia. Anche lui ha tragicamente conosciuto di persona la brutalità della mafia che ha ucciso suo padre, Pippo Fava, nel 1984. Sempre impegnato nella lotta antimafia ha svolto una lunga attività giornalistica e poi ha avviato una carriera politica in vari partiti. È riconosciuto come uno dei protagonisti di spicco della lotta antimafia ed è attualmente vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Quando il Tribunale Morale del Popolo ha ritirato la patente di eroe antimafia a Pino Maniaci, tra tutti gli atti di accusa che ho letto, mi è piaciuto in modo speciale proprio quello dell’onorevole Claudio Fava. È l’atto di accusa più onesto, perché dice subito la verità: «Dei cento euro forse pretesi da un sindaco se ne occuperanno i giudici per dirci se fu estorsione, bravata o solo minchioneria. Ma di ciò che ci riferiscono le intercettazioni, la risposta non la voglio dai giudici ma da Maniaci. Non chiacchiere su complotti e vendette mafiose: risposte! Voglio che dica – a me e agli altri che in questi anni hanno messo la loro faccia accanto alla sua – se quelle trascrizioni sono manipolate o se è vero che all’amica del cuore raccontava “…a me mi hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi”…» Capito? È un ragionamento lineare, logico, chiaro e schietto: poco importa se alla fine si scoprisse che Maniaci non ha estorto niente a nessuno e dunque che tutta l’accusa, oltre alla relativa violazione del segreto istruttorio e alla pubblicazione delle conversazioni private, era del tutto immotivata. Maniaci intanto deve darci le risposte su quello che ha detto in privato “con la sua amica del cuore”. Immagino l’interrogatorio:

C.: Imputato! È vero che lei, in oltraggio alla deontologia professionale del giornalista puro, si pavoneggiava privatamente al telefono con la sua amica del cuore?

P.: Sì vostro onore. Non posso negarlo. Mi “spacchìavo”.

C.: È vero poi anche che lei, con disdicevole scurrilità, appellava privatamente e telefonicamente i premi che lei riceveva per la sua attività giornalistica come «premi del cazzo di eroe dei nostri tempi»!?

P.: Sì, Vostro onore. È registrato.

C.: Davanti alla flagranza delle prove, chiedo a codesta Corte Morale del Popolo la cancellazione d’ufficio del sig. Giuseppe Maniaci dall’Ordine dei Giornalisti Antimafia e la cancellazione di tutti i premi giornalistici conferitigli, per i reati di “pavoneggiamento con amica” e “turpiloquio telefonico”!

L’intreccio: Ora che più o meno ho inquadrato i personaggi della storia, andiamo ai colpi di scena… si inizia più di due anni fa, era la fine di gennaio del 2015, quando Renzi propose il nome di Sergio Mattarella come futuro presidente della repubblica. L’Associazione Antimafia Rita Atria scrisse subito un articolo titolato “Mattarella non lo vogliamo come presidente”. E questo perché Mattarella, stando a quanto scrisse l’associazione, anni addietro avrebbe testimoniato a favore di un tale di nome Vincenzino Culicchia che in quel momento era indagato per gravi reati. Vincenzino Culicchia era stato sindaco di Partanna per trent’anni ininterrottamente, con la Democrazia Cristiana, lo stesso partito in cui militarono per decenni Sergio Mattarella, il fratello Piersanti e il padre Bernardo. Culicchia non venne mai condannato, ma comunque dagli atti processuali si poterono evincere frequentazioni e comportamenti che, secondo l’ “Associazione Atnimafia Rita Atria”, comportavano una condanna politica. Quindi non volevano che il futuro presidente della repubblica fosse un amico, sostenitore e frequentatore di quel tipo di politici come Vincenzino Culicchia. Tutto ciò veniva scritto e pubblicato il 29 genniaio del 2015. Due giorni dopo, il 31 gennaio 2015, l’onorevole Claudio Fava, sulla sua pagina facebook, scriveva: «Voterò con convinzione Mattarella non perché l’abbia proposto Renzi ma perché persona dalla schiena dritta». E continuava: «Uno dei pochi siciliani capace di attraversare trent’anni di storia politica senza riportare un graffio, una maldicenza, un sospetto di carrierismo. Uno che la sua battaglia contro la mafia l’ha fatta raccogliendo il testimone del fratello passato per le armi da Cosa Nostra 35 anni fa, e che quel testimone ha onorato in tempi in cui i politici del suo e degli altri partiti facevano carriera fingendo di non sapere, di non vedere, di non capire. Una persona perbene che non ha cercato il Quirinale, e che saprà tutelare lo spirito della nostra costituzione senza dover chiedere permesso a nessuno».

Mattarella viene eletto quello stesso giorno, passa un mese e mezzo, siamo al 15 marzo 2015, e il nuovo Presidente della Repubblica, «senza dover chiedere permesso a nessuno», festeggia i settant’anni del quotidiano “La Sicilia” scrivendo una lettera che viene pubblicata in prima pagina sullo stesso quotidiano, provocando qualche sbigottimento. In quella lettera si prodiga in elogi smisurati nei confronti di quel quotidiano che arriva a definire come «energie che non rinunciano all’esercizio della critica, impegnate nell’affermazione del principio di legalità». Ma tutto questo accadeva proprio mentre l’editore e direttore de “La Sicilia”, Mario Ciancio, era indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. E intanto Sergio Mattarella era presidente della repubblica, quindi era anche presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dunque: non è una telefonata privata per fare gli auguri, è il Presidente del CSM che scrive un encomio pubblico per un editore che in quello stesso momento è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, un encomio che leggeranno tutti, inclusi i magistrati che dovranno giudicare quell’editore. Solo questo è successo, niente di più. Tutto legale, tutto alla luce del sole. Effettivamente non c’è niente di male: il quotidiano “La Sicilia” è sempre talmente attento «all’esercizio della critica» che, tra le altre cose, è rinomato in tutta Italia perché non troppi anni fa ha pubblicato la lettera del figlio di un boss della mafia senza nemmeno accompagnarla con un minimo di commento critico. Ma è famoso per tante altre cose, tra cui anche perché si sarebbe rifiutato di pubblicare i necrologi di vittime della mafia come il commissario di polizia Beppe Montana e anche il giornalista Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, padre proprio dell’onorevole Claudio Fava. Questi fatti non sono di per sé reati penali, ma di certo rendono stridente (se non sprezzante e offensivo) quell’encomio scritto da Sergio Mattarella. Evidentemente però Mattarella non se n’è avveduto, non sapeva niente, non c’ha fatto caso, né lui né il suo ufficio stampa, e va be’.

Ebbene, io pensavo che almeno l’onorevole Claudio Fava se ne avvedesse, speravo che scrivesse qualcosa a riguardo, dato che Claudio Fava ci aveva messo la faccia sull’elezione di Sergio Mattarella… ma nella sua pagina facebook quel giorno non scrisse assolutamente nulla. Il giorno dopo però si fece sentire eccome, indignatissimo! Ce l’aveva con il sindaco di Brescello, un paesino di 5600 abitanti, che aveva detto una cosa a favore di un esponente della ‘ndragheta locale. Ho atteso per oltre un anno che l’onorevole Claudio Fava si pronunciasse sul fatto di un presidente della repubblica che scriveva giudizi a favore di un editore indagato per rapporti esterni con la mafia. Gli ho chiesto anche chiarimenti nella sua pagina Facebook, ma niente. Poi però, più di un anno dopo, siamo arrivati al 4 maggio 2016, lo stesso onorevole Claudio Fava, sempre attento a colpire i potenti quando sgarrano, pretende risposte da Pino Maniaci perché si vantava privatamente al telefono con la sua amica: «Voglio che dica – a me e agli altri che in questi anni hanno messo la loro faccia accanto alla sua – se quelle trascrizioni sono manipolate o se è vero che all’amica del cuore raccontava…» ecc. ecc. ecc.

La morale: Riassumendo, Pino Maniaci deve dare chiarimenti su come parla in privato, su come corteggia una donna, sul linguaggio che usa, sul modo di vivere le sue vicende sentimentali, su come si muove sotto le lenzuola, altrimenti le sue inchieste giornalistiche non valgono più nulla. Scompaia, non è giornalismo, non è antimafia. Ci sono personalità che invece ormai hanno la schiena talmente dritta da non essere più tenute a guardare gli altri in faccia, hanno la super-patente antimafia di intoccabile e inattaccabile e possono anche rigirarla pubblicamente a editori con qualche scheletrino negli armadi. Che c’è di male? Non succede nulla. Non occorrono risposte, non distanze, non prese di posizione. E nemmeno una parola sulla violazione del segreto istruttorio o sulla strategia dello “sputtanamento”. Né su quel sindaco che dice di aver pagato un’estorsione a Maniaci: se davvero un sindaco avesse accettato di pagare il pizzo a un giornalista per farlo tacere, non sarebbe colpevole anche lui? Non è corrotto? Non dovrebbe quantomeno dimettersi? Ma chi se ne frega! Ciò che conta è quello che Maniaci diceva per fare colpo sull’amica del cuore.

Ecco. La mia storia finisce qui. Ma Intanto il tempo e i fatti continuano a scorrere e, mentre TeleJato agonizza lentamente, la Repubblica dell’Antimafia sente il bisogno di ostentare sempre più forte l’irreprensibilità della propria antimafiosità. Concludo con una domanda non mia, è stata posta il 6 aprile 2017 dal giornalista Massimo Bordin durante la sua consueta rassegna stampa mattutina su Radio Radicale. Una risposta a questa domanda potrebbe darla, se lo volesse, lo stesso On. Claudio Fava (lo vorrà?), nella sua qualità di vicepresidente della “Commissione Parlamentare Antimafia”: «…la Commissione Antimafia ora, dopo essersi occupata dei massoni, si occupa degli juventini. Quando arriverà a occuparsi dei mafiosi sarà un passo avanti. Però per intanto si potrebbe segnalare all’autorevole presidente della Commissione qualcosa che solo tre mezzi di informazione hanno proposto: lo scandalo del “palazzo della legalità” a Caltanissetta costruito (e rimasto vuoto) con i soldi della cosiddetta “antimafia imprenditrice”. È uno scandalo scoperto da “Le Iene” e rilanciato da due soli mezzi di informazione: Telejato (non a caso il suo direttore è attualmente sotto processo) e Radio Radicale attraverso Sergio Scandurra; da oggi c’è anche un piccolo corsivo sul “Fatto Quotidiano”. Ma… avremo il bene di vedere la Commissione Antimafia tornare a occuparsi del tema delle misure di prevenzione e di come vengono gestiti quei soldi? Sarebbe sempre troppo tardi».

Beni sequestrati alla mafia: le proposte inascoltate di Telejato, scrive Salvo Vitale su Telejato il 27 aprile 2017. LA REDAZIONE DI TELEJATO, DOPO AVERE SENTITO DIVERSE ASSOCIAZIONI ANTIMAFIA, HA AVANZATO PRIMA ALLA COMMISSIONE ANTIMAFIA E POI AL PARLAMENTO ALCUNE PROPOSTE, MA SENZA RICEVERE ALCUNA ATTENZIONE.

Nella sua audizione presso la commissione regionale antimafia Raffaele Cantone, (30 novembre 2015) responsabile Anticorruzione, ha dichiarato che «quella dei beni confiscati è una grande occasione persa dallo stato, perchè ci sono risultati molto modesti, se non negativi», ed ha anche aggiunto che «a Sicilia dovrebbe essere in grado di lanciare un nuovo messaggio sull’utilizzo e la gestione dei beni confiscati». Ma non vale lanciare un messaggio se nessuno lo ascolta, e se è un messaggio scomodo per chi ha in mano le redini del potere e le muove solo per fare gli interessi di determinate caste (o cosche). La redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato, ma senza ricevere alcuna attenzione, prima alla Commissione Antimafia e poi al Parlamento le seguenti proposte:

consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento del sequestro o della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda sequestrata o confiscata opera;

legare il momento del sequestro a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non  si può procedere al sequestro di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;

consentire un solo incarico agli amministratori giudiziari e pertanto, servirsi a rotazione di un albo-elenco degli amministratori giudiziari e fissare un tariffario delle prestazioni degli amministratori giudiziari e dei periti, con il rimborso delle parcelle a carico dello Stato, non delle aziende sotto sequestro. Tale tariffa può subire positivi aumenti in rapporto ad eventuale aumentata produttività dell’azienda;

svincolare le competenze di emissione dei decreti di sequestro preventivo e quelle di nomina degli amministratori  dalle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;

fissare con precise disposizioni il ruolo dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta o di palese incapacità gestionale; in tal caso, poiché la responsabilità dell’operato dell’amministratore ricade sul giudice che lo ha nominato, è il giudice a dovere rendere conto del dissesto e rivalersi sull’amministratore l’eventuale dissesto;

i beni sequestrati, nel caso di proscioglimento delle accuse vanno restituiti nella loro interezza e nel loro valore iniziale. Lo Stato si farà carico di eventuali risarcimenti;

non consentire la reiterazione del provvedimento di confisca, sotto altre possibili imputazioni, salvo casi di comprovate gravi situazioni di illecità;

immediata esecuzione, non oltre un mese, del provvedimento giudiziario di conferma o di dissequestro e coordinamento dell’aspetto penale con quello di prevenzione, in modo da evitare discrasie. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da ritardi, da malesseri e da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato della prevenzione non sono giustificabili, anche perché l’azienda sotto sequestro corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che svendono beni immobili, attrezzature e macchinari a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;

utilizzazione del fondo già esistente (FUG), a sostegno delle aziende la cui amministrazione passiva non sia imputabile a cattiva gestione dell’amministratore;

non consentire la vendita a privati dei beni di titolarità dell’azienda sequestrata;

favorire, nei bandi per l’assegnazione, l’imprenditoria giovanile, le strutture cooperativistiche, i progetti che si occupino di agricoltura, con facili norme per accedere a forme di credito agevolato per l’acquisto di quanto serve a impiantare l’azienda;

consentire il ritorno alla gestione del bene a coloro che, dopo la fase processuale, abbiano dimostrato volontà e intenzione di continuare il tragitto di lavoro nell’ambito della legalità;

associare come collaboratore all’amministrazione giudiziaria il responsabile del funzionamento dell’azienda, cioè il suo proprietario, per assicurare continuità e gestione positiva.

La richiesta più importante è quella di distribuire l’immenso potere di cui dispone il pool di magistrati delle misure di prevenzione, utilizzando le competenze di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni sequestrati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico. L’affidamento della gestione dei beni a esponenti di Confindustria, di Livera o di Invitalia non comporta la soluzione del problema, ma è organizzare corsi di formazione e di aggiornamento fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, per distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” relatori e rilasciare, dopo le passarelle, l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze. Anche la Corte europea ha accertato con la recente sentenza De Tommaso l’incongruenza tra la sentenza del tribunale penale e quella spesso difforme delle misure di prevenzione.

Non è la prima volta che pubblichiamo queste proposte, ma non c’è da dubitarne, nessuno li prende e li prenderà mai inconsiderazione, perché finirebbe l’opportunità di mungere una grassa vacca per tutta la folla di personaggi più o meno in prima fila, che con i beni sequestrati ha costruito la sua fortuna e le sue ricchezze.

25 APRILE 1979: Resistenze, scrive Salvo Vitale il 25 aprile 2017 su "Telejato".

PESCO UN VECCHIO DISCO DI CANTI DELLA RESISTENZA PIENO DI STRUSCII, RUMORI DI FONDO E DI UOVA FRITTE E ATTACCO CON “BELLA CIAO”, POI VADO A RUOTA LIBERA, COME SE STESSI FACENDO UNA LEZIONE, IL SOLITO VIZIO PROFESSIONALE.

Penso per prima cosa al mio professore di liceo, che ci diceva: “Liberazione, ma da chi?” In realtà, a quella data, cioè nel 1945, noi siciliani eravamo stati “liberati” da un pezzo, pochissimi i colpi sparati, nella marcia degli americani da Gela a Palermo. Qualche scaramuccia più cruenta si era avuta nel catanese per la presenza di un forte contingente tedesco che gli americani avevano scaricato sulle spalle degli inglesi. Non ci eravamo liberati dal nemico, sol perché numericamente insufficiente ad affrontare l’offensiva alleata, e che, pertanto si era ritirato, come i soldati borbonici davanti a Garibaldi, non ci eravamo liberati da noi stessi, perché nessuno aveva usato un’arma, non ci eravamo liberati dai fascisti, perché erano quasi tutti rimasti ai loro posti diventando collaborazionisti. E soprattutto non ci eravamo liberati dalla mafia, che aveva spianato la strada agli americani e aveva in cambio ricevuto lucrosi affari e incarichi. Il momento della liberazione parve invece essere arrivato due anni dopo, quando, il 20 aprile 1947 il Blocco del Popolo vinse le elezioni. Sembrava che tutto dovesse cambiare: c’era la fame di terra, la promessa di distribuzione delle terre incolte, la volontà e la capacità di organizzare le lotte per la conquista dei feudi da parte di alcuni sindacalisti, disposti a mettere a rischio anche la propria vita. Può essere affascinante l’ipotesi che la nostra Resistenza sia stata quella, ma che si sia tragicamente realizzata con la strage di Portella della Ginestra e con lo sterminio di una quarantina di sindacalisti. E a questo punto le differenze cominciano a delinearsi: la Resistenza era stata una “lotta armata”, oltre che un’insurrezione o una lotta di popolo contro un nemico interno, il fascismo, e contro il suo alleato esterno, il nazismo. La Resistenza aveva avuto un supporto logistico da parte degli alleati, che avevano rifornito di armi e assistenza alcuni nuclei più agguerriti, diffidando comunque dei gruppi troppo orientati a sinistra. La Resistenza aveva potuto usufruire di un forte comitato di Liberazione, attorno al quale si erano stretti tutti i nuclei antifascisti. Nulla di tutto questo invece nelle lotte contadine per la conquista delle terre del biennio 46-48. I contadini si battevano per il rispetto della legalità, ovvero per l’applicazione di una legge dello stato, i decreti Gullo. Non avevano armi, ma solo la loro voglia di lottare insieme contro i gabelloti, ovvero contro il braccio armato dei grandi latifondisti. Il P.C.I. e il P.S.I, a parte il grande dispendio di forze impiegate nella creazione di strutture organizzative (Federterra, Federbraccianti ecc.) non avevano potuto e saputo dare, ma non poteva essere altrimenti, una carica offensiva e difensiva forte che potesse fungere da risposta alle prepotenze armate dei mafiosi. Lo Stato se ne stava a guardare, potendo i mafiosi contare su tutta una serie di complicità che andavano dall’ordine pubblico all’amministrazione della giustizia, al controllo dei voti nelle campagne. A chiudere il cerchio l’atteggiamento americano, che mai avrebbe permesso, dopo gli accordi di Yalta, la creazione di una regione gestita dalle sinistre al centro del Mediterraneo. E così, quella che poteva essere una vittoria che avrebbe segnato la fine della mafia, si tramutò in una sonora sconfitta e nella perpetuazione del sistema atavico di controllo delle campagne e dei lavoratori. Si può chiamare questa la “nostra resistenza”? Erano partigiani i contadini in lotta? Qualcuno ci provò: Placido Rizzotto, per esempio, proveniva dall’esperienza partigiana al nord e su questa traccia stava cominciando ad organizzare i contadini. Anche di Giuseppe Maniaci, sindacalista di Terrasini, si sa che non era disposto ad accettare alcuna prepotenza. Tutto questo avrebbe significato lotta armata, cioè autentica Resistenza contro un nemico interno, la mafia, altrettanto feroce quanto i fascisti. Non fu così perché le condizioni per una guerra armata erano tramontate e perché i dirigenti contadini lottavano per il trionfo della giustizia dello stato. Adesso ha un senso definire partigiani tutti coloro che si impegnano nella lotta alla mafia? Non c’è dubbio che essere partigiano è qualcosa di affascinante, ma molto lontano dalla realtà, perché i mafiosi usano la pena di morte, mentre gli inermi cittadini, ma anche lo stato, si attengono alle norme della società civile, a meno di non indulgere a pericolose complicità. Perso in questa domanda scrivo qualcosa…

Partigiano d’altra sponda ho conosciuto mafiosi, anziché fascisti, la differenza non era poi molta: stesse indicibili violenze, stesso sistema di paura, stessa scientifica teoria del silenzio, stesso teschio come simbolo. Sempre col vecchio dilemma, se rispondere allo stesso modo o se scegliere la non–violenza, se subire l’esercizio del ricatto e sperare nella protezione dello stato, oppure organizzare passaggi di lotta dura. Nella teoria del rosso si amalgamano le arance, i gelsi, il melograno, il pomodoro, il sangue. Ogni giorno trangugi la bibita e ti predisponi all’assuefazione. Nei casi di ordinaria eversione c’è l’emarginazione, per la scheggia impazzita c’è l’eliminazione. D’improvviso mi ricordo che il 25 aprile 1977 Radio Aut metteva in onda le prime prove di trasmissione. Sono passati appena tre anni e quella che poteva essere una micidiale arma d’offesa, in fin dei conti si è ridotta a sparare proiettili a salve, un pesce costretto a boccheggiare per mancanza d’ossigeno, di linfa vitale. Ogni velleità ha finito con il fare i conti, con il dileguarsi, davanti al muro invalicabile che ci è stato costruito attorno. Reagisco alla sensazione d’impotenza mettendo sul piatto canti di resistenza e canti di lotte sociali d’ogni tipo, a cominciare da “Contessa”. (da Salvo Vitale “Cento passi ancora” Edizioni Rubbettino)

QUALE VERITA' SU SALVATORE GIULIANO?

Le ferita ancora aperta di Portella della Ginestra, scrive l'1 Maggio 2017 "Il Dubbio". Dopo vent’anni, i tre leader sindacali confederali Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo tornano a Portella della Ginestra, a celebrare quest’anno il Primo maggio. Qui a distanza di settanta anni, quando ci fu la strage eseguita dal bandito Giuliano, la ferita è ancora aperta. C’è una lapide di pietra bianca sulla spianata di Portella della Ginestra dove è incisa una poesia in dialetto di Ignazio Buttitta, marchiata con i caratteri rosso vivo: “U me cori doppu tantanni è a Putedda e’ nta petri e nto sangu di cumpagni ammazzati”. Dopo vent’anni, i tre leader sindacali confederali Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo hanno deciso di tornare proprio a Portella, sulle montagne grigie di Palermo, a celebrare quest’anno il Primo maggio. Portella è un luogo della memoria collettiva, quasi di culto per i siciliani. Qui a distanza di settanta anni la ferita rimane ancora aperta. Uno degli ultimi sopravvissuti della strage del primo maggio 1947, Mario Nicosia, amava ripetere agli studenti che ‘ il cinquanta per cento di lotta alla mafia l’abbiamo fatto noi, il restante cinquanta è compito vostro”. Nicosia è morto l’anno scorso, a 91 anni. Il suo più grande rammarico è stato non arrivare a celebrare il 70esimo anno dalla strage il Primo maggio. Per il resto, ha lottato fino all’ultimo per fare conoscere la verità. Aveva 25 anni quando riuscì a sfuggire ai colpi degli uomini del bandito Salvatore Giuliano contro i contadini che per la festa del lavoro si erano riuniti davanti al “Sasso di Barbato”. Nicosia vide cadere attorno a sé tanti compagni ma anche donne e bambini. Si trovava accanto a Giorgio Cusenza, una delle vittime colpite dal fuoco e tornò a casa con la bandiera del sindacato piena di sangue. Quel giorno a prendere la parola sarebbe dovuto essere un prestigioso leader comunista, Gerolamo Li Causi. Ma Li Causi aveva fatto sapere che era impegnato in un’altra manifestazione e non sarebbe intervenuto. Al suo posto era stato chiamato un giovane sindacalista, Francesco Renda. Ma proprio quel Primo maggio a Renda si era rotta la moto nei pressi di Altofonte e così ad esser interrotto dagli spari, dal sangue, dalla morte, si trovò un povero calzolaio, Gia- como Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Alla fine si contarono 11 morti (due erano bambini) e 27 feriti. Ma Nicosia, protagonista delle lotte contadine degli anni Cinquanta, non fu mai sentito, come del resto tanti altri testimoni, al processo di Viterbo concluso con la condanna degli organizzatori e degli esecutori mentre non sono stati mai individuati i mandanti. Portella della Ginestra fu la prima strage di Stato italiana. Una strage che Leonardo Sciascia battezzò come “l’Italia delle menzogne”. Nonostante siano stati scritti fiumi di inchiostro e di parole su quel Primo maggio di settant’anni fa, la verità non è mai venuta a galla. Anzi, tanti rimangono ancora i segreti ed i misteri di quel capitolo doloroso della storia siciliana. “Una cosa è certa: la strage fu consumata dopo che il grande movimento di contadini aveva contribuito a ribaltare il risultato elettorale in Sicilia per le elezioni per la Costituente assicurando al Blocco del popolo una grande vittoria”, è stata sempre la tesi di Emanuele Macaluso, storico dirigente del sindacato e del Pci, che oggi a 92 anni lucidamente portati ed è tra i pochi sopravvissuti di quella stagione politica e sociale. “Agrari, mafiosi e politici non tollerarono la cosa e incaricarono la banda di Salvatore Giuliano di fare quel che ha fatto a Portella della Ginestra. Punto”, ha sempre tagliato corto Macaluso. Ma nel corso dei decenni hanno continuato ad accavallarsi ipotesi, congetture e ricostruzioni. Ognuna con le proprie verità, frutto anche di letture appassionate dei fatti, talvolta parziali, talvolta interessate. Tra i partecipanti alla manifestazione di quel Primo maggio del 1947 c’è chi asserisce di aver sentito alcuni giorni prima mormorare a Piana degli Albanesi una frase premonitrice: “Parteciperete cantando, tornerete piangendo”. Chissà se è vero. Altre ricostruzioni fantasiose hanno ipotizzato che i colpi mortali siano stati esplosi da personaggi mescolati tra la folla e non dalle alture che circondano Portella. Qualcuno ha messo in campo l’ipotesi che in realtà fosse stata la mafia per far ricadere la colpa su Giuliano, diventato ormai troppo ambizioso ed ingestibile. Le zone intorno a Portella erano attraversate da un’antica tradizione rossa e di lotte per la terra che vedevano contrapporsi mafia e movimento contadino. Nell’immediato dopoguerra, nei latifondi dei grandi proprietari terrieri, cominciò uno scontro durissimo per la decisione che fu presa a Roma dal governo di abolire la mezzadria. La reazione dei contadini fu immediata: occuparono le terre dei proprietari e questo provocò gravi conseguenze che si trasformarono in veri e propri scontri a fuoco. Placido Rizzotto, Nicolò Azoti, Accursio Miraglia sono alcuni dei sindacalisti che pagarono con la propria vita la scelta coraggiosa di appoggiare le rivendicazioni dei contadini affamati. Ed è in questo caotico agitarsi tra banditismo, legami mafiosi e pretenziosità politica che si inserisce la strage di Portella, condotta dagli uomini di Giuliano con ferocia e per ragioni che oggi possono apparire fuori dal clima politico del dopoguerra e lontani dall’ ‘ humus’ della società siciliana dell’epoca. Sta di fatto che Gaspare Pisciotta, cognato e poi assassino del bandito Giuliano, nel controverso processo di Viterbo diede volutamente versioni confuse, contrastanti, intese a coinvolgere più gente possibile per scompaginare meglio le acque. Perché lo fece? Chi voleva proteggere o incastrare? Mario Scelba, chiamato il giorno dopo gli avvenimenti a rispondere davanti all’Assemblea Costituente dichiarò che non si era trattato di una strage politica. “Non può essere un delitto politico perchè nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione e la sua organizzazione". Socialisti e comunisti sostennero la tesi opposta, e cioè che i mandanti dovevano essere cercati tra gli agrari ed i mafiosi in combutta con alcuni ambiente politici della Democrazia Cristiana, ma soprattutto della destra siciliana ed esponenti del separatismo. È una versione dei fatti non con- divisa da chi ha sempre ipotizzato che il mandante della strage di Portella potesse essere l’avvocato Antonino Varvaro, esponente del movimento separatista di Finocchiaro Aprile. Una ricostruzione bollata come “incredibile” da Emanuele Macaluso che tuttavia coincide in parte con quella di uno storico attento come Salvatore Lupo. Nella sua prefazione ad un libro pregevole frutto di una accurata ricerca di Francesco Petrotta, lo storico catanese sostiene che “sarebbe fuori strada chi vedesse la strage di Portella come il primo manifestarsi delle forze oscure che hanno inquinato la vita democratica della nostra Repubblica”. L’indubbio collegamento del dramma con la politica regionale e nazionale del tempo non significa che i mandanti vadano necessariamente cercati a Roma o a Palermo. Soprattutto non deve occultare il contesto locale in cui esso si realizzò. “La mafia esisteva e ammazzava sindacalisti già in una fase antecedente alla seconda guerra mondiale ed alla guerra fredda”, sottolinea Lupo. L’avvocato Varvaro si presentò nel collegio dominato dalla banda Giuliano ed ottenne un modesto successo con il suo movimento della sinistra separatista. Era possibile che il bandito avesse promesso ai separatisti una quantità di voti e che avesse preso contatti con qualcuno che non gli portò i voti promessi. In sostanza, il movimento separatista di Varvaro non ebbe successo perché la sinistra resse ed anzi resse bene. Così Giuliano, che era stato arruolato dai separatisti per la loro escalation estremistica, volle punirli con il terrore o fu convinto a farlo da qualcuno che voleva drammatizzare lo scontro. Forse questa potrebbe essere una chiave interpretativa più realistica. Ma per chi ha perso nonni, moglie e figli in quella tragica mattina di settant’anni fa, Portella della Ginestra resterà, forse per sempre, la strage senza mandanti.

Portella della Ginestra, il punto zero dei segreti di stato. Primo maggio 1947 e la strage in Sicilia che inaugurò la guerra fredda in Italia, scrive Simona Zecchi l'1 Maggio 2017 su "La Voce di New York". Settant'anni dalla strage di Portella della Ginestra che ha dato il via a decenni di tensioni, ma i documenti più importanti restano ancora sotto chiave nonostante la decisione di Rosy Bindi di consegnare proprio in questo giorno circa duemila pagine, di cui un migliaio relative a carteggi dell’Arma dei carabinieri e dei servizi segreti. Dati di una strage. Primo maggio 1947. Undici morti, 27 feriti e una leggenda, Salvatore Giuliano il bandito di Montelepre. Questi i primi dati che da soli già raccontano delle distorsioni a cominciare dal numero dei morti ufficiali. Infatti, a scorrere gli anni e le celebrazioni nemmeno quelli sembrano certi: oscillano spesso fra gli 11 e i 14. Pure la cifra dei feriti sopravvissuti resta incerta: 27 sembra infatti un numero fittizio, se si guarda il bel film di Paolo Benvenuti “Segreti di Stato” (2003) che tante polemiche ha suscitato alla sua uscita. Secondo Benvenuti i feriti sarebbero stati 33, mentre altre fonti storiche si spingono fino a 65. Un film d’inchiesta come se ne vedono pochi in Italia, forse migliore del lavoro di Francesco Rosi che, come ha scritto lo storico Giuseppe Casarrubea (scomparso nel 2015 e il cui archivio sui fatti siciliani del dopoguerra ha ispirato indagini, libri e lo stesso Benvenuti), non ha saputo dove collocarsi fra fiction e realtà. Come se Rosi non si fosse fidato delle sue stesse fonti, tra le quali vi era anche il giornalista Mauro de Mauro il cui corpo scompare nel ’70 e di cui chiederà il supporto investigativo poi anche su Enrico Mattei e i suoi ultimi tre giorni di vita. Infine il terzo dato, quello dell’ “unico” colpevole, Salvatore Giuliano, che con la sua banda viene rinviato a giudizio prima a Palermo e poi definitivamente condannato a Viterbo, dove si riunisce per legittima suspicione la Corte d’Assise. Un giorno di festa e insieme di lotta per celebrare la vittoria dei partiti di sinistra raccolti nel Blocco del popolo nelle prime elezioni regionali – e per dire no al latifondismo – finisce dunque in eccidio. I contadini dei paesi vicini si radunavano a Portella della Ginestra per la festa del lavoro già ai tempi dei Fasci siciliani, la tradizione venne interrotta durante il Fascismo e ripresa dopo la caduta della dittatura. Improvvisamente quel giorno, invece, dal monte Pelavet a far naufragare tutto arrivano diverse raffiche di mitra contro la folla. Il ricorso alla memoria. Il 21 e il 22 aprile scorsi a Palermo, presso palazzo Steri, si è tenuta una due-giorni di studi storici per ricordare l’eccidio alla presenza del presidente del Senato Pietro Grasso. Il convegno ha avuto lo scopo di allargare la ricerca al quadro politico e sociale del tempo e mettere a fuoco le condizioni della Sicilia e le cause dell’esplosione del banditismo alla fine della guerra. Solo qualche sopravvissuto, come Serafino Petta che nei giorni scorsi ha ricordato la sua esperienza, il suo “calpestare i corpi”, è rimasto a conservarne la memoria. La scia dei segreti. Il percorso dei documenti sotto chiave negli armadi della Repubblica costella la storia della madre delle stragi italiane sin dalla prima commissione antimafia, che nel 1972 decise di apporre il segreto a ben 41 documenti custoditi a Palazzo Giustiniani fino al 2012. Si trattava di quarantuno documenti su Giuliano, il banditismo e Portella e il ruolo di alcuni agenti segreti americani, mentre già nel 2000 la Cia ne rendeva pubblici diversi altri. Sono solo i pezzi più rilevanti di una scia, non gli unici, a segnare gli ostacoli nella ricerca della verità, fino a giungere al 2016 quando scadevano i penultimi atti segreti conservati dai Ministeri dell’Interno e della Difesa. Tutti dovevano essere declassificati, ma soltanto gli Interni hanno aperto gli armadi: la Difesa sembra ancora indugiare. Tutto questo mentre la legge 124/2007 “esclude tassativamente che il segreto di Stato possa riguardare informazioni relative a fatti eversivi dell’ordine costituzionale o concernenti terrorismo, delitti di strage, associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale di tipo politico-mafioso”. Legge in vigore ben prima dunque della ultima direttiva Renzi come abbiamo scritto qui. Aspettiamo anche i documenti dell’Arma dei Carabinieri e dei servizi nostrani che saranno consegnati da Rosy Bindi, presidente dell’attuale Commissione Antimafia. L’ultimo atto di questo percorso ad ostacoli però si avrà solo nel 2042, quando potranno essere anche noti dettagli personali dei coinvolti. Persino il vecchio padrino Bernardo Brusca, morto nel 2000, che non si è mai considerato un boss né ha mai collaborato, nemmeno dopo il pentimento dei suoi tre figli, aveva pensato alla fine di cominciare a rivelare qualcosa. A un pm antimafia aveva fatto arrivare un messaggio, in lui pare avesse fiducia. Aveva fatto sapere che gli avrebbe scritto una lunga lettera e il racconto sarebbe iniziato proprio dai fatti di sangue di Portella della Ginestra. Negli atti processuali, però, questa lettera non è mai stata depositata o forse non è stata mai scritta. Salvatore Giuliano. Il cuore di quella strage resta la sua leggenda ovvero Giuliano, il cui mito inizia davvero prima di quel giorno: nel settembre del 1943, quando dopo aver ucciso un carabiniere si rifugia tra le montagne di Montelepre. Da quel momento “il Re di Montelepre” si schiera, con il supporto della mafia (o maffia al tempo), a favore del movimento indipendentista siciliano (Mis), formatosi immediatamente dopo lo sbarco degli Alleati e il cui obiettivo era quello di fare della Sicilia, allora, il 49esimo stato americano (gli stati 49esimo e 50esimo vengono annessi nel 1959). Ma il bandito cambia presto bandiera e dal Mis passa direttamente alla lotta anticomunista: lo dichiarerà lui stesso in una lettera spedita al presidente Truman. Quando avviene la strage Salvatore Giuliano è l’uomo giusto per tutti: è lui lo stragista. Invece, documenti diversi hanno dimostrato che il bandito e i suoi picciotti non agirono da soli: Decima Mas e Cosa Nostra il vero commando. Ma Giuliano resta mito comunque fino alla sua morte avvenuta ufficialmente per mano dei Carabinieri nel luglio del 1950, i cui mandanti e le cui dinamiche sono stati spesso oggetto di indagine: l’ultima poi, archiviata, fu aperta nel 2010 quando venne anche riesumato il suo corpo. Una leggenda creata dagli stessi americani quella del Re di Montelepre, per conto di un giornalista-spia Mark Stern che dall’America lo raggiunse, quando latitante, per intervistarlo e consacrarlo novello “Robin Hood” della Sicilia. Indagine Perpetua. Un libro da poco dato in stampa Il Bandito della Guerra Fredda di Pietro Orsatti (Imprimatur edizioni) ripercorre i buchi della vita e la morte di Giuliano fra inchiesta e riflessione politica che trova input a partire da un tema privato e che lo spinge a consegnare infine ai lettori una verità a più dimensioni: “Giuliano è sia strumento di poteri più o meno occulti che artefice del suo stesso destino.” Scrive ancora Orsatti:” È chiaramente in mano a quel coacervo di interessi che lega i proprietari terrieri, i servizi segreti degli Stati Uniti, i neofascisti ancora a piede libero, i separatisti e i monarchici, l’area politica della Democrazia cristiana, i mafiosi siciliani e perfino il Vaticano, che si era fortemente attivato in Sicilia (e in tutta Italia) in chiave sia antirepubblicana prima del referendum, che ferocemente anticomunista dopo”. E’ un ritratto multiple quello di Orsatti rintracciato attraverso una mole di documenti, tanti troppi – scrive lui stesso – tra i quali l’autore si è dovuto districare visto che alcuni sembrano depistare più che chiarire. Di questa convergenza di entità ne avevano già cominciato a svelare i volti gli storici Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino nel 2009 con il libro Lupara Nera, edito da Bompiani. La “Rete Invasione e Sabotaggio” – scrivevano gli storici che avevano scandagliato nelle carte statunitensi desecretate nel 2000 – è stata “segretamente inglobata dall’intelligence americana di James Angleton nel dopoguerra, assieme a migliaia di terroristi nazifascisti a cui verranno risparmiati i processi per gli eccidi commessi nei venti mesi di Salò”. Nell’autunno ’46, spiegano ancora gli storici, il presidente Harry Truman autorizza un colpo di Stato con l’obiettivo strategico di instaurare una “dittatura militare” affidata all’Arma dei carabinieri, con l’obiettivo di mettere fuori legge il Pci di Togliatti. L’esecuzione del piano golpista è commissionata alle squadre armate neofasciste che in Sicilia, il 1 maggio ’47, mettono in atto la strage di Portella della Ginestra ovvero il punto zero della strategia della tensione. Questo rivelavano i due storici nel 2009, mentre nel 2014 un ex agente CIA, il capostazione Jack Devine lo scrive nero su bianco nel libro Good Hunting: An American Spymaster’s Story, in cui Devine svela il piano di “supporto” all’Italia per neutralizzare la possibile vittoria del Partito Comunista Italiano alle politiche del ’48, sempre più percepita come imminente. Secondo Devine, il presidente Harry Truman incaricò l’Agenzia «di combattere una guerra clandestina contro l’Urss»; e ancora «per contrastare l’influenza del PCI, Truman aveva autorizzato la Cia a rovesciare soldi nelle elezioni, attraverso giornali, periodici, trasmissioni radio, manifesti, volantini e organizzazioni politiche». Di Salvatore Giuliano, intanto, della morte del bandito strumento di terzi come scrisse il mitico Tommaso Besozzi su L’Europeo, “di sicuro c’è solo che è morto”. 

Simona Zecchi, giornalista d’inchiesta residente a Roma, è l’autrice del libro Pasolini massacro di un poeta (Ponte alle Grazie, 2015).

Da Wikipedia. Salvatore Giuliano, noto come il bandito Giuliano (Montelepre, 16 novembre 1922 – Castelvetrano, 5 luglio 1950), è stato un criminale italiano. Per alcuni mesi sfruttò la copertura dell'EVIS, il braccio armato del Movimento Indipendentista Siciliano attivo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ma il suo nome resta principalmente legato alla strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), in cui morirono undici persone e altre 27 rimasero ferite.

Figlio di Salvatore e di Maria Lombardo: la sua era una famiglia di contadini relativamente benestante. Il padre, costretto ad emigrare negli Stati Uniti, a più riprese riuscì a comprare diversi terreni nei dintorni del paese. Infine rimpatriò, proprio nell'anno di nascita di Salvatore, per occuparsi della loro coltivazione. Il giovane Salvatore, finita la terza elementare, andò ad aiutare il genitore nel suo lavoro in campagna. In verità avrebbe preferito dedicarsi al commercio, ma non si sottrasse al suo dovere, trovando il tempo per continuare gli studi. Spesso, una volta finito il lavoro, si recava dal prete del paese o da un suo ex insegnante.

Durante l'occupazione alleata, Giuliano lavorò come fattorino per una società elettrica ma il 2 settembre 1943 venne fermato ad un posto di blocco dei carabinieri mentre trasportava due sacchi di frumento provenienti dal mercato nero caricati su un cavallo; Giuliano allora si trasse d'impaccio a colpi d'arma da fuoco, uccidendo un carabiniere e dandosi alla macchia.

Il 23 dicembre Giuliano, imbattutosi a Montelepre in una perquisizione della sua famiglia (la quale era sospettata di dargli asilo), uccise a colpi di mitragliatrice il carabiniere Aristide Gualtiero. Nel gennaio 1944 Giuliano riuscì a fare evadere numerosi suoi parenti dalle carceri di Monreale, unitamente ad altri detenuti, i quali costituirono il primo nucleo della sua banda. In questa fase, Giuliano e la sua ghenga compirono soprattutto rapine e sequestri di persona a scopo di estorsione ai danni di ricchi agricoltori, commercianti ed imprenditori, spesso con la complicità di Ignazio Miceli (segnalato dall'autorità giudiziaria come capomafia di Monreale) e Benedetto Minasola (indicato dai carabinieri come «favoreggiatore della mafia di Monreale»), che agirono in qualità di tesorieri della banda e depositari di numerose persone sequestrate. In quel periodo, Salvatore divenne tristemente famoso nei fatti di cronaca nera per la ferocia e la freddezza con cui eliminava i propri avversari (soprattutto uomini delle forze dell'ordine che gli davano la caccia o sospetti confidenti della polizia): secondo stime ufficiali, il numero complessivo delle vittime del bandito Giuliano è stato calcolato nell'impressionante cifra di 430.

Secondo la successiva testimonianza del suo sodale Gaspare Pisciotta resa all'autorità giudiziaria, partecipò addirittura ad una riunione «di alti dignitari della mafia, durante la quale si era provveduto al battesimo del capobanda Giuliano, secondo i riti propri dell'organizzazione criminale». Nei decenni successivi, anche il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta racconterà che il bandito Giuliano gli fu presentato come "uomo d'onore"; nel 1992 l'altro collaboratore Gaspare Mutolo dichiarerà di aver saputo che «[...] Giuliano era un uomo d'onore, mentre tutti gli altri appartenenti alla sua banda non lo erano. [...] Non fu detto di quale famiglia si trattasse, ma ritengo ovvio che egli appartenesse alla famiglia di Borgetto o di Partinico.»

Nella primavera 1945 Giuliano incontrò alcuni leader del Movimento Indipendentista Siciliano (tra i quali Concetto Gallo e il figlio del barone Lucio Tasca Bordonaro) e chiese dieci milioni di lire per entrare nell'EVIS, il progettato esercito separatista, che gli furono concessi insieme al grado di "colonnello" e la promessa di armi e munizioni. Dopo questi accordi, Giuliano iniziò la guerriglia contro le autorità, compiendo imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Montelepre e Borgetto, alcune delle quali furono anche occupate. In questo periodo, la propaganda indipendentista riuscì a costruire attorno a Giuliano un'immagine da Robin Hood, arrivando anche a minimizzare e a giustificare i crimini compiuti dal bandito e dai suoi compagni. Sempre in questo periodo, per via del clamore mediatico scatenato dalle gesta del bandito, una giovane e disinvolta giornalista svedese, Maria Cyliacus, si recò più volte ad intervistare il bandito. Costei passò diverso tempo con lui, ne rimase piuttosto affascinata e lo descrisse nei suoi articoli con toni romantici. L'opinione pubblica italiana subito pensò ad una relazione amorosa stabilitasi tra i due, e per mettere a tacere queste voci il governo italiano decise infine, nel 1949, di espellere la giovane donna straniera. In realtà la donna, vero nome Maria Lamby Karintelka, altro non era che una spia al servizio dell'intelligence degli Stati Uniti, operante da tempo in Italia e forse incaricata di trattare con il bandito per conto della CIA. Per contrastare la guerriglia separatista, il 29 settembre 1945, con un decreto legislativo luogotenenziale del principe Umberto di Savoia, fu costituito l'Ispettorato generale di polizia in Sicilia, con una forza di 1.123 uomini, di cui 760 dell'Arma dei Carabinieri e il resto del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, e al comando di un ispettore generale di P.S., alle dirette dipendenze del Ministero dell'Interno.

Nel gennaio 1946 la banda Giuliano attaccò la sede della Radio di Palermo. Nello stesso anno il Movimento Indipendentista Siciliano decise di entrare nella legalità e di partecipare alle elezioni per l'Assemblea Costituente. Il separatismo decrebbe con il riconoscimento dello statuto speciale siciliano concesso dal re Umberto II all'isola nel maggio 1946, 17 giorni prima del referendum istituzionale del 2 giugno che trasformerà l'Italia in Repubblica, e divenne parte integrante della Costituzione Italiana (legge costituzionale nº 2 del 26/02/1948). Con l'amnistia del 1946 per i reati politici, i separatisti lasciarono la banda di Giuliano, che continuò a compiere sequestri di persona e attacchi contro le caserme dei carabinieri e le leghe contadine. Le imprese di Salvatore, da allora, furono trasmesse all'opinione pubblica non più come azioni di guerriglia ma come veri e propri atti di criminalità comune, di "brigantaggio", compresi i rapimenti.

Nella primavera del 1947 Giuliano rilasciò un'intervista al giornalista americano Michael Stern, che riuscì a raggiungerlo nel suo rifugio sui monti di Montelepre, dove lo fotografò: il colloquio ebbe luogo pochi giorni prima della strage di Portella della Ginestra e in quell'occasione il bandito consegnò all'inviato una lettera per il presidente Harry Truman, in cui chiedeva aiuti e armi per l'indipendenza della Sicilia, proponendo un'annessione agli Stati Uniti d'America.

Il 1º maggio 1947 duemila lavoratori, in prevalenza contadini, si erano riuniti in località Portella della Ginestra, nei pressi di Piana degli Albanesi e San Giuseppe Jato, per festeggiare la vittoria della coalizione tra PSI e PCI, riunita in un Blocco del Popolo, nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, dove aveva conquistato 29 rappresentanti su 90 (con il 29% circa dei voti). Improvvisamente la banda Giuliano iniziò a sparare sulla folla dal vicino monte Pelavet per circa un quarto d'ora: rimasero uccise undici persone, altre ventisette ferite. Nel mese successivo, la banda Giuliano incendiò e devastò con mitra e bombe a mano le sedi delle leghe contadine del PCI di Monreale, Carini, Cinisi, Terrasini, Borgetto, Pioppo, Partinico, San Giuseppe Jato e San Cipirello, provocando in tutto un morto e numerosi feriti: sui luoghi degli attentati vennero lasciati dei volantini firmati dallo stesso bandito che incitavano la popolazione a ribellarsi al comunismo. Consapevole di essere divenuto ormai scomodo a tanti che lo avevano sostenuto, Giuliano cominciò a fare una serie di allusioni sui rapporti da lui intrattenuti con noti esponenti politici, tra cui l'onorevole Mario Scelba, citato in una lettera inviata da Giuliano al quotidiano L'Unità nel 1948. Contemporaneamente la banda Giuliano uccise Santo Fleres (indicato dall'autorità giudiziaria come capomafia di Partinico): secondo le indagini dei carabinieri dell'epoca, si trattò di un regolamento di conti tra la banda Giuliano e i mafiosi per via della mancata spartizione di un riscatto proveniente da un sequestro di persona. Il 19 agosto 1949 avvenne un'altra strage, quella di Bellolampo-Passo di Rigano, sempre ad opera del bandito Giuliano: in questo eccidio persero la vita sette carabinieri, mentre altri undici rimasero feriti, tra cui il colonnello Ugo Luca. Pochi giorni dopo, il Ministero dell'Interno decise la soppressione dell'Ispettorato generale di polizia in Sicilia e costituì il Comando forze repressione banditismo, con lo stesso Luca al comando. Il Comando forze repressione banditismo, agli ordini del colonnello Luca, non esitò a servirsi delle soffiate di elementi mafiosi (in particolare Ignazio Miceli e Benedetto Minasola) per arrivare alla cattura di numerosi membri della banda Giuliano (Castrense Madonia, Frank Mannino, Nunzio Badalamenti ed altri).

Il 5 luglio 1950 il ventottenne Giuliano venne ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano: un comunicato del Comando forze repressione banditismo annunciò ufficialmente che era stato ucciso in un conflitto a fuoco avvenuto la notte precedente con un reparto di carabinieri alle dipendenze del capitano Antonio Perenze, un uomo del colonnello Luca. Sin dall'inizio apparvero però diverse incongruenze nella versione degli inquirenti sulla fine del bandito. Il giornalista de L'Europeo Tommaso Besozzi pubblicò un'inchiesta sull'uccisione di Giuliano dal titolo Di sicuro c'è solo che è morto, nella quale mise in luce le incongruenze della versione data dai carabinieri sulla morte del bandito e indicò come assassino di Giuliano il suo sodale Gaspare Pisciotta.

Durante le udienze del processo per il massacro di Portella della Ginestra tenutosi a Viterbo, Pisciotta si autoaccusò dell'omicidio di Giuliano e incolpò anche i deputati monarchici Gianfranco Alliata di Montereale, Tommaso Leone Marchesano, Giacomo Cusumano Geloso e i democristiani Bernardo Mattarella e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella, dichiarando che costoro incontrarono Giuliano per mandarlo a sparare sulla folla. Tuttavia la Corte d'Assise di Viterbo dichiarò infondate le accuse di Pisciotta poiché il bandito aveva fornito nove diverse versioni sui mandanti politici della strage; come emerso dalla sentenza del processo di Viterbo, Pisciotta divenne confidente del Comando forze repressione banditismo (che gli fornì una tessera di riconoscimento che gli permetteva di circolare liberamente) e Giuliano fu da lui ucciso nel sonno nella casa di Castelvetrano dove si nascondeva; il cadavere sarebbe poi stato trasportato nel cortile della casa stessa, dove gli uomini del colonnello Luca e del capitano Perenze inscenarono una sparatoria per permettere a Pisciotta di fuggire e continuare così la sua opera di confidente sotto copertura. Nel 1954 Pisciotta fu avvelenato nel carcere dell'Ucciardone con un caffè alla stricnina.

Sulla morte di Giuliano esistono almeno cinque differenti versioni ed il segreto di stato fino al 2016. Alcuni, come il ricercatore storico Giuseppe Casarrubea, addirittura sostengono che il Giuliano morto in Sicilia fosse un sosia, e che il vero Salvatore fu fatto fuggire all'estero oppure divenne latitante e fu ucciso solo alcuni anni più tardi, in un bar di Napoli, con un caffè al cianuro. Secondo un'ultima ipotesi, al posto del bandito fu ucciso, forse intenzionalmente, un suo sosia, per essere poi tumulato al suo posto. Per queste ragioni lo studioso Giuseppe Casarrubea ha chiesto alla Procura di Palermo di riaprire la bara tumulata nella cappella della famiglia Giuliano a Montelepre per accertarne l'identità. La riesumazione è avvenuta il 28 ottobre 2010 ma l'esame del DNA e gli accertamenti medico-legali hanno confermato che i resti sepolti nella tomba della famiglia Giuliano appartengono realmente al bandito e quindi l'inchiesta è stata archiviata.

1950. Il bandito Giuliano. Tratto da: Il Nuovo. Storia del bandito Giuliano, ma soprattutto degli intrecci mafiosi nella Sicilia dell’immediato Dopoguerra. Responsabile della strage di Portella della Ginestra "Turiddu" morì in circostanze strane. La banda Giuliano costò all'Italia la vita di 149 persone: 42 civili e 86 militari (un ufficiale e 4 soldati dell'esercito; 3 ufficiali dei carabinieri; 24 sottufficiali; 54 militi), 21 poliziotti (3 funzionari, 3 sottufficiali, 15 agenti). Senza contare i reati minori, su di essa pesarono inoltre 172 tentati omicidi:142 di militari e 30 di civili; 46 sequestri di persone. E 3 stragi: nella storia dei luttuosi avvenimenti italiani restò scolpita quella di Portella della Ginestra, capostipite sin dall'immediato dopoguerra di tutte le stragi che poi avrebbero insanguinato il Paese, la prima insomma di un filone che, pur in epoche e su scenari diversi avrebbe avuto gran clamore, suscitato dibattiti parlamentari e vespai di polemiche, partorito interminabili istruttorie e lungi processi. Ma alla fine spesso resteranno ignoti i mandanti e a volte anche gli esecutori e i retroscena, in un mare comunque di dubbi e di interrogativi, al punto che molti esperti diranno: "La strategia della tensione non iniziò nel 1969 nella milanesissima Piazza Fontana ma oltre due decenni prima nella sicilianissima Portella della Ginestra".

Salvatore Giuliano nella sua Montelepre, 343 sul livello del mare, in vetta a un colle che domina la valle del Nocella nella Sicilia nord-occidentale, sembrava destinato alla vita anonima di tanti giovanotti che cercavano di leccarsi le ferite della guerra. "Fin quasi alla fine del 1943 - parole dell'Antimafia - si era mantenuto fedele alle tradizioni della casa dove era nato e del luogo dove aveva operato e non aveva dato alcuna possibilità di far parlare di sè. L'occasione propizia per un radicale cambiamento di rotta, gli si presentò il 2 settembre 1943. Quel giorno, a Quarto Mulino di San Giuseppe Jato, mentre trasportava con un mulo un carico di grano non a posto con le norme annonarie, si imbatté in una pattuglia di carabinieri e di guardie campestri. Alle contestazioni mossegli dai tutori dell'ordine, Giuliano passò subito per le vie più spicce: esplose vari colpi di rivoltella uccidendo il carabiniere Antonio Mancino che insieme all'appuntato Renzo Rocchi e alle guardie campestri Vincenzo Manciaracina e Giuseppe Barone, formava il posto di blocco...". Questo linguaggio burocratico, sostanzialmente esatto nell'epilogo, trascurava qualche tocco di sceneggiatura: mentre l'appuntato Rocchi e le due guardie campestri andavano a bloccare un altro "borsanerista", Giuliano si trovò puntato addosso il fucile del carabiniere Mancino. Chissà in quel minuto cosa dev'essergli passato per la testa. Deve essersi detto: "O adesso, o mai più". E scattò fulmineo con un spintone, forse un calcio, fatto sta che il carabiniere avvertì al viso l'impatto violento della canna del suo stesso fucile. Poi Giuliano puntò verso il boschetto e quando echeggiò uno sparo, avvertì immediata una vampata al fianco sinistro: era stato ferito. Ebbe la forza di trascinarsi dietro un masso. Forse pensò che, se doveva morire, almeno avrebbe venduto a caro prezzo la pelle. Quando si dice il destino! Senza quel pensiero la Sicilia avrebbe avuto un bandito e una banda in meno e soprattutto tanti lutti, incubi, scandali, tormentoni e anche misteri in meno. Giuliano portò la mano alla calza dove celava la pistola, si alzò e prese la mira: il carabiniere Mancino, centrato al cuore, si accasciò senza un lamento. Lo sparatore si acquattò. E poi, strisciando lentamente, riuscì a dirigersi verso la parte opposta del boschetto, sino a un sentiero tra i campi. Passava un carretto. E il contadino che ci stava sopra non ebbe bisogno di parole per capire. Nascose il ferito tra balle di fieno, se lo portò a Borghetto, chiamò un medico che lavò la ferita e la disinfettò. "Siate gentili. Avvertite mia madre", disse appena Giuliano. Poi sprofondò in un sonno profondo, con una febbre che lo accompagnò per cinque giorni.

Quando si rimise in forze era ormai "Turiddu di Montelepre", classe 1922 del 20 novembre, figlio di Maria Lombardo e di Salvatore Giuliano, in un'epoca in cui al maschio di famiglia molto spesso veniva dato il nome del padre. Salvatore Giuliano senior era stato emigrante a Brooklyn; aveva abitato nella settantacinquesima strad; aveva fatto ciò che gli era capitato: il carrettiere, il muratore, il lattoniere, il fruttivendolo. E la famiglia si era subito ingrandita: per prima nel 1909 era arrivata Giuseppina. Poi nel 1913, ecco il primo maschio che, tanto per non cambiare, era stato chiamato Giuseppe. E nel 1920 era nata Mariannina. Per i Giuliano però, stretti in quel piccolo appartamento di Brooklyn e dilaniati dalla nostalgia di Montelepre, era scattata anche l'ora del "tutti a casa". Appena mamma Maria aveva avvertito che una nuova vita era tornata ad agitarsi nel suo grembo, aveva deciso: "Voglio che questa mia creatura nasca a Montelepre". E così era stato. Turiddu, l'ultimogenito, era subito diventato il beniamino di tutti, coccolatissimo da mamma Maria, legatissimo a Mariannina da un affetto viscerale. Cosicché in quei giorni del 1943 la sua decisione di non costituirsi alla legge e di diventare bandito non trovò intorno a sè opposizioni, ma protezioni, innanzitutto all'interno della famiglia.

La costituzione della banda Giuliano; le sue tragiche imprese; l'accorrere sotto le insegne del "re di Montelepre" di giovanotti da ogni angolo della Sicilia; l'exploit di un mito intorno alla sua imprendibilità; la sua fede nel separatismo che trasformava i banditi in "soldati" al suo comando e al servizio di una Trinacria indipendente; le intense macchinazioni della mafia che in collegamento con la politica prima lo lusingò, poi lo usò e strumentalizzò, infine lo abbandonò, hanno riempito archivi di Stato, sotterranei di municipi, persino raccolte di documentazioni vescovili e parrocchiali. In una bibliografia sterminata che in oltre cinquant'anni non ha smesso di animarsi di titoli, io stesso ci ho fatto un libro e nella mia enciclopedia in quattro volumi "Mafia, la vera storia della piovra dalle origini ai giorni nostri", alla banda Giuliano e ai suoi retroscena di intrighi e trame ho dedicato decine di pagine. Eppure, se è vero che sono tanti gli avvenimenti noti e definitivamente chiariti, è altrettanto vero che, quando non restano impenetrabili e del tutto avvolti nel porto delle nebbie, alcuni fatti si trascinano dietro ancora dubbi e interrogativi: da Portella della Ginestra alle vere protezioni di cui godette il bandito; dai radicati rapporti tra mafia e forze addette alla repressione del banditismo (con dispetti e persino concorrenza tra polizia e carabinieri negli "agganci" di confidenti e nella cattura dei latitanti) ai veri perché della messinscena intorno alla morte del bandito e all'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, suo cugino-luogotenente; persino alle infinite leggende sui molti amori di "Turiddu".

Il 20 aprile 1947 la Sicilia per la prima volta andò alle urne per eleggere l'assemblea Regionale. Il verdetto fu di 590.882 voti al Blocco del Popolo (social-comunisti), 329.182 alla Dc, 287.588 all'Uomo qualunque, 194.844 ai monarchici e appena 170.789 ai separatisti, conseguenza oltretutto della irrimediabile spaccatura verificatisi dal 30 gennaio al 3 febbraio nel corso del loro terzo congresso. La vittoria delle sinistre caricava di particolare significato la celebrazione del Primo Maggio che, interrotta durante il fascismo, da alcuni anni era tornata a rivestire il ruolo di appuntamento dell'anno a Portella della Ginestra, vallata percorsa dal fiume Jato e posta tra due alture di ginestre chiamate Pizzuta e Cumeta. Avrebbe dovuto tenere il comizio un politico di rango, quel Girolamo Li Causi, originario di Termini Imerese, avversario storico di boss e luogotenenti, che durante il fascismo aveva patito carcere e confino. Impegnato però in un'altra manifestazione, gli organizzatori avevano ripiegato sul giovane sindacalista Francesco Renda che, a sua volta trattenuto da un imprevisto, sarebbe stato sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Ma in anni di riorganizzazione dei latifondi, profonde tensioni sociali, a quel raduno per la Festa del Lavoro già una settimana prima veniva data un'importanza senza precedenti, a prescindere dagli stessi oratori. E fu in quest'atmosfera d'attesa che maturò la strage.

Non era trascorsa una settimana dalla vittoria del Blocco del Popolo che Maria Lombardo Giuliano, madre di Turiddu, chiamò il genero Pasquale Sciortino, neomarito di Mariannina e lo incaricò di portare una lettera al figlio. Il tono della richiesta non ammetteva repliche. Sciortino raggiunse la fattoria dei fratelli Genovese. Turiddu si appartò, lesse ripetutamente in silenzio, bruciò la lettera con un fiammifero, poi disse: "E' venuta l'ora della nostra liberazione". Uno dei Genovese chiese: "Di quale liberazione parli?". E Giuliano: "Bisogna far un'azione contro i comunisti, bisogna andare a sparare il Primo maggio a Portella della Ginestra". Con questa frase e con quella lettera bruciata iniziava forse il più grosso giallo della vita di Turiddu: si incuneeranno versioni e controversioni, supposizioni e controsupposizioni. Pasquale Sciortino potrebbe aver avuto modo di leggere il messaggio, ma giurerà sempre di no. Maria Lombardo ammetterà invece di aver letto la lettera, ma non si allontanerà mai da questa versione: "Si trattava di amici in America, disposti a far espatriare mio figlio, mettendogli a disposizione persino un aereo". Un giallo insomma apparentemente senza soluzione. Eppure Portella della Ginestra fu la prima delle trame che incominciarono a intossicare la vita dell'Italia liberata. Poiché ufficialmente non si conosceranno mai i mandanti e solo una piccola parte degli esecutori finirà in galera, la strage resterà banco di prova, insomma primo test di una strategia che si ripeterà in altre occasioni: affacciare raffiche di ipotesi, sovrapporle alle deboli tracce dei riscontri testimoniali, per poi alla fine confonderle e neutralizzarle, facendone un polverone. Eppure preparazione ed epilogo, morti, feriti, panico, fuggi-fuggi, sin dall'inizio non erano scalfibili davanti alla Storia.

Salvatore Giuliano diramò un ordine: "Il 30 aprile troviamoci a Cippi", in alto, sopra il cimitero di Montelepre. E divise i presenti in due gruppi: il primo, al suo comando, avrebbe raggiunto la Pizzuta; il secondo, al comando di Antonino Terranova, sarebbe arrivato sulla Cumeta. Sino a un certo punto i due gruppi procedettero insieme, portandosi dietro una mitragliatrice Breda: avanti la squadra di Giuliano, dietro quella di Terranova. Ma questi non giunse mai sulla postazione indicata: si giustificherà di avere intravisto una pattuglia di carabinieri e di aver ripiegato per evitare un conflitto a fuoco che avrebbe mandato a monte l'operazione.

Era una notte di luna, faceva freddo. L'alba si preannunciò poi vicina tra il chicchirichì dei galli e l'abbaiare lontano dei cani delle fattorie. Alle 7 incominciarono ad arrivare per primi i contadini di Piana dei Greci, poi quelli di San Cipirrello, infine quelli di San Giuseppe Jato, chi a dorso di mulo, chi in bici o in moto, chi su grandi carretti addobbati a festa. E le mamme incominciarono a dare la colazione ai loro piccoli sdraiati sull'erba. Intorno alle 9,30 fu il silenzio mentre dal podio si alzava la voce di Giacomo Schirò, attorniato da altri dirigenti comunisti e socialisti locali. Fece in tempo a dire: "Cari compagni, in questa storica giornata...", che quasi in sordina giunse l'eco di un crepitio, poi di un rumore sordo, infine di una raffica. Credendo fossero mortaretti, una vecchietta batté le mani. Si riuscì a capire che gli spari provenivano dalla Pizzuta quando, accanto all'oratore, il sindacalista Vito Alliota venne colpito da un proiettile e cadde come un sasso. Ed ecco qualche mulo piegarsi sulle gambe, un ragazzino in agonia tra le braccia del padre, una mamma con i panni arrossati dal sangue...Allora fu il panico. Alcuni si buttarono a terra, come in tempo di guerra, fingendosi morti, altri se la diedero a gambe levate, dove capitava. Gli spari però sembrarono eterni, durarono otto, forse dieci minuti. Quando cessarono, a Portella della Ginestra, in quel primo maggio del 1947, non fu difficile contare 11 morti (2 bambini, 9 adulti) e 26 persone ferite "più o meno gravemente". Una strage, la prima di tante altre che da allora a oggi, per motivi diversi si verificheranno in Italia.

Quattro testimoni videro tutto o quasi. Erano cacciatori. Probabilmente alla vista della banda Giuliano avevano tentato di nascondersi, ma non c'erano riusciti. Erano perciò stati portati davanti a Turiddu che aveva chiesto: "Mi riconoscete?". Figurarsi però se quelli avevano risposto sì! Perciò erano stati ammanettati, bendati e fatti appiattire sul terreno: in questa posizione avevano udito il primo colpo di pistola, poi le raffiche di mitra. Ad azione conclusa erano stati slegati e invitati a scomparire con una raccomandazione: "Qualora qualcuno dovesse domandarvi chi ha sparato a Portella della Ginestra, rispondete che erano in cinquecento".

La notizia della strage giunse a Palermo come una mazzata. Il prefetto Vittorelli convocò subito un "vertice" di polizia. L'ispettore Ettore Messana inviò al ministro dell'Interno Mario Scelba questo fonogramma: "Confidenti sicuri, di cui non è possibile rivelare i nomi, avevano avvertito subito l'Ispettorato di Pubblica Sicurezza che l'autore del delitto era stato Giuliano e la sua banda. Non si può escludere - ma sinora non è stato possibile nulla raccogliere al riguardo - che l'idea di un'azione criminosa contro i partiti di sinistra sia stata ispirata e rafforzata specialmente da qualche elemento isolato in strette inconfessabili relazioni con il bandito Giuliano". E il maggiore Alfredo Angrisani del gruppo carabinieri di Palermo precisò nel suo rapporto "che azione terroristica devesi attribuire a elementi reazionari in combutta con la mafia". Ergo, prima scattasse la corsa a buttare acqua sul fuoco, sembrò chiaro che se i banditi erano stati gli esecutori, Portella della Ginestra aveva anche avuto dei mandanti. E nel rincorrersi delle voci si affacciarono tante verità, una così diversa dall'altra che ognuna escludeva la successiva, con il risultato finale che né indagini, né processi avrebbero sancito "una verità" definitiva.

"Per me la strage è stata compiuta da Giuliano", volle subito ribadire l'ispettore generale di PS Ettore Messana all'onorevole Girolamo Li Causi lo stesso pomeriggio di quel Primo Maggio 1947 in una riunione che si tenne a Palermo. Come facesse a esserne sicuro così in fretta meravigliò molti. E Messana: "Forse che quella non è una zona comandata da Giuliano?".

Per il 3 maggio i sindacati proclamarono uno sciopero generale. Alla vigilia si verificarono in Parlamento duri scontri. Il dc Bernardo Mattarella protestò contro "le manifestazioni che gettano ombra di turbamento nella vita politica siciliana". E il parlamentare comunista Girolamo Li Causi tuonò: "I nomi sono corsi sulla bocca di tutti. Noi li facciamo perchè li abbiamo fatti sulla stampa...". E parlò di boss e "famiglie" che, a suo dire, avrebbero pilotato e protetto l'azione di Giuliano, ma facendo chiaramente intendere che, al disopra di tutti, c'erano stati mandanti tra i politici. Il ministro degli Interni Mario Scelba, forte dei telegrammi ricevuti dagli inquirenti palermitani, Messana in testa, affermò che non si trattava di strage politica "poichè nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sè la manifestazione e la sua organizzazione".

Più per quieto vivere che per reale convinzione una retata portò in galera 170 mafiosi, tra cui cinquanta vennero messi in libertà 15 giorni dopo, il resto prima dell'estate, quando si addebitò l'intera responsabilità alla banda Giuliano. Ci vollero dunque un paio di mesi per restringere le indagini al "re di Montelepre" e ai suoi uomini, ma da allora non basteranno decenni per sapere nomi e cognomi di coloro che presumibilmente li avevano armati. Nel 1949 il giornalista Jacopo Rizza, intervistando Giuliano nel suo inaccessibile rifugio da latitante, gli chiese: "Può farmi una dichiarazione su Portella della Ginestra? Chi ha sparato quel Primo Maggio di sangue sui comunisti?". Ma Turiddu tagliò corto: "Non ho nessuna dichiarazione da fare, almeno per il momento".

Nell'aprile del 1950, sempre dalla latitanza, il bandito inviò una lettera alla Corte d'Assise di Viterbo; parlò di "triste errore"; precisò che il piano era solo quello di "prelevare quelli che ritenevo responsabili e giustiziarli lì stesso leggendoci quale era la ragione della loro morte"; sottolineò d'aver provato dolore quando il giorno dopo seppe "e ci interrogammo a vicenda se qualcuno aveva osato sparare direttamente sulla massa...". Chiaro l'intento di Turiddu: da una parte accreditare la versione della fatalità e dell'incidente in modo da continuare a riproporsi agli occhi di molta gente come colui che spesso aveva tolto ai ricchi per dare ai poveri; dall'altra, visto che ormai era ostaggio della mafia e dei politici in rapporto con i boss, assicurarsi attraverso la sua omertà un corridoio di impunità o addirittura un salvacondotto per poter lasciare presto l'Italia. E questo comportamento il bandito lo mantenne in altri due memoriali. Ma poichè il processo di Viterbo alla fine risultò centrato su Portella della Ginestra, sparito dalla scena Giuliano (vedremo come e perchè) toccò al suo ex luogotenente, nonchè cugino Gaspare Pisciotta, sciogliersi la lingua, lanciare messaggi in codice, tentare ricatti, far balenare che un giorno o l'altro avrebbe vuotato il sacco. Era chiara la sua strategia: per lui e gli altri della banda, accusati di decine e decine di delitti, l'unica difesa possibile era alzare sempre più in alto il tiro pensando di poter ottenere considerazione e rispetto. Così non si seppe mai dove stesse il vero o il verosimile, la falsità o la mezza verità e soprattutto sino a che punto l'intera storia della banda Giuliano fosse stata scritta da Turiddu e dai suoi uomini o si fosse invece perpetuata anche tra strumentalizzazioni politiche, piani mafiosi, scenari di intrighi e lotte sotterranee tra gli stessi inquirenti.

"Banditi, mafia e carabinieri eravamo tutti una cosa come la Santissima Trinità: il padre, il figlio e lo spirito santo", urlò un giorno Pisciotta in un'udienza processuale. E in quanto alla strage, se ne uscì un altro giorno con questa frase: " Coloro che ci avevano fatto promesse di liberazione qualora avessimo fatto la strage si chiamano così: il deputato dc Bernardo Mattarella, il principe Gianfranco Alliata di Monreale, l'onorevole Leone Marchesano e il signor Scelba... ". Proseguì Pisciotta: "Furono Marchesano, il principe Alliata e l'onorevole Mattarella a ordinare la strage". Come faceva a saperlo? "Dopo le elezioni del 18 aprile- disse ancora Pisciotta -Giuliano mi mandò a chiamare e ci incontrammo con Bernardo Mattarella e Giacomo Geloso Cusimano. L'incontro tra noi due e i due mandanti avvenne in contrada Carini dove Giuliano chiese che le promesse fatte il 18 aprile venissero mantenute. I due tornavano da Roma e ci hanno fatto sapere che l'onorevole Scelba non era d'accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi...".

Si aprì così un capitolo infinito che al sodo non solo portò a dure smentite degli interessati, ma anche a una carrellata di atti ufficiali: per esempio, già al processo Viterbo, i presunti rapporti tra Mattarella e Scelba con Giuliano, di cui parlava Pisciotta, non trovarono nè conferma dagli altri protagonisti della banda, nè riscontri. Cosicchè negli anni diventarono solo echi senza prove, magari per far riflettere e studiare il clima infuocato e controverso di quei primi dieci anni di dopoguerra siciliano, ma di assoluta inutilità processuale e dibattimentale. Al di fuori poi del processo di Viterbo, i restanti nomi di Gianfranco Alliata di Monreale, Leone Marchesano e Giacomo Geloso Marchesano, come presunti implicati nella strage, riapparvero nel 1969 tra le carte di un uomo politico della Sinistra indipendente che aveva militato nel Partito d'Azione e che raccontava quanto nel 1951 gli avrebbe confidato un deputato monarchico. Apriti cielo! Riesplose uno scenario di querele e di controquerele che ci porterebbe davvero lontano raccontare nei dettagli e che oltretutto ufficialmente e processualmente ancora una volta non avrebbe chiarito nulla visto che il tribunale di Palermo archiviò quanto riguardava questa coda della vicenda, scoppiata a 18 anni di distanza dalla strage. Fu così che da quel momento su Portella della Ginestra cadde il silenzio totale, senza che si conoscessero mai i mandanti: la partita praticamente si era chiusa portando davanti alla giustizia e condannando una parte dei superstiti della banda, alcuni dei quali quel Primo Maggio per giunta a Portella neppure c'erano. Se poi vogliamo fare i conti con il resto della storia di quegli anni la stessa capitolazione della banda, la fine di Turiddu Giuliano e l'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta restarono capitoli in penombra, mai del tutto ricostruiti nei loro veri retroscena.

L'uomo che aveva l'ordine di prendere Giuliano, era nativo di Feltre, provincia di Belluno. Proveniva dalla gavetta, con grossa esperienza militare in Asia minore e nella guerra in Spagna. Per il colonnello dei carabinieri Ugo Luca, il nome di Salvatore Giuliano significava solo un bandito da consegnare alla giustizia, a qualsiasi costo, anche morto. Stabilì il comando generale del Corpo Repressione Banditismo a Palermo, contando su 1500 uomini, tra cui 800 guardie di Pubblica Sicurezza, 5 raggruppamenti, 3 capisaldi territoriali a Corleone, Montelepre ed Alcamo. E scelse subito una strettissima cerchia di collaboratori: l'ufficiale Giacinto Paolantonio, i marescialli Giovanni Lo Bianco e Giuseppe Calandra che su Turiddu e i suoi uomini sapevano vita e miracoli, ma soprattutto il capitano Antonio Perenze. Esperto di banditi, lunghe permanenze anche in Etiopia e in Libia. 

Il compito si presentò subito difficile: insieme a Giuliano c'erano sempre in latitanza gaglioffi terribili, determinati e potenti come Gaspare Pisciotta, Giuseppe Cucinella, Salvatore Pecoraro, Rosario Candela, Frank Mannino, Nunzio Badalamenti e Castrense Madonia. E al colonnello Luca fu subito chiaro che sarebbe stato possibile mettere le mani su Turiddu e i suoi solo se la mafia avesse deciso definitivamente di mollarli.

A contattare i boss ci pensò il maresciallo Lo Bianco, incominciando ad avvicinare sulle pendici del Montepellegrino don Nitto Minasola, il quale precisò subito che non avrebbe mosso un dito finchè non fosse arrivato un placet superiore. Ma il primo disco verde delle cosche si concretizzò nel facilitare la cattura di due picciotti. Allora il maresciallo Lo Bianco si impuntò: "A noi interessa innanzitutto Turiddu". E l'altro rispose: "Accontentatevi. Chissà. Magari da cosa nasce cosa". Che si fosse aperto uno spiraglio definitivo il sottufficiale lo capì quando, spalleggiato da 3 carabinieri, riuscì a mettere le manette ai polsi di Frank Mannino, detto Ciccio Lampo, inviato a un appuntamento che s'era rivelato una trappola. Ma Lo Bianco voleva altre prede. "D'accordo - disse Minasola- adesso gliene do due in una volta. Ma è necessario che andiamo a prenderli in campagna".

Andarono a bordo di un camion dell'Esercito verniciato di rosso, su cui venne applicata la targa della provincia di Messina. A un certo punto il camion si fermò. Da una siepe sbucarono don Nitto Minasola. Subito dopo Castrenze Madonia e Nunzio Badalamenti. Il maresciallo finse di essere un inviato di Giuliano: "Sbrigatevi. Abbiamo da fare molta strada". Aprì lo sportello posteriore del cassone e fece entrare i due in ampi cesti di vimini. Il camion ripartì e naturalmente "approdò" presso la caserma dei carabinieri di Palermo. Cosicchè altri due uomini di primo piano vennero sottratti all'operatività della banda Giuliano. La strategia ormai era chiara: continuare a fare il vuoto intorno a Turiddu, senza neppure informare la magistratura, in attesa della mossa finale e del sì della mafia. Ecco perchè lo scatenato maresciallo Lo Bianco non si mostrava pago. Riagganciò don Nitto Minasola per farsi consegnare Salvatore Pecoraro ma durante il viaggio il bandito fiutò il tranello, cercò di fuggire sparando una sventagliata di mitra che infranse il parabrezza, ma in risposta ricevette alcune pistolettate che, uccidendolo, imbrattarono di sangue gli altri occupanti dell'auto. Allora il maresciallo Lo Bianco, pressato dallo stesso colonnello Luca e dai suoi collaboratori Paolantonio e Perenze, mostrò di non accontentarsi più. Disse chiaro e tondo che voleva Giuliano, ma di Giuliano non vedeva traccia. Fu qui che a Paolontonio, profondo conoscitore del territorio e delle cosche, venne un'ideuzza mica male: fare in modo che a Turiddu venisse in mente di estorcere del denaro a un possidente, titolare del feudo "Dicisa" di Corleone, il quale però non avrebbe dovuto pagare, ma aspettare. Risultato: Giuliano si arrabbiò, considerò il comportamento del possidente un'offesa personale, però decise di non esporsi di persona, ma mandò un messaggio attraverso un mafiosetto di Castelvetrano il quale, arrivando nella masseria del feudo, venne immediatamente arrestato e interrogato sul posto dal colonnello Luca. E venne rilasciato solo quando si impegnò che entro tre giorni avrebbe dato informazioni giuste per la cattura di Giuliano.

Intanto Turiddu era furibondo. Si chiedeva dove fossero spariti Frank Mannino, Castrense Madonia, Nunzio Badalamenti e Salvatore Pecoraro. Lo inquietava il fatto che un possidente per la prima volta si fosse rifiutato di pagare. Ciò voleva dire che il suo potere scricchiolava. C'era lo zampino della mafia? Ebbe allora una pensata: "Chiediamo spiegazioni a don Nitto Minasola". Cosicchè, seguito da Gaspare Pisciotta e da altri, andò a bussare alla sua porta. "Scendi subito, siamo carabinieri", mentì una voce. Don Nitto abboccò e Giuliano se lo portò via.

Minasola giurò e spergiurò che non aveva alcuna colpa; che insomma, era stato costretto a consegnare Mannino, Madonia, e Badalementi, dietro ordine di gente che stava sopra di lui, per esempio don Ignazio e Nino Miceli delle cosche di Monreale; che c'era di mezzo un terzo che rispondeva al nome di Dimenico Albano. Giuliano urlò di rabbia, poi si rivolse al cugino-luogotenente Gaspare Pisciotta: "Tienilo d'occhio tu. Io vado a Monreale e sotto gli occhi di tutti, affinchè vedano e imparino, fuciliamo quei tre".

Come poteva sapere che questa decisione si sarebbe rivelata decisiva nel perderlo? Infatti Pisciotta restò solo con Minasola, sapendo benissimo che al primo movimento sospetto avrebbe solo dovuto ammazzarlo, impiccandolo a un albero. Ma il mafioso sfoggiò allora tutta la sua abilità di gran volpone. Riuscì a convincere Pisciotta che ormai la causa era persa; che sul suo capo pendevano ben 38 mandati di cattura; che però avrebbe potuto salvarsi, se solo avesse avuto un po' di coraggio... Alla fine fu lo stesso Pisciotta a proporgli: "D'accordo, fammi incontrare con questo maresciallo Lo Bianco". 

Il sottufficiale si presentò al colloquio indossando pantaloni di velluto e stivali, armato di pistola. Disse: "Tu ci dai Giuliano, vai all'estero con la taglia da 50 milioni, potrai vivere come un signore". Si sentì rispondere: "No, all'estero mi uccidono. Voglio restare qui. E la Sicilia dovrà essermene grata perchè l'ho liberata da un sanguinario. Fammi parlare con il colonnello Luca". Pur fiutando la possibilità di un agguato, il comandante del Corpo Forse Repressione Banditismo non aspettava che questo! L'appuntamento con Pisciotta avvenne in una fattoria alla periferia di Monreale. Impossibile ricostruire il colloquio poichè non ci furono testimoni. Sta di fatto che già al secondo incontro Pisciotta si trovò tra le mani un lasciapassare, "fabbricato" da un collaboratore del colonnello il quale, dopo aver preso un foglio di carta intestata del ministero degli Interni, si rivolse a una tipografia di Palermo, ci fece stampare un attestato, poi andò da un artigiano, si fece fare un timbro rotondo con la scritta "Ministero degli Interni", infine fece falsificare la firma del ministro Mario Scelba. Risultato: con un documento irregolare Pisciotta diventò "benemerito" per grossi servizi resi allo Stato e avrebbe potuto circolare liberamente. Da questo momento il colonnello Luca potè gestire il confidente a suo piacere. Sicuro di portare a termine "l'operazione Giuliano", diramò un ordine secco: "Fermate qualsiasi operazione contro il banditismo". E una sera dei primi di luglio di quel 1950 annunciò: "A Giuliano restano 36 ore di libertà". 

Tra le 23,30 e le 24,00 del 4 luglio 1950, in piazza Matteotti a Castelvetrano, si fermò una 1100 nera, con targa civile, dei carabinieri. Scendendo, Gaspare Pisciotta disse al milite in borghese Renzo Renzi: "Aspettami e non muoverti". Poi fece 250 metri e, seguendo un codice che lui ben conosceva, bussò alla casa De Maria. Trovò Giuliano ancora a tavola con qualche avanzo della cena, insieme all' "avvocaticchio" Gregorio De Maria, dottore in legge senza però mai esercitare la professione e la domestica, una ragazza di vent'anni.

Turiddu, contando a sua volta su più di un contatto riservato con qualche grosso esponente delle forze dell'ordine e avendo ricevuto segnalazioni precise, avrebbe subito investito il cugino di male parole: "So benissimo quello che stai facendo. Sei un voltagabbana e basta". Ma Pisciotta avrebbe fatto il candido, giurando: "Turiddu, ma che stai dicendo? Chi ti racconta queste cose ha un solo scopo: metterci l'uno contro l'altro". E probabilmente, se proprio non riuscì a tranquillizzarlo, riuscì a prendere tempo continuando a discutere della questione. Mentre l' "avvocaticchio" e la domestica se ne andarono a dormire, i due continuarono a parlare nella camera dove, accanto al lettino di Turiddu ne era stato preparato un secondo, come altre volte. Giuliano, più stanco del solito e molto depresso, si tolse la pistola dalla cintura e la pose sul comodino, a destra del letto, accanto a un fascio di biglietti da mille che portava in tasca. E si sdraiò in maglietta e pantaloni sulle lenzuola. Pisciotta se ne restò su una sedia, continuando la discussione, sino a tornare a litigare. All'improvviso Giuliano allungò la mano verso la pistola, ma Pisciotta fu più svelto, sparò due colpi di mitraglietta e uccise il "re di Montelepre".

Attenzione, poichè i morti non parlano, un giorno sarebbe stato questo il racconto del "sopravvissuto". Ma presumibilmente le cose andarono in un altro modo: mentre Giuliano sprofondava in un sonno profondo, Pisciotta restava sveglissimo, pur fingendo di dormire. Avendo la certezza che per lui la partita stava per chiudersi e che si trovava a un bivio (o prepararsi ad affrontare la punizione di Giuliano e del resto della banda o rispettare "i patti" con i carabinieri per diventare un "uomo libero"), aspettò solo il momento giusto per agire. Poi impugnò la sua mitraglietta e sparò con spietata determinazione: due colpi da meno di un metro di distanza, mirando alla testa. Forse però tremava. E i proiettili si conficcarono nella spalla, a destra, quanto però bastava per uccidere. Poi raccolse la sua roba, prese una cartelletta in cui Giuliano conservava la corrispondenza e nella ritirata si imbattè nel padrone di casa, svegliato dagli spari e intento a chiedere: "Ma si può sapere cos'è successo?". E Pisciotta: "Non è successo niente. Si tolga di mezzo".

E scese di corsa attraverso la scala interna, chiudendosi la porta alle spalle. "E' morto", annunciò al capitano Antonio Perenze che, all'esterno, attendeva notizie. Infine scappò verso la piazza Matteotti, dove il carabiniere Renzi era sempre in attesa sulla 1100 nera. Pisciotta salì, l'auto scomparve verso Palermo, il capitano Perenze bussò alla porta dell' "avvocaticchio". Quando gli venne aperto, sul letto Giuliano era già cadavere. Il capitano ordinò: "Lavate tutto. Non deve restare una macchia. E aiutateci a rivestirlo". Gli si infilò la cintura nei pantaloni, ma vennero saltati due passanti. Gli si infilarono i calzini. Gli si misero si sandali, dimenticando di allacciarne uno. Poi si provvide a trasportare il cadavere nel cortile: il capitano Perenze si fece aiutare dai carabinieri Giuffrida e Catalano. Ma il trasporto non fu facile: Turiddu pesava oltre 95 chili. Poichè la scala era stretta, il cadavere urtò un paio di volte contro il muro. Finalmente in cortile venne apparecchiata la messinscena. E il corpo senza vita apparirà come nelle foto che gireranno il mondo e passeranno alla storia: petto in giù, gamba sinistra dritta, gamba destra ripiegata, braccio destro ben teso con le dita della mano unite e il palmo aperto; braccio sinistro curvato sotto, tra il petto e la nuda terra del cortile. La canottiera era rossa di sangue: le due ferite provocate dai proiettili erano però al di sotto della macchia. E nel trambusto nessuno s'accorse che il sangue è portato a colare giù, non su. Infine, messo a posto il corpo, vennero sparate alcune raffiche di mitra. Perenze e i due carabinieri usarono i loro mitra, ma anche quello di Giuliano, in modo da far credere che c'era stato un conflitto a fuoco. Poi anche il mitra e la pistola di Giuliano vennero sistemati accanto al cadavere: uno a circa un metro e venti dalla mano destra, con il caricatore girato verso il corpo e la canna verso i piedi, l'altra a meno di un palmo dalla testa. Infine Parenze informò via radio il colonnello Luca che, partito da Palermo, si era fermato a Camporeale e che dunque si mise frettolosamente in viaggio verso Castelvetrano. Alle 5,40 riuscì a dettare il primo fonogramma al Ministero dell'Interno: "Da Castelvetrano colonnello Luca segnala che ore 3,30, dopo inseguimento centro abitato et conflitto sostenuto da pattuglia CFRB rimaneva ucciso bandito Salvatore Giuliano Punto Nessuna perdita parte nostra Punto Cadavere piantonato disposizione autorità giudiziaria Punto Riserva particolari".

Alle 10 esatte del 5 luglio due carabinieri bussarono a Montelepre alla casa di Maria Lombardo Giuliano: "Signora, suo figlio è morto". Lei rispose: "Non ci credo. E' un tranello": Ma quelli insistettero: "Venga con noi. Deve riconoscerlo". Allora Maria Lombardo, seguita dalla figlia Giuseppina, dal marito di questa Francesco Gaglio e da un nipotino di 7 anni, tutti vestiti a lutto, salirono sull'auto dei carabinieri. E raggiunsero il cimitero di Castelvetrano. 

Il cadavere era al centro dell'obitorio, su un tavolo di marmo, con due blocchi di ghiaccio ai lati. Sotto la nuca, un troncone di albero d'ulivo. Maria Lombardo Giuliano si avvicinò al tavolo. E svenne. Le praticarono un'iniezione, Quando si riprese, disse: "Sì, quello è mio figlio che mi è nato 28 anni fa". E abbracciò il cadavere. Figlia e genero fecero altrettanto. Intanto Maria Lombardo urlava: "L'hanno tradito. L'hanno tradito". Svenne una seconda volta. E tornò a riprendersi per gridare ancora: "Sangue mio, sangue mio! Ti hanno tradito, ti hanno assassinato". Infine si buttò a terra e con il viso, con la bocca, sembrò percorrere la scia di sangue che il figlio aveva lasciato durante il tragitto all'obitorio. Poi se andò accompagnata dai parenti. All'esterno risuonarono alcuni colpi sordi: era il martello che frantumava il cranio in punto preciso per estrarre il cervello da inviare al laboratorio centrale di criminologia. Quattro giorni dopo la cassa venne caricata sul tetto di un'auto grigia che da Castelvetrano partì alla volta di Montelepre. Due persone anche sui predellini per tenerla ben ferma nell'eventualità di scossoni. Alla fine del viaggio la cassa superò il cancello del cimitero di Montelepre su cui sta scritto: "Fummo come voi, sarete come noi". E momentaneamente venne sistemata in una colombaia, ma dalla colombaia sarebbe passata in una vera tomba, dove anche mamma Maria, con suoi segreti, avrebbe raggiunto il suo Turiddu il 20 gennaio 1971. E intanto agli atti, datato 9 luglio 1950, restava come primo vero rapporto quello dei carabinieri: ribadiva la versione del conflitto a fuoco.

"Fu accertato - diceva il rapporto dei carabinieri - che il mitra del bandito Giuliano si era inceppato dopo il dodicesimo colpo (caricatore da 40) forse per la soverchia compressione della molla rimasta per lungo tempo inoperosa. In via Mannone fu rinvenuto un altro caricatore vuoto sparato dal bandito, anche questo di 40 colpi. Complessivamente da noi furono esplosi 191 colpi: carabiniere Renzi, 60; carabiniere Giuffrida, 42; carabiniere Catalano, 56; capitano Perenze, 33".

Che "verità"! Che "dettagli"! Il 16 luglio 1950 però, un magistrale articolo di Tommaso Besozzi sull'Europeo ribaltò la versione ufficiale, rivelò che i mitra avevano praticamente ucciso un uomo già morto. L'inchiesta di Besozzi mise in risalto una serie di particolari: già alle 22 del 4 luglio, i carabinieri erano ben nascosti e mimetizzati sui tetti; a mezzanotte i garzoni di un fornaio vicino alla casa dove si nascondeva Giuliano, intenti a sottrarsi alla calura estiva cercando qualche pausa di refrigerio sulla porta, erano stati invitati a chiudersi in bottega. Quelli ovviamente se n'erano rimasti a spiare: probabilmente da un buco della serratura o comunque da una fessura avevano anche visto uscire dalla casa De Maria un uomo scalzo (Gaspare Pisciotta), il quale aveva raggiunto un'automobile che si era allontanata a tutto gas. Una vecchia ricordava che prima delle raffiche c'erano stati due colpi sordi, come di rivoltella: e non poteva aver udito male, perché era estate e si dormiva con le finestre aperte.

Come se ciò non bastasse, l'esame del cadavere dava altri particolari sconcertanti. Un lago di sangue nel cortile? Macché: c'era poco sangue, al punto che gli operatori cinematografici, per camuffare l'esistenza di una grossa chiazza, avevano buttato per terra qualche secchio d'acqua. E le ferite? Eccole, eguali, come se provocate in seguito a colpi sparati a bruciapelo. Su un braccio, ecco una serie di graffiature o di abrasioni, come in un cadavere trascinato o tirato. Al polso, neppure l'orologio. E poi il volto sembrava di un ucciso nel sonno, altro che nella rabbia e nella foga di un conflitto!

Uno scoop giornalistico quello di Besozzi che passerà alle antologie. Sul numero successivo dell'Europeo un altro cronista di razza, Nicola Adelfi, parlò di "Giuliano tradito ed ucciso nel sonno da Gaspare Pisciotta". Dopo la morte di Turiddu il Corpo Forze di Repressione Banditismo venne sciolto, eppure sarebbe stato bene partire proprio da Giuliano per inchiodare pure fiancheggiatori e protettori del passato. O forse era meglio per tutti chiudere quegli anni insanguinati per non andare a scovare scheletri negli armadi anche di insospettabili?

Il 9 novembre 1950 Maria Lombardo Giuliano denunciò Pisciotta ai carabinieri di averle assassinato il figlio. Il 24 aprile 1951 l' "avvocaticchio" De Maria confermò in pratica la versione di Besozzi e di Adelfi, poi sposò la sua domestica e insieme a lei disse addio alla Sicilia, emigrando in Virginia. Eppure i carabinieri per un po' difesero ancora la loro tesi. Iniziò così un procedimento che coinvolse il capitano Perenze e i carabinieri Renzi, Giuffrida e Catalano, ma su altri versanti non escluse l'ex ispettore di Pubblica Sicurezza Ciro Verdiani, sospettato di favoreggiamento: più volte aveva incontrato Giuliano, scritto lettere, consigliato di guardarsi da Pisciotta che lo tradiva, gestito contatti ponendosi a volte "al di sopra, o meglio al di fuori, di quella che è la volontà dello Stato". Sicuramente Verdiani non era d'accordo con i metodi del colonnello Luca e immaginava di far calare il sipario sull'operatività del "re di Montelepre" in modo diverso. Forse con promesse, tipo l'espatrio, si illudeva che Turiddu potesse diventare collaboratore della polizia, facilitando grandi retate.

Il 14 marzo 1952 il decesso a Roma di Verdiani fece in modo che il suo ruolo in quegli anni piano piano si dissolvesse sotto i riflettori. Il 16 marzo 1954 il capitano Perenze e i tre carabinieri tornarono davanti ai giudici, ma stavolta cambiarono la vecchia versione. Ed entro il 20 settembre, in circostanze varie, vennero assolti. In sede disciplinare ci fu un piccolo stralcio per il colonnello Luca diventato intanto generale. In un rapporto al Ministro della Difesa-Esercito del 20 dicembre 1954, i generali di Corpo d'Armata Biglino, Carmineo e Pizzorno dichiararono che "non erano state violate le leggi dell'onore militare", aggiunsero di non "avere nulla da eccepire sulla condotta del generale Luca" e testualmente conclusero: "La commissione ha voluto riandare per un'ampia visione del fenomeno alla storia del brigantaggio che afflisse l'Italia per tanto tempo dopo il 1860. Ed ha trovato in essa predecessori e al Giuliano e al Pisciotta e situazioni se non eguali certo analoghe. In quel lontano passato, ingenti furono le forze preposte alla repressione, forze che assommavano a circa 90 mila uomini, gravissime le perdite tra esse, eccezionali le misure assunte dal governo, numerose le ricompense, tra le quali parecchie medaglie d'oro. Equilibrati i termini di confronto, non si può non concludere con un giudizio a favore del CFRB che, senza misure d'eccezione, con forze ridotte, senza perdite, venne a capo di una situazione che aveva dato in precedenza filo da torcere ed aveva provocato 120 morti tra i tutori dell'ordine. Perdite che il generale Luca con saggia, accorta condotta, riuscì ad evitare". 

Insomma, secondo i tre alti ufficiali, la linea di comportamento era stata consigliata dalla situazione. E poi in certi momenti, come quello relativo alla cattura di Giuliano, "il modo" dell'azione aveva ben poco rilievo rispetto al "risultato" stesso dell'azione. Il generale Luca diventò vicecomandante dell'Arma dei carabinieri: già in pensione, morì d'infarto alle 21 del 4 luglio 1967, esattamente nel diciassettesimo anniversario di quella sera in cui aveva lasciato Palermo per dirigersi verso Camporeale, restando in attesa di notizie su Giuliano per poi precipitarsi a Castelvetrano. Ma che ne fu degli altri "attori" che, con ruoli diversi, avevano animato l'epilogo della vicenda? 

L'ufficiale Paolantonio, lasciato praticamente in disparte da Luca nella fase finale dell' "operazione Giuliano", dopo la notte di Castelvetrano abbandonò l'Arma dei carabinieri per diventare comandante del Corpo dei Vigili Urbani di Palermo. E il maresciallo Lo Bianco, il leggendario "don Peppino", vero castigamatti dei banditi, il cui ruolo si rivelò risolutore per la capitolazione della banda Giuliano? Dopo Castelvetrano, rimase nell'Arma ancora dieci anni. Pare che ad amici e interlocutori continuasse a esternare per diverso tempo una specie di cruccio: "Poteva prenderlo vivo".

E che accadde invece agli altri "attori" sul fronte di Giuliano? Don Nitto Minasola, che si era eretto a trait d'union tra mafia e carabinieri per la cattura dei latitanti, dopo la fine di Turiddu era letteralmente terrorizzato, temendo che potesse succedergli qualcosa. Spesso andò a trovare il generale Luca a Roma, chiedendo che gli venisse permesso di lasciare la Sicilia e dicendo che gli sarebbe bastato qualche pezzo di terra da coltivare nel Nord Italia. Si aspettava quasi un premio alla sua collaborazione. E faceva bene ad aver paura: alle 13,50 del 21 settembre 1960, esattamente dieci anni e 76 giorni dopo l'episodio di Castelvetrano, due killer attesero don Nitto in aperta campagna e lo seguirono sino in paese, senza farsi accorgere. Poi spararono, fulminandolo sulla strada principale di San Cipirrello. In quanto a Gaspare Pisciotta, il luogotenente-cugino che uccise il "re di Montelepre per godersi premi e benemerenze, diventò protagonista di un altro capitolo che non cessò di infittire la ragnatela dei "misteri d'Italia".

Il colonnello Luca e il capitano Perenze, che dopo la morte di Turiddu venne subito promosso maggiore per i meriti conseguiti "nel conflitto a fuoco contro Giuliano", erano sicuri che negli ultimi tempi il bandito avesse scritto un memoriale, il terzo, ma il più importante perché conclusivo. Perciò il 7 luglio 1950, solo tre giorni dopo, Perenze chiese a Pisciotta: "Gasparino, ce lo dai quel documento?". Pisciotta, se ben ricordate, allontanandosi da casa De Maria, s'era portato la busta di pelle in cui il cugino teneva la corrispondenza. All'interno però Luca e Perenze avevano trovato solo alcune lettere di noti separatisti. E il memoriale? "Mi dispiace - disse Gaspare - ma io non so niente". Pregò però Perenze di riferire a Luca, diventato intanto generale, che si impegnava "a farglielo avere".

Il fatto che il memoriale non si trovasse, sicuramente aveva fatto piombare molta gente nel terrore di ricatti. Cosicché a cercarlo non erano solo i carabinieri per completare l'operazione, ma anche qualcuno che, su mandato altrui, prospettò allo stesso Pisciotta danaro, un passaporto, una bella vita in Sudamerica, "così noi qui ce ne stiamo tutti in pace". Pisciotta si convinse che la sua salvezza stesse nel tenere tutti sulla corda, facendo capire che se il memoriale non l'aveva, sapeva però dove mettere le mani al momento opportuno. Infatti pensava che l' "avvocaticchio" De Maria avesse messo da parte il documento che Giuliano aveva scritto con la sua stilografica verde. Perciò disse al maggiore Perenze: "Va tutto bene. Il 15 luglio alle 10 De Maria l'aspetta al quinto chilometro della strada per Mazara del Vallo". Immaginarsi l'ufficiale. All'ora stabilita fu puntuale e chiese al l' "avvocaticchio": "Allora, vuol darmi il memoriale?". Quello fece una smorfia, schioccò la lingua tra i denti come per dire no. E poiché Perenze si mostrò irritato, giurò: "Tutto bruciai. E lo feci per paura di essere arrestato. Quando lei lasciò la casa, presi tutte le carte, ne feci un fascio e vi diedi fuoco". E pronunciò queste parole in un modo tale da convincere persino quel furbone del maggiore Perenze che davvero non mentiva. Ergo, se il memoriale era stato bruciato, non c'era nulla da fare. Anzi, vicenda conclusa, se non ci fosse stata da sistemare la questione Pisciotta che viveva a Monreale in casa della fidanzata e che il generale Luca andava spesso a trovare nonostante dovesse essere consegnato alla magistratura, la quale lo stava giudicando in contumacia. E poiché c'era la madre di Turiddu che parlava di Pisciotta come di un "Giuda", per sottrarlo ad eventuali vendette Luca e Perenze credettero bene di portarselo a Palermo, anzi il maggiore lo ospitò a casa sua. Così Gasparino, detto anche "Aspanu", fece la bella vita, frequentando cinema, ristoranti, negozi, a volte in borghese, a volte in divisa da ufficiale dei carabinieri, sempre insieme al maggiore o a militi fidati. E poiché sputava sangue, venne visitato da un noto tisiologo e affrontò tutti gli esami clinici, regolarmente pagati dall'Arma. A un certo punto però anche a Palermo la presenza di Pisciotta diventò imbarazzante e pericolosa, sia per l'eventualità ancora di vendette, sia perché a capo della Ps palermitana c'era quel Carmelo Marzano che conosceva i metodi dell'Arma per esserne stato sottotenente e che ben ricordava il volto di Pisciotta: tempo prima l'allora colonnello Luca gli aveva fatto firmare un lasciapassare, spacciandolo come un informatore qualunque. Perciò Luca e Perenze decisero di portare nottetempo Gaspare da sua madre Rosalia, a Montelepre.

Qui Aspanu si costruì subito un palchetto a doppio fondo sotto il tetto dove andarsi a nascondere nel caso in cui ci fossero state visite. I suoi rapporti con i carabinieri continuarono per lettera attraverso staffetta o mediante qualche visita di Perenze. Poi Luca partì per Roma e Perenze non solo non andò più a Montelepre, ma lo invitò a non imbucare le lettere "perché alla posta potrebbero aprirle e leggerle". Fu così che per cinque mesi Pisciotta restò rintanato in casa della mamma. 

Una mattina di dicembre piombarono cinquanta agenti di polizia che circondarono l'abitazione e la perquisirono da cima e fondo, però senza risultati. Allora un sottufficiale disse alla madre e alla sorella: "Noi non ce ne andremo. Resteremo un giorno, un mese, una settimana, il tempo che occorre". Un'ora dopo si sentì un colpo di tosse: era Aspanu che, minato dalla tisi e terrorizzato, emergeva dal palchetto con il fondo dei pantaloni imbrattati. Gli diedero il tempo di cambiarsi e se lo portarono via. Successivamente la versione che di quella cattura avrebbe fornito l'interessato, sarebbe stata diversa: disse d'essere stanco (si era reso conto che i carabinieri l'avevano abbandonato) e d'aver telefonato al questore di Palermo: "O mi mettete dentro o comincio a raccontare in piazza a Montelepre, quello che è successo a Giuliano". E aggiunse d'aver aspettato due giorni, facendosi trovare vestito di blu con la camicia di seta e la cravatta argentata. Bluff? Vanagloria? Di certo, Carmelo Marzano, per far notare la differenze di stile tra Arma e Ps, disse in conferenza stampa: "Io i banditi li prendo vivi, non morti". Così anche Gaspare Pisciotta finì la sua latitanza e venne consegnato ai magistrati. Una cinquantina di processi riguardanti i componenti della banda Giuliano si estinsero in istruttoria per la morte dei protagonisti. Il maxi processo di Viterbo, iniziato il 2 giugno 1950, interrotto il 5 luglio alla notizia dell'uccisione di Turiddu e ripreso il 5 aprile 1951.

Portella della Ginestra e lo sterminio della banda Giuliano, scrive Giulia Silvestri. Salvatore Giuliano e la sua banda sono gli unici colpevoli per la strage di Portella della Ginestra. Era la loro personale lotta al comunismo che li portò a uccidere il giorno della festa dei lavoratori, nel 1947. Aveva ragione il Ministro Scelba, della DC, che minimizzò l’avvenimento adducendone come causa l’arretratezza della zona. Aveva torto Girolamo Li Causi, del PCI, che il 2 Maggio, in Parlamento, urlò i nomi di quelli che riteneva fossero i veri mandanti: i latifondisti, i capi mafia e gli esponenti del Partito Monarchico. Portella è stato un episodio a sé stante, e lo dimostrano episodi precedenti e successivi a quel giorno: è, infatti, proprio in quegli anni che cominciano a essere uccisi uno dopo l’altro i sindacalisti che lottano per le terre agricole insieme ai contadini; ed è dopo l’eccidio che in una notte, tra il 22 e il 23 Giugno del 1947, vengono colpite dalla banda Giuliano, varie sedi del PCI, del PSI e della CGIL a Partinico, Carini, Borgetto, San Giuseppe Jato, Monreale e Cinisi. Questa immensa opera di depistaggio, che vuole Salvatore Giuliano come il grande e unico colpevole, fa acqua da tutte le parti. I cadaveri furono spostati senza che venisse registrata la loro esatta posizione, le prove furono sparse tra i vari Comuni perché non ci fu un’azione di coordinamento tra le varie forze di polizia e carabinieri dei Paesi confinanti, non venne tenuta in considerazione una postazione di tiro nonostante fosse stata notata da vari testimoni. Nonostante queste scorrettezze nelle indagini, ci sono testimoni oculari, reperti medici e documenti, che aiutano a capire come in quell’occasione fu orchestrata una delle più grandi messe in scena di questi anni di stragi, connivenze e segreti di stato. Il 27 Aprile del 1947 viene recapitata a Giuliano una lettera. Le versioni sono contrastanti. La prima persona che ne parlò, un uomo della banda di nome Giovanni Genovese, raccontò che dopo aver letto la lettera, Giuliano la bruciò e annunciò che il 1° Maggio sarebbero andati a sparare a Portella. La madre di Salvatore Giuliano rivelò di aver recapitato la lettera di amici americani, al figlio, ma dopo l’eccidio. Un altro uomo della banda, il più fidato amico di Giuliano, nonché suo traditore, Gaspare Pisciotta, disse di aver visto la firma di Mario Scelba in fondo alla lettera; secondo lui nella stessa vi era la conferma della presenza di Li Causi a Portella: avrebbero dovuto sequestrarlo e giustiziarlo davanti alla folla. L’unica certezza su questa lettera è che Giuliano, qualche giorno dopo, non ha agito unicamente di sua iniziativa. Il 1° Maggio Giuliano organizzò l’attacco dividendo la banda in due postazioni differenti, la prima guidata da lui, la seconda guidata da Fra’ Diavolo; vi era anche una terza postazione, nella quale si erano sistemati i mafiosi. Avrebbero dovuto sparare per spaventare, non sparare per uccidere: questo era il piano del capo banda, eppure ad uccidere fu proprio Fra’ Diavolo. Chi era questo bandito? Salvatore Ferreri, detto Fra’ Diavolo, con un mandato di cattura sulle spalle, ricomparve all’inizio del 1947, dopo un periodo di latitanza. Diventò confidente dell’Ispettore Generale di Polizia Ettore Messana e si fece reintegrare nella banda Giuliano. Non era l’unico a fare il doppio gioco: anche Giuseppe e Fedele Pianello erano confidenti dell’Ispettore, nonché del Colonnello dei Carabinieri Paolantonio. Se carabinieri e polizia avevano tre infiltrati nella banda, è davvero possibile che fossero all’oscuro di quello che sarebbe accaduto a Portella? Grazie alle testimonianze, oggi si sa che c’era una quarta postazione, quella sul Cozzo Dxuhait. Chi vi stazionava? Perché non vennero fatti sopralluoghi? Alcune persone ferite, data la posizione in cui si trovavano, potevano essere state colpite solo dal Cozzo Dxuhait. In più, furono ferite da schegge di bombe leggere. La banda di Giuliano riceveva le proprie munizioni ed armi dall’OSS (il predecessore della CIA), tuttavia non aveva ricevuto in dotazione delle bombe leggere. Chi poteva procurarsele e quindi utilizzarle il giorno della strage? Ad avvalorare il fatto che dietro le morti di quel giorno c’era qualcuno che stava usando Giuliano, ci sono gli avvenimenti posteriori al 1° Maggio. La maggior parte dei componenti della banda fu uccisa negli anni successivi. Quest’opera di pulizia è cominciata il 26 Giugno del 1947: vengono uccisi Fra’ Diavolo, in circostanze tutt’altro che chiare, e i fratelli Pianello, i più vicini alla polizia e ai carabinieri. Nel 1948, il nuovo prefetto di Palermo, Angelo Vicari, per mettere alle strette i componenti della banda, arrestò senza reali motivi i parenti più stretti di Salvatore Giuliano, Pasquale Sciortino, Gaspare Pisciotta e Frank Mannino. Il 1950 fu l’anno in cui si consumò il grande accordo tra mafia, carabinieri e polizia per arrivare alla cattura del resto della banda e soprattutto a quella di Giuliano. Il maresciallo Lo Bianco contattò il suo confidente e mafioso Benedetto Minasola, don Nittu, per mettere in atto questo piano. Don Nittu riuscì ad ingannare Salvatore Pecoraro, che fu ucciso da Lo Bianco e Paolantonio; poi attirò in trappola Rosario Candela, anch’egli ucciso, e Frank Mannino, catturato. Fu la volta di Gaspare Pisciotta: per lui i piani erano diversi, infatti fu convinto a collaborare per la cattura di Giuliano, con la promessa di essere espatriato al più presto. Anche altri due componenti della banda, Madonia e Badalamenti, furono incarcerati grazie a Minasola. Nella notte tra il 4 e il 5 Luglio del 1950 Salvatore Giuliano fu ammazzato. È stato ucciso dal capitano dei carabinieri Perenze in un conflitto a fuoco, come lui stesso ha riferito? Questa versione non è credibile perché nessuno ha sentito una sparatoria quella notte, in più il mitra posizionato accanto al cadavere risultò non avere sparato neanche un colpo. Giuliano è stato ucciso da Pisciotta in casa dell’uomo che li stava ospitando? Oppure è stato ucciso da Nunzio Badalamenti, componente della banda, dopo essere stato addormentato con un sonnifero nel vino, perché si era risvegliato troppo presto? E in quest’ultimo caso erano davvero presenti i boss Miceli e Minasola, oltre al traditore Gaspare Pisciotta? Questa parte della storia sulla prima strage di Stato si conclude nel 1954, quando in carcere, Pisciotta viene ucciso con della stricnina inserita in un medicinale. La banda Giuliano non esiste più. Coloro che sapevano più di quello che noi sappiamo oggi, sono stati tutti uccisi. Ciò che possiamo dire a più di sessant’anni di distanza è che quell’eccidio, compiuto in un disegno di cui intuiamo solo la lotta alle sinistre e al comunismo, vede non solo la complicità di mafie e banditismo, ma anche la complicità dei servizi segreti americani e italiani. Non resta che concludere con le parole che il bandito Antonino Terranova Cacaova rilasciò a un giornalista durante il processo sulla strage: “In questo caso ci sono state persone che hanno avuto interesse a schiantare il banditismo senza distruggere la mafia”. Perché, aggiungo io, anche in quel caso, la mafia divenne un’alleata. Fonte: “Portella della Ginestra. La strage che ha cambiato la storia d’Italia.” Angelo La Bella – Rosa Mecarolo

Sulla morte di Salvatore Giuliano se ne sono dette tante, ed è stato anche girato un bellissimo film da Francesco Rosi, esistono almeno cinque differenti versioni, ma fino al 2016, anno in cui, finalmente lo Stato dovrebbe aprire i suoi cassetti, da oltre mezzo secolo ermeticamente chiusi, la verita' non la sapremmo con precisione. Scrive Pulcinella291. Una cosa è quasi certa: gli uomini del colonnello Luca si accordarono segretamente con il boss Ignazio Miceli e il suo vice Benedetto Minasola, che gli consegnarono numerosi membri della banda Giuliano. Nella primavera 1950 venne ucciso dai carabinieri in uno scontro a fuoco il bandito Rosario Candela e venne catturato il suo sodale Frank Mannino, detto «l'americano», attirato in una trappola proprio da Minasola e che a seguito di questi accordi avvenne anche la morte di Salvatore Giuliano. Ora, cinquant’anni dopo l’uscita di “Salvatore Giuliano”, il film di Francesco Rosi sul primo grande mistero siciliano, affiora una nuova clamorosa verità sulla fine del bandito, affiora una ipotesi. Che non sarebbe morto a Castelvetrano. E non sarebbe stato ucciso da Gaspare Pisciotta. Per mezzo secolo e oltre la versione ufficiale è stata quella raccontata per immagini da Rosi: Giuliano ucciso nel sonno da Pisciotta nella casa di Castelvetrano dove si nascondeva. Ripulito e rivestito alla meglio, il cadavere sarebbe poi stato trasportato al centro del cortile del palazzo, dove gli uomini del colonnello Ugo Luca e del capitano Antonino Perenze inscenarono una sparatoria, mentre Pisciotta si dileguava nell’ombra.

La nuova versione ce la racconta il professor Michele Antonino Crociata eminente uomo della Chiesa trapanese. Secondo Crociata, Giuliano non morì a Castelvetrano ma in una casa colonica presso Monreale, denominata “Villa Carolina”, il 3 luglio 1950. E soprattutto che non fu ucciso da Pisciotta ma dal bandito Nunzio Badalamenti, che fu fatto evadere segretamente dal carcere dell'Ucciardone dai servizi segreti, incaricandolo del delitto per poi farlo tornare dietro le grate in attesa della gratitudine dello Stato.

Ma cosa, realmente sarebbe avvenuto? “Mentre Turiddu consumava un pasto frugale in una stanza semibuia, Gaspare Pisciotta, coadiuvato nell’ombra da Nunzio Badalamenti, che i carabinieri stessi gli avevano dato come guardaspalle, riuscì a versare un forte sonnifero nel bicchiere di vino del capo che inavvertitamente lo bevve. (…) Poi si mise a letto e dormì profondamente. Dopo circa mezz’ora, legati con ferro filato i polsi e le caviglie di Turiddu, immerso in un sonno profondo, Pisciotta, lasciato Nunzio Badalamenti a custodia del morituro, si allontanò per avvertire i capimafia Minasola e Miceli, interessati a loro volta di avvertire il colonnello Luca ed il capitano Perenze. Il Badalamenti, però, rimasto solo in quella casa, nella speranza di potere ricevere anch’egli almeno parte della taglia e, con essa, recuperare una più sicura libertà, senza averne ricevuto incarico e, quindi, di sua iniziativa, fece fuoco tre volte su Giuliano, che passò istantaneamente dal sonno alla morte". Alle 7 del 4 luglio, scrive ancora Crociata, Luca e Perenze arrivarono a Monreale “e presero atto con sollievo della morte di Giuliano”. Dopodiché, afferma lo storico, “bisognava, però, necessariamente attribuire allo Stato, e non certamente alla mafia, la vittoria finale su Salvatore Giuliano [...] Il cadavere, già rigido, fu rivestito alla meno peggio e trascinato su un autofurgone. Dopo aver preso le armi, gli oggetti, gli indumenti di Turiddu, ogni traccia di ciò che era accaduto in quella casa, venne cancellata con cura e il gruppo partì diretto a Castelvetrano” dove, nella notte fra il 4 e 5 luglio, si organizzò la farsa della sparatoria.

MAFIA. PRESTANOMI E RICICLAGGIO. L'ONESTA' DELLA SOCIETA' CIVILE.

RIINA E PROVENZANO, DUE MAFIE A CONFRONTO. Se il primo era a favore delle stragi, il secondo preferiva una mafia che non facesse rumore, per non avere il fiato sul collo dello stato e continuare i suoi affari, scrive Anna Ditta su "TPI" Giovedì 14 luglio 2016. Il boss corleonese Bernardo Provenzano, deceduto il 13 luglio a dieci anni dalla cattura che nell’aprile del 2006 metteva fine a 43 anni di latitanza, viene spesso presentato come l'altro volto di Totò Riina. Se questo era sostenitore dell'attacco diretto e brutale, della prova di forza della mafia contro lo Stato che ha prodotto le stragi del '92 e del '93, Provenzano è diventato noto per la "strategia della sommersione", che puntava a mettere fine agli spargimenti di sangue - o quantomeno a quelli a quelli più clamorosi - a beneficio degli affari. Il ragionamento è pressappoco questo: gli affari vengono prima di tutto. E ciò che piace agli affari è la tranquillità, non avere troppo Stato sul collo. Proprio sulla base di questa scelta strategica dal momento dell’arresto di Riina nel ’93 - quando Provenzano ha assunto il comando - Cosa Nostra ha smesso di ordinare e commettere stragi. Non vuole fare scalpore, non le piace essere sulla bocca di tutti perché così diventa facilmente individuabile. Al contrario, le piace camuffarsi, e lo fa comprando i favori di politici e prestanome e la professionalità dei colletti bianchi. Cancellare il confine tra la mafia e i corrotti compiacenti la rende ancora più pericolosa perché confusa, annebbiata in quel caos in cui tutto è tutto e quindi niente è niente. Nonostante la malattia di Provenzano e il carcere duro di Riina, lo scontro tra queste due strategie mafiose è stato negli anni – ed è tuttora – presente, come emerge dalle intercettazioni di Totò Riina in carcere divulgate a settembre 2014. Nelle conversazioni intercettate dai carabinieri, il capomafia corleonese critica Matteo Messina Denaro, attuale capo della cupola latitante dal ’93, accusandolo di aver interrotto la guerra allo Stato e di dedicarsi solo ai suoi affari. “Se ci fosse stato qualche altro avrebbe continuato” ha detto in quell’occasione Riina, “e non hanno continuato, e non hanno intenzione di continuare”. Il fatto che Messina Denaro sia il nuovo sostenitore della "sommersione" trova conferma anche in un'altra intercettazione, raccolta nell’ambito delle indagini per l’omicidio del pregiudicato Salvatore Lombardo nel 2009. La conversazione si svolge stavolta tra due presunti affiliati di Cosa Nostra che si lamentano del capomafia castelvetranese perché a loro tocca il lavoro sporco, quando in cambio hanno poco o niente e in tutto ciò il boss non dà segnali della sua presenza. A quel punto uno dei due aggiunge: "scrusciu non ci deve essere", non si deve fare rumore. La mafia, almeno quella di Messina Denaro, ancora adesso non vuole che ci sia rumore. O almeno, non vuole che lo sentiamo. Intanto centinaia di migliaia di euro viaggiano da Milano alla Sicilia, nelle valigette di avvocati e professionisti, come dimostra l'operazione di qualche giorno fa che ha portato alla luce le infiltrazioni di Cosa Nostra negli appalti di Expo attraverso il consorzio Dominus. Riina è sempre lì, in carcere ma ancora battagliero. Provenzano da oggi non c'è più. Messina Denaro è ancora lì fuori. Cosa Nostra non vuole farci sentire il suo rumore. Sta a noi decidere se rimanere con occhi e orecchie aperte o metterci le cuffie.

25 anni fa l’arresto di Totò Riina. Quel bidone tirato al boss e mai raccontato, scrive Alberto Di Pisa il 18 gennaio 2017 su "Sicilia Informazioni". Il 15 gennaio 1993 è una data importante. E’ quella in cui dopo parecchi anni di latitanza viene arrestato dai carabinieri del ROS Totò Riina, il capo di Cosa Nostra. Venne arrestato all’uscita di un residence ubicato in una zona residenziale di Palermo, al numero civico 54 di via Bernini. La casa dove Riina, nell’ultimo periodo, trascorse la latitanza si trovava in una villa all’interno di un parco dove vi erano le case miliardarie di alcuni costruttori mafiosi. Da qui uscì la mattina del giorno 15 prima di essere arrestato dai carabinieri nei pressi di un motel. Nel comunicato diffuso dai carabinieri la sera stessa si leggeva: “Ci sono riscontri documentali e altro…Riina è passato da questo posto con tutta la sua famiglia”. In effetti nel “covo” vennero rinvenuti degli oggetti che avvaloravano questo convinzione; quaderni di bambini, disegni a colori di ragazzini che potevano essere riconducibili ai figli del boss. Il complesso residenziale dove si trovava l’abitazione occupata dal capo di Cosa Nostra e dalla sua famiglia, era di proprietà dei costruttori Sansone, personaggi che avevano già costituito oggetto di indagini nell’ambito del maxiprocesso e collegati ai noti mafiosi Spatola e Inzerillo, esponenti di spicco della “vecchia” mafia. Nel complesso di cui sopra occupavano delle abitazioni anche boss di rilievo della mafia quali Antonino Rotolo, capomandamento dell’uditore e costruttori come Sbeglia, personaggi che avevano costituito oggetto di indagini sul riciclaggio del denaro sporco. Questi erano i vicini di casa di Totò “u curtu” capo di Cosa Nostra. Per comprendere lo spessore criminale degli imprenditori Gaetano e Pino Sansone, nel cui complesso residenziale, come si è detto, trascorreva la propria latitanza Riina, basta considerare che in una delle loro società, “la Mediterranea”, figurava come socio Flavio Carboni insieme a Luigi Faldetta, prestanome di Pippo Calò. La casa in cui alloggiava Riina insieme alla propria famiglia era stata venduta alcuni anni prima dai Sansone alla “Villa Antica s.p.a”, che poi l’aveva affittata a tale signor Bellomo che altri non era se non Totò Riina. Già nel 1989 Contorno aveva rivelato la presenza di Riina e di altri latitanti a Palermo. Interrogato il 9 agosto 1989 da un gruppo di lavoro della Commissione antimafia affermò infatti Contorno: “I latitanti stanno a Palermo, girano, fanno i propri comodi e traffici. Pippo Gambino, Salvatore Riina, Provenzano. Questi hanno tutti una villa. Loro adesso hanno delle zone fisse (che sono le zone di San Lorenzo, di Sottana, di Altofonte). Queste zone sono tranquillissime. C’è una caserma dei carabinieri con soltanto quattro carabinieri. Il maresciallo e qualche altro li vede ma fa finta di niente non perché non li vuole arrestare ma perché ha paura. Hanno ragione e io non gliene faccio una colpa”. Andate a fare una perquisizione in tutte quelle ville e vediamo chi viene fuori. Loro fanno tutto quello che gli pare. Perché? perché lo Stato è assente. Nel quartiere San Lorenzo tutti lo conoscono, lo incrociano, lo salutano. Che cosa si è fatto allora? Quali indagini furono ordinate?…” A fronte delle suddette affermazioni che sembravano adombrare quasi una protezione dei latitanti da parte delle forze dell’ordine e dello Stato, il deputato Azzaro chiedeva a Contorno cosa intendesse dire con tali affermazioni. Così rispondeva il collaboratore: “La polizia vuol fare qualcosa, ma sono pochi quelli che vogliono fare. Quei poliziotti a cui gli capita di incontrare una macchina con Salvatore Riina, con Pippo Gambino o con Daniele Fidanzati, non lo possono fermare perché ci sono altre macchine e li fanno fuori. Non ci pensano che andranno a finire in galera perché hanno tutti l’ergastolo. Gli elementi importanti sono stati condannati all’ergastolo. Fanno riunioni, comandano, lasciano, ammazzano, fanno tutto quello che gli pare. Perché? Perché lo Stato è assente”. Il difensore di Riina, avvocato Fileccia dichiarava di avere più volte incontrato il suo cliente in Sicilia, affermazione che dava luogo a un coro di sdegnate dichiarazioni e che determinava l’apertura nei suoi confronti di una inchiesta e l’invio di una informazione di garanzia in cui si ipotizzava il reato di favoreggiamento nei confronti di Riina, inchiesta conclusasi con una archiviazione. Gli incontri erano giustificati dal rapporto professionale e dalle esigenze di difesa del latitante. Stando quindi a quanto sostenuto da Contorno, che Riina circolasse liberamente a Palermo era cosa nota da quasi tre anni.

Ma chi era Toto Riina, “u curtu”, la “belva”, come veniva soprannominato? Molto si è detto e si è scritto su di lui. Io mi limiterò a riferire quanto accertato giudiziariamente su questo personaggio, dai pool antimafia della Procura della Repubblica e dell’Ufficio istruzione di Palermo nell’ambito delle indagini che portarono al c.d. Maxiprocesso. Riina era l’esponente di massimo rilievo della cosca mafiosa corleonese e certamente il protagonista principale della c.d. “guerra di mafia” finalizzata allo sterminio degli appartenenti alla c.d. “vecchia mafia”, quella facente capo alle famiglie mafiose dei Bontate, degli Inzerillo, degli Spatola. A seguito delle rivelazioni di Buscetta fu giudiziariamente accertata la sua appartenenza a Cosa Nostra e il suo inserimento, al posto di Luciano Leggio, nella “commissione”, l’organo che deliberò i più gravi delitti di mafia. Venne condannato per numerosissimi omicidi tra cui quello del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del Cap. dei carabinieri Mario D’Aleo, del prof, Paolo Giaccone, del dirigente della Squadra mobile Boris Giuliano, del presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, dei giudici Falcone e Borsellino e degli uomini delle loro scorte e per molti omicidi maturati nell’ambito della guerra di mafia tra cui quello di Alfio Ferlito, di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Girolamo Teresi. Ma l’elenco sarebbe lungo. Fu certamente, insieme a Bernardo Provenzano, uno dei personaggi più inafferrabili, come testimoniato dalla sua lunga latitanza oltre che uno degli esponenti più feroci e sanguinari di cosa Nostra. Fu l’inascoltato Leonardo Vitale che per primo, squarciando l’omertà di cui Riina era sempre riuscito a circondarsi, lo portò all’attenzione degli investigatori e dei magistrati, evidenziandone l’enorme potere che fin dal 1973 esercitava in seno all’organizzazione mafiosa. Si legge infatti nell’ordinanza- sentenza del maxiprocesso: “Narrò infatti il Vitale che Salvatore Riina, da lui personalmente conosciuto nell’occasione, intervenne ad una riunione, svoltasi con la partecipazione, tra gli altri, di Giuseppe Calò, nel corso della quale si doveva decidere l’attribuzione di una tangente, alla famiglia mafiosa di Altarello o a quella della Noce, da imporsi all’impresa Pilo, che doveva iniziare lavori in tale “fondo Campofranco”. Prevalse la famiglia della Noce sol perché il Riina manifestò per essa le sue preferenze, affermando “io la Noce ce l’ho nel cuore”.” Ma come risultò da un rapporto dei Carabinieri del 25 agosto 1978, il potere di Riina derivava anche dai ferrei rapporti che lo stesso aveva istaurato con altre potenti famiglie mafiose quale quella di Mazara del Vallo, facente capo a Mariano Agate o con gruppi mafiosi del Palermitano quali quelli dei Madonia di San Lorenzo testimoniata quest’ultima circostanza dal fatto che il 6 settembre 1973 , al matrimonio svoltosi in Corleone, di Giovanni Grizzaffi, nipote di Riina, intervennero tra gli altri proprio i Madonia di San Lorenzo. Ma il legame con la potente famiglia dei Madonia emerse soprattutto allorquando il 6 agosto del 1974, in occasione dell’arresto di Leoluca Bagarella, cognato di Riina, si accertò che Bagarella aveva trovato rifugio durante la latitanza in un edificio di Largo san Lorenzo dove era ubicata anche l’abitazione di Francesco Madonia. Di Riina parlò anche, come risulta dal menzionato rapporto dei carabinieri, il noto boss mafioso Giuseppe Di Cristina, poco prima di essere ucciso, anche lui inascoltato al pari di Leonardo Vitale. Riferì infatti Di Cristina: “Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia “le belve”, sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Leggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono gli assassini del vice pretore onorario di Prizzi.” Ed aggiunse che gli stessi Riina e Provenzano erano responsabili, “su commissione dello stesso Leggio, dell’assassinio del Tenente colonnello Russo che il Leggio aveva portato sul banco degli imputati sia nel processo dei 114 che in quello della anonima sequestri”. Aggiunse che alla fine del 1975 inizio 1976, in una riunione tenutasi a Palermo, Riina e Provenzano avevano proposto l’eliminazione del Ten. Col. Russo, proposta che però non era stata accolta per la netta opposizione dell’ala moderata dell’associazione mafiosa ma anche per l’intervento personale dello stesso Di Cristina. Quest’ultimo poi, in una riunione tenutasi sempre a Palermo nel 1977, essendo nel frattempo stato ucciso il colonello Russo, aveva stigmatizzato duramente l’assassinio di quest’ultimo e le altre gesta della cosca di Leggio. Scrivono a questo punto i Carabinieri nel più volte menzionato rapporto: “Le parole di biasimo e di condanna pronunciate dal Di Cristina erano state riferite da due persone, rivelatesi poi aderenti al clan leggiano, allo stesso Leggio che ne decretava l’eliminazione”. Il di Cristina subiva quindi in Riesi un attentato al quale sfuggiva. Ma non poteva scampare alla sua sorte che era ormai segnata ed infatti venne ucciso a Palermo il 30 maggio 1978. Va detto che il Di Cristina, essendosi reso conto, dopo il fallito attentato di Riesi, che la sua sorte era ormai segnata e nella consapevolezza che il mandante dell’omicidio sarebbe stato il Riina, tentò di mettere sulle tracce di quest’ultimo gli inquirenti rivelando che: “Riina Salvatore è stato recentemente localizzato nella zona di Napoli. Avuta la notizia i “moderati” hanno inviato sul posto cinque persone allo scopo di poterne seguire i movimenti. A tal fine esse hanno preso in locazione due appartamenti”. Ma questo tentativo si rivelò vano e non impedì l’esecuzione del piano di morte deciso da Riina e possibilmente anche da Provenzano. Purtroppo, come già accaduto per il Vitale, le sue importanti rivelazioni, nel corso delle quali aveva definito Riina egualmente pericoloso ma ben più intelligente di Provenzano, non furono adeguatamente valorizzate e sviluppate. Ma non soltanto Di Cristina ebbe a parlare della estrema pericolosità di Riina, ma ciò risultò anche dalle dichiarazioni di altri soggetti che tutti, unanimemente ne evidenziarono oltre che il ruolo di primo piano in seno a Cosa Nostra, la particolare ferocia. Così dicasi per Gennaro Totta, Vincenzo Marsala, figlio del capo mafia di Vicari Mariano Marsala, Vincenzo Sinagra.

Ovviamente le maggiori notizie su Riina le fornì agli inquirenti Tommaso Buscetta, il quale, così come sostenuto da Di Cristina, definì il Riina molto più intelligente di Provenzano anche se egualmente feroce. Buscetta parlò del contrasto insanabile che si era determinato tra Bontate e Riina tant’è che il Bontate gli aveva manifestato il proposito di uccidere il Riina durante una riunione della “Commissione”; cosa che non potè essere attuata dato che Riina, evidentemente venuto a conoscenza del progetto di Bontate, non intervenne alla riunione della Commissione. Dopo la strage di Ciaculli (in cui morirono parecchi carabinieri per l’esplosione di una Giulietta imbottita di esplosivo), Cosa Nostra, a seguito della attività repressiva dello Stato, versava in grosse difficoltà. Si decise pertanto nel 1969-1970 la costituzione di un triumvirato che avrebbe dovuto ricostituire Cosa Nostra. Di questo triumvirato entrò a fare parte Riina insieme a Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate. In questo periodo, Riina, approfittando della detenzione di Badalamenti e Bontate, assunse una posizione di predominio effettuando delle operazioni non gradite agli altri due componenti del triunvirato come ad esempio il sequestro dell’industriale Cassina. Ma il predominio di Riina in Cosa Nostra si affermò ulteriormente allorquando, nel 1975, arrestato per la seconda volta Luciano Leggio, lui divenne il capo effettivo ed incontrastato della famiglia corleonese entrando anche a far parte della ricostituita “Commissione”. Addirittura arrivò a sostituire Michele Greco nella Commissione “interprovinciale”, una sorta di supercommisione che aveva la funzione di coordinare l’attività delle Commissioni di Cosa Nostra. Riina, di conseguenza, finì con il rappresentare uno dei più alti vertici militari di Cosa Nostra il che gli consentì di partecipare a numerosi e cruenti episodi di mafia, come ad esempio, per citarne soltanto alcuni, l’omicidio (in correità con Luciano Leggio) del Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, gli omicidi del cap. Basile, di Reina (segretario regionale della D.C.), di Piersanti Mattarella (Presidente della Regione Sicilia) o l’attentato al sindaco di Palermo, Avv. Nello Martelucci, al quale una esplosione distrusse la villa, gli omicidi del vicequestore Ninni Cassarà e del dirigente della sezione catturandi della Squadra mobile, Beppe Montana. Senza dire che fu colui che, dopo la uccisione di Stefano Bontate, avviò la c.d. “guerra di mafia” che fece centinaia di morti tra gli affiliati alla c. d. mafia perdente.

Quanti boss truffati dai prestanome. Riina: “Mi hanno rubato una farmacia”, scrive Salvo Palazzolo mercoledì 5 aprile 2017 su "La Repubblica". Da Bontate a Provenzano tutti i capi beffati da insospettabili che hanno deciso di tenersi case e negozi. Il più arrabbiato di tutti è Totò Riina. «Ho una farmacia che era intestata a uno — l’hanno intercettato in carcere — a sua volta questo l’ha intestata a sua madre… io sto rimanendo un poco male». Un insospettabile prestanome ha truffato il capo dei capi in carcere dal 1993, si è impossessato di una sua proprietà, e non gli fa avere neanche le rendite mensili, come un tempo. Anche Bernardo Provenzano, morto a luglio in carcere, sarebbe stato beffato da un misterioso prestanome, che dagli anni Ottanta tiene alcuni suoi appartamenti nella zona del mercato ortofrutticolo. C’è pure un altro caso. Raccontano che i parenti di Tano Badalamenti, il vecchio capomafia di Cinisi morto in un carcere americano, abbiano invece cercato di ritornare in possesso di una grande sala ricevimenti alle porte di Palermo. Ma si sono scontrati con un altro prestanome che ha perso la memoria e non riconosce più i potenti di un tempo caduti in disgrazia. Boss beffati e derubati, segno che il potere di una certa mafia blasonata arranca. I padrini hanno ancora patrimoni conservati, nonostante i sequestri e le confische di tanti anni di lotta a Cosa nostra, ma spesso non sanno come recuperarli. Un vero problema per i boss, ora che quei soldi servirebbero per le spese legali, ma soprattutto per i figli che sono cresciuti. È il vero segno della sconfitta, essere truffati dagli insospettabili che negli anni Ottanta e Novanta hanno costruito improvvise ricchezze grazie ai soldi dei mafiosi. Quelli che hanno perso di più sono i parenti di Stefano Bontate, il principe di Villagrazia come lo chiamavano prima dello sterminio dei corleonesi di Riina. Nei racconti dei pentiti ci sono sacchi pieni di banconote che venivano portati in macchina a Milano, nei ruggenti anni Settanta. L’azione di recupero crediti messa in campo è stata massiccia, e non senza conseguenze. Nel 1989, il cognato di Bontate, Giacomo Vitale, numero 33 della loggia Camea, non tornò mai più da un appuntamento a Brancaccio, dove era corso appena uscito dal carcere, per chiedere conto del patrimonio scomparso del principe di Villagrazia. Il quartiere Brancaccio dei fratelli Graviano, i signori delle stragi, che a Milano erano di casa e lì furono arrestati nel 1994.

Boss truffati e derubati. Riina non riesce a darsi pace. Nella «cassaforte» della farmacia «ci ho messo i soldi — dice — ci ho infilato qualche 250 milioni, poi lui si è fatto grande». Il ricco prestanome. Riina, intercettato dalla Direzione investigativa antimafia di Palermo nell’ambito del processo “Trattativa Stato-mafia”, accenna a un cognome. «La Barbera». Una traccia per risalire a quella farmacia. «Questo qui poi è andato a finire in galera, e ha intestato la farmacia alla madre». Un altro tassello. Riina è convinto che un giorno riuscirà a riavere il suo tesoretto. «Sì, il capitale è sempre lì — dice al compagno di cella — quando sarà, gli dirò: dammelo quello mio… Il passato è passato, gli dico… dammelo». Deliri di un capomafia o arroganza di un padrino che si sente ancora forte? Riina aspetta con pazienza la scarcerazione del nipote prediletto, Giovanni Grizzaffi, a fine anno dovrebbe tornare in libertà dopo trent’anni di carcere per omicidio. E potrebbe tornare a Corleone. Sussurra Riina: «Ho tante cose da sistemare, perché le mie cose sono tante».

Non lo dice solo Salvatore Riina che i patrimoni da sequestrare sono ancora tanti. Lo sosteneva anche un mafioso di rango della Cupola, Antonino Rotolo, che nel 2006 si opponeva al ritorno a Palermo degli “scappati” della prima guerra di mafia, i superstiti degli anni Ottanta che avevano trovato rifugio negli Stati Uniti. «A loro sono rimasti i beni, a noi li hanno levati», diceva Rotolo, e non sospettava di essere intercettato. Poi, nel luglio 2006, il blitz “Gotha” bloccò entrambi gli schieramenti. In cinquanta finirono in carcere. Ma molti altri ex “scappati” hanno continuato a fare la spola fra gli Stati Uniti e la Sicilia. Mentre diversi patrimoni di mafia sono in salvo all’estero. Di sicuro, ne conserva uno Vito Roberto Palazzolo, il manager di Terrasini che dopo una lunga stagione di affari in Sud Africa sta scontando una condanna per mafia al 41 bis. I pentiti dicono che era lui il tesoriere di Riina e Provenzano. Lui, naturalmente, ha sempre negato: sostiene di essere solo una vittima della mafia. Di certo c’è solo che le famiglie degli storici boss di Corleone continuano a ricevere un buon sostentamento da parte di qualcuno, parecchio devoto.

La mafia ha in mano 5 mila ristoranti. Bar, bistrot e locali esclusivi usati per riciclare il denaro dalle attività illecite delle cosche. L’ultimo sequestro a Napoli. Ma l’agromafia cresce in tutta Italia: giro d’affari da 22 miliardi. La Dia di Napoli ha sequestrato oltre 20 milioni di euro di beni nei confronti dei fratelli Potenza (Bruno, Salvatore e Assunta): tra gli immobili il ristorante Donna Sophia a Milano e la sala ricevimenti già nota come «Villa delle Ninfe» a Pozzuoli, scrive il 05/04/2017 Grazia Longo su "La Stampa”. Si comprano meno case, ma si va sempre più spesso al ristorante. E così, con la crisi del mattone, l’enogastronomia diventa il primo settore d’investimento di ’ndrangheta, camorra e «Cosa nostra» per riciclare denaro sporco. Dal Caffè de Paris di Roma, al Donna Sophia dal 1931 di Milano e Villa delle Ninfe di Pozzuoli, in provincia di Napoli, sono 5 mila i ristoranti del nostro Paese finiti nelle grinfie della criminalità organizzata. Oltre alla ristorazione, i clan hanno interessi anche sui prodotti da tavola al top del made in Italy. A partire dalle arance della ’ndrina calabrese Piromalli e l’olio extra vergine di oliva del re de latitanti Matteo Messina Denaro, fino alle mozzarelle di bufala del figlio di Sandokan del clan dei Casalesi e al controllo del commercio della carne da parte della ‘ndrangheta e di quello ortofrutticolo della famiglia di Totò Riina. Polizia, carabinieri, guardia di finanza, spesso sotto la regia della Dia, la Direzione investigativa antimafia, intensificano la loro attività - 200 mila controlli solo nel 2016 - contro questa escalation di affari loschi. E la Coldiretti, in occasione della recente presentazione del quinto rapporto sui crimini agroalimentari (#Agromafie2017), elaborato assieme ad Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, punta il dito contro il business enogastronomico delle cosche. I numeri sono allarmanti. «Il volume d’affari complessivo dell’agromafia è salito - evidenzia la Coldiretti - a 21,8 miliardi di euro (+30% in un anno) perché la filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita, ha tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni criminali. L’agroalimentare è divenuto una delle aree prioritarie di investimento della malavita che ne comprende la strategicità in tempo di crisi perché consente di infiltrarsi in modo capillare nella società civile e condizionare la via quotidiana della persone. Trentamila i terreni agricoli in mano alla criminalità». Tra i risultati nefasti c’è anche la moltiplicazione dei prezzi che per l’ortofrutta arrivano a triplicare dal campo alla tavola, ma anche pesanti danni di immagine per il made in Italy nella Penisola e all’estero, se non addirittura rischi per la salute dei consumatori. L’attenzione dei clan mafiosi sul mondo della ristorazione è a 360 gradi, dal franchising ai locali esclusivi, da bar e trattorie ai ristoranti di lusso e aperibar alla moda. E intanto ristoranti, bar, bistrot costruiscono la migliore copertura per mascherare guadagni frutto delle attività illecite: traffico di droga, estorsioni, strozzinaggio. I pubblici esercizi - grazie alla complicità di imprenditori collusi che vendono una parte delle proprie quote - sono assai utili alle associazioni criminali in quanto hanno una facciata di legalità dietro la quale è difficile risalire ai veri proprietari e all’origine dei capitali. 

TORINO. La rete dei clan: dalle pizzerie al vecchio Bar Italia. In un angolo di periferia torinese, non lontano da due caserme di polizia e carabinieri, alcuni anni fa, prima della sua chiusura, era in piena attività il Bar Italia, un locale che era qualcosa di più di un semplice esercizio commerciale in mano alla ’ndrangheta. Era una sorta di «santuario» criminale, un luogo «battezzato», o per meglio dire, «purificato» con formule ancestrali di santi e devozione, per accogliere ai massimi livelli gli esponenti della «onorata società» e le convention degli affiliati. «In questi locali “dedicati” - scrive in un passo dell’Atlante delle mafie il pubblico ministero Roberto Sparagna, magistrato che ha indagato per anni sull’infiltrazione delle cosche calabresi in Piemonte - vengono svolte attività solo apparentemente lecite. In realtà, tali esercizi commerciali sono stati trasformati in attività completamente mafiose, totalmente asservite alle necessità della consorteria». Sul fronte del riciclaggio, nel 2011, la Dia di Torino sequestrò per conto della procura di Napoli, in una delle piazze settecentesche della città, piazza Savoia, la pizzeria «Regina Margherita», locale inserito in una rete in franchising presente anche a Genova, Bologna, Varese e Napoli. Secondo gli inquirenti campani, in quella rete di pizzerie veniva riciclato il denaro del clan camorristico Potenza-Iorio. E se i locali non vengono controllati dalla criminalità organizzata, i clan si offrono come «partner» per garantirne la sicurezza. Gli investigatori chiamano «guardiania» questo ambiguo rapporto di protezione e vigilanza. A Torino, gli atti processuali, raccontano la storia della pizzeria «Il Picchio», inserita in un’area rimaneggiata da uno dei più imponenti interventi di recupero urbano della città, protetta da un clan di ’ndrangheta. Una sera, il titolare chiamò due «protettori» per un allontanare un avventore. Il cliente fu picchiato brutalmente. A dimostrazione che la presenza nel ristorante dei protettori «era - si legge in una sentenza della Cassazione - in funzione di controllo dell’attività e degli avventori per conto dell’associazione mafiosa». [Massimiliano Peggio] 

MILANO. Brera e Navigli, ecco gli esercizi in odor di camorra. Se ne era accorta Ilda Boccassini l’anno scorso: «Ci ha stupito constatare come diversi giovani appartenenti a famiglie mafiose scelgano di laurearsi in Farmacia». La farmacia di piazza Caiazzo acquistata con tanti soldi dal clan Strangio è stata la prima ma non sarà l’ultima. Perché non c’è esercizio commerciale che a Milano non ingolosisca le cosche. Negli Anni Ottanta e Novanta andava forte la moda. La catena di negozi si chiamava Uba Uba. Ce ne erano 23 in tutto il Nord. Quando arrestarono il titolare Ubaldo Nigro nel 1993, a casa gli trovarono 219 milioni di lire in contanti ma il giro d’affari era sui 200 miliardi, che al cambio fanno 100 milioni di oggi. L’imprenditore era legato al boss Franco Coco Trovato di cui riciclava i soldi del narcotraffico. Per stare sul classico non mancano i night club. Lo ’ndranghetista calabrese Salvatore Morabito il suo lo aveva aperto dentro l’Ortomercato di cui era il boss. In una botta di narcisismo lo aveva chiamato «For a King». Apre il 19 aprile 2007 lo chiudono il 3 maggio. Dentro ci sono 250 chili di cocaina. Il figlio di Tanino Fidanzati, il siciliano re della droga, amava invece il quartiere di Brera e soprattutto i suoi locali che comprava e rivendeva alla velocità della luce. Il clan dei Crisafulli di Quarto Oggiaro invece preferisce inghiottirseli. Mette le mani su un locale che va un po’ così. Ci investe tanti soldi fino ad appropriarsene lasciando il titolare senza soldi solo con la firma sui documenti. Talvolta i titolari sono invece direttamente il livello più o meno pulito delle cosche. Non si sporcano le mani con la droga. Il loro compito è solo quello del riciclaggio. Pochi anni fa a Vincenzo Falzetta detto «il banana» che ripuliva per la ’ndrangheta i proventi della cocaina sequestrarono il Café Solaire, la pizzeria biologica bio Solaire e la discoteca Maison. Suona come un’esagerazione quello che disse un pentito di mafia: «Dietro ogni pizzeria ci sono le cosche». Ma quando l’altro giorno la Dia di Napoli ha bussato alla pizzeria «Donna Sophia» è andata a colpo sicuro scoprendo investimenti milionari in odor di camorra. [Fabio Poletti] 

ROMA. Sigilli ai locali del “dominus” dell’evasione. Anche stavolta i sigilli della Guardia di Finanza hanno bloccato le porte di ristoranti di grido della Capitale. Il Varsi Bistrot in via della Conciliazione; il Frankie’s Grill in via Veneto; Augustea in viale Trastevere; La Scuderia e La Piazzetta del Quirinale (già Al Presidente: noto alle cronache perché un paio di anni fa a sette turisti thailandesi fu presentato un conto da 1.235 euro. I malcapitati denunciarono che gli erano stati addebitati 15 kg di pesce fresco, per totali 900 euro, mai richiesti e soprattutto mai consumati) in via in Arcione, dietro la Fontana di Trevi. E poi ci sono terreni, una villa, una società operante nell’enologia con annesso locale aperto al pubblico, e le quote di altre otto società che controllano diversi bar e pizzerie. Con un colpo solo, la magistratura romana ha sequestrato un patrimonio di 10 milioni di euro utilizzando le misure di prevenzione patrimoniale. Colpito dal sequestro è l’imprenditore della ristorazione Francesco Varsi, originario della Campania, classe 1947, il «dominus» di un articolato sistema societario, attraverso il quale era stato schermato un ingentissimo patrimonio, assolutamente sproporzionato rispetto alla sua capacità reddituale. «Modestissima, stando alle dichiarazioni dei redditi», spiegano gli investigatori. Una lunga e brutta storia di precedenti lo accompagna: nel periodo che va dal 1966 al 2011, l’uomo ha accumulato oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, vendita di prodotti industriali con segni mendaci, minaccia, emissione di assegni a vuoto, lesioni personali, furto e rapina. Ma questo è il passato. Il presente di Varsi, come raccontano le carte dell’operazione Boccone amaro, sono abili evasioni fiscali, portate avanti grazie a un labirintico reticolo di società, e scientifico reinvestimento nel settore della ristorazione. Lo hanno definito un «imprenditore specializzato nel delinquere nel settore tributario». [Francesco Grignetti]

Ecco dove vengono riciclati i soldi sporchi di imprenditori falliti e ‘ndrangheta, scrive "Il Moralizzatore" il 28 dicembre 28. L’operazione “PECUNIA OLET” ha consentito di ricostruire minuziosamente l’attività di “pulizia di denaro sporco” (denaro proveniente da reati tributari e fallimentari commessi da un gruppo criminale) e di procedere, in data odierna, al sequestro, tra Italia e Svizzera, di beni e liquidità per un ammontare di circa € 10 milioni. L’associazione per delinquere era già stata disarticolata nel 2014, allorquando nell’ambito dell’operazione denominata “MERCATO LIBERO”, coordinata dalla Procura della Repubblica di Brescia, erano stati tratti in arresto 9 soggetti, alcuni dei quali ritenuti contigui a cosche della ‘ndrangheta calabrese. Nonostante gli intervenuti arresti, i militari della Guardia di Finanza del Nucleo di Polizia tributaria di Brescia, unitamente al personale della Squadra Mobile della Polizia di Stato di Brescia hanno continuato l’indagine, riuscendo ad individuare la destinazione finale dei flussi finanziari oggetto dell’attività di riciclaggio attraverso specifici accertamenti bancari sviluppatisi sul territorio nazionale e all’estero per il tramite di attività rogatoriali. Tali sviluppi investigativi, coordinati dalla Procura della Repubblica di Bergamo, hanno dato origine all’odierna operazione “PECUNIA OLET”, così denominata in quanto il denaro trasferito lasciava, nei vari passaggi, il proprio “odore”, la propria “scia”. Gli indagati, probabilmente confidando nel famoso “segreto bancario” svizzero e sanmarinese (ormai venuto meno) e nell’utilizzo di società offshore, si sentivano al riparo da qualsiasi eventuale provvedimento della giustizia italiana. Più nel dettaglio, l’attività di riciclaggio era governata da una donna di origine bergamasca, di anni 41, imprenditrice operante nel settore dell’edilizia e attualmente residente in Svizzera. La citata imprenditrice, con l’ausilio dei propri familiari, aveva provveduto a “svuotare” le società edili (società gestite dal sodalizio criminale e intestate a prestanomi) delle risorse finanziarie attraverso trasferimenti bancari da conti italiani, verso conti svizzeri, sanmarinesi e di Singapore. Tali conti esteri erano intestati a società offshore (scatole vuote formalmente aventi sede a Panama, British Virgin Islands, Marshall Islands) gestite a loro volta da società fiduciarie svizzere. Dietro i predetti schermi vi erano gli indagati, quali titolari effettivi delle operazioni e dei rapporti finanziari.

La mela stilizzata è spiegabile come segue: il fiduciario elvetico parlando telefonicamente con gli indagati italiani delle movimentazioni di denaro “da ripulire”, utilizzava l’espressione criptica “magazzino di mele”, per indicare i conti correnti svizzeri, destinazione ultima del riciclaggio. In conclusione, in data odierna, militari della Guardia di Finanza, unitamente al personale della Polizia di Stato-Squadra mobile di Brescia, coordinati dalla Procura della Repubblica di Bergamo, hanno proceduto al sequestro di immobili e quote societarie sul territorio nazionale. Contestualmente, il Tribunale Federale di Berna, su richiesta rogatoriale inoltrata dall’Autorità giudiziaria bergamasca, ha dato esecuzione a due provvedimenti di sequestro per equivalente e “sproporzione”, emessi dall’Ufficio G.I.P. del Tribunale di Bergamo, per alcuni milioni di euro.

Mafia: confermata confisca da 700 milioni a prestanome di Messina Denaro. Passano allo Stato i beni dell'imprenditore della grande distribuzione Grigoli fra i quali decine di punti vendita affiliati Despar. Altri due sequestri nel Catanese, sigilli al ristorante "Pitti": "Proprietà riconducibile al clan Santapaola-Ercolano", scrive il 23 settembre 2016 "La Repubblica". Tre diverse operazioni di sequestro di beni ad prestanome dei più potenti e pericolosi clan mafiosi siciliani. La prima riguarda il latitante "storico" Matteo Messina Denaro. La sezione misure di prevenzione della Corte d'Appello di Palermo ha confermato la maxiconfisca da 700 milioni nei confronti dell'imprenditore della grande distribuzione Giuseppe Grigoli, originario di Castelvetrano e considerato prestanome del superboss. Per i magistrati Grigoli non sarebbe, come lui stesso aveva cercato di accreditarsi, vittima di Cosa nostra ma "imprenditore colluso", che ha seguito un "intero percorso esistenziale" al servizio di esponenti dell'associazione criminale, "primo tra tutti il Matteo Messina Denaro", ultimo latitante di spessore della mafia.

Passa allo Stato così l'immenso patrimonio del patron della Despar, dai supermercati sparsi in mezza Sicilia alle aziende della grande distribuzione. I beni sono ritenuti di fatto del superlatitante. Il provvedimento è stato emesso dal collegio presieduto da Maria Patrizia Spina, a latere Antonio Caputo e il relatore Raffaele Malizia, e ribadisce la figura di sostanziale prestanome rivestita da Grigoli. Confermato il decreto della sezione misure di prevenzione del tribunale di Trapani, risalente al luglio 2013, con la revoca formale del sequestro di due società, il Gruppo Grigoli Distribuzione e il Gruppo 6 Gdo, perchè entrambe sono state definitivamente confiscate in sede penale e la nuova confisca sarebbe stata, nella sostanza, un duplicato della prima. Il Gruppo 6 Gdo gestiva direttamente 43 punti vendita, situati in numerosi paesi delle province di Trapani e Agrigento e altri 40 punti vendita affiliati al marchio Despar. Grigoli ha 67 anni e ne sta scontando 12 di reclusione: i suoi beni sono considerati "di origine e di natura mafiosa" e sono costituiti da 12 società, 220 fabbricati (palazzine e ville) e 133 appezzamenti di terreno per 60 ettari. A indagare su di lui sono state la questura di Trapani e la Dia. Confermati anche i quattro anni di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno.

A Catania i beni aziendali della società 'San Giuliano s.r.l.', tra cui il ristorante 'Pitti' di Via Antonino di Sangiuliano, nel centro storico di Catania, sono stati sequestrati dalla Polizia, su ordine del Gip al termine di indagini dalle quali l'attività di ristorazione è risultata riconducibile a Salvatore Caruso, di 62 anni, uno degli arrestati, insieme a Roberto Vacante, di 53 anni, nell'ambito dell'operazione "Bulldog", condotta nei confronti di 15 presunti esponenti della famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano. Secondo gli investigatori la società "San Giuliano srl", proprietaria del ristorante, sarebbe riconducibile a Caruso e la gestione del 'Pitti' sarebbe stata fittiziamente attribuita al socio unico Gianluca Silvestro Giordano, di 37 anni, compagno della figlia di Caruso, Melinda, di 32. Secondo gli investigatori inoltre sarebbero stati distratti circa 100 mila euro dalle casse di un'altra attività di ristorazione già di proprietà di Caruso sottoposta a sequestro nell'ambito dell'operazione "Bulldog" e il denaro sarebbe confluito nel finanziamento dell'operazione "Pitti".

A Salvatore Caruso e alla figlia Melinda ed al suo compagno Gianluca Silvestro Giordano è stato contestato il reato di intestazione fittizia di beni. A Giuseppe Caruso, figlio di Salvatore, l'appropriazione indebita di circa 85.000 euro distratti da altra attività di ristorazione attualmente sotto sequestro giudiziario. A Gianluca Silvestro Giordano la truffa ai danni dello Stato per essersi appropriato, con artifizi, di generi alimentari destinati ad altra attività di ristorazione sottoposta a sequestro giudiziario. A Francesco Salamone, Giordano e alla compagna l'appropriazione indebita con il sistema della mancata fatturazione di parte degli incassi derivanti da un'altra attività di ristorazione sottoposta a sequestro giudiziario. A Giordano e Melinda Caruso è stata anche contestata l'appropriazione indebita, con l'utilizzo di un 'POS' mobile collegato ad un conto corrente intestato alla società che gestiva il "Pitti", di parte degli incassi derivanti dall'altra attività di ristorazione sottoposta a sequestro giudiziario.

Dalle prime ore di questa mattina, infine, personale della Direzione Investigativa Antimafia di Catania sta eseguendo il decreto di sequestro beni emesso dal Tribunale di Catania - Sezione Misure di Prevenzione - su proposta avanzata dal Direttore della Dia, Nunzio Antonio Ferla, in sinergia con la Direzione Distrettuale Antimafia di Catania diretta dal Procuratore Carmelo Zuccaro, nei confronti di Francesco Rosta, 74 anni, elemento di vertice della famiglia mafiosa "Ragaglia" egemone nel comune di Randazzo (Catania) e collegata alla famiglia mafiosa "Laudani" di Catania. Il Tribunale di Catania ha disposto il sequestro dei beni, per un valore complessivamente stimato di circa 700 mila euro, consistenti in una società dedita all'attività di foraggio e allevamento di capi di bestiame, nonché tre immobili (appezzamenti di terreni di cui uno con annesso fabbricato), un'auto di grossa cilindrata, conti correnti e altri rapporti finanziari ancora da quantificare.

Mafia, sequestrati beni per 4,2 milioni di euro al prestanome del boss, scrive Sabato 19 Novembre 2016 "Il Messaggero". Il Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in esecuzione di provvedimenti emessi dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale su proposta della Procura, ha sequestrato nel capoluogo un autolavaggio, una ditta di movimento terra, appartamenti, terreni, veicoli e disponibilità finanziarie, per un valore complessivo di circa 4 milioni e 200 mila euro, nei confronti di prestanome di tre noti esponenti mafiosi palermitani. Le attività hanno riguardato: Pietro Mansueto, 56 anni, già indagato in passato dalla Guardia di Finanza per trasferimento fraudolento di valori e indicato da diversi collaboratori di giustizia quale prestanome e persona di fiducia dei boss Lo Piccolo, egemoni nel mandamento mafioso di Palermo-San Lorenzo. Ha subìto il sequestro di 7 immobili nel rione di Tommaso Natale e di 11 rapporti bancari; Marcello Coccellato, 55 anni, indicato da vari collaboratori giustizia, quale responsabile, sempre nell'ambito del mandamento mafioso di San Lorenzo, della raccolta del denaro proveniente da attività estorsive. Gli sono stati sequestrati un'impresa di movimento terra e relativi mezzi, oltre a diversi conti correnti; Salvatore Sansone, 29 anni, ritenuto elemento di spicco della famiglia mafiosa di Palermo-Uditore, già arrestato nel maggio 2015 per associazione di stampo mafioso. Il provvedimento nei suoi confronti riguarda un autolavaggio e un appartamento di nove vani nella zona di viale Michelangelo, nonché veicoli e disponibilità finanziarie.

Mafia, gli affari della famiglia dei barcellonesi: fatturati d’azienda schermati con la complicità dei prestanome, scrive il 06/03/2017 "Blog Sicilia". Beni del valore di 4.8 milioni di euro sono stati confiscati dalla Dia di Messina perché riconducibili a Concetto Bucceri, detto Cricchiolo ritenuto organico alla famiglia mafiosa riferibile al clan Santapaola-Picanello di Catania. Il provvedimento riguarda due imprese attive nel settore delle costruzioni ed opere di ingegneria civile, due fabbricati e otto terreni, utilizzati, in parte come sedi operative, 13 mezzi strumentali alle attività, una polizza vita e vari rapporti finanziari. Dalle varie indagini emerge l’attività di mediazione di Concetto Bucceri, secondo gli investigatori realizzata in rappresentanza e nell’interesse del gruppo mafioso con la “famiglia dei barcellonesi” (riconducibile a “cosa nostra siciliana” e operante sul versante tirrenico della provincia di Messina). Bucceri sarebbe riuscito nel tempo, a schermare, attraverso la compiacenza di fidati prestanome, tra cui anche il figlio, imprese con fatturato considerevole ed operanti nel settore delle commesse pubbliche. Ciò gli ha consentito di accumulare illecitamente un patrimonio risultato essere, sulle base delle indagini finanziarie effettuate, sproporzionato rispetto ai redditi individuali ufficialmente dichiarati. Bucceri sorvegliato speciale e indagato per reati di associazione per delinquere di tipo mafioso, usura, rapina, truffa, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione illegale di armi e ricettazione, è stato coinvolto, in passato, in diverse operazioni di polizia tra le quali “Free Bank”, “Vivaio” e “Gotha” (che ha permesso, alla stessa Sezione Operativa Dia di Messina e al Ros dei carabinieri, di eseguire 24 ordinanze di custodia cautelare e di sequestrare preventivamente beni per 150 milioni di euro).

Mafia, sequestro per dieci milioni di euro a prestanome dei boss Riina e Brusca

Negli anni '90 l'imprenditore aveva subito un primo sequestro. L'ultimo provvedimento trova fondamento nelle dichiarazioni di alcuni pentiti, scrive il 4 ottobre 2012 "Il Corriere del Mezzogiorno". Un ingente patrimonio e disponibilità finanziarie per un valore complessivo di oltre 10 milioni di euro, sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza di Palermo ad un imprenditore agricolo palermitano di 62 anni, considerato “vicino” al mandamento mafioso di San Giuseppe Jato. Già condannato negli anni '80 ad otto anni di reclusione per un vasto traffico di sostanze stupefacenti tra la Sicilia ed il Piemonte nel quale risultarono coinvolti anche esponenti di Cosa Nostra, alla fine degli anni '90 l'imprenditore aveva subito un primo sequestro di beni perché ritenuto prestanome dei boss Salvatore Riina e Giovanni Brusca. L'ultimo provvedimento emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, su proposta della Procura, trova fondamento nelle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia secondo i quali era proprio Giovanni Brusca ad incassare di fatto gli ingenti profitti dell'imprenditore, nonché negli accertamenti patrimoniali svolti dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo. Gli investigatori hanno dimostrato come gli investimenti effettuati negli anni dall'imprenditore e dai suoi familiari fossero incongruenti rispetto ai redditi dichiarati ed alle attività svolte. Inoltre alcune cessioni di terreni sarebbero state in realtà effettuate solo “sulla carta”, al fine di eludere le indagini patrimoniali. Il provvedimento di sequestro “per equivalente”, vale a dire in misura pari al valore dei beni e delle disponibilità sottratte al procedimento di misure di prevenzione, riguarda due imprese agricole, 70 terreni, 12 unità immobiliari e diversi fabbricati rurali e magazzini.

SEQUESTRATO IN SICILIA IL TESORO DI TOTO' RIINA. Scrive Alessandra Ziniti 23 marzo 1994 su "La Repubblica". Totò Riina torna nell'aula bunker dell'Ucciardone il giorno dopo che il tribunale di Palermo ha sequestrato un'altra fetta consistente del suo "tesoro" occultato in un labirinto inestricabile di società, partecipazioni azionarie, conti correnti, riconducibili a prestanome e ai suoi alleati più fedeli. E' stato proprio radiografando i patrimoni dei Brusca di San Giuseppe Jato, degli Agrigento di San Cipirrello e dei Ganci della Noce che il questore di Palermo Aldo Gianni ha individuato beni per 100 miliardi di lire, parte integrante delle ricchezze accumulate dai Corleonesi in venti anni di potere. E nuovi provvedimenti, questa volta di confisca definitiva di beni di insospettabili prestanome di Riina, sono imminenti. Nel mirino della questura appartamenti, terreni, beni mobili e depositi bancari intestati a 41 mafiosi di prima grandezza, tutti già colpiti da ordini di custodia cautelare per associazione mafiosa, omicidi, stragi. E, tra loro, anche due pentiti, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, due tra i più importanti e attendibili collaboratori di giustizia che, dopo avere ammesso la propria partecipazione alla strage di Capaci, stanno aiutando giudici ed investigatori a far luce sui più recenti fatti di mafia e sulle connivenze tra cosche ed istituzioni. La strada del sequestro dei patrimoni mafiosi resta quella più battuta dagli inquirenti che adesso puntano alto. "Con questo sequestro - dice il questore Gianni - abbiamo individuato un'altra consistente fetta del patrimonio illecito dei corleonesi. Ma non ci fermiamo qui. Intendiamo seguire le tracce di questo denaro, di queste società, fino all' esterno, fino ai forzieri svizzeri o ai grandi paradisi fiscali dove la mafia ha sicuramente reinvestito i suoi proventi". In attesa di arrivare al vero tesoro di Cosa nostra, giudici ed investigatori rastrellano tutto quello che trovano a Corleone e dintorni. Ventisette appartamenti, ventisei magazzini, una ventina di fabbricati, circa 500 ettari di terreno, 65 tra automobili e camion. E ancora 52 depositi bancari, 23 società tra imprese edili e commerciali. Questi i beni sequestrati ieri dal tribunale di Palermo su segnalazione della questura. Rilevanti i beni dei Brusca di San Giuseppe Jato e dei Ganci, i potenti boss Della Noce, con i quali Riina ha condiviso tutti i più sanguinari attentati che lo hanno portato al vertice delle cosche. Nessuna clemenza per i collaboratori di giustizia. A Santo Di Matteo sono stati sequestrati dodici spezzoni di terreno, una casa rurale ed un appartamento, a Gioacchino La Barbera una casa, un terreno, un'auto, tre furgoni, un conto corrente e quattro libretti di deposito a risparmio. Un po' più povero, anche se lui ufficialmente risulta essere nullatenente e fino ad ora neanche uno spillo è risultato essere di sua proprietà, Totò Riina tornerà oggi sul pretorio dell'aula bunker dell'Ucciardone. Il capo di Cosa nostra ha chiesto di poter essere nuovamente ascoltato per poter replicare alle più recenti accuse rivoltegli dagli ultimi pentiti di mafia. E c' è da credere che ribadirà di essere povero in canna e di aver sempre mantenuto la sua famiglia da onesto lavoratore. Sul pretorio dell'aula bunker sarà di nuovo di scena anche il boss catanese Nitto Santapaola che, dopo aver denunciato di essere sottoposto a minacce e ricatti di ogni sorta per sollecitare un suo improbabile pentimento, verrà messo a confronto con due guardie carcerarie del penitenziario di Pisa. I due agenti hanno redatto un rapporto secondo il quale, in carcere, Santapaola avrebbe ammesso responsabilità sul delitto Dalla Chiesa del quale il boss catanese ha sempre detto di non sapere nulla.

I colletti bianchi del gotha mafioso. Scrive Salvo Palazzolo l'11 giugno 2010. I Padrini di Cosa nostra ormai in carcere da anni potevano contare su una squadra di stimati imprenditori per investire i propri tesori scampati alla scure di sequestri e confische. L' ingegnere Francesco Lena, il patron dell'azienda vinicola "Abbazia Santa Anastasia" di Castelbuono, avrebbe portato mafiosi del calibro di Lo Piccolo, Sbeglia e Madonia dentro il business del vino pregiato. Vincenzo Rizzacasa, ufficialmente solo il titolare della società Aedilia Venusta, sarebbe stato la longa manus del clan degli imprenditori mafiosi Sbeglia nelle più importanti ristrutturazioni immobiliari realizzate nel centro di Palermo. Filippo Chiazzese, invece, avrebbe offerto la sua azienda dal nome così rassicurante - Agricoltura e giardinaggio sas - per consentire ai boss Francesco Bonura e Nino Rotolo di infiltrarsi nel mondo degli appalti. I tre insospettabili imprenditori sono stati arrestati ieri mattina dagli investigatori della sezione Criminalità organizzata della squadra mobile, assieme ad altri 15 fra capimafia e prestanome. L' ordinanza di custodia cautelare, chiesta dai pm Roberta Buzzolani, Nino Di Matteo, Lia Sava e Marcello Viola, è stata firmata dal gip Maria Pino. Le indagini della Procura e della Mobile contestano a Lena il reato di associazione mafiosa. Rizzacasa e Chiazzese sono in carcere per trasferimento fraudolento di valori. Secondo i magistrati, sono solo la punta di un iceberg, quello che il procuratore Francesco Messineo chiama alla conferenza stampa il «tessuto imprenditoriale infetto, che impedisce all' imprenditoria sana di svilupparsi». Roberto Scarpinato, che coordina il gruppo Mafia-economia della Procura, accusa: «Nella Palermo del 2010, nella quale sono stati arrestati centinaia di estorsori, le figure di vertice dell'organizzazione mafiosa riescono ancora a controllare il ciclo degli appalti. Tutto ciò è potuto avvenire grazie a una serie di imprenditori già condannati per mafia, che hanno continuato a operare nascondendosi attraverso alcuni prestanome all' autorità giudiziaria, ma non alla città: chi trattava con loro era perfettamente cosciente del calibro delle persone con cui aveva a che fare tanto che bypassava i prestanomi. L' omertà è ancora un ostacolo alle indagini». Il riferimento di Scarpinato è al caso eclatante di Salvatore Sbeglia, già condannato in via definitiva per associazione mafiosa, eppure investito da Vincenzo Rizzacasa di tante incombenze nei suoi cantieri, persino delle relazioni con gli acquirenti degli immobili. Anche il figlio di Sbeglia, Francesco, aveva avuto un incarico - coordinatore dei cantieri - nonostante una condanna di primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Sbeglia padre, 71 anni, è finito in manette ieri mattina assieme al fratello Francesco Paolo, 67 anni (accusato di associazione mafiosa) e ai nipoti, Marcello, 39 anni, e Francesco, 40 anni (accusati di trasferimento fraudolento di valori). Gli arrestati gestivano una girandola di società, una decina, che adesso sono state sequestrate. I sigilli sono scattati per la "Agricoltura e giardinaggio" di Chiazzese, che gestiva anche alcune quote del Consorzio "Generale appalti pubblici" di Firenze (pure queste sequestrate). Sigilli per le società palermitane Rekoa, Cedam, Costruire e Domè, nonché per la Immobiliare Palagio di Firenze, riconducibili al gruppo Sbeglia. Il sequestro è scattato anche per l'Aedilia Venusta e Arbolandia, di Vincenzo Rizzacasa e per l'Abbazia Santa Anastasia di Francesco Lena.

QUELLA RETE DI SOCIETA' E IMPRESE NASCOSTA DA AMICI E PRESTANOMI. Scrive "La Repubblica" il 13 novembre 1984. Sino a pochi giorni fa avevano negato tutto, ribattendo colpo su colpo, tentando di dimostrare che i rapporti di polizia, carabinieri e Finanza (il presupposto della richiesta di soggiorno obbligato) erano frutto di ragionamenti logici, ma senza un briciolo di prove. Adesso le manette ai polsi e i mandati di cattura dell'ufficio istruzione confermano i rapporti d' affari tra Ignazio e Nino Salvo e i superboss della mafia. A far crollare un castello tenuto in piedi a fatica hanno contributo l'indagine della guardia di Finanza sui prestanome e sulle società di comodo che ruotavano attorno ai due ex esattori e le nuove conferme arrivate da Buscetta e consegnate al giudice istruttore Giovanni Falcone. Dopo un minuzioso lavoro di indagine la Finanza è riuscita a disegnare la mappa degli affari comunque legati ai Salvo. Si tratta di imprese immobiliari (Imco, Cespa, Malaspina, Rem, Impresud, Sicilconsult, Sigeco, Fime, Immobiliare Duemme) gestito per conto dei finanzieri da una rete di prestanome. E cioè da Carmelo Gaeta, ex vice presidente della Borgosesia, finito in carcera a Milano con l'operazione San Valentino (mafia dei colletti bianchi); Giovanni Vendirame, trafficante di eroina; Maurizio Monticelli, esportatore di valuta; Domenico Sanseverino, costruttore, indicato da Totuccio Contorno (uno dei mafiosi pentiti) come "uomo d' onore". E poi ancora Giuseppe Cascio, notabile democristiano di una piccola banca vicino Salemi. E infine i fratelli Gioacchino e Ignazio Lo Presti. A giudizio dei magistrati non era soltanto un filo di parentela ad unire Nino Salvo e l'ingegnere Ignazio Lo Presti, scomparso nel nulla due anni fa e legato al boss Totuccio Inzerillo. C' erano interessi consistenti come dimostra il rapporto della Finanza e una serie di intercettazioni telefoniche che portano direttamente ai rapporti tra Salvo e Tommaso Buscetta. Finora si riteneva che fosse soltanto il colloquio tra Lo Presti e tale "Roberto" che telefonava dal Sud America (Falcone ha scoperto che si trattava proprio di don Masino) a mettere in difficoltà l'ex re delle esattorie. Adesso invece, grazie a Buscetta, s' è scoperto che Salvo aveva avuto rapporti col boss dei due mondi anche in occasione delle ultime fasi della guerra di mafia. Una conferma indiretta degli invisibili fili che uscivano a ragnatela dall'impero dei due finanzieri è arrivata anche da un mafioso pentito, Stefano Calzetta. Nella primavera del 1983 Calzetta dichiarò al giudice Rocco Chinnici, il consigliere istruttore ucciso dalla mafia, che "i Salvo erano protetti prima dalla cosca di Totuccio Inzerillo e poi dalla famiglia degli Zanca". Ma i cugini di Salemi a giudizio dei magistrati palermitani avevano fatto una scelta di campo a ben altro livello e in direzione dei potentissimi Greco di Croceverde Giardini. "Sì li conoscevo", ha ammesso a più riprese Nino Salvo. "Ma solo per questioni di tasse". E ha raccontato ai giudici dell'acquisto di un terreno (il feudo "Verbum caudo", 150 ettari nei pressi di Polizzi Generosa) venduto ai Greco dalla società Sat, amministrata da Luigi Gioia, deputato democristiano. Sul feudo gravava un'ipoteca e i boss di Croceverde ne discussero con i Salvo, ottenendo in quindici giorni la sospensione del provvedimento grazie ad un decreto del ministero delle Finanze. Adesso i magistrati garantiscono: "Ci sono altre prove consistenti". Da qui la firma dei due mandati di cattura contro i potenti signori di Salemi.

Le Iene show, la diretta del 16 ottobre 2016. Scritto da Irene Natali. Gaetano Pecoraro ha realizzato un'inchiesta su La mafia rurale siciliana, che si intasca la maggior parte dei fondi europei per l'agricoltura. Quando diventa presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci scopre come la maggior parte delle aziende che si occupano dei terreni del parco sia collegata o controllata dalla mafia siciliana: l'Europa, anziché finanziare l'agricoltura, è finita per elargire fondi alla criminalità organizzata. Questo perché bastava un'autocertificazione in cui si sostiene di non essere mafiosi. Antoci ha introdotto un nuovo protocollo: su 15 aziende, solo una non aveva alcun rapporto con famiglie mafiose. Ma l'intervento dell'antimafia, è costato ad Antoci minacce, lettere minatorie, intimidazioni fdi vario genere. Pecoraro cerca di avere qualche dichiarazione dai diretti interessati, ottenendo in cambio il classico “la mafia non esiste”. Il giornalista si sposta in provincia di Enna, sulle tracce dei Seminara. Nessuno è disposto a parlare, né i compaesani né i “colletti bianchi” che siedono nelle istituzioni. Salvatore Seminara è in carcere con l’accusa di omicidio; il figlio Giuseppe risponde alle domande di Pecoraro, ma negando tutto. La sorella invece, infastidita, manda via Pecoraro. In provincia di Siracusa invece, sono i Carcione ad aver usufruito dei fondi europei. La polizia spiega come funziona come i clan si appropriano dei terreni: fanno pascolare il bestiame su appezzamenti appartenenti a gente emigrata in paesi lontani, ad esempio l'Australia, e poi, opportunamente aiutati, fanno figurare che questo avviene da 20 anni. A quel punto diventa usocapione: l'appropriazione è avvenuta. Prestanomi e "colletti bianchi": Pecoraro va alla loro ricerca, ma a parole hanno tutti la coscienza a posto.

IL BUCO NERO DEL RICICLAGGIO. Sessanta miliardi di euro: a tanto secondo la Direzione nazionale antimafia sommano le attività bancarie sospette avvenute nel 2015. A fronte di questa cifra enorme, il Fondo monetario internazionale punta il dito contro il sistema di controlli italiano: "Manca il coordinamento necessario a un'attività di contrasto efficace". L'anello debole della catena sono soprattutto le banche, che la crisi ha reso più fragili ed esposte al rischio di interferenze mafiose: troppo spesso dagli istituti arrivano segnalazioni confuse che non aiutano le verifiche, scrive Daniele Autieri il 28 novembre 2016 su "La Repubblica". I soldi delle mafie nel sistema finanziario italiano. Una montagna di denaro che entra nelle banche e si mischia con quello pulito guadagnato onestamente da milioni di cittadini. La Direzione nazionale antimafia nel corso del 2015 ha segnalato transazioni a rischio riciclaggio per un valore di 60 miliardi di euro, ai quali si aggiungono 63 miliardi di euro bonificati nello stesso anno su conti correnti aperti nei paradisi fiscali. L'attività di contrasto parte dall'Uif, l'Unità di informazione finanziaria della Banca d'Italia che ogni anno riceve le segnalazioni di operazioni sospette da tutte le filiali degli istituti di credito, e viene gestita in collaborazione con le forze di polizia, Direzione nazionale antimafia e Guardia di Finanza in testa. Tuttavia, di fronte al volume e al valore economico delle transazioni analizzate (82mila arrivate alla Banca d’Italia nel 2015 per un ammontare di 97 miliardi di euro), è molto complesso risalire all’origine criminale del denaro. Questo denuncia il Fondo Monetario Internazionale al termine di una lunga ispezione condotta nel 2015 e - pur riconoscendo i passi in avanti compiuti dal nostro paese in termini di antiriciclaggio - evidenzia che il maggiore pericolo è proprio nella carenza di un coordinamento tra tutte le attività messe in atto: "L’Italia non ha ancora messo a punto una strategia di contrasto al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo che sia coordinata a livello nazionale e pienamente basata sui rischi individuati nell’Analisi dei Rischi Nazionali (l’Analisi è stata elaborata in Italia nel 2014 dalle autorità coinvolte nella lotta al riciclaggio ed è la prima azione coordinata che analizza minacce e vulnerabilità del nostro sistema n.d.r.)". Questo perché le mafie hanno continuato a muovere i loro soldi e a esercitare la loro influenza dentro gli istituti di credito, passando dal riciclaggio tradizionale alle ipoteche assegnate senza garanzie, dagli scoperti milionari concessi a pregiudicati ai prestiti riconosciuti a imprese intestate a prestanome che non hanno mai depositato una dichiarazione dei redditi. Una tendenza in crescita negli ultimi anni, complice la crisi economica che ha reso le banche più vulnerabili.

Una lotta impari. Nel 2015 le segnalazioni di operazioni sospette passate al setaccio dalla Dia nelle varie regioni italiane hanno coinvolto 165.486 persone e 82.315 imprese per un totale di 279.098 operazioni, l'84,1% delle quali per importi compresi tra i 50mila e il milione di euro. E nell'80% dei casi questi soggetti agiscono attraverso le banche. "Negli ultimi anni - spiega il penalista Roberto De Vita, direttore dell'Osservatorio IT e Sicurezza di Eurispes - il fenomeno ha compiuto un salto di qualità. Complice la crisi di liquidità che ha colpito le banche, gli istituti finanziari italiani sono diventati molto più vulnerabili e i livelli dei controlli si sono abbassati. Inoltre, l'elevato numero di segnalazioni, indiscriminate e confuse, inviate alla Banca d’Italia, rende difficile, se non impossibile, il controllo".

Nel 2007, anno di istituzione dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, le segnalazioni inviate dagli istituti di credito erano 7mila, e in meno di dieci anni hanno subito un boom arrivando alle 82mila del 2015. Ed è anche per questa ragione che il Fondo Monetario Internazionale, all'interno del Detailed Assessment Report elaborato al termine dell'ispezione realizzata nel corso del 2015, riporta tra le "azioni raccomandate" al nostro paese quella di "riconsiderare le attuali risorse investigative, giuridiche e giudiziarie, e garantire che esse siano commisurate alla natura e alla dimensione dei rischi di riciclaggio identificati".

Piccole banche e professionisti. Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Roma (quella che si occupa dei sequestri dei beni) non ha dubbi: "Nel 90% dei sequestri fatti abbiamo riscontrato che prestiti e mutui riconosciuti dagli operatori bancari a soggetti della criminalità organizzata sono dati in malafede". Una circostanza confermata da una fonte interna alla Banca d’Italia. "Le maggiori irregolarità nella segnalazione delle operazioni sospette - confessa - emergono proprio dalle banche più piccole. La prassi è simile in molti istituti: viene segnalato quasi tutto, ma in modo stringato e confuso, proprio per rendere più difficile l’attività d’indagine".

La stessa criticità si ripresenta quando entrano in gioco le categorie professionali. Nel 2015 le segnalazioni arrivate alla Banca d’Italia dai professionisti sono state 5.979, in crescita del 150% rispetto al 2014. In effetti, nell'attività di riciclaggio della criminalità organizzata il ruolo dei colletti bianchi è ormai strategico. "È sempre più comune - dichiara il tenente colonnello Gerardo Mastrodomenico, comandante del Gico di Roma (il Gruppo investigativo contro la criminalità organizzata della Guardia di Finanza) - assistere a fenomeni per cui qualificati professionisti mettono a disposizione delle organizzazioni criminali il loro know how, andando così a costituire una vera e propria borghesia mafiosa". Sul tema dei rapporti con l'Unità di informazione finanziaria, ogni categoria ha gestito in autonomia il suo contributo. In forza di un accordo siglato nel 2009, il notariato ha ottenuto che il segnalante fosse schermato. In sostanza le segnalazioni inviate agli analisti dell'Uif sono mediate dall'ordine, senza che venga indicato lo studio notarile di provenienza. Secondo l’Ordine dei notai, l’anonimato riconosciuto al segnalante rappresenta invece un'utile soluzione per evitare condizionamenti e favorire le denunce. "Dal 2009 – spiega il presidente del Consiglio nazionale, Salvatore Lombardo – il Notariato è in prima linea nel settore dell’antiriciclaggio perché è stato il primo ordine professionale italiano ad assumere il ruolo di autorità di interposizione in materia, arrivando a fornire il 91% delle segnalazioni tra i professionisti".

Porte aperte a tutti. L'incapacità del sistema di generare anticorpi apre le porte alla diffusione del contagio. E mentre dal dicembre 2013 all’aprile 2016 i finanziamenti delle banche alle imprese italiane sono calati di oltre 15 miliardi, i muri continuano a cadere per chiunque abbia del contante da mettere sul piatto, dalle organizzazioni criminali più strutturate ai vecchi ferri in cerca di riscatto.

"Nelle investigazioni di criminalità organizzata - prosegue il colonnello Mastrodomenico - capita sempre più spesso di rilevare rapporti anomali e privilegiati tra pregiudicati mafiosi e istituti di credito che si traducono nell’accensione di mutui o apertura di linee di credito anche per diversi milioni di euro non garantiti, cosa che per un cittadino normale sarebbero impensabili". A conferma di ciò, il 20 aprile scorso, a Roma, il Gico della Guardia di Finanza ha confiscato il patrimonio di Claudio Cannavò, ritenuto dagli inquirenti un criminale di secondo piano sulla piazza romana, ma con qualche rapporto con alcuni pregiudicati calabresi. Gli uomini della Finanza hanno scoperto che Cannavò ha un mutuo presso la Cassa di Risparmio di Civitavecchia, che decide di intestare alla moglie Floriana Celata, casalinga e senza reddito. In un documento interno alla banca firmato dalla donna si legge: "La sottoscritta si impegna a provvedere al pagamento delle rate residue di mutuo. Il pagamento avverrà per cassa, senza copertura di conto corrente". Quando il gruppo criminale si struttura di più, i metodi non cambiano. Tra Roma e Napoli la famiglia Righi ha messo in piedi un impero della ristorazione (circa 30 locali alcuni dei quali con fatturati milionari) e - secondo le ipotesi investigative - ricicla il denaro per conto del clan Contini attraverso una rete di prestanome. Uno di questi si chiama Gennaro Cicio: l'uomo non ha mai presentato una dichiarazione dei redditi, ma le banche non si sono fatti problemi a spalancargli le porte: quattro conti correnti aperti presso il Monte dei Paschi di Siena, un conto deposito alle Poste Italiane e diverse carte di credito. I soldi entrano, e tanti, senza che nessuno faccia mai un controllo sui suoi redditi.

Cambiando punti di riferimento, Ernesto Diotallevi è stato sempre considerato il referente della mafia siciliana a Roma. Un pezzo grosso della Banda della Magliana che ha galleggiato negli anni tra truffe e amicizie pericolose, come quella con il faccendiere Flavio Carboni o con Pippo Calò. Lo scorso anno il Gico della Finanza gli ha sequestrato un patrimonio milionario e in primo grado il tribunale ne ha riconosciuto la pericolosità sociale dei soggetti, disponendo la confisca dei beni. L'operazione ha coinvolto anche i figli, Mario e Leonardo, lasciando emergere rapporti opachi con alcune banche: ipoteche affidate senza garanzie, prestiti non saldati e, addirittura, un mutuo fondiario di 10,7 milioni di euro concesso per coprire uno scoperto di conto corrente da 7,8 milioni. Con i fratelli Diotallevi ad essere particolarmente generose sono state Banca Sella e Banca Carim sebbene, come riporta il decreto di sequestro ordinato dal tribunale di Roma, "i redditi dichiarati dai due fratelli Diotallevi fossero del tutto insufficienti e inidonei a far fronte agli impegni assunti". In risposta a fenomeni di questo genere l'Associazione che rappresenta le banche italiane alza un muro tra le responsabilità personali dei singoli soggetti e le istituzioni bancarie. In merito a queste ultime l'Abi ribadisce che "le banche italiane sono in prima fila per la legalità e svolgono costantemente un'azione chiave nel contrasto del riciclaggio. In base agli ultimi dati diffusi dall'Unità di Informazione Finanziaria e relativi allo scorso anno, gli intermediari finanziari hanno effettuato quasi 75mila segnalazioni di operazioni sospette". Oltre all'invio delle segnalazioni, l’Associazione sottolinea la stretta collaborazione attivata con tutte le autorità coinvolte nel contrasto al riciclaggio, dalla Banca d’Italia alla Guardia di Finanza.

Dalla banca al web. Per quanto sia difficile da contrastare, il riciclaggio bancario lascia sempre una traccia. Lo sanno bene le grandi organizzazioni criminali italiane, e in particolare la ‘ndrangheta che, nelle sue forme più evolute, ha iniziato a calcare la piattaforma più sicura del web. È qui che entrano in gioco i tumbler, intermediari costituiti spesso da gruppi criminali che hanno un ruolo centrale nel riciclaggio attraverso la rete. La loro specialità è acquistare bitcoin (o qualunque altro genere di criptovaluta), spacchettarli in più operazioni e rivenderli a clienti puliti. Il bitcoin è la moneta virtuale inventata nel 2009 con l'idea di sostituire la valuta tradizionale. Si scambia sul web e il suo valore ha raggiunto in pochi anni la soglia dei 600 dollari per unità, trasformandola in una forma alternativa di investimento. O in un prezioso strumento di riciclaggio. "Il passaggio dal denaro contante alla moneta virtuale - prosegue Roberto De Vita di Eurispes - rende i controlli ancora più difficili. Manca infatti lo scambio fisico e tutto si consuma nella rete dove i flussi di denaro diventano anonimi e garantiscono libera circolazione ai proventi dei traffici di droga e del sempre più ricco mercato della pedopornografia". Attualmente nascono come funghi aziende che fanno compravendita di bitcoin e guadagnano una percentuale sul valore scambiato. È il caso di coinbit.it, sito online recentemente sequestrato dalla Polizia Postale, o di bitdigital.it, tuttora attivo, con sede a Lecce. Su questo portale è possibile acquistare e vendere bitcoin. Per farlo è sufficiente indicare un indirizzo mail (che può essere creato fittiziamente), l'importo dell’acquisto e la scelta del metodo di pagamento, tramite paypal o bonifico, mentre l'identità di chi fa l'operazione rimane segreta. Questo genere di servizio negli Stati Uniti è già illegale, ma in Italia sopravvive grazie ad una legislazione arretrata e a controlli poco efficienti. Un'organizzazione criminale può quindi acquistare bitcoin con denaro proveniente da attività illecita e rivenderli sui portali dedicati incassando moneta reale e soprattutto pulita. L'operazione è semplicissima, quasi banale. A spiegarla è Francesco Zorzi, specialista di IT security e cyber intelligence: "La cosca X intesta ad un suo prestanome una o più carte prepagate. Questo incaricato le carica di soldi sporchi con un trasferimento di denaro da una piattaforma sicura, come ad esempio Neteller o anche PayPal, poi si collega dal proprio computer simulando di essere in Costa d’Avorio e compra il corrispondente di quella cifra in bitcoin. A questo punto inizia il gioco: una volta acquistati, i bitcoin vengono divisi e venduti a pacchetti su dieci piattaforme differenti. Il mercato è mondiale e gli acquirenti sono ovunque, così se una transazione viene intercettata le altre 9 passano indenni". In questo modo in poche ore l'organizzazione ha piazzato sul mercato decine di migliaia di euro sporchi recuperando in cambio una cifra di poco inferiore, ma assolutamente pulita e irrintracciabile. Tanto irrintracciabile che, fino ad oggi in Italia, non c'è stata una sola inchiesta della magistratura che abbia individuato chi si nasconde dietro gli intermediari della criptovaluta.

La figlia di Totò Riina lascia Corleone ora vive nel Brindisino La Puglia e il capo dei capi, scrive Tonio Tondo il 21 Aprile 2012, su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Da Corleone al Brindisino. La figlia maggiore del superboss della mafia Totò Riina, Maria Concetta, 36 anni (nella foto), cambia residenza e viene a vivere a San Pancrazio Salentino (Brindisi) con tutta la sua famiglia. La donna era tornata a vivere a Corleone il giorno dopo l'arresto del padre avvenuto nel gennaio 1993. Nel novembre del 2010 la donna è stata rinviata a giudizio dal giudice del Tribunale di Tricase (Lecce), Annalisa De Benedictis, con l'accusa di frode informatica per essersi impossessata dei fondi di una parrocchia del basso Salento. «Sono Maria Concetta Riina, figlia di Totò Riina, sono venuta a scuola per iscrivere i miei figli». Si è presentata così alle insegnanti della scuola elementare la figlia maggiore del boss di Cosa Nostra, da anni al carcere duro per una serie di ergastoli. Da Corleone, cuore della mafia, a San Pancrazio Salentino: è stata una sorpresa per la cittadina brindisina, poco più di 10mila abitanti, luogo di transito tra le tre province salentine. Una sorpresa che rapidamente si è trasformata in notizia e infine in preoccupazione. E così il giovane sindaco, Salvatore Ripa, da un anno eletto con una giunta di centrosinistra, ha chiesto e ottenuto un incontro con il prefetto di Brindisi Nicola Prete per chiedere informazioni ed esprimere i timori della comunità. La signora Maria Concetta, 36 anni, è a San Pancrazio da un mese insieme con i suoi tre figli. Ma il primo a giungere in paese è stato il marito, Tony Ciavarello, sembra a novembre, probabilmente per verificare le condizioni dell’accoglienza. Ciavarello avrebbe trovato lavoro nel settore commerciale di un’azienda meccanica, la «C.T.», attiva nel campo della revisione dei motori. È stato lui a trovare l’abitazione, in un condominio di quattro piani al centro del paese, a pochi passi dal Municipio, dove ospitare la moglie e i tre bambini. Ed è stato l’uomo a curare tutte le operazioni del trasferimento. Ciavarello non è figura secondaria ed è personaggio conosciuto alle cronache. A febbraio, è stato implicato in un’operazione nella quale la Guardia di finanza di Caltanissetta ha sequestrato beni per 10 milioni. Perché Ciavarello e Maria Concetta Riina hanno scelto la cittadina brindisina come nuova residenza? «Qui ci troviamo bene» ha detto la signora negli incontri avuti in questo mese. Dopo essere stata a scuola, la donna si è presentata ai servizi sociali del Comune per chiedere il blocchetto dei buoni pasto per i bambini. Sembra che alla richiesta dell’impiegata della presentazione del documento Isee sulla dichiarazione dei redditi, un consigliere comunale si sia adoperato per evitare l’attesa della signora. Ma i movimenti dei Riina sono rimasti sempre sotto i riflettori della magistratura e in particolare della Direzione nazionale antimafia. Neanche lo spostamento della famiglia della primogenita, discreto e preparato con cura, è passato inosservato. L’allarme del sindaco ha poi contribuito ad alzare ulteriormente l’asticella dell’attenzione. E’ ancora viva la memoria di alcune inchieste del passato che hanno messo in luce infiltrazioni criminali. Tutti ricordano la scoperta di un deposito di armi nello stabilimento «Sacovin». La preoccupazione è che la presenza ingombrante di una Riina possa risvegliare antichi demoni e attivare relazioni anche con il territorio e i Comuni circostanti anch’essi permeabili a eventuali rigurgiti della criminalità. Una continua attenzione è esercitata dalla stazione locale dei Carabinieri. La signora Riina e il marito cercano di farsi vedere in giro lo stretto necessario. Sotto il loro appartamento, c’è un bar. La gente non parla volentieri e non esprime commenti. «Tre giorni fa ho visto la signora entrare nel bar per comprare dei pasticcini» racconta un cliente. Pasticcini da portare a scuola. «È sempre gentile» dice un’insegnante. Anche a Corleone la signora aveva buoni rapporti con la scuola, tanto da essere eletta - era novembre - nel Consiglio d’istituto. La notizia finì sui giornali ed esplose la polemica. Sembra che anche in passato la figlia del boss abbia avuto a che fare con il Salento. Un anno fa la «Gazzetta» riportò la notizia di un processo a Tricase su una presunta truffa on line, da parte della donna, ai danni di un sacerdote, don Luigi De Santis, attualmente vice parroco a Supersano. I Carabinieri scoprirono che dal conto elettronico di don Luigi erano scomparsi 1.935 euro e pare che sia stata proprio la Riina a sottrarre i soldi. Il processo per furto e frode informatica è ancora in corso. La difesa della donna ha sempre respinto ogni responsabilità nella scomparsa dei soldi.

«Riina a S. Pancrazio? Alzeremo le barricate», scrive Federica Marangio il 10 Giugno 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Totò Riina in paese? No grazie». È il secco commento del sindaco Salvatore Ripa, che è certo di interpretare il parere tutti i suoi concittadini. Eppure, l’ipotesi che il più grande stragista mafioso possa arrivare in paese - a casa della figlia - sembra essere plausibile alla luce di quanto disposto dalla Cassazione. Sarebbe impensabile che possa essere uno dei figli maschi ad occuparsi del boss mentre una delle figlie è in Svizzera, dove sicuramente Riina non lo lascerebbero manco avvicinare. Ecco perchè è spuntata l’ipotesi San Pancrazio, dove dal 2012 vive la figlia Maria Concetta con il marito Tony Ciavarello i suoi tre figli al quarto piano di un condominio vicino al Palazzo di Città. «Ma è un’ipotesi non veritiera - aggiunge il sindaco -. Anzi, non solo dopo aver preso le prime precauzioni ed essermi interfacciato con i miei interlocutori istituzionali so che non vi è alcuna possibilità perché ciò accada, ma, qualora queste parole dovessero convertirsi in qualcosa di più concreto, non esiterei ad organizzare delle sommosse o delle vere e proprie barricate”. Risale al 2012 la delibera della giunta comunale di intestare una piazza nella zona artigianale a Falcone e Borsellino, proprio mentre si paventava la possibilità di ospitare nel piccolo Comune uno dei fratelli di Riina, quello che allora risiedeva a Padova. Questo non significa che San Pancrazio abbia da ridire sulla figlia di Riina che vive in paese. “Tutti, ma soprattutto i minori hanno diritto a ricostruirsi una vita e a costruire il proprio cammino impostato nella tranquillità e lontano da ogni bruttura e polemica - aggiunge Ripa -. Il comune di San Pancrazio è stato infatti scelto proprio per garantire una vita lontana dai riflettori e dalla Sicilia dove i Riina sicuramente non sarebbero stati bene accetti”. Poca chiarezza, però, al momento su come gestire la vicenda di Riina e della sua precaria salute. Sebbene il procuratore nazionale Franco Roberti abbia precisato che Riina deve continuare a stare in carcere e soprattutto rimanere in regime di 41 bis, alcuni giudici della Cassazione hanno affermato che la possibilità che Riina possa tornare a vedere la luce del sole, sia pure nella sua abitazione, appare concreta. Insomma, nella pure ovvia spartizione tra favorevoli e contrari, rimane indubbio che “il Comune di San Pancrazio non consentirà in alcun modo che Riina si ricongiunga alla sua famiglia”, conclude il primo cittadino.

Inchino sotto casa di lady Riina, il genero su Facebook: "Buffoni sindacalista e giornalista". Offese sui social network da parte di Tony Ciavarello sul profilo di Dino Paternostro, storico della mafia e dirigente della Cgil. Il sindaco di Corleone: "Nessun inchino, non ci hanno pensato". Padre Fasulo: "Stop a tutte le processioni", scrive il 4 giugno 2016 "La Repubblica". Il sindacalista Dino Paternostro "Buffone lei e il suo collega che ha scritto l'articolo". E' il post offensivo che il genero di Totò Riina, Tony Ciavarello, ha scritto nel profilo Facebook di Dino Paternostro, storico della mafia e dirigente del dipartimento legalità e memoria storica della Cgil di Palermo. Paternostro aveva ripreso l'articolo di Salvo Palazzolo sull'inchino della vara di San Giovanni Evangelista davanti alla casa di Ninetta Bagarella, moglie del padrino di Cosa nostra. L'epiteto di "buffone" viene motivato da Ciavirello con il fatto che Paternostro "conosce benissimo le tradizioni corleonesi e dà visibilità a altri buffoni che x due lire spalano fango su un intero paese". Paternostro ha annunciato che denuncerà l'episodio ai carabinieri. Il sindaco Leoluchina Savona non ci sta: "Non c'è stato alcun inchino davanti all'abitazione della moglie di Totò Riina. E' la solita strumentalizzazione che viene fatta su Corleone. Ora siamo davvero stanchi. Quella è stata una sosta come tante altre di una processione di quartiere, non certo per fare un omaggio a Ninetta Bagarella". Il primo cittadino ha deciso di incontrare i membri della confraternita: "Li ho guardati negli occhi e mi hanno stragiurato che non hanno fatto alcun omaggio alla Bagarella. Sono ragazzi onestissimi. Non è giusto stroncare giovani carriere per notizie inesistenti". Ma sul caso il senatore Pd Giuseppe Lumia ha già presentato un'interrogazione al ministro dell'Interno. Prende posizione anche padre a Nino Fasullo: "Pure stavolta Dio è stato offeso e calpestato". Per il direttore della rivista Segno e organizzatore della Settimana alfonsiana di Palermo, con la fermata della processione di san Giovanni Evangelista davanti alla casa di Totò Riina a Corleone è stato mandato un segnale al padrino e alla criminalità. "E' arrivato il momento di rispondere a queste volgarità religiose con una misura urtante: si aboliscano le processioni". "Questa decisione - riflette il redentorista - servirebbe a indurre la gente a prendere coscienza che Gesù non può permettere certe licenze. Anche l'intervista televisiva a Salvo Riina, il figlio del boss, non aveva alcuna giustificazione. Il rischio è che vengano dati alla mafia segnali di disponibilità. Se poi le processioni vengono strumentalizzate per offendere la fede allora meglio lasciare nelle chiese le statue dei santi".

Una villa a Mazara e una girandola di conti correnti. Ecco il tesoretto di Totò Riina. I carabinieri del Ros svelano la contabilità di famiglia del capo di Cosa nostra. Sigilli a beni per un milione e mezzo di euro. Il tribunale di Palermo dispone l'amministrazione giudiziaria temporanea per l’azienda agricola della Curia di Monreale: infiltrazioni mafiose nella gestione dei terreni di un santuario, scrive Salvo Palazzolo il 19 luglio 2017 su "La Repubblica". «Io, se recupero pure un terzo di quello che ho sempre ricco sono», diceva il boss Totò Riina, intercettato in carcere. Altro che famiglia di nullatenenti, come scriveva qualche giorno fa la figlia del capo dei capi al Comune di Corleone, dicendo di avere diritto al bonus bebè. Era una messinscena, il bonus bebè non è stato concesso. I carabinieri del Ros e i colleghi del Gruppo Monreale sono riusciti a scoprire un tesoretto del padrino rinchiuso al 41 bis dal 1993: una villa a Mazara del Vallo, e 38 conti correnti, che sono intestati ai familiari. In quella villa, in via degli sportivi 42, Riina ha trascorso le sue ultime estati da uomo libero; dopo l’arresto, è arrivato il fratello Giacomo (e sembra che la moglie di Totò non abbia proprio gradito). Nel 1984, un’altra villa di Giacomo Riina era stata confiscata dal giudice di Trapani Alberto Giacomelli, che pagò con la vita questo provvedimento, il 14 settembre 1988. Per quell’omicidio, Totò Riina è stato condannato all’ergastolo. Il “nullatenente” Salvo Riina, lo scrittore di famiglia intervistato da Bruno Vespa nel suo salotto, ha un conto in banca, con relativa posizione per fare trading on line e un conto alla Poste, con annessa carta. La figlia grande del capo dei capi, Maria Concetta, residente col marito a San Pancrazio Salentino, in Puglia, gestisce invece tre conti alle Poste e uno in banca. La figlia piccola, Lucia, di professione pittrice con tanto di sito Internet per pubblicizzare i suoi lavori, ha un conto e un deposito a risparmio alle Poste, un altro in banca.

Il manager di famiglia è il marito di Maria Concetta, Tony Ciavarello, imprenditore impegnato nel settore dei ricambi per auto e delle riparazioni: gli sono state sequestrare tre società nate dal nulla, la Clawstek srl e la Rigenertek srl, con sede a San Pancrazio Salentino, la Ac Service srl con sede a Lecce. Sigilli anche per le disponibilità economiche di Ciavarello, che sono custodite in 16 conti correnti bancari, un conto postale, due depositi titoli e due depositi a risparmio. Gli investigatori del Ros hanno scoperto che fra il 2003 e il 2010, il genero di Riina ha versato in contanti 136 mila euro, di cui 97 mila su un conto del Monte dei Paschi di Siena. Da dove arrivavano quei soldi?

Anche donna Ninetta ha una gran bella disponibilità di contante. Fra il 2007 e il 2013 ha emesso assegni circolari o vaglia postali per i propri parenti detenuti (marito e figlio). Totale, 42 mila euro. Da dove arrivano questi soldi? Come vive la famiglia dei nullatenenti Riina? Il procuratore Francesco Lo Voi e il suo aggiunto Dino Petralia hanno ottenuto dal tribunale Misure di prevenzione (presidente Raffaele Malizia, a latere Giuseppina Di Maida e Vincenzo Liotta) il blocco dei conti, adesso partiranno verifiche più approfondite. «Io, se recupero pure un terzo di quello che ho sempre ricco sono», diceva il boss Totò Riina intercettato dai pm del processo “Trattativa Stato-mafia”. «Se recupero, recupero e se non recupero, pazienza, se li gode la gente e i picciotti». In quelle intercettazioni c’era il riferimento a un nipote prediletto. «Queste proprietà sono mie e di mio nipote...questo mio nipote è importante». Il nipote che i boss di Corleone chiamano il “messia”. Il messia, Giovanni Grizzaffi, è tornato a Corleone il 5 luglio, scarcerato dopo 30 anni. Un altro scarcerato eccellente che fa paura. Ma sono arrivati prima i carabinieri. Negli ultimi anni, i carabinieri della Compagnia di Corleone hanno già bloccato i vertici della famiglia, uno degli ultimi capi era un insospettabile dipendente comunale, che guidava tanti affari. Le microspie hanno svelato la pesante interferenza di Cosa nostra anche nella gestione di alcuni terreni di proprietà della Curia di Monreale. E, adesso, il tribunale ha disposto l’amministrazione giudiziaria per sei mesi dell’azienda agricola dell’Ente Santuario Maria Santissima del Rosario di Corleone. Un provvedimento che secondo la procura è necessario per estromettere le infiltrazioni di mafia nella gestione dei terreni e nella distribuzione delle rendite. Dice il generale Giuseppe Governale, il capo del Ros: “Riina è certamente depotenziato sul piano fisico, ma gli accertamenti hanno confermato che è il capo indiscusso con il carisma di sempre”. Le indagini attribuiscono un ruolo particolare alla moglie del padrino: “E’ il tramite del marito, persona anche lei di grande carisma, che incute rispetto”. Quando ci fu una controversia sui terreni del santuario, sarebbe intervenuta proprio Ninetta Bagarella. “E’ un’operazione complessa quella che è stata sviluppata - dice il colonnello Daniele Galimberti, comandante del Primo Reparto del Ros - sulla base delle indagini dei carabinieri di Monreale e di Corleone. Un’inchiesta che va avanti, per individuare altri beni della famiglia Riina”. Corleone è ancora al centro dei riflettori nazionali: «L’attività dei carabinieri e della magistratura – dice il colonnello Antonio Di Stasio, il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo – è un sostegno importante al percorso di riscatto che sta facendo tutta la comunità di Corleone».

Sequestri a carico dei Riina anche a San Pancrazio Salentino: oltre un milione e mezzo di euro, scrive "Lo Strillone" il 19 luglio 2017. I carabinieri del Ros, in collaborazione coi colleghi dei comandi provinciali di Palermo e Trapani, hanno eseguito stamattina anche a San Pancrazio Salentino un sequestro di beni, per oltre un milione e mezzo di euro, riconducibili alla famiglia di Totò Riina. Sua figlia Maria Concetta e suo genero, Antonino Tony Ciavarello, vivono da tempo nel comune del Brindisino. Del patrimonio “sigillato” – come disposto dal Tribunale di Palermo (Ufficio misure di prevenzione) su richiesta del procuratore Francesco Lo Voi e dell’aggiunto Dino Petrali – fanno parte anche tre società, una villa a Mazara del Vallo, terreni agricoli e 38 rapporti bancari e postali. I magistrati siciliani hanno scoperto nella disponibilità dei congiunti del capo di Cosa Nostra “una significativa e continuativa disponibilità di denaro contante, ed in particolar modo della moglie la quale, malgrado i molteplici sequestri di beni mobili subiti nel tempo ed a fronte dell’assenza di redditi ufficiali, è riuscita a emettere nel periodo 2007-2013 assegni per un valore di oltre 42.000 mila euro a favore dei congiunti detenuti”. Le tre aziende sequestrate a Ciavarello (due con sede a San Pancrazio, un’altra a Lecce) sono operative nel settore del commercio di automobili. A Ciavarello i militari hanno anche sequestrato 16 conti correnti, un conto postale, due depositi titoli e due depositi bancari. A Maria Concetta Riina, invece, sono stati congelati tre conti alle Poste e uno bancario. Stessa cosa per il figlio del capo dei capi, Salvo Riina (un conto in banca e uno postale), e per l’altra figlia, Lucia (un conto e un libretto di risparmio postali e un conto in banca). Una parte del patrimonio è risultata essere intestata alla moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella, che tra il 2007 e il 2013 avrebbe emesso assegni circolari e vaglia in favore del marito e del figlio, entrambi reclusi, per un ammontare complessivo di 42mila euro. Come si ricorderà, qualche mese fa, il padrino fu intercettato in carcere e, mentre parlava con un altro detenuto, si lasciò sfuggire una frase che interessò molto gli investigatori in ascolto: «Io, se recupero pure un terzo di quello che ho sempre ricco sono”.

Parte dell’impero della famiglia di Totò Riina allo Stato: una società è salentina. Parte dell’impero della famiglia di Totò Riina allo Stato: due società sono salentine. Il Ros ha eseguito sequestri in tutta Italia, anche in Puglia, dove risiedono figlia e genero del boss. Sigilli a società e a beni per un milione e mezzo di euro, scrive Valentina Murrieri il 19 luglio 2017 su "Lecce Prima". L’onda d’urto del terremoto giudiziario che ha fatta tremare Palermo e molte altre città italiane, si è propagata fino a Lecce. Squadra mobile, guardia di finanza e carabinieri del Ros, il Raggruppamento operativo speciale, hanno eseguito due distinte operazioni, in un giorno simbolico per la lotta alla mafia: il 19 luglio, l'anniversario della strage di via D'Amelio, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.  Oltre a 34 misure cautelari, disposte in diverse regioni italiane fra cui la Puglia, i blitz eseguiti nella notte hanno portato anche al sequestro di beni mobili ed immobili, a seguito di un'indagine del reparto operativo speciale dell'Arma, in collaborazione con i colleghi di Palermo e Trapani. Nell’impero patrimoniale che ora passa nelle mani dello Stato, anche il “tesoretto” riconducibile alla famiglia di Totò Riina. Il provvedimento è stato emesso dal tribunale di Palermo su proposta dalla Procura della Repubblica per colpire il capo di Cosa Nostra, la moglie Ninetta Bagarella, i figli Giuseppe Salvatore, Maria Concetta e Lucia. Si tratta dei beni del genero del boss di Corleone, il marito di Maria Concetta, ai quali gli investigatori della del Ros hanno apposto i sigilli, per un valore di circa un milione e mezzo di euro. A Tony Ciavarello, residente con la moglie peraltro a San Pancrazio Salentino, sono infatti riconducibili diversi conti correnti e anche aziende. Una queste con sede in provincia di Lecce. “Sono due aziende alla periferia di Lecce, specializzate nella vendita e distribuzione di componenti per veicoli. Oltre alla società, al fisco italiano va anche la stessa villa utilizzata dall’ergastolano per la propria latitanza. E non è tutto. Sequestrati anche 16 conti correnti bancari, uno postale, quattro altri rapporti finanziari, tutti riconducibili alla famiglia del boss. Il genero, in particolare, risulterebbe il “manager”, tanto che gli inquirenti hanno anche apposto i sigilli ad una terza società a lui intestata formalemente, a San Pancrazio Salentino, operante nel settore dei ricambi di pezzi d’auto e come per quella leccese, realizzate con proventi di natura illecita. Infatti, l’esame incrociato della contabilità di queste aziende ha evidenziato una sperequazione di ben 480 mila euro, immessi per lo più in contanti e in numerose tranche nei patrimoni sociali senza alcuna giustificazione legale. Altri beni sequestrati dal Ros si trovano nelle province di Palermo e Trapani. Tre società, una villa, 38 rapporti bancari e, soprattutto, numerosi terreni di cui si è accertata l’attuale disponibilità al capo mafia corleonese. Un ennesimo colpo inferto allo sterminato patrimonio di Riina, già infiacchito da altre operazioni giudiziarie. L'ultimo blitx nasce dall'analisi di continui divari fra i redditi dichiarati negli anni dal boss e dai suoi parenti, da cui è stato possibile ipotizzare l’utilizzo di mezzi e di risorse finanziarie illecite. A confermare i sospetti degli investigatori, la continuativa disponibilità di denaro contante della famiglia, ed in particolar modo della moglie. Quest'ultima, nonostante i numerosi sequestri di beni mobili subiti nel tempo e a fronte dell’assenza di redditi ufficiali, è riuscita a emettere nel periodo 2007-2013 assegni per un valore di oltre 42 mila euro a favore dei congiunti detenuti. 

Il sequestro ai Riina. I parenti attaccano la stampa, scrive Martedì 25 Luglio 2017 "Live Sicilia". I parenti del boss Totò Riina lanciano attacchi a giornalisti e magistrati utilizzando Facebook: prima la figlia Lucia è intervenuta sul bonus bebè che le era stato negato dalla Regione e dall'Inps, adesso il genero Antonino Ciaravello, marito di Maria Concetta, si scaglia contro "gente di legge e giornalisti accaniti contro di noi". La coppia vive in Puglia. 'Palazzolo (Salvo, cronista di Repubblica-Palermo, ndr) aspetta e spera, tu e tutta la procura di Palermo che ti foraggia gli scoop prima che le cose accadono - aggiunge Ciavarello - E poi. Io non lancio tesi, io a differenza tua parlo per cose di cui sono certo e non come scrivi tu di ciò che i registi ti imboccano'. Poi un affondo sui sequestri ai beni dei Riina messi a segno dai carabinieri lo scorso 19 luglio: "Avete sequestrato con ingiusta violenza la mia azienda, ma non potrete mai sequestrare il mio Sapere ed il mio Mestiere, e per questo risorgerò presto dalle mie ceneri come l'Araba Fenice più Grande e più Forte di prima - conclude Ciavarello - Per il resto arriverà il giudizio di Dio anche per voi che avete permesso ed autorizzato violenza verso gente innocente, per voi che avete eseguito e per voi che state ripetendo a pappagallo quello che la regia vi ha scritto. Quel che avete fatto lo riceverete da Dio moltiplicato 9 volte, voi ed i vostri figli fino alla settima generazione. Gloria a Dio! Comunque la ditta sta ancora lavorando fino ad oggi, non è più mia ma i miei ragazzi sono a lavoro... Vi voglio Bene Ragazzi". "I giornalisti scrivono senza essere "imboccati" da alcuno, per cui il genero del boss Totò Riina può stare tranquillo perché sia il collega Salvo Palazzolo, professionista serio e competente, sia gli altri colleghi che seguono la cronaca a Palermo dimostrano ogni giorno capacità professionali indiscutibili". Lo dicono i vertici di Assostampa Sicilia, di Assostampa Palermo, sindacato unitario dei giornalisti, e dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia con riferimento al post su Facebook apparso oggi sulla bacheca di Tony Ciavarello, il genero di Totò Riina. "Non ci intimidiscono certi messaggi che francamente non sappiamo come interpretare, ci auguriamo soltanto che possano essere valutati da chi ha l'autorità competente per vigilare affinché la stampa libera possa continuare a svolgere il proprio lavoro in modo sereno e autonomo", concludono le segreterie di Assostampa Sicilia, Assostampa Palermo e l'Ordine dei giornalisti di Sicilia. l Gruppo siciliano dell'Unci esprime solidarietà al giornalista dei Repubblica, Salvo Palazzolo, "minacciato tramite social-network" dal genero del boss Totò Riina. In un post pubblicato su Facebook Antonino Ciavarello, marito di Maria Concetta Riina, scrive: 'Palazzolo aspetta e spera, tu e tutta la procura di Palermo che ti foraggia gli scoop prima che le cose accadono". "E ancora, rivolgendosi ai giornalisti che si sono occupati del recente sequestro di beni - aggiunge l'Unci - 'arriverà il giudizio di Dio anche per voi che avete permesso ed autorizzato violenza verso gente innocente, per voi che avete eseguito e per voi che state ripetendo a pappagallo quello che la regia vi ha scritto. Quel che avete fatto lo riceverete da Dio moltiplicato 9 volte, voi ed i vostri figli fino alla settima generazione'". "Le aggressioni verbali rivolte a Salvo Palazzolo - spiega il presidente regionale dell'Unci Andrea Tuttoilmondo - sono il segno di come il suo lavoro vada nella giusta direzione".

L'ultima beffa dei Riina: "Nei conti sequestrati solo pochi euro". Al setaccio i movimenti per risalire ai prestanome che gestiscono ancora i beni del clan. La difesa della famiglia corre su Facebook: "E' solo un polverone, risorgerò". Il genero del capo dei capi se la prende con Repubblica per questo articolo, scrive Salvo Palazzolo il 25 luglio 2017 su "La Repubblica". Continua ad essere avvolto dal mistero il tesoro di casa Riina. «Trentotto conti», hanno segnato nel verbale dell'ultimo sequestro i carabinieri del Ros e della Compagnia di Corleone. Trentotto fra conti correnti bancari e postali, dossier titoli e libretti a risparmio. Ma c’è ben poco in quei conti, solo una manciata di euro. Davvero una beffa, l’ultima beffa della famiglia Riina. Dove sono finiti i soldi della famiglia più blasonata di Cosa nostra? Un’altra domanda che si aggiunge a quelle già contenute nel provvedimento di sequestro scattato il 19 luglio scorso. Da dove arrivano i soldi, in contanti, che donna Ninetta ha utilizzato per fare assegni circolari e vaglia postali poi girati ai propri congiunti detenuti? Da dove arrivano i soldi che hanno consentito al genero di Riina, Tony Ciavarello, di aprire in Puglia le sue società impegnate nel settore dei ricambi di auto e camion? Nel 2015, Ciavarello ha ereditato dal padre alcuni immobili, ma la procura di Palermo rileva che hanno «scarso valore, posto che comunque questi non risultano essere produttivi di redditi». La parola chiave dell’atto d’accusa firmato dal procuratore Francesco Lo Voi è «sperequazione». Scrive il tribunale Misure di prevenzione presieduto da Raffaele Malizia (a latere Giuseppina Di Maida e Vincenzo Liotta): «I nuclei familiari dei figli di Riina risultano non avere la disponibilità di redditi sufficienti a far fronte anche alle sole spese necessarie per il sostentamento degli stessi; ne consegue che in tale situazione, qualsiasi, pur minimo, accumulo di risorse, risulta del tutto ingiustificato». E, adesso, quei pochi spiccioli nei conti sono davvero una beffa. Anche se i figli di Riina non ci stanno a passare per complici e si lanciano in post appassionati su Facebook: «Voglio solo dire che il tempo darà le giuste risposte. Io so di essere nel giusto e lo dimostrerò». Questo scrive Maria Concetta Riina. Il marito, invece, utilizza Facebook per rivolgersi a tutta la comunità pugliese dove risiede: «Chiedo scusa al Popolo di San Pancrazio Salentino se involontariamente ho trascinato il paese all’onore delle cronache giornalettistiche, non ho colpe e per l’ennesima volta sono stato trascinato senza motivo in tribunale, dimostrerò la mia innocenza, chi e quanti mi conoscono sanno della mia serietà e buona fede». Ciavarello lancia la tesi del complotto: «Un altro polverone e processo mediatico in corso». Intanto, la procura di Palermo e i carabinieri stanno passando al setaccio i conti sequestrati, per ricostruire i movimenti, gli investigatori sperano di risalire agli insospettabili prestanome che foraggiano ogni mese la famiglia Riina. Il giovane Salvo, il figlio scrittore del capo di Cosa nostra, aveva anche una posizione di trading on line presso la “Ing Direct Nv”. Che azioni gestiva? E con quali soldi?

Riina e famiglia sono tutti convocati davanti i giudici delle Misure di prevenzione per il 15 novembre, ore 9.30. «Bagarella Antonina, Riina Giuseppe Salvatore, Riina Maria Concetta, Ciavarello Antonino Salvatore Riina Lucia». Il capo dei capi, invece, potrà partecipare in videoconferenza, se vorrà, ed è probabile che non mancherà neanche a questa udienza. In attesa del processo, il genero di Riina se la prende con Repubblica per questo articolo. Stamattina, Ciavarello è tornato a scrivere su Facebook. Poi ancora un affondo sul sequestro di beni scattato lo scorso 19 luglio: «Avete sequestrato con ingiusta violenza la mia azienda, ma non potrete mai sequestrare il mio Sapere ed il mio Mestiere, e per questo risorgerò presto dalle mie ceneri come l'Araba Fenice più Grande e più Forte di prima - conclude Ciavarello - Per il resto arriverà il giudizio di Dio anche per voi che avete permesso ed autorizzato violenza verso gente innocente, per voi che avete eseguito e per voi che state ripetendo a pappagallo quello che la regia vi ha scritto. Quel che avete fatto lo riceverete da Dio moltiplicato 9 volte, voi ed i vostri figli fino alla settima generazione. Gloria a Dio! Comunque la ditta sta ancora lavorando fino ad oggi, non è più mia ma i miei ragazzi sono a lavoro... Vi voglio Bene Ragazzi».

"I giornalisti scrivono senza essere "imboccati" da alcuno. Non hanno bisogno di essere 'imboccati', per cui il genero del boss Totò Riina può stare tranquillo perchè sia il collega Salvo Palazzolo, professionista serio e competente, sia gli altri colleghi che seguono la cronaca a Palermo dimostrano ogni giorno capacità professionali indiscutibili". Lo affermano i vertici di Assostampa Sicilia, di Assostampa Palermo, sindacato unitario dei giornalisti, e dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia con riferimento al post su Facebook apparso oggi sulla bacheca di Tony Ciavarello, il genero di Totò Riina. "Non ci intimidiscono certi messaggi che francamente non sappiamo come interpretare, ci auguriamo soltanto che possano essere valutati da chi ha l'autorità competente per vigilare affinchè la stampa libera possa continuare a svolgere il proprio lavoro in modo sereno e autonomo", concludono le segreterie di Assostampa Sicilia, Assostampa Palermo e l'Ordine dei giornalisti di Sicilia. "Le aggressioni verbali rivolte al cronista di Repubblica Salvo Palazzolo sono il segno di come il suo lavoro vada nella giusta direzione - ha detto il presidente regionale dell'Unci Andrea Tuttoilmondo - Al collega il mio più sentito abbraccio con la convinzione che tutto ciò non farà altro che alimentare ulteriormente la sua vocazione giornalistica al servizio dell'opinione pubblica". "La solidarietà oltre che a Salvo Palazzolo - ha aggiunto il vicepresidente nazionale Leone Zingales - va espressa anche a tutti quei giornalisti che vengono chiamati in causa dal genero di Riina. I cronisti con la schiena dritta non si faranno intimidire da chicchessia".

Palermo, 25 luglio 2016. (AdnKronos) - "Avete sequestrato con ingiusta violenza la mia azienda, ma non potrete mai sequestrare il mio sapere e il mio mestiere, e per questo risorgerò presto dalle mie ceneri come l'Araba Fenice più grande e più forte di prima". A scriverlo su Facebook è Antonino Ciavarello, marito di Maria Concetta Riina, figlia del padrino corleonese Totò Riina, che dalla sua pagina lancia strali contro magistrati, investigatori e giornalisti. "Arriverà il giudizio di Dio anche per voi che avete permesso e autorizzato violenza verso gente innocente - scrive -, per voi che avete eseguito e per voi che state ripetendo a pappagallo quello che la regia vi ha scritto. Quel che avete fatto lo riceverete da Dio moltiplicato 9 volte, voi e i vostri figli fino alla settima generazione. Gloria a Dio!". Lo scorso 19 luglio i carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Palermo hanno posto i sigilli al 'tesoro' del capo dei capi. Un sequestro, aveva spiegato il comandante del Ros, Giuseppe Governale, incontrando i giornalisti, che colpisce "l'immagine del capo di Cosa nostra, che è certamente depotenziato sul piano fisico, ma gli accertamenti hanno confermato che è il capo indiscusso con il carisma di sempre e il ruolo, dietro le quinte, della moglie Nina Bagarella". Beni per un valore complessivo di circa un milione e mezzo di euro sottratti alla famiglia Riina, ma nei 38 conti correnti gli investigatori avrebbero trovato solo pochi spiccioli. Mafia: sigilli a "tesoro" Riina, genero "un abbaglio, risorgerò come Araba Fenice". "Ancora una volta mi hanno distrutto la vita e lasciato con il culo a terra - scrive ancora il genero di Riina - senza il becco di un quattrino. Hanno sequestrato finanche i libretti a deposito dei bambini con su i regalini dei compleanni per un totale di meno di 500 euro, il mio conto corrente con meno di 1000 euro e una postepay con 750 euro e un conto carta di mia moglie con meno di 300 euro. Si sono impossessati di tutto quello che ho guadagnato col sudore e tanti sacrifici negli ultimi 5 anni e la cosa che fa più rabbia è che il complotto è palese". Ciavarello se la prende con i magistrati, che hanno disposto il sequestro della sua ditta che opera nel settore dei ricambi di auto a San Pancrazio Salentino (Brindisi), rei, a suo dire, di volerlo "infangare" e di "distruggere 5 anni di duro lavoro sacrifici e privazioni per far crescere la ditta". Per Ciavarello gli investigatori "si sono pure confusi e/o imbrogliati e hanno fatto carte false". "Un abbaglio", che ha fatto finire l'uomo "per l'ennesima volta sui giornali mondiali descritto come il peggiore dei malviventi. La cosa più eclatante - conclude - è l'aver appreso la notizia del sequestro on line prima che il sequestro avveniva". Intanto, il prossimo 15 novembre Riina e la sua famiglia sono stati convocati davanti al giudice della sezione Misure di prevenzione. 

LA VERA MAFIA: LO STATO ESTORTORE E CORROTTO.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

La vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

“Si offre una narrazione delle vicende di mafia che è estremamente semplificata – ha detto a Rainews il Procuratore di Caltanissetta. – Da una parte ci sono Falcone, Borsellino e gli uomini di Stato uccisi per l’affermazione della legalità. Dall’altra parte ci sono i Riina, i Provenzano, ex villici, che vengono rappresentate come icone assolute della mafia. Ma dove li mettiamo i colletti bianchi che sono capi organici della mafia? Parlo di architetti, medici, ingegneri (magistrati, avvocati, notai ndr)…che sono collusi. Ma ci sono anche uomini dello Stato dei quali è stata accertata con sentenza definitiva la complicità con la mafia. Parlo di presidenti del consiglio, vertici dei servizi segreti, capi della polizia, assessori regionali. Io credo che senza questi colletti bianchi e senza gli uomini di Stato collusi, la mafia dei Riina e dei Provenzano sarebbe stata debellata da un pezzo. Non possiamo distorcere la verità e raccontare ai giovani che la mafia è solo estorsioni e spaccio, bisogna raccontare il fenomeno nella sua complessità – ha aggiunto Scarpinato. – Se noi non li aiutiamo a capire, rischiamo di fargli subire ancora la mafia, che si evolve sempre di più ed è componente del potere”.

Un esercito di politici, magistrati e colletti bianchi collusi o contigui. E' l'estrema sintesi delle ultime, incredibili rivelazioni di Carmine Schiavone, pentito e collaboratore di giustizia dal '93, cugino di Francesco Schiavone, alias Sandokan. Ha deciso di parlare ai media, Schiavone, di fare nomi e cognomi, di raccontare intrecci e connection, di alzare il sipario sugli affari più sporchi – e milionari – portati a segno dai Casalesi con forti complicità politico-imprenditoriali. A una settimana dalle dichiarazioni a SkyTG24 del pentito di camorra Carmine Schiavone, le istituzioni italiane, chiamate in causa, tacciono. L’ex collaboratore di giustizia ha chiaramente denunciato l’esistenza di uno “Stato mafioso”, di ministri corrotti, di intere caserme di Carabinieri, Polizia, e Guardia di Finanza conniventi. Il silenzio di chi dovrebbe parlare (e bonificare) è assordante!

Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più: perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

L’ultima volta che un padrino della camorra vuotò il sacco accusando avvocati e magistrati di essersi fatti corrompere per aggiustargli qualche processo, risale agli anni ’90. Non finì tanto bene, nel senso che le «clamorose» rivelazioni di «Lovigino», alias dell’ex boss di Forcella Luigi Giuliano, su un presidente di sezione del tribunale del Riesame e di un membro della Camera penale, finirono nel nulla: per un anno e mezzo non si riuscì a trovare adeguato riscontro al racconto di mazzette e sentenze taroccate, tutti assolti. Oggi, con un ex capo della malavita organizzata del calibro di Antonio Iovine, detto «’O ninno», passato come (quasi) tutti dall’altra parte della scrivania «perché il clan dei casalesi ormai non c’è più...», la scena si ripete, almeno nelle sue premesse: si tratta solo di vedere come andrà a finire, di tempo ce n’è, siamo agli inizi. The show must go on. «Per essere assolto in Corte d’assise dall’accusa di omicidio tirai fuori 250mila euro. In tribunale a Napoli c’era una struttura che si occupava di aggiustare processi».

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.

A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.

Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti  e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo  ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.

La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale, oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.

Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.

ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «Misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam, che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.

«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.

La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:

1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".

2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".

Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inammissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.

FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».

Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo. Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso. Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali …  il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.

A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.

Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.

«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso (circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario, con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie, verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e, forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data, 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando così inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompicoglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola, 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare. E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendeva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolarmente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma soprattutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia, al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e soprattutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento.  Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza”. “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito, me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagli inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza, lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse» anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan». Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”, Lunedì 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.

Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato!) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". Ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

SONO PROCURE O NIDI DI VIPERE?

C’È UN POTERE FUORI CONTROLLO: LA MAGISTRATURA, scrive Piero Sansonetti su “Calabria Ora”. La magistratura ormai è diventata un potere fuori controllo. Rischia di fare dei danni gravi, di far saltare gli equilibri fondamentali che regolano il funzionamento della nostra società, e di devastare lo stato di diritto. Purtroppo, al momento, il mondo politico sembra cieco di fronte al pericolo. C’è solo Silvio Berlusconi che lo denuncia, ma è poco credibile perché, tra le tante vittime dello strapotere dei giudici, lui certamente è la meno innocente. I suoi nemici invece sono convinti, ahinoi, di poter trarre profitto dallo scontro tra Berlusconi e il potere giudiziario, e quindi se ne infischiano, anzi alimentano la corsa dei giudici all’onnipotenza. è così: l’Italia è nelle mani di una classe dirigente e di un ceto politico molto poco responsabili, non all’altezza dei propri compiti. La guerra tra magistrati che si è aperta in Calabria, e che ieri ha visto il procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, azzannare il dottor Alberto Cisterna, numero due dell’antimafia nazionale, è uno degli esempi più limpidi, e preoccupanti, di questo impazzimento del potere giudiziario. Pignatone ha deciso di iscrivere Cisterna sul libro degli indagati  (e la notizia – chissà per quali misteriose vie! - è stata fornita al “Corriere della Sera”) sulla base della testimonianza di un pentito che nessuno, in Calabria, ritiene neppur minimamente attendibile. Mentre è opinione comune che la moralità del dottor Cisterna sia fuori discussione. Io, che sono vecchio, mi ricordo molto bene quando, tanti anni fa, un certo pentito Pellegriti, uomo di mafia, accusò in modo generico e senza riscontri Giulio Andreotti di contatti con “Cosa Nostra”; il giudice Falcone, nel giro di due ore, fece una cosa molto semplice: incriminò Pellegriti e dispose il suo arresto. Vi assicuro che Pellegriti, nonostante tutto, aveva più credibilità del pentito Lo Giudice detto il “nano”. Perché Falcone fu così duro con lui? Perché avendo una grandissima conoscenza della materia delicatissima del “pentitismo”, Falcone sapeva quale fosse il pericolo: che i pentiti iniziassero loro stessi a diventare protagonisti, usassero la magistratura ai loro scopi, destabilizzando e soprattutto portando la giustizia lontanissima dalla verità. Falcone aveva costruito su un pentito - Tommaso Buscetta - la sua grandiosa opera di investigazione e le sue scoperte sulla mafia, ma sapeva anche che i pentiti andavano maneggiati con grande cautela. E che bisognava, spesso, diffidare di loro. Francamente il dottor Pignatone, nel caso di Lo Giudice, non ha mostrato grande cautela. Ha creduto a una sua testimonianza basata per altro non su conoscenza diretta e nemmeno sul sentito dire, ma su una intuizione (“avevo l’impressione che mio fratello avesse...”) e invece di reprimere la calunnia ha proceduto all’iscrizione di Cisterna nel registro degli indagati e non ha impedito che la notizia arrivasse ai giornali. Producendo un danno di immagine e di credibilità incalcolabile ad uno degli uomini chiave dell’antimafia nazionale. Diciamo che, al momento, questa partita – cioè questa guerra nella magistratura – la sta vincendo la ’ndrangheta. La quale, potete starne certi, stasera brinda a champagne per il colpo portato a segno dal “nano”. Cosa si può fare adesso, per impedire che il “suicidio” dello Stato prosegua? Ripeterò quello che ho detto altre volte, e ancora recentemente – in garbata e serena polemica con il dottor Pignatone. 

Primo, occorre riformare la legge sui pentiti, profondamente, in modo da ridurre al minimo la possibilità dei pentiti di essere decisivi nell’orientamento delle indagini e nelle loro conclusioni, e ridimensionando consistentemente il regime premiale. I pentiti non devono essere, come sono adesso, i padroni della Giustizia.

Secondo, bisogna intervenire per spezzare il cerchio di “complicità” tra magistratura e stampa, e cioè la tendenza di pezzi importanti di magistratura ad usare la stampa come un proprio strumento “punitivo” o “ricattatorio”. è molto difficile che la stampa possa sottrarsi a questa sua subalternità da sola, perché è difficile rinunciare alle notizie e agli scoop. E allora deve intervenire la legge. 

Terzo, si deve procedere a una riforma della giustizia che restituisca alla magistratura il suo ruolo essenziale nel funzionamento di una società democratica e le impedisca di compiere continuamente irruzione in ambiti di potere che non sono suoi e di usare le proprie competenze al fine di vincere battaglie politiche e di potere. Separazione delle carriere, riforma del Csm, riforma delle intercettazioni, eccetera.

Non c’è molto tempo da perdere. L’idea che riformare la magistratura sia un atto che va nella direzione dell’aiuto alla malavita è follia. è il contrario. Non è possibile combattere davvero la malavita con la magistratura ridotta come oggi è ridotta. Se la stessa lotta alla mafia diventa uno strumento per altre battaglie politiche, statene certi, la mafia vincerà sempre.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

Così un Pm ha chiesto a un pentito di accusarmi, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Nei giorni scorsi, nell’edizione calabrese del Garantista abbiamo pubblicato la notizia del pentimento di un avvocato accusato di avere avuto a che fare con la famiglia Cacciola e di avere avuto un ruolo prima nella ritrattazione di Concetta Cacciola (testimone di giustizia che accusava la sua famiglia) e poi nella tragica induzione al suicidio (o addirittura nell’assassinio) di Concetta dopo che aveva ritrattato la ritrattazione. La prima ritrattazione di Concetta era avvenuta attraverso una cassetta audio che era stata mandata ad alcuni giornali, tra i quali “Calabria Ora” che allora dirigevo. L’avvocato Pisani, che assisteva la famiglia Cacciola (accusata da Concetta, figlia e sorella di tre imputati) si è pentito a settembre e nei giorni scorsi sono stati resi pubblici i verbali del suo interrogatorio. Qui mi limito a trascrivere una paginetta dell’interrogatorio, e poi la commenterò.

Vittorio Pisani: ... fruscii… eh… aveva detto che comunque l’avrebbe…avrebbe mandato il giorno dopo tutto il materiale per la pubblicazione su Calabria Ora.

Pubblico ministero: Perché proprio a Calabria Ora? No, le chiedo se c’è un motivo perché proprio a Calabria Ora…

Vittorio Pisani : Calabria Ora, sostanzialmente è stato sempre un giornale un po’, non a favore della Procura ma contro…contro la Procura, no?, su alcune circostanze, che io da lettore, voglio dire, quindi lui aveva identificato questa…questa testata giornalistica per inviare il tutto, di fatto l’ha inviato…

Pubblico Ministero: Era questo il motivo per cui l’aveva inviato a Calabria Ora o aveva un rapporto pregresso con Sansonetti?

Pisani: Io non lo so questo, dottore, non lo so.

Pubblico ministero: Non ne avete parlato?

Pisani: Eh?

Pubblico ministero: Non ne avete parlato?

Pisani: No, no, no.

Ora vi prego di ragionare sul tono delle domande. Pisani si è pentito, riceverà dei benefici dal suo pentimento, sa che sarà il Pm a decidere se riceverà questi benefici, e quando li riceverà, e in che misura. Il pubblico ministero lo incalza sul punto specifico: Sansonetti conosceva i Cacciola? Se ne infischia del fatto che la cassetta era stata mandata anche alla Gazzetta, che è di gran lunga il giornale più importante della Calabria. Gli interessa solo Calabria Ora e il suo direttore. Chiede il motivo per il quale ha scelto Calabria Ora. Non si accontenta della spiegazione logica che riceve («perché era notoriamente un giornale contro le Procure») sollecita una spiegazione diversa: e chiede non se esistessero rapporti tra me e i Cacciola, ma chiede specificamente se esistesse un “rapporto pregresso”. Lascia chiaramente capire all’interrogato che a lui piacerebbe sentirsi rispondere di sì. Che vuole che gli si dica questo: che esistevano rapporti tra me e i Cacciola. Pisani però è un avvocato e probabilmente ha timore a mentire. E dunque, seppure un po’ intimidito, dice di no che a lui non risulta. E visto che il Pm insiste (“non ne avete parlato?..eh? Non ne avete parlato?”) nega per tre volte: no, no, no. A voi sembra questo il modo di interrogare un pentito? Voi credete che indurre i pentiti ad accusare delle persone, contro le quali si vuole agire, sia un metodo corretto? Voi avete mai letto le cose che diceva Giovanni Falcone su come si interroga un pentito? Avete mai sentito dire che lui sosteneva che chi interroga mai e poi mai deve far capire quale risposta vuole? «Mai», diceva Falcone (e chissà che non salti su qualcuno, adesso, a dirmi che Falcone era un amico della mafia…). Voi non temete che l’uso così discrezionale, e spregiudicato, e inquisitorio, e medievale della legge sui pentiti sia una mina vagante che rischia di offuscare ogni verità e di perseguitare molti innocenti? Nel caso specifico c’è qualcosa di più. Il Pm sa che comunque l’interrogatorio sarà reso pubblico. Se ne infischia della figura che farà lui per la faziosità delle sue domande. Sa che – a parte il nostro giornale – nessun altro avrà il fegato per contestargli quella faziosità. E però sa anche che la pubblicazione del verbale varrà come intimidazione, verso di me e verso i giornalisti del mio giornale. Come dire: «Sappiate che vi abbiamo nel mirino, sappiate che abbiamo strumenti pesantissimi per colpirvi, piantatela di criticare la Procura o ve la facciamo pagare». Il bello è che noi non abbiamo nessuna possibilità di essere difesi da questo assalto. Non c’è nessuna autorità alla quale possiamo ricorrere. A Chi? Al Procuratore di Reggio? Al Csm? Sì, possiamo farlo, ma con speranze molto esili. Non esiste una autorità terza che abbia il potere di porre fine ai soprusi ricevuti da parte della magistratura. Si può giusto scrivere un articolo come questo, sbraitando un po’ e sapendo bene che l’effetto sarà solo quello di incattivire i magistrati. Del resto l’unica altra scelta era quella di tacere e far sapere a chi di dovere che l’intimidazione ha colto nel segno. A me non piaceva questa scelta.

P.S. In un’altra parte del verbale Pisani dice di aver saputo che io e un collega della Gazzetta del Sud avevamo fatto varie telefonate all’avvocato Cacciola, che assisteva la famiglia Cacciola e che poi è finito insieme a tutti gli altri imputato per aver costretto Concetta alla ritrattazione. Dico subito che non credo proprio di aver fatto nessuna telefonata, non lo ricordo e tendo ad escludere la circostanza (che comunque gli investigatori possono controllare agevolmente dal momento che sicuramente il mio telefono, quello del giornale e quello di Cacciola – immagino – erano sotto controllo). E comunque se pure avessi telefonato all’avvocato Cacciola, che all’epoca era incensurato, per avere un documento giornalistico molto importante, avrei soltanto fatto il mio dovere. Cioè, mi spiego: io sono convinto che il mio dovere di giornalista sia quello di dare le notizie e vigilare sul comportamento dello Stato nei confronti dei cittadini. Dello Stato: anche delle Procure. Se invece uno pensa che il mio dovere sia rispettare, venerare e obbedire alle Procure – come spesso avviene sulla stampa italiana – allora è chiaro che l’eventuale telefonata all’avvocato Cacciola sarebbe stato un vero delitto di lesa maestà.

Sansonetti: «Il caso Cisterna e l’inutile legge sui pentiti», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Piero Sansonetti racconta il caso del giudice Alberto Cisterna, accusato ingiustamente da un pentito, scaricato dai colleghi, e ora prosciolto. «Una storia che ci parla delle lotte di potere interne alla magistratura e dei danni che fa la legge sui pentiti»Lo Giudice è il pentito della ‘ndrangheta che si è autoaccusato degli attentati alla procura generale di Reggio Calabria e alla casa del procuratore generale. Storia del gennaio 2010: una vendetta contro magistrati e forze dell’ordine per gli arresti e i sequestri di beni subìti. Alberto Cisterna è stato uno dei nomi più importanti tra le toghe antimafia, sostituto procuratore alla Direzione nazionale fino al marzo di quest’anno. Nel momento in cui la storia di Lo Giudice e quella di Cisterna si sono intrecciate ne è scaturito un cortocircuito mediatico e giudiziario dagli effetti disastrosi. Il pentito ha accusato il magistrato di corruzione in atti giudiziari per una connivenza con le ‘ndrine: secondo Antonino, Cisterna si era incontrato con il fratello Luciano Lo Giudice e, di fatto, gli aveva dato sempre protezione. Ne è scaturita un’inchiesta, che ha avuto numerosi risvolti fino a quelli clamorosi di pochi giorni fa: mercoledì la procura di Reggio Calabria ha chiesto l’archiviazione dell’indagine. «Cisterna era uno dei migliori investigatori dell’antimafia, la cui carriera è stata rovinata» racconta a tempi.it il direttore di Calabria Ora, Piero Sansonetti.

Cos’è accaduto ad Alberto Cisterna?

«Cisterna è stato affondato, poco più di un anno fa, da un avviso di garanzia. Il tutto per la deposizione di un pentito considerato assai poco attendibile da chiunque conosca un po’ la ‘ndrangheta. L’avviso di garanzia ha provocato l’intervento del Csm, che in primavera ha deciso di rimuoverlo dal suo prestigioso incarico di numero 2 dell’antimafia nazionale per spedirlo a fare il giudice in una piazza più modesta, come Tivoli. Una punizione severa, anche se non era stata provata ancora alcuna colpa. Adesso la procura di Reggio ha chiesto l’archiviazione. È come se avesse detto candidamente: “Scusate tanto, le indagini non hanno trovato nulla contro di lui”. Qual è il risultato di un anno di fango e sospetti? Sul piano giudiziario nessuno, su quello personale la carriera di Cisterna è stata rovinata».

Quali sono gli insegnamenti di questa vicenda per la nostra giustizia?

«Credo siano due. Il primo è che la magistratura, una fetta almeno di essa, usa il suo enorme potere talvolta male e per lotte interne. Per capirlo basta guardare il contesto in cui avviene la vicenda di Cisterna. È tutto lampante, non lo dico io».

Cioè?

«Semplice: il procuratore capo di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, dopo 4 anni, stava per andarsene (in seguito è stato infatti nominato procuratore capo a Roma) e si poneva il problema della successione. Uno dei candidati era proprio Cisterna, magistrato di grande prestigio, all’epoca alla Direzione nazionale antimafia. Ma a Reggio Calabria ci sono due gruppi di magistrati in lotta tra loro, uno che faceva riferimento a Pignatone, l’altro contrapposto che si riferiva a Cisterna. Lo scontro era anzitutto “di potere”, prima che di idee. C’era sicuramente anche una differenza di concezione della ‘ndrangheta (Pignatone la vedeva molto verticistica, Cisterna la vedeva come organizzazione orizzontale), ma non era tanto questo. La procura di Reggio sotto la gestione Pignatone ha ottenuto risultati molto importanti nella lotta alla ‘ndrangheta, eseguendo numerosi arresti, ma questo non esclude che si possa avanzare una critica, che sotto la sua gestione le lotte di potere sono state spregiudicate. Una parte della procura voleva evitare la nomina di Cisterna, considerato troppo vicino alla cordata opposta: questa lotta di potere si è spinta fino a convincere i magistrati anti-Cisterna a considerare attendibile la testimonianza di un pentito minore, come Nino Lo Giudice, detto “Il nano”. Si è intrecciata una campagna giornalistica ed è stata confermata la tesi che, quando giudici e giornalisti fanno squadra, il diritto se ne va a quel paese. La magistratura è un istituzione che ha tanto potere, ed è inevitabile che si creino gruppi di potere, e non sempre la differenza è sulle idee. Come si può intervenire su questo elemento? L’unica via è ridimensionare il potere della magistratura. L’altro insegnamento che va tratto dalla vicenda Cisterna è sulla legge sui pentiti».

Perché?

«La legge sui pentiti, secondo me, oggi non serve a niente. Servì ai tempi di Falcone, ma introduce una tacca nel diritto. Perché chi si pente non paga? Non possiamo sospettare che qualcuno abbia avuto un nome dando in cambio la garanzia dell’impunità? Nel caso dei pentiti la legge è addirittura usata dai pentiti stessi meglio che dai magistrati. Nel caso Cisterna questo è evidente. C’è un pentito, Lo Giudice, che non aveva alcun peso nell’organizzazione criminale, era un “cocomerario”. Lo Giudice ha accusato un esponente politico e Cisterna: sono state prese per buone solo le sue dichiarazioni su Cisterna. E oggi viene fuori che sul politico le indagini avrebbero dovute essere approfondite, mentre su Cisterna non c’era assolutamente nulla, a parte le parole del pentito. Eppure su questa base è stata fatta una campagna stampa. Cisterna in primavera è stato “riservatamente” convocato da Pignatone a Roma per essere interrogato. Tanto riservatamente che, mentre era in volo sull’areo, ha letto la notizia della convocazione sul Corriere. A mio avviso, la legge dei pentiti va riformata, o meglio abolita perché la mafia sa usare lo strumento legislativo meglio dei giudici. Ma succede anche che qualche magistrato, anche senza pensare chissà a quale macchinazione, ma in buona fede, si convinca di una tesi investigativa e non avendo le prove, trovi il pentito pronto a “parlare”.»

Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. È successo proprio ieri al sindaco di Salerno, De Luca, che ora rischia di essere tagliato fuori dalle primarie del Pd per la candidatura a governatore della Campania. Un magistrato indagato per abuso d’ufficio passa sotto silenzio. Eppure i danni che può provocare l’abuso di un magistrato, dato l’enorme potere che esercita sulle singole persone, sulle loro vite, sono molto maggiori di quelli che può provocare un sindaco. Se per caso succedesse che un uomo politico fosse accusato di avere usato violenza su un testimone per costringerlo ad accusare ingiustamente un suo nemico, verrebbe giù il mondo. Giusto che sia così. Ci sono diversi magistrati, anche prestigiosissimi, che sono stati accusati di aver costretto i testimoni a mentire, ma la cosa non scuote nessuna coscienza. Eppure nessuno si aspetta equanimità da un politico, mentre da un magistrato magari potrebbe anche pretenderla… Usciamo dalle affermazioni generiche, andiamo al concreto. Tre casi in un giorno solo. A Milano, clamorosamente, si scopre che il testimone-chiave contro Filippo Penati (ex presidente della Provincia ed ex dirigente di primissimo piano del Pd ai tempi di Bersani) aveva mentito, e aveva mentito – dice lui stesso – perché indotto alla menzogna dalla Procura con il ricatto del carcere. In poche parole, era stato costretto ad accusare ingiustamente Penati. In un paese civile una cosa del genere sarebbe uno scandalo devastante, raderebbe al suolo il prestigio dell’intera magistratura e farebbe saltare molte teste. Da noi no. Alzata di spalle. Contemporaneamente, sempre dalle parti di Milano, si riaccende lo scontro di potere del quale fin qui ha fatto le spese il dottor Robledo, inviso al potente Procuratore Bruti Liberati (anche perché spesso critico verso Bruti in modo un po’ troppo circostanziato). E lo stesso Robledo ora rischia un procedimento disciplinare per una vicenda che nasce da una discutibilissima intercettazione telefonica. Robledo avrebbe scambiato alcuni messaggi con un avvocato. Niente di rilevante penalmente, ha detto la stessa magistratura, ma ora deciderà il Csm se meritevole di una sanzione. Ci sono varie domande inquietanti a questo proposito. Una è questa: perché qualcuno intercettava il telefono del dottor Robledo, indagato di nulla, e di un avvocato (non andrebbero mai intercettati i telefoni degli avvocati, che devono difendere il segreto professionale)? Era legittima l’intercettazione o abusiva? Quante volte le intercettazioni telefoniche sono abusive? Sarà il caso di limitare le intercettazioni riportandole a livelli europei? (Ho detto, una domanda ma me ne sono venute di più…). Poi c’è un terzo episodio. La Procura di Catanzaro ha rinviato a Roma la decisione se incriminare o meno un Pm molto noto in Calabria, la dottoressa Ronchi, ex braccio destro di Pignatone, per abuso di ufficio, falso ideologico e altra robina così. La dottoressa è sospettata di aver cercato di incastrare, ingiustamente, un suo collega molto prestigioso, Alberto Cisterna, che all’epoca era il numero due dell’antimafia nazionale e che era candidato a diventare Procuratore a Reggio. Sembra che una parte della magistratura reggina non gradisse Cisterna, e c’è il sospetto che per eliminarlo dalla corsa si sia inventata accuse varie, anche forzando le deposizioni dei pentiti. Ma dove siamo? In Italia o nell’America Latina degli anni Settanta? Tre casi così clamorosi in una sola giornata non sono casuali. È chiaro che c’è un pezzo grandissimo di magistratura (così come c’è un pezzo grandissimo di politica) serissimo, incorruttibile, impegnato nel suo lavoro e nella difesa del diritto. Poi però è chiaro anche che c’è un altro pezzo, interessato solo alle lotte di potere, dentro la magistratura e tra magistratura e politica, e che nello svolgimento di queste lotte usa i mezzi peggiori, abusa, esercita violenza. Filippo Penati ha avuto la sua carriera politica annientata. Ora vagli a spiegare che il testimone lo accusava perché sennò qualche pm lo teneva in prigione! La Procura di Milano è quella che ha modificato profondamente la struttura della lotta politica in Italia, eliminando dalla scena uno dei suoi personaggi più importanti, e cioè Berlusconi, e riducendo quello che era il primo partito politico in Italia alla terza o alla quarta posizione. È legittimo pensare che in altre occasioni abbia usato mezzi illegali come quelli usati contro Penati? Noi chiediamo solo questo: è il caso di permettere che le cose continuino così? Possibile che la politica non trovi al suo interno le forze che hanno il coraggio di reagire? Se l’architetto Sarno confermerà di avere accusato Penati perché sennò i magistrati non lo facevano uscire di cella, chiunque sarà autorizzato a dire che in Italia esiste una forma legalizzata di tortura, e sarà acclarato che il carcere preventivo non è una misura cautelare ma uno strumento (medievale) di indagine. Vogliamo continuare a dire che non è questo il problema principale, e occupiamoci prima dell’Italicum, e del Senato e roba così? Facciamoci pure del male, come diceva Moretti, sapendo che stiamo andando verso la costruzione di uno Stato di non- diritto. Illegale e corrotto, fondato sulla sopraffazione.

La Pm Ronchi voleva incastrare Cisterna numero 2 dell’antimafia? Si chiede Consolato Minniti su “Il Garantista”. Sarà depositata nei prossimi giorni la decisione del gip sul caso Ronchi-Cisterna. Si tratta di dare una risposta all’opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento aperto nei confronti del sostituto procuratore Beatrice Ronchi, fino a qualche tempo fa in servizio a Reggio Calabria ed oggi trasferita a Bologna. A denunciare il pm fu un collega, l’ex numero due della Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna.  L’accusa è piuttosto pesante: abuso d’ufficio, omissione in atti d’ufficio e falso ideologico. Secondo il magistrato, che alla Dna fu il vice dell’odierno presidente della Repubblica supplente Piero Grasso, la Ronchi si sarebbe fatta più volte applicare, ben oltre la sua permanenza a Reggio Calabria, in un procedimento nel quale Cisterna risultava indagato, sulla base di presupposti falsi ed in violazione di legge. Per comprendere l’intricata vicenda che vede contrapposte le due toghe, però, occorre fare un deciso passo indietro e andare addirittura all’ottobre del 2010, quando a Reggio Calabria si apre una nuova stagione dei veleni all’interno dei palazzi di giustizia. Ci pensa il pentito Antonino Lo Giudice a sconquassare gli equilibri (già fragili, peraltro) fra i magistrati reggini. Lui, appartenente ad una nota famiglia di ‘ndrangheta della zona nord di Reggio, è definito “il nano” a causa della bassa statura. Le sue dichiarazioni, però, sono deflagranti. Perché appena si siede al tavolo con i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone, afferma: «Ho piazzato io la bomba alla procura generale reggina ed anche quella sotto casa del procuratore generale Di Landro. Ho fatto mettere io il bazooka per Pignatone, davanti al palazzo del Cedir». A Reggio non si parla d’altro. Pochi mesi prima, infatti, questi tre episodi riportandola città in un clima di terrore. Lo Giudice racconta anche dei rapporti che suo fratello Luciano (volto imprenditoriale della famiglia) ha intrattenuto con alcuni magistrati ed esponenti delle forze di polizia. Un ufficiale dell’Arma finisce in manette, mentre fra i giudici chiamati in causa c’è Alberto Cisterna, all’epoca in servizio alla Dna. Ed è qui che il racconto del pentito inizia a mostrare delle stranezze. Dapprima narra di rapporti del tutto leciti, limitati al fatto che suo fratello Luciano fosse un confidente. Poi, pian piano, la sua versione cambia. Se ne conteranno ben quattro. Lo Giudice accuserà Cisterna di aver avuto «regali e qualche confidenza», per giungere poi ad una frase rimasta scolpita come pietra dello scandalo. Discutendo della scarcerazione di un altro fratello, Maurizio, il “nano” dice ai pm reggini che Luciano gli avrebbe confidato di aver dovuto pagare un prezzo per far uscire il congiunto dal carcere: «Mio fratello mi fece intendere soldi, molti soldi». E il magistrato “ripagato” per quella scarcerazione sarebbe stato proprio Cisterna. Nulla più saprà aggiungere Lo Giudice su tale episodio, né tanto meno sarà in grado di spiegare data, luogo e modalità dell’eventuale pagamento. Ma tanto basta al procuratore Pignatone per iscrivere Cisterna nel registro degli indagati con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. L’ex vice di Grasso programma un interrogatorio con i pm reggini ma, proprio quella mattina – è il 17 giugno 2011 – la notizia, sino ad allora rimasta riservata, viene pubblicata in prima pagina sul Corriere della Sera. La guerra fra pm esplode in tutta la sua prepotenza. Nel corso dell’interrogatorio, infatti, Pignatone contesta a Cisterna i suoi rapporti con Luciano Lo Giudice. Il magistrato spiega che quei contatti sono finalizzati alle informazioni che il fratello del “nano” diede per la cattura di uno dei boss più potenti della ‘ndrangheta, ossia Pasquale Condello. E, per far comprendere la tipologia di rapporti, Cisterna tira fuori la storia della cattura di Bernardo Provenzano, della quale Pignatone fu protagonista. Lo scontro è totale. L’inchiesta viene archiviata, ma l’incartamento finisce al Csm che, pur ravvisando l’inattendibilità del pentito, trasferisce Cisterna a Tivoli in via cautelare, per incompatibilità funzionale. Il pm titolare del procedimento per corruzione è proprio Beatrice Ronchi, la quale termina in quel periodo la sua permanenza a Reggio Calabria. È sempre lo stesso pm a seguire il processo principale nei confronti della cosca Lo Giudice e per questo viene applicata anche al fascicolo su Cisterna, benché sia ormai in altra sede. Accade, però, che dopo l’archiviazione del reato di corruzione, si apra un altro fascicolo riguardante alcune lezioni all’università di Reggio Calabria, che l’ex vice di Grasso avrebbe attestato falsamente di aver tenuto in giorni in cui era fuori città. La Ronchi ottiene, anche per tale procedimento l’applicazione extradistrettuale, poiché vi sarebbe uno «stretto collegamento» con il processo alla cosca Lo Giudice. Circostanza che a giudizio di Cisterna sarebbe del tutto infondata. Da qui l’esposto alla procura di Catanzaro, competente per i giudici reggini. La quale, però, decide di chiedere l’archiviazione per la Ronchi e inviare gli atti a Roma, per approfondire eventuali condotte delittuose in seno al Csm. Se così dovesse avvenire, il fascicolo passerebbe per competenza alla procura di Perugia.

Il pm Ronchi sotto indagine a Catanzaro. All’origine del procedimento, ci sono quattro esposti presentati nel tempo dall'ex numero due della Dna, Alberto Cisterna per contestare l'applicazione extradistrettuale della sostituto, scrive Alessia Candito su “Il Corriere della Calabria”. Abuso d’ufficio, rifiuto e omissione di atti d’ufficio e falso ideologico: sono questi i reati per cui è indagata la pm Beatrice Ronchi, oggi in servizio presso la procura della Repubblica di Bologna, ma per anni in forza alla Dda di Reggio Calabria, dove ha ereditato e portato a termine le indagini sul clan Lo Giudice. Da rappresentante della pubblica accusa, la nota sostituto procuratore dovrà adesso presentarsi in aula in veste di indagata di fronte al gup Abigail Mellace del Tribunale di Catanzaro. Per lei, il pm Gerardo Dominijanni ha avanzato una richiesta di archiviazione, con contestuale trasferimento degli atti al Tribunale di Roma competente per territorio. Ma la parte offesa – l’ex numero due della Direzione Nazione Antimafia, Alberto Cisterna – ha annunciato opposizione. All’origine del procedimento, ci sono quattro esposti presentati nel tempo proprio da Cisterna, in passato messo sotto indagine proprio dal pm Ronchi con un’accusa di corruzione in atti giudiziari, in seguito archiviata su richiesta della stessa sostituto che l’aveva formulata.  Un’inchiesta, cui la Ronchi - su richiesta dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone - è stata applicata fino alla conclusione delle indagini preliminari, nonostante fosse già trasferita a Bologna. Allo stesso modo, per la sostituto è stata chiesta e ottenuta l’applicazione al procedimento contro il clan Lo Giudice, all’epoca già approdato in sede processuale, fino al termine del dibattimento di primo grado. Una richiesta reiterata per ben tre volte dal procuratore facente funzioni Ottavio Sferlazza, che per oltre un anno ha svolto le funzioni di procuratore capo, dopo il trasferimento di Pignatone al vertice della procura di Roma. Al Csm, Sferlazza ha chiesto di prolungare l’applicazione del pm Ronchi il 27 giugno del 2012, quindi il 21 novembre dello stesso anno e infine il 13 marzo del 2013. Tuttavia, proprio con la seconda istanza nascono i problemi. «In detta richiesta – riassume il pm Dominijanni -  si evidenziava, per la prima volta, come al Dott. Cisterna, nel procedimento n 4291/11/21, pendente nella fase delle indagini preliminari, era stata ascritta altra fattispecie di reato, quella di cui all'articolo 483 del codice penale (falso ideologico) rispetto alla originaria ipotesi di corruzione (articoli 319 e 321 del codice penale). Quest'ultima poi, così sembra intendersi era stata stralciata da detto procedimento (n. 4291/11/21) mediante formazione di un nuovo fascicolo trasmesso al Gip con richiesta di archiviazione».  A quella richiesta di proroga ne sarebbe inoltre seguita un’ulteriore circa cinque mesi dopo, sempre a firma del procuratore Sferlazza, in cui si evidenziava come a carico di Cisterna «fosse stata ascritta una ulteriore ipotesi di reato rispetto alla originaria ipotesi di falso». Il riferimento è all’indagine relativa all’incarico svolto dall’ex numero due della Dna presso l’università Mediterranea, dove il magistrato per anni ha tenuto un corso di Procedura penale e uno di “Ordinamento giudiziario e forense” a titolo gratuito. Per la Procura, Cisterna avrebbe attestato falsamente la sua presenza a lezione, ma qualche mese fa il gup Adriana Trapani ha prosciolto il magistrato dall’accusa di truffa che gli veniva contestata, disponendo per lui il giudizio solo perché accusato di essere a conoscenza delle false credenziali presentate dalla sua collaboratrice dell`epoca Grazia Gatto. Un’inchiesta che nulla ha a che fare - né lo aveva quando è nata-  con la `ndrangheta, tanto meno con il clan Lo Giudice, nè è stata alimentata dalle rivelazioni di alcun collaboratore, dunque non ha alcuna relazione con il dibattimento cui la Ronchi era all’epoca applicata. Proprio su questa base Cisterna ha contestato la legittimità della proroga concessa alla pm prima al Csm, quindi con una serie di esposti alla Procura di Catanzaro, in cui si sottolineava non solo come non ci fossero i presupposti di legittimità per l’applicazione extradistrettuale della sostituto della Procura di Bologna, ma anche come tale provvedimento fosse sostanzialmente basato su un falso per induzione. Nella delibera del Csm con cui la Ronchi era stata inizialmente applicata al fascicolo, su istanza del relatore, il consigliere Vigorito, era stato infatti introdotto un espresso riferimento alla «stretta correlazione» – in realtà inesistente -  che la nuova indagine avrebbe avuto con il processo contro la cosca Lo Giudice. Ma per l’ex numero due della Procura Antimafia, quell’applicazione sarebbe illegittima anche sotto un altro profilo.  Per Cisterna, non solo la separazione del reato di corruzione – stralciato, divenuto oggetto di nuovo fascicolo e archiviato - da quello di falso, iscritto successivamente, sarebbe illegittima, ma avrebbe anche uno scopo preciso: «mantenere fraudolentemente la titolarità delle indagini del reato di falso ideologico, rimasto a seguito di siffatto anomalo stralcio, nel fascicolo 4291/11/21 per il quale era stata chiesta e ottenuta l'applicazione extra distrettuale». Accuse pesanti che il pm Domijanni ha voluto analizzare in dettaglio e su cui si è espressa con meticolosa precisione. Sulla separazione dei procedimenti non esiste né prassi consolidata né una norma specifica, tuttavia - afferma il sostituto procuratore - «qualora la finalità della Dott.ssa Ronchi fosse stata (come suppone il Dott. Cisterna e come potrebbe in effetti apparire) fosse stata mantenere la titolarità delle indagini a carico dell'odierno denunciante per i reati di falso e truffa» non ci sarebbero elementi sufficienti per provare la volontà di «arrecare un danno ingiusto». Tuttavia qualcosa di strano anche per il sostituto procuratore di Catanzaro c’è. Non a caso, pur chiedendo l’archiviazione del procedimento a carico della Ronchi, si preoccupa di sottolineare che per quanto riguarda l’ipotesi di falso per induzione, relativa all’asserito «stretto collegamento» fra il procedimento contro il clan Lo Giudice, come all’asserita assenza dei requisiti per l’applicazione della Ronchi, «trattasi di fatti che, avendo ad oggetto deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura con sede in Roma, esulano dalla competenza territoriale di questo Ufficio, sicché per essi va disposta la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma ove dette condotte si sarebbero asseritamente consumate». Una proposta che a partire da domani a mezzogiorno toccherà al gup Abigail Mellace vagliare, ma su cui Cisterna sembra voler promettere battaglia.  

Ndrangheta e veleni a Reggio Calabria. Ora spunta anche un poliziotto «costretto» a inventare accuse, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Il procuratore antimafia Roberto Pennisi ha rivelato di aver ricevuto la confessione dell’uomo che indagava su Cisterna: «Mi disse in lacrime che era stato costretto ad accusarlo». Sono deflagrate con la forza di una metaforica bomba le ritrattazioni contenute nel memoriale inviato il 7 giugno dal pentito Nino Lo Giudice al tribunale di Reggio Calabria. Nelle ultime ore, però, sono deflagrate anche altre dichiarazioni, la più importante delle quali è la conferma indiretta delle affermazioni di Lo Giudice da parte di un procuratore nazionale antimafia, Roberto Pennisi. Lo Giudice si era autoaccusato di essere il regista delle bombe che esplosero a Reggio nel 2010, ma in precedenza aveva anche accusato di corruzione l’ex viceprocuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna, poi prosciolto perché non sono stati trovati mai riscontri. L’attuale capo della procura di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, noto per lo scrupolo con cui ha diretto indagini importanti contro la camorra a Napoli, ha costituito un pool di magistrati per investigare sulle ultime dichiarazioni di Lo Giudice. Cafiero De Raho ha aggiunto che occorre cautela perché «la mafia o la ‘ndrangheta si muovono con strategie particolarmente raffinate». A rileggere le dichiarazioni integrali di Lo Giudice, si comprende bene l’urgenza di una verifica. Il “pentito” racconta che nel 2011 «a Reggio c’erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo “scempio” degli amici di una delle due parti». Da un lato della barricata, secondo Lo Giudice, ci sarebbe stata «la cricca» che lo avrebbe spinto a confessare: «Di Landro-Pignatone-Prestipino-Ronchi e il dirigente della mobile Renato Cortese, che si è prestato ai voleri della citata “cricca” degli inquisitori». Oltre al procuratore generale reggino Salvatore Di Landro, si tratta dell’attuale capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone (ex numero 1 alla procura reggina), del procuratore aggiunto reggino Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi (che ha condotto le indagini su Cisterna, basate sulle dichiarazioni di Lo Giudice) e dell’attuale capo della Squadra mobile di Roma (ex numero 1 a Reggio), Cortese. Il gruppo contrapposto sarebbe stato quello cui apparteneva invece Cisterna. Lo Giudice spiega di essere stato indotto a parlare da magistrati e polizia: «Minacciandomi che se non avrei (sic) raccontato quello che a “loro piaceva” mi avrebbero spedito indietro e al 41 bis, mi hanno intimidito le loro parole, dandomi l’ultimatum per il giorno seguente. Ricordo che ho trascorso la notte “intassellando” (sic) il mio mosaico di discorsi convincenti e compiacenti. Certo non è stato facile, ma ci sono riuscito». Lo Giudice spiega che nelle dichiarazioni rese «mi sono voluto vendicare di tutti quelli che mi avevano fatto del male senza risparmiare nessuno, anche quei bastardi dei mie fratelli, così mi sono inventato tutto per farli arrestare». Poi aggiunge: «Ma quali affiliazioni, quale padrino, non esiste nulla, ho letto tutto nei libri che penso siano ancora a casa mia a Reggio. (…) Mi trovai a parlare con un detenuto anche lui collaboratore e siccome era molto preparato in queste cose lo pregai di insegnarmi tutte le regole e formule della ‘ndrangheta, e così mi preparai ad affrontare i dibattimenti con più sicurezza». Cisterna, apprese queste affermazioni, ha dichiarato: «Lo Giudice si consegni nelle mani del procuratore capo Cafiero de Raho, il quale saprà certamente garantire che nessuna delle persone chiamate in causa metta mano alla vicenda del collaboratore di giustizia». Emerge però una seconda importante novità. Lo scorso 1 giugno, nell’ambito di indagini difensive, all’avvocato di Cisterna sono state consegnate informazioni dal procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi, magistrato con 35 anni di carriera nell’antimafia, di cui ben 12, dal 1991 al 2003, proprio a Reggio Calabria. Pennisi, uomo noto per la schiettezza e l’onestà, aveva cercato di raccontare le stesse cose alla procura reggina già sei mesi fa, ma non è mai stato ascoltato. Di quali informazioni si tratta? Il magistrato ha spiegato di aver ricevuto la confessione di Luigi Silipo, ex vicecapo della Mobile di Reggio e oggi capo della Mobile di Torino, che aveva indagato su Cisterna e scritto un’informativa al pm Ronchi nella quale, secondo lo stesso Cisterna, tra diversi altri errori era stata omessa una intercettazione fondamentale, intercettazione che poi, una volta ritrovata, contribuirà a scagionare il magistrato. Pennisi in un memoriale di cinque pagine ha dunque raccontato al legale di Cisterna l’incontro avvenuto con Silipo il 18 maggio 2012, all’aeroporto di Fiumicino, al quale avrebbero assistito il suo autista e l’uomo addetto alla sua scorta. Silipo si è avvicinato a Pennisi per salutarlo e il magistrato ricorda di avergli risposto «di non avere nessun piacere nel vederlo». Dopo i convenevoli, Pennisi ha notato che «il Silipo non mi sembrava in buona forma. In altre parole si presentava afflitto» e ha comunque offerto al poliziotto un passaggio in auto verso il centro città. Durante il percorso, Pennisi ha spiegato a Silipo la propria freddezza: «Gli dicevo allora, con voce tranquilla e scandendo le parole, che avevo sempre insegnato ai miei collaboratori della polizia giudiziaria e anche a lui di essere tenaci ed inflessibili nelle investigazioni, ma anche sempre onesti e corretti come imposto dalla legge a tutti. Aggiunsi che non mi sembrava che nel caso del dottor Cisterna egli si fosse attenuto a questo insegnamento, per quanto io avessi appreso e constatato. Anzi, gli dissi che nel caso del dottor Cisterna egli aveva fatto il contrario di quanto avevo insegnato. A tal punto, ricordo che il dottor Silipo, con le lacrime agli occhi mi disse che era “stato costretto a farlo”. Fu per me tanto chiaro il significato di quell’affermazione che per garbo nei suoi confronti, dato che mi sembrava addolorato non volli andare avanti». Nel memoriale, Pennisi ha ricordato infine ciò che avvenne quel giorno una volta salutato Silipo: «Mi colpì in macchina ciò che i miei accompagnatori (gli uomini della scorta, ndr) ebbero a dirmi che mi fece comprendere quanto Silipo fosse stato esplicito nel suo dire, che essi avevano ben inteso. Manifestarono sentita solidarietà nei confronti di Cisterna».

Il pm antimafia scagionato definitivamente da infamanti accuse, scrive Giorgio Bongiovanni su “Antimafia 2000”. E' di qualche giorno fa la notizia che il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, Barbara Bennato, ha accolto lo scorso 26 novembre la richiesta di archiviazione per l'inchiesta nei confronti dell'ex procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna. La richiesta di archiviazione era stata avanzata nel settembre scorso dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi. Cisterna era indagato per corruzione in atti giudiziari dopo le dichiarazioni fatte dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice, il pentito che si e' autoaccusato di essere l'ideatore degli attentati compiuti nel 2010 ai danni dei magistrati reggini. Il pentito aveva sostenuto di avere saputo dal fratello Luciano che Cisterna si era interessato per la scarcerazione di un altro loro fratello, Maurizio, in cambio di un regalo, lasciando intendere che si trattasse di soldi. Dopo queste affermazioni, Cisterna finì nel registro degli indagati ed il 17 giugno del 2011 fu interrogato, nel suo ufficio alla Dna, dall'allora procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone e dal pm della Dda reggina Beatrice Ronchi. Accuse infamanti per fatti che lo stesso Cisterna ha sempre negato, affermando che i contatti con Lo Giudice erano finalizzati alla cattura dell'allora super latitante Pasquale Condello, conosciuto anche come “Il Supremo”, e che i suoi superiori erano stati informati in merito. A seguito dell'indagine il Csm decise per il trasferimento a Tivoli a cui lo stesso Cisterna si era opposto. Nonostante il proscioglimento, la Cassazione ha però rigettato l'opposizione del magistrato al trasferimento. Ora, dopo l'intervista rilasciata a Servizio Pubblico, lo stesso Cisterna svela nuovi fatti con tanto di documenti che proverebbero come la procura di Reggio e la squadra mobile si sono incaricati di consegnare informative di reato coperte dal segreto al dottor Loris D’Ambrosio al Quirinale. Un fatto grave su cui va fatta al più presto luce.

Quella che segue è la trascrizione dell’intervista di Sandro Ruotolo a Cisterna andata in onda giovedì 6 dicembre a Servizio pubblico: «La vicenda (cioè l’accusa di corruzione, ndr) è stata archiviata da pochissime ore. E' una vicenda che non avrebbe dovuto sorgere perché mancava la notizia di reato. La Procura di Reggio e la squadra mobile si sono incaricati di consegnare informative di reato coperte dal segreto al dottor Loris D'Ambrosio al Quirinale. Quello che so di mio è che ho trovato in atti una lettera di trasmissione da parte del capo della squadra mobile di Reggio Calabria, attuale capo della squadra mobile di Roma, dottor Cortese, di un plico riservato a varie autorità legittimamente investite della questione, ma mandate in copia al Quirinale. Non è un problema di invasione di campo. Si è creato un circuito di informazione improprio a mio avviso, perché se la presidenza della Repubblica ha la necessità di essere informata di questo, lo fa attingendo gli atti al Csm che li aveva ricevuti. Non c'era nessuna ragione di trasmettere questi atti personalmente al Quirinale. La questione la faccio con chi li ha mandati gli atti, non con chi li ha ricevuti che probabilmente ne ha fatto l'uso che ha ritenuto proprio. Quello che sindaco e trovo straordinariamente anomalo è che si mandino atti e si instaurano contatti fuori da un circuito istituzionale, che si divulghino informative unilaterali, perché queste informative contengono reati falsi. Il Csm ha subito detto che della corruzione non c'era traccia. Tuttavia tu (cioè io Cisterna, ndr) hai intrattenuto rapporti con un soggetto che, quando tu hai conosciuto era assolutamente incensurato, ma che sei anni dopo si scopre possa essere un soggetto appartenente alla criminalità organizzata».

Ruotolo chiede quale legame ci sia tra il suo caso e l’attività della Procura nazionale antimafia per la cattura di Bernardo Provenzano.

«Perché io non avevo alcun interesse a conoscere questo soggetto (Luciano Lo Giudice, ndr), né alcuna necessità se non per il fatto che si era detto disponibile a fornire informazioni per la cattura del più importante latitante calabrese del momento, Pasquale Condello. Io individuai nell'ex capo del Ros di Reggio Calabria, passato al Sismi come responsabile della sezione criminalità organizzata, un uomo di riferimento. In quel momento il mio ufficio aveva altri contatti con il Sismi e vi era anche un soggetto presentatosi in Procura nazionale come emissario di Bernardo Provenzano che ne voleva trattare la costituzione presso il nostro ufficio. Se si fosse parlato di questo Lo Giudice per la cattura di Pasquale Condello, io avrei dovuto a tutela del mio onore parlare anche di quello che stava succedendo in quel frangente per altre questioni. Perché non c'era solo Pasquale Condello, ma c'era Bernardo Provenzano, c'erano vicende relative a partite di esplosivo trattate dal Sismi e fatte rinvenire in Calabria, c'erano questioni relative a traffici di sostanze stupefacenti nel porto di Livorno».

Ruotolo osserva che è stato prosciolto ma che la sua carriera è stata spezzata.

«La magistratura è attraversata da lotte intestine molto gravi che ne stanno erodendo, in maniera sostanziale, l'affidabilità e la tenuta. La mia carriera è finita. Io ne ho preso atto. Certo se guardo, per esempio, ad altre carriere e ad altre vicende, in particolare a quella del dottor Pignatone, accusato da Giovanni Falcone, nel suo diario, di essere in qualche modo un soggetto che, per conto di Giammanco, ne osservava le iniziative. Se penso sempre al dottor Pignatone indagato per corruzione dalla Procura di Caltanissetta, non certo perché accusato da Nino detto il "Nano", come nel mio caso, ma da un collaboratore di giustizia come Siino e (Pignatone, ndr) ne è venuto fuori brillantemente e giustamente perché si vede assolutamente innocente, come lo sono io, e lo vedo procuratore di Reggio e poi procuratore di Roma, allora una speranzella, nel fondo del cuore, la conservo».

Cisterna, le notizie top secret girate al Quirinale, tratto da “Il Fatto Quotidiano”. Quell'inchiesta si è risolta nel nulla, archiviata, ma l'ex viceprocuratore nazionale antimafia, Alberto Cisterna, ne paga ancora le conseguenze. La Dda di Reggio Calabria, quando Giuseppe Pignatone era capo della procura reggina, l'aveva accusato di corruzione in atti giudiziari e rapporti con il boss Luciano Lo Giudice. Ha detto Cisterna a Servizio Pubblico: “La vicenda è stata archiviata da pochissime ore e non doveva sorgere perché mancava la notizia di reato. Quello che so di mio è che ho trovato in atti una lettera di trasmissione da parte del capo della squadra mobile di Reggio Calabria, attuale capo della squadra mobile di Roma, dottor Cortese (anche Pignatore è a Roma, capo della procura, ndr)”. La lettera del 27 luglio 2011 è pubblicata qui sotto, firmata da Cortese e si legge: “Facendo seguito alle dirette intese intercorse con codesto servizio e in adesione alla nota […] – emessa, in data odierna, dal dr Giuseppe Pignatone, procuratore di Reggio Calabria – si inviano gli uniti plichi chiusi con la preghiera di voler curarne la successiva trasmissione agli Uffici Istituzionali in calce indicati”. E tra gli uffici indicati c'è quello allora diretto da D'Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano. A che titolo? Chi indagherà su quella violazione del segreto investigativo? Ancora Reggio Calabria, o Roma dove Pignatone e Cortese si sono trasferiti?

Giustizia e veleni, il pm Cisterna assolto dall'accusa di calunnia al capo della Mobile. Per l'ex numero due della Direzione nazionale antimafia, l'accusa aveva chiesto una condanna a due anni, dopo le dichiarazioni con le quali il magistrato attribuiva all'ex capo della squadra mobile di Reggio la redazione di un'informativa non vera riguardante il caso Lo Giudice, scrive “Il Quotidiano della Calabria”. Il magistrato Alberto Cisterna è stato assolto nel processo, che si è svolto con rito abbreviato, dall'accusa di calunnia nei confronti dell’attuale capo della squadra mobile di Torino Luigi Silipo. Il pm Matteo Centini aveva chiesto la condanna a due anni dell'ex numero due della Direzione nazionale antimafia. Cisterna aveva accusato il funzionario della polizia di avere redatto, quando era in servizio alla squadra mobile di Reggio Calabria, un’informativa con contenuti non veri che riguardavano il magistrato e i suoi contatti con esponenti della famiglia Lo Giudice. Nella requisitoria, il pm Centini ha fatto riferimento anche alla testimonianza del sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi chiamato dalla difesa di Alberto Cisterna, nella quale Pennisi riferì di un colloquio con Silipo in cui quest’ultimo avrebbe ammesso di essere stato costretto a scrivere i contenuti dell’informativa che riguardavano il magistrato. Circostanza sempre smentita dal funzionario di polizia. Il pm Centini ha chiesto quindi la trasmissione degli atti in procura per falsa testimonianza che riguardano il magistrato Roberto Pennisi. Silipo e Cisterna sono stati messi a confronto durante il processo ma le due versioni dei fatti non hanno mai coinciso. Il Consiglio Superiore della magistratura aveva bocciato la richiesta di Cisterna di poter guidare la Procura di Ancona.

Il sostituto procuratore di Reggio Calabria, Matteo Centini, ha chiesto la condanna a due  anni di reclusione nei confronti del giudice Alberto Cisterna, imputato di calunnia nei confronti dell'ex vicecapo della Squadra Mobile reggina, Luigi Silipo, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio”. Il pm Centini ha formulato le proprie richieste di condanna al termine di una requisitoria piuttosto articolata, protrattasi per circa tre ore, alla presenza dell'imputato, mai assente nelle concitate tappe dell'udienza preliminare. Una requisitoria in cui il rappresentante dell'accusa ha ripercorso le fasi degli addebiti mossi all'ex viceprocuratore nazionale antimafia, da anni al centro di una complicata vicenda giudiziaria. Il rappresentante dell'accusa ha chiesto anche la trasmissione degli atti in Procura nei confronti del magistrato della DNA, Roberto Pennisi, per il reato di falsa testimonianza. La vicenda che vede Silipo come parte offesa è una propaggine, una diretta conseguenza delle indagini scaturite dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Nino Lo Giudice, da alcuni mesi scomparso e irreperibile. Cisterna risponde di un esposto presentato nei confronti di Silipo, redattore di un'informativa sui presunti contatti tra l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia e Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. Un'informativa, quella realizzata da Silipo, che avrebbe contenuto diversi errori e incongruenze, che porteranno Cisterna all'esposto nei confronti dell'allora funzionario reggino, oggi capo della Squadra Mobile di Torino. Con l'archiviazione delle accuse nei confronti di Silipo (le imperfezioni sarebbero state degli errori materiali nella redazione dell'atto) la Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha scelto di procedere nei confronti di Cisterna per il reato di calunnia. Cisterna deciderà di denunciare Silipo per falso, abuso d'ufficio e calunnia. In quell'informativa, infatti, vi sarebbero stati molti errori materiali, tutti a danno del magistrato. Nella sua denuncia, infatti, Cisterna parlerà di manipolazione dei dati investigativi: dalla durata delle telefonate, alle date, al numero degli sms. Tutti contatti tra Luciano Lo Giudice, la moglie Florinda Giordano e il magistrato: "Tutto si può dire tranne che non si sentissero" ha detto il pm Centini. Contatti vari che – a detta del rappresentante dell'accusa – Cisterna non si sarebbe mai curato di segnalare al procuratore nazionale antimafia. Lo stesso Luciano Lo Giudice, al cospetto dell'autorità giudiziaria di Perugia, affermerà di avere in Cisterna un punto di riferimento in caso di qualsiasi problema. Un rapporto, quello tra Cisterna e Lo Giudice, che sarebbe nato dalla volontà di catturare il boss Pasquale Condello, tramite le soffiate di Luciano. In quel caso sarebbe nato il contatto con il Colonnello dei Servizi Segreti, Michele Ferlito: "Ma è così che si catturano i latitanti?" ha detto il pm Centini. In aula, spesso e volentieri, si fa riferimento a un presunto complotto, una trappola mediatico-giudiziaria in cui sarebbe caduto Cisterna. Anche l'accusa di corruzione in atti giudiziari – a detta di Cisterna e dei suoi difensori – sarebbe stata mossa solo ed esclusivamente per danneggiarlo al cospetto del Consiglio Superiore della Magistratura. Quel Csm, che proprio sulla scorta delle indagini della Dda reggina, deciderà per il trasferimento del magistrato dalla DNA al Tribunale di Tivoli, con il ruolo di giudicante nell'ambito civile. In tanti – tra magistrati e membri delle forze dell'ordine – avrebbero detto a Cisterna di vederlo al centro di una macchinazione. Nell'esame, però, si rifiuterà di fare i nomi di questi soggetti: "Non vengono a testimoniare i magistrati e noi vogliamo che denunci la gente? Sentiamole queste persone!" ha detto in aula il pm Centini. Anche il fantomatico "complotto", sarebbe, secondo il pm Centini, destituito di prove, ma anche di sospetti. Qualcuno però parlerà. Negli ultimi mesi, infatti, la polemica è salita. L'apice dello scontro si è verificato qualche settimana fa, quando al cospetto del Gup Cinzia Barillà, si sono presentati per un acceso confronto in aula lo stesso Silipo e il magistrato della DNA, Roberto Pennisi, da sempre legato a rapporti di amicizia con Cisterna. A vicenda giudiziaria ampiamente inoltrata, Pennisi dichiarerà di aver appreso alcuni mesi fa da Silipo la circostanza secondo cui l'allora vice di Renato Cortese alla Squadra Mobile di Reggio Calabria, sarebbe stato costretto a formulare le accuse contro Cisterna, compendiate nell'informativa incriminata. Una rivelazione che Silipo gli avrebbe fatto, quasi in lacrime, in un incontro occasionale in aeroporto. "Non ho mai subito pressioni né da magistrati, né da altri nello svolgimento delle indagini delegate sulle attività di riscontro alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice" dirà qualche giorno dopo lo stesso Silipo. Poi il confronto in aula, nel corso del quale i due sono rimasti fermi sulle proprie posizioni. Infine, al termine della fase istruttoria, la scelta di Cisterna di essere giudicato con la formula del rito abbreviato. E la richiesta del pm Centini: Cisterna deve essere condannato a due anni per il reato di calunnia, ma anche la richiesta di trasmissione degli atti in Procura per il magistrato Roberto Pennisi, per il reato di falsa testimonianza. Proprio sulla figura di Pennisi si è concentrata l'analisi del pm Centini, che ha toccato anche aspetti etici: "Può un magistrato del calibro di Pennisi, tenersi tutto per sé, nel momento in cui verrebbe a conoscenza di quello che stava subendo un suo collega?" chiede Centini. Il rappresentante dell'accusa tiene anche a sottolineare, più volte, come mai il magistrato abbia optato per una denuncia formale, né, inoltre, sceglierà di informare i suoi superiori lasciando trascorrere diverso tempo prima di informare il collega Cisterna di quanto sarebbe accaduto nel casuale incontro romano con Silipo: "Ma se non posso contare sul cittadino-magistrato, posso chiedere alla gente di denunciare?". Il pm Centini ha così ristabilito un po' di verità rispetto a quanto riportato da alcuni organi di stampa, circa una presunta denuncia di Pennisi "ignorata" dalla Procura. Alla requisitoria del pm Centini, i legali di Cisterna hanno risposto con la richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste. In particolare, l'avvocato Milicia ha sottolineato la "carica di intimidazione" che la richiesta di trasmissione degli atti per Pennisi a suo dire avrebbe. Ma la vera difesa la mette in atto Cisterna, con le sue dichiarazioni spontanee: "Sconcerto e sorpresa" dice in apertura del suo intervento. Sentimenti che il magistrato dice di provare sia per l'interpretazione data ai fatti che lo riguardano, sia per la richiesta nei confronti di Pennisi: "Dovrò dirlo io al collega, la richiesta di trasmissione degli atti mi lascia senza parole, ho fatto bene a non fare i nomi delle persone che mi hanno messo in guardia, se questo è il risultato. Sono finito nella banda del buco, davanti a quale imparzialità, autorità o potere legittimo avrei dovuto fare i nomi?". Se la requisitoria del pm Centini aveva sfiorato dati etico-morali, anche Cisterna non si esime dalla sua analisi: "La richiesta di trasmissione degli atti è un monito a chi subisce le angherie delle Istituzioni, mostra che l'apparato è blindato e guai a chi tocca. Ci sono dei demoni e chi detiene il potere opera in modo opaco e deve difendere chi esegue gli ordini. Oggi è in gioco ben altro: occorre offuscare il desiderio di speranza, di uccidere la verità, ma questa è un'ingiustizia che nessun Dio potrà perdonare". Il magistrato contesterà inoltre il modo con cui sia il pubblico ministero Beatrice Ronchi, sia la Squadra Mobile, condurranno le indagini: "Non sarà mai sentito nessuna tra le persone che indicherò. Anche sulla mia corruzione, non hanno saputo indicare nessun atto, vergogna. La dottoressa Ronchi usa la scusa del collegamento investigativo per avere le carte che mi riguardano". Anche con riferimento al ruolo dell'informazione, Cisterna avrà modo di sottolineare: "Sono finito in una trappola mediatico-giudiziaria, ho appreso del mio rinvio a giudizio dal giornale e anche l'ordinanza del Gip di Roma arriva a due giorni da questa discussione". Il magistrato, infatti, farà riferimento anche alla recente ordinanza con cui risultano indagati il pentito Antonio Di Dieco e il suo avvocato, Claudia Conidi, per un presunto piano destinato a screditare il pentito Nino Lo Giudice: "Speriamo che quelle indagini non le abbia fatte la Squadra Mobile di Roma..." dirà Cisterna, alludendo probabilmente al fatto che il capo della Squadra Mobile della Capitale sia Renato Cortese, da sempre uomo di grande fiducia del procuratore Giuseppe Pignatone. Il processo è stato aggiornato al prossimo 4 ottobre, allorquando potrebbe arrivare la sentenza. Il condizionale è d'obbligo, perché il Gup Cinzia Barillà deve ancora pronunciarsi sulla richiesta del pm Centini di acquisire l'ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere Di Dieco, mentre i difensori di Cisterna hanno insistito sulla volontà di ascoltare gli agenti di scorta del dottore Pennisi, che dovrebbero verosimilmente confermare la versione dei fatti data dal magistrato. In quel caso niente camera di consiglio, ma riapertura dell'istruttoria.

Il processo Cisterna e la “guerra” tra magistrati, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. L’ex procuratore antimafia è accusato dai colleghi di calunnia. Ma troppi elementi non tornano e suscitano domande a cui i giudici ora devono rispondere. Uno scontro ad altissimi livelli all’interno della magistratura: ecco in cosa si è trasformata l’udienza del 30 settembre del processo con rito abbreviato per calunnia al magistrato Alberto Cisterna. Dopo aver superato una prima odissea giudiziaria per false accuse di corruzione, i magistrati hanno rinviato a giudizio l’ex numero due della procura nazionale antimafia per calunnia ai danni di Luigi Silipo, che conducendo le indagini sul suo primo processo non aveva incluso in un’informativa un’intercettazione che l’avrebbe scagionato. Il gup che esamina il caso deve rispondere ad alcune domande. Perché nell’informativa della polizia mancavano elementi in grado di scagionare Cisterna? La vicenda è tornata di attualità lo scorso giugno, quando il pentito che aveva accusato Cisterna, Lo Giudice, prima di sparire nel nulla, ha deciso di inviare un memoriale ai magistrati reggini. Nel documento il pentito ha spiegato di aver subìto le «pressioni di alcuni magistrati della procura antimafia» perché facesse le sue accuse. Cisterna al processo per calunnia ha anche rilasciato dichiarazioni spontanee nelle quali ha chiesto conto delle mancate verifiche da parte dei pm di Reggio sull’inchiesta nei suoi confronti. Cisterna ha concluso evidenziando un interrogativo a cui sarà il Gup del processo a dover rispondere: come mai si sono verificate ben dodici fughe di notizie nel corso dell’inchiesta? In questo modo è stato trasformato il suo processo in una gogna mediatica. Il gup deve dare conto anche di un altro fatto. Il magistrato della procura nazionale antimafia Roberto Pennisi, 35 anni di carriera, ha riferito in un memoriale consegnato ai difensori di Cisterna di aver incontrato privatamente il poliziotto Silipo, che avrebbe confessato con le lacrime agli occhi: «Sono stato costretto a farlo». Resta da capire perché e da chi. Il pm Matteo Centini, nella sua requisitoria, ha parlato della testimonianza di Pennisi, ma non ha dato risposta a nessuno degli interrogativi aperti. «Bisogna fornire elementi per denunciare la manipolazione dolosa o il falso», ha detto. «La carriera di Pennisi non può essere un totem alle sue parole. Dobbiamo guardare alla credibilità di Silipo».

Su questa guerra è esemplare il resoconto di Consolato Minniti (calabriaora.it, 1 settembre 2011). Il Procuratore nazionale antimafia aggiunto, Alberto Cisterna (nella foto), ed il procuratore generale di Ancona, Vincenzo Macrì, ex aggiunto della Direzione nazionale antimafia, hanno presentato una denuncia per diffamazione contro il Procuratore della Repubblica aggiunto di Reggio Calabria, Michele Prestipino. Lo scrive il quotidiano Calabria Ora. Nell'articolo si riferisce che l'iniziativa di Cisterna e Macrì è da mettere in relazione ad alcune affermazioni che sarebbero state fatte da Prestipino nel corso di una cena a Milano il 14 dicembre scorso, presente anche il procuratore Giuseppe Pignatone, nelle quali il Procuratore aggiunto avrebbe parlato di una cricca di magistrati a Reggio, di cui avrebbero fatto parte Cisterna e Macrì, che avrebbero favorito la 'ndrangheta perche' collusi. La denuncia è stata presentata da Cisterna e Macrì alla Procura della Repubblica di Milano. Cisterna è, a sua volta, indagato da alcuni mesi dalla Dda di Reggio per corruzione in atti giudiziari. Nessun commento all'iniziativa di Cisterna e Macrì è stato fatto da parte del procuratore Pignatone né da parte di Prestipino, sentiti dall'ANSA. Intanto il boss della 'ndrangheta Pasquale Condello, che è detenuto, ha querelato, secondo quanto scrive il Quotidiano della Calabria, il pentito Antonio Di Dieco sostenendo che non é vero, così come ha affermato il collaboratore, che sarebbe stato lui a dire al pentito Nino Lo Giudice di fare affermazioni contro alcuni magistrati reggini, tra cui Cisterna, per vendicarsi del suo arresto. (fonte ANSA).

Cisterna denuncia Prestipino. La notizia è semplice e devastante: il numero due dell’antimafia nazionale, Alberto Cisterna, e l’attuale procuratore della Corte d’appello di Ancona, Vincenzo Macrì, hanno querelato il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino. L’accusa? Diffamazione. Nel corso di una cena a Milano, Prestipino avrebbe parlato di una “cricca” di magistrati capeggiati da Macrì e Cisterna che avrebbe favorito il dominio della ’ndrangheta nel territorio calabrese. Se non è guerra aperta poco ci manca. La già abbondante sequenza di eventi che ha coinvolto i magistrati della Procura della Repubblica di Reggio Calabria e quelli della Direzione nazionale antimafia si arricchisce di un altro capitolo. Stavolta, però, nessuna inchiesta, nessuna corruzione. Siamo al livello personale. Che è forse quello più delicato. Probabilmente si tratta di una sorta di punto di snodo di vari eventi che si sarebbero verificati negli ultimi mesi. La notizia è semplice quanto devastante: il procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna e l’attuale procuratore generale presso la Corte d’appello di Ancona, Vincenzo Macrì, hanno querelato (con due atti distinti) il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino (nella foto). L’accusa? Diffamazione. Sì, proprio il reato di diffamazione. Niente paura, stavolta i giornali non c’entrano. Sono fatti privati, certo, ma che potrebbero avere risvolti di non poco conto. Cosa è accaduto? Proviamo a capirlo andando a ripercorrere la vicenda secondo quanto denunciato dal procuratore Cisterna. Cena... diffamatoria? È il 14 dicembre del 2010 ed il procuratore Prestipino si trova nella città di Milano per una missione d’ufficio. Concluso il lavoro, il magistrato partecipa ad una cena assieme ad altri colleghi. Si tratta del procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, del sostituto procuratore della Dna, Carlo Caponcello e del procuratore federale di Lugano, Pier Luigi Pasi. Il punto essenziale sta nelle dichiarazioni che Prestipino avrebbe fatto nel corso dell’incontro con i colleghi. Secondo la ricostruzione prospettata all’interno della querela sporta da Cisterna, infatti, Prestipino avrebbe parlato di una “cricca” di magistrati capeggiati da Vincenzo Macrì e di cui anche Cisterna avrebbe fatto parte. Tali magistrati avrebbero favorito il dominio della ’ndrangheta nel territorio calabrese perché collusi con tali organizzazioni criminali. Parole pesanti, dunque, quelle che l’aggiunto avrebbe (il condizionale è d’obbligo poiché si è ancora alla fase della sola denuncia e non vi sono verità processuali accertate) riferito agli altri colleghi. Ma per aver presentato querela, è chiaro che Alberto Cisterna è venuto a conoscenza di tali parole. Come è accaduto? Casualmente. Nel corso del periodo di ferie natalizie, infatti, il procuratore aggiunto della Dna ha chiesto a due dei presenti alla cena se quelle parole riferite da altri rispondessero a verità. E secondo quanto contenuto nella querela presentata, i due soggetti interpellati hanno confermato tutto. Ovviamente tra gli interpellati non c’è Pignatone, come è facile immaginare per evidenti rapporti personali con Cisterna, ma di Caponcello e Pasi. Ma c’è di più. Sempre secondo quanto riferito dal magistrato all’interno della sua querela, pare che proprio il dottor Caponcello, nel corso della conversazione abbia invitato più volte il procuratore Prestipino alla moderazione e che lo stesso sostituto alla Dna abbia poi esternato le proprie doglianze al procuratore Pignatone, soprattutto in virtù della presenza di un soggetto straniero con il quale Cisterna collaborava frequentemente. Insomma, una situazione estremamente delicata e che ora è pendente dinnanzi ai giudici di Milano. L’esito, ovviamente, non è ancora arrivato, ma un dato pare certo: per capire la veridicità di quanto contenuto nell’atto di querela bisognerà ascoltare le testimonianze di coloro che quella sera a Milano erano presenti e dovrebbero aver sentito con le loro orecchie quelle frasi pesanti che sarebbero state pronunciate. Con tutta probabilità anche il procuratore Pignatone, oltre a Caponcello e Pasi, potrebbe essere sentito per capire la sua versione dei fatti. Uno scontro diretto. Intanto pare che all’interno dell’atto con cui Cisterna ha querelato Prestipino ci sia spazio anche per delle considerazioni molto dure del magistrato nei confronti del collega. Cisterna avrebbe parlato addirittura di parole “raggelanti” e dalla gravità assoluta nei riguardi di un magistrato col quale non ci sarebbe un così profondo rapporto di conoscenza. Una ricostruzione a giudizio del procuratore aggiunto della Dna che vedrebbe fatti penalmente rilevanti. Toccherà adesso ai giudici milanesi capire cosa sia successo la sera del 14 dicembre 2010 nel capoluogo lombardo. Se la prospettazione offerta da Cisterna corrisponda al vero o se, piuttosto, qualcosa di diverso sia accaduto durante la cena tra magistrati. Di certo c’è un dato: ormai è una battaglia senza esclusione di colpi. Fino ad ora erano state le inchieste a farla da padroni. Adesso c’è anche la “carta bollata” l’uno contro l’altro. Con buona pace di chi pensava che le frizioni potessero essere ricomposte magari in breve tempo. Ed invece la possibilità che questa faccenda lasci degli strascichi giudiziari e disciplinari si fa sempre più concreta, in un clima che, giova ricordarlo, non fa per nulla bene ad uno Stato, inteso nel suo complesso di persone e funzioni, impegnato nella lotta alla più potente mafia del mondo.

«Un sistema delle calunnie orchestrato a tavolino». Nuovi scenari nell’indagine che coinvolge Mollace. Secondo gli inquirenti di Perugia che stanno indagando sulla possibile influenza esercitata dall'avvocato Claudia Conidi su alcuni collaboratori di giustizia per sconfessare le dichiarazioni di Nino Lo Giudice, quello che sarebbe stato messo in piedi era un vero e proprio sistema «di calunnie orchestrato a tavolino», scrive il 04/10/2013 Claudio Cordova su “Il Quotidiano della Calabria”. Cosa hanno in comune i collaboratori di giustizia Antonio Di Dieco, Massimo Napoletano e Luigi Rizza? Il fatto di avere reso – nel corso dei mesi – dichiarazioni sul “caso Lo Giudice”, che vede al centro delle investigazioni la famiglia di cui fanno parte, tra gli altri, Luciano Lo Giudice (considerato l’anima imprenditoriale della cosca) e Nino Lo Giudice (collaboratore di giustizia scomparso e latitante dall’inizio del mese di giugno). Hanno poi in comune il fatto di aver reso dichiarazioni volte a screditare le rivelazioni effettuate da Nino Lo Giudice. Hanno inoltre in comune il fatto di essere stati assistiti (proprio negli anni delle dichiarazioni) dall’avvocatessa Claudia Conidi, attualmente indagata per aver indotto i propri clienti a demolire la figura di Lo Giudice, che nel corso della sua collaborazione racconterà molto circa i presunti rapporti istituzionali della famiglia d’appartenenza. C’è tanta carne al fuoco tra le carte d’indagine che alcune settimane fa hanno portato il Gip di Roma, Cinzia Parasporo, a emettere un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del pentito Di Dieco, indagato per le presunte false dichiarazioni nei confronti di Lo Giudice. Dichiarazioni che, secondo le carte d’indagine, l’uomo avrebbe reso perché istigato dall’avvocatessa Conidi, anch’essa indagata ed evidentemente, funzionale a un sistema molto più ampio. Il primo collaboratore a calunniare Nino Lo Giudice sarebbe stato – nell’impostazione accusatoria – Antonio Di Dieco, originario della provincia di Cosenza. A giugno 2011, infatti l’avvocatessa Conidi scriverà alla Procura Generale di Reggio Calabria, ma anche all’allora numero due della Dna, Alberto Cisterna e al sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, Franco Mollace, riferendo di aver appreso dal proprio assistito rivelazioni importantissime relativamente a vicende inerenti i due magistrati, tanto che Di Dieco era disposto a rendere dichiarazioni in proposito. Una nota, quella dell’avvocatessa Conidi, che giungerà poi alla Dda di Reggio Calabria, ma non all’allora procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che non sarebbe stato informato da Cisterna (che inoltrerà gli incartamenti solo alla Procura di Perugia). Di Dieco parlerà di un “complotto nazionale” messo in atto, a partire dal 2002-2003 da Nino Lo Giudice e dalla sua famiglia: “Il “complotto” messo in atto cercherà di delegittimare magistrati della Dna di Roma e della Dda di Reggio Calabria (Cisterna, Pennisi, Macrì, Mollace, Endrigo) magistrati della Procura di Catanzaro, giudici in servizio presso il Tribunale di Catanzaro, avvocati penalisti, politici”. Un complotto, quello che Lo Giudice avrebbe messo in atto, in cui il “Nano” cercherà di coinvolgere lo stesso Di Dieco (secondo il memoriale del pentito di Castrovillari): “Cercò di coinvolgermi in questo complotto richiedendomi notizie e/o tasselli mancanti al suo personale, quanto “calunnioso mosaico”, avendo poco tempo a disposizione poiché, a suo dire, aveva iniziato a collaborare da un paio di giorni e stava già sottoponendosi ad interrogatori con la Dda di Reggio Calabria e con altre autorità giudiziarie”. Un lungo memoriale, quello di Di Dieco, che il pentito confermerà anche in sede di interrogatorio. Siamo nel luglio 2011. Esattamente un anno dopo, nel luglio 2012, un altro collaboratore, il siciliano Luigi Rizza, modificherà le dichiarazioni rese precedentemente (già prima della collaborazione di Nino Lo Giudice parlerà dell’attentato alla Procura Generale di Reggio Calabria) scrivendo al dottore Alberto Cisterna, nel tentativo di avere un colloquio con un magistrato della Dna, al fine di smascherare le “cose inesistenti” dette da Nino Lo Giudice, anche sul conto dello stesso Cisterna. Già a settembre, però, Rizza ritratterà con una lettera inviata all’allora procuratore capo facente funzioni, Ottavio Sferlazza: “Ho bisogno di conferire urgentemente con la Signoria Vostra in merito a competenza vostra sul Dottore Cisterna che sono stato costretto tramite terza persona a difenderlo dalle accuse giustamente rivoltegli dal Lo Giudice”. Quindi Rizza spiegherà ai pm di essere stato indotto dall’avvocatessa Conidi a scrivere una lettera in aiuto di Cisterna, perché – dice Rizza – “una mano lava l’altra”. Un meccanismo, quello delle dichiarazioni “imboccate” che avrebbe coinvolto anche il pentito pugliese Massimo Napoletano, che prima avrebbe calunniato Lo Giudice (c’è agli atti una condanna in tal senso) e poi (una volta rimesso il mandato dell’avvocatessa Conidi) raccontato delle pressioni subite nel corso dei mesi, anche ad opera del pentito Di Dieco. L’avvocatessa Claudia Conidi, sarebbe stata in grado di alterare, nel corso degli anni, l’attendibilità del collaboratore di turno, suggerendogli il contenuto delle dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere all’autorità giudiziaria. Ma a destare particolare preoccupazione nel sostituto procuratore di Roma, Cristiana Macchiusi, che coordinerà le indagini sui “falsi pentiti”, è il dato secondo cui le dichiarazioni sarebbero state “preventivamente concordate con soggetti appartenenti alle Istituzioni e poi riferite al collaboratore in vista di un successivo interrogatorio”. Tutto – secondo gli inquirenti – al fine di screditare il pentito Antonino Lo Giudice, scomparso e latitante da mesi. Agli atti della Procura di Roma, che girerà poi le carte ai colleghi di Perugia, vista l’astensione del procuratore Giuseppe Pignatone (individuato come parte offesa) ci sono diverse intercettazioni telefoniche da cui gli inquirenti traggono il dato (tutto da riscontrare): “Le propalazioni del Di Dieco sono state frutto di una vera e propria negoziazione, alla quale l’aspirante collaboratore ha partecipato solo in parte e con scarso potere contrattuale; quest’ultimo, infatti, totalmente in balia dell’Avv. Conidi, si è dimostrato disposto a rendere qualsiasi dichiarazione pur di ottenere nuovamente i benefici che la legge concede ai collaboratori di giustizia”. A questo punto emerge la figura del vicequestore Fernando Papaleo, che con l’avvocatessa Conidi avrebbe intrattenuto un rapporto particolarmente stretto: “In più occasioni ha fatto da tramite tra la Conidi ed il Dott. Lombardo Sost. Proc. della D.D.A. di Reggio Calabria, ritenuto dalla Conidi, dal Di Dieco e dalla moglie Grimaldi il magistrato su cui puntare per riaccreditare il Di Dieco davanti alle A.G”. Il 13 febbraio 2013, l’avvocatessa Conidi chiama il vicequestore Nando Papaleo, della Dia di Reggio Calabria, chiedendo lumi sul trasferimento nel carcere romano di Rebibbia del pentito Di Dieco: “Mi ha chiamato Di Dieco dalla cosa… dalla video-conferenza… omissis… e gli hanno detto che per un mese dovrà essere trasferito per un interrogatorio disposto dal suo magistrato, l’unico che lo sta sentendo è Lombardo, potresti chiedergli se è veramente lui che lo sta facendo trasferire?” chiede l’avvocatessa. Papaleo chiederà tempo, ma già il giorno dopo chiamerà l’avvocatessa Conidi: “E’ lui, è lui” dice provocando la soddisfazione della professionista: “E’ già tanto che sia lui a proporlo, l’abbia fatto spostare, insomma è già tanto… è già tanto che voglio dire… era a Campobasso in mezzo alle montagne, adesso sta a Rebibbia è già qualcosa, insomma…”. Già dal settembre 2012, il sostituto della Dda reggina avrebbe sentito diverse volte il pentito Di Dieco, per rimpolpare le delicate indagini portate avanti contro le cosche e i sistemi criminali messi in atto dalla ‘ndrangheta in tutta Italia. Ciò che però viene stigmatizzato dal pm Macchiusi è il rapporto tra l’avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo, che nelle carte d’indagine viene definito “del tutto inopportuno, in quanto dalle intercettazioni è risultato in modo chiarissimo che quest’ultimo era l’ufficiale di P.G. incaricato dal dott. Giuseppe Lombardo della gestione proprio del Di Dieco”. Un rapporto di confidenza che, unitamente ai diversi interrogatori effettuati, per fini di giustizia, dal pm Lombardo avrebbe fatto sorgere la convinzione che grazie al magistrato reggino (definito dalla Conidi ripetutamente “un ‘ancora di salvezza”) Di Dieco potesse tornare nel piano di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. Il dato più preoccupante, però, il pm Macchiusi lo esplicita subito dopo: “Si deve a questo punto sottolineare che, da alcune telefonate intercettate, è emerso che l’Avv. Conidi e il V.Q.A. Papaleo hanno concordato il contenuto delle dichiarazioni che il Di Dieco avrebbe dovuto rendere nel corso di successivi interrogatori con il Dr. Lombardo”. Nelle carte predisposte dal pm Macchiusi si scende nel dettaglio: “In tal senso, è opportuno riportare innanzitutto il contenuto di alcune conversazioni dalle quali si è evinto che il Dr. Papaleo — avendo appreso dalla Conidi che il Di Dieco aveva intenzione di riferire circa un piano ideato nel 2001 dagli Abbruzzese (nota cosca della Sibaritide) e finalizzato ad eliminare lo stesso Papaleo, all’epoca in servizio presso la Questura di Cosenza – Squadra Mobile di Cosenza — dopo essersi consultato con il Dr. Lombardo, ha consigliato di non fare cenno a tale episodio in quanto, non avendone il collaboratore mai riferito in passato, avrebbe minato la sua attendibilità”. Sarà l’avvocatessa Conidi ad ammettere candidamente: “Hai visto … mo nel prossimo interrogatorio … gli ho detto di mettermelo nero su bianco … questo .., perché io ho detto che molto probabilmente … dico … inc… [...] no … lui … lo farò … lo mette … io … se vuoi te lo faccio mettere nero su bianco …”.

I due ritorneranno qualche giorno dopo sull’argomento:

C: Claudia Conidi

N: Nando Papaleo

N. ovviamente la cosa -incomp- e Cla’

C. certo

N. gliel’ho accennato a Lombardo senza -incomp- perchè se questo …

C. allora io l’ho sentito oggi..io sono andata a colloquio

N. digli di lasciare perdere Cla’

C. sì sì no lasciamo stare

N. ti spiego ..se lui si deve riaccreditare di credibilità no?

C. no no non lo dice questa cosa

N. -incomp-

C. però è bene che tu lo sapessi

N. sì questo sì

C. lui non mi ha dello di dirtelo ..l’ho voluto dirtelo io perché -incomp-

N. si ho capito …però ti voglio dire ..se mi -incomp- gli vene a mente u mette a verbale rifacciamo un casino

C.no ..ce lu dicimo prima ..si permette- incomp.-

N. -incomp- accennato -incomp-

C. allora io gli ho delto che per coscienza te l’ho detto

N. mh

C. ho detto però ..non cose da mettere a verbale sennò poi si creano precedenti incompatibili

N. no incompatibili

C. lui mi ha detto l’importante è che lo sapesse m’ha detto poi vediamo

N. non di incompatibilità perché se dobbiamo valutare lui …

C. bordelli eh si

N. come la …come la pijano -incomp-la prima vota che u vidi ci racconta u cazz de 12 anni fa

C. certo

Insomma, l’avvocatessa Conidi avrebbe imboccato Di Dieco su diversi argomenti. Anche sulle cosche storiche della ‘ndrangheta, come i De Stefano: “Poi ti mando le note di De Stefano” dirà il legale, “verosimilmente per indottrinarlo su un argomento che avrebbe costituito oggetto di un successivo interrogatorio”. Successivamente, sempre secondo quanto sostenuto dal pm Macchiusi il difensore aveva già dato la “disponibilità” di Di Dieco a rendere dichiarazioni su un certo argomento, rimasto ignoto (Papaleo: “Se riusciamo a combaciare noi abbiamo la possibilità oltre al discorso che sta andando avanti di cui tu hai segnalato la disponibilità”) e nel corso della quale i due interlocutori hanno valutato la possibilità di farlo riferire anche su un’altra vicenda (Papaleo: “io gli vorrei infilare l’altro”; Conidi: “e bene perfetto, perfetto … sarebbe l’ideale … sarebbe l’ideale”). Un discorso rimasto criptico perché – secondo la Procura di Roma – i due avrebbero evitato di scendere nello specifico, ma anzi, avrebbero optato per un linguaggio convenzionale: “Il che la dice lunga sulla liceità dell’oggetto della conversazione” afferma il pm Macchiusi. Le conversazioni tra l’avvocatessa Conidi e la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi testimonierebbero come gli interrogatori effettuati dal pm Lombardo avessero generato aspettative nelle due donne, legate da un rapporto molto stretto, ben oltre quello professionale: “Qua sta succedendo qualcosa, Donate’, secondo me perché si muove qualcuno ma di forte per lui no perché c’è il fatto di Cisterna c’è il fatto di questo Lombardo ecc..”. A fronte dei toni entusiastici, comunque, vi sarà il comportamento del magistrato, che, stando al racconto della Conidi, sarebbe comunque rimasto cauto: “Siccome Lombardo mi ha detto … io lo sposto non appena ho uno straccio di informativa che mi dica che questo è attendibile in relazione a questi fatti, non mi interessa quello che è successo prima … omissis … a me interessa andare avanti su questi fatti … poi deciderà la commissione io faccio la mia strada … e infatti sta facendo la sua strada … capisci?”. Discorso diverso per Papaleo. Secondo le intercettazioni raccolte, il vicequestore si sarebbe impegnato nell’opera di raccolta di riscontri alle dichiarazioni di Di Dieco, nel tentativo di far riottenere all’ex pentito lo status di collaboratore. Un comportamento che spinge il magistrato della Procura di Roma a dedicare parole piuttosto dure al rapporto tra l’avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo parlando di “un apparentemente inspiegabile e vorticoso tentativo (non solo e non tanto) da parte dell’interessato, ma altresì della Conidi e del Dott. Papaleo di riaccreditare un soggetto come Di Dieco Antonio — con un precedente specifico per calunnia ed il programma di protezione da tempo revocato dagli organi competenti, a più riprese dichiarato dalle varie A.G. non solo inattendibile, ma addirittura un calunniatore”. Dall’analisi delle conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso all’avvocatessa Claudia Conidi, al centro delle indagini della Procura di Perugia sui cosiddetti “falsi pentiti” si avrebbe contezza che l’avvocato catanzarese si sia recata a Reggio Calabria il 19 febbraio 2013 e cioè subito dopo avere ricevuto il memoriale di uno dei pentiti, che la donna sarebbe riuscita, per un determinato periodo di tempo, a influenzare, il pugliese Massimo Napoletano. Secondo gli inquirenti, l’avvocatessa Conidi sarebbe una pedina molto importante di quello che viene definito un “pericolosissimo sistema delle “calunnie”, sapientemente organizzate, orchestrate “a tavolino”, i protagonisti della presente vicenda, oltre a minare l’attendibilità del collaboratore Lo Giudice, che a loro dire avrebbe artatamente orientato la propria collaborazione con gli inquirenti per calunniare il Dr. Cisterna, hanno altresì tentato di riscrivere la storia dei rapporti tra la cosca Lo Giudice e il magistrato Cisterna, cui in un modo o nell’ altro tutti i collaboratori entrati nella presente indagine hanno fatto esplicito riferimento”. Nel febbraio 2013 a Reggio Calabria, l’avvocatessa avrebbe portato con sé una non meglio individuata “lettera” da mostrare al sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, Franco Mollace. Tale incontro verrà corredato da telefonate ed sms, sia con Mollace, sia con l’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna. La mattina del 19 febbraio viene registrata una conversazione telefonica tra Mollace e l’avvocatessa Conidi, nella quale il legale – nell’occasione presente proprio presso la vicina Corte d’Appello di Reggio Calabria – riferisce al magistrato sull’opportunità di incontrarsi dovendogli mostrare una “lettera per un suo collega” al fine di ottenere un suo parere. Secondo gli inquirenti, la “lettera” sarebbe lo scritto con le rivelazioni di Napoletano, inviata al magistrato Cisterna. Poi le chiamate senza risposta allo stesso, gli sms riferibili alla “lettera” e una chiamata non risposta al magistrato reggino Giuseppe Lombardo, cui poi la Conidi invierà un sms di saluto. Una visita, quella reggina, che l’avvocatessa (C) sintetizzerà al telefono con la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi (D):

C: Donatè…

D: Cla…io penso sempre che stai lavorando…a quest’ora…per questo ho…fatto un messaggio…

C: …no..io sono tornata da Reggio.. e niente …da poco…ho visto il Dottore Mollace stamattina …te l’ho detto mi era arrivata quella lettera per Cisterna …e poi gliela porterò a Roma… perchè forse è importante …poi rileggendola …in tutta la sua interezza ..ci sono dei passi che ci possono interessare anche a noi …

D: ..certo ..certo …

C: …comunque poi lui era in udienza a Roma …il Cisterna …e mi ha detto poi che ci saremmo visti …a Roma quando salgo..

D: ..inc…per che cosa…per una … un appello …di Facchinetti …e altre cose…poi avevo mandato un messaggio al Dottore Lombardo il quale non mi ha risposto e correttissimamente mi ha mandato un messaggio di scuse dicendomi mi dispiace ma sono fuori sede…

D:….ho capito …

IL CAPITANO ULTIMO AVVERTE: STATE ATTENTI DA UNA CERTA ANTIMAFIA.

Preliminarmente si evidenzia che da nessun pulpito si conquista la nobiltà. I veri eroi sono le vittime dell’ingiustizia che hanno il coraggio di ribellarsi e raccontare. Alcuni affezionati lettori trovano forse troppo vibranti alcune pagine di questa sezione, scrive Francesco Sidoti. Se non traggono un diretto e personale beneficio dall'ingiustizia, sono esseri umani assai fortunati, che non sanno dove stanno al mondo o non hanno di che lamentarsi. Costituiscono una minoranza. Altra minoranza, caso eccezionale, ma simbolo delle sofferenze di una maggioranza, è Daniele Barillà, scarcerato dopo ben sette anni e cinque mesi di carcere e dopo essere stato condannato in primo grado, appello, cassazione. Era stato condannato per un grossolano e tracotante scambio di persona. Si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato. Guidava una macchina con i numeri di targa QUASI uguali a quelli di un mammasantissima della droga. Condannato a 18 anni. Il suo caso è stato riaperto per una serie di circostanze fortunate (soprattutto, è stato scagionato da cinque pentiti), altrimenti starebbe ancora a marcire in galera. Il giorno in cui è venuta fuori la notizia, La Repubblica parlò sussiegosamente di "uno spaventoso equivoco costato sette anni di carcere al protagonista e quattro processi allo Stato". Il Corriere della Sera concluse il suo servizio raccontando che Daniele Barillà avrebbe dichiarato: "Il mondo per me è finito quando sono entrato in carcere. Ho perso il lavoro, ho perso gli amici… non ho mai perso la fiducia nella giustizia". Non è vero che ormai tutto è perduto: probabilmente qualche pernacchia è rimbombata nei piani alti di via Solferino. Reintervistato il giorno dopo, dal Corriere della Sera (19 luglio 2000, p. 17) che titolava il servizio con lo stesso titolo qui riprodotto, Daniele Barillà ha potuto esprimere più compiutamente il suo pensiero, dichiarando fra l'altro: "Me ne vado all'estero. Non so dove, però lontano. Fuori dall'Italia….Io sono innocente, sono innocente, sono innocente. L'ho detto tutti i giorni, ogni ora, in quattro carceri e quattro processi…Denuncio i carabinieri che hanno fatto l'indagine e mi hanno buttato in galera. Denuncio anche il capitano Ultimo. Sì, lui, quello che ha trovato Totò Riina. Era stato fra i miei accusatori, pensava che io fossi colpevole. … Mi hanno arrestato il 13 febbraio 1992. Sono in macchina, mi bloccano i carabinieri. Calci, schiaffi, pugni. Mi portano a Milano, in caserma, mi mettono un giaccone sulla testa. A San Vittore il mio vicino è Mario Chiesa: a lui arrivano le pizze in cella. A me niente… Faccio lo sciopero della fame, mi rivolgo a Borrelli. Che intercede per me, scrive ai giudici toscani: lettera cestinata. Capita nel pieno della guerra tra Procure di Milano e Firenze… Nel 1997 muore mio padre: mi danno il permesso per i funerali, però mi fanno arrivare tardi. E mi portano solo al cimitero, per tre minuti: in catene... Me ne andrò all'estero, comincerò da capo. Lo psicologo in carcere scrisse che ero pericoloso perché non ravveduto. E di che dovevo ravvedermi?". Ripeto: Daniele Barillà non è un caso isolato. E' un simbolo. Gli ultimi dati che ricordo a memoria si riferiscono al 1997: in quell'anno furono presentate quasi 1000 richieste di indennizzo per ingiusta detenzione. Richieste di indennizzo relative ad errori documentati e riconosciuti come tali. Se consideriamo che soltanto in alcuni casi si raggiunge la certezza definitiva in merito ad un errore, mentre sicuramente ci sono molte altri casi in cui l'errore c'è, ma non può essere documentato, e sicuramente ci sono anche moltissimi altri casi di errori riconosciuti a persone che rinunciano a richiedere un risarcimento per la paura totale e infinita di riavere a che fare con avvocati e cancellieri, possiamo dire che con certezza ogni giorno diverse persone sono vittime di errori sanguinari della giustizia, nel campo penale, nel campo civile, e soprattutto in quello amministrativo, che meriterebbe un discorso più ampio e più dettagliato. Perché chi è minimamente e onestamente al corrente di come funziona la giustizia in Italia, sa bene che le cose vanno peggio che nell'America di Rocco Barnabei.

Parla l’Uomo Sbagliato. Ho fiducia nella giustizia”, dice il protagonista del clamoroso errore cui la fiction s’ispira a Ludovica Mariani su “Cine Spettacolo”.

Daniele Barillà è un uomo mite, lo sguardo sereno, il sorriso aperto quasi fanciullesco, disarmante. “Ho fiducia nella giustizia” dice, e la cosa sorprendente è che si è costretti a credergli. Nonostante tutto, nonostante quest’uomo oggi quarantaduenne sia stato il protagonista di un clamoroso caso di errore giudiziario per il quale ha scontato sette anni di carcere e affrontato tre gradi di giudizio prima che venisse riconosciuta la sua innocenza. Nel 1993 una Fiat Tipo color amaranto viaggia per le strade del milanese, alla guida il giovane imprenditore Daniele Barillà. D’improvviso l’auto è circondata dai carabinieri del Ros: Barillà è trascinato fuori dalla sua macchina e arrestato con l’accusa di traffico di droga. Comincia così l’odissea giudiziaria che il regista Stefano Reali ha raccontato in L’Uomo Sbagliato (vedi locandina) fiction di Raiuno in onda questa sera e domani in prima serata. Nei panni dell’imprenditore (con il nome di Daniele Baroni) è Beppe Fiorello nuovamente alle prese con un personaggio scomodo, al centro di una vicenda che suscita rabbia e indignazione. Tanto più visto che in questo caso i “cattivi” sono proprio quelle forze dell’ordine e quella giustizia che per sua stessa definizione dovrebbe difendere gli innocenti e punire i colpevoli. “Ma non abbiamo voluto fare un documentario – precisa il regista – solo una fiction, anche se basata su fatti reali. Ci siamo presi anche molte libertà, soprattutto nella vita privata del protagonista e riscrivendo il ruolo di alcune figure simbolo, più funzionali alla storia”. Figure come quella del Maggiore Quinto (Alberto Molinari) che impersona tutti quelli che per errore, imperizia, leggerezza o per nascondere irregolarità procedurali, testimoniarono nei vari processi sulla colpevolezza di Barillà. Di fantasia anche il PM Erika Schneider (Antonia Liskova) che prima sostiene l’accusa contro Baroni e poi si batte per la revisione del processo. In realtà ad interessarsi del caso dell’imprenditore milanese fu un giornalista, Stefano Zullo che nel 1995 rilesse il caso Barillà, “ne parlai con il procuratore Borrelli – dice – e anche lui si disse convinto dell’innocenza di quest’uomo. Con una lettera alla procura di Livorno manifestò i suoi dubbi ma non venne ascoltato”. La situazione si sblocca nel ’97 quando il capo dell’operazione che aveva portato all’arresto di Barillà, il colonnello Michele Riccio, venne arrestato per gravi irregolarità commesse durante varie indagini. Furono così riaperti molti casi e anche quello di Barillà venne revisionato da Francesca Nanni una giovane PM della Procura di Genova. “Posso dire che molti di quella “mitica squadra” (di cui faceva parte anche il capitano Ultimo) che mi accusarono ingiustamente oggi sono in prigione – dice Barillà – mentre io sono qui, libero finalmente. Per questo credo ancora nella giustizia e nella sua capacità di correggere anche i propri errori”. Ma non è tutta rose e fiori la vita di Barillà: “Anche oggi ogni volta che una pattuglia mi ferma vengo perquisito e mi smontano la macchina, per loro sono ancora qualcuno che è stato dentro per droga”. Per non parlare degli enormi problemi economici che anni di carcere e il lunghissimo iter giudiziario hanno causato. La Corte d’Appello di Genova ha infatti condannato lo Stato ad un mega risarcimento (4 milioni di euro) per gli anni che Barillà ha ingiustamente passato in prigione, ma i soldi tardano ad arrivare. Barillà, nei lunghi anni passati in prigione è venuto a conoscenza di altri casi simili al suo? “Tanti, e potrei fare anche i nomi ma sarebbe una mancanza di rispetto. Il vero male è questo maledetto patteggiamento. Molti, anche se innocenti, accettano pur di tornare alle loro case e poter riabbracciare i propri cari. Io potevo uscire dopo 6 mesi ma non ho patteggiato perché ero sicuro di poter dimostrare la mia innocenza. Spero con questo film di poter aiutare quelli che hanno subito la mia stessa ingiustizia”. La "mitica squadra"….."Già! Di loro faceva parte anche il capitano Ultimo. Seguì la macchina sbagliata, al processo fu uno dei miei accusatori e la sua testimonianza risultò determinante. Quando ho incontrato Stefano Reali gli ho detto che il suo film su Ultimo ha probabilmente allungato la mia detenzione: chi poteva credere che un tale eroe avesse commesso un così grave errore?” Sette anni di carcere, 24 prigioni diverse. Come si può sopravvivere a tanto sapendosi innocente? “Fiducia nella giustizia e nella forza della verità. Come ha detto Zullo, l’innocenza lascia tracce proprio come la colpevolezza! Ma è stata una prova dura, un carcere ha le sue regole che bisogna imparare. Gli stupratori e chi violenta o uccide i bambini, beh quelli non hanno vita facile. Io ho trovato solidarietà e sostegno morale anche se ero un rompiscatole”. Cioè? “Giravo con in mano i verbali dei miei processi e dicevo a tutti che ero innocente. Qui siamo tutti innocenti – mi rispondevano – mica solo tu. Ho capito che ognuno ha i suoi guai. Lì dentro non contano le istituzioni ma l’umanità, e i detenuti sono uomini. Quando mi hanno scarcerato, dopo venti giorni avrei voluto tornare dentro, ormai era quella la mia casa”. Si sa di tante violenze all’interno dei carceri...“Ho visto dei pestaggi, quanto all’omosessualità non posso dire di essermene accorto. Fortunatamente io non ho subito queste violenze”. La fiction: prodotta da Alessandro Jacchia e Maurizio Momi, L’Uomo Sbagliato ha tra i suoi altri interpreti Andrea Tidona (Antonio Baroni), Luigi Petrucci (Maresciallo Emiliani), Pietro Genuardi (Marcello), e la partecipazione di Emilio Bonucci, Gaetano Amato, Lucia Sardo e Franco Trevisi.

Il capitano Ultimo: state in guardia da una certa antimafia. Sergio De Caprio, il mitico ufficiale dei carabinieri che 20 anni fa arrestò̀ Totò Riina, è certo: la tesi che lo Stato abbia trattato con Cosa nostra «è una pagliacciata», così dice in una intervista rilasciata a Giorgio Mulè su “Panorama”. Intervistare Sergio De Caprio non è facile per me. Ero un ragazzino quando ci conoscemmo, anzi quando io lo conobbi, perché lui neanche sapeva chi fossi. Era il 1987, eravamo a Bagheria in provincia di Palermo. Io, diciannovenne, ero un «biondino», cioè̀ un cronista in erba al Giornale di Sicilia. Sergio De Caprio aveva due stellette sulle spalline della divisa, che già̀ all’epoca indossava assai di rado. Era un tenente e comandava la compagnia del paese, un avamposto di Cosa nostra. I carabinieri, i «suoi» carabinieri, avevano catturato un latitante e io andai a Bagheria per sentire le notizie dell’arresto. Seppi solo più̀ avanti che De Caprio era arrivato al latitante stando ossessivamente alle calcagna di un sorvegliato speciale: per la Festa della mamma, il compare del mafioso aveva acquistato più̀ cannoli di ricotta del solito. Non so perché, ma da questo particolare il tenente intuì che si sarebbe incontrato con il latitante. Aveva ragione. Ci ritrovammo 6 anni dopo, a Palermo, la mattina del 15 gennaio 1993 alla caserma Bonsignore. L’uomo che avevo davanti non si chiamava più̀ Sergio De Caprio. Era il capitano Ultimo, l’ufficiale dei carabinieri che quella mattina aveva arrestato Totò Riina. Era già̀ all’epoca una leggenda per i suoi uomini e per l’Arma, lo divenne anche per gli italiani grazie pure alle fiction con Raoul Bova nei suoi panni. Ma a Palermo, in quella procura capace d’infangare gli eroi, alcuni pubblici ministeri lo trattarono di lì a poco come un amico dei mafiosi. E così hanno fatto (e continuano a fare) con alcuni suoi colleghi e perfino con il suo capo e maestro, l’ex colonnello Mario Mori, tornato di prepotenza al centro delle cronache il 15 ottobre scorso a causa delle motivazioni della sentenza con cui in luglio era stato assolto a Palermo dall’accusa di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. In quelle motivazioni i giudici demoliscono i pregiudizi della procura, scrivono che Mori è del tutto innocente, ma anche che l’ipotesi della trattativa fra Stato e Cosa nostra non sta in piedi. Siamo diventati amici io e Ultimo. Oggi lui è colonnello, io dirigo un settimanale. Ci incontriamo nella riserva che ha creato a Roma, un’oasi di altruismo e beneficenza. Per tutta la durata dell’intervista tiene un’enorme aquila reale sul braccio, l’ultima arrivata. Sono passati vent’anni dall’arresto di Riina, oggi Ultimo ha 52 anni.

Vent’anni dopo, la lotta alla mafia, e quindi l’azione dell’antimafia, ha fatto passi avanti? O sono state perse delle occasioni?

«Ti ricordi Bagheria? Quando ho iniziato io, combattere Cosa nostra era una cosa bella ed entusiasmante. Era una lotta fatta da gente semplice che si voleva bene, che amava la giustizia. Gente lontana dal potere, dallo spettacolo, dalle invidie... C’era un clima sano e per questo si lavorava bene».

Stai parlando della Sicilia degli anni Ottanta.

«Io vado in trincea, cioè sulla strada, nel 1987. Il clima di cui parlavo era quello costruito soprattutto da Giovanni Falcone. Era lui che in solitudine e tra mille ostacoli portava avanti questa bella battaglia di civiltà̀, di amicizia, di dignità̀, di giustizia. Poi le cose sono andate male, perché hanno iniziato a odiare lui».

L’antimafia dei veleni.

«Lo odiavano tanti suoi colleghi e lo hanno distrutto come uomo e come magistrato. Lo hanno sovraesposto. Lo hanno indicato come bersaglio alla mafia. E Totò Riina ha saputo colpire. In questo senso, si possono considerare i mandanti morali della strage di Capaci».

Accusa indimostrabile.

«Non lo dico io, lo dicono i fatti. È la storia».

Ma Falcone era un bersaglio e un nemico giurato di Cosa nostra...

«Certo, ma quelle persone l’hanno obbligato ad andare via da Palermo, lo hanno delegittimato, lo hanno lasciato solo e Riina ha colpito. Da quel momento in poi il clima è diventato diverso».

Che cosa è cambiato?

«È saltato tutto, l’antimafia non è stata più̀ una lotta di popolo ma di fazioni, è stata e viene ancora oggi usata per costruire carriere politiche, per assumere potere all’interno delle diverse strutture che si occupano di mafia».

Descrivi l’antimafia come un treno sul quale saltare per interessi personali?

«L’antimafia è diventata spettacolo, un gran bel business per alcuni. Ci sono giornalisti che hanno fatto carriera all’interno del proprio giornale, gente che ci ha fatto proprio i soldi, altri ci fanno perfino teatro: una vergogna, mangiano sulla memoria di chi è morto».

Proviamo a fare degli esempi. Accennavi al teatro e non è un mistero che Marco Travaglio da tempo fa uno spettacolo, si chiama «È stato la mafia». In questo modo pensi che venga calpestata la memoria di Falcone, spettacolarizzando le vicende avvenute dopo la sua morte?

«È antipatico parlare di Travaglio e non citare tantissimi altri. Io parlo di fatti e non di persone. Mi riferisco a quelli che invece di fare lotta alla mafia fanno business, spettacolo, politica. Sono come capi delle tifoserie, mentre invece dovrebbe esserci un fronte unico che si chiama Stato. Secondo me ci sono persone che hanno rotto questo fronte per interessi personali e questo è un reato morale gravissimo. Pensa alla felicità̀ di Riina a sentire chi delegittima lo Stato, chi insinua il dubbio fino a sporcare i massimi livelli istituzionali, fino alla presidenza della Repubblica. Te la faccio io una domanda: questo è o non è oggettivamente un favore alla mafia?»

Certamente sì, soprattutto per l’uso distorto che è stato fatto di notizie come quelle che riguardavano la presidenza della Repubblica.

«Questa non è antimafia, è qualcos’altro. Non è necessario fare nomi».

Direi che è superfluo, basta guardarsi intorno.

«Appunto. I giovani vedono tutti questi soloni che parlano, che scrivono che la mafia è tutto e dovunque, e sono confusi. Ecco, questi cattivi maestri devono stare lontani dalla lotta alla mafia, non devono dividere il fronte antimafia come hanno fatto e continuano a fare. Ai ragazzi dobbiamo dire: «Attenti a questi cattivi maestri», tutto qua. La lotta alla mafia deve essere una materia che unisce, non che divide».

Che cosa dice oggi Sergio De Caprio di Ultimo? Come lo vede dopo tutti questi anni e dopo tutto quello che gli è successo?

«Ultimo mi sembra sempre un bravo ragazzo che cammina sul filo senza rete sotto come fanno i funamboli. Ha ancora voglia di parlare di libertà̀, di dignità̀, di umiltà̀, di povertà̀... Non vuole diventare né generale né conduttore televisivo, né capo di un partito: non vuole essere niente, vuole sparire e lasciare il suo posto a ragazzi semplici che ragionino con la loro testa, che non si facciano plagiare dai cattivi maestri, che non diventino schiavi dell’ambizione e della superbia, che abbiano la voglia di ribellarsi ai pagliacci e alle regole quando diventano oppressione della povera gente. Direi che Ultimo mi sta ancora simpatico».

Proviamo a semplificare: Ultimo è stato un folle o ha solo svolto correttamente il suo lavoro?

«Ultimo è stato un ribelle, pur non volendo essere un ribelle. È stato un ribelle contro se stesso prima di tutto e poi contro l’ipocrisia e contro l’ingiustizia. Lo conosci: è una persona che parla con te come parla con i poveri. Non vuole dimostrare niente, tranne il fatto che esiste una cultura militare colma di valori che vanno al di là del contratto e delle logiche del lavoro. Sono valori che consentono a noi soldati di dividere le cose che abbiamo in parti uguali, che ci danno il coraggio di affrontare il pericolo e la morte con gioia, sentendoci una cosa sola col popolo di cui siamo figli».

Il capo di Ultimo, l’ex colonnello Mario Mori, è stato ed è ancora accusato di essere un complice della mafia. Che effetto ti fa, ancora oggi dopo vent’anni, vedere Mori additato come un traditore dello Stato?

«Se non ci fosse da piangere, direi che mi viene da ridere. È uno di quei fatti che distorcono la realtà̀ e su cui molte persone hanno impostato le proprie carriere. Dobbiamo dare solidarietà̀ al mio comandante e semplicemente ricordarci che, per noi soldati straccioni, rimane un esempio di coraggio e di semplicità̀, un esempio raro e prezioso di capacità̀ tecniche nella lotta alla mafia. Dobbiamo contrapporre a tante menzogne la verità̀. Bisogna spiegare alla gente che la lotta alla mafia non la fanno Giovanni Brusca e i collaboratori di giustizia, e neppure i figli dei mafiosi. La lotta alla mafia la fanno le persone oneste, i carabinieri, i poliziotti che ogni giorno stanno sulla strada e che collaborano con dei bravi magistrati. Niente a che vedere con le star delle televisioni e con gli adulatori delle folle, ma autentici servitori dello Stato».

I giudici nelle pagine di motivazione della sentenza che ha assolto Mori hanno sbriciolato l’impianto accusatorio della Procura di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia...

«Ho già̀ detto che questa della trattativa è una pagliacciata».

La Corte d’assise di Palermo sentirà̀ il capo dello Stato come teste sui colloqui tra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio, morto d’infarto nel 2012, dopo una campagna denigratoria e infamante. Il pm Antonio Di Matteo ha ribadito in aula: «Se lo Stato vuole essere credibile, deve saper processare se stesso». Lo Stato sta processando se stesso o si mina la sua credibilità̀?

«Io e i miei carabinieri saremo sempre a fianco del presidente della Repubblica. Onore e massimo rispetto per il dottor D’Ambrosio, per la sua storia e per quello che ha fatto a favore della giustizia e del popolo italiano».

Tornando a Mori: è un perseguitato della giustizia?

«La giustizia la fanno le persone. E mi sembra che parecchie persone da diversi anni facciano carriera agitando il suo nome e usando la loro funzione pubblica per fare politica, scrivere libri, partecipare a convegni, organizzare spettacoli: tutto ciò è gravissimo e non è persecuzione, ma eversione».

In che senso?

«Nel senso di distorsione della funzione pubblica e della verità̀. È giusto e doveroso ricercare la verità̀ e le prove, diverso è screditare le istituzioni e le persone».

Quando finirà̀ questa persecuzione?

«Non finirà̀ mai, perché purtroppo molti su queste trame hanno costruito la loro fortuna e i propri patrimoni economici. Poi cosa si rischia ad attaccare un carabiniere? Niente! Questa potrebbe essere una tecnica della mafia, un modo nuovo di infiltrarsi nelle istituzioni per distruggere la verità̀. Una cosa squallida».

Ma davvero un gruppo di poche persone, perché alla fine parliamo di poche persone, sono state in grado di condizionare così pesantemente un Paese al punto di far crocifiggere i suoi eroi?

«Venti persone hanno creato il mito delle Brigate rosse e hanno messo in ginocchio l’Italia. Riina con pochi mafiosi ignoranti ha messo in ginocchio il Paese. Non c’è da meravigliarsi. Il problema è che quattro o cinque persone abili e scaltre, andando continuamente in televisione, scrivendo sui giornali, sfornando libri, hanno trasformato insinuazioni e dubbi in false verità̀. E su queste hanno costruito un grande business. Dobbiamo ribellarci a queste manipolazioni delle menti e delle coscienze. Le persone devono aprire gli occhi».

Dopo la cattura di Riina e le disavventure giudiziarie sei passato a occuparti di reati ambientali, che costituiscono uno dei business più redditizi della mafia. Se il fronte antimafia non si fosse frantumato, e se ci fosse stata maggiore unità̀, si sarebbero potuti avere risultati diversi anche nella caccia ai grandi latitanti?

«Ti dico semplicemente che io ho imparato a parlare di quello che faccio. Io svolgo un’azione che mi è stata insegnata da grandissimi maestri. Ricordo ancora il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che rimane un esempio di vita e di tecnica, il generale Mori, il giudice Falcone; ma ho imparato molto anche da magistrati come Ilda Boccassini e tanti altri di cui non faccio il nome ma che porto sempre nel cuore. Queste persone rappresentano un patrimonio dello Stato e del popolo italiano e devono essere messe in condizioni di portare avanti in maniera omogenea, seria e serena la lotta antimafia e non di lottare per la sopravvivenza».

Eppure tu da una parte di chi rappresenta questo Stato sei ritenuto non una risorsa ma un ostacolo. Che senso ha?

«Non mi interessa, perché non dipende da me. Io sono a disposizione del mio Paese. Io amo la Sicilia, amo il popolo siciliano, amo la lotta alla mafia e odio la mafia in tutte le sue forme».

Se fossi stato all’estero, magari se fossi stato in America, come sarebbe andata la tua storia?

«Credo che in America sarei finito in una riserva indiana accanto ai miei fratelli apache. E comunque preferisco l’Italia all’America».

Torniamo allora da noi: come vivono questa situazione i «tuoi» carabinieri?

«Noi nel nostro cuore apparteniamo all’Esercito italiano perché siamo soldati. Vogliamo andare fuori dalle logiche del lavoro, noi non siamo lavoratori, siamo combattenti e vogliamo avere il privilegio di amare e servire il nostro popolo senza limiti, per questo promuoviamo il volontariato militare sulla strada, accanto ai poveri».

Che cosa vuol dire concretamente «volontariato militare»?

«Fare i volontari a favore della gente povera. Servire a tavola insieme ai detenuti, tenere per mano i non vedenti e i nostri fratelli diversamente abili. Vogliamo sognare un mondo migliore e lo facciamo stando sulla strada».

Ma il colonnello De Caprio ha mai detto a Ultimo: «Vabbè, basta, ritiriamoci con le aquile perché non ne vale più la pena»?

«Ultimo ha sempre vissuto con le aquile, con gli animali, con i poveri, con gli ultimi. Quindi sta bene dove sta. È Ultimo che guarda il colonnello e gli dice: «Vieni con me»».

E Ultimo ora che fa?

«Insieme ai volontari porta avanti una casa famiglia con otto minori, che ospita sei detenuti minorenni che lavorano ogni giorno insieme a persone disagiate e con loro ha ritrovato i valori della stazione dei carabinieri».

Sembri un chierico di Papa Francesco, non un carabiniere.

«Io sono un carabiniere. Padre Francesco è un’altra cosa».

Papa Francesco, non padre Francesco.

«Per come lo vedo io, il suo nome è padre Francesco e sono certo che gli piacerebbe essere chiamato così. E siccome l’ho chiamato padre, ogni altra parola su di lui sarebbe sprecata e fuori luogo».

Passiamo all’autocritica. Guardati indietro. Puoi dire: «Guarda, forse ho sbagliato, ho sbagliato in quel momento, quello che ho fatto forse si prestava a essere giudicato come un errore»?

«I miei errori li devono giudicare gli altri, perché ovviamente quando tu fai una cosa la fai perché credi sia giusta».

Era legittimo processarti per il covo di Riina?

«La questione non è se fosse legittimo o meno. Io questo non lo so. Quello che posso dire è che, poiché sono stato assolto, evidentemente le ipotesi dei pubblici ministeri erano sbagliate. Certamente io ho sofferto molto per questo e, altrettanto certamente, di questo spettacolo pietoso si sono divertiti Riina, Provenzano e i loro amici. È la realtà».

Dal tuo punto di vista è stato regalato tempo prezioso a Cosa nostra creando questo processo contro Ultimo e contro il prefetto Mori per il covo di Riina?

«Letta la sentenza di assoluzione, il tempo perso per il processo ha favorito l’associazione Cosa nostra».

Dopo oltre vent’anni non sappiamo ancora la verità̀ sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Tu ci credi all’entità esterna che ha compartecipato alle stragi?

«Io credo che dietro Riina ci sia stato Riina, e parlo di quello che risulta a me che ho lavorato sempre sulla strada. Ritengo che minimizzare il ruolo di Cosa nostra nelle stragi sia un’azione criminale e sia di interesse strategico da parte di Riina e dei corleonesi. Credo che delegittimare lo Stato e i suoi servitori sia un’azione ugualmente criminale e sia sempre un interesse strategico di Riina e dei corleonesi. Se dietro Riina c’è qualcuno, ovviamente dev’essere individuato e condannato. Però posso dirti che dietro di me e i miei carabinieri, quando lo abbiamo arrestato, c’era solo la purezza dei sentimenti di giovani carabinieri. C’era solo il profumo dolce e amaro della terra di Sicilia. C’era solo la rabbia di un popolo che ha cercato e trovato giustizia».

MAI DIRE ANTIMAFIA.

Quella lettera tenuta segreta. In una lettera del 2003 finora segreta l'atto d'accusa del pm Chelazzi. Sul tg5 del 18 ottobre 2012 si parla di Gabriele Chelazzi e della sua emarginazione. Dieci anni prima il PM di Firenze Gabriele Chelazzi aveva scoperto tutto su sui cedimenti e ricatti della mafia ai tempi del governo di centro sinistra guidato da Ciampi e delle bombe di Cosa nostra del 1992/1993, le mosse del ministro Conso, le manovre del Presidente Scalfaro.

Poche ore prima di morire stroncato da un infarto a 59 anni nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2003 Chelazzi scrisse una lettera finora tenuta nascosta. Un atto di accusa gravissimo. «Da oltre 2 anni - denuncia Chelazzi - mi trovo a lavorare da solo su una vicenda che ha a che fare con “qualcosa”come sette fatti di strage compiuti dalla più pericolosa organizzazione criminale europea.»

Giornalista: «com’è spuntata fuori questa lettera?»

On. Amedeo Laboccetta, membro PDL Commissione Antimafia: «Mah, nelle scorse settimane ho scritto una lettera al Procuratore capo di Firenze Quattrocchi, che mi ha informato che questo documento esisteva, ma che era agli atti già della Commissione antimafia, questa lettera esiste ma è segreta. Nella lettera indirizzata all’allora Procuratore capo di Firenze Iannucci il Pm accusa i magistrati assegnatari insieme a lui del procedimento di usare il loro ruolo solo per sbirciare a piacimento negli atti, insomma per controllarlo. Ora si chiede che intervenga il Presidente della commissione antimafia Pisanu. Invito Pisanu a darne pubblicità, non può rimanere segreta, è una denuncia, anche perché è scritta da un uomo addolorato, amareggiato. Due giorni prima di scrivere la lettera e di morire, Chelazzi apprese che era stata organizzata una riunione di magistrati per valutare il suo lavoro, l’ultimo atto per delegittimarlo. Io credo che quest’uomo sia morto per il dolore. Gli italiani devono sapere il lavoro che ha fatto Chelazzi, che è stato un grande magistrato.»

«Il Vice Procuratore Nazionale Antimafia Gabriele Chelazzi poco prima di morire scrisse una lettera. Lo abbiamo sempre saputo tutti - dice Giovanna Maggiani Chelli, Presidente associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili - Negli anni spesso abbiamo chiesto il contenuto della lettera, oggi sappiamo che è stata segretata e che è stata conservata nei cassetti della Commissione Antimafia, lo ha detto il TG5 delle 20 del 18 ottobre 2012. Perché è stata secretata? Da chi? Gabriele Chelazzi lavorava alle indagini relative ai passaggi da 41bis a carcere normale prima di morire, questo non è un segreto, lo dicono chiaramente gli atti archiviati nel 2002 relativi al fascicolo così detto “Inzerillo”, dove stanno verbali come quello del Prof. Conso che ebbe a dire al Magistrato Chelazzi, “Guardi che io sono per il 41 bis”. Siamo sconcertati davanti ai “segreti”, davanti alla classifica segreto, non ci sono segreti sulle stragi. Si dice. Da anni ce lo ripetono. Però, se fra “segreto di stato” e segretare un documento c’è differenza, infatti il “segreto di Stato” è posto sugli argomenti e sull’argomento stragi non c’è, segretare una lettera come quella di Chelazzi non vuol forse dire mettere il segreto sulle stragi del 1993? Perché se Chelazzi ha scritto una lettera tanto drammatica come il TG5 ci ha lasciato intravvedere, una ragione ci deve essere stata, e in quel momento Gabriele Chelazzi indagava sulla trattativa Stato-mafia.

Ne abbiamo il diritto: vogliamo a questo punto conoscere il contenuto della lettera del magistrato Gabriele Chelazzi finita in Commissione Antimafia, abbiamo sempre detestato le Commissioni per le stragi del 1993 e non a torto pare. Siamo i parenti dei morti di via dei Georgofili, riteniamo vergognoso che il contenuto della lettera di Gabriele Chelazzi non sia a nostra conoscenza, ma di persone delle quali non abbiamo nessuna fiducia, visto che conservano nei cassetti documenti “secretati” che potrebbero far più luce sulla morte dei nostri figli. Quanto meno capire leggendo quella lettera, le probabili divergenze in Procura a Firenze, mentre noi aspettavamo verità e giustizia e non ci sentivamo affatto di aver dato “un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi” come leggiamo stamani nei quotidiani; frase quella scritta dal giudice Chelazzi che ci fa riflettere e pensare che forse eravamo nei suoi pensieri nel momento più duro della sua vita.»

Stragi del '93, così fermarono l'anti-Ingroia, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La solitudine del magistrato. Raccontata in una lettera drammatica scritta poche ore prima di morire. Gabriele Chelazzi, magistrato dell'antimafia fiorentina distaccato sul fronte delle stragi, si sente abbandonato dai colleghi e così il 16 aprile 2003 racconta tutta la sua amarezza al capo dell'ufficio Ubaldo Nannucci. Quella notte viene stroncato da un infarto. Ora quel documento, ritrovato dall'onorevole Amedeo Laboccetta, diventa pubblico. Come un testamento che costringe a riflettere; dietro le quinte di indagini sotto i riflettori dei media si consumano incomprensioni, scontri, l'emarginazione di professionalità impegnate sulla prima linea della lotta alla criminalità. «Come le ho segnalato - spiega Chelazzi - è con estremo disagio che da circa due anni mi trovo a lavorare da solo su una vicenda come quella in questione»: una vicenda, ricorda il magistrato, che «ha a che fare con sette stragi». Le bombe, terrificanti, degli Uffizi, di Milano, e di Roma, le bombe del '93, le bombe piazzate dai mafiosi per costringere lo Stato al dialogo, a una sorta di patto scellerato. Dieci morti, decine di feriti, un danno incalcolabile al nostro patrimonio artistico. Per quelle carneficine viene processato e condannato all'ergastolo un gruppo di mafiosi, a cominciare da Totò Riina. Il capo di Cosa nostra ha fatto avere alle istituzioni il famoso papello con tutta una serie di richieste. Chelazzi deve perlustrare proprio quel terreno scivolosissimo, la cosiddetta zona grigia, a cavallo delle istituzioni. Dà la caccia ai mandanti, sempre evocati e mai messi a fuoco. Una ricerca in qualche modo decisiva per la tenuta della democrazia.

Ma il pm scopre di «lavorare da solo (con tutti i rischi del caso, da quello di sbagliare a quello di esporre la pelle a eventualità non propriamente gratificanti)». Insomma, Chelazzi si ritrova senza i supporti necessari, anzi senza nemmeno l'aiuto minimo da parte dei colleghi. E' deluso e disilluso. E descrive il suo stato d'animo a Nannucci: «A proposito dello scetticismo non nego che ripetutamente mi è parso di cogliervi addirittura un retropensiero secondo il quale il mio impegno in questo lavoro al contempo dipenderebbe da un mio capriccioso accanimento e da un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi». Non è così, perché Chelazzi ha imboccato la pista della trattativa fra Stato e mafia. Ma ci sono indagini che non catturano l'opinione pubblica, forse perché si muovono su sentieri non ortodossi: Chelazzi guarda a destra - a Dell'Utri, a Berlusconi, a tutta la presunta misteriologia legata alla nascita della Fininvest - ma nello stesso tempo apre altri fronti, a 360 gradi, senza indossare il paraocchi del conformismo giudiziario e intuisce manovre insospettabili che poi porteranno verso i «padri della patri»: i Conso, i Mancino e i tecnici del governo Ciampi. In qualche modo, e senza volerne fare a posteriori una bandiera, Chelazzi è alternativo a Ingroia. Il 16 aprile la lettera è pronta. Chelazzi non fa nemmeno in tempo a spedirla perché muore la notte successiva a 59 anni. Il testo viene ritrovato sul suo tavolo e consegnato a Nannucci nei giorni seguenti. È un documento storico che fotografa quel che può accadere in un ufficio importante. E come un'indagine delicatissima possa finire sul binario morto dell'indifferenza. Ora quelle carte riemergono grazie all'impegno di Laboccetta che le ha cercate prima alla procura di Firenze poi alla Commissione antimafia. «Lo hanno abbandonato al suo destino - racconta Laboccetta - e proprio mentre squarciava il velo di una trattativa inconfessabile che solo oggi comprendiamo».

Ora, a nove anni dal suo sacrificio.

Ma già dal 2003 Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”  scriveva sull’emarginazione subita da Chelazzi. L'ultimo atto dell'inchiesta sulle stragi di mafia del 1993 condotta dal pm Gabriele Chelazzi è stata una lettera, indirizzata al procuratore di Firenze. Una missiva che il magistrato della Direzione nazionale antimafia ha scritto poche ore prima di morire, colpito da un infarto nella notte tra il 16 e il 17 aprile scorsi, e non ha fatto in tempo a spedire. Chi s'è occupato di mettere ordine tra le sue carte l'ha trovata sul tavolo e l'ha fatta recapitare al destinatario, il dottor Ubaldo Nannucci, capo della Procura fiorentina. A lui Chelazzi aveva deciso di rivelare la propria amarezza per la sensazione di solitudine che provava lavorando a quell'indagine delicata e complicata. Il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna aveva «applicato» Chelazzi all'ufficio di Firenze, titolare dell'indagine sui «mandanti a volto coperto» delle bombe scoppiate a Firenze, Milano e Roma tra la primavera e l'estate del 1993: dieci morti e decine di feriti per i quali un gruppo di mafiosi, da Riina in giù, è stato condannato all'ergastolo. Secondo la giustizia italiana sono gli esecutori materiali di quelle stragi, ma il lavoro degli inquirenti continua nel tentativo di smascherare eventuali ispiratori di quegli attentati «esterni» a Cosa Nostra. A tirare le fila dell'inchiesta era proprio Chelazzi, che prima di morire ha messo nero su bianco il disappunto per quella che riteneva un'insufficiente attenzione da parte della Procura di Firenze a ciò che stava emergendo all'indagine, un supporto inadeguato rispetto a quello che secondo lui meritavano gli accertamenti in corso. I termini di legge per l'inchiesta stanno per scadere (bisognerà chiudere entro i primi di giugno), e nel registro degli indagati compare solo il nome dell'ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, già condannato in primo grado a otto anni di carcere per concorso in associazione mafiosa. Ora su di lui pende l'ipotesi più grave di concorso in strage. Alcuni pentiti, tra i quali Giovanni Brusca, hanno infatti rivelato i contatti dell'ex parlamentare con Cosa Nostra - in particolare la famiglia Graviano di Brancaccio - proprio nel 1993, quando la mafia tentò di far ammorbidire le leggi contro i boss varate dopo le stragi del 1992. Le bombe dell'anno successivo sono state più volte definite «bombe del dialogo», per indurre la controparte a trattare con Cosa Nostra e rivedere certe norme, a cominciare dall'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario che sancisce il «carcere duro» per gli uomini delle cosche. Inzerillo è stato interrogato nei giorni scorsi dal procuratore aggiunto di Firenze Fleury e dai pm Nicolosi e Crimi, i titolari dell'inchiesta divenuti «eredi» di Chelazzi. In alcune interviste il super-procuratore antimafia Vigna ha anticipato l'idea di «una talpa..., un canale di fuoriuscita di notizie riservate» dallo Stato verso la mafia, nel periodo in cui si decise di prorogare il «41 bis».

Di questo si occupava Chelazzi, che ha compiuto accertamenti al ministero della Giustizia spulciando carte e ascoltando testimoni. E si occupava dell'eventuale «trattativa» tra rappresentanti delle istituzioni e rappresentati di Cosa Nostra in quel periodo, sulla falsariga di ciò che si è ipotizzato per l'anno precedente, a cavallo delle stragi del '92. Allora, hanno raccontato alcuni collaboratori giustizia, Totò Riina redasse un «papello» (pezzo di carta) con le proprie richieste per interrompere gli attentati; nel '93, con Riina in carcere, ci avrebbe provato qualcun altro. Nell'ipotesi dell' accusa l'ex senatore Inzerillo sarebbe coinvolto in questa operazione di dialogo a distanza tra mafia e Stato. Per verificare questa e altre possibilità Chelazzi ha interrogato diverse persone, e aveva in programma di interrogarne ancora. Pochi giorni prima di morire, insieme al pm Nicolosi, ascoltò come testimone il prefetto Mario Mori, già comandante del Ros dei carabinieri e oggi direttore del Sisde. Gli ha chiesto dei suoi rapporti e dei suoi ripetuti incontri nel 1993 con il giornalista Giovanni Pepi, condirettore del Giornale di Sicilia. Pepi fu indicato da Riina, durante una pubblica dichiarazione fatta dieci anni fa nel corso di un processo, come l'unico giornalista al quale avrebbe potuto concedere un'intervista. Niente di strano secondo Pepi che già allora chiarì il senso della frase del boss. Ma, come ha rivelato ancora Vigna nelle interviste, Chelazzi aveva intenzione di approfondire il senso di quella frase di Riina. Da Pepi non ha fatto in tempo ad andare, mentre da Mori il magistrato dell'Antimafia ha avuto la spiegazione di un normale rapporto d'amicizia. «Conosco Pepi da almeno dieci anni - ha detto il direttore del Sisde -, mi è stato presentato come persona dabbene, abbiamo avuto e abbiamo normali frequentazioni tra amici. In ogni caso non ho mai condotto "trattative" con chicchessia». Pepi si mostra stupito di essere stato chiamato in causa, spiega che tutto si poteva verificare dieci anni fa ed è a disposizione per chiarire qualunque cosa ancora oggi. Anche la vicenda raccontata dal pentito Angelo Siino, che in un verbale ha detto di averlo visto «intrattenersi cordialmente» con il «geometra di Cosa Nostra» Giuseppe Lipari - l'ex-insospettabile che gestiva i beni di Riina e Provenzano, il quale ha tentato di collaborare con la giustizia ma è stato «respinto» dalla procura di Palermo - al matrimonio della figlia di Lipari. Tutto risale a quando Lipari non era ancora stato scoperto come mafioso e - ricorda oggi Pepi - «sua figlia era una collaboratrice del Giornale di Sicilia. Sono andato al suo matrimonio, salutai lei, ma non ho mai conosciuto suo padre». Visti i tempi stretti per concludere l'indagine, è possibile che Chelazzi volesse chiedere uno «stralcio» per chiudere l'inchiesta su Inzerillo e proseguire gli accertamenti «contro ignoti». Perché c' era da appurare, ad esempio, il movente della fallita strage dell'ottobre ' 93 allo stadio Olimpico di Roma rivelata da alcuni pentiti. Un attentato nel quale dovevano morire molti carabinieri, si disse, e l'ipotesi è che fosse la risposta ordinata dall'ala dura di Cosa Nostra per il fallimento della presunta «trattativa» con lo Stato. Supposizioni e teorie suffragate da qualche indizio ma difficili da verificare; indagini delicate che potevano apparire fumose a chi non le «viveva» dall'interno. Forse questo temeva Gabriele Chelazzi, quando decise di scrivere quella lettera nella quale traspaiono il disappunto e la solitudine di un magistrato che credeva nel suo lavoro, morto prima di poterlo concludere.

Il compianto Vigna difensore del Ros, con buona pace del compianto Gabriele Chelazzi scrive Sonia Alfano sul suo Blog.

Leggendo le motivazioni della sentenza con cui i giudici di Milano hanno condannato per traffico internazionale di droga il Generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei Carabinieri, viene spontaneo chiedersi in che Paese viviamo e se usciremo mai dalla palude nella quale hanno cercato (e cercano!) di farci affogare. Secondo i giudici dell’ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale “non ha minimamente esitato a dar corso a operazioni antidroga basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge, ripromettendosi dalle stesse risultati d’immagine straordinari per se stesso e per il suo reparto”. Il comandante del Ros inoltre “’ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. Secondo i giudici Ganzer ha una “preoccupante personalità” e sarebbe capace di “commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”. In un Paese normale Ganzer avrebbe dato le dimissioni e si sarebbe ritirato a vita privata in un eremo, ben lontano da quella società civile che si aspetterebbe, almeno dai vertici delle forze dell’ordine, onestà e sicurezza. Ci aspettavamo la difesa d’ufficio degli esponenti del PdL, che ormai non provano il benchè minimo imbarazzo nel benedire i loro amici, specialmente se si tratta di acclarati delinquenti e malfattori. Quello che invece non ci aspettavamo di certo sono le incredibili dichiarazioni di un ex magistrato come Pier Luigi Vigna, che dal 1997 al 2005 è stato addirittura Procuratore nazionale antimafia.

Vigna, prendendo pubblicamente le difese di Ganzer, ha sottolineato “la sua correttezza estrema in tutti gli episodi”, e ha ricordato che da pm seguì con lui “il primo caso di immissione di droga in Italia da parte di agenti infiltrati”. L’ex procuratore ha poi spiegato che Ganzer è, per lui, “un collega leale che in vent’anni ha sempre dimostrato alta professionalità e un atteggiamento ineccepibile”. Così facendo, non solo l’ex magistrato ha tentato di delegittimare i magistrati milanesi e perfino di screditare una sentenza di condanna. Ha fatto di peggio, ha preso moralmente le distanze dall’indimenticato pubblico ministero Gabriele Chelazzi, che sul Ros e su quanto fatto da quel reparto nella trattativa tra Stato e Cosa nostra ha indagato, nell’isolamento tipico di chi vuole combattere il marcio, negli ultimi giorni della sua vita.

Per chiarire ulteriormente quanto scritto dai giudici milanesi pubblico l’articolo uscito sul sito web di Repubblica il 27 dicembre 2010:

Il generale Giampaolo Ganzer “non si è fatto scrupolo di accordarsi” con “pericolosissimi trafficanti”. Lo scrivono i giudici di Milano nelle motivazioni della condanna a 14 anni per il comandante del Ros nel processo per presunte irregolarità nelle operazioni antidroga. “Il generale Gianpaolo Ganzer non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità. Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge”, scrivono i giudici del Tribunale, spiegando perché il 12 luglio scorso condannarono il capo del Ros dei carabinieri per traffico internazionale di droga in riferimento a operazioni sotto copertura. Secondo i giudici dell’ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale ”non ha minimamente esitato (…) a dar corso” a operazioni antidroga ”basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge, ripromettendosi dalle stesse risultati d’immagine straordinari per se stesso e per il suo reparto”. Il comandante dei Ros inoltre ”ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. I giudici oltre a Ganzer, avevano condannato altre 13 persone – a pene variabili dai 18 anni in giù – tra cui anche il generale Mauro Obinu e altri ex sottufficiali dell’Arma. L’accusa aveva chiesto per Ganzer 27 anni di carcere, ma i giudici lo avevano assolto dall’accusa contestata dalla Procura di associazione per delinquere e lo avevano condannato per episodi singoli di traffico internazionale di stupefacenti. Preoccupante personalità. Il generale Giampaolo Ganzer ha una "preoccupante personalità" capace ”di commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”, spiegano ancora i giudici. Nel motivare la mancata concessione a Ganzer delle attenuanti generiche, il collegio scrive che le stesse attenuanti non possono essere riconosciute ”non solo per l’estrema gravità dei fatti, avendo consentito che numerosi trafficanti (…) fossero messi in condizioni di vendere la droga in Italia con la collaborazione dei militari e intascarne i proventi, con la garanzia dell’assoluta impunità, ma anche per la preoccupante personalità dell’imputato, capace di commettere anche gravissimi reati”. Nei panni di un distratto burocrate. Colpisce, si legge ancora nelle motivazioni, “nel comportamento processuale di Ganzer (…) che abbia preso le distanze da tutte le persone che, con il suo incoraggiamento, avevano commesso i fatti in contestazione”. Il generale, secondo i giudici, si è trincerato “sempre dietro la non conoscenza e la mancata (e sleale) informazione da parte dei suoi sottoposti”. Così, si legge ancora, per “sfuggire alle gravissime responsabilità” ha “preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti”. Non c’è reato di associazione. Non si ravvisa, secondo i giudici, il reato di associazione per delinquere: “Non si ravvisa negli imputati l’intento di partecipare in modo stabile e permanente ad un programma comprendente la realizzazione di una serie indeterminata di reati, ma soltanto l’intenzione di eseguire alcune operazioni” che, tra le altre cose, avrebbero consentito loro di dare “lustro, davanti ai propri superiori e all’opinione pubblica, al corpo di appartenenza”, scrivono i giudici per i quali “l’esistenza di reiterate deviazioni nell’ambito del Ros, ad opera di appartenenti al suddetto Raggruppamento” non è “sufficiente ad integrare” il reato associativo “in mancanza di un vincolo stabile tra gli imputati e della creazione da parte degli stessi di una seppur minima struttura finalizzata al raggiungimento di fini illeciti e criminosi”. Il fatto che, spiegano i giudici, “si siano utilizzate le strutture dell’Arma dei Carabinieri realizza certamente un gravissimo abuso dei poteri e una gravissima violazione dei doveri che incombevano sugli imputati (…), ma non consente in alcun modo di identificare la struttura di un lecito servizio (ossia la struttura stessa del Ros, ndr) nella struttura dell’associazione”. Non vi è stata, si legge ancora,”neanche una suddivisione dei ruoli tra gli imputati, diversa da quella esistente nell’ambito militare e in qualche modo funzionale alla commissione dei delitti di cui trattasi, e pertanto neppure sotto questo aspetto può dirsi che gli imputati abbiano costituito una autonoma struttura funzionale all’attuazione di un programma criminoso”. Ganzer: “Non commento le sentenze”. ”Non commento le sentenze, sono un uomo delle istituzioni e lo sono sempre stato. Il mio unico commento è quello fatto in sede processuale, con i motivi d’appello”, ha detto comandante del Reparto operativo dei carabinieri, rispondendo a chi gli chiedeva un commento sulle motivazioni della sentenza dei giudici di Milano.

Gli effetti di tanto marasma sta nelle parole di Bruno Contrada.

Contrada contro tutti. L'intervista di Rosamaria Gunnella su “L’Opinione”. Afferma di non aver mai nutrito sentimenti di odio e di vendetta nei confronti di alcuno; sostiene di sentirsi, più che un capro espiatorio, un obiettivo facile da colpire per coprire le inefficienze di un sistema. Si augura che la verità sulla sua vicenda sia ristabilita, perché «io non ho commesso i fatti che mi sono stati attribuiti». Si è sempre sentito un uomo dello stato, anche quando era in carcere, «perché se dovessi rinnegare questo attaccamento dovrei dichiarare il fallimento della mia vita». Bruno Contrada, condannato a dieci anni di reclusione con l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo averne scontati otto dei quali quattro ai domiciliari per le sue condizioni di salute, parla finalmente da uomo libero. Un «uomo legato alle istituzioni», come continua a definirsi, che non ha nessun sassolino da togliersi dalle scarpe ma indosserebbe volentieri gli scarponi dei fanti della Prima guerra mondiale con 48 chiodi per dare, metaforicamente, un calcio a qualcuno.

Chi ha voluto colpire Bruno Contrada?

Innanzitutto quel nugolo di avanzi da galera (17 i “pentiti” che lo hanno accusato), i peggiori criminali della mafia siciliana, killer, autori di delitti efferati. Giovanni Brusca, per esempio, cioè colui che azionò il telecomando che uccise il giudice Falcone, o Giuseppe, Pino Marchese, condannato all’ergastolo, poi a trent’anni e autore di stragi e di decine di omicidi, tra cui uno particolarmente cruento: uccise un suo compagno di cella all’Ucciardone a colpi di bistecchiera. Tommaso Buscetta, conosciuto per le sue imprese criminali e per la notorietà che gli ha dato “il pentitismo”.

E poi?

Diciamo, che al nugolo di questi pendagli da forca se n’è accodato un altro. Individui appartenenti anche alle istituzioni, alla polizia che per rancori, giustificati o non, o anche per antipatia personale, mi hanno accusato. D’altronde chi svolge una determinata attività come la mia oltre a crearsi amici fraterni si fa anche tanti nemici.

Persone che hanno colto il momento per scagliarsi addosso ad un corpo ormai per terra sanguinante. Mai nessuno di loro prima del mio arresto aveva detto una sola parola su di me. E nonostante tutto questo non serbo odio o rancore verso nessuno. Voglio solo che si ristabilisca la verità. Non ho bisogno di nient’altro che di questo.

La sua vicenda giudiziaria potrebbe essere lo spunto per riportare all’attenzione il dibattito sui collaboratori di giustizia?

Il pentitismo in Italia, da più di vent’anni a questa parte, è un fenomeno di una complessità enorme, sul piano umano, sociale, giudiziario (sia nell’applicazione pratica che nella utilizzazione dei processi) e su quello della dottrina giuridica. È un fenomeno che è stato esaminato, criticato, esaltato, dibattuto da persone qualificate, insigni giuristi, sociologi e da cultori di varie scienze umane. Io ritengo che l’utilizzazione da parte dello stato di criminali, di collaboratori di giustizia, di pentiti, non nel senso etico della parola ma secondo motivi di opportunità e convenienza, cioè per sottrarsi a lunghe detenzioni o all’ergastolo e avere benefici pecuniari, è sempre un segno di debolezza dello stato. Voglio dire che quando lo stato per un complesso di motivi non riesce, con i mezzi tradizionali, a debellare un fenomeno criminale così grave allora ricorre a compromessi del genere, cioè all’utilizzazione di uomini che, per raggiungere i risultati di cui ho parlato, sono disposti a dare la loro collaborazione in cambio di benefici. Se i mezzi fossero stati sufficienti, e a mio avviso non lo erano, lo stato non avrebbe avuto bisogno di ricorrere al “pentitismo”.

Quindi il problema non sta nella legge che istituisce i collaboratori di giustizia?

Riconosco che i pentiti hanno dato un notevole contributo alla lotta contro la mafia. Hanno dato la possibilità di scoprire delitti, di inchiodarne i mandanti e gli esecutori, di arrestare latitanti e tenere in galera i maggiori esponenti della mafia. Il vero problema è la gestione dei collaboratori di giustizia. I pentiti sono come un’arma che di per sé non è né positiva né negativa. Può essere usata per la difesa della patria, della società, della propria vita e di quella di altri, ma può servire anche per compiere omicidi, rapine a mano armata. È a secondo di chi la usa e come viene utilizzata che l’arma diventa positiva o negativa. È necessario, quindi, che i pentiti vengano gestiti con la massima attenzione, scrupolosità e coscienza. E l’opera di investigazione nella ricerca dei riscontri deve essere ancora più approfondita soprattutto quando le accuse sono rivolte a uomini che hanno combattuto questi criminali, denunciandoli, arrestandoli e diventando così i loro nemici atavici: i poliziotti, tra i quali io. Difatti, tra i pentiti che mi hanno accusato, dando l’impulso per imbastire il mastodontico processo a mio carico, ce n’erano molti che io avevo perseguito in ogni modo.

Una vicenda processuale alquanto complessa, la sua. Ma perché questa ostinazione nei suoi confronti?

La mia vicenda giudiziaria deve essere contestualizzata negli anni in cui è avvenuta. Un momento in cui bisognava dimostrare molte verità ma anche teoremi, cioè di un’inefficienza dell’azione repressiva e preventiva dello stato nei confronti della mafia da parte della politica, della magistratura, delle forze dell’ordine ma anche della gente comune che si disinteressava a questo fenomeno. Solo negli anni successivi è sorto il consenso generale. Si è voluto sostenere questo teorema. È vero che nel corso di decenni, lo stato, e parlo della politica, ha sottovalutato il fenomeno della mafia.

In alcuni periodi, anche con una certa giustificazione: c’era un’altra grande emergenza che metteva in pericolo la struttura dello stato, il terrorismo. Tutte le attenzioni erano rivolte a fronteggiare l’eversione, quando la mafia veniva ancora considerata un fenomeno localizzato in Sicilia e che non interessava l’intero apparato statale.

Quindi, si può dire che lei è stato un capro espiatorio di un sistema?

Io mi sono trovato in mezzo a tutto questo, al teorema dell’inefficienza dello stato nel suo complesso. Per tutti gli incarichi che avevo ricoperto nella lotta contro la criminalità organizzata e la mafia avevo, come dire, il “physique du role”, ero la persona adatta su cui appuntare queste accuse come responsabile di indubbie deficienze, mancanze dovute al sistema sociale e legislativo dell’epoca. Bisogna considerare che in quegli anni non avevamo i mezzi giuridici e materiali che sono subentrati nei periodi successivi. E, lo riconosco, forse eravamo anche impreparati ad affrontare un fenomeno di così terribile impatto sulla vita del nostro paese. Come del resto non eravamo pronti nei primi anni del terrorismo eversivo contro il quale man man ci si è attrezzati.

Cosa ne pensa del ricorso straordinario pendente in Cassazione contro la decisione con la quale la seconda sezione della Corte ha respinto l’istanza di revisione del suo processo?

La mia opinione è che la Cassazione non ritorna mai sui suoi passi. Ringrazio il mio avvocato, il dottor Lipera, che apprezzo per la sua tenacia, per il suo volere fare il possibile e anche l’impossibile, ma considero le sentenze della Cassazione come pietre sepolcrali. E come ho scritto nella copertina di un faldone che racchiude tutti i miei ricorsi: io non voglio essere Lazzaro e il mio avvocato non è Gesù.

Domani uscirà un libro-intervista “La mia prigione”, scritto insieme alla giornalista Letizia Leviti in cui lei ripercorre la sua ventennale vicenda giudiziaria. Un bisogno di raccontarsi, di fare conoscere le sue opinioni o cos’altro?

Non ho la presunzione di ritenere che questo libro possa fare rivedere o revisionare il processo. Ma credo che possa dare un contributo alla conoscenza della verità, a dirimere dei dubbi. Certo non a convincere coloro che, per partito preso o per teoremi, sono i miei detrattori, ma per lo meno a tentare di far sorgere in loro qualche dubbio. Ho voluto dare delle spiegazioni, raccontare la mia vicenda e la mia enorme sofferenza di questi ultimi venti anni tra processi, tribunali, ricorsi. Una sofferenza che continua ancora adesso, nonostante io sia libero. Una sofferenza morale, quella della perdita di tutto quello che è stato lo scopo di una vita.

Non può mancare nemmeno la testimonianza di chi ha visto sciolto il proprio consiglio comunale per infiltrazione mafiosa. Come per Reggio Calabria, primo capoluogo di provincia ad essere sciolto per infiltrazione mafiosa. Reggio Calabria c’è puzza di marcio. Ma anche di bruciato. (Ogni riferimento a fatti o persone reali non è puramente casuale, ed è basato su dati di fatto. Poi ognuno può fare lo struzzo, se vuole), scrive Giovanni Pecora su “Agorà Magazine”. Fermo restando che una cosa è la città di Reggio Calabria, altra cosa è l’Amministrazione comunale pro tempore, se una commissione d’accesso ha rilevato gli elementi per sciogliere il consiglio comunale per "contiguità mafiosa", ed il Ministero dell’Interno ha ritenuto validi e gravi questi elementi, attivando le procedure per lo scioglimento ed il Commissariamento del Comune di Reggio Calabria, sarebbe assurdo pensare ad una follia istituzionale, ad una immotivata ingiustizia. Evidentemente qualcosa di marcio ci deve essere, al di là di ogni ragionevole dubbio. MA...Un grande, enorme, gigantesco "MA..." è davanti agli occhi di tutti, reggini e non reggini: se è vero, come certamente sarà vero (magari al di là delle sue effettive responsabilità personali), che nell’Amministrazione del Sindaco Arena c’era "contiguità con la mafia", e nessuno ha motivo di negarlo, perchè invece negare che a Reggio - e fuori Reggio - opera attivamente da anni una lobby politico-giornalistica che ha avuto - ed ha - ruolo di opposizione politica in città ed in regione? Perchè negare l’evidenza? Per ingenuità certamente, da parte di alcuni amici in buona fede, ma anche per enormi e lunghissime "code di paglia" da parte di chi in questa lobby c’è dentro fino al collo. Perchè - e se non lo sapete ve lo dico io - a Reggio Calabria non solo la mafia era contigua all’Amministrazione comunale, ma anche occulti ed inquietanti "poteri forti" sono dietro un manipolo di giornalisti, reggini e non reggini, che hanno avuto la forza economica, politica e mediatica di mettere in piedi una vera e propria fabbrica di dossier (non inchieste, dossier) che sono diventati via via articoli e libri vomitati dappertutto, insieme alla costruzione di una macchina giornalistica del fango in moto 24 ore su 24 contro il Presidente della Regione Calabria Peppe Scopelliti e tutto ciò che tocca, fosse anche l’acquasantiera del Duomo di Reggio. Una lobby di pressione mediatica e politica asfissiante, fatta da sedicenti giornalisti privi di scrupoli, in qualche caso addirittura pregiudicati, pluriquerelati ed imputati per diffamazione, gente che ha fatto del manganello mediatico e della lupara a nove colonne il loro mestiere e la loro fortuna economica. Altro che paladini della legalità, che ci fa ridere amaramente il solo pensarlo! Mi piacerebbe tanto incontrare a quattr’occhi Roberto Natale, il segretario della Federazione nazionale della stampa, che ieri li ha difesi a spada tratta, e vorrei vedere cosa direbbe dopo "le carte" che gli potrei facilmente mostrare per dirgli chi sono i suoi protetti, tanto da farlo arrossire se lo ha fatto in buona fede. Perchè, cari amici, se a Reggio c’è puzza di marcio, intorno al marcio c’è tanta, tanta PUZZA DI BRUCIATO.

A Reggio lo Stato ha effettuato un’azione preventiva di legalità, impedendo che si passasse potenzialmente dalla contiguità al controllo diretto della mafia nell’Amministrazione comunale. Bene.

Ma se non fermerà gli artigli di una ben precisa, anche se parzialmente invisibile nella sua reale composizione, lobby politico-affaristico-giornalistica che già si protendono sulla città, l’avrà solo fatta morire di una morte diversa.

Comuni contro Saviano: «Noi sciolti per mafia ma sono dati vecchi».

Ondata di reazioni in provincia di Bari dopo l’elencazione in tv dei 210 Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose dal 1991. Tutto parte dall’esposizione presentata lunedì sera su RaiTre - nel corso della trasmissione «Che tempo che fa del lunedì» condotta da Fabio Fazio - dallo scrittore e giornalista Roberto Saviano, diventato famoso come «testimonial» antimafia con il suo libro «Gomorra». La reazione comune è che non è giusto indicare come città mafiose comunità che si sono «ripulite» da tale onta.

GIOIA DEL COLLE: FATTI VECCHI E FU UN ERRORE - Il consiglio comunale della città federiciana fu sciolto nel settembre 1993. Ora accostare ancora una volta il nome della città alla parola mafia ha fatto infuriare molti cittadini. Vito Ludovico, capogruppo Pd: «Gioia subì l’affronto di ricevere questo marchio infame che non meritava. Gli addetti ai lavori sanno come si svolsero i fatti, Gioia non c’entrava nulla con la mafia. Il commento di Saviano è assolutamente fuori posto; accostare Gioia a Reggio Calabria è come parlare di una cosa che non esiste». «Il capo dello Stato assunse quel provvedimento in maniera sbagliata rispetto alla realtà - aggiunge Johnny Mastrangelo, capogruppo Pdl in consiglio comunale - ma alla fine nessuno rimase coinvolto e nessuno è mai stato condannato per reati di mafia». In città la rabbia corre anche su Facebook.

DA TERLIZZI: LE COSE SONO CAMBIATE - L’eco lontana di misfatti accaduti vent’anni fa torna a far rabbrividire i terlizzesi. Era il 1993 quando il Consiglio comunale venne sciolto per mafia. «Mi si è riaperta una ferita quando ho saputo che nella trasmissione “Che tempo che fa” è stato rievocato un fatto infausto e dolorosissimo come quello accaduto quasi vent’anni fa», commenta il sindaco Ninni Gemmato. «Ma penso, anzi ne sono certo - sottolinea - che in questo tempo svariate cose siano cambiate. Il tempo trascorso ci sta riconsegnando eventi di diversa natura che hanno contribuito a riscattare la nostra città. Da allora ci sono state cinque tornate elettorali in cui i cittadini hanno avuto modo di esprimersi in maniera spontanea e democratica, generando un normale ricambio della classe dirigente. Abbiamo mostrato di saper reinstaurare un circolo virtuoso, di saperci rialzare e ricostruire. Per cui - conclude Gemmato - oggi ci addolora venire ancora ricordati, in una trasmissione di carattere nazionale, come un paese dove in passato si verificò un fatto riprovevole».

DA MODUGNO: ACCUSE ARCHIVIATE - «La necessità di fare audience e spettacolo non può giustificare il fatto di gettare fango su una intera comunità – ha assunto le difese di Modugno, il sindaco Mimmo Gatti - viene citato uno scioglimento frettoloso di consiglio comunale avvenuto nel 1993 e al quale non seguirono riscontri di alcun tipo né condanne, ma solo archiviazioni. E lo Stato che fa? Invece di chiedere scusa per l’errore ne fa un altro attraverso le sue emittenti televisive – ha concluso Gatti -: Modugno è sdegnata con la Rai».

«MONOPOLI ATTENDE I GIUDIZI» - «I fatti cui Saviano ha fatto riferimento nella trasmissione di RaiTre si riferiscono al 1994. Saviano fa bene a sottolineare i Consigli Comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, ma sbaglia quando nel citarli non spiega in quanti Comuni si è giunti ad accertare i reati e i responsabili. Nel caso specifico di Monopoli, a distanza di quasi vent'anni siamo ancora in attesa di giudizio che alla gente onesta e seria pesa assai di più dell’accusa» dichiara il sindaco di Monopoli Emilio Romani.

«TRANI SCIOLTO PER MAFIA? FU INGIUSTIZIA» Non ho visto la trasmissione, ma prendo atto del fatto che anche Trani sia stata nominata da Saviano. Ma un conto è una mera elencazione di comuni, un altro è la cronaca di quello che è accaduto». Questo il commento del vice sindaco di Trani, Peppino Di Marzio, alla citazione televisiva, fra le altre, della città di cui, nel 1993, era primo cittadino quando il consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Una ferita aperta che, ventuno anni dopo, ancora non si è rimarginata. «I fatti – chiarisce Di Marzio -, nella loro evoluzione processuale, ci dicono che quel decreto scellerato, richiesto dall’allora prefetto Catenacci e firmato dall’allora ministro dell’interno Mancino, non ha trovato alcun riscontro. Tutti i processi penali e civili nati da quel provvedimento si sono conclusi con un nulla di fatto, escludendo collusioni di alcun tipo. Piuttosto, da lì Trani avrebbe subito un danno sia d’immagine, sia, soprattutto, economico perché prima fu tagliata fuori da importanti finanziamenti, poi dovette pagare lautamente le parcelle degli avvocati che difesero gli amministratori dell’epoca: miliardi di lire buttati via per un improvvido decreto di scioglimento promosso da un prefetto che, poi, sappiamo tutti com’è andato a finire». Hanno collaborato alle interviste ai comuni sciolti per mafia Valentino Sgaramella, Giuseppe Cantatore, Saverio Fragassi, Eustachio Cazzorla, Nico Aurora su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

Perchè purtroppo il monopolio dell'antimafia è roba loro.

Sono stato interrogato dall’Antimafia Sembrava una corte fascista, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Sono stato convocato nei giorni scorsi dalla Commissione parlamentare antimafia per una audizione. Almeno, così avevo capito. In realtà sono stato sottoposto ad un interrogatorio, che è stato condotto dal vicepresidente della Commissione, Claudio Fava, è durato circa un’ora e mezza ed è stato costruito su domande tutte improntate alla stessa idea (o insinuazione): quella che i giornali che ho diretto in Calabria, e in particolare “Calabria Ora”, fossero subalterni al potere mafioso e che io stesso lo fossi. Mi è stato detto, in modo esplicito e anche un po’ sfrontato, che il mio modo di fare giornalismo senza censure, e senza neppure un po’ di subalternità alla Procura di Reggio, e senza limiti “etici” nello svolgere le polemiche, è un modo di fare giornalismo che fa il gioco della ‘ndrangheta, mentre buonsenso vorrebbe che chi fa giornalismo in Calabria si occupi un po’ meno delle notizie e un po’ di più a spalleggiare la lotta alle ’ndrine. Perché la Calabria non è il Piemonte, non è l’Emilia, e l’ossessione per lo stato di diritto può essere devastante per lo Stato. Non ho preso appunti durante l’interrogatorio. Perché sono stato colto di sorpresa. Io ero convinto che la Commissione volesse delle informazioni e delle valutazioni. Invece la Commissione le informazioni le aveva già tutte – anche se alcune erano false – delle valutazioni se ne infischiava, e voleva solo che io rispondessi della temerarietà e pericolosità – rispetto alla ragion di Stato – delle mie opinioni. Anche senza appunti però mi sono rimaste nella mente molte cose, che vorrei raccontare, perché voi lettori le giudichiate, e magari – se ne avranno tempo e voglia – le valutino anche le autorità. Mi è stato contestato, per iniziare, il fatto che nel momento in cui ho assunto la direzione di “Calabria Ora” il mio editore, che gestisce delle cliniche, avrebbe avuto immediatamente nove nuove convenzioni concesse dalla Regione. In cambio, mi è stato detto esplicitamente, della sospensione, da parte mia, di una campagna di stampa che il mio giornale stava facendo contro il Presidente della Regione. La notizia mi ha sorpreso: non la conoscevo. Poi ho accertato che era assolutamente falsa. L’editore non aveva avuto nessuna nuova concessione. Non andrà molto lontano – penso, ma forse mi sbaglio – una Commissione antimafia che non accerta neppure le notizie che riceve da qualche consulente un po’ superficiale. Persino noi giornalisti, che abbiamo un po’ meno mezzi e po’ meno denari a disposizione di una commissione antimafia, siamo tenuti a verificare le notizie…Dopodiché è iniziata prima la fila di contestazioni su articoli, titoli, e scelte editoriali, e poi persino sui toni dei miei commenti e delle polemiche. Perché – mi è stato chiesto – hai avuto vari incontri, persino nel suo studio, con l’avvocato Titta Madia che assisteva Giuseppina Pesce (collaboratrice di giustizia che aveva accusato suo marito e i suoi parenti) il quale avvocato Madia vi fornì una dichiarazione della signora Pesce nella quale lei ritrattava le accuse e sosteneva che le erano state suggerite dai Pm in cambio di un suo trasferimento in un carcere più vicino alla Calabria e della possibilità di rivedere i suoi figli? Sono rimasto senza parole: che in una sala del Parlamento italiano qualcuno non capisca che i giornalisti hanno l’obbligo di ascoltare gli avvocati, e soprattutto l’obbligo di riferire notizie come quella della quale sto scrivendo, vuol dire evidentemente che in queste sale del Parlamento almeno qualcuno dei parlamentari non ha mai gettato uno sguardo distratto sulla Costituzione, e non ha la minima idea di cosa sia il giornalismo in uno Stato liberale. E il fatto che successivamente la signora Pesce abbia ritrattato la sua ritrattazione – naturalmente non sta a me stabilire quale delle diverse versioni fornite dalla signora Pesce sia quella vera – non cambia affatto le cose. Oltretutto noi avevamo pubblicato non solo la lettera della Pesce, ma anche il verbale del suo interrogatorio, che era un verbale piuttosto inquietante. Ciliegina: anche qui le informazioni della commissione erano del tutto inesatte, perché io non ho mai incontrato l’avvocato Madia, né a casa sua, né al suo studio, né altrove. Ma possibile che questa Commissione non ne prenda una giusta? Non posso riferirvi tutte le contestazioni che mi hanno fatto (per la precisione le ha fatte tutte il vicepresidente Claudio Fava). Qualcuna però voglio raccontarla. Perché – mi è stato chiesto – su “Calabria Ora” avete pubblicato la lettera del figlio di un boss mafioso che protestava perché a suo padre era stato negato il funerale in Chiesa? Beh, son caduto dalle nuvole, non capivo la domanda. Mi hanno spiegato che il figlio di un mafioso non è un cittadino normale, che anche se è incensurato è sempre il componente di una famiglia di mafia, e poi c’è tanta gente che non è stata condannata per mafia, ma insomma, si sa che è mafiosa, e quindi, insomma, la lettera del figlio di un mafioso non si pubblica…Anche perché – mi ha spiegato Claudio Fava – pubblicando quella lettera si mette a repentaglio la sicurezza personale del sacerdote che ha rifiutato il funerale, e dei rappresentanti di “Libera” che hanno chiesto di non celebrare il funerale. Ho cercato in tutti i modi di spiegare che un cittadino è un cittadino (Gertrude Stein…), e che la legge italiana, la dichiarazione dei diritti dell’Uomo, la Costituzione repubblicana, eccetera eccetera eccetera, non permettono di considerare un cittadino colpevole dei reati del padre. Non c’è stato niente da fare: per gli onorevoli, il figliolo di un boss è, comunque, almeno un po’, colpevole, e in ogni caso non ha il diritto di scrivere qualcosa a difesa di suo padre. Ho chiesto agli onorevoli se loro avrebbero mai pubblicato una lettera di Peppino Impastato (il ragazzo reso famoso dal film I cento passi, figlio di un mafioso e morto combattendo la mafia, ucciso dalla mafia) ma loro mi hanno detto che Impastato poteva parlare perché combatteva la mafia, mentre questo ragazzo (si chiama Alvaro) che ha scritto su “Calabria Ora” non ha le carte in regola per parlare. Capito bene: l’antimafia (in questo caso, parlando di parlamentari stipendiati, possiamo ben dire: i professionisti dell’antimafia, e mandare un pensiero disperato alla memoria di Leonardo Sciascia…) decide a chi assegnare e a chi no il diritto di parola. Come faceva una volta il Fascio. Infine il vicepresidente mi ha fatto notare che la lettera del figlio del boss finiva così: «Per fortuna giustizia terrena e giustizia divina non sono la stessa cosa». E questa frase, che chiunque interpreterebbe come una frase di pietà e di speranza sul destino ultraterreno del padre (è diritto di tutti quello di credere nell’aldilà) era in realtà una minaccia mafiosa. Non ha capito bene a quale ’ndrina si sospettasse l’affiliazione di Dio, ma ho lasciato perdere…Non posso tediarvi troppo. Però voglio dirvi che mi è stato contestato un editoriale intitolato “La mafia si combatte con lo Stato di diritto e non con le forche” (o qualcosa del genere) e mi è stato spiegato che la mia teoria sul garantismo da applicare anche in Calabria, e addirittura i miei dubbi sull’uso che talvolta i magistrati fanno dei pentiti, sono teorie e dubbi inaccettabili e che denotano una indubbia corrività con la mafia. Credo che la domanda finale sia stata la più clamorosa. Insistentemente il vicepresidente ha chiesto di sapere se mi ero pentito di aver dato le notizie sulla Pesce, sulla Cacciola eccetera. Questa del pentimento deve essere una mania. Gli ho dovuto spiegare – ma senza successo – che i giornalisti, di solito, non si pentono di aver dato le notizie. Casomai si pentono di avere fatto o subito la censura. Mi si è fatto capire che io dovrei provare rimorso per il suicidio (o forse omicidio) della signora Maria Concetta Cacciola (anche lei collaboratrice di giustizia che ha accusato la famiglia, poi ha ritrattato e poi è tornata ad accusare, infine è misteriosamente morta). Gli ho fatto notare che “Calabria Ora” aveva aperto una polemica (che non è stata fornita alla Commissione insieme al pacco di articoli che mi hanno contestato) perché la Cacciola – che si sapeva a rischio – non aveva goduto del programma di protezione. Circostanza sulla quale, finora, nessuno ha risposto. E infine mi si è chiesto di spiegare perché avevo dedicato cinque pagine al caso Cacciola, mi è stato detto che cinque pagine sono troppe. Ho risposto che, in genere, su come faccio il giornale io rispondo in riunione di redazione, e non in antimafia, né al Parlamento, né al governo, né al prefetto, né alla Procura della repubblica. Il vicepresidente si è mostrato stupito. Gli ho detto che nella Ddr (la Germania dell’Est prima che cadesse il muro) i giornalisti rispondono al potere politico sul modo nel quale fanno i giornali, ma qui in Europa non è così. Gli ho detto che il Minculpop (che svolgeva durante il fascismo funzioni simili a quelle che ora svolge l’antimafia: cioè il controllo su giornali e giornalisti) è stato chiuso nel 1945. Fava ha continuato a chiedermi il perché di quelle cinque pagine. Mi sono rifiutato di rispondere e sono andato via.

P.S. Non avevo mai assistito ai lavori di questa Commissione. Il modo nel quale si sono svolti in mia presenza è in violazione piena della Costituzione e dimostra una scarsissima conoscenza dei principi democratici. Di più: è stata una vera e propria intimidazione di un giornalista, e un invito esplicito a mettersi agli ordini delle Procure. Si tratta di un comportamento eversivo e illegale. Mi chiedo se il Presidente della Camera e il Presidente del Senato vorranno intervenire, e se vorrà intervenire l’ordine dei giornalisti, o il sindacato. Temo che sia una domanda retorica: so che non vorranno intervenire. Spero di sbagliarmi.

Vorrei andare dal detenuto Giulio. Sono mafioso?, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Da qualche mese ho un rapporto telefonico coi parenti di un signore, di nome Giulio, accusato di mafia, imprigionato, in attesa di sentenza definitiva e che con tutte le sue forze si dichiara innocente. I parenti di Giulio, che è un calabrese e che di mestiere fa l’imprenditore, mi chiedono di incontrare il detenuto (detenuto da diversi anni, e che recentemente è stato ricoverato in una clinica per ragioni molto gravi di salute) ma io finora non lo ho fatto. È stata colpa mia se non ho ancora incontrato Giulio, sono stato pigro, non ho preparato i documenti che servivano, ho perso tempo, sono stato assorbito dai miei impegni di giornalista e di direttore di un quotidiano. Però non è una giustificazione, visto che io penso che tra gli impegni – doverosi – di un giornalista, ci sia anche quello di incontrare le persone che stanno in carcere. Persone che vogliono vederti, parlarti, fornire dei documenti che aiutino a credere alla loro innocenza. Il diritto, per tutti, di parlare, di esprimersi, di difendersi, di farsi ascoltare, specialmente se si è convinti di avere ricevuto una grave ingiustizia, e ancor più specialmente se questa ingiustizia ha avuto origine da una azione dello Stato, beh penso che dovrebbe essere il primo di tutti i diritti, in un paese libero, in democrazia. Spessissimo non è così. Per i detenuti quasi mai è così. Proprio per questo credo che i giornalisti dovrebbero avere una sensibilità particolare, ancor più forte se questi giornalisti, come me, lavorano per un giornale che ha avuto la faccia tosta di chiamarsi Il Garantista. Proprio l’altro giorno mi è arrivata un plico, inviatomi dai parenti di Giulio, che contiene carte su carte, le quali, mi pare, depongono tutte e favore dell’imputato e della sua innocenza. E così, avendo anche ricevuto delle telefonate dai parenti di Giulio – alle quali, come spesso mi capita – non ho risposto, avevo deciso di rompere gli indugi, chiamare io i parenti di Giulio e chiedere di avere il colloquio. Poi, come ho raccontato ieri sul giornale, sono stato convocato dalla commissione parlamentare antimafia e interrogato a lungo, e “sospettato” di comportamento giornalistico non consono alla direttiva ufficiale, che è quella di mettersi al servizio delle procure e di militare nel loro esercito, che è stato mandato da Dio e ha il compito supremo di combattere e radere al suolo il male. Vi ho già detto che mi sembrava di essere interrogato da una corte fascista più che da una commissione parlamentare di un paese repubblicano e democratico. Il senso di questa convocazione e di questo interrogatorio in antimafia a me è sembrato chiarissimo: una intimidazione, secca brutale, con l’obiettivo di limitare le mie iniziative e la mia libertà professionale. Tanto più che “avvisi” simili, o anche più gravi (dei quali torneò a parlare nei prossimi giorni ) già mi sono arrivati nei mesi scorsi da alcuni settori della Procura di Reggio Calabria. E infatti ieri ho pensato: se ora io chiedo di incontrare Giulio, e poi lo incontro, e stabilisco rapporti con lui e la sua famiglia, è molto probabile che ne riceverò nuovi guai, nuovi sospetti e nuove accuse da parte dell’antimafia militante, politica o giudiziaria. E ho deciso di rinunciare, di non chiamare i parenti di Giulio. Di aspettare tempi più sereni. Vi pare una cosa bella? Edificante? Chiaro che non lo è. E perciò prima di scrivere queste righe ci ho ripensato di nuovo: me ne infischio della commissione antimafia e delle Procure, domani telefonerò ai parenti di Giulio e se mi sarà possibile lo andrò a trovare. E se i parenti di Giulio mi autorizzeranno vi dirò anche il cognome di questo detenuto.

A conferma di come funzionano le cose nell'antimafia mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Giornalismo è giustizia, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale che si concluderà questa mattina. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Chi ha paura di chiamarla mafia, scrive Francesco Merlo su “la Repubblica”. Il famoso "la mafia non esiste" si è trasformato in "la vera mafia sta altrove", ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre. Dagli antenati don Calò e Genco Russo  -  "noi la chiamiamo amicizia"  - sino ai nipotini Carminati e Diotallevi: "Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti". E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con "baciamo le mani" ma con "li mortacci tua". Nell'idea che "questa non è mafia " c'è anche, e forse soprattutto, l'autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice. "La mafia è diventata policentrica", disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell'epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l'antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero "che uccidono con la risata" ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l'innocenza della truffa d'Oriente alla precisione della lupara d'Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. È vero che c'è una profondità di differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all'Atac non sono trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell'Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti sono già all'opera gli esperti che, a partire dall'oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità. L'abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le "croste" dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... ... sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l'Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro ... Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l'affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d'auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro. Certo, l'innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l'amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un'azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l'elezione, concesse a prezzi d'affitto stracciati i locali di Via Pomona? A Roma sono tutti "amici", ma non nel senso dell'omertà palermitana. Fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, "il ponte Andreotti" congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C'era di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c'era la mafia. C'era l'assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti  -  guarda caso  -  Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia. Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l'erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell'apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi, nell'intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra. Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com'è possibile che il funzionario del sol dell'avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi? E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un'utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon all'antimodernità del Samurai di Mishima con l'arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l'orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini. A Roma i fascisti a non sono più fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare "mafia" la mafia la chiamavano "la mano nera". La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un'emigrazione. E adesso è "romana de Roma", cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che "natura non facit saltus", ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un'eternità di foresta.

Mafia: pm Teresi, nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli. L'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere ricevere vantaggi che sono tipici di persona senza scrupoli". Lo denuncia il 30/04/2015 all'Adnkronos il Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi. "Probabilmente esiste davvero la mafia dell'antimafia - dice il magistrato a margine della commemorazione di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo - Ormai esistono non solo rischi ma anche concreti esempi di infiltrazioni nella cultura e nella pratica giornaliera dell'antimafia che è fatto da persone che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere emergere e potere ricevere dei vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli". "Non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste certa", aggiunge. Poi, parlando dell'ex segretario del Pci La Torre ucciso il 30 aprile di 33 anni fa, l'aggiunto dice: "Pio La Torre è stato un pioniere non solo della lotta alla mafia, ma anche della lotta alla miseria e alla vera lotta di classe in Sicilia - dice - La questione meridionale scissa dalla questione mafiosa era un esercizio culturale inutile. Lui ha intuito che erano la stessa cosa e l'ha pagata con la vita, perché ha individuato la mafia come la vera responsabile del distacco della Sicilia dal resto della crescita della nazione. Quindi, un esempio di capacità di vedere avanti veramente straordinario". "Ora si parla più di lotta alla mafia come esercizio di abitudine che andrebbe rivisto e si parla meno di questione meridionale, cioè abbiamo di nuovo scisso le due cose - aggiunge Teresi - Continuiamo a fare finta che la storia non esista e che le due vicende siano separate. Dobbiamo capire che la questione economica siciliana è questione di mafia".

Giustizia: il pm di Palermo Vittorio Teresi "nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli", scrive Vincenzo Vitale su "Il Garantista". In occasione della commemorazione di Pio La Torre, l'affondo di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo. Dopo tanti anni, si da ragione a Sciascia. Nella mitologia greca, Cronos - il Tempo - divora i figli che esso stesso ha fatto nascere: e ne rimane un celebre e perfino impressionante olio di Goya, dove appunto si mostra un essere mostruoso che letteralmente prende a morsi poveri omiciattoli in sua totale balia. Ne facciamo esperienza ogni giorno: tutto ciò che ci affatichiamo a fare e a disfare, non appena entra nell'ambito della vita, delle cose, è già candidato a scomparire, a dissolversi. Appena nato, il piccolo già principia ad invecchiare. Tuttavia, in un'altra prospettiva - che è quella che qui davvero interessa - il Tempo si fa cogliere come un potente coefficiente di chiarificazione delle realtà più complesse: esso serve a far capire ciò che prima non si capiva, a semplificare ciò che sembrava complicato, perfino a dissolvere la nebbia dell'ideologia. Si pensi per esempio a come Emile Zola abbia affidato al tempo la marcia inesorabile di quella verità che condusse poi, dopo anni, alla definitiva riabilitazione del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi. È questo il caso che oggi si registra in virtù delle dichiarazioni di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo, il quale ha affermato all'Adnkronos che l'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per poter ricevere vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli", e che aggiunto: "...non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste". Ebbene, ricordate un celebre articolo pubblicato a firma di Leonardo Sciascia, nel gennaio del 1987, sul Corriere della Sera, dal titolo (che, peraltro, non era a lui dovuto) "I professionisti dell'antimafia", e che tante polemiche suscitò? Ricordate che il coordinamento antimafia di Palermo, in quel tempo, inveì contro lo scrittore siciliano, affermando che egli si era posto "ai margini della società civile"? Ricordate che gli intellettuali di casa nostra s'indignarono profondamente alla pubblicazione di quel pezzo e che nel nome della lotta alla mafia criticarono aspramente Sciascia, ergendosi a difesa di Orlando e Borsellino? Basti pensare a Eugenio Scalari. Ne nacquero poi polemiche annose ed astiose che travagliarono dalle pagine dei giornali e di riviste di politica e di costume l'intera società italiana, insomma una vera tempesta mediatica e ideale. E perché? Semplicemente perché lo scrittore siciliano aveva individuato come esistesse il concreto pericolo che, per come veniva organizzata l'antimafia, per le strategie che usava, per il tipo di consenso a volte cieco e privo di capacità critica che essa riusciva a capitalizzare, dietro di essa si muovesse un interesse di altro tipo, assai meno nobile e socialmente utile, un interesse inconfessabile destinato a costruire un vantaggio proprio o dei propri sodali, fosse esso politico, sociale, morale, perfino economico e che perciò si trattava di demistificarlo, portandolo a conoscenza di tutti. E ciò non certo per indebolire la lotta alla mafia, effetto che, tradotto quale accusa mossa allo scrittore, suonava già semplicemente insulso, ma, al contrario, per depurarla da indebite contaminazioni che sarebbero state in grado di degradarla, di renderla dominio di pochi invece che patrimonio di tutti. Già. Ma ciò Sciascia scriveva e denunciava - "spirito critico mancando e retorica aiutando" - ventotto anni e quattro mesi or sono. Ci son voluti tutti, per capire che le cose stavano proprio così, che davvero nell'antimafia son presenti anche persone che, prive di scrupoli, ne sfruttano il palcoscenico per lucrare vantaggi personali, come ha efficacemente dichiarato il dott. Teresi. E, a pensarci bene, perché dovrebbe o come potrebbe essere diversamente? Perché mai l'antimafia dovrebbe far eccezione a tutte le altre organizzazioni umane - dal circolo degli Ufficiali alla bocciofila - nessuna delle quali è -né pretende di esserlo - perfetta, senza macchia, tutta ed interamente composta da persone probe, incontaminate, incorruttibili. Del resto, come è noto, "l'incorruttibile" finì col perdere la testa sotto la medesima lama alla quale egli stesso aveva destinato migliaia di teste. L'antimafia, perciò, non fa al riguardo eccezione. Solo che - ed è qui la vera differenza che, come un crinale, distingue il profetismo letterario dello scrittore dalla pigrizia coscienziale - Sciascia ebbe la preveggenza di vederlo ed il coraggio civile di denunciarlo quasi trent'anni or sono: e ne ebbe rampogne e contumelie. Oggi, anche altri non solo lo comprendono, ma lo dichiarano pubblicamente e si spera si tratti ormai di un dato definitivamente acquisito dalla coscienza sociale. E dunque, meglio tardi che mai: il Tempo in questo caso è stato galantuomo.

Pietrangelo Buttafuoco su “QTSicilia Magazine”: "Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia". Ma Buona Pasqua a Tutti. Come solitamente facciamo nelle prossimità delle festività, cogliamo l'occasione nell'augurare Buona Pasqua ai lettori, per sottolineare e risaltare un tema attuale che assedia la Sicilia.Stavolta non scriviamo noi ma vogliamo riportare un interessante pezzo scritto, con maestria solita, da Pietrangelo Buttafuoco su "Il Foglio" di stamane. Il tema è a noi caro visto che lo abbiamo più volte affrontato con determinazione, affermando il nostro pensiero che non è soltanto intellettuale e lontano dalla realtà, bensì è la testimonianza di chi vive, osserva, analizza la società siciliana che deve necessariamente scrollarsi di dosso la teoria bizzarra delle patenti dell'antimafia, metodo usato per la lotta politica e non per la lotta alla mafia. Detto ciò leggiamo l'imperdibile Pietrangelo Buttafuoco. "Due sono i tipi di mafia: la mafia e la mafia dell’antimafia. Non avendo obblighi di diplomazia, ecco, la dico chiara. L’esito della lotta alla mafia, al netto del teatrino cui s’è ridotta, è quello di una tenaglia stretta intorno alla Sicilia.Due sono i tipi di mafia e l’unica fabbrica operosa di Sicilia è quella dell’antimafia fatta mafia. E’ la madre di tutte le imposture. E’, appunto, un teatrino la cui regia è la malafede e il cui pezzo forte – orgoglio del cartellone – è la pantomima degli inganni. Uno spettacolo grottesco, questo della tenaglia che avvita e svita, consumato in queste giornate di convulsione del potere regionale e, in rimbalzo romano, nella preparazione delle liste per le Europee dove sia gli assessori chiamati nella giunta di governo, sia i candidati del Pd, tutti duri e tutti puri, hanno contrabbandato ideali e calunnie, ricatti e anatemi, lasciando inerme e sconfitta la verità. E’ stata tutta una gara di tutti contro tutti, quella di questi giorni. Tutti a sfregiarsi reciprocamente secondo il tasso di antimafietà riducendo la rivoluzione del governatore Rosario Crocetta – una rivoluzione di fatui annunci – a una macchietta. Una favola, dunque. La cui morale, purtroppo, è lercia. Il pegno di sangue di tanti innocenti è diventato pretesto di un mercato per le carriere dei vivi e il destino tutto ribaltato di una bugia apparecchiata nelle buone intenzioni – quella di essersi assicurato il credito dovuto ai rivoluzionari, ai giusti, ai difensori della legalità perpetuando la fogna del potere – s’è svelata in un contrappasso: Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che sfasciò l’antimafia. L'ex Pm Nicolò Marino, assessore dell’attuale governatore fino a qualche settimana fa, è stato tolto di mezzo, causa incomprensioni in tema di energia. Incomprensioni senza riparo, vista la delicatezza della questione, quella della gestione dei rifiuti. E tanto delicata deve essere stata la questione da far dimenticare a Crocetta quando Marino indagò a suo proposito. Indagò e archiviò. Per comprovata innocenza, manco a dirlo.L’ex Pm, pluristellato in materia di antimafia, intervistato da Livesicilia ha letteralmente scorticato il governatore. Lo ha spogliato di tutti i paramenti, quelli del rito trito e accettato dell’antimafia naturalmente. Un’intemerata che lasciato attoniti quanti, ancora qualche settimana prima, vedevano nell’uno e nell’altro, la sacra unione dei rivoluzionari, dei giusti e dei difensori della legalità. Tra le tante parole dette da Marino ad Accursio Sabella che lo intervistava, una frase, una, ha turbato più di tutte: “Dopo la vergognosa vicenda Humanitas ho dovuto formalizzare la richiesta del rispetto delle regole”. Laddove per vicenda vergognosa s’intenda il caso di una delibera per l’ampliamento dei posti letto di una clinica privata, l’Humanitas. Una delibera fatta firmare nottetempo, nelle ferie d’estate, a Lucia Borsellino, assessore nel delicato assessorato della Sanità e che di cognome, appunto, fa “Borsellino”. Una delibera che solo grazie alle rivelazioni della stampa venne ridimensionata ad errore, forse un lapsus, certamente gettata nella fogna di quel potere di Sicilia, tanto micragnoso quanto inesorabile.Oltre il sipario, la tenaglia. Questo è il fatto. A disposizione di furbissimi prestidigitatori della legalità per cui se oggi va bene Caterina Chinnici candidata alle europee per il Pd – la stessa, figlia di Rocco, il magistrato trucidato dalla mafia – appena ieri stava andando a male. Stava nella giunta di governo di Raffaele Lombardo, condannato in concorso esterno. Per mafia ovviamente. E Lombardo però – oltre alla Chinnici – è anche quello che ha trasmesso a Crocetta, il suo successore, massimo campione di antimafietà per come è notorio, il regista politico che ha assicurato la continuità: Beppe Lumia, un altro campione di antimafietà. Anzi, di più. Il già presidente della Commisione parlamentare antimafia è il maestro concertatore, compositore, arrangiatore e direttore di orchestra di ben due governi siciliani. Quello del condannato, innanzitutto. Di Lombardo, infatti, Lumia si fece garante. E gli affidò – a mo’ di coroncina d’aglio sul vampiro – tutta un agghirlandar di magistrati in giunta. Garante e ancora qualcosa di più, Lumia, lo è dell’attuale governatore. Con perizia riuscì a mettere al posto di Massimo Russo, un altro magistrato, assessore della delicatissima Sanità con Lombardo, la suddetta Lucia Borsellino, con pazienza ha poi seguito – passo dopo passo – il periglioso percorso del governo di Crocetta, prima e dopo il rimpasto, non riuscendo però a farsi candidare alle Europee avendo avuto contro “non un colluso e contiguo comunista da mascariare”, per dirla con Francesco Foresta, ma appunto la Chinnici, degno deus ex machina del più inatteso colpo di scena in cotanto teatro. Nella tenaglia, lo spettacolo. Anzi, il baraccone. E siccome la rivoluzione è pur sempre redditizia, siccome val bene un tradimento, un disconoscimento o un ripudio, tutto quel mettersi in casa un Antonio Fiumefreddo oggi, per poi scaricarlo domani (uno su cui Il Fatto prima e poi Repubblica hanno però svelato essere l'avvocato difensore della “famiglia Ercolano”), non è tanto una prova di pragmatismo di Crocetta, piuttosto un reiterare il pasticcio. Fiumefreddo, infatti, ha perfino la patente d’antimafia, da soprintendente del Massimo Bellini, a Catania, issò sulla facciata del teatro i ritratti di Matteo Messina Denaro per additarlo a eterno monito di wanted e Crocetta che adora le eccentricità, improvvisa, impapocchia, fa giochi di prestigio, allude e illude perché – appunto, appunto – la fase estrema dell’antimafia non è più il professionismo, bensì l’illusionismo. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Vista la malaparata, nel fare il suo rimpasto, il governatore ha ripiegato su altre personalità. Perfino d’importazione, come il dr. Salvatore Calleri, da Firenze. “Un allievo”, si legge nel curriculum, “di Antonino Caponnetto”. Dopo di che, certo, il cambiamento, evocato da Totò Cardinale, “è stato bloccato...” L’ex ministro nisseno è il leader del Drs, una sigla non ben definita, è una sorta di pustola del Pd, una delle tante casette a uso dei transfughi. E’ il partito del Fiumefreddo di cui sopra, costretto alle dimissioni, frastornato al punto di scrivere sul proprio sito web una lettera intrisa di allusioni al Golgota, ai ferri della Passione, al Crucifige di un agnello – qual è lui – il cui martirio comprova il cambiamento di Sicilia definitivamente bloccato. E così sia. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Nel frattempo s’è tentato di mettere Antonio Ingroia al posto del reprobo Marino. L’uomo simbolo di tutti i simboli è, si sa, momentaneamente sott’utilizzato. Al momento, infatti, è commissario della disciolta provincia di Trapani. Non è propriamente commissario di Pubblica Sicurezza ma ha comunque il preciso compito di catturare Matteo Messina Denaro, il latitante dei latitanti e Crocetta che lo vorrebbe con sé, in qualunque ruolo, pure in quello di un Mastro Lindo risanatore delle partecipate regionali, compatisce quell’amico così sfortunato che retrocede sempre di più nella parodia e magari teme di vederlo finire a cantare tra i tavoli di “Pizza & pizzini”, il nuovo ristorante di Massimuccio Ciancimino, figlio di don Vito, star di Servizio pubblico, la trasmissione di Michele Santoro dove a suo tempo, l’ex Pm, portandoselo a braccetto per farlo applaudire dal pubblico politicamente sensibile, lo battezzò “icona dell’antimafia”. Ecco, certo. Sono cose al cui confronto, lo slogan di Totò Cuffaro, “La mafia fa schifo”, per ingenuità e pacchianeria, fa ormai sorridere. Ma c’è solo da piangere. Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che la sfasciò tutta l’antimafia. E non solo perché due persone serie come Claudio Fava e Leoluca Orlando se ne guardano bene dall’assecondarlo ma perché la terapia, infine, col pullulare di pittoreschi personaggi dalla carriera proprio sgargiante – su tutti, Pietro Grasso, quasi un vescovo del rito trito e politicamente accettato – ha fatto propri i sintomi della malattia. Come la mafia, in letteratura, al cinema, nelle fiction, ha trovato la propria caricatura, così l’antimafia, nella sua variante di mafia, è diventata prateria di carriere, territorio senza Re e senza Regno a uso di spregiudicati elargitori di credibilità e autorità, di fatto sostituitisi allo Stato e alle Istituzioni se della giustizia, e dei valori sacrissimi della vita, ne fanno solo un uso politico. Peggio che una caricatura, un’impostura, di cui non si può neppure fare show business. Viene difficile immaginare un copione speculare ai perfetti modelli della commedia, non un Johnny Stecchino di Roberto Benigni, non il Mafioso di Alberto Sordi, non La Matassa dei sublimi Ficarra e Picone ma solo e soltanto la parodia di Ingroia fatta da Crozza. Poca cosa. E potremo sperare un giorno di liberarci dall'uggia del rito, trito e ritrito, quando come con la mafia anche la mafia dell'antimafia potrà essere raccontata e denudata dalla satira. Prima di allora, ci resta addosso solo l'impostura. E sono cose di Sicilia, tutte dentro il sipario, strette nella tenaglia della legittimazione reciproca o, al contrario, del disconoscimento di ritorno. Ponendo il caso, tra i casi, che un Salvatore Borsellino (che di cognome, appunto, fa “Borsellino”), non convochi un’assemblea di Agende rosse e non stili un nuovo elenco di buoni e di cattivi (sì, la famosa agenda da cui Paolo Borsellino non si staccava mai, quella andata sicuramente distrutta dalla carica di tritolo, ritenuta trafugata sulla scena dell’orrenda strage, quella considerata alla stregua del Graal per smascherare la trattativa Stato-Mafia e poi rivelatasi “un parasole”). Buoni e cattivi che pencolano, trasversalmente, tra mafia, antimafia e mafia dell’antimafia per relegare i mafiosi, già servi di scena, in cotanto teatro, alla consolle degli effetti speciali – quasi a far da tecnici e attrezzisti, dietro le quinte – giusto per luci & ombre. E proiettili, ovviamente, da imbustare. Proiettili che intelligentissimi mafiosi fanno recapitare nei momenti di massima difficoltà agli illusionisti e per restituirli così alla scena, anzi, al baraccone. La tenaglia, dunque. Una morsa fatta di ferri opposti ma ugualissimi pronta a svitare o avvitare, a proprio piacimento, la testa vuota, vuotissima di un pupo senza più speranze se in via Libertà, a Palermo, i negozi chiudono e muoiono come i fiori di agave nelle sciare di pietra: di colpo, prosciugandosi di vita. Tutti – in quella strada, un tempo ricca di commerci – aspettano l’apertura di un lussuoso locale e già aleggia la nera leggenda (“ci sono i soldi di Matteo Messina Denaro...”). Non c'è più niente di niente nell’Isola: non un’industria, non più la Fiat a Termini Imerese, né Pasquale Pistorio e la sua Stm a Catania, un tempo fiore all’occhiello dell’elettronica. Perfino i turisti scarseggiano se a distanza di un anno, a Lipari, si sente l’eco di un colpo di pistola. E’ quello con cui spense la propria vita ­– flagellata dai debiti, dalla crisi, dalla mancanza di lavoro – Edoardo Bongiorno, titolare dell’Hotel Oriente, un albergo tra i più antichi, un luogo della bellezza destinato all’altra tenaglia, quella dove una ganascia è il niente e l’altra è il nulla. Nessuno più vuole investire in Sicilia. Antonello Montante, presidente di Confindustria, che si schiera contro le banche impegnate a strozzare quel poco che resta delle aziende, denuncia con durezza il maledetto clima che abbuia ogni speranza: “Tutti hanno paura di tutti, della mafia, della burocrazia e anche dei giornalisti”. Tutti hanno paura di tutti. E tutti – in questa terra, ormai alla prova generale del default che toccherà in sorte a tutta l’Italia – aspettano di partirsene via. Ed è una fortuna che Campari abbia acquistato Averna. L’amaro di Caltanissetta è stato preso in custodia dal bitter di Milano. Per qualche anno ancora, Deo gratias, si potrà fare il brindisi. E il Deo gratias definitivo, quello necessario, potrà aversi se qualcuno, qui, a Roma, capisca che cosa sta succedendo davvero. Se proprio non un Cesare Mori, un prefetto che arrivi e metta fine ai mercanti asserragliati nel tempio della lotta alla mafia, almeno un commissario, in Sicilia, ci vuole e serve. Se non subito, subitissimo. E come quello, come Mori, si faccia forte di un principio: far tornare lo Stato in Sicilia. Avere carta bianca e – come quello, che ebbe mandato pieno dal presidente del consiglio dei ministri – avere il potere di cambiare le leggi se queste, sporche per come è infettata di mafia la legislazione derivata dallo Statuto autonomo, non permettano il raggiungimento dell’unico necessario proposito: fare tornare lo Stato in Sicilia. PS. Ho preso a prestito la categoria del dopoguerra, quella sulla distinzione di Leo Longanesi dei due fascismi ( "il fascismo e il fascismo dell'antifascismo", elevato a pretesto di una guerra civile ancora viva) perché è il binario obbligato dell’identità di una nazione, il cui tracciato, forgiato dalla natura arcitaliana, è quello inesorabile del conformismo. Dopo di che, la Sicilia. Certo, tutti hanno paura di tutti. Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia. E io, qui, lo so che mi ritrovo a prendere a mani nude le braci degli altri. Ma – come si dice? – così come finisce, un giorno si racconterà".

Indagato il pm antimafia Mollace. “Favoreggiamento alla ‘ndrangheta”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Lo storico magistrato di Reggio Calabria sotto inchiesta per corruzione. Un colpo di scena, un altro. Per Reggio Calabria e l’antimafia è una mazzata. E anche un nuovo capitolo dei veleni che hanno intossicato il Palazzo di Giustizia. È indagato dalla procura antimafia di Catanzaro Francesco Mollace, uno dei pilastri storici della procura antimafia, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria da meno di due mesi è in servizio alla procura generale presso la Corte d’appello di Roma (e qualcuno ipotizza la precipitosa decisione di trasferirsi dettata per evitare il carcere). L’ipotesi di reato che viene ipotizzata nei confronti dell’alto magistrato è corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. L’inchiesta dei pm Giuseppe Borrelli, Gerardo Dominjanni e Domenico Guarascio è una costola di quella sugli autori della strategia stragista contro lo Stato del 2010, la cosca Lo Giudice, che fece esplodere ordigni sotto il portone della procura generale (3 gennaio) e nell’atrio del palazzo del procuratore generale Salvatore Di Landro (25 agosto). Infine, il 5 ottobre, fu ritrovato un bazooka sotto la procura di Giuseppe Pignatone. Per questi attentati si sta celebrando il processo a Catanzaro, avendo individuati gli autori. Sono diverse le letture sul possibile movente. Quella più accreditata: il procuratore generale Di Landro si era da poco insediato, facendo saltare immediatamente quegli accordi non scritti tra avvocati e sostituti procuratori generali, che praticavano il patteggiamento occulto in Appello. E, dunque, le bombe come richiesta a Di Landro di ripristinare quegli accordi. Francesco Mollace è stato lo storico titolare delle inchieste che hanno riguardato i fratelli Lo Giudice, e nessuna di queste indagini è mai arrivata a processo. Ma c’é, ci sarebbe anche dell’altro. Viene ipotizzato dagli inquirenti uno scambio corruttivo tra il magistrato e la cosca di Nino Lo Giudice. Sì, il «nano», il mandante delle bombe del 2010. Il dottor Mollace - che non ha voluto commentare le indiscrezioni sulle indagini che lo riguardano - avrebbe tenuto la sua barca nel cantiere navale di Nino Spanò, il prestanome della cosca Lo Giudice. A processo Spanò ha dichiarato che la rata mensile per la barca del magistrato Mollace veniva pagata in contanti e che lui non la contabilizzava. «Don Ciccio, cercate don Ciccio che mi deve difendere». Quello che è importante è ricordare che questa intercettazione è agli atti della inchiesta, genuina. Il boss comunica al suo avvocato di contattare Mollace, e sembra dire che è il suo garante. Per l’accusa, questa intercettazione è una prova decisiva, che mette in secondo piano la interpretazione e l’attendibilità del pentito Nino Lo Giudice che prima chiama in causa il procuratore aggiunto nazionale antimafia, Alberto Cisterna, poi evade dal rifugio protetto lasciando un memoriale nel quale ritratta tutto (infine è stato catturato). 

E il giudice finì nei guai per colpa dei Lo Giudice, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. Ma la cosca dei Logiudice esiste ancora? A questa domanda sembra dare una risposta la decisione della Procura della Repubblica di Catanzaro, che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sostituto pg di Reggio Calabria Francesco Mollace, adesso in servizio alla Procura generale presso la Corte d’appello di Roma. Mollace è indagato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro per corruzione in atti giudiziari. Alla sbarra con lui finiranno Luciano Lo Giudice, fratello del boss Nino – pentito a fasi alterne – e Antonino Spanò, titolare di un cantiere nautico a Reggio Calabria, in cui Mollace avrebbe avuto la sua imbarcazione a rimessaggio. La richiesta di Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio, a capo dell’inchiesta coordinata dal procuratore della Repubblica Vincenzo Antonio Lombardo, nasce dal memoriale del boss reggino Nino Lo Giudice, a capo di una cosca che Mollace avrebbe favorito. La vicenda è intricata e complessa: l’ex pentito Nino, come ho già scritto qualche tempo fa, ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso memoriali messi più volte in discussione. Il dubbio che dietro il suo pentimento «ballerino» ci sia una macchinazione per colpire alcuni magistrati. Non ha convinto molti l’essersi autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro e dell’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda. Nino ha anche chiamato in causa il fratello Luciano, considerata la mente della cosca, salvo rimangiarsi tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Nel fango era finito anche l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non ha mai negato la frequentazione con il presunto boss. Ma la cosca Lo Giudice, ripete sempre Cisterna, è stata lui a smantellarla nel 1993 arrestando il capofamiglia. E Cisterna è uscito pulito dai guai. Ma la cosca Lo Giudice esiste, almeno così pensano i pm di Catanzaro. E qual è la colpa di Mollace? Aver sottovalutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice (fratello di Nino e Luciano) e Paolo Iannò (ex braccio destro e armato del superboss Pasquale Condello detto «il Supremo» arrestato dal Ros il 18 febbraio 2008 dopo una latitanza infinita) senza svolgere – secondo i pm di Catanzaro – le necessarie indagini per capire se i Lo Giudice a Reggio avessero ancora un peso oppure no. Per i due pentiti il peso lo avevano eccome. I magistrati catanzaresi scrivono che Mollace, per chiudere un occhio, avrebbe ricevuto in cambio «la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». A pesare su Mollace c’è soprattutto il giallo dell’omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, che secondo gli inquirenti sarebbe stata uccisa per salvare l’onore del capoclan. Il presunto mandante sarebbe Bruno Stilo, l’esecutore materiale Fortunato Pennestrì (considerato il reggente della cosca dopo l’arresto del boss) entrambi condannati a fine 2013 a 30 anni con una sentenza che ha rispecchiato in pieno l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Sara Ombra. I due sospettavano che mentre il marito era detenuto la donna fosse incinta di un altro uomo di cui si era innamorata- o Pietro Calabrese, poi trasferitosi a Roma o Domenico Megalizzi, scomparso nello stesso periodo, che riceveva telefonate a casa da parte di una ragazza di nome Angela –  l’avrebbero strangolata il 16 marzo 1994 nell’appartamento che abitava da circa un mese a Reggio Calabria in via XXV luglio, in un immobile al piano terra che, per decenni, è stato il feudo storico della cosca Lo Giudice e poi ne avrebbero occultato il cadavere pur di salvare l’onore del capoclan. Per il Gup Indellicati che ha deciso la condanna dei due ’ndranghetisti, come emerso dai documenti di natura medica agli atti dell’indagine, la situazione della donna «poteva essere compatibile sia con una disfunzione ginecologica, sia con un aborto precoce, a seguito di una gravidanza molto recente». Durante il processo sull’omicidio Mollace aveva difeso le sue scelte investigative con qualche «non so, non ricordo» di troppo, tanto che in una lettera al Collegio presieduto da Silvia Capone lo stesso magistrato ammise di non aver ricordato bene, tanto che il pm Beatrice Ronchi spingerà, con le sue indagini, a indurre il presidente del Collegio a verbalizzare «la falsità delle affermazioni di Mollace». Ad aprire squarci di luce sulla vicenda, finita anche su Chi l’ha visto, fu soprattutto Maurizio Lo Giudice, che nel ’99 indicò in Pennestrì l’esponente più di spicco della cosca Lo Giudice, insieme a Bruno Stilo («Era lui che prendeva in mano tutta la famiglia… dopo che sono stati arrestati… andava pure a chiedergli i soldi), e nell’ipotizzare che la donna, madre di quattro figli, fosse invaghita di un altro («Aviva perdutu a testa, dottori!») . La conferma a Maurizio Lo Giudice l’avrebbe data lo stesso Pennestrì, che poi avrebbe contribuito a depistare le indagini. Le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice di fine anni Novanta («In quei giorni Natino Pennestrì prese la palla al balzo, disse che Angela si lamentava con tutti noi che si buttava dal porto, dai ponti, così creò un po’ di pubblicità che era pazza, dei falsi ricercamenti, che portarono per… la credibilità che Angela era veramente malata») non furono considerate credibili fin quando il pm Beatrice Ronchi deciderà di riaprire le indagini e incrociarle con le affermazioni di almeno altri due collaboratori di giustizia considerati attendibilissimi, appunto Paolo Iannò e Domenico Cera. Insomma, la cosca decapitata da Cisterna all’inizio degli anni Novanta era ancora pienamente operativa, tanto da orchestrare un omicidio. Nino, Maurizio e Luciano avevano rapporti privilegiati con magistrati e forze dell’ordine, come raccontano le ultime vicende giudiziarie. Adesso per Mollace si apre un processo difficile. Le cui conseguenze, anche sui delicatissimi equilibri tra la Procura reggina e quella catanzarese, potrebbero essere inimmaginabili…

Il giudice e Lo giudice, continua Felice Manti. Chi difende lo Stato in Calabria? Le forze dell’ordine, quando non si dimostrano a busta paga dei boss. I politici, quando non vanno in udienza a casa dei capifamiglia a elemosinare voti. E poi ci sono i magistrati… E qui il discorso – per chi ha voglia di farsi qualche domanda – si complicano. Cominciamo da Giancarlo Giusti, l’ex gip di Palmi arrestato dalla Procura di Catanzaro per un presunto«patto scellerato» con la cosca Bellocco di Gioia Tauro. Su Giusti i primi sospetto erano sorti quando nel 2009 furono scarcerati tre esponenti della potente famiglia della Piana: Rocco Bellocco, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco detto «Micu ’u Lungo», gettando alle ortiche mesi di lavoro investigativo. Scattarono le intercettazioni e «venne scoperta – così dice il procuratore della Repubblica di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – una corruzione accertata dopo una prima richiesta di archiviazione, in una  vicenda che evidenzia un tradimento degli obblighi professionali, fermo restando il principio di presunta innocenza». Secondo un magistrato, un suo collega si sarebbe venduto (per circa 120mila euro) facendo scarcerare personaggi di spessore della ndrangheta calabrese. Se è vero saranno i processi a dirlo. Ma le accuse sono pesantissime: corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di avere favorito un’associazione mafiosa, ed il famigerato concorso esterno.  Che cosa possa essere successo quando Giusti ha lavorato al Riesame a Reggio Calabria è ancora tutto da scoprire. Giusti era (ed è ancora) agli arresti domiciliari per un’altra faccenda poco chiara. Il 27 settembre del 2012 l’ex gip era stato infatti condannato a quattro anni per i suoi rapporti con la cosca Lampada, aveva tentato il suicidio il giorno successivo al carcere di Opera. Circa un mese dopo, il 29 ottobre, un perito del tribunale di Milano aveva stabilito che nel carcere di Opera non poteva ricevere le cure psichiatriche di cui aveva bisogno dopo il tentato suicidio. Qual era la natura dei suoi rapporti con la presunta cosca dei Lampada? Favori in cambio di sesso, a causa di una personalità fragile: «La sua è una vera e propria ossessione per il sesso, per lo più a pagamento; ha esigenze economiche legate a un tenore di vita sicuramente elevato; ricerca spasmodicamente occasioni di guadagno parallele in operazioni immobiliari e di varia natura», scrivono i giudici milanesi che lo hanno incastrato qualche anno prima, quando in una telefonata intercettata, Giusti non si faceva scrupolo a dire: «Non hai capito chi sono io.. sono una tomba .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Un finto bullo, sembrerebbe, che alla sorella (la telefonata è agli atti) , dopo avere avuto la notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare del Csm sulla base anche dell’inchiesta della Dda di Catanzaro, dice: «È finita per me, guarda che vengono di notte e mi prendono… è finita».

La domanda è: com’è possibile – se è vero – che nessuno si sia accorto che un importante magistrato fosse alla fine un uomo fragile, assetato di soldi e di sesso e ben disposto a fare affari con le cosche in cambio di soldi? A quanto pare non sarebbe il solo. C’è un altro nome che merita qualche riga. Si chiama Vincenzo Giglio, è un giudice ed è finito nello stesso vortice di Giusti: gli affari con il clan Lampada-Valle, su cui la letteratura giudiziaria (soprattutto sul fronte della famiglia Lampada) è abbastanza scarna. Ma tant’è. Giglio e l’ex finanziere Luigi Mongelli (condannato a 5 anni e tre mesi, contro i 4 anni e 7 mesi di Giglio) , furono arrestati nel novembre 2011 nell’ambito dell’inchiesta milanese sul clan Valle-Lampada e oggi sono agli arresti domiciliari, in attesa della sentenza d’appello, anche grazie a una sentenza che stabilì l’incostituzionalità di quella parte dell’articolo 275 del codice di procedura penale che prevede l’obbligo della custodia in carcere per chi è accusato di reati aggravati dal cosiddetto articolo 7, ovvero reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. (Piccola parentesi. Quando uscì in agenzia la notizia del tentato suicidio di Giusti le agenzie scrissero che la vittima era Giglio, e che era morto. Amen). Cosa avrebbe combinato Giglio? Corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la cosca mafiosa. La sorte di Giglio era legata a doppio filo con quella dell’ex consigliere regionale Pdl Franco Morelli, condannato in primo grado a 8 anni e 4 mesi e interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e il presunto boss Giulio Lampada(«Non è mai esistito quel clan, non ce n’è traccia negli atti», dissero allora i suoi legali Ivano Chiesa e Manlio Morcella), re dei videopoker a Milano condannato a 16 anni.  Il giochino, secondo i pm, era facile. L’ex maresciallo Gdf Mongelli intascava mazzette assieme ad altri colleghi per non fare i controlli sulle macchinette mangiasoldi. Il giudice Giglio, amico di Morelli, avrebbe fatto pressioni per piazzare la moglie a commissario della Asl di Vibo Valentia e in cambio avrebbe offerto al politico qualche «dritta» sulle indagini che lo riguardavano. Entrambi erano in rapporti con Lampada, cui avrebbe fatto comodo una copertura politica dopo il «mascariamento» del suo precedente cavallo politico di battaglia, quell’Alberto Sarra di cui si parla nel libro Madun’drina, che nel 2007 al telefono (intercettato) con Lampada parla, anzi straparla: «Quando mi muovo a Milano ho una chiavetta nera. Ho praticamente un centinaio di sportelli Bancomat perché quella è la chiave del cambiamoneta (cioè dei videopoker, ndr). Ti faccio un esempio: stasera sono con te e mi serve da prendere mille euro, vado in uno dei bar, apro e me li prendo». Al telefono Lampada e Giglio progettano anche la costituzione di una finanziaria. Dice in un’intercettazione l’ex macellaio di Reggio: Dobbiamo trovare, Alberto, una bella banca, qua su Milano, che ci faccia fare quello che vogliamo… Quello che vogliamo… io intendo dire… attenzione! Non che ci fottiamo i soldi alla banca, mi sa che non rientra nelle nostre…. E la cosa si complica… Sarra viene coinvolto in un’altra inchiesta su mafia e politica, quella che ipotizza un ruolo dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio beccato dai Ros a una cena con Sarra assieme ad alcuni esponenti della cosca Ficara. De Gregorio fu archiviato perché riuscì a dimostrare di non sapere chi fossero, a differenza di Sarra, i suoi interlocutori.  Scrivevo a fine 2010: «Quell’avviso di garanzia a Sarra, dicono i Ros, aveva fatto crollare il sogno dei Lampada e avrebbe portato Sarra a “interrompere ogni collegamento con esponenti vicini alla criminalità organizzata” per non aggravare la sua posizione giudiziaria». Morto un papa se ne fa un altro. al posto di Sarra arriva appunto Morelli, consigliere regionale calabrese. Il 13 febbraio 2008 viene intercettata una telefonata fra Giulio Lampada, nato a Reggio Calabria il 16 ottobre 1971, e Morelli. Dice il primo: «La chiamavo per salutarla siccome sapevo che doveva salire a Milano in questa settimana, non l’ho sentita per nulla, ho detto io lo chiamo vediamo se verifi… se sale per caso a Milano… così». Ma bisogna anche rileggersi un informativa del Ros dei carabinieri in cui si parla di rapporti “oscuri” tra i Lampada e i fratelli Vincenzo e Mario Giglio, cugini del giudice.  Scrivevo ormai quattro anni fa: «Vincenzo, medico di professione, secondo i carabinieri “voleva scalare i vertici della politica locale di Reggio Calabria”. Alle politiche del 2008 tentò invano di farsi eleggere nel movimento La Rosa bianca. Con Giulio Lampada avrebbe creato un intenso rapporto cominciato con un affare: l’acquisizione di un immobile nel pieno centro di Milano. Il problema è che, secondo i pubblici ministeri, i Lampada rappresentano “quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso” con “compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso” legato alla cosca Condello, guidata da Pasquale Il Supremo, arrestato nel febbraio 2008 dopo diciotto anni di latitanza. E qui il malaffare s’intreccia con un omicidio che ha riscritto la storia politica recente. Il fratello di Vincenzo Giglio, Mario, ha lavorato nelle segreterie politiche di due consiglieri regionali coinvolti in vicende inquietanti. Era il capo della segreteria di Franco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria eletto nelle fila della Margherita e assassinato a Locri il 16 ottobre del 2005. Poi diventerà capo della segreteria di Crea, che all’inizio del 2008 finisce in carcere nell’inchiesta Onorata sanità su un giro di corruzione e pressioni mafiose. Basta così? Non proprio. C’è ancora l’affaire Lo Giudice, l’ex pentito Antonino che ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone. Poi si è rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. Il problema è che c’è di mezzo anche un pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia, legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: si chiama Gianfranco Donadio e secondo Lo Giudice  gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Ma se ci fossero altri magistrati in riva allo Stretto collusi con le cosche?

Accusato di corruzione, Mollace: “Solo spazzatura e servile disprezzo mediatico”. Su "Strill". Riceviamo e pubblichiamo dal magistrato Francesco Mollace – «Apprendo dai soliti ben accreditati nelle stanze giudiziarie che la Procura di Catanzaro avrebbe depositato una richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti. Resto in attesa di riceverne conferma ufficiale e nei modi previsti dalla legge, ammesso che il rispetto dei diritti dei cittadini abbia ancora un qualche valore in certi palazzi. Con la serenità di chi non ha niente da farsi perdonare e niente da nascondere, sono certo che un giudice terzo e imparziale saprà fare giustizia della spazzatura raccolta in alcuni anni di indagini e di servile dileggio mediatico. Per mio conto sono sicuro di aver dimostrato con documenti inoppugnabili di avere circa venti anni fa arrestato, fatto condannare e determinato alla collaborazione componenti dell’allora cosca Lo Giudice. Mai ricevuto niente da chicchessia. L accusa è fondata su illazioni e le regole del processo mi rendono sereno. Francesco Mollace».

Il fratello del pm antimafia al ricevimento del boss. A essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, è Vincenzo Mollace, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso. Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.

«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia. «Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione». 

"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno”, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".

Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

Parliamo di Antimafia e dell’esigenza di essere sempre sulle prime pagine dei giornali. Bisogna dare un senso alla santificazione dei magistrati, quasi tutti di sinistra. Ed allora, quando la politica con Renzi ha le prime pagine di tv e stampa, ecco che si inventa una minaccia per dare lustro ad una immagine appannata dei magistrati. L’ultima sensazionale minaccia è quella di Totò Riina. Salvatore Riina, soprannominato Totò o ancora Totò u' curtu (Corleone, 16 novembre 1930), è un criminale italiano, legato a Cosa Nostra e considerato il capo dell'organizzazione dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. Viene indicato anche con i soprannomi U curtu, per via della sua statura e La Belva, adottato per indicare la sua ferocia sanguinaria. Un vecchio rinchiuso in un carcere di sicurezza dallo Stato. Lo Stato del quale parlo è quello che, in base al regime del 41 bis, tiene 24 ore su 24 sorvegliato Riina, in isolamento, e con il divieto assoluto di comunicare con l'esterno. Proprio in considerazione di questo, il giornalista del «Giornale di Sicilia» Vincenzo Marannano, conclude: «Chi diffonde i suoi messaggi non aiuta in qualche modo a veicolare i suoi ordini? E non può quindi essere accusato di favoreggiamento?». Comunque un dato è rilevante: può lo Stato, dico lo Stato, avere paura di un vecchio rinchiuso da decenni in un carcere? Può un solo magistrato essere tanto osannato e protetto rispetto ad altri suoi pari che svolgono il suo stesso lavoro e ricevono le stesse minacce? La storia parla chiaro: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti solo perché è lo Stato e la Magistratura che li ha uccisi, abbandonandoli al loro destino, lasciandoli soli, emarginandoli. Quello Stato e quei magistrati che invece avrebbero dovuto difenderli e tutelarli. Ma tanto, in una Italia caposotto, la verità sarà sempre stravolta.

Quando la mafia si combatte soltanto a parole. Nessuno torcerà un capello a Nino Di Matteo. E la ragione è evidente. La mafia uccide (non solo d'estate) e non annuncia, scrive Vittorio Sgarbi. «Nessuno torcerà un capello a Nino Di Matteo. E la ragione è evidente. La mafia uccide (non solo d'estate) e non annuncia. C'è qualcosa di inquietante nell'attrazione per il martirio che induce a dare pubblicità a notizie riservate, ignorate perfino dai ministri dell'Interno e della Giustizia. Invece di agire, si parla. E si diffondono altre parole, da intercettazioni riservate. Rinunciando a tutela e prudenza si praticano proclami e allarmi. La persona minacciata rilascia interviste, stuzzica lo Stato, pretende solidarietà e convocazioni. Se Napolitano tace è perché è il garante dell'innominabile patto Stato-mafia, anzi della «trattativa». Non lo dice un facinoroso, ma il fratello di un magistrato ucciso dalla mafia, che non conosce limiti e pudori, e tanto meno senso dello Stato. È tollerabile che su un quotidiano nazionale Salvatore Borsellino dichiari: «Napolitano è garante di quella trattativa Stato-mafia sulla quale è oggi in corso un processo che si vuole fermare»? Naturalmente il processo è quello voluto da Di Matteo, che ha comunque ragione perché è stato minacciato. E Borsellino può continuare affermando: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni». È possibile accettare queste posizioni senza che nessuno, un altro e diverso Di Matteo, apra un'inchiesta per vilipendio al capo dello Stato? Per una dichiarazione non sua, su un magistrato, il vituperato Sallusti è stato condannato a un anno di reclusione. Borsellino invece può dire ciò che vuole. Io non considero Napolitano garante di alcuna trattativa, ma semplicemente amico del «suo» vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Ma chi minaccia Di Matteo? Il pericolosissimo Totò Riina? E qual è il suo potere reale? Da 20 anni sta in un carcere di massima sicurezza. Ogni sua azione e ogni suo pensiero sono controllati. Chi dovrebbe ascoltarlo e mettere in atto i suoi propositi, i suoi ordini espressi in sfoghi privati che mai non conosceremmo se non fossero stati intercettati e scelleratamente resi pubblici? Gli unici complici che ha Riina sono i magistrati che diffondono i suoi pensieri. Se Riina è reso inoffensivo dallo Stato che lo ha arrestato, perché dobbiamo ritenerlo pericoloso e potente anche in carcere? Perché dobbiamo alimentarne la leggenda? Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice. Ne garantisce il peso e la considerazione. La mafia firma un crimine, non lo annuncia.  Il rischio della tutela eccessiva dei diritti è il ridicolo. Tra le tante categorie che chiedono attenzione per non essere discriminate viene difficile immaginare che ci siano anche gli «ambasciatori gay». Senza molta diplomazia, alcuni di loro hanno chiesto che a chi, tra gli ambasciatori, ha un compagno omosessuale, venga garantito lo stato di «coniuge». Gli ambasciatori hanno moglie o marito con passaporto diplomatico, assicurazione sanitaria, rimborso delle spese di viaggio, oltre all'indennità per servizio estero, quando, al pari di un coniuge, il «compagno» o la «compagna» non abbiano lavoro autonomo. Che dire nel caso in cui il lavoro fosse di scrittore o giornalista? In riferimento all'articolo dal titolo «Stato-mafia, Sgorbi Quotidiani: "Riina complice di Di Matteo"», a firma di Claudio Forleo, pubblicato in data 03.01.2014 sul sito http://it.IBTimes.com [...], si chiede la pubblicazione della seguente lettera di rettifica e replica: Coloro che mi hanno verbalmente aggredito, non hanno ancora contraddetto le analoghe osservazioni del Procuratore Antimafia. Io non mi farò intimidire dal loro squadrismo. Alla luce di questa idea dello Stato, nel quale mi rispecchio, e che ritengo più forte della mafia, io non mento. Mente Salvatore Borsellino, esattamente «facinoroso», sospettoso dello Stato, anche nei suoi vertici più alti, come il Presidente della Repubblica, e che non è giustificato, nella offesa, da essere fratello del magistrato Paolo Borsellino. Lo Stato del quale parlo è quello che, in base al regime del 41 bis, tiene 24 ore su 24 sorvegliato Riina, in isolamento, e con il divieto assoluto di comunicare con l'esterno. Proprio in considerazione di questo, il giornalista del «Giornale di Sicilia» Vincenzo Marannano, conclude: «Chi diffonde i suoi messaggi non aiuta in qualche modo a veicolare i suoi ordini? E non può quindi essere accusato di favoreggiamento?» E' esattamente il mio pensiero, evidentemente legittimo. Lo Stato non è colluso se non nella ipotesi di Di Matteo, già smentito da altri magistrati che hanno assolto Mori, negando la presunta «trattativa tra Stato e mafia». Ma non si può dire e neanche pensare. Allo stesso modo nessuna valutazione, in quanto tale, e non per sentito dire, può essere falsa, ma, semmai, opinabile. Né può essere contestato il mio diritto di parlare con argomenti insensati. Siamo o eravamo in democrazia. Io non «ignoro» e non faccio «finta di ignorare» che Di Matteo è sotto minaccia da oltre un anno, come lo è Domenico Gozzo, ma anche io lo sono stato, e non ho chiesto particolari protezioni avendo denunciato gli sporchi affari della mafia nella cosiddetta «energia pulita». E, benché sotto scorta, non ho avuto alcuna solidarietà. Evidentemente, in quel caso, l'azione della mafia non era ritenuta preoccupante. E si trattava di minacce trascurabili, diversamente da quelle a Di Matteo. Nessuno, tra gli «specialisti dell'antimafia», ha osservato che, se non per retorica, non c'era alcun elemento di riscontro per sciogliere Salemi per infiltrazioni della criminalità organizzata. Non esiste a Salemi «criminalità organizzata», e l'inchiesta indiziaria contro uno non può essere assimilata a nessuna associazione, né diretta né per concorso esterno. Anche questa è una grave anomalia: l'espressione di uno Stato che agisce sotto la pressione di chi possiede la verità rivelata. Per questo ribadisco, con forza, e pretendendo davanti a un Tribunale, che le mie affermazioni siano rispettate. Punto primo. Siamo di fronte a un'impostura. E siccome lo Stato è anche il mio Stato, io non intendo che nessuno lo umili in nome di una sua personalissima lotta alla mafia, di cui non discuto la buona fede, ma la sostanza delle affermazioni. Che, che se appassionate, possono essere false. Anzi, sono false. Per questo fra il Presidente Napolitano e Salvatore Borsellino, io sto con Napolitano, e ne ho tutto il diritto. Mentre Salvatore Borsellino non ha il diritto, in nome della morte di suo fratello, di fare affermazioni senza fondamento, del genere di quella intollerabile, e nemica dello Stato quanto lo è la mafia (e non giustificata dal martirio di Paolo Borsellino): «Da 20 anni Napolitano è il garante della trattativa Stato-Mafia». E siccome sono convinto di quello che dico, e ho fiducia nella magistratura quando essa agisce in nome della verità, ho dato mandato al mio avvocato, come cittadino di questo Stato, di denunciare anche Salvatore Borsellino per vilipendio al Capo dello Stato. Sarà dunque un Tribunale, e non un sito autoproclamatosi «antimafia», a stabilire quale è la verità. E se Napolitano sia stato il garante della trattativa Stato-Mafia. Punto secondo. Siccome nessuno ha più titolo di altri, se non rispetto alle cose che ha fatto, e alle esperienze politiche di vita, di dichiararsi «rappresentante dell'antimafia», «sindaco antimafia» e altre suggestive formule, dovrebbe essere stata una sufficiente lezione vedere i recenti casi in cui chi si è rispecchiato in queste categorie, e lo ha manifestato pubblicamente, sia stato scoperto per il suo inganno. Dunque non ho alcuna fiducia in chi fa proclami e pretende di avere più titoli e dignità di me, insultandomi e aggredendomi. Ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni, ma non esiste qualcuno che ha un'investitura con libertà d'infamare, di mentire e d'insultare. Io ho espresso una opinione discutibile, ma per smontarla occorre dimostrare il contrario. Non farsi forte di un presunto diploma o attestato di antimafia che può essere miseramente e tristemente sconfessato. Punto terzo. Sono fermamente convinto che il Pm Di Matteo non corra reali rischi. E credo di poterlo dire. La mafia non avvisa, ma soprattutto, chi è minacciato, non deve necessariamente farlo sapere, ne è opportuno che intercettazioni o notizie riservate siano fatte circolare per creare allarme. Ho espresso molti dubbi sul potere attuale e reale di Totò Riina. Ritengo che una dichiarazione o uno sfogo non coincidano con una minaccia sostanziale da parte di chi è in stato di cattività e isolamento. Ognuno può decidere di dare il peso che desidera alle parole di un criminale in carcere. Mi chiedo però perché, superata l'attività di magistrato, non debba correre lo stesso rischio Antonio Ingroia, del quale nessuno sembra preoccuparsi. La mia sensazione è che, per mostrarsi al centro di una possibile azione criminale, Di Matteo abbia come obiettivo di affiancarsi ai martiri Falcone e Borsellino. Ma in una situazione nella quale non s'intende da dove arrivi il pericolo, e si può pensare che il magistrato, mostrandosi in una strada senza uscita e in condizioni di pericolo, mediti di entrare in politica, come il suo collega. In tal caso le minacce paventate aumentano la popolarità e credibilità. Ma il rischio vero è molto discutibile, come ha ricordato, del resto, il Procuratore Nazionale antimafia. E io sono assolutamente certo, ma tutto è discutibile, che nessuno torcerà un capello a Di Matteo. Questo è il mio pensiero, e non vedo perché, averlo espresso, mi abbia esposto a insulti inaccettabili e per i quali promuoverò l'azione penale confidando nell'equilibrio dei magistrati che si occuperanno del caso. Vittorio Sgarbi».

Ci limitiamo a mettere in parallelo due notizie, scrive Filippo facci. La prima la sapete, Grillo ha chiesto alle Forze dell’ordine di non proteggere più la classe politica, tutta, indiscriminatamente: e l’ha chiesto nel periodo degli ultimi quarant’anni in cui l’odio per la classe dirigente è in assoluto più forte, col movimento dei forconi che semina tempesta e un movimento di coglioni che si aggrega e spacca tutto. Avrete orecchiato anche la seconda notizia: per gli spostamenti del pm siciliano Nino Di Matteo, a proposito di sicurezza, si è invece valutato l’utilizzo di un carro armato modello Lince (già usato in Afghanistan) e anche di un bomb-jammer, avveniristico marchingegno che neutralizza i dispositivi attivabili con telecomando. Il dettaglio, a margine delle due notizie, è che l’odio antipolitico è un dato palpabile e certo, mentre le minacce a Di Matteo non sono certe manco per niente: gli stessi giornali che hanno montato il caso ammettono che «si sa poco» e citano delle frasi genericissime di Totò Riina, intercettato in carcere - pare - anche se il ministro Anna Maria Cancellieri ha dichiarato che «non esistono minacce esplicite di Riina nei confronti di magistrati». Tanto è bastato perché una cronista del Fatto Quotidiano scrivesse su Twitter: «Che razza di Stato è questo che permette alla mafia di condizionare l’attività dei suoi servitori... Vergognatevi, peracottari da strapazzo». Colpa dei politici. Di che? Non sappiamo, ma è colpa loro.

Dalle stragi all'antimafia. Riina: "Il capo dei capi sono io", scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. È difficile credere che non immaginasse di essere intercettato. Totò Riina ci consegna, forse volontariamente, il suo pensiero. Parla, anzi straparla. Al di là della sua reale o presunta chiamata alle armi che affida alle microspie, il capo dei capi si autoaccusa di delitti e stragi. Si apre, andando oltre il suo ostinato dichiararsi innocente. Ci porta alle origini del male di cui è stato incarnazione vivente. Si conferma quell'uomo rabbioso che all'inizio degli anni Novanta sfidò lo Stato a colpi di bombe. Una rabbia alimentata dal regime del carcere duro. Il padrino corleonese non ha ceduto, ma il 41 bis è stata una batosta persino per uno come lui. Non a caso, lo definisce “una condanna nel codice penale italiano che non può ingoiare nessuno”. E così si sfoga. Quello stesso Stato che aveva messo in ginocchio lo ha sepolto in galera. “Se io verrò fra altri mille anni io verrò a fargli guerra per questa legge”. Di sé parla spesso al passato: “Io sono stato un nemico pericoloso, non ne avranno mai, non gliene capiteranno più. Uno e gli è bastato e se ne debbono ricordare sempre. Per dire come quello non ce n'è, quello ci ha combinato tutte le cose del mondo”. E le "cose del mondo" a cui fa riferimento sono stati soprattutto gli attentati e le stragi di Capaci e via D'Amelio. A cominciare dal tritolo che uccise il giudice Rocco Chinnici nel 1983: “... prima fanno i carrieristi a spese dei detenuti... poi saltano in aria quando gli succede quello che gli è successo... quello là saluta e se ne saliva nei palazzi. Ma che disgraziato sei, saluti e te ne sali nei palazzi, Minchia truuu e poi e sceso, disgraziato, il procuratore generale era di Palermo... per un paio di anni mi sono divertito quando vi mettevamo quella va suona". Poi, toccò a Giovanni Falcone: "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì dall'aeroporto, non è a Palermo... fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua”. E proseguì con Paolo Borsellino: “Cinquantasette giorni dopo minchia la notizia l'hanno trovata là dentro…l'hanno sentita dire... deve andare da sua madre…allora gli ho detto preparati, aspettiamolo lì”. Riina sembra, però, prendere le distanze dalle stragi in Continente. Quella di Firenze per esempio, per la quale tira in ballo un suo compaesano eccellente: "A Firenze ci devi mandare a Binnu Provenzano... se sono siciliano perché le devo andare a fare fuori dalla Sicilia?". Con Provenzano non è tenero, deve essere successo qualcosa che ha incrinato il loro rapporto: "Non era del convento mio, certo lo rispettavo ma lui era convinto che le cose erano a tarallucci e vino". Lo critica per il modo in cui avrebbe trattato i suoi figli, quei "picciutteddi che sono un pezzo di pane" e che Binu avrebbe "lasciato in mezzo alla strada. Mischini". Forse il riferimento è al ritorno a Corleone della moglie e dei figli di Provenzano poco prima della strage di Capaci". Strage fa lui spesso richiamato, come quando cita il giudice Antonino "Caponnetto che piangeva. Disgraziato ma cosa ci piangi. Ora lo piangi che stava facendo morire a me (si riferisce a Giovanni Falcone) perché non glielo dicevi prima che smetteva". Poi, il riferimento forse al appello: "La cosa si fermò... ma non è che si è fermata... Comunque... Io l'appunto gliel'ho lasciato". Parla proprio delle richieste avanzate ad alcuni esponenti delle Istituzioni per mettere fine alla stagione stragista? Sta, insomma, parlando della trattativa fra la mafia e lo Stato per cui è in corso un processo nel quale è imputato anche Nicola Mancino? Sul punto Riina sembra avere le idee piuttosto chiare: "Ma che vogliono sperimentare... che questo Mancino trattò' con me... così loro vorrebbero... ma se questo non è venuto mai". E quella di via Capaci e D'Amelio non sarebbero state neppure le ultime stragi. Se solo lo Stato, quello Stato che lo ha sepolto al 41 bis, non lo avesse fermato: “... se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello”. Anche perché, se ne rammarica, nessuno ha saputo raccogliere il suo testimone. Neppure Matteo Messina Denaro a cui non risparmia parole dure: “Questo qua questo figlio lo ha dato a me per farne quello che dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia tutto in una volta si è messo a fare luce in tutti i posti... fanno altre persone ed a noi ci tengono in galera, sempre in galera però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare”. Ecco, se lo Stato ha rialzato la testa, la colpa è anche e soprattutto di chi non ha fermato il lavoro dei magistrati. I magistrati sono la sua ossessione. Quei magistrati che si fanno, a suo dire, propaganda per fare carriera: “Ci strisciano, ci mangiano, ci bevono sopra e ci sfasciano…perché si ringalluzziscono, perché c’è la popolazione che li difende, che li aiuta... sono magistrati quelli, fanno i carrieristi a spese dei poveri detenuti, carrieristi e denaro”. E così si arriva al paradosso. A Riina che celebra Sciascia: “Vivono così e Salvatore Sciascia (sbaglia il nome di battesimo dello scrittore di Racalmuto) li chiamava per questo i professionisti dell’antimafia". "Così sono i professionisti dell’antimafia - spiega stizzito il padrino ad Alberto Lorusso - tanto professionisti che a questi Sciascia non li poteva vedere, li aveva come l’uva da appendere, ma sempre li attaccava, dalla mattina alla sera, perché vedeva quello che facevano, lo constatava lui, che sembrava un mafioso vero, ma poi quello era una persona studiosa, onesta, però l’Italia è fatta così…”.

Riina in carcere ordina l'attentato a Di Matteo. "Deve succedere un manicomio...", scrive “La Repubblica”. I colloqui del "Capo dei capi" con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". "Berlusconi perché si è andato a prendere lo stalliere?" Ecco le intercettazioni.

Parla il boss: "Io, il mio dovere l'ho fatto. Ma continuate, continuate... qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...". Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. E uccidere i magistrati che indagano su di lui nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Divertirsi per lui significa anche far fuori "tutte le paperelle " che stanno intorno ai giudici, gli agenti delle scorte. "Qua qua qua", ripete il capo dei capi di Cosa nostra mentre passeggia all'ora d'aria in un camminatoio del carcere milanese di Opera con un compagno detenuto, Alberto Lorusso, ufficialmente solo un affiliato alla Sacra Corona Unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi. Gli dice Riina: "Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello". Gli ribatte Lorusso: "Noi abbiamo un arsenale". Noi chi? È quello che stanno cercando di scoprire in Sicilia. Queste sono le prime intercettazioni del boss sulle minacce ai pm di Palermo, depositate agli atti del processo sulla trattativa.

SERVE UN'ESECUZIONE. Il 16 novembre 2013, alle ore 9.30, Totò Riina ordina l'eliminazione del pubblico ministero Nino Di Matteo "che deve fare la fine dei tonni". Intima: "E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più". Una telecamera nascosta riprende il boss mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. Aggiunge: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". Riina ha un odio viscerale contro questo pubblico ministero, che con i suoi colleghi (Del Bene, Tartaglia e Teresi), sta scavando dentro i misteri della trattativa: "Vedi, vedi... si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo... come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia.... perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina".

LA TRATTATIVA E LO STATO. Il capomafia di Corleone  -  che non ha mai perso un'udienza del processo per la trattativa  -  sembra furioso per come l'hanno trascinato nell'inchiesta sui patti fra lo Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del 1992. E ancora una volta la sua ira si scatena contro il pm palermitano: "Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato ". E prevede: "Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore ucciso a Palermo nel 1970 ndr), a questo gli finisce lo stesso". Poi Lorusso lo informa di quanto ha sentito in televisione: "Dicevano che il presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti, che dicono che non deve andare a testimoniare". Gli risponde Riina: "Fanno bene, fanno bene.. ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nella corna a quelli di Palermo". Lorusso incalza: "Sono tutti con Napolitano, lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina azzarda: "Io penso che qualcosa si è rotto...".

SILVIO E I GRAVIANO. Il 6 agosto, Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel "buffone" di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma "stanno vedendo come fare per salvarlo ". E a questo punto Riina si lancia in un'altra delle sue invettive: "Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo". E subito dopo: "Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto". Il 25 ottobre il boss di Corleone ritorna a parlare del Cavaliere. E anche dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio sospettati di avere avuto molti contatti economici con l'imprenditoria di Milano. Di loro dice: "Avevano Berlusconi... certe volte...". Segue un'altra parola, incomprensibile. Ma, adesso, Riina lascia intendere che ha qualche riserva anche sui suoi fedelissimi di un tempo, i Graviano.

LE RISERVE SULL'EREDE. C'è grande fibrillazione al vertice di Cosa nostra. Non sono soltanto i Graviano a preoccupare Riina. A lui non piace neanche la strategia del superlatitante Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi". È davvero un giudizio duro. "Questo fa i pali della luce -  aggiunge, riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto -  ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce". E lo accusa di interessarsi solo ai suoi affari. "Fa pali per prendere soldi", dice.

CAPACI E VIA D'AMELIO. "Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano". Sono le parole con le quali Totò Riina rievoca i giorni della strage di Capaci. "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, dall'aeroporto... siamo andati a Roma, non ci andava nessuno, non è a Palermo.... fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua. Andammo a tentoni, fammi sapere quando prende l'aereo ". Ma resta un discorso a metà. Da chi i mafiosi dovevano sapere dell'arrivo di Falcone a Palermo? Lo stesso mistero resta nei discorsi che Riina fa sulla strage Borsellino: "Cinquantasette giorni dopo, minchia, la notizia l'hanno trovata là dentro... l'hanno sentita dire... domenica deve andare da sua madre, deve venire da sua madre... gli ho detto... ah sì, allora preparati, aspettiamolo lì". Chi aveva comunicato ai mafiosi che Borsellino sarebbe andato da sua madre domenica pomeriggio? Riina fa riferimento a "quello della luce... anche perché ... sistemati, devono essere tutte le cose pronte, tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: "Se serve mettigli qualche cento chili in più...". E dopo la strage del 19 luglio, il mistero della scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. "Si fottono l'agenda, si fottono l'agenda". Ma chi? Anche questo resta un mistero.

IL PAPA E LA GRAZIA. "Non gliene capiteranno più di nemici, così, come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre... gli ho fatto ballare la samba", dice Riina parlando di se stesso. Poi, scherza: "Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare? Minchia loro non sanno, non sanno, ma il Signore gliela paga, gliela ripaga pure a loro". E alla fine cita il Pontefice "Questo è buono, questo papa è troppo bravo ".

LA MAIL SEGRETA. Totò Riina e Alberto Lorusso sono a conoscenza di una mail girata riservatamente sui pc di tutti i procuratori di Palermo. Ne fanno cenno, ricordando che i magistrati -  qualche mese fa  -  volevano arrivare tutti in aula al processo sulla trattativa per solidarietà con Nino Di Matteo. Notizia segretissima. Eppure Totò Riina e il suo amico Lorusso, tutti e due al 41 bis, la conoscevano.

I GUAI DI BERLUSCONI. In una conversazione avvenuta il 20 settembre 2013, i due parlano dei "guai" dell'ex premier. Non si sa se guai giudiziari o di carattere politico. Rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "Se lo merita, se lo merita. Gli direi io 'ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?'". Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr.) mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto".

Le parole di Riina per Di Matteo: "Mazzata nelle corna, fine del tonno", scrive “La Repubblica”. "Facciamola grossa e non ne parliamo più", "Ci vuole una mazzata nelle corna": depositata parte delle intercettazioni del capo dei capi di Cosa nostra con il boss della Sacra corona unita Alberto Lo Russo in cui il capomafia minaccia Di Matteo, che rappresenta l'accusa nel processo per la trattativa tra Stato e mafia che vede tra gli imputati proprio il boss corleonese" "Ma perché questa popolazione non vuole ammazzare nessun magistrato?". I boss a conoscenza di notizie riservate. "E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più". Sono le 9.30 del 16 novembre 2013 e il boss mafioso Totò Riina parla con il boss della Sacra Corona Unita Alberto Lo Russo durante l'ora della cosiddetta 'socialita' nel carcere milanese di Opera. I due parlano del pm antimafia Antonino Di Matteo, che rappresenta l'accusa nel processo per la trattativa tra Stato e mafia che vede tra gli imputati proprio il boss corleonese. Mentre Riina dice "organizziamola questa cosa", tira fuori la mano dal cappotto e gesticolando mima il gesto di fare in fretta, come scrivono gli uomini nella Dia nella parte delle intercettazioni depositate questo pomeriggio dai pm nel processo per la trattativa. Riina dimostra di non avere paura di Di Matteo: "Vedi, vedi - dice - si mette là davamti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce...". Poi sul progetto di attentato: "Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo... Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari". "Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono", continua Riina con Lorusso. "Questo pubblico ministero di questo processo che mi sta facendo uscire pazzo". Riina nei dialoghi intercettati nel carcere di Opera con il boss Lo Russo è incontenibile: "Se io restavo fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo, al massimo livello. Ormai c'era l'ingranaggio, questo sistema e basta. Minchia, eravamo tutti, tutti mafiosi". Ma Riina, aggiornato in tempo (quasi reale) da Lorusso, apprende della richiesta di testimonianza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al processo sulla trattativa. Lorusso lo informa che le tv rilanciano le dichiarazioni del vice presidente del Csm (Vietti) e di altri politici che ritengono che il capo dello Stato non debba testimoniare. Riina approva: "fanno bene, fanno bene... ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nelle corna... a questo pubblico ministero di Palermo". Al che Lorusso dice: "sono tutti con Napolitano dice che non ci deve andare. Lui è il presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina afferma: "Io penso che qualcosa si è rotto...". E poi i primi (cronologicamente) riferimenti riconducibili al pm Nino Di Matteo: "Di più per questo, per questo signore che era a Caltanissetta, questo che non sa che cosa deve fare prima. E' un disgraziato... minchia è intrigante, minchia, questo vorrebbe mettere a tutti, a tutti, vorrebbe mettere mani... ci mette la parola in bocca a tutti, ma non prende niente, non prende...". In Procura cresce la preoccupazione perché i boss sarebbero a conoscenza di notizie mai pubblicate: il 14 novembre scorso gli inquirenti trascrivono l'ennesima intercettazione captata nel cortile di Opera. Quando la notizia delle minacce di Riina al pm Di Matteo era finita sui giornali, i magistrati decisero di presentarsi in massa in Tribunale per manifestare ai pm del processo per la trattativa tra Stato e mafia la loro solidarietà. Ma la decisione non era stata ancora ufficializzata nè era finita sui giornali o in tv e se n'era parlato soltanto via mail tra pm e poche persone. Così è Lorusso ad avvisare il 14 novembre scorso Riina: "...hanno detto che alla prossima udienza ci saranno tutti i pubblici ministeri all'udienza... saranno presenti tutti". E Riina annuisce: "Ah tutti". Una notizia circolata solo sulla mailing list interna al Palazzo di giustizia. "Mi viene una rabbia - continua Riina - ma perchè questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato? A tutti... ammazzarli, proprio andarci armati e vedere...". Si ingalluzziscono, proprio si ingalluzziscono... perchè c'è la popolazione che li difende, che li aiuta. Quelli però che devono andare a fare la propaganda là, sono quelli che devono andare a fare la propaganda. Hanno lo scopo in testa per uno strumentìo (strumentalizzazione ndr) completamente e le persone sono con loro...". "Quelli si meritavano questo e altro - continua Riina - questo è niente quello che gli feci io! Gli ho fatto, però meritavano. Se ci fosse stato qualche altro avrebbe continuato e non hanno continuato e non hanno intenzione di continuare, nessuno". E il boss corleonese, sempre il 30 ottobre, rivendica le sue gesta e sembra che nessuno in Cosa nostra riesca a seguire le sue orme. Tanto che Lorusso dice: "E così subiscono sempre, così subiscono, subiscono, subiscono e continueranno a subire". Nei dialoghi con Lo Russo c'è anche un accenno alla strage Chinnici: "Quello là salutava e se ne saliva nei palazzi. Ma che disgraziato sei, saluti e te ne sali nei palazzi. Minchia e poi è sceso, disgraziato, il procuratore generale di Palermo". Chinnici fu ucciso da un'autobomba il 29 luglio del 1983. Il capomafia si dice deluso da quello che è ritenuto l'attuale capo di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi. Questo fa i pali della luce - aggiunge riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto - ci farebbe più figura se se la mettesse in c... la luce".

“Il 1964. Nel gennaio nacque Giovanni, un cherubino, pieno di riccioli e con le guanciotte rotonde. Quando venne al mondo, io ed Elvira eravamo in casa con la vecchia Rosalia. Papà telefonò per avvisarci che il fratellino era nato e, per comunicarci quanto era bello, disse: “Sembra una peschina”. Mamma, per entrare di ruolo, avrebbe dovuto prendere servizio nel febbraio a Cittadella del Capo, Bonifati, in Calabria, provincia di Cosenza, Non c’erano tutele di sorta per la maternità, allora, quindi i miei fecero una scelta difficile: papà rimase a Partanna con Elvira, mentre io andai a Cittadella con mamma e Giovanni. (…) Mamma, Giovanni e io vivevamo al piano terra di una casetta nella parte bassa del paese. Era forse la terza di una strada che portava al mare: al mattino, come prima cosa, aprivo le finestre e annusavo l’aria. Attorno, le altre avevano dei giardini: li curava un omone enorme di nome Dante. Mi intimoriva un po’ – con tutte quelle lame e quegli strumenti strani in mano – , io invece dovevo fargli tenerezza perché, qualche volta, quando scendevo al mare con mamma e il fratellino, tagliava una rosa e me la regalava.” * da Caterina Chinnici E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte: Storia di mio padre, Mondadori.

Non sono tutte belle le storie che seguono le tracce della propria memoria, dei propri affetti. E, soprattutto, se rispondono alla necessità, psicologica, affettiva, di chi le scrive, non tutte hanno una corrispondente, ampia, necessità in chi legge. E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte: Storia di mio padre - quasi una lunga, intima, lettera d’amore d’una figlia al padre - è un libro di ricordi bello e necessario. Che, attraverso le parole della figlia, anche lei magistrato figlia di magistrato, attualmente a capo del Dipartimento Giustizia Minorile, restituisce nella sua dimensione di uomo e giudice Rocco Chinnici, magistrato ucciso il 29 luglio del 1983, alla cui grandezza non ha corrisposto, fino ad ora, adeguata memoria collettiva.

Ed a proposito di magistrati.......Se il giudice rinvia a giudizio... ma non sa perché. Nel rinvio a giudizio degli imputati per la presunta trattativa Stato-mafia, nel marzo 2013, il giudice Morosini certificava: «Il mio non è un giudizio su attendibilità, coerenza e inquadramento giuridico del reato». E allora che ci sta a fare?, si chiede Maurizio Tortorella su “Panorama”. Avanza stancamente il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, basato sulle indagini condotte dall'ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Se non fosse per un articolo pubblicato sul Fatto quotidiano di oggi, venerdì 21 febbraio, da Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino e azionista del giornale: dove Tinti, da giurista onesto, sottolinea un particolare fin qui sottaciuto. Quando il 7 marzo 2013 il giudice dell'udienza preliminare Piergiorgio Morosini decise a favore del rinvio a giudizio degli imputati, uomini dello Stato e mafiosi, accusati di «violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario» (art. 338 codice penale), ecco che cosa scrisse il magistrato nella sua premessa per l'avvio del procedimento: «L'esposizione (cioé lo scritto che segue, l'atto del rinvio a giudizio, ndr) non intende programmaticamente esplicitare giudizi di attendibilità, coerenza, logicità e collegamento sulle fonti, né argomentare sull'inquadramento giuridico delle condotte». Tradotto dal giuridichese: quel 7 marzo il giudice Morosini decide di mandare a processo 10 imputati (i tre boss Leoluca Bagarella, Totò Riina e Antonino Cinà; il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca; l’ex ministro democristiano Calogero Mannino; l'ex senatore senatore del Pdl Marcello Dell’Utri; l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino; e tre alti ufficiali dei carabinieri: i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno) ma dice chiaramente di non intendere dare all'inchiesta patenti di attendibilità, coerenza logica, attendibilità delle fonti. Viene da domandarsi che cosa ci stia a fare un giudice per l'udienza preliminare: perché è esattamente quello l'ambito del suo lavoro. Ovversossia districarsi fra le prove presentate, stabilirne una qualche logicità e attendibilità. E alla fine decidere se bastino per mandare l'imputato (in questo caso gli imputati) sotto processo. Poi altri giudici decideranno se bastano o meno a una condanna. Ma il giudice Morosini nel suo scritto va oltre; aggiunge perfino di non volersi esprimere sulla qualificazione del reato, ipotizzata dalla Procura di Palermo: quella dell'attentato-minaccia a un corpo politico dello Stato. Lo stesso Tinti, allontanandosi non poco dalla campagna condotta dal Fatto quotidiano, da sempre schierato a garanzia delle certezze di Ingroia, scrive che la premessa di Morosini «è in parte equivoca e in parte giuridicamente errata». Spiega Tinti: «Le fonti sono le prove, e non si capisce come si possa stabilire se un imputato deve essere processato senza valutare "attendibilità, coerenza, logicità delle prove"». Poi Tinti aggiunge: «Morosini deve averle ritenute attendibili, coerenti e logiche (le prove, ndr), altrimenti il rinvio a giudizio sarebbe davvero privo di senso. Ma privo di senso resta perché, coerentemente con la premessa, Morosini non ha detto nulla sulla qualificazione giuridica dei fatti», cioè sul reato da contestare agli imputati. Non è un colpo da poco, al processo palermitano. Perché con questo articolo Tinti ha in qualche modo autorevolmente affiancato la sua critica a quella appena espressa dal giurista (di sinistra) Giovanni Fiandaca e dallo storico (di sinistra) Salvatore Lupo nel libro «La mafia non ha vinto, il labirinto della trattativa» (Laterza, 154 pagine, 12 euro). Nel libro, Fiandaca critica alla radice la qualificazione giuridica dell'ipotesi di reato, l'art. 338: lo ritiene non pertinente ai fatti, che a suo modo di vedere riguardano esclusivamente scelte politiche pienamente discrezionali. E legittime. Bruno Tinti, nel finale del suo articolo, assimila il giudice a Ponzio Pilato. Ha fondamentalmente qualche ragione, perché la Cassazione ha sentenziato che in ogni decreto di rinvio giudizio sia «indispensabile» che i fatti accertati dal Pm vengano inquadrati in precisi articoli di legge. Per questo la scelta di Morosini di non voler argomentare sull'inquadramento giuridico delle condotte degli imputati, aggiunge Tinti, è «insensata». È come se il giudice palermitano avesse scritto: sì, probabilmente la trattativa ci fu, ma non so dire se sia illegittima. Ma allora viene da chiedersi: il rinvio a giudizio su quale base è stato concesso? E che cosa ci sta a fare in un tribunale un giudice per l'udienza preliminare? Certo, alla luce del «giudizio pilatesco» di Morosini, viene da sorridere rileggendo le parole che il giorno stesso del rinvio a giudizio aveva pronunciato Ingroia: «Sono molto soddisfatto dell’esito dell’udienza preliminare che conferma integralmente l’impostazione che io e il pool da me coordinato avevamo ricostruito nel corso di questi lunghi anni di indagine. Finalmente questa decisione di un giudice terzo, di grande competenza e autorevolezza pone la parola fine a tutte le maldicenzee accuse infamanti piovute addosso ai pm della procura di Palermo senza che noi potessimo replicare».

Ed a proposito di questo processo…….Pino Arlacchi (Pd): "Il processo sulla trattativa Stato-mafia è una bufala". Il politico, amico di Falcone e Borsellino, nel numero di Panorama in edicola dal 20 febbraio 2014 spiega che "...non c'è una prova seria a sostegno di questa allucinazione". «Il processo Stato-mafia si concluderà con il totale flop dell’inchiesta di Antonio Ingroia & soci. È una bufala su cui si sono costruite carriere immeritate: non c’è una sola prova seria a sostegno di questa allucinazione». In un’intervista che il settimanale Panorama pubblicherà sul numero in edicola da domani, giovedì 20 febbraio, così parla Pino Arlacchi, amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nonché tra i massimi esperti internazionali di criminalità organizzata. Arlacchi, eurodeputato del Pd e già parlamentare del Pds per due legislature, stronca la madre di tutte le inchieste: quella che a Palermo ipotizza una trattativa per bloccare le stragi di mafia dopo il 1992-93. Secondo Arlacchi, il processo è basato su elementi inconsistenti: «Ci sono solo le vanterie di un killer, Gaspare Spatuzza, che in quanto tale non poteva sedere al tavolo dei negoziati e che parla per sentito dire; più le bufale di un calunniatore patentato come Massimo Ciancimino. Mi vanto di essere stato il primo a denunciare le panzane di questo personaggio, esaltato oltre il lecito e trasformato in un’icona dell’antimafia dai megafoni della Procura di Palermo». Con Panorama Arlacchi parla anche di Totò Riina, il boss mafioso che esattamente 20 anni fa lo minacciò di morte affiancandolo a Gian Carlo Caselli e Luciano Violante: «Rottamiamo una certa idea della mafia» dice Arlacchi. «Riina è un capomafia di 84 anni, in galera da 21: è solo e abbandonato, secondo tradizione mafiosa. È stato intercettato nel giugno 2013 mentre si sfoga contro tutto e tutti: da Silvio Berlusconi ai pubblici ministeri, fino a quelli che dovrebbero essere i suoi più stretti sodali. La credibilità delle sue farneticazioni è zero». «Il processo Stato-mafia si concluderà con il totale flop dell’inchiesta di Antonio Ingroia & soci. È una bufala su cui si sono costruite carriere immeritate: non c’è una sola prova seria a sostegno di questa allucinazione». A stroncare la madre di tutte le inchieste, quella che a Palermo ipotizza una trattativa per bloccare le stragi di mafia dopo il 1992-93, è Pino Arlacchi, tra i massimi esperti internazionali di criminalità organizzata. Nessuno può sospettarlo di ambiguità o cedimenti, la storia di Arlacchi parla per lui. Parlamentare europeo del Pd e in passato deputato del Pds, nonché vicepresidente dell’Antimafia e grande amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Arlacchi ha vissuto per 13 anni sotto scorta da quando, il 25 maggio 1994 nell’aula del tribunale di Reggio Calabria, Totò Riina lanciò un anatema contro «la combriccola dei comunisti» e fece i nomi dei suoi tre principali nemici: Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia; Gian Carlo Caselli, che era procuratore capo di Palermo; e «quell’Arlacchi che scrive libri». Tommaso Buscetta, il primo grande pentito di mafia, disse subito: «Queste sono condanne di morte». La critica di Arlacchi, oggi si affianca a quella, letteralmente demolitrice, di altri due uomini di sinistra: il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupo, che nel libro La mafia non ha vinto non trovano alcun illecito nella presunta trattativa Stato-mafia. In questa intervista esclusiva a Panorama, al motto «rottamiamo una certa idea della mafia», lo studioso non risparmia critiche a chi, in nome della lotta alla mafia, «ha voluto costruirsi una carriera».

Perché l’inchiesta Stato-mafia è un errore?

«È basata su un’ipotesi grottesca: una connection tra Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giovanni Conso e Nicola Mancino da un lato, e i vertici corleonesi di Cosa nostra dall´altro. Il tutto attraverso il Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, e i servizi segreti, che negoziano un armistizio; e alle spalle di due eroi sprovveduti come Falcone e Borsellino, che continuano a combattere senza rendersi conto di essere già morti».

E questa è l’«allucinazione» di cui lei parla?

«Sì. Un’allucinazione. E non c´è una sola prova seria a sostegno. Ci sono solo le vanterie di un killer, Gaspare Spatuzza, che in quanto tale non poteva sedere al tavolo dei «negoziati» e che parla per sentito dire; più le bufale di un calunniatore patentato come Massimo Ciancimino. Mi vanto di essere stato il primo a denunciare le panzane di questo personaggio, esaltato oltre il lecito e trasformato in un’icona dell´antimafia dai megafoni della Procura di Palermo.

Le vittime di questa «bufala» sono tante.

«Mi amareggia assai il fango gettato su persone perbene come Mancino e Conso, accusati senza il più piccolo indizio o prova di avere tradito il loro mandato. Mancino è stato un ministro dell´Interno inflessibile e coraggioso contro Cosa nostra. Conso è un insigne giurista, mai sfiorato da un sospetto di collusione o cedimento a interessi illeciti».

L’inchiesta Stato-mafia si basa sui pentiti. Ma quasi sempre in tribunale si contraddicono. Poi c’è il caso del falso pentito Vincenzo Scarantino, in gennaio ospite in tv da Michele Santoro e arrestato a fine puntata: era l’oracolo di alcuni pm della procura di Caltanissetta: ma con le sue menzogne ha mandato in carcere per 17 anni sette innocenti. C’è un cortocircuito nelle inchieste che certifica la loro credibilità, o non ci sono più i pentiti d’onore?

«Non esistono pentiti senza magistrati. Le discussioni sui pentiti sono in realtà discussioni sui magistrati. Se scade la professionalità degli inquirenti, scade il valore della risorsa «pentito». Se il collaboratore di giustizia diventa o no determinante in un caso giudiziario dipende dal pm che lo ha in carico. Se l'inquirente è capace di trovare i riscontri giusti alle dichiarazioni di un collaboratore, ed è poi anche capace di gestire il caso che ne consegue, la giustizia ha fatto bingo. È questo il caso della coppia Falcone-Buscetta, che ha prodotto il maxiprocesso del 1987, cioè l'inizio della fine della mafia siciliana».

Il pentito falso o manipolatore, invece?

«Quello è l'inizio della fine della giustizia. È lui che conduce gli inquirenti dove vuole. Oppure dice ciò che i pm vogliono sentire, lanciando accuse senza fondamento, confidando nel fatto che non si farà alcuna verifica seria fino al dibattimento in aula. Nel frattempo, i bersagli designati saranno già stati distrutti dalla canea mediatica alimentata dalle carte e dalle notizie fornite illegalmente ai cronisti giudiziari dei maggiori quotidiani».

Non è stato sempre così.

«No. Basta ricordare il caso di Giuseppe Pellegriti, un mafiosetto da strapazzo che tentò di dire a Falcone ciò che molti volevano fosse detto a proposito di Salvo Lima, e si beccò un'incriminazione per calunnia (dallo stesso Falconem nell'agosto 1989. ndr) perché aveva inventato tutto. Oggi i suoi verbali sarebbero sui giornali del mattino dopo, verrebbe invitato da Michele Santoro e darebbe lezioni di antimafia».

Antonino Di Matteo, pm di punta dell’inchiesta Stato-mafia, in un’intervista a Skytg24 ha detto: «C’è l’intenzione del Riina di portare all’esterno una volontà omicidiaria e stragista nei confronti dei magistrati di Palermo». Lei quasi vent’anni fa, era stato condannato a morte, proprio dal Riina in aula giudiziaria. Che cosa ne pensa?

«Rottamiamo una certa idea della mafia. Riina è un capomafia di 84 anni, in galera da 21, solo e abbandonato secondo tradizione mafiosa. È stato intercettato nel giugno 2013 mentre si sfoga contro tutto e tutti: da Silvio Berlusconi ai pubblici ministeri, fino a quelli che dovrebbero essere i suoi più stretti sodali. La credibilità delle sue farneticazioni è zero».

Sempre il pm Di Matteo ha dichiarato un fatto sconcertante: da intercettazioni ambientali risulterebbe che Riina, arrestato il 15 gennaio 1993, fino al 2005-2006 era considerato ancora il vero capo dai suoi sodali in libertà…

«Di Matteo dice che le ultime notizie su un ruolo importante di Riina dentro Cosa nostra risalgono ad almeno 4 o 5 anni fa, e si riferiscono a situazioni di una ventina di anni prima. Ma il circo mediatico-giudiziario italiano omette le date e si ostina a tenere in piedi l´immagine di una Cosa nostra che non esiste più e di una leadership di Riina altrettanto inesistente».

È possibile una ripresa dello stragismo mafioso, come molti magistrati e suoi colleghi europarlamentari sostengono?

«No, non siamo alla vigilia dell´Apocalisse. La ripresa della strategia stragista e la resurrezione della mafia del tempo che fu sono da escludere. Non ci sono stati né attentati né stragi dopo gli sproloqui di Riina del giugno passato, e non ce ne saranno nel futuro immediato. Per fortuna. Mi dispiace per gli ammalati di protagonismo e per i venditori di paura, ma oggi gli apparati della sicurezza non sottovalutano più gli elementi di rischio. Gli investigatori sotto tiro vengono ben protetti, e la mafia non ha più la forza militare, logistica e politica per sfidare frontalmente lo stato. Meglio eroderlo dall´interno».

Ma Cosa nostra è potente come nel 1993?

«Cosa nostra di Riina è stata fatta a pezzi dal maxiprocesso del 1987 e dalle indagini di Rocco Chinnici, Falcone, Borsellino, Antonino Caponnetto. Il culmine dello scontro è avvenuto nel biennio 1992-93, il «biennio magico» secondo Gian Carlo Caselli, che ci ha portato il sacrificio di Falcone e Borsellino, è vero, ma anche la sconfitta della strategia stragista della mafia. Nella prima metà degli anni Novanta siamo andati molto vicini alla distruzione della mafia, ma all'ultimo minuto non siamo riusciti a darle il colpo di grazia».

Dopo quel periodo come è sopravvissuta Cosa nostra?

«Dopo il 1993 ha adottato una strategia di sopravvivenza, che prosegue tuttora, basata su un uso minimo della violenza e sull´intensificazione dei rapporti con la politica corrotta e con la criminalità economica e finanziaria. Strategia coerente con quella adottata da tutti i grandi gruppi criminali in Russia, nel Kosovo, in Colombia, nel Medio Oriente e in Asia. Meno violenza, più affari e più diversificazione dei mercati: meno droga, più appalti, contraffazione, false fatture, truffe».

E come si può debellarla?

«Si parla pochissimo, e si indaga troppo poco, sulla realtà criminale di oggi. Dei suoi legami coperti con la politica e con il mondo della spesa pubblica. Se fossi il direttore di un giornale manderei in pensione i cronisti giudiziari storici. Gente che vive in un mondo che non esiste più e sa parlare solo di fatti di venti o trenta anni fa e di personaggi che sono morti, in galera o incapacitati ad agire. Lo stereotipo mediatico-giudiziario sulle mafie italiane è vecchio di 30 anni. È tempo di rottamare anche qui».

"Ho sentito i nastri distrutti: Napolitano insultava Ingroia". Vittorio Sgarbi ospite della "Zanzara" lascia cadere la bomba sulle intercettazioni della procura di Palermo andate al macero. E Mancino confidò le sue paure sull'inchiesta, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Grazie a delle «fonti giudiziarie» Vittorio Sgarbi ha potuto ascoltare le telefonate segrete tra il presidente Napolitano e l'ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino nel 2011, intercettate dalla Procura di Palermo che indaga sulla trattativa Stato-mafia. Alla Zanzara Sgarbi rivela il contenuto di una delle conversazioni tra Mancino e il presidente della Repubblica: «Mancino dice a Napolitano: "Sai, vorrei che fosse Grasso a occuparsi di me e non Ingroia". A quel punto il capo dello Stato risponde: "Caro Nicola, Ingroia è una testa di cazzo, uno stronzo". Per questo non ha voluto che fossero rese note. Non c'entra niente con la trattativa». In sostanza Mancino, indagato dai pm Ingroia e Di Matteo (per «falsa testimonianza») insieme ad altri undici indagati con l'accusa di «concorso esterno in associazione mafiosa» e «violenza o minaccia a corpo politico dello Stato», chiede di essere giudicato da un tribunale che considera più equo, quello della Direzione nazionale antimafia guidata allora da Pietro Grasso, attuale presidente del Senato. E domanda a Napolitano di adoperarsi per questo fine. Un intervento che non compete al capo dello Stato e che non viene fatto, perciò la registrazione viene giudicata penalmente irrilevante dalla Procura e distrutta. «Mancino ha vagamente provato senza riuscire a ottenere niente da Napolitano, perché dove si incardina l'inchiesta lì rimane, cioè a Palermo. Ma Mancino sa che chi lo giudica è un suo nemico politico, e vuoi essere giudicato da uno più equilibrato, mi pare giusto. C'erano una serie di registrazioni del parlato di Napolitano, che era colloquiale, con espressioni che si usano in una telefonata privata. Le telefonate sono ininfluenti, e non si capisce perché non le volessero far distruggere, anche perché i magistrati stessi hanno detto che non c'era niente di rilevante penalmente. E allora se non c'è niente di utile alle indagini perché devo sentire uno scambio privato dove c'è uno sfogo privato?» racconta Sgarbi. Che nella registrazione non ha trovato riferimenti ad altri personaggi di cui si era scritto nelle ricostruzioni (Salvatore Borsellino, Berlusconi, Di Pietro). «La telefonata fotografa una situazione di conflitto tra due procure, una garantista che era quella di Grasso (la Dna, Direzione nazionale antimafia, ndr), e l'altra giustizialista che è quella di Di Matteo e Ingroia. Che ha rinviato a giudizio Mancino, lo ha paragonato a Totò Riina, e Mancino si rivolge a Napolitano che prende atto di quello che dice Mancino ma non può fare niente e infatti non ha fatto niente. Non si capisce quale sia la necessità di sentire le telefonate tra i due dal momento che Mancino resta indagato da Palermo, prova del fatto non c'è stato alcun intervento». «Quindi la parolaccia al telefono con Mancino è perfettamente lecita - dice Sgarbi a Radio24 - ma pubblicandola verrebbe fuori che il presidente della Repubblica ha una certa animosità contro Antonio Ingroia. E questi sono cazzi suoi». Lo scontro tra le due procure si è materializzato pochi giorni fa nella relazione della Dna, che arriva a definire «preoccupante» il processo sulla «cosiddetta trattativa» (virgolettato testuale) Stato-mafia. Giudizio firmato tra l'altro da un magistrato, Maurizio De Lucia, che negli anni '90 ha lavorato proprio a Palermo come pm antimafia. «Tale processo - sottolinea la relazione della Dna - non può non destare oggettivi motivi di preoccupazione in relazione all'impostazione del processo sulla cosiddetta trattativa». Una bordata a cui ha risposto il pm Di Matteo: «È l'ennesima entrata a gamba tesa contro un processo che dà fastidio a tutti».

PARLANO ANTONIO IOVINE E CARMINE SCHIAVONE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.

Parla Iovine, boss pentito: "Cultura della mazzette diffusa dallo Stato. I politici tutti uguali, senza differenza di colore". «So benissimo di quali delitti mi sono macchiato, ma posso spiegare un sistema in cui la camorra non è l'unica responsabile». Sono le prima dichiarazioni - in sintesi - di Antonio Iovine, nel corso del processo che si sta celebrando a Santa Maria Capua Vetere. Secondo il boss pentito, Antonio Bardellino venne realmente ammazzato in Brasile nel 1988. In uno dei verbali depositati, Mario Iovine parla anche del sistema degli appalti sulle grandi opere. Stando al pentito c'era un accordo tra politica, clan e impresa, alla luce delle dichiarazioni rese ai Pm Ardituro e Sirignano. Dice il boss pentito: «C'erano soldi per tutti, in un sistema che era completamente corrotto, in questo ambito si deve considerare anche la parte politica ed i sindaci dei comuni che avevano interesse a favorire essi stessi alcuni imprenditori in rapporto con il clan per aver vantaggi durante le campagne elettorali, in termini di voti e finanziamenti. Devo specificare che non aveva alcuna differenza il colore politico del sindaco». «Generalmente io ero del tutto indifferente rispetto a chi si candidava a sindaco nel senso che chiunque avesse vinto automaticamente sarebbe entrato a far parte di questo sistema da noi gestito». Lo ha detto il boss dei Casalesi Antonio Iovine al pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro in un interrogatorio del 17 maggio 2014. «Devo però anche dire - ha aggiunto - che altre persone del clan potevano avere passione per la politica e comunque un interesse per un candidato piuttosto che per un altro». Nel corso dei verbali depositati al tribunale di Santa Maria Capua Vetere il boss pentito Antonio Iovine, prova a spiegare quella che definisce una «mentalità casalese», determinata anche dalla mancanza dello Stato. Spiega il boss pentito per ricostruire «l'abbraccio tra Stato e camorra»: «Quando parlo di mentalità casalese dico che c'è stata inculcata fin da giovani. E' la regola del 5%, della raccomandazione, dei favoritismi, la cultura delle mazzette e delle bustarelle che, prima ancora che i camorristi, ha diffuso sul nostro territorio proprio lo Stato, assente nell'offrire opportunità alternative e legali alla nostra popolazione». «Anche la parte politica che dovrebbe rappresentare la parte buona dello Stato è stata quantomeno connivente con questo sistema se non complice - si legge ancora nel verbale. - Sicuramente era del tutto consapevole di come andavano le cose. Era noto a tutti che per esempio la ditta per le refezioni scolastiche era un'impresa di Antonio Iovine, eppure nessuno si è mai opposto a questo sistema. Per esempio, a San Cipriano una personalità come Lorenzo Diana, che pure ha svolto un'azione politica dura di contrasto alla criminalità organizzata facendo parte anche della commissione antimafia, ha permesso che noi continuassimo ad avere questi appalti anche quando erano sindaci Lorenzo Cristiano e Angelo Reccia della sua stessa parte politica. Il sistema è andato avanti fino al 2008 e allo stesso modo nulla ha avuto da ridire il sindaco Enrico Martinelli che era invece del centrodestra - conclude il pentito. - Alcuni milioni di euro erogati dal ministero dell'Agricoltura per il rimboschimento nell'alto Casertano finirono nelle casse della cosca - racconta Iovine. - Si trattava di lavori appaltati attraverso finanziamenti del Ministero dell'Agricoltura - dice - e Della Volpe Vincenzo ottenne di essere colui che avrebbe gestito per conto del clan i relativi appalti. Della Volpe utilizzò anche imprese del Napoletano, vivai che avevano le categorie giuste per accedere a questi finanziamenti. Se non sbaglio questi finanziamenti si riferiscono al periodo in cui il ministro dell'Agricoltura era Alemanno e ricordo il particolare che il ministro venne a San Cipriano per una manifestazione elettorale al cinema Faro su invito di mio nipote Giacomo Caterino, anche lui impegnato in politica tanto che è stato candidato alle elezioni comunali e provinciali ed è stato anche sindaco di San Cipriano.»

Antonio Iovine nato a San Cipriano di Aversa il 20 settembre del 1964, conosciuto come ’o ninno, soprannome attribuitogli sia per il suo volto da bravo ragazzo, sia perché il primo arresto arrivò quando era giovanissimo, è stato a capo dei clan dei Casalesi. Dopo la morte nel 1988 di Antonio Bardellino, un gruppo di malviventi mise in piedi una cupola molto potente insieme a quella dei corleonesi: i boss Antonio Iovine, Francesco Bidognetti, Francesco (Sandokan) Schiavone e Michele Zagaria per decenni dettarono le regole in materia di appalti, di costruzioni abusive, ma anche di traffici illeciti di rifiuti (tra cui materiale radioattivo), un tema delicato che di recente è stato oggetto di numerose inchieste. Condannato all’ergastolo in via definitiva nel corso del processo Spartacus, Antonio Iovine è stato arrestato nell’autunno del 2010, grazie a un blitz della Mobile all’epoca guidata da Vittorio Pisani, all’interno di un covo in una abitazione di Casal di Principe. Dopo quindici anni di latitanza e quattro di carcere duro, il boss ha deciso di pentirsi e di iniziare a parlare con i pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. “Iovine è giovane, non ha ancora 50 anni - scrive Roberto Saviano – ed ha dei figli perfettamente inseriti nella vita della borghesia romana e campana. Recluso nel carcere duro, condannato all’ergastolo e con decine di inchieste sulla testa o ‘ninno ha capito che probabilmente per lui non restava altra strada che collaborare. Così, lui che a differenza di altri boss non aveva rinunciato a vivere pur di non essere arrestato, non aveva confinato la sua esistenza tra le pareti di un bunker che, per quanto attrezzato è sempre una buca, ha capito che dal carcere non sarebbe mai uscito. Antonio Iovine potrà chiarire e raccontare molto, moltissimo: potrà parlare delle voci che lo hanno descritto (senza mai nessuna conferma giudiziaria) come il burattinaio dietro la scalata di Ricucci, Coppola e Statuto. Potrebbe chiarire il potere della famiglia Cosentino e dei rapporti con tutta la politica degli ultimi vent’anni in Campania e non solo”. L’inizio della collaborazione sarebbe preceduta da un paio di segnali: il cambio degli avvocati e il trasferimento di tutti i parenti a rischio in località segrete: la moglie, Enrichetta Avallone, 45 anni, finita in carcere nel 2008 per una vicenda di estorsione e tornata in libertà nel luglio del 2011; e il figlio, Oreste, 25 anni, che invece è tuttora detenuto: fu fermato il 19 ottobre del 2013, insieme ad altre quattro persone vicine alla fazione del clan guidata dal padre, con l’accusa di associazione mafiosa, estorsione e traffico di droga.

La notizia che il boss dei Casalesi ha iniziato a collaborare con la giustizia è ancora fresca di stampa mentre Rosaria Capacchione ce ne offre una prima analisi, scrive Vincenzo Iurillo su “Il Fatto Quotidiano”. La Capacchione, giornalista de Il Mattino in aspettativa da quando è stata eletta senatore nel Pd, vive sotto scorta da sei anni per le minacce del clan. Ma già nel 1996 il pentito Dario De Simone raccontò ai magistrati di un progetto per ucciderla. Fu incaricato il cugino di Iovine, Michele, capozona di Casagiove. Doveva procurarsi la foto e fare gli appostamenti. Il piano fu accantonato. Michele Iovine è stato poi assassinato nel 2008, due mesi prima del proclama in aula dell’avvocato del boss, Michele Santonastaso, in seguito al quale furono decise le misure di protezione per la giornalista. O Ninno (il Bimbo) canta, i pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano lo ascoltano, l’indiscrezione finisce su Il Mattino e Repubblica, ed ora in molti tremano. A cominciare da quel grumo oscuro di intrecci tra politica, camorra e imprenditoria intorno al business dell’emergenza rifiuti in Campania. In atti all’inchiesta su Cipriano Chianese, l’imprenditore leader del traffico illecito della spazzatura in Campania, si trovano le dichiarazioni sulla nascita di Ecologia89, la prima società che tratta l’affare della monnezza: Antonio Iovine ne era di fatto uno dei tre proprietari. Fu l’atto di nascita dell’ecomafia come sistema. Un modus operandi creato da Iovine e Francesco Bidognetti, il ministro dei rifiuti della camorra, insieme alla parte bidognettiana del clan che aveva i contatti con Licio Gelli tramite Gaetano Cerci, un cugino di Bidognetti, che entrava e usciva da Villa Wanda. Iovine è nato a San Cipriano d’Aversa 50 anni fa. Insieme a Michele Zagaria si è trovato a reggere le sorti del clan dei Casalesi dopo gli arresti di Francesco Bidognetti e Francesco Schiavone, avvenuti tra il 1993 e il 1998. Legatissimo alla famiglia Schiavone, ha finito per acquisirne il controllo delle truppe. Condannato all’ergastolo al termine del processo Spartacus, O Ninno è stato catturato il 17 novembre 2010 dopo 14 anni di latitanza. Durante i quali ha curato affari e strategie della cosca, il traffico di droga, il racket, le infiltrazioni negli appalti pubblici, il modo di riciclare i proventi nel centronord. Trovando però il tempo di viaggiare, conoscere il mondo, fare un po’ di bella vita. Esistono sue foto a Parigi e in Costa Azzurra. “E’ l’unico dei grandi boss che non è stato catturato in un bunker sottoterra – ricorda la Capacchione – e quindi era l’unico che verosimilmente poteva pentirsi, non avendo legami viscerali col territorio”.

Affari e politica, i segreti di 'O Ninno che fanno tremare l'impero dei clan. Arrivato ai vertici giovanissimo, è stato il ministro dell'economia della camorra. La sua testimonianza potrebbe cambiare per sempre le conoscenze sulla grande criminalità, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Il boss Antonio Iovine ha deciso di pentirsi: non è uno qualunque. È un capo, è "il ministro dell'economia" della camorra. È stato condannato all'ergastolo nel processo Spartacus e a 21 anni e sei mesi nel processo Normandia. Ora vuole collaborare con la giustizia: è una notizia che rischia di cambiare per sempre la conoscenza delle verità su imprenditoria e criminalità organizzata non solo in Campania, non solo in Italia. Antonio Iovine detto 'o ninno per il suo viso di bambino ma soprattutto per aver raggiunto i vertici del clan da giovanissimo non è un quadro intermedio, un riciclatore delle famiglie, non un solo capo militare. È uno che sa tutto. E quindi ora tutto potrebbe cambiare. La terra trema per una grossa parte dell'imprenditoria, della politica, per interi comparti delle istituzioni. Le aziende grandi e piccole che hanno ricevuto, che sono nate e che hanno prosperato grazie ai flussi di danaro provenienti da Antonio Iovine, si sentono come in una stanza le cui pareti si stringono sempre più. Il talento di Iovine è sempre stato quello di saper far fruttare il flusso di danaro del narcotraffico, delle estorsioni, delle truffe oltre che sfruttare alla grande gli appalti statali. Tutto il segmento nero diventava investimento vivo, costruzione vera: imprese edili, ristoranti, import-export. Uno dei primi colpi di 'o ninno fu proprio l'acquisto della discoteca Gilda a Roma: una delle sue prime mosse personali nella capitale. Seguendo l'indicazione del padrino Bardellino, Roma era la vera fortezza da espugnare e Iovine l'ha sempre saputo. Ed è qui che si è legato ai tre settori cardine della capitale: cemento, intrattenimento, politica. Ha provato a scalare la squadra di calcio della Lazio, riciclando 21 milioni di euro provenienti dall'Ungheria, attraverso il suo parente Mario Iovine detto Rififì, a Roma ha investito nel settore del gioco d'azzardo legale. Esistono molti boss della mafia pentiti. Ma nella camorra è diverso: Iovine è stato ai vertici dei Casalesi per oltre dieci anni, non esistono precedenti simili, se non forse quello di Pasquale Galasso, capo della Nuova famiglia. L'altro pentito del clan dei Casalesi che ha cambiato la storia è stato Carmine Schiavone ma era un capo della vecchia generazione, marginalizzato nell'ultima fase, che decise di pentirsi proprio perché estromesso dai vertici, lui che era fondatore del gruppo. Iovine è l'organizzazione. Perché ha deciso di collaborare? A dicembre scorso 'o ninno ha revocato i suoi avvocati. La prima cosa che ho pensato è stata che si sarebbe pentito. L'ho scritto e, come speso accade fui deriso e preso per visionario. Invece è successo ma non riesco ancora a capire perché. Sicuramente gran parte del merito ce l'ha Antonello Ardituro il pm che da anni instancabilmente segue le vicende del Ninno. I grandi capi del clan dei Casalesi Francesco "Sandokan" Schiavone e Francesco Bidognetti si fanno il carcere, sepolti vivi, detengono il potere nel silenzio. Quando un capo è al 41bis sa che non può più realmente comandare ma il suo silenzio è l'assicurazione sui soldi della famiglia e soprattutto è un valore generazionale. Un boss non ragiona in anni ma in epoche. Il silenzio di un boss ha un valore inestimabile per i suoi nipoti. È la vera dote. Un investimento sul futuro. Ma 'o ninno è sempre stato un boss sui generis. A differenza di Zagaria definito "il monaco" per l'attenzione maniacale a una vita moderata e disciplinata, Iovine non ha fatto una latitanza da recluso. In 14 anni di latitanza, prima di essere arrestato a Casal di Principe il 17 novembre 2010 si è molto mosso soprattutto in Francia, in Emilia e in Toscana e a Roma, ha seguito il flusso del danaro e i reinvestimenti. Non ha ancora compiuto 50 anni (è nato il 20 settembre del '64), ha figli giovani, attivissimi su Facebook, e che sono a pieno titolo nella vita sociale della borghesia casertana e romana, una figlia amica di presentatrici tv, importanti imprenditori edili da sempre a stretto contatto con il suo gruppo familiare e suo figlio Oreste che recentemente è finito in galera per traffico di droga, perché dopo l'arresto del padre ha voluto prendere in mano l'organizzazione senza averne davvero le capacità. Enrichetta Avallone, sua moglie condannata a 8 anni, gestiva la sua rete di comunicazione e il Ninno dovrà spiegare come mai un uomo dei servizi segreti le faceva da autista. Non sappiamo ora cosa potrà accadere nell'agro aversano, come reagiranno i clan visto che i figli di Schiavone Sandokan sono legatissimi ai figli di Iovine. Potrebbe essere l'inizio di un cambiamento epocale. Iovine potrà chiarire molto, moltissimo: potrà parlare delle voci che lo hanno descritto (senza mai nessuna conferma giudiziaria) come il burattinaio dietro la scalata di Ricucci, Coppola e Statuto. Potrebbe chiarire il potere della famiglia Cosentino e dei rapporti con tutta la politica degli ultimi vent'anni. Potrebbe persino raccontare alcune verità che spiegheranno i retroscena alla caduta del governo di centro sinistra. Ricordate? Il governo di centrosinistra nel gennaio 2008 cadde perché Mastella ritirò la fiducia dopo che la moglie venne indagata per tentata concussione. Era successo che Nicola Ferraro (poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) dirigente Udeur e consigliere regionale chiese a Luigi Annunziata direttore generale dell'Ospedale di Caserta di Caserta di mettere Carmine Iovine cugino del ninno come capo della direzione sanitaria dell'ospedale di Caserta. Solo O' ninno ora potrà spiegare. Potrebbe essere una vittoria dello Stato importantissima. La verità può essere vicina: imprenditoria, politica, giustizia, giornalismo tutto sta per essere attraversato dalle confessioni del Ninno. Costringere i capi dei clan a raccontare la verità perché ormai non hanno più scampo, perché ormai sanno di non poter più vincere: questa potrebbe essere una vittoria della democrazia. Una delle più belle.

Parla il pentito Schiavone: "Ecco la vera Gomorra", scrivono Fabio Di Chio e Dario Martini su “Il Tempo”. «Ve la racconto io la vera Gomorra. Roberto Saviano ha scritto la verità, ma è una briciola. Io quelle cose le ho raccontate dieci anni prima». Magro, un maglione addosso, unghie rose dal nervosismo, occhi chiari e vispi, capelli bianchi: per la prima volta parla il super pentito di camorra Carmine Schiavone, 66 anni, accusato di concorso nell'omicidio di oltre 50 persone, condannato a 8 anni di arresti domiciliari scaduti nel 2001 grazie ai benefici riconosciuti ai pentiti, e pilastro del processo anticamorra Spartacus. Quando racconta è nel suo ultimo covo in provincia di Viterbo. Finora ne ha cambiati otto. Poi partirà per l'estero. Da quando nel '93 ha cominciato la sua seconda vita di collaboratore di giustizia ha vissuto nel segreto, illuminato solo dai riflettori delle aule di tribunale dove ha testimoniato, incastrando capi e gregari dei clan, facendoli condannare alla prigione a vita. Carmine Schiavone è un fiume in piena. Voglio parlare - dice - Da tre mesi è scaduto il mio "contratto" col Servizio centrale di protezione. Sono sotto scorta solo quando devo essere presente in qualche processo.

Perché ha deciso di rilasciare questa intervista?

«Sono deluso, non dai magistrati ma da altri dello Stato. Le cose sono andate bene quando il Servizio lo dirigeva l'attuale capo della Polizia, Antonio Manganelli. Poi sono cominciati i guai. Io parlavo alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli e il giorno dopo i clan avevano i miei verbali. Nel '96 un maresciallo dei carabinieri ha cercato di avvelenarmi. A Vasto hanno tentato di sequestrare mia moglie e uno dei miei figli. Ogni volta che trovo un nascondiglio escono fuori informazioni che lo bruciano. L'ultimo caso è il mio arresto nel Viterbese».

Cioè?

«La sera del 22 dicembre arrivano i carabinieri, fanno una perquisizione e trovano un fucile e una pistola di proprietà di uno dei miei figli (ne ha sette, due femmine e cinque maschi, ndr). Mi portano al carcere di Mammagialla dove non ci sono zone protette per i pentiti. Dormo vicino alla polizia penitenziaria, per sicurezza mangio i pasti della loro mensa. Poche ore dopo arriva il Gip di Viterbo: il giorno dopo sono fuori. L'arresto non viene convalidato. Mi ha denunciato mio figlio Vincenzo, 35 anni. È impazzito per una romena divorziata e con due figlie. Lui vuole i soldi della mia eredità. Vincenzo però è schizofrenico. Stava per uccidere sua madre con un cuscino in faccia. L'altro mio figlio, Federico, lo voleva affogare. Gli ho detto: i soldi non li avrai mai».

Qual è la sua paura?

«Ho fatto 84 processi, ne devo fare 36 in Corte d'assise. Ho fatto condannare 1.200 persone. Altri 25 processi per 60 omicidi sono in fase istruttoria. Ai magistrati che imbastirono le indagini con le mie rivelazioni dissi: attenzione a battezzare il fascicolo col nome di Spartacus. Spartaco lo misero in croce. Nel Servizio ci sono tante persone oneste, ma anche altre di cui non mi fido affatto».

La camorra la sta braccando?

«Certo, se mi trovano mi ammazzano. Vogliono togliere di mezzo me e il giudice Federico Cafiero de Raho (del processo Spartacus, ndr). Se li vedo li uccido, sono pronto a difendermi. Ma con queste fughe di notizie i killer vengono portati per mano fino a me».

Perché è diventato camorrista?

«Per combattere Raffaele Cutolo, poi avevo la capa "vuoto a perdere". Oggi lo capisco, era arroganza giovanile. Cutolo cercò di arrivare nella provincia di Caserta coi capizona che furono eliminati o assorbiti. Eravamo gente di campagna, più decisa, sapevamo che nell'urto con noi Cutolo sarebbe stato distrutto. Ee infatti è stato distrutto. Di questo ne approfittò Nuvoletta. Ma la guerra contro Cutolo la vinse Bardellino».

Come è arrivato al pentimento?

«Ho creduto nella giustizia, a volte però dico che non lo rifarei più. E poi mi sono pentito per il mio ultimo figlio, tenuto a battesimo da mio cugino Francesco Schiavone, detto Sandokan, come io ho tenuto a battesimo suo figlio Carmine. Loro dovevano essere i due futuri capi. Io fui "venduto" da mio cugino Walter, da mio nipote Sebastiano, dai miei figli Mattia e Vincenzo e da mio genero Nicola Panara: misero delle armi da guerra nella calcestruzzo di mia proprietà, chiamarono i carabinieri e fecero arrestare me e mio figlio Maurizio. Poi, mentre ero in carcere sottoposto al 41 bis, ho mandato ambasciate al clan con un infermiere da me corrotto e loro all'infermiere hanno detto: "Avvelenalo"».

Il motivo della condanna a morte?

«Perché nel '91 mi volevo ritirare: mio cugino Sandokan era in carcere, Marione (Iovine, ndr) era stato ammazzato, c'era la guerra coi De Falco, i Bardellino, i Nuvoletta, i Venosa. Mio cugino Walter stava costruendo un castello come Scarface. La gente si rivolgeva a me, chiedeva aiuto. Io dovetti togliere i soldi per pagare gli affiliati, gli avvocati. E poi ero assolutamente contrario al traffico di fanghi radioattivi provenienti da Germania, Francia, Gran Bretagna e Cecoslovacchia. Ci sono 5 milioni di persone che moriranno per lo sversamento di quei rifiuti in Campania, Sicilia, Basilicata e Puglia. Bidognetti e mio cugino Sandokan prendevano 600 milioni al mese, ma nelle casse del clan ne mettevano solo 100. Dissi: "Voi siete scemi, avete avvelenato la terra di Casale, San Cipriano, Casa Luce". Quei quattro cafoni non si rendevano conto che quella roba uccideva anche noi. Rispondevano: "Tanto noi beviamo l'acqua minerale"».

Chi comanda tra i Casalesi?

«Mio cugino Sandokan, anche se è in carcere. Poi ci Antonio Iovine, Michele Zagaria, Giuseppe Setola. Ma senza il nulla osta di Sandokan non muoverebbero una mano, un piede».

Nel Lazio, a parte la zona a sud, dove fa affari il clan?

«A Viterbo, a Roma, attraverso prestanomi gestiscono le sale gioco. A Latina ho fatto sequestrare nostri beni».

Ristoranti e pizzerie?

«Dietro c'è Iovine, ma gestisce anche forniture di bufala e boutique».

La banda della Magliana?

«È sparita, è spezzettata. Fino al '93 è stata il braccio armato di politici, servizi segreti e mafia, era un esercito irregolare che però si faceva i fatti suoi con droga e usura».

È cambiata la camorra?

«Oggi i soldi non sono più come una volta. Io insegnavo ai miei che il popolo deve sostenerci per amore e non per terrore. In qualunque casa andassero non dovevano fare schifezze. Oggi il popolo si è spaccato: una parte è compromesso. I più onesti scappano. Ma anche fuori si paga il pizzo. All'epoca dicevo che il clan doveva creare degli insospettabili, i ragazzi dovevano laurearsi, fare gli avvocati, i magistrati. Per tenere buona la gente davamo case, facevamo favori. Però in campagna elettorale le persone dovevano votare come volevamo noi. Chi non lo faceva era avvertito: fa come diciamo o bruciamo dove lavori con te dentro. I nostri uomini non dovevano prendere i vestiti dai negozi, altrimenti gli toglievamo l'equivalente dalla paga mensile e venivano pure mazziati. Le case dovevano rimanere aperte senza problemi. A Casal di Principe avevamo bisogno della complicità di tutti, la gente doveva parlare bene di noi. I latitanti trovavano ospitalità ovunque, per mangiare e dormire. Era vietato nel modo più assoluto guardare le donne degli altri. Davamo sicurezza. Nel 1983 due zingare vennero fermate vicino all'acquedotto di Casale. Andammo io e Sandokan. Gli zingari avevano cominciato a rubare. Entrai nel campo e chiesi: "Dov'è il capo?". Guardai l'orologio e gli dissi: "Avete un quarto d'ora di tempo per smontare l'accampamento e sparire da questa zona, se no vi ammazziamo tutti". Gliel'ho detto dolcemente».

È stato affiliato a Cosa nostra?

«Sì, col gruppo dirigente, sin dagli anni '70».

Si sente un "uomo d'onore"?

«Non come mafioso, ma coi miei principi, che però cercano di soffocare in tutti i modi».

Chi?

«Al Servizio centrale non interessa la persona onesta. Vogliono lo schiavo da poter giostrare. Il Servizio è inutile, perché ciascuno di noi si costituisce dai carabinieri, dalla polizia o alla Finanza».

Ai magistrati ha detto tutto quello che sapeva?

«L'ho detto ai giudici: ho ancora un 10 per cento di cose da dire, ho altri 40 ergastoli da far prendere. Ho consegnato un dossier a un notaio, un ex ufficiale di Marina. Gli ho detto che se mi uccidono deve mandare tutto alla Bild, in Germania, e a ufficiali della polizia tedesca».

Perché un giornale tedesco?

«In Italia non lo pubblicherebbero. Da me i politici facevano anticamera. In carcere mi venivano a trovare. Li ho creati. Li benedivamo sotto le piante di limone».

Ora dove stanno?

«Parecchi sono portaborse a Roma, sono di tutti i partiti».

Si può debellare la camorra?

«Ho fatto 20 anni di scuola, 30 anni di alta mafia, 16 anni di servizio permanente effettivo in mezzo alle forze dell'ordine. Nel '94 i magistrati avrebbero potuto fare piazza pulita ma andarono troppo lenti. Fu buttato un virus nei computer della Dia per cancellare le mie deposizioni. Dovette intervenire la Cia. C'è un floppy sulle banche, non è mai uscito. Fu dato in custodia a un maresciallo che aveva l'ordine di sparare a vista a chiunque avesse tantato di impadronirsene».

Ora chi ce l'ha?

«Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Quel dischetto non lo tireranno mai fuori. I camorristi, quei quattro cani napoletani, si possono portare di nuovo alle origini. La politica però si serve della criminalità, perché nei momenti opportuni le scarica le colpe addosso. Ma senza appoggi dello Stato come potrebbe sopravvivere un'organizzazione criminale? Come potrebbe sfuggire alla cattura per 14 anni un Michele Zagaria, che ha la quinta elementare, ha faticato sempre sopra il camion e la pala meccanica? Senza lo Stato la camorra non sarebbe potuta esistere».

Carmine Schiavone: "Io boss? Mio figlio l'ha saputo a 17 anni", continua l’intervista su “Il Tempo”. Quando parla di quel ragazzo di 21 anni, studente universitario, studioso assennato, che quando esce la sera con gli amici rientra a casa a mezzanotte al massimo, Carmine Schiavone, primo pentito dello spietato clan camorristico dei Casalesi, diventa un padre tenero e affettuoso. Nello stesso momento però china la testa e si sente bastonato dalla sua storia: un uomo che ha sbagliato, angosciato da quello che era, dai morti ammazzati. L'ombra del boss che è stato deprime l'anima del genitore che vuole essere. Dice: «Nello sfacelo della mia vita di una cosa sola sono orgoglioso: ho salvato una pianta di rose, un ragazzino che aveva quattro anni e oggi fa il secondo anno di università e dà esami a tempo di record. È cresciuto senza i miei difetti, della mia vita ha preso solo i lati positivi. Osserva e pretende il rispetto delle regole, della legge».

Amarlo così tanto le fa temere la morte ancora di più?

«Bardellino a 48 anni è stato ucciso a martellate su una spiaggia sudamericana, Marione (Iovine, ndr) era del '38 e l'hanno fatto fuori in Portogallo nel '91. Io ho 66 anni e ho già vissuto di più di quanto potessi immaginare. Non ho paura di morire, ma che facciano del male agli innocenti».

Come ha detto la verità a suo figlio?

«Quando in televisione vedeva i morti ammazzati nella guerra tra i clan, si scandalizzava: "Papi, ma dov'è lo Stato, perché non li arresta tutti". Io reggevo per qualche minuto poi mi allontanavo, non resistevo a stare lì con lui. Mio figlio non sapeva che è uno Schiavone, il suo nome è sempre stato un altro, perciò era all'oscuro che quell'uomo di cui parlavano ero io. Quando non ero in casa per andare a deporre ai processi, mia moglie gli diceva che stavo fuori per lavoro, per incarichi importanti. Degli altri miei sei figli ne conosceva uno soltanto, gli altri cinque ignorava che esistessero. Poi è venuto il giorno della verità. Gli ho detto: "Ti devo dire una cosa molto importante. Io ho fatto delle cose molto brutte, di cui mi sono pentito. Quel Carmine Schiavone di cui senti parlare sono io. Sono stato il boss dei Casalesi. Ho due famiglie. Quella di mio padre era di professionisti e ricchi possidenti. Quella di mia madre di piccoli agricoltori e banditi: purtroppo ho ripreso da quella di mia madre. Lei era la sorella del papà di Francesco Schiavone: quando questi aveva 13 anni sua mamma morì e la mia lo ha cresciuto. L'ho inventato io Sandokan».

E suo figlio come ha reagito?

«Silenzio, tanto silenzio. Poi mi ha chiesto (e me lo chiedo anch'io): "Ma chi te l'ha fatto fare di stare coi camorristi"? Purtroppo la macchina del tempo non c'è, gli errori si capiscono dopo, non prima».

Quando cambia nascondiglio sua moglie la segue?

«Prima sì, ora non la faccio più venire, devo stare da solo».

Lei signora, non teme di rimanere vittima di un attentato a suo marito?

«No, anch'io ho già vissuto troppo».

Schiavone, gli altri suoi figli sanno dove lei si nasconde?

«Non tutti. Molti mi hanno tradito, non li voglio più vedere. Uno volta incontrai mio genero alla Direzione investigativa antimafia di Roma. Aveva per me un messaggio di mio cugino Sandokan: se avessi smesso di parlare coi magistrati avrei avuto 50 miliardi di vecchie lire e la testa di chiunque. Io risposi: "È troppo tardi". Anzi, lo avvertii: "Cerca di salvarti, perché ti faccio dare l'ergastolo, ancora devo verbalizzarti, ma dirò tutto su di te. Quindi caro Nicola, visto che ti ho affiliato io alla camorra e hai fatto schifezze anche tu, entra nel piano di protezione e vattene al Nord con tua moglie (figlia del pentito, ndr): sai fare il parrucchiere, puoi trovare lavoro". Lui reagì quasi fiero. Rispose che piuttosto si sarebbe impiccato. Qualche tempo dopo mi fece chiamare dal carcere di Larino, in Molise, per dirmi che voleva pentirsi. Andai da lui e gli dissi: "Che fai qui, pensavo ti fossi impiccato". Io sono stato il primo ad avere aperto alla giustizia le porte dei clan, i loro segreti. Riina e Provenzano sono due pecorai, perché stavano sotto gli ordini dei politici. Noi invece i politici li creavamo. Poi i corleonesi hanno fatto un casino con le stragi e li hanno presi».

Ha rimpianti?

«Ho creduto ciecamente nello Stato. Certe volte dico a me stesso chi me l'ha fatto fare. Avevo potere, ero capo del clan, intascavo 150 milioni al mese, in casa avevo tre camerieri. Alle istituzioni ho versato 2.500 miliardi di lire. Uno come me ormai fa parte della storia. Sto picchiando pesante, non faccio come gli altri pentiti che si tirano indietro davanti a certe responsabilità. Ho creduto e devo continuare a credere nello Stato. Come mi diceva il pm de Raho: "Nonostante tutte le ingiustizie, dobbiamo continuare a credere nella legalità. Andiamo avanti". Io vado avanti, ma a costo di enormi sacrifici. Sa quante volte ho dovuto pagare la benzina all'auto della scorta perché i ragazzi avevano buoni di società petrolifere che non ci sono nelle aree di servizio dell'autostrada? A quei poliziotti non pagano nemmeno gli straordinari, prendono due soldi. Come fa un carabiniere con due o tre figli a guadagnare 1.300 euro al mese e a essere onesto? E poi le smagliature nella sicurezza: durante il tragitto verso il tribunale ci sono sottufficiali che chiamano per sapere che percorso stiamo facendo. Io rispondo male: "Stiamo andando a trovare tua madre". Non mi fido».

Ha rimorsi?

«Salto nel letto. Per i morti in guerra no, per quello che è successo dopo. Lo Stato non ha frenato in tempo i clan».

Che vuol dire?

«Dopo le mie rivelazioni gli arresti dovevano scattare subito. I boss potevano essere fermati in tre-quattro mesi. Invece in Italia c'è una burocrazia che non finisce mai. Il rimorso più grande è per la morte del professor Carmine Mensorio, ex senatore del Ccd».

L'ha fatto uccidere?

«No, l'ho accusato anche se lui salvò la vita di un mio figlio quand'era piccolo facendolo operare d'urgenza. Agli inizi del '90 Mensorio fu raggiunto da due ordini di cattura accusato di collusione con la camorra. Scappò in Nicaragua, poi nel '96, nel mare di Ancona, si buttò giù dalla nave. Mi sento in colpa. Non l'avrei mai accusato se avessi saputo il finale».

E per le persone di cui ha ordinato la morte, non prova rimorso?

«Fin quando quando ci sono stato io non ci sono state vittime innocenti, erano tutti delinquenti, anche se avevano la fedina penale pulita. Eravamo in guerra».

Prega mai?

«Lacrime e preghiere sono finite».

Secondo lei, perché ad agosto a Castelvolturno la camorra ha ammazzato sei immigrati?

«Non è la prima strage. Ce ne fu un'altra nel '90 a Pescopagano, perché gli stranieri non volevano pagare la tangente sullo spaccio di droga. Qui è avvenuto lo stesso. E ne ammazzeranno altri. Stanno aspettando che si calmino le acque, come per Saviano».

Si spieghi. Sa che lo uccideranno?

«Nel '93, quando mi sono pentito, lui era molto giovane. Io lo ringrazio per aver scritto Gomorra, perché ha svegliato delle coscienze. Però parecchi di quelli che parlano esaltando il suo lavoro fanno solo bla bla bla. Non vorrebbero elogiarlo, ma sono costretti dal rumore mediatico. Di Saviano non ho mai detto niente sul fantomatico attentato prima di Natale. La notizia è uscita da una clinica di Montefiascone, non da me. Per come conosco la mentalità dei clan, Saviano tenteranno di farlo fuori quando sarà finito nel dimenticatoio. Ma oggi, ucciderlo per loro sarebbe farlo santo, e mica sono scemi. Succederebbe l'ira di Dio. Come la storia di mandare l'Esercito in Campania contro la camorra: ma che lo mandi a fare, i soldati rischiano pure che la malavita tolga loro le armi. I clan ormai stanno nascosti. I camorristi sanno che il più grande dolore e la più grande meraviglia durano otto giorni. Quando si tornerà alla normalità si farà di nuovo guerra».

Lei come combatterebbe la criminalità?

«Non dovevano mettere da parte Ultimo, l'uomo che arrestò Totò Riina e oggi è al Nucleo operativo ecologico dei carabinieri. È un ottimo investigatore, una brava persona: l'ho conosciuto quando ho parlato di "ecoboss", delle intese che erano state prese dal clan con le coop rosse».

COSE NOSTRE. C'era una volta l'antimafia.

Il guscio vuoto dell'antimafia, scrive Enrico Bellavia il 27 novembre 2015 su “La Repubblica”. In un paese che sente la necessità di ribadire l’ovvio per norma, l’etica per legge - i magistrati non diano incarichi a parenti e amici – accade che il presidente del Senato, Pietro Grasso debba anche lui dire ciò che dovrebbe essere lapalissiano: l’antimafia lasci stare i soldi e il protagonismo dei singoli. Evidentemente le ombre che si addensano su alcune associazioni antimafia per l’uso disinvolto dei fondi, alcuni utilizzi delle dotazioni del Pon Sicurezza, frutto di una interpretazione assai ampia e onnicomprensiva del termine “antimafia”, devono essere arrivate anche a lui. Come anche il fatto che in qualche caso si tratta di qualcosa di più: illeciti penali, oggetto di accertamenti giudiziari. C’è il caso Saguto, la magistrata delle misure di prevenzione che ha trasformato la sezione palermitana in un dispensario di incarichi, consolidando un oligopolio di avvocati-manager che gestiscono i beni sequestrati e confiscati, ovvero la prima industria di Palermo. Arricchendo pochi e legittimando implicitamente mafiosi acclarati e sospettati perenni in un’azione di rivalsa contro l’intero sistema delle confische: il più temuto, il più formidabile tra quelli che aggrediscono gli interessi delle cosche. Uno strumento che ha il nome di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci, ucciso a Palermo anche per quella legge che avrebbe visto la luce solo dopo la sua morte. C’è il caso Confindustria con Antonello Montante, l’alfiere dell’antimafia degli industriali che è indagato per mafia e difeso a spada tratta con un pre-giudizio che non conosce riserve dai colleghi ai massimi livelli della categoria. Quando anche uno solo dei dubbi sul suo operato, raccontati con dovizia di particolari su Repubblica, avrebbe suggerito una minima prudenza. C’è quella stessa antimafia acquartierata nelle stanze del governo regionale siciliano di Rosario Crocetta. Che a sua volta fa un uso politico dell’antimafia, clava contro i nemici, strumento dissuasivo contro gli eretici, minaccia preventiva contro gli scettici. Lasciando che poi la pratica amministrativa perpetui il consociativismo, l’amicalità, la cooptazione da partito tenda, come dimostra la vicenda Tutino. C’è Roberto Helg, l’ex presidente della Camera di Commercio di Palermo, già indagato per mafia, onnipresente nelle convention antimafia, condannato per aver chiesto una mazzetta al titolare della pasticceria dell’aeroporto, con destinatari plurali rimasti senza nome. E il campionario non è esaustivo. Perché c’è anche l’antimafia inconcludente che magari frutta un seggio, ma non produce nulla. C’è quella che si fa tifo da stadio e trasforma un processo in gazzarra. E quella che può perfino consacrare a idolo e simbolo Massimo Ciancimino. C’è da chiedersi cosa c’entra tutto questo con l’associazionismo antimafia degli anni Ottanta a Palermo che prima ancora di manifestare per strada sosteneva il pagamento delle spese di fotocopiatura degli atti per la costituzione di parte civile delle vittime non eccellenti della mafia: poche, impaurite, senza soldi, futuro e speranza? Cosa c’entra questa antimafia con quella dei ragazzi del liceo Meli che di fronte alle speculazioni di chi tuonava contro la “Palermo militarizzata” per la morte di due studenti, Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, investiti alla fermata del bus dalla scorta di Borsellino, seppero dire con forza che no, Biagio e Giuditta erano vittime della mafia e non dell’antimafia? Cosa c’entra questa antimafia con i tanti, volontari, amministratori, sindacalisti, magistrati, avvocati, giornalisti che hanno rimediato insulti, minacce, piombo per il loro impegno? Cosa c’entra questa antimafia perfino con il settarismo degli intransigenti che anche stilando liste di impresentabili alle elezioni si assumeva almeno il rischio civile della denuncia? Adesso, insomma, non vi è termine più abusato, locuzione più svenduta, di anti-mafia. Guscio vuoto, nell’evanescenza di una mafia che diventa sempre più il suo presunto opposto.

L'ANTIMAFIA DOCILE E OSCURANTISTA. Da quando esiste — una cinquantina d'anni ufficialmente — non è mai stata così ubbidiente, cerimoniosa e attratta dal potere, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica del 4 marzo 2015. Più attenta all'estetica che all'etica, l'Antimafia sta attraversando la sua epoca più oscurantista. Proclami, icone, pennacchi, commemorazioni solenni e tanti, tanti soldi. C'è un'Antimafia finta che fa solo affari e poi c'è anche un'Antimafia ammaestrata. Ne è passato di tempo dalle uccisioni di Falcone e Borsellino e il movimento, che era nato subito dopo l'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e che aveva trovato nuova forza dopo le stragi del 1992, sopravvive fra liturgie, litanie e un fiume di denaro. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia «certificata» si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in contributi per «vivere la neve» (naturalmente con legalità), in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio. È un'Antimafia sottomessa. Soggetta all'altrui benevolenza e alla concessione di un generoso Pon (Programma operativo nazionale Sicurezza e Sviluppo, ministero dell'Interno) o di somme altrettanto munificamente elargite dalla Pubblica Istruzione, la sua conservazione o la sua estinzione è decisa sempre in altro luogo. Così il futuro di un circolo intitolato a un poliziotto ucciso o a un bambino vittima del crimine, di uno "sportello" anti-usura, di un "Osservatorio" sui Casalesi o sui Corleonesi, di un Museo della ‘Ndrangheta, è sempre appeso a un filo e a un "canale" che porta a Roma. C'è chi chiede e chi offre. Il patto non scritto è non disturbare mai il potente del momento. Addomesticata, l'Antimafia è diventata docile e malleabile. È un'inclinazione che naturalmente non coinvolge tutte le associazioni (anche se, in più di un'occasione, lo stesso don Ciotti ha strigliato i suoi per una certa inadeguatezza di conoscenza e un conformismo che si è diffuso dentro Libera), ma gran parte dell'Antimafia sociale ormai è in perenne posa, immobile, come in un fermo immagine a santificare "eroi" e a preoccuparsi di non restare mai con le tasche vuote. È un'Antimafia consociativa. Dipendente da quella governativa che presenzia pomposamente agli anniversari di morte, che organizza convegni alla memoria, che firma convenzioni e protocolli con gli amici che sceglie a suo piacimento sui territori. A parte il caso estremo del presidente di Sicindustria Antonello Montante — indagato per concorso esterno, a capo di una consorteria che ha occupato ogni luogo decisionale della Regione, comprese quelle camere di commercio siciliane dove è stato appena arrestato il suo vice Roberto Helg per una tangente di 100mila euro — e a parte gli inevitabili approfittatori o i saltimbanchi che girano l'Italia come al seguito di un circo, la questione che stiamo dibattendo è molto più seria e profonda proprio perché è quasi l'intero movimento antimafia che si è svilito. In questo clima felpato e silenziato anche il fronte giudiziario ha perso molte delle sue energie. Se si escludono singoli magistrati, anche capi degli uffici — a Roma, Reggio Calabria, in Sicilia, a Milano, a Bologna — in troppi guardano molto al passato e poco al presente, alla faccia nuova del crimine. C'è difficoltà nell'intercettare le evoluzioni del fenomeno e nell'analisi. Qualche giorno fa, la relazione annuale (periodo dal 1 luglio 2013 al 30 giugno 2014) del procuratore nazionale Franco Roberti non ha offerto un solo spunto originale, fra 727 pagine neanche qualche riga dedicata al mutamento dei rapporti delle mafie con la politica e con i poteri economici sospetti. Una relazione innocua. Unico «scatto» il riferimento ai silenzi della Chiesa (dimenticando gli effetti clamorosi nelle diocesi dopo il viaggio di Papa Francesco in Calabria dell'anno scorso) che ha provocato la reazione di Nunzio Galantino, il segretario della Conferenza Episcopale Italiana: «Procuratore, questa volta ha toppato». È un'Antimafia sempre più cauta. Soprattutto quando si avvicina dalle parti del Viminale. Dopo Claudio Scajola (arrestato per concorso esterno) e dopo Annamaria Cancellieri (in rapporto trentennale intenso con una delle famiglie di più cattiva reputazione del capitalismo italiano) è arrivato dalla Sicilia Angelino Alfano. È uno di quelli che insieme al suo grande amico Totò Cuffaro (arrestato per mafia) rivendicò a Palermo la paternità dello slogan «la mafia fa schifo». È sempre stato legatissimo al Cavaliere Silvio Berlusconi (sotto sospetto permanente di legami con Cosa Nostra attraverso Marcello Dell'Utri) fin da quando è entrato in Parlamento. È lui che qualche settimana fa ha ancora fortissimamente voluto Antonello Montante (indagato per mafia) all'Agenzia nazionale per i beni confiscati. La domanda rischia di scivolare nella banalità: come si combina la tanto sbandierata (e crediamo sincera) fede antimafia del ministro Alfano con quei rapporti politici e personali così stretti, con un'intimità così spinta verso personaggi che a svariato titolo e nelle più diverse situazioni non hanno certo titolo per vantare titoli antimafia realisticamente cristallini (Cuffaro e Berlusconi) o ricoprire incarichi istituzionali (Montante)? Ministro Alfano, non basta dire «la mafia fa schifo». L'Antimafia ormai è materia sfuggente o addirittura materia d'indagine, come dimostrano negli ultimi giorni e negli ultimi mesi i "paladini" finiti in carcere o invischiati in losche faccende. Come fa a non saperlo anche Alfano che nell'ottobre del 2013 ha voluto portare a Caltanissetta — la città dove Montante ha il suo quartiere generale — il comitato nazionale di ordine pubblico e sicurezza? In Sicilia non accadeva dai giorni delle stragi Falcone e Borsellino. Cosa è avvenuto, nel centro Sicilia, di così straordinario o di così drammatico per far arrivare capo della polizia, comandanti di Arma e Finanza, i direttori dei servizi di sicurezza? Nulla, assolutamente nulla. Ma anche lì, a Caltanissetta, serviva un bollo, uno di quei "certificati" per dichiarare quella città capitale dell'Antimafia. "Zona franca per la legalità" d'altronde l'aveva già battezzata il governatore Raffaele Lombardo, uno condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi per reati di mafia. Ecco perché, fra tanti travestimenti e ambiguità o semplici equivoci, forse è arrivato il momento di una riflessione su cos'è l'Antimafia e dove sta andando.

CIANCIMINO ED IL TESORO RUMENO: QUELLO CHE LA STAMPA ITALIANA NON DICE.

Ciancimino, sigilli al tesoro rumeno, scrive Nino Amadore il 9 giugno 2011 su “Il Sole 24 ore". Si abbatte un'altra tegola sul capo di Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo don Vito, attualmente in carcere con l'accusa di calunnia aggravata nei confronti di Gianni De Gennaro e di detenzione di esplosivo. La sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo presieduta da Silvana Saguto ha depositato il provvedimento di sequestro per tre imprese di diritto rumeno che facevano capo alla Sirco, azienda già confiscata e amministrata da Gaetano Cappellano Seminara in cui erano azionisti i Ciancimino e l'avvocato Gianni Lapis condannato per riciclaggio insieme allo stesso Ciancimino nell'ambito della famosa inchiesta sul tesoro. In pratica viene sequestrata una parte importante del tesoro dell'ex sindaco che il figlio avrebbe riciclato in Romania: in totale 300 milioni. Il provvedimento dei giudici palermitani, che interviene in autonomia e non su richiesta della procura antimafia del capoluogo palermitano che solo recentemente sta provando a dare impulso alle indagini, è stato depositato il 26 maggio e contemporaneamente è partita la rogatoria trattandosi di aziende che hanno sede in Romania. Si tratta di Agenda 21 Sa, dell'Alzalea e soprattutto di Ecorec, l'azienda proprietaria della più grande discarica d'Europa a Gline nel comune di Bucarest, estesa su 114 ettari e in grado di accogliere rifiuti per 47,6 milioni di metri cubi e che considerando una tariffa media di cinque euro (in Italia in media la tariffa è di 70 euro a metro cubo) potrebbe garantire un fatturato totale di 238 milioni. Secondo i giudici palermitani, sulla base di un rapporto della Guardia di finanza consegnato ai magistrati della procura antimafia il 26 aprile del 2009 all'ufficio guidato da Francesco Messineo, Massimo Ciancimino e Gianni Lapis sarebbero rimasti i veri titolari delle aziende solo formalmente partecipate da altri. Come Raffaele Valente, proprietario di Palazzo Pepoli a Bologna in cui abita la famiglia di Massimo Ciancimino e in contatto con Francesco Martello già condannato per mafia, e ancora i fratelli Sergio e Giuseppe Pileri, e la messinese Santa Sidoti, moglie del faccendiere Romano Tronci già coinvolto nell'inchiesta sul riciclaggio a carico dei Ciancimino e che è stato ed è consulente delle società sequestrate, e ancora il rumeno Viktor Dombrosky, direttore generale e azionista di Ecorec. Grazie a un'azione, che sembra avere un'abile regia, i soggetti (secondo la Gdf in contatto costante con Ciancimino junior il quale nel frattempo ha avviato una rumorosa collaborazione con le procure di Palermo e Caltanissetta), non potendo acquistare Agenda 21 per le resistenze dell'amministratore giudiziario puntano a svuotare completamente la Sirco spa ormai in mano allo Stato togliendole il braccio operativo in Romania, Agenda 21 appunto: Dombrowsky emette un titolo di credito di un milione nei confronti di Ecorec di cui è direttore generale ed è garantito da un avallo di Agenda 21 a firma dell'amministratore Sergio Pileri. Di fronte al mancato rimborso Dombrowski non agisce contro il debitore (Ecorec) ma contro Agenda 21 che aveva avallato il titolo di credito e provvede a pignorare la partecipazione di Agenda 21 in Ecorec (l'82% del capitale). Ed è sempre Dombrowski a proporre l'incanto della partecipazione pignorata: sarà Raffaele Valente, che è anche amico di Tronci, attraverso la sua Alzalea ad aggiudicarsi l'asta e da quel momento Agenda 21 resta una scatola vuota. Le ulteriori azioni degli amministratori di Agenda 21 hanno portato alla messa in liquidazione della società. L'amministrazione giudiziaria della Sirco (affidata a Gaetano Cappellano Seminara) ha vanamente provato a evitare tutto ciò proponendo denunce penali e opposizioni all'azione esecutiva. Il rapporto della Guardia di finanza ricostruisce in modo dettagliato tutti gli intrecci societari tra gli amici di Ciancimino e l'attività del tributarista Lapis: prima ancora infatti era stato fatto un aumento di capitale di Agenda 21 poi non sottoscritto da Sirco (che pure era socio finanziatore e ha erogato ad Agenda 21 oltre 15,6 milioni) per 3.500 euro consentendo ad Agentia Obiettivo Lavoro dei fratelli Pileri di diventarne di fatto il socio con la partecipazione maggiore. Il progetto di svuotare Sirco della partecipazione in Agenda 21 era stato messo in atto subito dopo il sequestro di Sirco da parte dell'autorità giudiziaria nel 2005 e che i Lapis potessero avere interesse in Agenda 21 sarebbe dimostrato, anche secondo la Guardia di finanza che riporta una memoria dell'amministratore giudiziario, dal via libera dato dalla figlia di Lapis, Mariangela, socia di Sirco a utilizzare 1,8 milioni da un suo conto personale per completare l'importo di 2,9 milioni in favore di Agenda 21 a completamento dei circa 20 milioni anticipati. Del resto i progetti per Agenda 21 erano di rilievo: oltre alla discarica di Gline a Bucarest aveva partecipazioni in Ecologica Sa (gestione discarica di Baicoi), Salub Sa (raccolta rifiuti a Ploiesti), Ageim Srl (gestione immobili), Ecologica Mures (gestione discarica a Targu Mures).

Il tesoro di Ciancimino in Romania Palermo "perde" l'inchiesta, scrive Riccardo Lo Verso Riccardo Lo Verso il 2 dicembre 2013 su "Live Sicilia". Il giudice per le indagini preliminari ha stabilito che la competenza territoriale spetta a Rieti e Campobasso. Al centro delle indagini l'investimento nella discarica di Glina, in Romania, la più grande d'Europa. La Procura di Palermo “perde” l'inchiesta sul tesoro rumeno di Massimo Ciancimino. Il giudice per le indagini preliminari ha stabilito che la competenza territoriale spetta a Rieti e Campobasso. Saranno, dunque, queste ultime due Procure a indagare sul presunto riciclaggio del patrimonio di don Vito Ciancimino nell'acquisto della discarica di Glina, la più grande d'Europa. L'inchiesta, che ora lascia Palermo, ruota attorno al grande affari dei rifiuti. Massimo Ciancimino avrebbe orchestrato un piano per trasferire e ripulire in terra rumena una parte dei soldi accumulati dal padre. Secondo l'iniziale ricostruzione della Finanza e del pubblico ministero Dario Scaletta, che però aveva chiesto l'archiviazione, gli ex soci di Massimo Ciancimino avrebbero contribuito a svuotare in Romania le holding che erano state sequestrate e confiscate dalla magistratura italiana. Per la mancata sottoscrizione di in irrisorio aumento di capitale di appena 3500 euro l'amministrazione giudiziaria aveva perso il controllo di Agenda 21, proprietaria in parte della Ecorec, che a sua volta gestisce i 119 ettari della discarica di Gline, non lontano da Bucarest. Il risultato fu che, nonostante un valore di 250 milioni di euro, la discarica fu venduta all'asta per poco più di un milione. Ad aggiudicarsela è stata la società Alzalea srl di proprietà dell'imprenditore molisano Raffaele Valente. Valente, Ciancimino jr sono finiti sotto inchiesta assieme a Pietro Campodonico, già amministratore delegato della Sirco, e ai fratelli Sergio e Giuseppe Pileri, soci di Agenda 21. Il trasferimento dell'inchiesta, decisa dal Giudice per le indagini preliminari Giovanni Francolini, nasce dal fatto che quando si è in presenza di presunti reati avvenuti all'estero la competenza si radica nelle città dove risiedono le persone che il reato lo avrebbero commesso. In questo caso Valente e i Pileri sono originari di Rieti e Campobasso. Non è escluso che da Rieti il fascicolo possa finire a Roma dove la Procura ad inizio estate ha disposto non solo il sequestro preventivo della discarica di Glina, ma di tutto il patrimonio della Ecorec. Palermo, dunque, perde un'inchiesta su cui incombe per altro la prescrizione. Difficile arrivare ad una sentenza in tempi utili visto che agli indagati non viene contestata l'aggravante mafiosa prevista dall'articolo 7.

Dieci mesi di carcere e ora a casa, l’odissea di Pietro Raffaele Valente, scrive Emanuele Bracone il 19 maggio, 2015 su "Termoli On Line". Dal 14 luglio 2014 a ieri, 18 maggio 2015. Oggi per Pietro Raffaele Valente è un nuovo giorno, in tutti i sensi. Dopo aver trascorso oltre dieci mesi in carcere prima a Larino e quindi a Roma, nel penitenziario di Rebibbia, per il 70enne imprenditore termolese è arrivato il momento di tornare a casa. I giudici del collegio giudicante che lo stanno processando insieme ad altre 4 persone per l’accusa di tentato riciclaggio di capitali hanno affievolito la misura cautelare e hanno disposto gli arresti domiciliari. Valente fu arrestato nell’estate scorsa dal Ros de L’Aquila e dal Noe. Indagato da tre anni come prestanome di Massimiliano Ciancimino, figlio del boss ed ex sindaco del capoluogo siciliano Vito, che ebbe un soggiorno obbligato nella vicina Rotello, Valente secondo la Procura di Roma era il titolare di quote significative della società romena in cui venne investito quasi interamente il tesoro della famiglia Ciancimino, che ammontava a 115 milioni di euro. Un investimento operato in Romania, finanziato da attività illecite. Le indagini sul versante dell’ecomafia erano partite addirittura nel 2007, quando don Vito era ancora vivo, approfondite per mano del gip Piergiorgio Morosini due anni fa, quando anche l’abitazione di Valente venne perquisita dalla polizia giudiziaria. Valente ha proclamato lo sciopero della fame nell’agosto scorso ed è difeso dagli avvocati Joe Mileti e Antonio Ingroia, sì, proprio l’ex magistrato. Trasferito a Roma dove è iniziato il processo a carico dei cinque, lui compreso, accusati di aver tentato il riciclaggio di denaro sporco e proprio l’esito di alcune deposizioni avrebbe indotto il tribunale di Roma a decidere di ammansire la carcerazione preventiva.

Termoli. Arrestato per riciclaggio di denaro. Valente si difende, scrive il 17 luglio 2014 Giuseppe Rocco su "Quotidiano Molise". Avrebbe riciclato il tesoretto di Ciancimino. Ieri è stato interrogato per rogatoria. E' sereno perchè sa di non aver commesso alcun reato e perchè abbiamo in mano una documentazione che attesta che non abbiamo nulla a che vedere sia con Ciancimino che con le accuse che ci sono state mosse ma è provato per il fatto che un procedimento del 2005, dove si parla di un tentativo di riciclaggio, arrivi oggi a una misura cautelare che parte da presupposti i cui atti sono già stati smentiti. Sta preparando la richiesta di revoca della misura cautelare e il ricorso al Riesame di Roma Joe Mileti, l'avvocato che sta assistendo Raffaele Valente, l'imprenditore 70enne termolese arrestato lunedì mattina dai carabinieri del Noe di Pescara su mandato della Procura di Roma. Valente, che ieri pomeriggio è stato ascoltato in carcere per rogatoria dal Gip di Larino, Maria Paola Vezzi, è accusato, secondo i magistrati di Roma, di essere il prestanome di Massimo Ciancimino e di tentato riciclaggio del tesoretto del padre, don Vito, attraverso una serie di presunte operazioni finanziarie col denaro della mafia e con l'obiettivo di ripulire alcune società romene nelle quali Ciancimino avrebbe investito. Una ricostruzione che, però, Mileti e Valente hanno voluto rispedire al mittente. "Purtroppo per noi" - ha affermato il legale al termine dell'interrogatorio - "non abbiamo potuto interagire con il giudice che ha in mano tutte le carte della vicenda e al quale avremmo voluto sottoporre tanti quesiti e tanti interrogativi ai quali vogliamo dare delle risposte. Sotto la lente dell'avvocato Mileti è andato a finire il capo di imputazione "che abbiamo contestato perchè basato su atti e provvedimenti per i quali già il giudice di Palermo aveva chiesto l'archiviazione per quello che riguarda la posizione di Valente. Abbiamo in mano anche una sentenza del tribunale di Bucarest dove si dice che tutta l'attività espletata dal Valente è perfettamente legale. Una sentenza che, peraltro, non è stata neanche impugnata da parte del giudice di Palermo. Per partecipare all'asta (per la vendita della Ecorec, la società che secondo gli inquirenti sarebbe servita per riciclare il denaro del presunto tesoretto, ndr) ed è anche documentato, abbiamo fatto un esborso di soldi attraverso la Banca di Italia con soldi che provenivano dalla società di Valente". Un capo di imputazione, quello relativo al tentativo di riciclaggio, che secondo l'avvocato Mileti, è relativo al tentativo di riciclaggio di un qualcosa che non si è mai trovato. Valente non ha mai avuto rapporti con Ciancimino figlio e siamo estranei a questa vicenda se non per il fatto che, come imprenditore, ha interagito tramite la sua società per risolvere alcune situazioni. Mileti è quindi pronto a sfoderare tutte le sue carte direttamente con i giudici romani ai quali presenterà sia la richiesta di revoca della misura cautelare che quella del Riesame oltre a tutta la documentazione di questi provvedimenti di giudici che ci ritengono estranei alla vicenda. 

Ingroia: «Il tribunale di Roma ignora il lavoro dei pm nisseni». L’ex pm aveva chiesto che l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara venisse ascoltato come teste assistito nel processo sul riciclaggio del tesoro di Ciancimino, scrive il 2 novembre 2015 "Il Corriere del Mezzogiorno". Non verranno acquisiti dal tribunale di Roma gli atti dell'inchiesta della procura di Caltanissetta sull'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto e tutti i documenti al vaglio della sezione Disciplinare del Csm. Lo hanno deciso i giudici della IX sezione penale respingendo l'istanza presentata dall'avvocato Antonio Ingroia, difensore di due imputati nel processo a carico di soggetti ritenuti complici del figlio di Vito Ciancimino, Massimo, e responsabili di un tentativo di riciclaggio del tesoro a lui appartenuto. L'ex pm Ingroia, nel procedimento che vede imputate cinque persone, difende Raffaele Valente e il rumeno Victor Dombrovschi, sospettati dalla Procura di Roma assieme agli altri tre (Romano Tronci, Sergio Pileri e Nunzio Rizzi) di essersi attivati per cercare di riciclare, attraverso la società Ecorec, che gestisce in Romania la più grande discarica d'Europa, i beni dell'ex sindaco di Palermo. Secondo l'accusa, gli imputati stavano per mettere in atto una azione per aggirare il congelamento dei beni della Ecorec, sottoposta nell'agosto del 2013 dal gip a un sequestro preventivo, e di vendere la società con la regia di Massimo Ciancimino (che nel procedimento non è imputato in quanto già condannato). Ingroia, alla luce dell'inchiesta avviata a Caltanissetta aveva chiesto al tribunale che l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, semplice testimone in questo procedimento ma coinvolto come amministratore giudiziario nell'inchiesta su Silvana Saguto per corruzione, venisse ascoltato come teste assistito. Il tribunale ha però respinto anche questa istanza stabilendo che non ci sono collegamento tra il processo e l'inchiesta siciliana. «Sono rimasto sorpreso della decisione del tribunale di Roma di non acquisire gli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta e del Consiglio Superiore della Magistratura sull’ex presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, e di non ascoltare l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara nella veste di teste assistito. Una decisione che trovo assolutamente incomprensibile e che rende purtroppo più difficile la ricerca della verità». Lo dichiara l’avvocato Antonio Ingroia, difensore di Raffaele Valente e del rumeno Victor Dombrovschi. «Il collegio - aggiunge Ingroia - ha totalmente ignorato le evidenti connessioni probatorie esistenti tra il processo di Roma e l’inchiesta di Caltanissetta, che vede indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e la giudice Silvana Saguto per fatti gravissimi all’esame del Csm e su cui si è pronunciato in modo netto anche il ministro della Giustizia Orlando. Nel procedimento romano, infatti, risultava che Cappellano Seminara era stato nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati, e sequestrati proprio grazie alle informative di Cappellano Seminara: come si può negare che ci sia una connessione con quanto emerso nelle ultime settimane a Palermo? La logica suggerisce di sì e invece il tribunale ha deciso di ignorare il lavoro dei pm nisseni. Evidentemente - conclude Ingroia - meglio non sentire, non vedere, non sapere. Ma non è così che si accerta la verità e si fa giustizia»

“La Terza Sezione Civile della Corte d’Appello di Palermo ha ancora una volta ritenuto infondate le ragioni dell’avv. Cappellano Seminara che, nella qualità di Amministratore Giudiziario della società SIRCO confiscata dal Tribunale di Palermo, aveva intentato causa per risarcimento danni per 60 milioni di euro contro l’imprenditore rumeno Victor Dombrovschi, l’imprenditore italiano Raffaele Valente e gli altri imprenditori soci delle società di diritto rumeno Agenda 21 ed ECOREC, che gestivano alcune discariche in Romania”. “Nel processo intentato davanti al Tribunale di Palermo, l’avv. Cappellano aveva sostenuto che la società da lui amministrata era stata danneggiata dall’azione di Dombrovschi, Valente (difeso in questo giudizio dall’avv. Antonio Ingroia) e gli altri, accusati da Cappellano di essere prestanome di Massimo Ciancimino, il quale per il loro tramite aveva così potuto riciclare ed occultare il c.d. “tesoro di Ciancimino” in Romania. Ma le accuse di Cappellano si sono rivelate infondate e perciò il Tribunale di Palermo aveva rigettato la domanda con una sentenza poi impugnata da Cappellano.  Oggi anche la Corte d’Appello ha dato torto a Cappellano, condannandolo anche alpagamento delle spese giudiziarie delle controparti ed al pagamento all’Erario – come sanzione – del doppio del contributo unificato. Una decisione molto importante, destinata ad incidere nel processo in corso a Roma a carico degli stessi Dombrovschi e Valente, entrambi difesi dall’avv. Ingroia, processo anch’esso derivante dalle accuse di Cappellano, ed in base a cui Dombrovschi e Valente in passato sono stati arrestati ed oggi si trovano sottoposti ad obbligo di dimora e divieto di espatrio dall’Italia. Prossimo appuntamento il 14 luglio in Cassazione dove si deciderà il ricorso dei difensori per la restituzione della piena libertà agli imputati”. Giornale di Sicilia 10 luglio 2016 pag. 5

Antonio Ingroia, una leggenda nella lotta alla mafia lotta, accusa lo Stato rumeno: "Si inginocchia davanti all'Italia» scrive Sorin Cehan il 25 luglio 2016 su "gazetaromaneasca.com". "Un cittadino rumeno è trattato in questo modo, è possibile essere abbandonato dal suo Stato, come può il ministero degli Esteri romeno non prendere una posizione per difendere il cittadino rumeno privato della sua elementare libertà, possibile che l'Ambasciata di Romania a Roma non sollevi alcuna obiezione?» Antonio Ingroia è indignato per l'atteggiamento dello stato rumeno. Una leggenda del movimento anti-mafia in Italia, Antonio Ingroia, l'ex antimafioso della procura di Palermo, un procuratore che ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ex membro della Procura Antimafia a Palermo dopo aver svolto un lavoro molto difficile e pericoloso legato alle mafie è diventato un avvocato e come tale è stato a Bucarest il 15 luglio 2016. Ha partecipato alla assemblea generale della società ECOREC, il suo cliente, Victor Dombrovschi, ostaggio dello Stato italiano ha rinunciato alla qualità di presidente. Ha partecipato alla riunione e Tuzzi Angelo, il quale la magistratura italiana vuole mettere come manager alla ECOREC che gestisce la discarica di Glina, anche se le quote sequestrate non fornisce il controllo della società. Antonio Ingroia allucinato denuncia il fatto che Tuzzi si è presentato con una scorta armata dalla Polizia rumena, che egli stesso, nel corso della sua carriera di procuratore dell'antimafia non ha fatto. Antonio Ingroia mostra quanti errori grossolani sono stati fatti in questo caso e critica l'atteggiamento vergognoso che mostra lo Stato rumeno, ma auspica per lo stesso Stato "una grande opportunità per alzare la testa." In breve, Victor Dombrovschi, un uomo d'affari con doppia cittadinanza romena proprietario della Rumeno-australiana ECOREC, società che gestisce la discarica di Bucarest. A un certo punto associato a un altro studio, Agenda 21, che ha promesso investimenti e che a sua volta è stato associato con un'altra società italiana, SIRCO. Al momento della combinazione, nessuno ha previsto che l'impresa avrà problemi con la mafia. SIRCO è stato posto sotto sequestro nel 2005 e da allora ha combattuto per Glina. In connessione con l'azione della giustizia italiana antimafia mafia, in relazione al cosiddetto "tesoro" di Don Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e referente il gruppo di Cosa Nostra in Sicilia. I procuratori dell'antimafia hanno identificato una parte di questo "tesoro" in Sirco, che ha avuto il 25% delle azioni della società Agenda 21, un azionista a sua volta nel ECOREC Glina. Con l'attacco alla SIRCO hanno sequestrato tutte le partecipazioni in altre società.

Victor Dombrovschi, "ostaggio dello Stato" in Italia. Così è avvenuto che ECOREC è stata collegata al "tesoro" inventato, come dice Antonio Ingroia. Ma dai media sono stati dati allucinanti notizie e cifre, "la più grande discarica di rifiuti in Europa", 119 ettari, del valore di oltre 100 milioni di euro. I dati presi dalla pancia! Victor Dombrovschi è stato arrestato. Nel 2014 fu arrestato con grande dispiegamento di forze ed estradato in Italia, è indicato come "l'uomo della mafia in Romania", inviato a Roma per un "giudizio immediato". Dopo aver trascorso quasi un anno in carcere a Rebibbia, è ora agli arresti domiciliari a Roma. "Ho fatto domanda per rientrare dall'insolvenza e sono stato accusato di aver rubato alla società che si vuole mettere sotto sequestro da parte degli italiani." Victor Dombrovschi è accusato con gli altri che hanno agito per vendere la società, e quindi si seguono i soldi di Ciancimino! È stato arrestato per azioni che sono di competenza parte di un tribunale rumeno. Tuttavia, per le azioni commesse in Romania, certificati da autorità giudiziarie romene, è stato arrestato e mandato in prigione a Roma. Tuttavia, lo Stato italiano vuole cogliere questa discarica e, avendo il controllo sequestrato delle aziende, ricatta Victor Dombrovschi affinchè nomini amministratore Angelo Tuzzi. Se non è accetta, rimane ostaggio. Allucinante non è vero? Nell'Europa del 2016. Ma lo Stato romeno è così indifferente al destino dei suoi cittadini possibile. Ecco cosa ha detto Antonio Ingroia in questa intervista esclusiva a Gazeta rumeno.

Antonio Ingroia questa è la situazione?

"Purtroppo sembra un processo dimenticato. Perché andando avanti molto lentamente, con una media di uno, massimo due incontri al mese, ed ascoltato fino ad ora due, tre testimoni, ne devono essere sentiti 100 in più ..."

L'ordine di estradizione parla di giudizio immediato.

"Sì, si tratta di un giudizio immediato in senso formale, non si è verificato solo perché nell'udienza preliminare un giudice lo aveva stabilito. L'Accusa in questo modo, attraverso il giudizio immediato, ha evitato di dire al giudice la fine del processo, che immaginiamo che fino a quel momento ci vorranno diversi anni. Non avremo una sentenza più presto. "

Di chi è la colpa?

"Diciamo sempre che il sistema è fragile". 

Romeno o italiano?

"In primo luogo il sistema italiano. Ma c'è una passività del sistema rumeno, il che significa che la Romania ha un suo cittadino prigioniero di altri paesi europei, vale a dire l'Italia, prigioniero, prima in carcere, poi in detenzione a casa, poi l'obbligo di risiedere a Roma con divieto di lasciare il paese. Tutto a spese del prigioniero, infatti, perché Victor Dombrovschi all'uscita di prigione, è stato costretto a vivere a Roma ed a pagare il suo vitto e alloggio in un paese straniero lontano dalla sua famiglia, al suo lavoro, i suoi interessi, parlare la lingua, ma questi problemi sono stati ignorati. Ci sono stati momenti di scontro, il conflitto con i giudici che ignorano questo fatto, e ci siamo scontrati con il giudice, quando abbiamo sollevato la giurisdizione del diritto romeno come normale, che coinvolge ECOREC una società rimena, Agenda 21 una società con diritto rumeno, e, naturalmente, si deve prendere in considerazione la legge romena, e il presidente più volte ha risposto no, dicendo che "non siamo interessati alla legge romena, a noi interessa solo la legge italiana."

Questo, al di là di fondo è un esempio del tipo di atteggiamento che ha avuto in questo processo, abbiamo un cittadino rumeno che soffre di una grave disparità di trattamento per gli italiani. Gli altri italiani coinvolti sono stati imprigionati, tra i quali Raffaele Valente, che ha però l'obbligo a casa sua nella sua città natale, il divieto di lasciare il paese, mentre Victor Dombrovschi è in ostaggio di un altro paese. Obbligo di casa, infatti, un'altra assurdità. Secondo i giudici - sono convinto che il reato non esiste, ma se c'è - il reato era stato commesso in Romania non sarebbero stati commessi in Italia, perché l'Agenda 21 è in Romania, ECOREC è in Romania, l'accusa che sarebbe ostacolo ai procedimenti giudiziari italiani si terranno in Romania, in modo da tutti i presunti crimini commessi in Romania, forse perché non esiste crimini ipotetici. In questo caso, si tratta di un difetto di giurisdizione, l'autorità giudiziaria italiana non potrebbe fare questo processo se dovesse essere un processo da fare in Romania. I giudici hanno respinto tale motivo e sostengono che il reato è stato commesso a Roma, ma il paradosso, dice Victor Dombrovschi deve rimanere a Roma - che è nella città in cui il reato era stato commesso - per impedirgli di commettere altri reati. Come se il reato è stato commesso a Roma. Roma giusto per tenerlo? "

Tuttavia riguardare l'Italia, ma ciò che è venuto in Romania?

"Sì, tutto questo riguarda l'Italia. Ma un cittadino rumeno viene trattato in questo modo, è possibile essere abbandonato dal suo stato, come può il ministero degli Esteri romeno non prendere una posizione per difendere il cittadino rumeno privato dei suoi diritti, come si può un Ministero degli affari esteri non indagare la situazione in cui si trova questo cittadino, come può l'ambasciata rumena a Roma non alzare un dito, nonostante il fatto che noi, Victor Dombrovschi come cittadino ha fatto varie dichiarazioni e avvisi alla  Ambasciata rumena e non è successo niente, credo che la questione è piuttosto anomala, questo silenzio, un silenzio incomprensibile in Italia, ma il più incomprensibile in Romania ".

Come è possibile che i media hanno ignorato il soggetto?

"Andremo oltre e prima o poi crediamo che ci sarà la giustizia. Ma è importante far sapere ai media liberi ed indipendenti e spero che questa intervista sia utile e di supporto. Abbiamo bisogno di una opinione pubblica informata e rendere informazioni sul caso. Ho avuto difficoltà a farli conoscere in Italia. Posso capire in Italia, che la Procura di Roma ha messo il suo peso su tutte le autorità in questo processo, in modo che i media tacciono contro la Procura di Roma. Ma mi sorprende che la stampa rumena non è appassionato per la sorte del suo ostaggio rapito di Stato Italia. Se l'autorità rumena avesse applicato la richiesta di sequestro del partito italiano, ECOREC sarebbe stato in bancarotta, era già morto. In questa situazione, che racconta Dombrovschi: Dacci Ecoirec, altrimenti continuiamo a Detenere Dombrovschi in carcere, dovrebbe sollevare una rivolta popolare in Romania, dovrebbe essere petizioni, la prima pagina dei giornali, sarebbe orgoglio patriottico. Invece, niente".

Lo stato italiano è interessato a discarica da Glina?

"E' chiaro che lo Stato italiano nel suo complesso è affamato di discariche. Ogni mese è una situazione di emergenza, ora abbiamo una situazione di emergenza in Sicilia, è a Napoli, Roma, in tutto il mondo, si parla di invio di rifiuti all'estero, in Romania, tanto è spazzatura ... poi in Italia dietro questa indagine si è creato un mito di questo discarica, chiamata "la più grande discarica di rifiuti in Europa", che non è vero, ma aumenta l'appetito, è chiaro che lo Stato italiano è interessato. Ma lo Stato rumeno dovrebbe opporsi, perché si tratta di un business, ed il suo patrimonio dovrebbe difenderlo, altrimenti come la Romania pensa di poter crescere? Se state pensando a crescere solo come soggetto dei cosiddetti paesi potenti, come l'Italia o vuole andare in piedi ... Se vuole andare in piedi, questa è una grande opportunità per alzare la testa ".

"Il tesoro di Ciancimino in Romania, un'invenzione". Antonio Ingroia, l'ex procuratore antimafia, ora avvocato, ha spiegato a Gazeta rumena che la storia del "tesoro" di Ciancimino che sarebbe stato riciclato nella discarica di Glina è un'invenzione, ma, sostenuta dalla procura di Roma ora guidata dal procuratore Giuseppe Pignatone, è usata dai magistrati italiani per lo Stato per accaparrarsi questa discarica. Il cosiddetto "tesoro" di Don Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e del gruppo referente di Cosa Nostra in Sicilia, condannato per mafia e morto nel 2002, è stato identificato in parte Sirco, che hanno il 25% delle azioni la società Agenda 21, un azionista a sua volta in ECOREC dal Glina, del valore di oltre 100 milioni, una mostruosità logica, per chi può immaginare quanta terra che vale la pena di mettere spazzatura. Il caso è stato aperto da Giuseppe Pignatone quando era sostituto procuratore a Palermo. Oggi, Pignatone è a Roma e lavorare sullo stesso caso. Ecco quello che ha detto Antonio Ingroia:

"Questa storia con il cosiddetto tesoro di Ciancimino è una grande bufala, una totale invenzione, solo i media, i giornali, per avere, per esempio, i titoli sui giornali per dire che il tesoro di Ciancimino si trova all'estero, addirittura in Romania. Se si va sul profilo Wikipedia del procuratore generale di Roma, Giuseppe Pignatone, vedrete che tra le indagini più importanti degli ultimi anni gli è attribuita quella di aver scoperto il tesoro di Ciancimino. Un'invenzione che scrive Wikipedia, perché non ci sono prove di dove sarebbe stato riciclato il tesoro di Ciancimino. Niente di tutto questo. Dicono Dombrovschi e Valente hanno ricevuto azioni ad ostacolo di Capellano Seminara, per gestire il sequestro delle azioni proprie di Ciancimino. Il tesoro di Ciancimino era in realtà un piccolo interesse in una società che non ha alcun nesso con ECOREC, solo indirettamente. E poi l'azione e conflitti che sono stati creati tra il ricevitore e Dombrovschi e altri sarebbero stati un favore, tra virgolette, ma se fosse così, sarebbe un favore indiretto, che non ha nulla a che fare con il riciclaggio. Di Ciancimino il cui patrimonio è stato sequestrato gestito Capellano. Ma questo non ha nulla a che fare. In realtà è un imprenditore, in realtà, con tutti i mezzi consentiti dalla legge, ha perseguito i propri interessi come è normale, qualsiasi imprenditore cerca di perseguire i propri interessi. E cercando di fare i propri interessi, ha cercato di tenere fuori il ricevitore per avere una proprietà, per una ragione molto semplice: non appena lo trovano è controllata, Palermo Mafia, Ciancimino, è chiaro che tutte le banche, investitori, fornitori, e sono fuggiti sulla realtà imprenditoriale se muore come associato mob o ha un fiduciario che gestisce un buon mob. Quindi è normale che gli imprenditori cercano di portare via l'amministrazione giudiziaria. Ma perché? Non per fare un favore a Ciancimino, ma per difendere il proprio studio, che altrimenti sarebbe fallito. ECOREC ha questo problema, crolla la  buona amministrazione della giustizia ".

Giuseppe Pignatone è che il procuratore generale di Roma non aiuta ...

"Sono stato per molti anni un collega Giuseppe Pignatone lo stesso ufficio presso l'ufficio del procuratore di Palermo, a volte lo stesso grado, erano entrambi procuratore aggiunto di Palermo, per un certo periodo era il mio superiore, era primo vice procuratore, era vice Palermo, poi si recò a Roma, e io ho preso il suo posto, e abbiamo due modi di pensare e di amministrare la giustizia opposto. Pignatone cade per le sue tesi, e non apre gli occhi ad ammettere gli errori. La verità è che Pignatone ha preso una cantonata di grandi dimensioni, a credere in buona fede, credeva che con il riciclaggio ha identificato una vena di Ciancimino, e su tutti coloro che incontrava lungo questo percorso di pensiero sono i suoi complici Ciancimino. E ha rotto giù come un bulldozer. Ma il magistrato, la giustizia non dovrebbe funzionare come un bulldozer, ma deve operare chirurgicamente, deve saper individuare organi malati e li rimuove per salvare l'organismo sano, altrimenti uccide il paziente. Questo è ciò che accade. Senza dubbio, vi è la frase finale che dice Ciancimino Massimo riciclatore dei soldi del padre, del tesoro, e lo ha fatto in diverse parti del mondo. Ciancimino e Dombrovschi non si sono mai incontrati, non si può pensare che tutti quelli che indirettamente aveva a che fare con l'amministrazione giudiziaria sono tutti i complici di Ciancimino. Massimalista non questo modo di pensare che può funzionare. "

Come andrà a finire?

"La Corte di Cassazione ha respinto la nostra richiesta per il rilascio, andiamo alla Corte europea dei diritti dell'uomo, continueremo a fare altre richieste. " Sorin Cehan

La parola a Raffaele Pietro Valente.

«Nella mia vita sono stato sempre nel mondo della Cooperazione (Confcooperative). Presidente Regionale e consigliere nazionale e membro dell'esecutivo per molti anni. Ho presieduto centinaia di consorzi e cooperative nei settori edilizia, agricoltura, commercio, turismo e culturale. Ho per 30 anni avuto abitazione a Roma Via del Mascherino (San Pietro) e ufficio della Confcooperative a Piazza teatro dell'Opera e privato in Via Condotti 85 1° piano sul Caffè Greco. Dal 1982 ho operato in vari programmi in Ghana, Marocco, Brasile, ex Jugoslavia, Kenia ecc. con la società Italsi di cui era titolare e amministratore unico con sede a Via Condotti. Nel 2000 ho iniziato ad acquistare Palazzi Storici da Banche, Ferrovie e Poste a Bologna, Venezia, Verona, Milano, Brescia ecc. Li ristrutturavo e vendevo a pezzi. Nel 2006 ho acquistato all'Asta la sede Compartimentale delle Ferrovie a Bologna (Palazzo Pizzardi) per 39 milioni più Iva. Avevo delle prenotazioni importanti. Ma il Sindaco di Bologna e il Presidente della Regione mi chiesero di cederlo a loro perché dovevano metterci il Tribunale di Bologna raggruppando i vari uffici (il palazzo era 41.000 mq)

Io accettai facendoci un discreto guadagno che al netto delle tasse rimase su Unicredit Bologna. Quando ho acquistato a Bologna Palazzo Pepoli (del ‘300 21.000 mq.) da Carisbo poi Palazzo Pizzardi (del ‘500 - 41.000 mq.) Palazzo delle Poste (fine 800 21.000 mq) tutti al centro città lo feci scontrandomi con tutte le lobby che a Bologna dominano tutto e tutti.

Nel 2008 mi resi conto che in Italia il settore edilizio si era bloccato decisi di guardarmi intorno in Europa. Degli amici mi suggerirono la Romania dove molte aziende italiane avevano potato sede e lavorazioni e c'era un buon supporto dall'ambasciata. Nel Febbraio 2008 esaminai varie proposte avute sia da amici che da internet e ne scelsi una ove c'era già un altro imprenditore italiano Sergio Pileri di Rieti che era in Romania da 15 anni. Lo incontrai a Roma in aeroporto a Fiumicino e mi piacque sia lui che la Proposta. Mi recai qualche settimana dopo a Bucarest (fine febbraio) ed era la mia prima volta in Romania. Vidi, confermai l'interesse e sottoscrivemmo una lettera d'intenti di acquisizione di parte del pacchetto azionario di una società che aveva 10 ettari belli adiacente l'aeroporto di Bucarest dove la città aveva concentrato tutti i Centri commerciali, centri distribuzione, sedi di marchi di auto ecc. Ritornai a Bucarest nel mese di Marzo e costituii la società Alzalea srl (io socio unico e Amministratore unico) e con tale società sottoscrissi il compromesso d'acquisto delle azioni SEMTEST SA dal signor Sergio Pileri che era titolare. Ritornai sempre a Marzo a Bucarest con i miei tecnici per i sopralluoghi e per impostare con il Comune il Progetto di sviluppo dell'area (in Romania PUZ). Pileri mi parlò che lui era socio di una società Holding "AGENDA 21 SA" che controllava discariche in Romania e dove però c'era la presenza di una società al 20,5% di Palermo confiscata dalla Procura di Palermo. Mi incuriosì e mi offrii di parlare direttamente con l'Amministratore Giudiziario Cappellano Seminara per vedere le loro intenzioni. Rientrai a Roma e attraverso un'altra socia italiana feci fissare un incontro a Milano da un avvocato mio di fiducia con Cappellano per vedere se c'erano i presupposti per un nostro incontro (se la procura confermava di volersi sbarazzare di questa partecipazione minoritaria e se io gli stavo bene come interlocutore). Cappellano si riservò qualche giorno (in cui fece i dovuti riscontri sulla mia persona) e chiese di fissare a Milano un incontro con me. Nell'incontro si andò subito al sodo. Fu confermato l'interesse a cedere la partecipazione che permetteva alla Procura di rientrare di 16 milioni di prestiti fatti da Sirco confiscata alla Holding e poi un prezzo di cessione delle azioni da definire). Io volai a Bucarest e incontrai tutti i soci per metterli a conoscenza della trattativa ed avere il loro consenso e la rinuncia alla prelazione. Ebbi l'assenso e fissai un altro incontro con Cappellano che intanto aveva sentito il Giudice e aveva avuto assenso a procedere. Mi furono dettate le condizioni minime irrinunciabili e io volai a Bucarest per mettere per iscritto ai soci le condizioni che stavo inviando alla Procura a nome di ALZALEA per acquistare il 20,5% delle azioni della Holding AGENDA 21 SA (in particolare c'era la rinuncia alle liti avendo i soci fatto denunce incrociate fra loro e con Sirco e in più la rinuncia alla Prelazione di acquisto). Invio da Bucarest l'offerta d'acquisto il 9.4.2008.  Purtroppo c'era in corso la vendita all'Asta dal tribunale di Bucarest dell'82% delle azioni di ECOREC SA che è la discarica di Bucarest per un debito non onorato. La Holding AGENDA 21 SA aveva messo le azioni di ECOREC a garanzia del debito.  Nell'accordo tra Valente e Cappellano (ben chiaro nelle mail scambiate) c'era che se il Giudice dava l'assenso alla trattativa Valente avrebbe anticipato il pagamento del debito e tale somma sarebbe scalata sul Prezzo azioni della Sirco in vendita. L'Asta era prevista per il 17 aprile e fino alla sera Valente sollecitò Cappellano. Ma nulla. Allora Valente preavvisando a Cappellano versò la cauzione per l'Asta e il 17 si aggiudicò l'82% delle azioni ECOREC alle 14. Dopo qualche ora Valente invia a Cappellano una email per dirgli che aveva salvato le azioni di Ecorec da terzi e quindi di di andare sulla strada maestra tracciata. Valente aveva 30 giorni di tempo per intestare le azioni. Se si sarebbe perfezionata la vendita del 20,5% delle azioni di Agenda 21 SA ad Alzalea la stessa faceva rimanere la titolarità delle azioni di Ecorec alla società AGENDA 21 SA come era scritto nella offerta e negli accordi notarili stilati tra i soci il 16.4.2008 a Bucarest. L'autorizzazione del Giudice arrivò il 18, ma Cappellano ne dà notizia a Valente solo il 24 inviandogli una bozza di acquisto che Valente definì "patto della iena". Valente reagì violentemente scrivendo a Cappellano e al suo avvocato Meli che lui "non era un coglione". Seguirono sterili mail tra Valente e Cappellano. Intanto Cappellano aveva denunciato Valente e tutti i soci Agenda 21 ed Ecorec ipotizzando una teoria di pianificazione di spoglio della Sirco perpetuata da Valente e altri a partire dal 2006. Il 4 giugno 2008 il Tribunale respingeva l'accusa di Cappellano/Sirco ritenendo che tutto si era svolto in modo più che regolare. La sentenza è stata talmente ben articolata e precisa che il Cappellano ha rinunciato all'Appello. Intanto anche la Procura generale presso la Cassazione di Bucarest apre un inchiesta (le accuse erano gravi, parlavano di azioni mafiose ed altro). La Procura chiude l'inchiesta con un decreto che scagiona senza ombra di dubbio tutti noi. Allora Cappellano inizia CON LE STESSE MOTIVAZIONI DELLA CAUSA DI BUCAREST una battaglia a Palermo contro noi. La Presidente del Tribunale della Prevenzione di Palermo Silvana Saguto emette nel 2011 un Provvedimento di sequestro di Agenda 21 SA, Ecorec SA e di Alzalea srl E NE AFFIDA LA CUSTODIA A CAPPELLANO SEMINARA CHE AVEVA NOMINATO SUO CONSULENTE IL MARITO DELLA SAGUTO ING. CARAMMA. La procura antimafia si getta a pesce su tale inchiesta. A me viene ipotizzato sia di aver partecipato dal 2006 ad un disegno criminoso di spoglio di Sirco e sia di averlo fatto con Vito Ciancimino, Lapis, Ghiron, Campodonico che non ho mai conosciuto e avuto a che fare e con Pileri, Dombrovschi che ho conosciuto solo nel marzo 2008. Finalmente nel 2012 la Procura di Palermo chiede per tre volte l'archiviazione perché il fatto non esiste. Ma il Gip ordina ulteriori indagini. A Marzo 2013 finalmente il Gip accetta la Proposta della Procura. Ma uno dei procuratori è Pignatone che intanto era arrivato a Roma. Questo dal 2002 avvia delle sue indagini partendo da pentiti che hanno dichiarato che le macerie del terremoto di L'Aquila dovevano andare a Bucarest dove Ciancimino figlio aveva interessi. Riapre le indagini e apprende che i soci stanno trattando per cedere parte o tutto il pacchetto azionario di Ecorec a società specializzate del settore. Intanto la Holding Agenda 21 Sa è fallita. A ottobre 2012 viene data a Valente l'avviso di garanzia. Valente accetta di farsi interrogare il 5.10. 2012 e risponde a tutte le domande e pensa di aver chiarito tutto. Il teorema è fasullo e senza riscontri ed è già stato fatto e chiuso. Valente ha acquistato all'Asta dal tribunale di Bucarest l'82% delle azioni di Ecorec. La documentazione cartacea conferma quanto ha sempre dichiarato prima a Palermo e poi a Roma. Risulta che il denaro portato è lecito e tracciato e giunto a Bucarest attraverso Unicredit e Banca d'Italia (la Romania è fuori dall'euro) detto dal generale della Finanza della Procura di Palermo. Valente dal 2009 è coordinatore di un Progetto importante che prevede di portare in Italia dal Montenegro/Albania 1,2 miliardi di mc di acqua annui. Il Progetto a fine 2013 giunge a conclusione. Nel 2014 si definiscono gli accordi con i Governi e due Fondi che coprono l'operazione. Stranamente la Procura di Roma accelera e arresta Valente e Pileri e Dobrovschi e Rizzi il 14 luglio 2014 (Valente è rientrato dal Montenegro il 13 sera dopo tre riunioni ministeriali in cui si sono definiti gli accordi per l'acqua; per il raccordo Bar Bari con Interoute (leader europea comunicazioni) per collegamento dati; con Gasprom per un impianto a Bar di un degassificatore per Croazia, Albania, Sebia e Italia. Un progetto da 6 miliardi di euro. Sono stato recluso nel carcere di Larino (Campobasso) da luglio a Ottobre, poi trasferito a Rebibbia fino al 18 maggio 2015 e poi agli arresti domiciliari fino al 15 luglio e poi messo agli obblighi di dimora a Termoli (CB). Ad Agosto 2015 mi è venuto a trovare in carcere l’ex Procuratore Antimafia di Palermo Antonio Ingroia. Mi offrì di farmi da consulente. Gli chiesi di diventare mio difensore. Ottenne l’autorizzazione dal CSM e dal 30.9.2015 è mio difensore. Facemmo ricorso al tribunale del Riesame e poi alla Cassazione che però confermarono il Provvedimento. A Gennaio 2015 abbiamo iniziato a fare le udienze. Ne abbiamo fatto una trentina e non è stato confermato alcun riscontro.

Ingroia oltre che per me è difensore anche da Dombrovschi che è il presidente e maggior azionista di Ecorec. Dallo scorso anno Ingroia è diventato legale di Ecorec e il 16 luglio 2016 nell’assemblea Ecorec ha fatto nominare nel consiglio di amministrazione di Ecorec un legale del suo studio. Io gli ho sollevato il problema dell’incompatibilità e l’ho costretto a rassegnare il mandato. Il Collegio si è barricato sul volere di Pignatone e non ci concede nemmeno l’annullamento dei cautelari. Intanto la Giudice Saguto è stata sospesa dalla carica e dallo stipendio (confermato anche dalla Cassazione) e a metà Ottobre 2016 la Procura di Caltanissetta ha emesso un decreto che ha sequestrato tutti beni sia della Saguto che dell’Amministrazione giudiziario Cappellano Seminara. L’accusa (70 capi d’accusa) è che creavano false accuse per giungere al sequestro di società da parte della Saguto per poi affidare la gestione delle società sequestrate in via preventiva all’A. G. Seminara Cappellano che nominava a sua volta l’ing. Caramma (marito della Saguto) suo consulente. Quello che è successo a noi. E nonostante ciò il Collegio se la prende comoda e non ci lascia liberi. Tenendoci ai cautelari.

Io sono amico di Pino Maniaci che ha seguito tutte le nostre udienze fino a che glielo hanno impedito. Con lui abbiamo coinvolto Radio Radicale che trasmette tutte le nostre udienze. Io ero amico di Pannella che era di Teramo e da cui ho anche acquistato un immobile. La caduta della Saguto e di altri giudici e Prefetti (di Palermo e …) è avvenuta per denuncia aperta prima mia e poi di Maniaci e di altri. La giudice Sava fu la prima che credette alla mia versione dei fatti di Romania e pur con mille ostacoli è stata la firmataria dei Provvedimenti impensabili anni fa. Sull’argomento già si è pronunciato il Tribunale di Bucarest in via definitiva e la Procura di Roma a Bucarest è aut anzi Cappellano e altri sono inquisiti per danno allo Stato Rumeno. A Palermo con le stesse motivazioni Cappellano/Procura hanno perso il 1° grado e l’appello. Ora siamo in Cassazione che a Ottobre ha confermato che i signori Saguto e Cappellano e altri facevano quello che hanno fatto a noi in serie e ripetutamente. E la Saguto aveva scelto l’avv. Buongiorno per cercare di annullare i provvedimenti. E poi c’è Caltanissetta che ha dato la coltellata finale con i sequestri».

I BENI CONFISCATI? “ROBA NOSTRA”.

Chi è la signora dei beni confiscati, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto.O - Dura e pura. Spigolosa e intransigente. A volte scontrosa nei rapporti umani, anche con gli avvocati che ne contestavano spesso i metodi processuali. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Prima il brusio e i sospetti sugli incarichi assegnati dalla sezione Misure di prevenzione da lei presieduta, poi lo scandalo esploso nei giorni scorsi. Perché la Saguto adesso è accusata di avere gestito come se fosse un suo feudo un settore delicato come quello dei sequestri e delle confische dei beni mafiosi. Avrà tempo e modo di difendersi, ma la bomba è scoppiata. La luce propria si è spenta fino al punto che per riaccenderla, sempre secondo i pm nisseni, il magistrato avrebbe fatto filtrare, pochi mesi fa, la notizia che la mafia volesse ucciderla. Anche Livesicilia quella notizia la verificò e la scrisse, avendo saputo che i servizi segreti avevano rilanciato un pericolo segnalato un anno prima. Ora si scopre che, secondo i pm, dietro quell'allarme ci sarebbe stata la regia della Saguto che avrebbe cercato di rispondere alle polemiche che erano esplose attorno alla sua gestione dell'ufficio. Il magistrato, a fine 2013, era già finita su tutti i giornali perché il prefetto aveva deciso di rafforzarle la scorta. Lei stessa aveva preparato un dossier, come riportavano i quotidiani, per raccontare l'escalation di minacce subite assieme ai colleghi della sezione: teste di capretto, telefonate anonime, pedinamenti. Tutto ciò accadeva meno di due anni fa, quando i mugugni sulle Misure di prevenzione erano già forti, eppure sembra che sia passato un secolo. Anche e soprattutto alla luce dell'inchiesta che l'ha travolta. Pesano come un macigno le ipotesi di corruzione e abuso d'ufficio. La gestione dei beni sarebbe divenuta per il magistrato un affare di famiglia visto che sono indagati pure il marito, il padre e il figlio. Nel decreto di sequestro compare anche l'ipotesi di autoriciclaggio forse legata all'anziano genitore. La Saguto oggi siede sul banco dei cattivi. Lo stesso su cui hanno trovato posto coloro che il giudice ha combattuto nel corso di una lunga carriera. Il suo nome è legato ad alcune pagine rimaste nella storia giudiziaria. Ad esempio, non ebbe timore nel 1993, a “sfidare” Totò Riina, quando si sentiva ancora forte l'odore acre del tritolo esploso a Capaci e in via D'Amelio. La Saguto era il giudice a latere - presidente Gioacchino Agnello - nel processo in corte d'assise per gli omicidi di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Durante una pausa le telecamere in aula restarono accese. E così i magistrati, che si erano ritirati, ascoltarono Riina mentre invitava il pentito Gaspare Mutolo a tornare ad essere il “Gasparino” di sempre. “Farai la fine di Matteo Lo Vecchio”, gli disse il padrino corleonese citando uno dei personaggi del libro “I Beati Paoli” che viene ritrovato impiccato a piazza della Vergogna. E così al rientro in aula la Saguto chiese al padrino corleonese: “Che fine ha fatto Matteo Lo Vecchio, mi interessa”. “Ma non lo so c'è un libro che ne parla”. E la Saguto: “Quindi lei legge libri a metà”. Nessuno un ventennio dopo avrebbe immaginato di ritrovare la Saguto indagata per corruzione. Lo stesso giudice inflessibile che in molti hanno conosciuto quando da Giudice per le indagini preliminari firmava decine di ordini di arresto, oppure infliggeva pesanti condanne in Tribunale. Così come inflessibile è stata nel suo incarico alle Misure di Prevenzione sequestrando miliardi di beni tolti ai più importanti gruppi imprenditoriali palermitani. Tra questi, Niceta, Rappa, Virga. È alle Misure di prevenzione, però, che la stella antimafia della Saguto si oscura.

Saguto e lo scandalo beni confiscati. Ipotesi autoriciclaggio, continua Riccardo Lo Verso. Al reato si fa riferimento nel decreto di perquisizione ai danni dell'ex presidente della Sezione misure di Prevenzione. Lo strano coinvolgimento del padre del magistrato apre nuovi scenari. A casa di Silvana Saguto i finanzieri della Tributaria ci sono rimasti quasi venti ore. Quando nei giorni scorsi si sono presentati con un mandato di perquisizione firmato dai pubblici ministeri di Caltanissetta cercavano tracce dei soldi frutto della presunta corruzione. Passaggi bancari e investimenti. La conferma dell'ipotesi a cui si lavora arriva dal riferimento, contenuto nel decreto di perquisizione, al reato di autoriciclaggio. Un riferimento stringato senza spiegazione alcuna. Il reato di riciclaggio viene contestato a colui che investe il denaro che qualcun altro ha ottenuto illecitamente. Una sorta di mediatore. Cosa diversa è l'autoriciclaggio che si configura quando a ripulire i soldi è la stessa persona che ha commesso il delitto presupposto. Faccenda complicata da ricostruire, specie nel “buio” investigativo. Che si complica ancor di più, nel caso specifico, con il coinvolgimento di Vittorio Saguto, il padre pensionato dell'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Sarebbe stato lui a ricevere somme di denaro e a che titolo? Sarebbe stato lui l'artefice di chissà quale investimento? Domande, al momento, senza risposta. Le indagini vanno avanti in gran segreto lontano dal clamore suscitato dalle perquisizioni dei giorni scorsi con gli agenti arrivati fin dentro il Palazzo di Giustizia, nella stanza della Saguto e nella cancelleria della Sezione che si occupa del sequestro e della confisca dei beni ai mafiosi. Una sezione travolta dall'inchiesta e rivoluzionata dal neo presidente del Tribunale Salvatore Di Vitale d'intesa con Mario Fontana, successore della Saguto. Sono andati via Lorenzo Chiaramonte (indagato per abuso d'ufficio nella stessa inchiesta) e Claudia Rosini (estranea all'indagine, aveva chiesto da tempo il trasferimento). Al loro posto sono stati nominati Luigi Petrucci e Vincenzo Liotta. Della vecchia gestione resta il solo Fabio Licata che però aveva già fatto richiesta di trasferimento prima che esplodesse lo scandalo. Di Vitale ha annunciato ieri che sarà costituito un albo degli amministratori giudiziari e si fisseranno regole per i compensi da rivedere al ribasso. Adesso i finanzieri lavorano nel chiuso delle loro stanze, sempre che non serva uno spostamento improvviso. Bocce ferme per legali degli indagati. Una calma solo apparente.

Beni sequestrati alla mafia, ipotesi “falso attentato” per il giudice Saguto. La procura di Caltanissetta ipotizza che la notizia sul pericolo di morte per il magistrato fosse stato "soffiata" di proposito ai giornali per ottenere solidarietà dall'opinione pubblica. Il caso approda alla prima commissione del Csm, scrive "Il Fatto Quotidiano". La notizia di un attentato fatta circolare di proposito per ottenere consenso.  Spunta un interrogativo inquietante nell’indagine su Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, Un mistero legato alla notizia pubblicata da alcuni giornali il 22 maggio scorso. Nelle settimane precedenti il giudice che gestiva i beni sequestrati a Cosa nostra era stato bersaglio delle inchieste giornalistiche di Telejato, la piccola emittente di Partinico, in provincia di Palermo, riprese anche da una puntata della trasmissione Le Iene, quando viene diffusa la notizia di un piano di morte ai suoi danni. A voler assassinare Saguto, secondo i take d’agenzia che citavano una nota dei servizi di sicurezza, era Cosa nostra palermitana, indispettita per i continui sequestri, che per colpire il magistrato aveva chiesto un “favore” al clan Emmanuello di Gela. La procura di Caltanissetta, come riportato dal Messaggero, ipotizza che quella notizia, che risaliva a parecchio tempo prima, fosse stata “soffiata” di proposito ai giornali in quel periodo, da un ufficiale della Dia vicino alla Saguto: un modo per ottenere solidarietà dall’opinione pubblica dopo gli attacchi di Pino Maniaci. Il direttore di Telejato è autore di un esposto alla procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati. Nel frattempo, dopo Saguto, anche Lorenzo Chiaramonte, indagato per abuso d’ufficio ha fatto un passo indietro lasciando l’incarico di giudice della sezione misure di prevenzione: è accusato di non si essersi astenuto in occasione dell’incarico di amministratore di beni sequestrati a una persona a lui molto vicina.  Anche il Csm ha aperto un fascicolo al vaglio della prima sezione, quella competente per i casi di incompatibilità ambientale dei magistrati: il relatore del fascicolo è il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin. L’inchiesta sui beni sequestrati, infatti, coinvolge anche Tommaso Virga, fino all’anno scorso componente togato di Palazzo dei Marescialli, oggi indagato per induzione alla concussione: per gli inquirenti avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva sul capo della Saguto e in cambio il figlio Walter avrebbe ottenuto un incarico da amministratore giudiziario. L’ex consigliere del Csm, però, nega di essersi mai interessato a vicende disciplinari nell’interesse di Saguto e si dice pronto a chiarire ogni cosa. Nel registro degli indagati anche il pm antimafia Dario Scaletta accusato di rivelazione di notizie riservate per aver informato alcuni colleghi della sezione misure di prevenzione dell’indagine sulla Saguto.

WALTER VIRGA SI È DIMESSO DA DUE INCARICHI, QUELLO DEI NEGOZI BAGAGLI E QUELLO DELL’IMPERO DEI RAPPA. Di Salvo Vitale su “Tele Jato”. È venuta fuori la notizia di una Land Rover, di uno degli autosaloni sequestrati ai Rappa, ceduta a prezzo di favore al figlio dell’ex presidente delle misure di prevenzione Vincenzi, ma questo si è arrabbiato, ha detto che non è vero, perché lo sconto di 4 mila e rotti euro era lo stesso di quello che gli aveva fatto una concessionaria romana e ha detto che non vuole essere tirato in ballo, quindi tutti muti, non c’è niente. E’ venuta fuori un’altra notizia, ovvero che gli incarichi a Virga non sono due, ma ventotto. Il picciotto è ancora giovane e, continuando così finirà col superare i record di Cappellano Seminara, che, ne possediamo l’elenco, è di 96 (non tutte amministrazioni giudiziarie). Ma a superare Cappellano potrebbe esserci un altro amministratore, specializzato nella distruzione di aziende a lui assegnate, spesso in compagnia di un altro amministratore, Geraci, che ha dilapidato anche lui interi imperi commerciali e che è genero di Calcedonio Di Giovanni, padrone del sequestrato villaggio Kartibubbo: parliamo di Giuseppe Sanfilippo, del quale si conoscono almeno una settantina di incarichi dati dalla procura. Altri individui di cui non ci basterebbe l’intera giornata per valutare i danni, brillano nel firmamento degli amministratori palermitani: abbiamo addirittura scoperto un avvocato quotino, che è stato nominato da Cappellano Seminara suo difensore, ma che è anche un avvocato che dovrebbe far valere le ragioni di un cliente giudicato non mafioso, cui è stato consegnato tutto, cioè niente. Non è un cappellano, ma sta anche lui in chiesa. E tuttavia il deus ex machina che ha tenuto sapientemente le fila di tutta questa complicata matassa è sempre lei, Silvana Saguto, nei confronti della quale oggi spunta la notizia che avrebbe fatto auto riciclaggio: ci chiedevamo cosa c’entra il padre, Vittorio, indagato nello stesso procedimento e adesso è venuto fuori, mettiamoci un “pare” che la Saguto stornava nei conti correnti del padre o intestava a lui proventi sulla cui provenienza lecita o illecita, dopo la perquisizione fatta a casa sua e nel suo ufficio si sta indagando. Ora la domanda è: perché la signora ha cambiato camera e resta sempre in un posto privilegiato della terza sessione penale e perché invece non è stata sospesa in attesa di giudizio: per molto meno le carceri sono piene, ma anche gli stessi politici spesso si trovano nei guai. I magistrati invece non pagano mai. E nemmeno quelli che operano in loro nome. A proposito, questa notizia rassomiglia a quella di Cappellano Seminara, che ha intestato a sua madre, 86 anni, la maggioranza delle azioni dell’Hotel Brunaccini e a sua figlia solo una di queste azioni, riservandosi il ruolo di amministratore del suo albergo. Padri e figli in un ricco abbraccio. Ci ha lasciato anche il PM Scaletta il quale non vuole più sentir parlare di beni sequestrati e vuole andare altrove, ma anche l’altro magistrato Fabio Licata, pupillo della Saguto, da tempo ha inoltrato domanda di trasferimento. A proposito, visto che ha in mano il procedimento per stalking inoltrato da Cappellano Seminara contro Pino Maniaci, lo lascerà o se lo porterà appresso? Quindi aria nuova in un ufficio che sembra circondato da cani famelici che aspettano l’osso. Parliamo degli amministratori. Vogliamo ancora sperare che c’è un giudice a Berlino, anzi, a Palermo.

"Caso"’ Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci? Scrive Giulio Ambrosetti il 13 novembre 2015 su “La Voce di New York”. A raccontarci quest’incredibile storia è lo stesso Pino Maniaci, direttore di TeleJato. La convocazione del procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi, presso l’Antimafia nazionale di Rosy Bindi. Le domande di Claudio Fava. L’incredibile storia dei Cavallotti e dell’Italgas. E adesso occhi puntati sulla Sezione Fallimentare del Tribunale di Palermo. Vista la rilevanza del tema e l’incredibile portata delle novità che sembrano profilarsi all’orizzonte, pubblichiamo questa intervista a Pino Maniaci.

Ci faccia capire, direttore, alla fine il mafioso è lei?

Dall’altra parte del telefono Pino Maniaci, direttore di TeleJato, la Tv che ha scoperchiato il ‘verminaio’della Sezione di Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sorride amaro. Sì, anche se non l’abbiamo davanti, la sua voce, ironica e ferma, ci sembra venata da amarezza. Dice:

“Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Andiamo con ordine. Prima di occuparci di chi è ancora nel giro parliamo delle voci che qualcuno, ad arte, sta facendo circolare sul suo conto.

“Parla del fatto che vorrebbero arrestarmi?”, ci chiede ironico Maniaci.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto ‘notizie’ su di lei…

“La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

“Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non ‘entusiasmante’, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

“Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

“Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

“E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pino Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

“Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per ‘raccontare vent’anni di antimafia’, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi - con riferimento anche al mio operato - sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

“Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

“Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

“Mi denunciano per stolking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

“Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

“Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

“Pagavano il pizzo. Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

“No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

“Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

“Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

“Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono ‘artisti’. Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

“Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

“Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato promosso: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

“Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent'anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

“Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

Caso Saguto, trasferiti altri due magistrati indagati. Si tratta di Fabio Licata, che era vice di Saguto, e di Lorenzo Chiaromonte, indagati rispettivamente di concorso in corruzione e abuso d'ufficio. Lo storico Salvatore Lupo: "Diffidare dei magistrati che si circondano di folla plaudente", scrive “La Repubblica” il 10 novembre 2015. Dopo Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo sospesa dalle funzioni e indagata per corruzione, anche altri due magistrati che hanno lavorato in quella stessa sezione e che sono rimasti coinvolti nella stessa inchiesta si apprestano a lasciare il capoluogo siciliano. Si tratta di Fabio Licata, che era vice di Saguto, e di Lorenzo Chiaromonte, indagati rispettivamente di concorso in corruzione e abuso d'ufficio. Entrambi, dopo l'avvio della procedura di trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale da parte della Prima Commissione del Csm, avevano chiesto di essere destinati subito ad altra sede. E oggi dalla Commissione è arrivato il primo via libera alla loro richiesta. Per Licata - che è accusato di aver adottato provvedimenti per aumentare i compensi dell'ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Saguto e consulente di un amministratore giudiziario - il sì dei consiglieri ha riguardato Messina, l'unica sede tra quelle indicate fuori dal distretto giudiziario di Palermo. Una sorte che invece non è toccata a Chiaromonte trasferito a Marsala, forse per la contestazione meno grave che gli muovono i pm nisseni, quella di non essersi astenuto in una procedura nonostante ricorressero ragioni di opportunità. Perché il trasferimento dei due giudici -che davanti al Csm hanno negato gli addebiti- diventi effettivamente operativo occorrono altri due passaggi, ritenuti pacifici: il sì di un'altra Commissione, la Terza, e quello del plenum di Palazzo dei marescialli. Giovedì prossimo invece la Commissione procederà al deposito degli atti per Tommaso Virga, l'unico dei giudici coinvolti nell'inchiesta (per lui l'accusa è induzione indebita) a non aver chiesto il trasferimento "in prevenzione". Un passo che prelude alle imminenti conclusioni della Commissione, che tra dieci giorni deciderà se chiedere al plenum il trasferimento d'ufficio o l'archiviazione. La Commissione starebbe già maturando un orientamento favorevole all'archiviazione invece per il pm della Dda di Palermo Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto d'ufficio, perché secondo la procura di Caltanissetta avrebbe informato Licata e Chiaromonte della trasmissione da Palermo a Caltanissetta del fascicolo alla base dell'inchiesta. Davanti al Csm Licata ha negato di aver fornito alcun tipo di informazione, ricordando soltanto una riunione in procura in cui si parlò di quel procedimento. Una circostanza confermata oggi dal procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, ascoltato dalla Commissione. Sempre giovedì prossimo (ma è probabile uno slittamento) la Commissione potrebbe fare il punto sulla posizione del presidente della Sezione Misure di prevenzione del tribunale di Roma, Riccardo Muntoni, a cui Saguto sollecitò la nomina di suo marito quale coadiutore nelle amministrazioni giudiziarie; si tratta di decidere se avviare anche nei suoi confronti la procedura di trasferimento d'ufficio. Lo storico Lupo: "Diffidare dei magistrati che si circondano di folla plaudente". "Se le imprese della nostra regione sono così colluse con la mafia, allora trovare imprenditori puliti non è facile. E un patrimonio confiscato reso disponibile a persone che sono tecnici e magistrati crea una situazione da socialismo reale, per cui facilmente le imprese confiscate vanno in rovina e facilmente c'è chi se ne approfitta. Serviranno delle leggi rigide moralmente ed efficaci economicamente, e questo francamente non è facile". Lo ha detto lo storico Salvatore Lupo intervenendo alla conferenza "Le mafie e l'antimafia ieri e oggi. L'evoluzione di Cosa nostra e dell'Ndrangheta" organizzata dal centro Pio La Torre al cinema Rouge et noir di Palermo. "Bisogna diffidare - ha aggiunto Lupo rivolgendosi alla platea di studenti che avevano fatto delle domande sui beni confiscati e l'antimafia - di chi troppo insiste sul tasto retorico e dei magistrati che si circondano di folla plaudente. La folla plaudente non è il luogo dei magistrati". All'incontro sono intervenuti anche l'economista Franco Garufi e lo storico Enzo Ciconte, che ha contestato la scelta di Reggio Calabria come sede centrale dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati "fatta per ragioni politiche", ha detto. "C'è una confusa e crescente domanda di moralità - ha continuato Lupo - che non necessariamente imbarca soggetti morali in grado di combattere la mafia. Ne sono stati esempi, finora, l'onorevole Salvatore Cuffaro, ancora in carcere con l'accusa di avere favorito l'organizzazione mafiosa e che ha vinto la sua campagna elettorale al grido "la mafia fa schifo", o i magistrati che hanno provato a costruirsi una carriera, anche politica, con le inchieste sulla mafia. Altri esempi di questa contraddizione provengono dalla ricerca della fondazione Res coordinata da Rocco Sciarrone - ha aggiunto Lupo - dalla quale emerge che le ditte palermitane più colluse con cosa nostra hanno fatto parte di associazioni antiracket. Questo dimostra che non basta definirsi antimafia per essere al livello delle necessità di pulizia della nostra società. A 25 anni dalle stragi bisogna restituire la dialettica dei poteri reali, non esistono intoccabili".

Il mare si va chiudendo, cominciano le denunce, scrive Salvo Vitale su “Telejato il 13 novembre 2015. Lo sappiamo, dentro la magistratura ci sono secoli di sapienza giuridica, strade, stradine, svicolamenti, commi, codicilli, linee di difesa, articoli di legge e sentenze emesse cinquant’anni fa, che servono a far diventare il più innocente degli uomini un perfetto criminale e il più raffinato mafioso un perseguitato dalla legge, una brava persona. È di oggi la notizia che la prima commissione del CSM ha chiesto di archiviare la posizione del sostituto procuratore Dda Dario Scaletta, ovvero il braccio destro della Saguto, il quale non ha commesso niente di grave: che c’è di male se uno informa il suo diretto superiore che è sotto indagine e che ha il telefono sotto controllo? Dai, che fa, la poverina non lo doveva sapere? Tutto normale. Tanto per far vedere che invece qualcosa si muove, scende in campo l’Associazione nazionale magistrati che forse prima era distratta e solo adesso si decide ad aprire un procedimento disciplinare contro i magistrati indagati. Chiè? Chi c’è? Chi Successi? Veru? Ma unni sapevamu nienti. Allura viremu di fari cocchi cosa, ma iamuci araciu. Araciu. Pare che si stia mettendo ma posto anche la posizione di Tommaso Virga, che dichiara di non avere mai ricevuto procedimenti disciplinari contro la Saguto e pertanto che l’incarico a suo figlio non era uno scambio di favori, ma una libera iniziativa del magistrato delle misure di prevenzione, che già conosceva quant’era bravo Walter, perché gli aveva affidato i negozi Bagagli ed egli li aveva fatti quasi tutti chiudere. Una cosa invece oggi viene fuori tra i tanti scandali, ovvero il vergognoso ritardo di coloro che avrebbero dovuto fare gli inventari di ciò che era sequestrato e hanno fatto passare anche cinque anni, senza cominciare, se lo sono scordato, avevano altre cose da fare, bastava riscuotere qualcosa dall’azienda, on attesa di una dichiarazione di fallimento, che avrebbe risparmiato la fatica. Anche qua non ha parlato nessuno, oppresso dal sistema di terrore instaurato, con il contentino di qualche briciola, tante speranze, tante delusioni.  Sono ormai tantissime le persone che ogni giorno vengono a raccontarci i soprusi che hanno subito: l’ultima, ieri, ci ha fatto vedere una richiesta di sussidio avanzata alla Saguto dai suoi amici avvocati e la sprezzante risposta: poiché può permettersi due avvocati, l’istanza è respinta. I bambini possono morire di fame. Crudelia de Mon l’ha definita questa signora, cui è stato tolto il negozietto realizzato con i suoi solti. Ma a dimostrare che non c’eravamo fatti illusioni e che a poco a poco il mare si richiuderà anche sulle nostre teste, è di oggi la notizia, sparata da un network locale, che era pronto il mandato di cattura per Pino Maniaci e, senti senti, per mafia. Insomma, andando avanti così anche il papa dovrebbe essere un criminale, per non parlare del presidente della Repubblica, figlio, sappiamo tutti, di chi. Va be, aspettiamo a vedere se questa minchiata, concepita dalle teste sopraffine della Procura ha un fondamento, dopodiché pensate a portarmi tutti in carcere un pezzetto di bene confiscato alla mafia. Altre indagini sono in corso, perché i carabinieri, su disposizione della procura, ci chiedono le cassette delle trasmissioni dei giorni scorsi. Ma come? Essi che registrano e intercettano tutto, non potrebbero copiarsele? E per chiudere il cerchio è di oggi la notizia che anche il sottoscritto Salvo Vitale è sottoposto a indagine per avere scritto, mesi fa, quando tutto era in silenzio e parlavamo solo noi, un articolo, “I quotini”, nel quale si svelava il gigantesco sistema di potere e il magnamagna gestito dall’ufficio di Cappellano Seminara, per il quale erano in quota almeno una cinquantina di avvocati, il tutto in filo diretto con la Saguto. Ci saranno, ci non sempre, se ne può trovare in qualsiasi spazio del nostro telegiornale, parole, informazioni, giudizi, notizie, commenti che possono dare spazio a denunce. Lo sappiamo bene. Abbiamo il record mondiale di denunce, ma ci siamo ancora, in nome del diritto di dire il nostro pensiero, di informare sui fatti e di denunciare le malefatte sulla base di quanto scritto nell’art. 21 della Costituzione. Sappiamo anche che ci sono i fascisti di sempre, siano essi mafiosi, avvocati, inquinatori, politici, magistrati, uomini in divisa, che ci provano ogni giorno, convinti che valga ancora la vecchia regola mafiosa “cu è surdu, orbu e taci campa cent’anni mpaci”. Noi vogliamo campare cent’anni, ma parlando, guardando, filmando, denunciando e commentando, non tanto per piacere, ma perché si campa in pace se il malaffare non c’è. È allora che si sorride.

Articolo di Salvo Vitale. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Niceta, Virga, Cavallotti e gli altri. L'associazione "vittime della Saguto", scrive Riccardo Lo Verso Venerdì 30 Ottobre 2015 su “Live Sicilia”. Sono gli imprenditori a cui la sezione del Tribunale, un tempo presieduta da Silvana Saguto, ha sequestrato i patrimoni. Rappresenterebbero, secondo l'accusa, la faccia "sporca" dell'economia palermitana. Su loro iniziativa nasce "In-Difesa". Hanno scelto il nome “In- Difesa”, ma in cuor loro, anche se non lo dicono, avrebbero preferito chiamarsi, visti gli eventi recenti, “Associazione vittime della Saguto”. Molti sono accomunati dalla sorte di essere stati “proposti” per le misure di prevenzione e la convinzione, tutta da dimostrare, di essere rimasti schiacciati dal “sistema” scoperto dalla Procura di Caltanissetta. Sono gli imprenditori a cui la sezione del Tribunale un tempo presieduta da Silvana Saguto ha sequestrato i patrimoni. Rappresenterebbero, secondo l'accusa, anche questa tutta da dimostrare, la faccia “sporca” dell'economia palermitana. Quella che avrebbe fatto affari all'ombra della mafia. Il 6 ottobre hanno costituito l'associazione e hanno registrato il nome all'Agenzia delle Entrate. Stamani si sono dati appuntamento davanti al Palazzo di giustizia per partecipare alla manifestazione organizzata dal comitato cittadino “Decidiamolo insieme” che, grazie alle finestre dei social network, cerca di “creare partecipazione fra i cittadini”, come spiegano il presidente Fabio D'Anna e il vice, l'avvocato Alessandro Crociata. Lo slogan “fuori la Saguto dal Palazzo” ha mobilitato anche gli imprenditori che non si limitano ad attaccare “il sistema che ci ha tolto tutto”, così lo definiscono, ma ad offrire spunti per la legge di riforma della gestione dei beni sequestrati alla mafia che dal prossimo 9 novembre inizierà l'iter parlamentare. All'associazione, che non si occupa solo dei temi legati alle misure di prevenzione, si sono iscritti in venti, fra cui Massimo, Piero e Olimpia Niceta, sei componenti della famiglia Cavallotti, Francesco e Gianfranco Lena, Calcedonio Di Giovanni, Gaetano Virga. Basta scorrere l'elenco per scoprire nomi storici dell'imprenditoria palermitana finiti nelle pagine delle cronache giudiziarie. Oggi puntano il dito contro la Saguto, gli altri giudici della sezione e gli stessi investigatori. Perché, qualcuno lo sussurra e altri lo gridano, arrivano ad ipotizzare che i sequestri siano stati messi a segno per alimentare il sistema delle nomine e delle clientele venuto a galla con l'inchiesta di Caltanissetta. Ad onore del vero il meccanismo che porta al sequestro è molto più complesso. Il punto di partenza, stabilito dalla Cassazione, è che non serve “la prova di un reato di cui il soggetto è ritenuto responsabile, bensì il riconoscimento sulla base di indizi di una pericolosità sociale particolarmente qualificata, intesa come probabilità di commissione di ulteriori reati”. Non a caso nessuno degli iscritti all'associazione, che presto potrebbe diventare una onlus, ha subito una condanna penale. Le misure patrimoniali seguono per legge un binario diverso da quelle personali: le prove possono non bastare per condannare una persona al carcere, ma risultare sufficienti per colpirne il patrimonio. Sono il procuratore della Repubblica, il questore o il direttore della Direzione investigativa antimafia ad avviare le indagini che analizzano il tenore di vita, le disponibilità finanziarie, il patrimonio e l'attività economica del soggetto. Qualora dovessero emergere incongruenze - come la sproporzioni fra redditi dichiarati e investimenti e tenore di vita - viene proposta la misura di prevenzione ai Tribunali. Nel caso dei Niceta, ad esempio, sono stati i pubblici ministeri di Palermo (e in parte il questore di Trapani) a sostenere, partendo da alcuni pizzini scritti da Matteo Messina Denaro, che siano stati i rapporti con i mafiosi ad agevolarli nella scalata imprenditoriale. Per ultimo quelli con Francesco Guttadauro, nipote del latitante. Così come sono stati i pm a chiedere e ottenere il sequestro, passato dalla convalida del Gip, dei beni di Lena, tra cui l'Abbazia Santa Anastasia. L'imprenditore, considerato in affari con Bernardo Provenzano, è stato assolto con formula piena nei tre gradi del giudizio penale. Sempre dalla Procura è partita la richiesta di sequestrare in beni degli imprenditori Cavallotti di Belmonte Mezzagno. Discorso diverso, ad esempio, per i beni del monrealese Calcedonio Di Giovanni (tra cui decine di villette a Kartibubbo) o di Gaetano Virga, originario di Maria: è stata la Dia a proporre il sequestro. Gli imprenditori provano ad andare oltre la rabbia per il caso Saguto. In tanti dicono di volersi difendere dalle accuse non in piazza, ma in aula. Alcune cose, però, non riescono a mandarle giù. “Processateci. Diteci se siamo o meno come veniamo descritti dagli investigatori. Ma fatelo in fretta - spiegano Massimo e Piero Niceta -. Qualcuno però, se alle fine ci sarà data ragione, dovrebbe pagare per i danni provocati da amministratori giudiziari che non hanno competenza. Perché i nostri negozi, nell'attesa del giudizio, chiudono. C'è stato negato non solo il diritto alla proprietà, ma il diritto al lavoro”. Altra proposta arriva da Pietro Cavallotti: “Nominiamo un commissario, ma non allontanate il titolare dalle aziende. Controllateci a vista, ma continuate a farci lavorare”. Il nodo sui tempi dei processi è cruciale della nuova riforma. Sono già di per sé lunghi quelli previsti dalla legge attualmente in vigore: “Il decreto di confisca può essere emanato entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell'amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, tale termine può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per periodi di sei mesi e per non più di due volte”. Si tratta di tempi che, troppo spesso - fra consulenze di entrambe le parti e audizioni dei pentiti - spesso non vengono rispettati.

Io sono la legge, scrive Salvo Vitale su “Telejato” l’11 novembre 2015. L’analisi di tutto quello che succede all’interno della magistratura dimostra che siamo davvero davanti a una casta che gode dell’impunità quasi totale, che, per casi di corruzione, aggiotaggio, errori in giudizio, sentenze visibilmente sbagliate, mistificazione della verità e tutto quanto capita nelle loro mani, il peggio che possa loro succedere è il trasferimento da un ufficio o da una sede all’altra, per continuare a delinquere. La cosa più grave è che il sistema di terrore che si è creato attorno intimidisce gli avvocati che avrebbero qualche voglia di far valere gli interessi dei loro assistiti, mentre molti altri avvocati si legano al carrozzone del magistrato di turno per avere qualche contentino con cui calmare il cliente offeso. La facilità con cui gli amministratori giudiziari hanno distrutto, messo in vendita, portato al fallimento intere aziende che lavoravano rispettando le norme è impressionante. Abbiamo sentito casi di svendita di immobili o di mezzi, di sequestri senza giustificazioni, di intimidazioni pervenute ai proprietari dei beni sequestrati, che lamentavano l’incapacità di amministrazione degli sciacalli mandati al loro posto, addirittura casi di disumana pietà in cui si respingeva la richiesta di madri che chiedevano un sussidio per i figli. Sulla lotta di correnti che dilania la magistratura, cercheremo di vederci chiaro, ma su tutto quello che sta succedendo e su tutte le storie che giornalmente ascoltiamo, siamo davvero allibiti “schifiati” della facilità con cui si affibbia la patente di mafioso a qualcuno e si procede al sequestro dei beni con veri e propri cambi di proprietà. La cosa più triste, incredibile, devastante, è che si perde tempo, si rinvia per anni e alla persona danneggiata non viene data la possibilità di far valere le proprie ragioni e la propria innocenza. Non ce la prendiamo, come già Berlusconi e i suoi sodali, coi magistrati, sia chiaro ancora una volta, ma con quelli che attraverso la toga si credono al di sopra di tutto e di tutti, con quelli che scrivono le leggi su misura, e che, come Burt Lancaster in un film famoso dicono: “Io sono la legge”. Oggi siamo arrivati al punto che i magistrati Licata e Saguto ipotizzavano di chiedere centomila euro a Telejato per danneggiamento dell’immagine. Forse non hanno mai visto le riprese di Pino Maniaci Nudo davanti alla distilleria. Non c’è niente da spremere.

IL CASO BENI CONFISCATI. Lo scandalo senza confini. Quell'intreccio tra prefetti, scrive Riccardo Lo Verso Lunedì 09 Novembre 2015 su “Live Sicilia”. Nel mondo delle amministrazioni giudiziarie spiccano le figure dei rappresentanti del governo nelle principali città siciliane. Dalla Cannizzo al prefetto di Catania Maria Guia Federico fino all'ex prefetto di Messina Scammacca. Compensi d'oro per l'amministrazione della discarica di Misterbianco. Si potrebbero definire “intrecci prefettizi”. Nulla di illecito, ma la cronaca ci dice che nel mondo delle amministrazioni giudiziarie spiccano le figure dei prefetti. Quello di Palermo, Francesca Cannizzo, è stata trasferita venerdì scorso dal Consiglio dei ministri. “Su sua espressa richiesta”, ha precisato una nota del ministero dell'Interno. Dalle carte giudiziarie della Procura di Caltanissetta è venuto fuori il suo rapporto di amicizia con Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, sospesa nei giorni scorsi dal Csm. Alla Saguto, che invocò l'aiuto di un amministratore giudiziario, la Cannizzo avrebbe chiesto un posto di lavoro per un parente dell'ex prefetto di Messina Stefano Scammacca. Il pensionato Scammacca è stato nominato da un altro prefetto, quello di Catania Maria Guia Federico che era stata sua vicaria, nel collegio di amministratori della discarica di contrada Valanghe d'Inverno, a Misterbianco, sequestrata all'imprenditore Domenico Proto. Scammacca riceve un compenso di 25 mila euro lordi al mese, 10.500 netti (stessa cifra assegnata agli altri due commissari, Riccardo Tenti e Maurizio Cassarino). Sulla gestione della discarica e la nomina dei commissari aveva sollevato più di una perplessità il deputato nazionale del Pd, Giuseppe Berretta. Il caso finì pure, nel marzo scorso, davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite che ruotano attorno allo smaltimento dei rifiuti. Il prefetto catanese spiegò che “la legge non prevede criteri di nomina dei commissari, quindi si affida a quella che non dico discrezionalità, ma bontà del prefetto, che ha individuato dei criteri che si è data da sola. Parliamo di persone fuori dalle valutazioni politiche, fuori da rapporti di tipo politico, di persone competenti, dal curriculum integerrimo e competenti nella specifica materia”. Il tema fu anche oggetto di un duro botta e risposta a mezzo stampa. La commissione prefettizia, così si firmava in una nota spedita ai giornali, precisò che i compensi lordi “sono stati liquidati al di sotto del minimo contemplato dalla normativa vigente”. Nel vuoto normativo che fa della discrezionalità un pilastro per le nomine degli amministratori, la figura dei prefetti è quella su cui è stata riposta parecchia fiducia. Ex prefetto, ad esempio è anche Giosuè Marino, che siede nel consiglio di amministrazione della clinica Villa Santa Teresa di Bagheria, sequestrata per mafia all'imprenditore Michele Aiello. La sua nomina, assieme a quello di un altro ex, il magistrato Luigi Croce, e dell'avvocato Giovanni Chinnici fu decisa non dal Tribunale di Palermo, ma dall'Agenzia nazionale per i beni confiscati un tempo gestita da Giuseppe Caruso, il prefetto che puntò il dito contro chi aveva sfruttato le amministrazioni giudiziarie per assicurarsi dei “vitalizi”. Le scelte di allora erano dettate da ragioni investigative piuttosto che da esigenze manageriali: servivano professionalità adatte per sanare, o meglio per smantellare una delicata questione di esuberi.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola.  È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.

Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero?  Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone. 

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Caro Claudio Fava, Telejato Notizie sapeva e ha denunciato, scrive Salvo Vitale su “Telejato” il 10 ottobre 2015.  CLAUDIO FAVA HA DICHIARATO: “C’È UN PUNTO DI CUI NESSUNO CI HA MAI PARLATO, OVVERO CHE IL MARITO DELLA PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, SILVANA SAGUTO, AVESSE UNA PREZIOSA CONSULENZA CON LO STUDIO DEL COMMERCIALISTA CHE SI OCCUPAVA DELLA MAGGIOR PARTE DEI BENI SEQUESTRATI”. Caro Claudio, a parte il fatto che Cappellano Seminara non è un commercialista, ma un avvocato, non è giusto né corretto che tu faccia questa affermazione. Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi, per “tutelare” l’immagine di un settore della procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c’era sotto: hai abbassato il capo, dicendoci che bisognava intervenire, ma forse eri distratto. Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura, cosa peraltro ripetuta in questi giorni dal giudice Morosini, sarebbe stato più utile, anche per la storia che ti porti appresso, chiedere di far pulizia all’interno di essa, anche perché la fiducia del cittadino non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto quando bisogna eliminare lo sporco in casa. Bastava andare a Villa Teresa, dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili, per renderti conto che la sig.ra Saguto Silvana, il sig Caramma Elio, suo figlio, e il sig Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti nella lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla sig.ra Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E invece non sì è fatto niente. È facile dire che non sapevamo… è difficile crederci!

La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.

Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.

Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.

Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.

L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.

È’ STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.

Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni.  Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare di Palermo hanno chiesto di procedere a un “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare.  La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in  trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella  presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”,  e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.

Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?  

IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”.  Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva.  Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:

La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale.  Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.”  La Italcementi  con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un  “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore.  Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori  catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento,  sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.

L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di  giudici delle misure di prevenzione Saguto,  Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti,  l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.

LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.

UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero   di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana   per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede.  Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento  suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio.  Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare.  Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare.  Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Chi confischerà ai confiscatori? Anche rubare il denaro di Cosa Nostra è reato! Scrive Saverio Lodato su “Antimafia duemila”. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, gente che se ne intendeva, erano tutti del parere che la via più breve per arrivare alla mafia nascosta era quella di seguire le tracce del denaro, il giro dell’oca del denaro; un po’ come gli sceriffi del Far West che, seguendo le orme del fuggiasco nel deserto, molto spesso, alla fine, riuscivano ad acciuffare il fuorilegge. Quando si lavorava ancora con biro e pallottoliere, Falcone raccoglieva e indagava su migliaia di assegni, e quel gigantesco lavoro cartaceo, molto prima che venisse battezzato "Il metodo Falcone" (dal titolo di un recente ottimo lavoro televisivo del collega Salvatore Cusimano della Rai) sfociò nel primo grande processo a Cosa Nostra, il "processo Spatola-Gambino-Inzerillo". Processo - detto per inciso - per il quale gli americani mostrano ancora gratitudine verso Falcone, visto che diede inizio allo smantellamento dei clan di origine siciliana che si erano installati negli States. Di questo innovativo modo di indagare, ne sapeva qualcosa Cristoforo Fileccia, ormai scomparso, figura gloriosa e storica del Palazzo di Giustizia di Palermo che, pur difendendo mafiosi a bizzeffe, riuscì sempre a tenere la schiena diritta a differenza di tanti altri suoi colleghi ai quali, deontologicamente parlando, prima o poi scappò la mano. E con Giovanni Falcone il rispetto era vicendevole. Fu proprio Fileccia a raccontarmi di quel giorno in cui Falcone lo convocò nel suo ufficio, a pomeriggio inoltrato, per chiedergli conto di un "assegno sospetto" firmato da un suo assistito (mafioso) che poi sarebbe finito nel calderone del maxi processo. Falcone lo ricevette seduto alla sua scrivania, quasi barricato dietro una montagna di assegni che in precedenza aveva già spulciato uno per uno. La famosa "panna montata" che avrebbe finito per soffocarlo, secondo il giudizio acre dei suoi Nemici-Colleghi di allora. Non furono gli assegni a soffocarlo, ma il tritolo; ma questa è un’altra storia. Il racconto di quel giorno era esilarante, essendo Fileccia persona di irresistibile spirito, come possono testimoniare tutti quelli che ebbero modo di conoscerlo: "Falcone sorrideva. Prendeva mazzette d’assegni strette da un elastico, come fossero mazzette di banconote… Le faceva scorrere fra le sue dita… prr… prr… prr… e le rimetteva a posto passando alla successiva…  prr… prr… prr… Io ero morto! E mi chiedevo: ma che vuole dire? Dove vuole arrivare? Poi u capivi… A un certo punto da una delle mazzette… zacchete… estrasse un assegno, me lo sventolò sotto il naso e mi disse sornione: avvocato Fileccia e questo cos’è? Sa dirmi perché il suo assistito ha firmato questo assegno?… Può essere così cortese da informarsi? Mi faccia sapere, mi raccomando…". Certo. Erano altri tempi. Ma il tema di fondo, quello che resiste all’usura del tempo, in tutte le vicende di mafia, è sempre quello del denaro. Sembra quasi uno scherzo del destino, e citiamo Andrea Camilleri, che il capo dei capi di Cosa Nostra oggi si chiami "Denaro": "nomen" eccetera eccetera. Ma tanto paradossale la circostanza non è, visto che ormai per trovare Matteo Messina Denaro pare sia rimasta solo la via di seguire "Il Denaro", ma quello suo, che avrebbe portato chissà dove. Ma è denaro anche quello, secondo l’accusa dei giudici di Caltanissetta, di cui si sarebbero appropriati indebitamente gli addetti ai lavori delle "misure di prevenzione" del Tribunale di Palermo. E qui arriviamo alla nota dolente. La vicenda è molto conosciuta, e stomachevole, a volerla dire sino in fondo, e ci limiteremo all’essenziale. D’altra parte Giorgio Bongiovanni ne ha scritto su questo giornale, in maniera sintetica e efficace. Noi non sappiamo se la dottoressa Silvana Saguto, presidente dimissionaria delle misure di sorveglianza, sia colpevole o accusata ingiustamente. Le auguriamo di provare tutta la sua innocenza. Noi non sappiamo se suo marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma sia colpevole o innocente. Stesso augurio rivolgiamo anche a lui. Noi non sappiamo se l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ha svolto bene il suo lavoro o ci ha marciato alla grande. Come sopra, anche per l’avvocato Seminara, e per tutti gli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta: Tommaso Virga, presidente della quarta sezione penale del Tribunale; Lorenzo Chiaramonte, ex componente del collegio misure di prevenzione; Dario Scaletta, pubblico ministero della DDA (indagato per fuga di notizie), tutti in via d'uscita. Né va dimenticato Antonello Montante, investito per mafia da altra inchiesta, ma, a quanto pare, sempre per lo stesso argomento: Montante era nell’Osservatorio nazionale dei beni sequestrati dal quale è stato costretto a dimettersi, ma è rimasto pur sempre nel direttivo regionale di Confindustria. Qui dovremmo aprire una lunga parentesi (ma le occasioni non mancheranno) per parlare di cosa sia in effetti questa Confindustria siciliana (solo siciliana?), anche alla luce, ad esempio, delle parole di Marco Venturi, presidente dell’associazione per la Sicilia orientale, in una sua clamorosa intervista a Attilio Bolzoni: "La svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno". E torniamo adesso al denaro, con la "d" minuscola. Ipotizziamo, per un attimo, che le accuse dei giudici nisseni vengano provate. Come la mettiamo? O meglio, come intende metterla il Csm? Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha incontrato il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e ha commentato che: "Ci sono ampie e fondate ragioni per avviare la procedura del trasferimento d’ufficio". In altre parole, altra sede, altro incarico. La frase è indicativa di quanto appaia chiaro alle massime cariche istituzionali la inaudita gravita dell’accaduto.  Ma noi, anche in questa eventualità dei trasferimenti, non saremmo per niente soddisfatti. E stessa indignazione proverebbero molti cittadini. Con quale logica, quale autorevolezza, quale requisito morale riconosciuto da tutti, questi magistrati potrebbero continuare a svolgere il loro lavoro da un’altra parte? In nome di "quale popolo italiano" sarebbero chiamati a emettere sentenza? Sarebbero perennemente costretti a indossare toghe inzaccherate di fango, e non sarebbe un bello spettacolo nelle aule di giustizia. Troppo facile, troppo comodo cavarsela così. E infatti c’è il denaro che resta il tema di fondo del nostro articolo. Saranno fatte approfondite ricerche bancarie? Si indagherà sui capitali e le proprietà personali degli indagati in questione? Si cercheranno i loro fiancheggiatori, prestanome, amici larghi e amici stretti, parenti larghi e parenti stretti, come si fa per dar la caccia a Denaro e al suo denaro? E come si fa giustamente per centinaia e centinaia di altri mafiosi?  Come? Noi siamo forcaioli? Può darsi. Ma come la mettiamo se si dovesse scoprire che un manipolo di magistrati, giudici, imprenditori confindustriali, "antimafiosi da parata", diedero per anni l’assalto alla diligenza che conteneva i "capitali" mafiosi che in nome dello Stato italiano erano stati confiscati per ben altre finalità sociali? E come mai certi uomini politici, in mille occasioni così ciarlanti delle "responsabilità civile dei giudici", in questo caso stanno digerendo macigni ma non aprono bocca? Neanche un talk show, neanche un’intemerata degli Opinionisti che in questi trent’anni ai magistrati "gliele hanno cantate chiare". Strano. Davvero molto strano. Persino buffo che stiano perdendo un’occasione tanto ghiotta per dire la loro. Nelle prossime settimane capiremo meglio. Auguriamo a tutti di riuscire a provare la loro innocenza. Ma se dovessero risultare colpevoli, dovranno cacciare i soldi rubati, il maltolto, il bottino. Da qualche parte esisterà pure uno Stato capace di confiscare in casa dei confiscatori. Altro che trasferimenti in altra sede, altri incarichi direttivi… Non condannati a lavorare in campi di patate, per carità, ma quanto meno costretti a fare "opere di bene" con i soldi che speravano di avere messo al sicuro.

Ma con quelle accuse sulle spalle la Saguto può indossare la toga? Scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Troppi scandali, troppe intercettazioni, troppi favori, troppi privilegi. Con tutte le accuse formulate a suo carico dalla Procura di Caltanissetta, Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dovrebbe fare un decisivo passo indietro: dovrebbe quantomeno autosospendersi dalla magistratura in attesa di chiarire definitivamente la sua posizione. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro... io ti dico che pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8.000 magistrati ne difendono uno”. Ecco la lezione imparata da Walter Virga, nei 35 anni vissuti accanto al padre Tommaso, oggi presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. Il giovane Virga, nominato amministratore giudiziario da Silvana Saguto, affida inconsapevolmente la sua certezza alle microspie piazzate nell'ambito dell'inchiesta che li vede tutti indagati. Il sistema aveva una base solidissima, la consapevolezza dell'impunità. Cane non morde cane. Nonostante le polemiche che divampavano sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia, il castello sarebbe rimasto in piedi con tutti i privilegi e le agiatezze che aveva comportato. A partire dalla nomina del giovane avvocato alla guida di due dei più grossi patrimoni - Rappa e Bagagli - sequestrati in Sicilia e in Italia. Era Virga jr a ribadire che di sistema si trattava. “Lei non è un ingenua... lei fa parte di un sistema”, diceva riferendosi all'ex presidente. Un sistema sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto grazie al bollo della magistratura, dove l'accesso era consentito dal fatto che “abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico”. Avete letto bene: pizzo. Perché, aggiungeva il giovane amministratore giudiziario, “Avevamo risolto il problema alla nuora che era tranquilla”. Il riferimento era a Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli della Saguto, accolta a lavorare nello studio di Walter Virga che al padre Tommaso spiegava: “L'unica cosa complessa è che c'è da sistemare la stanza a Mariangela che faceva schifo e là, solo per il pavimento di Mariangela, stiamo spendendo mille euro, considera, però capisci bene, che è importante farlo”. Era “importante farlo” altrimenti non poteva entrare nel sistema costruito su ricche parcelle, assunzioni e regalie. E forse pure sulle mazzette. Il forse è d'obbligo perché il capitolo più delicato dell'inchiesta, quello sulla corruzione e sul riciclaggio di denaro, è ancora in progress. I finanzieri della Polizia tributaria stanno cercando riscontri sui passaggi di soldi accennati nei dialoghi intercettati. Le indagini faranno il loro corso. Bisogna essere garantisti. Sempre e comunque. Bisogna attendere i tre gradi di giudizio per stabilire se qualcuno sia davvero colpevole, figuriamoci ora che la vicenda giudiziaria è ancora allo stato embrionale. C'è un dato, però, già cristallizzato dai dialoghi di Silvana Saguto. Le sue parole fanno a pugni con la gestione trasparente e terza della giustizia che ci si attende da chiunque indossi la toga. L'immagine della magistratura palermitana ne esce massacrata. Lo sa bene il Csm che ha avviato le procedure per il trasferimento per incompatibilità ambientale della Saguto e degli altri magistrati indagati, compreso Tommaso Virga. Nel frattempo farà il suo corso anche il procedimento disciplinare. Il punto è che c'è una superiore ragione di opportunità. Il sistema giustizia non può attendere. La Saguto è stata trasferita in Corte d'assise, praticamente nel corridoio accanto a quello dai lei frequentato fino a un mese e mezzo fa. È in malattia. In ufficio non c'è ancora andata, tranne per una rapida apparizione che avrebbe creato non poco imbarazzo. Ha annunciato, a mezzo stampa, che chiederà di lasciare Palermo. Ma dovrebbe fare un ulteriore passo indietro, Silvana Saguto. L'autosospensione è l'unica strada. Anche nel suo interesse, per avere la possibilità di difendersi al meglio dalle ipotesi di accusa che presto diventeranno contestazioni. Con le accuse che gravano sulle sue spalle, indossare la toga oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati che ogni giorno, onestamente, amministrano la giustizia.

Scandalo dopo scandalo l'Antimafia è morta. E la società civile non si sente nemmeno tanto bene, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dalla politica al Palazzo di Giustizia, è crollata l'immagine dell'Antimafia come circolo per iniziati. E con essa il mito di una "società civile", contrapposta a una politica incivile, che all'occorrenza è servita per attingere a ideali albi dei moralizzatori. Non è solo il santo moloch dell'Antimafia con la “a” maiuscola a uscire a pezzi dallo stillicidio di puntate dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata a Palermo. Il santuario dell'antimafia di potere era già mezzo crollato negli ultimi tempi, le mura sbrecciate e le fondamenta minate dai fallimenti dell'antimafia politica e dalle vicissitudini giudiziarie dell'antimafia-lobby. Un altro mito, ancora più sfuggente, celebrato e farlocco, sembra cadere a pezzi dal desolante quadro offerto dalle notizie su tutto ciò che gira attorno alla gestione degli ingenti patrimoni mafiosi o presunti tali (quando i beni sono sequestrati e non ancora confiscati). Quel mito, cantato per anni da infaticabili aedi, si chiama società civile. E il quadro che emerge dall'indagine della procura di Caltanissetta, con accuse certo ancora tutte da provare, lo investe in pieno. Avvolgendo, o forse travolgendo, quelle categorie che hanno rappresentato in questi anni un ideale albo dei moralizzatori a cui attingere in supplenza di una politica sputtanata e in cerca di facce nuove. Nel coacervo che qualcuno tra gli stessi intercettati battezza “sistema” si sono mossi, con ruoli e responsabilità diverse, tanti pezzi di quella società civile, raccontata negli anni come contraltare virtuoso rispetto a una politica screditata. Magistrati, forze dell'ordine, professionisti e tutto l'affollato e variopinto indotto dell'eldorado dei beni confiscati, nessuno si era accorto di quel “sistema”, nessuno pare sia stato in grado di scorgere le storture che affollavano questo ricchissimo guazzabuglio. Dagli addetti alla scorta utilizzati per le commissioni ai colleghi magistrati, passando per l'esercito di addetti ai lavori, non escluso il mondo dell'associazionismo attivo in questi ambiti, nessuno, parrebbe, aveva intravisto attorno a Silvana Saguto qualcosa che non quadrava e che meritava di essere denunciato. E quando qualcuno s'è azzardato a indicare il re nudo, vedi il prefetto Caruso, il Palazzo a tutti i suoi livelli ha reagito come è noto. È in questo contesto che è maturato il passaggio di mano del bottino dell'economia mafiosa nelle mani della bella borghesia palermitana, secondo norme che meriterebbero per lo meno una riflessione critica. Nelle mani della società civile, appunto. Se ciò è avvenuto per certi aspetti contra legem dovranno essere i magistrati ad accertarlo. Di certo, la normativa, con i suoi buchi neri e le sua sfere di discrezionalità, non ha aiutato a evitare il peggio. Che non sta solo nei profili penali della vicenda, come detto, tutti da acclarare. Ma soprattutto nelle storie di figli e parenti sistemati, antica disciplina in cui la suddetta bella borghesia panormita sa eccellere come pochi. È scomoda questa storia di spese al supermarket non pagate. Scomoda perché sgretola un mito fragile, che non è solo quello dell'antimafia come “tuta mimetica” per altri interessi, ma è più in generale quello dell'esistenza di fantomatiche oasi incontaminate, dove invece si celano i vizi e le storture di altri vituperati palazzi. È scomoda ed enorme questa storia, ben più delle beghe tra conventicole che hanno animato nei mesi scorsi le cronache dei dolori dell'antimafia chiodata. È enorme e scomoda, e trova spazi forse non adeguati sulla grande stampa nazionale, dove paradossalmente è più indolore parlare di agende rosse e di passato remoto piuttosto che guardare in faccia il presente. Rassegnandosi all'idea che quello della “società civile” come concetto contrapposto a una sottintesa “incivile” politica è un mito con poche aderenze alla realtà. Quale punto di riferimento resta dunque ai siciliani? Da una parte una politica disastrosa e fallimentare. Dall'altra un'economia morente, dimenticata dalla politica e rappresentata da una classe dirigente che non è riuscita, quando ha avuto la possibilità di entrare nelle stanze dei bottoni, di invertire in modo apprezzabile la rotta. A tutto questo si aggiunge ora il disastro d'immagine della giustizia, travolta da uno scandalo di quelli che erodono anni di lavoro, credibilità e sacrifici di tanti. Non resta allora che sfuggire alla tentazione della generalizzazione. Quella stessa generalizzazione che ha santificato negli anni intere categorie, beneficiarie dello scudo dell'immagine fulgida di servitori dello Stato. Non tutto era bene allora, non tutto può essere male adesso. Metabolizzato l'inganno dell'antimafia come club per soli tesserati e della società civile come paradiso del senso civico, c'è solo d'augurarsi che il trauma di questi giorni accompagni i siciliani nell'era del discernimento, al di là delle etichette. Considerando la lotta alla mafia una priorità condivisa e non un circolo per iniziati.

Gli insulti ai figli di Borsellino del giudice dei beni confiscati "Lui squilibrato, lei cretina". Esclusiva. Ecco le frasi shock dell'ex presidente delle Misure di prevenzione dopo aver commemorato il magistrato ucciso, il 19 luglio scorso. L'intercettazione con un'amica. Sull'abbraccio con Mattarella diceva: "Manfredi si commuove, che figura è?". A una svolta l'indagine dei pm di Caltanissetta condotta dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 21 ottobre 2015. Il 19 luglio scorso, il giudice antimafia Silvana Saguto è la madrina della manifestazione "Le vele della legalità", pronuncia parole accorate per ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Ma appena torna nella sua auto blindata, telefona a un'amica e sputa parole terribili contro i figli di Borsellino. Ce l'ha soprattutto con Manfredi, che il giorno prima ha abbracciato fra le lacrime il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al palazzo di giustizia di Palermo. Un abbraccio che ha commosso l'Italia. Ma non il giudice antimafia Silvana Saguto, che sbotta: "Poi, Manfredi Borsellino, che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai". E insiste: "Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo". Eccole, le parole terribili che pronunciava uno dei giudici simbolo di Palermo, che ha sequestrato beni per milioni di euro e oggi è indagata dalla procura di Caltanissetta per aver costruito un sistema di raccomandazioni e favori attorno alla gestione dei patrimoni sottratti ai boss. Il giorno dell'anniversario della strage di via d'Amelio, Silvana Saguto era infastidita perché aveva aspettato due ore sotto il sole l'arrivo delle barche della legalità al porticciolo di Ficarazzi, piccolo centro alle porte di Palermo. Ed era un fiume in piena contro la famiglia Borsellino. Tutte le sue parole sono rimaste impresse nelle intercettazioni fatte dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo. Alla sorella Lucia, Silvana Saguto riservava altri insulti: "È cretina precisa".

Giudice antimafia Saguto intercettata sui Borsellino: “Manfredi? Squilibrato. Lucia? Cretina precisa”. L'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo - sulla quale indaga la procura di Caltanissetta - dopo avere partecipato alla manifestazione "Le vele della legalità", sale sull'auto blindata, telefona a un'amica e insulta il magistrato ucciso nel 1992. Sul figlio dice: "Ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa?", scrive Giuseppe Pipitone il 21 ottobre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Manfredi Borsellino? “Uno squilibrato”. La sorella Lucia? “Cretina precisa”. È il 19 luglio 2015, anniversario numero 23 della strage di via d’Amelio, il massacro del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Silvana Saguto, una delle donne che a Palermo incarna il volto dell’antimafia fatta di numeri ed euro sottratti a Cosa nostra, sta partecipando – in qualità di madrina – alla manifestazione “Le vele della legalità”. Ricorda il sacrificio del magistrato assassinato, parla dell’antimafia dei sequestri, quella che dal 2010 rappresenta guidando la sezione misure di prevenzione del tribunale. Poi sale sulla sua auto blindata, telefona ad un’amica, e – come racconta Repubblica – si lascia andare ad una serie di insulti contro i figli di Borsellino. Inveisce soprattutto con Manfredi, oggi commissario di polizia, che 24 ore prima al palazzo di giustizia ha abbracciato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tra la commozione generale. “Ma poi, Manfredi Borsellino che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai”. Ma non solo. “Ma che – continua Saguto – dov’è uno… le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo”. Sono i giorni del caso Crocetta, con il settimanale Espresso che ha pubblicato il testo dell’intercettazione (poi smentita dalla procura di Palermo, che indaga per calunnia e pubblicazione di notizie false) in cui il medico del governatore dice che Lucia Borsellino “va fatta saltare come il padre”. Ed è per questo che Manfredi Borsellino era intervenuto davanti al capo dello Stato, per difendere la sorella, che due settimane prima si era dimessa da assessore regionale alla sanità. Saguto però è un fiume in piena, e bolla Manfredi come “uno squilibrato, lo è stato sempre, lo era pure quand’era piccolo”. Lucia Borsellino, invece, per il magistrato è “cretina precisa”. Parole pesantissime quelle pronunciate da Saguto, che colpiscono al cuore la credibilità di una fetta ampia del mondo della cosiddetta antimafia. “Io e mia sorella Lucia siamo senza parole, non vogliamo commentare espressioni che andrebbero catalogate alla voce cattiveria. Solo parlandone, rischiamo perciò di attribuire importanza a chi quelle parole ha proferito”, ha detto Manfredi, commentando le parole della Saguto. La donna “economicamente più importante di Palermo”, come la definì Gian Carlo Caselli, è infatti al centro di un’inchiesta della procura di Caltanissetta, che la ha iscritta nel registro degli indagati per corruzione, induzione e abuso d’ufficio: secondo l’accusa, aveva trasformato il mondo dei beni sequestrati a Cosa nostra in un suo personalissimo business, utilizzato a vantaggio della sua famiglia e di pochi fedelissimi del suo cerchio magico. Incarichi ad amministratori giudiziari amici (sempre gli stessi), nomine in cambio di lavori per il marito Lorenzo Caramma (anche lui indagato), il figlio e la fidanzata del figlio, regali chiesti e ottenuti, che spesso arrivavano proprio dalle aziende che lo Stato ha sottratto ai boss: come nel caso del supermercato Sgroi, dove Saguto aveva maturato un debito di oltre 18mila euro. È un sistema tentacolare quello che ruota attorno al magistrato, un sistema che quando finisce al centro di inchieste giornalistiche (come nel caso di Telejato, la minuscola emittente guidata da Pino Maniaci), prova a difendersi facendo quadrato. “Voglio fare qualcosa d’impatto, un incontro con i giovani che gli eroi del contrasto alla criminalità, quindi voglio fare una giornata su di te”, dice Carmelo Provenzano, professore dell’università Kore di Enna, al magistrato, attaccato due giorni prima dalla trasmissione Le Iene. Sono gli stessi giorni in cui – secondo la ricostruzione dei pm nisseni – un ufficiale della Dia avrebbe fatto circolare volontariamente una vecchissima informativa che parlava di un rischio attentato per la Saguto. L’ex zarina della sezione misure di prevenzione che, nonostante le polemiche, non accenna a diminuire di un grammo la sua pressione su amici e componenti del cerchio magico. È il 31 luglio quando Saguto chiama Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma, chiedendogli di trovare un incarico per il marito. Muntoni accetta di buon grado, e spiega alla collega che “i miei amministratori sono precettati a cercare qualcosa che vada bene per un bravo ingegnere di Palermo”. Sono solo le ultime intercettazioni raccolte dall’indagine. Mentre al Csm continua ad andare avanti la pratica per il trasferimento di sede di Saguto (che ha chiesto di essere spostata a Milano) e degli altri quattro magistrati coinvolti dall’inchiesta della procura di Caltanissetta, emerge infatti uno spaccato di come la toga messa a sentinella della “robba” sequestrata ai boss vivesse quotidianamente. L’auto blindata con la scorta, per esempio, veniva mandata in giro per le più banali commissioni domestiche, o utilizzata per andare al mare evitando il traffico. “È un inferno”, dice il prefetto Francesca Cannizzo al telefono. “Ce ne possiamo fregare dell’inferno se vieni con me, abbiamo la mia macchina, c’è la preferenziale”. Ed è proprio per la cena con il prefetto Cannizzo, che Saguto riceve in dono dall’amministratore giudiziario del complesso turistico Torre Artale sei chili di tonno. Un dono che punta ad attirarsi la benevolenza del magistrato e che riscuote alto gradimento. “Il prefetto – dice Saguto intercettata – era impazzita letteralmente una cosa così non l’ha mai mangiata”.

Poi non ci dobbiamo dimenticare, sempre a proposito della sezione Misure di Prevenzione antimafia, che l’anomalia non e solo palermitana, ma è generale. La mafia è una cosa seria, l'antimafia troppo spesso non lo è.

Beni confiscati, le intercettazioni: "Il nostro pizzo? Il lavoro per la nuora della Saguto". Le parole di Walter Virga, amministratore giudiziario del patrimonio Rappa, e quelle della ex presidente della sezione Misure di prevenzione: così funzionava il "sistema Saguto", scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 20 ottobre 2015. È una confessione in diretta quella di Walter Virga. E, al contempo, un atto d’accusa. È una delle prove più importanti di tutta l’inchiesta della procura di Caltanissetta e del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza. La mattina del 9 giugno, l’avvocato Virga lo descriveva così il "sistema Saguto", un sistema di nomine ai soliti noti, per amicizia e convenienza: "Da Acanto (uno degli ultimi sequestri fatti a Villabate, ndr) lavora l’archeologo amico di Angelo Ceraulo, è disoccupato". Il giovane Walter, figlio del giudice Tommaso Virga, ex componente del Csm, parlava anche della sua nomina ad amministratore del gruppo Rappa. "Io sono stato nominato in un periodo tale dove... è vero che non c’era il procedimento disciplinare (fa riferimento al fatto che suo padre era nella commissione disciplinare del Csm,ndr) ma secondo te io lavoro là e gli dico...?" Queste parole hanno portato sotto inchiesta anche il padre del giovane Virga. Che intanto, quel giorno di giugno, continuava nel suo sfogo contro il sistema Saguto. "Altra cosa, noi abbiamo avuto, ora ci vuole, a nutricarci la nuora qua". La Saguto aveva imposto la nuora avvocato, Mariangela Pantò, allo studio legale Virga. Il giovane Walter parlava anche di un altro componente del cerchio magico di Silvana Saguto, il professore Carmelo Provenzano. Diceva: "Perché era Provenzano a prendere gli incarichi? Era Provenzano a prendere gli incarichi per il figlio che aveva il problema delle materie che si doveva passare; noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico". Uno sfogo importantissimo per l’inchiesta. Quel 9 giugno, qualcosa si era già rotto nel cerchio magico. Virga aveva deciso di allontanare la nuora della Saguto. Per le polemiche sui giornali, e non solo. L’avvocato si lamentava addirittura del trattamento ricevuto dal suo giudice di riferimento, nonostante quel maxi incarico da 800 milioni ricevuto con l’amministrazione Rappa. "Credo che Santangelo (un altro amministratore, ndr) abbia sei incarichi; mentre noi leccavamo il culo a Mariangela (...) meglio averne sei che non sono grandi e guadagnare 3.000 euro l’uno in meno al mese che avere un solo Rappa e guadagnare 3.000 in più". Virga raccontava anche di un colloquio avuto con la nuora della Saguto. Un altro colloquio emblematico. "Lei diceva: 'Uno se fa la lotta alla mafia, allora se lo deve aspettare... se ne deve fregare, mia suocera infatti lo dice sempre che ha fede in Dio e va avanti'". In quella occasione, Virga disse alla nuora del giudice: "'Guarda — gli ho detto — te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro. Quindi, come vedi, tutte queste polemiche (...) io ti dico che pure se non fossero falsità e lo sono, fino al terzo grado di giudizio, 8.000 magistrati ne difendono uno'". Parole pesanti quelle dell’avvocato Walter Virga: "Noi facciamo un altro mestiere (...) sono due mondi diversi', gli ho detto. 'Giustamente il magistrato ci ha la fede, ci ha le cose e un apparato di 8.000 persone dietro che dicono che ha ragione, che è quello che sta succedendo alla Saguto... la Cassazione le ha detto: ah qui marito, nuora e figlio... le hanno detto, intanto risolvitelo e non facciamo niente'". Che è il contrario di quello che è accaduto, con l’inchiesta della procura nissena e della finanza. La decisione di Virga, di allontanare la nuora della Saguto, aveva fatto andare il giudice su tutte le furie. "Sono distrutta, incazzata — diceva al marito — non si può dire come gliela faccio pagare, non si deve presentare". Suo figlio Francesco era invece per una strategia diversa: "Lui dice che devo essere diplomatica, l’ha invitato qui stasera". La Saguto non si dava pace, quel giorno di giugno aggiunse anche un’altra frase diventata molto importante per l’inchiesta: "No, non gliela posso passare... non si buttano a mare le persone, si rischia insieme". Il 15 giugno, Virga si presenta nell’ufficio dalla Saguto, dove la finanza ha piazzato un’altra microspia. Dice: "Speriamo che si risolva tutto velocemente". La giudice non usa mezzi termini: "Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione". Virga insiste, cerca di non perdere l’incarico. Ma è inutile. La Saguto è categorica: "No, io penso di no, è meglio di no, visto che è andata in questo modo". Il cerchio magico dei favori reciproci con Virga (padre e figlio, secondo l’accusa) si era ormai rotto. Virga chiede di potere tenere una dipendente di Bagagli fino a dopo i saldi. Il giudice risponde in modo gelido: "Faccia un’istanza, valuterò successivamente". Così, a giugno, per Silvana Saguto il problema era trovare un altro posto alla nuora. "L’ha buttata fuori dallo studio — si sfogava con un ufficiale della Dia — da un minuto all’altro in mezzo alla strada". E chiosava: "E quello che abbiamo fatto per lui". L’ufficiale la rassicurava: "Vabbè tanto poi la sistemiamo ancora meglio, non ti preoccupare". La Saguto si sfogò anche con l’avvocato Cappellano: "Virga, un ragazzino da niente, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento".

Giudice antimafia Saguto: laurea del figlio scritta dal prof che lei ha raccomandato al Cara di Mineo. Elio Caramma, professione chef, si è laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Che, però - secondo gli inquirenti - è stata redatta da Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, e amministratore giudiziario di fiducia dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Lui, al telefono, la ringrazia per la segnalazione del suo nome quale potenziale commissario del centro richiedenti asilo, scrive Giuseppe Pipitone il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “Beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria: bilanciamento tra tutela del mercato e garanzia della legalità”. È solo il titolo di una tesi di laurea ma a rileggerlo adesso sembra quasi una beffa. Perché quella tesi di laurea in Economia appartiene ad Elio Caramma, di professione chef, ma soprattutto figlio di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta. Saguto è al centro di un’inchiesta che ha svelato un gigantesco cerchio magico fatto di favori, regali e prebende nella gestione delle ricchezze sottratte ai boss. Ed è stata anche intercettata mentre definiva i figli di Borsellino “squilibrati e cretini”. Suo figlio, già citato nell’indagine per un incarico ottenuto in un lussuoso hotel di proprietà della famiglia dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’asso pigliatutto dell’amministrazione giudiziaria, si è addirittura laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Un titolo che, come spiega La Stampa, a Caramma viene suggerito dal vero autore di tutto l’elaborato, e cioè Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, amministratore giudiziario di fiducia della Saguto, uno dei componenti del cerchio magico della zarina dei beni confiscati. È Provenzano che scrive – secondo gli inquirenti – la tesi di laurea del figlio della Saguto, ed è sempre Provenzano che cerca di farsi raccomandare dal magistrato per un incarico al Cara di Mineo, il centro per richiedenti asilo finito al centro di Mafia Capitale e commissariato dallo scorso giugno. “Il 12 giugno Provenzano contatta la Saguto ringraziandola per la segnalazione del suo nome al prefetto di Palermo quale potenziale commissario del Cara di Mineo”, si legge nei brogliacci della guardia di finanza. Perché per l’incarico a Mineo, Saguto fa intervenire il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, sua grande amica. “Ti volevo dire che ieri, davanti a me, ha telefonato quella da Roma per chiedere i dati al prefetto”, dice ad un certo punto a Provenzano. Il professore gongola: “Mamma mia se è così, prima di festeggiare, un bacio in bocca ti do guarda. Sei una potenza”. Ma non solo. Perché Saguto era riuscita a trovare un lavoro al Cara di Mineo anche a suo marito Lorenzo Caramma, coinvolto con lei nell’inchiesta nissena, già titolare di una serie diincarichi concessi da altri amministratori giudiziari. Caramma aveva trovato l’accordo con Davide Franco, commercialista amministratore del centro richiedenti asilo di Mineo, che aveva “avuto il numero” del marito della Saguto da Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma. “E’ vero, ho chiesto all’ingegnere Lorenzo Caramma se fosse interessato a collaborare al Cara di Mineo. Tuttavia i primi di settembre abbiamo ritenuto opportuno interrompere questa ipotesi lavorativa con l’ingegnere dato che dai giornali apprendemmo dell’inchiesta di Caltanissetta. Lo abbiamo fatto per motivi di opportunità”, spiega il commercialista Franco. E mentre da una parte Saguto chiedeva al prefetto aiuto per trovare incarichi al Cara di Mineo, dall’altra contattava l’amministratore giudiziario Alessandro Scimeca per sollecitare assunzioni chieste dallo stesso prefetto. “Io – dice intercettata il 28 agosto – ti devo chiedere il favore per il prefetto: di quello là da assumere”. Sono invece propositi di vendetta quelli promessi dal magistrato nei confronti dell’avvocato Walter Virga, figlio di Tommaso, magistrato ed ex componente togato del Csm. I due Virga sono finiti entrambi coinvolti dall’inchiesta nissena. Virga junior, infatti, era stato nominato amministratore giudiziario del gruppo Bagagli e delle aziende sequestrate alla famiglia Rappa: negozi, concessionarie d’auto di lusso, tv private, un tesoro da quasi un miliardo di euro. In cambio – secondo l’accusa – Virga aveva assunto Mariangela Pantò, fidanzata del figlio della Saguto, nel suo studio legale. “Abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico”, commenta in un’intercettazione. Appena inizia a scoppiare lo scandalo, però, Virga preferisce “licenziare” la fidanzata del figlio della Saguto. La reazione del magistrato è rovente. “Sono distrutta, incazzata non si può dire come gliela faccio pagare, non si buttano a mare le persone, si rischia insieme”. Poi riceve Virga e gelida sentenzia: “Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione”.

La Magistratura impegnata (nella strenua difesa di se stessa), scrive Achille Saletti il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". E dedicare qualche riga, oltre che alla politica rapace, a una Magistratura che difende se stessa con un piglio degno di cause migliori? Anche in questo caso sembra di sparare sul pianista: lo scontro ai vertici di una delle procure italiane più importanti si è ridotta ad un buffetto dato con grande delicatezza ai due protagonisti dell’affaire. Bruti Liberati, procuratore della Repubblica di Milano e Alfredo Robledo, sostituto della stessa Procura. Scontro di potere inaudito che ha fatto emergere dimenticanze, stranezze, stravaganze procedurali, insomma quell’insieme di comportamenti che nel retrobottega di un biscazziere, forse, sono normalità ma nel palazzo di vetro di una Procura, opacizzano anche quei colleghi che con serietà e dedizione si ostinano ad indossare il nobile abito di servitore dello Stato. Il Consiglio superiore della Magistratura ha sapientemente atteso la data di pensionamento di Bruti Liberati che, così facendo toglie le castagne dal fuoco. Per Robledo un bel trasferimento, nemmeno tanto lontano (Torino) e tutti giù per terra. Sempre in terra milanese, il giudice Ferdinando Esposito avrebbe abitato in un lussuoso appartamento pagato da amici. Trasferito anche lui a Torino, quasi che Torino fosse il rifugio degli scarti di Milano, o forse perché c’è l’alta velocità che permette di andare in 40 minuti e mantenere la residenza a Milano, chi lo sa? Vuoi mai che debbano dormire qualche notte fuori casa. Si chiude Milano e si apre Palermo: fatti noti e nemmeno sconosciuti tra chi aveva a che fare quotidianamente con confische e sequestri. Il magistrato che se ne occupava, la sapiente Saguto, si alimentava in un supermercato confiscato (da lei) senza pagare alcunché. Dispensava fraterni giudizi ai figli di uno dei magistrati che, tra i tanti, ha particolarmente onorato la professione pagando il prezzo della vita e chiudeva entrambi gli occhi su consulenze date al marito da curatori giudiziari da lei scelti. Sospesa in attesa di capirci qualche cosa? No, chiaramente, solamente trasferita. C’è insomma, sufficiente materiale da rendere la faccia del segretario della Associazione nazionale magistrati simile a quella di un ovale al cui interno campeggia un grande punto interrogativo. E questa, per alcuni, sarebbe la parte migliore del Paese e della Pubblica amministrazione. Parte che, se interessata a possibili riforme, si straccia le vesti prima ancora di comprendere in cosa consistano le riforme. Evidentemente a Rodolfo Sabelli, l’ipotetico punto interrogativo di cui sopra, questa Magistratura così feroce con se stessa piace assai perché si sente raramente alzare la voce affinché i suoi colleghi, quando coinvolti in situazioni poco limpide, prendano una sana aspettativa senza pretendere stipendio e incarichi in attesa degli auspicati chiarimenti. Poi, la ferocia si trova in altri settori della P.A quali quelli penitenziari che licenziano un’educatrice rea di avere un pensiero non esattamente ortodosso sulla Tav. Ma per gli educatori non c’è ordine, corporazione o altro che possa difenderli. Loro non sono considerati la parte migliore del Paese.

Franco La Torre: "C'è un'antimafia fatta da mafiosi ma non fermerà le persone oneste". Parla il figlio del segretario regionale del Pci ucciso nel 1982: "La politica ha delegato la lotta agli inquirenti, così sono nati gli intoccabili", scrive Giorgio Ruta su “la Repubblica” del 22 ottobre 2015.  "In quella telefonata forse la Saguto ha mostrato il suo vero volto". Franco La Torre, figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso a Palermo nel 1982, non fa giri di parole sulle frasi del giudice contro Manfredi e Lucia Borsellino. "La politica ha delegato la lotta alla mafia a magistrati e forze dell'ordine favorendo la nascita di eroi intoccabili".

La Torre, quello che viene fuori è un'antimafia utilizzata come copertura per interessi privati.

"Penso che l'antimafia spesso sia fatta dalla mafia stessa. Faccio un ragionamento. Chi ha interesse a trasformare l'antimafia in un affare? Conviene un'antimafia fatta dai mafiosi rispetto a quella portata avanti dalle persone perbene. Perché attraverso di essa ci si ripulisce l'immagine o si getta fango su quelli che si impegnano seriamente. E si può guadagnare anche qualche quattrino. Quando uno si presenta in un'amministrazione pubblica con un bel progetto culturale spesso si sente dire che non ci sono soldi, ma con una bella iniziativa antimafia qualche finanziamento ci scappa".

Il quadro che ha dipinto è lo stesso del caso Saguto?

"Sappiamo benissimo che se andiamo alla ricerca di coppole e lupare non ne troviamo di mafiosi, invece io ricordo la relazione di mio padre del 1976 in cui diceva che la mafia è un fenomeno di classi dirigenti. Il caso della Saguto è classico, il magistrato si approfitta della sua posizione, non esita a contravvenire alla legge e, da quando si legge nelle intercettazioni, intimidisce delle persone. Questo è un atteggiamento mafioso".

Questa vicenda è un duro colpo al progetto di suo padre e alla legislazione che ha ideato per aggredire il patrimonio della criminalità organizzata?

"Si, senza dubbio. D'altronde i governi che si sono susseguiti fino ad oggi non hanno avuto la questione a cuore. Siamo in un paese bizzarro, dove da un lato c'è la più efficace legislazione antimafia, ma dall'altro la politica pensa che il problema sia della magistratura e delle forze dell'ordine. Siamo in un paese dove non ci si è accorto di quello che accadeva a Palermo. E in certi ambienti si sapeva bene quello che succedeva, anche perché in molti ci campavano con la Saguto".

Delegare responsabilità alla magistratura, crea eroi intoccabili dell'antimafia?

"Si, succede questo. È il rischio che si corre e che abbiamo corso".

Secondo lei, la Saguto è una mela marcia o è parte di un sistema?

"È una mela marcia rispetto alla sua categoria di appartenenza, ma è parte del sistema. Quel sistema che se ne frega, che pensa agli interessi personali, che pensa agli amici e ai familiari. Chi era dall'altra parte del telefono quando la Saguto insultava Manfredi e Lucia Borsellino non ha abbassato la cornetta. Anche questo è sistema".

Perché ci si accanisce contro i figli di Paolo Borsellino?

"Le mie sono ipotesi, non ho elementi per fare altro. Ma penso che in quella telefonata la Saguto abbia mostrato il suo vero volto, dopo aver fatto la parte a una manifestazione per commemorare il magistrato ucciso. Probabilmente, avrebbe parlato male anche di me, dopo aver ricordato mio padre".

Questa vicenda pone una questione sul fronte dell'antimafia. Bisogna ripartire da zero?

"Bisogna fermarsi a riflettere. Io faccio parte di Libera e da tempo diciamo che non vogliamo sapere nulla del termine antimafia. Noi abbiamo, per esempio, alzato il livello di attenzione. Quando venivo invitato a delle iniziative, io prima mi limitavo a capire che l'organizzatore non fosse un approfittatore. Oggi faccio molta più selezione".

C'è il rischio che nell'opinione pubblica passi il messaggio che l'antimafia è tutta uguale, che non si distingua tra chi si impegna in maniera seria e chi lo fa per interessi personali.

"È come la politica, come la classica frase "fanno tutti schifo". Noi spesso invertiamo l'effetto con la causa. Non è l'antimafia che fa schifo, sono i mafiosi che stanno rovinando l'antimafia. In questo modo si rischia di non essere più credibili. Ma chi pensa che così saranno fermate le persone per bene sbaglia".

Beni confiscati, favori e clientele. Quando vige la certezza dell'impunità, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Magistrati e amministratori giudiziari coinvolti nello scandalo sulle misure di prevenzione avevano creato uno schermo di complicità e connivenze. E così, senza temere di essere denunciati, gestivano le loro trame nel Palazzo di giustizia di Palermo. Ciò che sconforta è la certezza dell'impunità. I protagonisti dello scandalo sui beni confiscati non avevano alcun timore di essere denunciati. Attorno a loro avevano creato uno schermo di complicità e connivenze per cui tutto ciò che oggi viene svelato dalle intercettazioni rappresentava la normalità. Normale era organizzare un party a Villa Pajno per il compleanno di Silvana Saguto, con la preziosa collaborazione del prefetto Francesca Cannizzo che nella villa ha la residenza, privata ma istituzionale. Normale era che gli uomini di scorta del magistrato andassero in giro per la città con la blindata per ritirare vestiti in lavanderia, comprare salviette struccanti e accompagnare persone al mare. Normale era piazzare parenti negli studi degli amministratori giudiziari e segnalare amici e conoscenti per farli lavorare nelle aziende sequestrate alla mafia. Sono tutti scatti di una certezza consolidata dell'impunità. In questi anni nessuno ha ritenuto opportuno alzare la mano per dire “non si fa”, dal più importante rappresentante del governo in città al fattorino che portava le cassette della frutta a casa della Saguto, passando per gli amministratori giudiziari e gli altri giudici della sezione Misure di prevenzione finiti sotto inchiesta assieme al loro ex presidente. Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte spendevano frasi del tipo: “A lei non gliene frega niente di fare carriera, che la sua carriera è finita qua; “Lei pensa alle sue cose personali. Ne sta facendo una malattia, ma è convinta di sfangarsela”. Sfoghi, a volte critiche, ma sempre e solo nel chiuso dell'ufficio della Saguto. Matteo Frasca, presidente della sezione palermitana dell'Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe, si interroga sulla “esistenza, adeguatezza ed efficacia dei controlli”. Appunto, gli stessi indagati nelle conversazioni intercettate dicevano chiaramente che la situazione delle Misure di prevenzione era sotto gli occhi di tutti. Compresi quelli di tanti colleghi che indossano la toga e hanno contribuito alla “normalizzazione” dell'anormalità. Nessuno in questi anni è intervenuto. Mai. E la vigilanza spettava alla stessa magistratura che oggi sventola il vessillo del rischio delegittimazione.

Figli, mogli, amici: i raccomandati vip della sezione beni confiscati. Le cimici svelano decine di segnalazioni, "sistemati" anche parenti di cancellieri, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica”. I raccomandati delle Misure di prevenzione erano davvero speciali. Amici del giudice Silvana Saguto e dei suoi figli. Ma anche amici dei loro amici. E che amici. Professionisti della città bene e rappresentanti delle istituzioni (a cominciare dal prefetto di Palermo). In tanti si rivolgevano all'influente presidente di sezione per piazzare qualcuno nelle aziende sequestrate ai boss. E anche su queste assunzioni stanno indagando gli ispettori del ministro della Giustizia. "L'ispezione si chiuderà nel giro di pochi giorni", fa sapere il Guardasigilli, Andrea Orlando. La settimana prossima, la prima commissione del Csm si riunirà in sessione straordinaria per il caso Saguto. Fra dieci giorni partiranno le audizioni dei giudici indagati. "Intanto, cominciamo con tuo figlio sicuramente ", diceva Silvana Saguto alla cancelliera dell'ufficio dei gip Tea Morvillo. E proseguirono pure con il fratello Sandro. Furono assunti nella tabaccheria sequestrata in via Torretta, ma finirono per fare solo pasticci. Dopo la scomparsa di 26 mila euro, l'amministratore firmò una lettera di licenziamento. Intervenne il giudice, convocando la cancelliera: "Non è che gli posso dire all'amministratore che non li licenzi - esordì - Quindi, io mi ritroverò con persone licenziate per giusta causa, che poi come ti assumo in un altro posto? (...) Tea ho le mani legate ". Ma trovarono una brillante soluzione: "Se loro si dimettono prima, io dico che non si procede". E i parenti del cancelliere non solo furono graziati, ma vennero subito rimessi in pista per un altro incarico. Pure in fretta. La microspia sistemata dagli investigatori del gruppo tutela spesa pubblica ha intercettato la Saguto mentre annuncia soddisfatta alla cancelliera che una sistemazione si è trovata per suo figlio: "Lo mettiamo da Niceta, in un posto che si libera, contabilità (...) se dovesse andare male da Niceta, nel frattempo troviamo altri posti". Aggiunse: "Per tuo fratello, ho parlato con il professore Provenzano". Anche i due figli dell'assistente giudiziario Elio Grimaldi, in servizio alla cancelleria della Saguto, erano stati sistemati. E si erano sollevate non poche polemiche. Tanto che il giudice aveva dovuto convocare l'amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo. "Abbiamo gli occhi puntati per la cancelleria che fa lavorare i figli... sono dappertutto, non è possibile". La vicenda di Gianluca Grimaldi si è poi conclusa in modo drammatico, con due colpi di pistola sparati nella cava Buttitta di Trabia, anche questa in amministrazione giudiziaria, da un dipendente in mobilità. Dall'indagine della Procura emerge che pure Giuseppe Rizzo era un raccomandato. Diceva la Saguto: "C'ho messo Rizzo perché me l'ha... praticamente è amico di Nasca ". La guardia di finanza commenta nell'informativa che si tratta del tenente colonnello Rosolino Nasca in servizio alla Dia. Anche Rizzo si era subito adeguato al sistema. La Saguto gli chiedeva "se possiamo sistemare qualche persona che ha bisogno di lavorare ". Rizzo fece il nome del geometra Greco. Le intercettazioni allegate all'inchiesta di Caltanissetta sono piene zeppe di nomi di raccomandati. Nella lista dei segnalati è finita pure la moglie dell'ex direttore generale di Banca Nuova, Francesco Maiolini. Valeria Aiello era arrivata alla Nuova Sport Car, una delle società sequestrate ai Rappa. "L'ha presa direttamente l'avvocato Virga", dicevano i suoi collaboratori. "Si deve prendere i soldi e apparentemente si può occupare proprio di qualche minchiata". Una collaboratrice di Virga protestava: "Ma lei è scecca totale". Un altro la riprendeva: "Ma ha le amicizie che contano". Persino i familiari della giudice antimafia avevano fatto le loro segnalazioni. Il figlio Francesco aveva indicato Fabio Torregrossa per un incarico di coadiutore nel sequestro Acanto. Il marito del giudice aveva invece raccomandato Roberto Tre Re per la stessa amministrazione. Non è finita. Silvana Saguto aveva piazzato il marito della sua cara amica Francesca Mesi, Giuseppe Tagliareni, con l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Che si lamentava, perché il neo assunto non era all'altezza. "Lui rimane lì, bellamente", diceva. "A volte gli manca la volontà, poi mi rendo conto che invece non è cosa sua". Raccomandati e incompetenti, a volte. La Saguto aveva puntato pure su un brillante avvocato, Antonio Ticali. "Ma tu l'amministrazione di Villa Giuditta la vuoi adesso o ti vuoi fare le ferie e aspettiamo settembre?". Lui scelse settembre. La giudice non obiettò, interessava solo che il legale l'aiutasse a trovare un posto per il figlio chef, a Milano.

Il prof. Carmelo Provenzano, l’homo novus, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Intercettazioni dalle quali si evince che è un suo pupillo devotissimo, che ha fatto la tesi di laurea al figlio di lei Elio, scapestrato e svogliato per ammissione della madre, che si è procurato per fargli avere tutti e otto i punti dei docenti per la laurea, che ha mandato, su spinta della Saguto un mellone al prefetto di Palermo Francesca Cannizzo per ingraziarsela e chiedere la sua forte intercessione onde ottenere la nomina di amministratore del centro Cara di Mineo, dove si parcheggiano da molti mesi circa 3000 migranti, per i quali lo stato paga 38 euro al giorno e la prefettura due euro e cinquanta a testa. Il giro ha funzionato così: Saguto ha fatto la segnalazione del nome di Provenzano alla Cannizzo, la quale ha fatto qualche telefonata a Roma ed ha ottenuto una risposta positiva. Pareva fatta, al punto che, telefonando alla Saguto Provenzano arriva a dirle: “Prima di festeggiare, un bacio sulla bocca ti dò.” Un giornale scrive che ha avuto tre incarichi di amministratore giudiziario, un altro sostiene che ha avuto incarichi e richieste di consulenze, da parte di amministratori legati alla Saguto. È possibile che sia stato il trait-d’union, la longa manus, il punto di collegamento, tra gli amministratori e la Saguto. Del resto era uno di quelli che organizzava e che teneva dotte relazioni al corso di formazione per amministratori giudiziari che ogni anno si tiene presso l’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono, dove era presente tutta la corte della Saguto, come ho scritto altrove. Provenzano, quarantenne ricercatore universitario dell’Università Kore di Enna, quella di Crisafulli, laureato in economia e commercio è un esperto, a quanto pare, dalle sue pubblicazioni, soprattutto in lingua inglese, di problemi commerciali, di economia aziendale e di strategie economiche, se si preferisce, di marketing. La Saguto ha una grande stima del professore, afferma che insegna in tre università, ma in realtà, a parte qualche incarico a Palermo, il suo posto è a Enna. In un articolo  pubblicato pochi giorni prima che scoppiasse la bomba, su “La Repubblica”, che ormai è schierata con i lecchini del potere, si può leggere, nella pagina di Palermo, quasi nascosto e ripreso poi a pag. 15 un articolo del nostro studioso, dal titolo “La guerra sui  beni sequestrati”  in cui egli  dimostra di essere vicino, come del resto ci è stato confermato da una delle tante vittime dell’operato degli amministratori giudiziari, all’ufficio misure di prevenzione e cerca in tutti i modi di difendere l’operato di questo settore scrivendo un mucchio di scemenze, camuffate da qualche termine inglese, tanto per dimostrare una sapienza che non c’è. Intanto non si sa di che guerra si tratti, almeno che non si voglia chiamare guerra l’operato, senza alcuna limitazione e con molto arbitrio, di chi procede con disinvoltura al sequestro dei beni ritardando con rinvii continui il momento in cui il sequestrato dovrebbe far valere le sue ragioni e dimostrare l’estraneità al sodalizio mafioso. È una guerra che ha in partenza un vincitore, ovvero chi usa i poteri dello stato. In tal modo si assicura un permanente reddito all’amministratore nominato e al suo gruppo di amici, a spese dell’azienda sequestrata, sino a produrne il fallimento.  Provenzano si è inventato un termine, la psychological operation per dire che gli stakeholders, cioè i detentori di interessi leciti e illeciti, lavorano sotto sotto per causare tensioni, depressioni, difficoltà psicologiche di ogni tipo ai poveri amministratori giudiziari, che si trovano a giocare “una partita simile a quelle di calcio in terza categoria: la tensione si avverte con l’ingresso nel paese e chi sta sugli spalti è pronto a fare continue invasioni di campo”. Che cazzo vuol dire? A volere trovare un significato pare che si voglia dire che l’impresa sequestrata prima, vedi un po’ non aveva controlli, adesso sì, prima non era in regola, adesso sì, prima non pagava i dipendenti, adesso sì, anzi, questi cattivi sono loro a chiedere di essere pagati e messi in regola. Sarebbe lungo elencare tutti i casi di dipendenti ed ex dipendenti da amministrazioni giudiziarie che aspettano di essere messi in regola e di avere pagato numerose mensilità, ma figurarsi se dall’alto della sua sedia il dottor Provenzano può conoscere tanti di questi casi umani: il giudizio di questo leccatore dell’ultima ora è impietoso; sono tutti mafiosi o amici dei mafiosi. Addirittura scrive: “una serie di sanzioni e prescrizioni si abbatte contro l’amministrazione giudiziaria e contro l’azienda”. Te lo immagini? Il tribunale nomina il suo amministratore, che opera in stretta collaborazione con chi lo nomina, e invece, secondo il Provenzino diventa vittima del suo stesso ruolo. E dietro questa povera vittima inesorabile ci sta la solita mafia che invia numerosi clic dopo il sequestro agli operatori dentro e fuori l’impresa: “il sequestro è ingiusto, a brevissimo si risolverà la causa e tutto ritornerà al suo proprietario”, “il sequestro serve ad arricchire gli amministratori giudiziari e fa fallire l’azienda”, “la giustizia divina farà il suo corso”. In pratica i due amministratori giudiziari catanesi di cui qualche giorno fa abbiamo dato notizia, che incassavano 40 mila euro al mese a testa, sono dei poveracci, così come il bisogno di credere che possa esistere una giustizia che metta a posto le cose, sono tutte minchiate messe in giro da mafiosi, ma anche, guarda un po?!!! Da gente come quella di Telejato, che intralciano l’operato lineare e coraggioso della giustizia in una terra dove “fare impresa”, secondo alcuni settori deviati della magistratura e degli investigatori, significa scendere per forza a compromessi con la mafia. In realtà, caro Provenzano Carmelo, noi non abbiamo accesso alle colonne di La Repubblica, perché non lecchiamo. Ma ci permettiamo di dire, nel nostro piccolo, che non è così e che i tuoi amici amministratori giudiziari non sempre sono vittime del dovere, ma quasi sempre creano vittime a causa di una legislazione esistente solo in Italia, che andrebbe profondamente rivista. Vuoi vedere che, secondo te facciamo gli interessi non dei lavoratori, ma dei mafiosi, mentre tu che hai capito tutto fai gli interessi del miliardario Cappellano Seminara? È probabile che Provenzano si sia trovato in un gioco più grosso di lui e che abbia creduto che, in nome della legalità, dell’antimafia e della tutela dei rappresentanti della giustizia avrebbe potuto far carriera. Intanto apprendiamo che l’università di Enna ha aperto un’inchiesta sul nostro bravo prof. e sospettiamo che i suoi consigli agli amministratori non siano poi tanto qualificati, dal momento che quasi il 90% delle aziende sotto sequestro sono fallite.

“A Zà Silvana” e i suoi raccomandati. Personaggi in cerca d’autore, scrive Pino Maniaci su "Telejato". SULLA SCIA DEL COMPORTAMENTO DELLA LORO PRESIDENTE, ANCHE I VARI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI E TRA QUESTI ANCHE QUALCUNO CHE AMMINISTRA BENI E AZIENDE CHE SI TROVANO NEL NOSTRO CIRCONDARIO, VEDI DOTT. GIUSEPPE RIZZO, UTILIZZANO LE LORO FUNZIONI DI AMMINISTRATORI DELLE SOCIETÀ SEQUESTRATE. Lo fanno per ricambiare cortesie e favori attraverso l’assunzione di personale all’interno delle aziende sequestrate, dando incarichi di consulenza a propri familiari e continuando a far lavorare tutti i soggetti raccomandati da “a Zà Silvana”, si proprio lei che da questo momento chiameremo così visto che meglio di tanti altri ha imparato la tecnica dell’imposizione. Si è sempre detto che la mafia imponeva il pizzo e le assunzioni… proprio come il Tribunale Misure di Prevenzione. Ma tornando al dott. Rizzo risulta abbastanza chiaro il suo ruolo di quotino affermato di Cappellano Seminara, tant’è che in una intercettazione a “Zà Silvana” parla della misura patrimoniale di Virga, amministrata dal dott. Rizzo, con un collaboratore dello stesso Cappellano Seminara, ed inoltre non si comprende come una persona nuova nell’ambito delle Misure di prevenzione venga nominato ad amministrare più di un miliardo di euro di beni (700 milioni di euro Virga, 360 milioni Parra), quando a “Zà Silvana” ha sempre sostenuto che gli incarichi venivano affidati a professioni conosciuti e di fiducia. E poi vogliamo sfatare un altro luogo comune, quello da sempre sostenuto da alcuni professionisti dell’antimafia e cioè che le aziende, dopo il sequestro entrano in crisi perché da parte del proposto inizia una campagna nei confronti dei clienti per non andare più a comprare presso la società sequestrata. Niente di più falso, almeno nella maggior parte dei casi. Le aziende in cui subentra l’amministrazione giudiziaria inizialmente si trovano con una forte liquidità dovuta al fatto che è prassi consolidata che le amministrazioni giudiziarie non pagano più i fornitori, non pagano le rate di mutuo, non pagano neanche gli stipendi maturati nel mese del loro insediamento e non pagano le tasse, mentre si attivano immediatamente per il recupero di tutti i crediti maturati precedentemente dalle varie aziende al momento del sequestro. Si inizia, quindi, con l’assunzione di personale che non ha alcuna competenza specifica, con incarichi ad amici e familiari svuotando le casse delle aziende per propri interessi e portando le stesse a conseguenze inevitabili come le messe in liquidazione e il fallimento. Il tutto con l’avallo del Tribunale Misure di Prevenzione.

Quando l’antimafia diventa peggio della mafia, continua Pino Maniaci su "Telejato". LA TEMPESTA ABBATTUTASI SUL TRIBUNALE DI PALERMO, I PROCESSI INFINITI E LE VITTIME DI UN SISTEMA DI DUBBIA LEGALITÀ. SEQUESTRI PREVENTIVI FONDATI SU ERRORI, INTERPRETAZIONI DI LEGGE E APPLICAZIONE A USO E CONSUMO DELLA SAGUTO E COMPANY, PROCESSI CON TEMPI INFINITI E OMBRE SULL’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA DEI BENI SEQUESTRATI. È quello che si può definire il lato oscuro dell’antimafia, quello che fa male e colpisce al cuore di chi crede negli ideali di giustizia e legalità. Qualcosa di troppo grande per essere compreso dal comune cittadino che confida fedelmente nell’antimafia, appena percepito da chi ne vive le conseguenze, risaputo invece per chi è dentro al sistema malato e ne fa indirettamente parte. È l’antimafia che si macchia di corruzione e abusi d’ufficio, quella che ha fatto tremare Palermo e la sua struttura giudiziaria. “Tutti sapevano” è la mesta dichiarazione che più sconvolge, poiché significa “omertà”, che grandi eroi come i giudici Falcone e Borsellino hanno voluto combattere in una terra in cui “l’onore” vale più della propria dignità. C’è chi sa e non parla, difficile separare i moventi della paura e della consapevolezza di non poter far nulla contro un sistema tanto potente, e chi invece grida a gran voce. Ebbene, noi di Telejato l’abbiamo fatto, abbiamo gridato in tutte le sedi il malaffare di una certa antimafia; la nostra battaglia ci è costata aggressioni e minacce di morte. Siamo contro l’antimafia che è mafia, contro l’antimafia amministrata dalla Saguto che nelle pubbliche apparizioni professa legalità e poi, in privato, insulta la memoria e i figli di un magistrato come Borsellino che invece ha pagato con la propria vita la lotta alla mafia, un gesto che è veramente l’emblema della turpitudine etica e morale; e poi fa raccomandazioni, favoritismi e utilizza i beni dello Stato, tra i quali la scorta e le residenze prefettizie, come fossero di sua proprietà. Tra l’altro per alimentare il circuito che aveva creato, venivano segnalati per essere sequestrati beni e aziende di tanti imprenditori che, già condannati per concorso esterno in associazione mafiosa e già dopo aver subito e scontato condanne e sequestri si sono ritrovati a rispondere di nuovo delle stesse accuse senza giustificare in alcun modo se questi soggetti abbiamo in qualunque modo attualmente contatti con i veri mafiosi, che le forze dell’ordine locali conoscono perfettamente. E così si sequestrano beni e aziende a qualsiasi titolo venuti a contatto con la persona a cui sequestrare il patrimonio e con motivazioni assurde o inesistenti e prive di alcuna logica; si sequestrano aziende perché il soggetto proposto vi ha svolto attività di lavoro dipendente o perché propri familiari vi hanno prestato attività lavorativa, si sequestrano intere aziende anche se il soggetto proposto possiede una minima quota di partecipazione in quella società, si sequestrano beni, per esempio, che il soggetto proposto ha venduto anche più di vent’anni fà e si sequestrano beni a terze persone, su indicazione dell’Amministratore Giudiziario, sol perché quei beni sono stati presi in affitto dalla ditta sequestrata e così l’amministratore giudiziario non paga più l’affitto. È questa l’antimafia che amministra i beni per trarne guadagni spropositati e che si avvale di “parentelismi” e favori; è l’antimafia che sequestra in modalità preventiva, operata dalla DIA, al cui interno possiamo segnalare la presenza di funzionari al servizio non dello Stato e della giustizia ma della Saguto per accontentarla nella spartizione e assegnazione dei posti di lavoro agli amici. Tutto questo ha creato e crea un enorme disagio e dolore ad intere famiglie, un gioco senza fine composto di investigazioni mirate, di sequestri con motivazioni surreali, di proposte fatte ad un Tribunale la cui Presidente non faceva altro che avallare “sic et simpliciter” le assurde e anomale tesi della DIA, di udienze rimandate di mesi e mesi, di anni e anni. E intanto gli Amministratori Giudiziari ingrassano il sistema creato e gestito dalla Saguto e gli indagati rimangono sospesi in un limbo, e con essi i loro familiari, che a qualsiasi titolo vengono letteralmente cacciati fuori dai posti di lavoro senza stipendio e senza neppure la liquidazione spettante, perché a decidere (di solito sempre in senso negativo) era sempre lei, la regina del malaffare. Il sistema corrotto da lei creato con la complicità di funzionari della DIA, di cancellieri, di personale giudiziario, di prefetti, di giudici e di amministratori giudiziari guadagna e guadagna ancora di più se i tempi dei processi si distendono, complice la mancata urgenza di giustizia e un’organizzazione giudiziaria da Paese dittatoriale. Basti considerare che il Tribunale Misure di Prevenzione è l’organo che dispone il sequestro e allo stesso tempo l’organo giudicante. È come se chi svolge le indagini, ad esempio le Procure, allo stesso tempo possano giudicare senza necessità che la funzione di terzietà venga esercitata da un Tribunale, sul quale grava l’onere di valutare le prove offerte sia dall’accusa che dalla difesa. “Alla faccia della Giustizia”. Intanto ognuno fa i propri interessi, poco importa del prossimo. Qualcuno avrà sicuramente le sue fonti alternative, altri (la maggior parte) non potranno che tirare a campare in attesa di un verdetto che, se tutto và secondo i piani, arriverà quando tutti avranno le tasche piene. Comunque non possiamo che complimentarci per l’alto senso dello Stato dimostrato da Giudici, Prefetti, componenti del CSM, Sottosegretari, funzionari della DIA, Cancellieri…E poi quei singoli magistrati che in questi giorni, a titolo personale, esprimono il loro rammarico per il populismo che si stà creando contro la loro categoria, dovrebbero, per manifestare il disgusto di comportamenti disdicevoli di loro colleghi, intervenire presso la loro Associazione (ANM) per isolare pubblicamente tutti i soggetti coinvolti nell’inchiesta, senza se e senza ma. Per concludere noi avremmo una domanda da porre principalmente al signor Presidente del CSM Sergio Mattarella: “Ma la legge è uguale per tutti?”, perché non comprendiamo come mai tutte queste persone a vario titolo coinvolte, partendo da giudici e finendo a funzionari della DIA, si trovano ancora al loro posto e non vengono sospesi da tutte le funzioni pubbliche, perché è chiaro che indossare la toga e svolgere attività, con le accuse che gravano sulle loro spalle, oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati e funzionari che ogni giorno, onestamente, amministrano giustizia. È urgente, quanto meno, che a chi si sia macchiato di queste gravi accuse vengano sequestrati i beni.

Il "cerchio magico" di Silvana: "Io sono come Dio onnipotente". Il prefetto e il colonnello, il professore e l'avvocato, i giudici della sua sezione e uno stuolo di amministratori giudiziari e commercialisti. Tutti "arruolati" dal magistrato sotto inchiesta, scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica” del 27 ottobre 2015. Il prefetto e il colonnello, il professore e l'avvocato, i giudici della sua sezione e naturalmente uno stuolo di amministratori giudiziari e commercialisti. Tutti "arruolati" nel cerchio magico di Silvana Saguto, tutti pronti a calpestare il proprio ruolo istituzionale pur di compiacere quel giudice che di sé diceva: "Io sono Dio onnipotente". Dalle mazzette di banconote alle cassette di fragole e lamponi, ma soprattutto il potere di "sistemare" amici, parenti e conoscenti nelle aziende sequestrate. Quali e a carico di chi saranno le condotte penalmente rilevanti lo dirà l'inchiesta della Procura di Caltanissetta, ma quello che emerge dalle intercettazioni telefoniche e ambientali negli uffici della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo è al contempo uno scenario di potere e di bassezze, una sconcertante "palude" dove di incrociano uomini delle istituzioni ed esponenti della buona borghesia palermitana. Tutti insieme, giudici, controllori e controllati. E persino i "prevenuti", cioè i titolari dei patrimoni sequestrati che continuavano ad avere rapporti con gli amministratori posti alla guida delle loro aziende. Perché, come diceva l'avvocato Walter Virga, il figlio del giudice Tommaso "premiato" con due amministrazioni giudiziarie miliardarie, "non è una questione di soldi nè di niente, è una questione di potere". L'investigatore che confezionava le proposte di sequestro di patrimoni, ad esempio, il pluridecorato colonnello Rosolino Nasca della Dia di Palermo, era uno dei più fidati "problem solver" della Saguto. "Silvana stai serena, ti dico io come fare. Non comparirà da nessuna parte, non emergerà nulla. Viene assunto da una terza parte, quindi lo sappiamo solo noi due e tuo marito, il quale non avrà rapporti con Rizzo, è una cosa scientifica. Devi stare tranquilla, soprattutto per telefono, sempre". Era l'8 luglio, si stava preparando il sequestro dell'impero dei boss Virga e il colonnello cercava di aggirare i problemi che, con la Saguto già nell'occhio del ciclone, impedivano di continuare ad assegnare incarichi al marito, l'ingegnere Lorenzo Caramma. Affidando quell'amministrazione giudiziaria ad una persona di fiducia del colonnello Nasca l'obiettivo sarebbe stato ugualmente raggiunto. "C'ho messo a Rizzo perché lo vuole Nasca - ammette la Saguto intercettata mentre parla con il collega romano Muntoni - ed è un sequestro sovrastimato dalla Dia. Su 30 aziende pochissime sono attive e i conti correnti sono tutti negativi". Il colonnello faceva quello che voleva. È lui che "rende attuali" vecchie minacce e informa i giornali per cercare di rimettere in piedi la credibilità della Saguto incrinata da articolo di giornali e dalla martellante campagna di Telejato. Anche di questo si occupava Nasca: neutralizzare la stampa sgradita. Per provare a "spegnere" la tv di Partinico (che per conservare le frequenze con il passaggio al digitale era entrata in un conzorzio con Telemed) si era rivolto a Walter Virga. Una preoccupazione condivisa con Francesca Cannizzo, il prefetto di Palermo, grande amica della Saguto. "Ma che tempi abbiamo per Telejato?" chiedeva la Cannizzo alla Saguto che rispondeva: "Quello dice: ha le ore contate ". Gli amici della Saguto erano ormai di casa in prefettura: dal professore Carmelo Provenzano (che carinamente mandava frutta, verdura e dolcini) all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. A lui, che -infastidito dalla campagna di Telejato aveva presentato in procura una denuncia di stalking - la Cannizzo propone la scorta: "Se ritieni, a livello di tutela io posso intervenire". Poi si dedica all'organizzazione della festa di 60 anni dell'amica Silvana a Villa Pajno: "Servono i flute, i piattini per la torta, postine e tovagliolini. Ci penso io".

I raccomandati della “Zà Silvana”: c’era pure il dott. Giuseppe Rizzo, scrive Pino Maniaci su “Telejato” del 26 ottobre 2015. SULLA SCIA DEL COMPORTAMENTO DELLA LORO PRESIDENTE, ANCHE I VARI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI, E TRA QUESTI ANCHE QUALCUNO CHE AMMINISTRA BENI E AZIENDE CHE SI TROVANO NEL NOSTRO CIRCONDARIO, VEDI DOTT. GIUSEPPE RIZZO, UTILIZZANO LE LORO FUNZIONI DI AMMINISTRATORI DELLE SOCIETÀ SEQUESTRATE PER ASSUMERE PERSONALE ALL’INTERNO DELLE AZIENDE SEQUESTRATE. E lo fanno non per le loro competenze nell’ambito delle attività svolte dalla ditta amministrata, ma per ricambiare cortesie e favori, dando incarichi di consulenza a propri familiari e facendo ingrassare nuovi fornitori scelti tra familiari e amici, chiaramente dopo avere allontanato dalle aziende, con licenziamenti immotivati, tutti quei dipendenti che con le proprie capacità quella ditta hanno contribuito a far crescere e a dare lavoro a decine di lavoratori; mentre si preferisce continuare a far lavorare tutti i soggetti raccomandati da “A Zà Silvana”, si proprio lei che da questo momento chiameremo così visto che meglio di tanti altri ha imparato la tecnica dell’imposizione. Si è sempre detto che la mafia imponeva il pizzo e le assunzioni… proprio come il Tribunale Misure di Prevenzione da lei presieduto. Ma tornando al dott. Giuseppe Rizzo, dall’indagine della Procura di Caltanissetta emerge che pure lui era un raccomandato. Diceva a “Zà Silvana”: «C’ho messo Rizzo perché me l’ha… praticamente è amico di Nasca». La guardia di finanza commenta nell’informativa che si tratta del tenente colonnello Rosolino Nasca in servizio alla Dia. Anche Rizzo si era subito adeguato al sistema. A “Zà Silvana” gli chiedeva “se possiamo sistemare qualche persona che ha bisogno di lavorare”. Pure i due figli dell’assistente giudiziario Elio Grimaldi, in servizio alla cancelleria della “Zà Silvana”, erano stati sistemati nelle aziende amministrate dal dott. Rizzo. E si erano sollevate non poche polemiche. Tanto che il giudice aveva dovuto convocare l’amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo: “Abbiamo gli occhi puntati per la cancelleria che fa lavorare i figli… sono dappertutto, non è possibile”. Inoltre risulta abbastanza chiaro il suo ruolo di quotino affermato, tant’è che in una intercettazione a “Zà Silvana” parla della misura patrimoniale di Virga, amministrata dal dott. Rizzo, con un collaboratore di Cappellano Seminara e Aulo Giganti. In effetti era evidente il coinvolgimento del dott. Giuseppe Rizzo nel sistema del malaffare creato, gestito e amministrato dalla “Zà Silvana” e dai suoi seguaci, perché lei stessa ha sempre dichiarato che le nomine degli amministratori giudiziari venivano conferiti a professionisti conosciuti e di fiducia, mentre il dott. Giuseppe Rizzo, commercialista e laureato anche lui all’università Kore di Enna, la stessa che ha regalato la laurea al figlio svogliato della “Zà Silvana”, era un emerito sconosciuto nell’ambito delle Misure di prevenzione, il cui presidente gli affida l’amministrazione di più di un miliardo di euro di beni (700 milioni di euro Virga, 360 milioni Parra), non certo per professionalità dimostrata ma soltanto dietro raccomandazione del funzionario della DIA ten. col. Nasca, che probabilmente svolgeva le indagini di sequestro di patrimoni non per contrastare effettivamente l’illecita acquisizione di beni da parte della mafia ma per ingraziarsi a “Zà Silvana” e per piazzare i propri amici amministratori giudiziari, anche grazie ad una legislazione e ad un orientamento del Tribunale Misure di Prevenzione per cui il sospetto vale più delle prove offerte. Sulle cifre dei patrimoni sequestrati c’è un capitolo a parte visto che le stesse vengono gonfiate dalla DIA per sostenere davanti l’opinione pubblica e le istituzioni che quell’organismo svolge una enorme mole di lavoro. Chiediamo al sig. direttore della DIA: come vengono individuati i soggetti da sottoporre ad indagine patrimoniale? Quali sono i criteri utilizzati per l’aggressione ai patrimoni sospettati di essere stati acquisiti illegalmente? Ma forse più che il direttore della DIA a queste domande dovrebbe rispondere il ten. col. Nasca. Riteniamo che su questo punto vada fatta chiarezza e l’eventuale indagine dei soggetti coinvolti debba avvenire in modo trasparente e in maniera che tutti possano conoscere i metodi utilizzati dalla DIA per il contrasto alla criminalità. Perché in caso contrario è legittimo il sospetto (o meglio la conferma, dati i fatti emersi) che finora si sono sequestrati beni e aziende anche per colpire qualcuno in particolare o per alimentare ed ingrassare il sistema illegale di favoritismi creato all’interno della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo con l’aiuto e l’accordo di funzionari della DIA, che al posto di denunciare consigliano alla “Zà Silvana” e ai suoi amici di non parlare al telefono perché non è escluso che possano essere sotto controllo. E poi vogliamo sfatare un altro luogo comune, quello da sempre sostenuto da alcuni professionisti dell’antimafia e cioè che le aziende, dopo il sequestro entrano in crisi perché da parte del proposto inizia una campagna nei confronti dei clienti per non andare più a comprare presso la società sequestrata. Niente di più falso, almeno nella maggior parte dei casi. Le aziende in cui subentra l’amministrazione giudiziaria inizialmente si trovano con una forte liquidità dovuta al fatto che è prassi consolidata che le amministrazioni giudiziarie non pagano più i fornitori, non pagano le rate di mutuo, non pagano neanche gli stipendi maturati nel mese del loro insediamento e non pagano le tasse, mentre si attivano immediatamente per il recupero di tutti i crediti maturati precedentemente dalle varie aziende al momento del sequestro. Si inizia, quindi, con l’assunzione di personale che non ha alcuna competenza specifica, con incarichi ad amici e familiari svuotando le casse delle aziende per propri interessi e portando le stesse a conseguenze inevitabili come le messe in liquidazione e il fallimento. Il tutto con l’avallo del Tribunale Misure di Prevenzione. Sembra quasi che tutti questi soggetti coinvolti abbiamo avuto una malattia degenerativa che ha colpito e si è diffusa anche per la forza simbolica che ognuno di loro (giudici, funzionari della DIA, cancellieri, Amministratori giudiziari) aveva. E così che ci domandiamo: con chi abbiamo avuto a che fare? Sicuramente non con chi credevamo un integerrimo personaggio ma sicuramente con un disinvolto giocatore pronto a bluffare pur di vincere la sua partita personale. Tutti i lavoratori e tutti i cittadini onesti che credono nella giustizia vera sono indignati e stentano a credere che ancora tutti questi personaggi siano al loro posto dopo la pubblicazione di una parte di quelle intercettazioni inequivocabili, e tra l’altro qualcuno dei soggetti coinvolti ha pure il coraggio di esternare sulla stampa improbabili frasi a difesa del suo operato. Certo i processi si celebrano nelle aule giudiziarie, ma per molto meno un funzionario pubblico o un politico sarebbe finito quanto meno ai domiciliari con i propri beni sequestrati (vedi il caso di corruzione ANAS), altro che trasferimento ad altra sede, continuando a percepire lo stipendio e ad usufruire dei servizi di scorta e accompagnamento pagati da noi cittadini! Un’ultima domanda la vogliamo rivolgere al nuovo Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo dott. Montalbano e al Direttore dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati Prefetto Postiglione: Visto che le nomine degli Amministratori Giudiziari sono fiduciarie, ritenete di avere ancora fiducia in tutti questi Amministratori Giudiziari e Coadiutori coinvolti (Cappellano Seminara, Scimeca, Giganti, Rizzo) e gli altri nominati nelle intercettazioni finora rese pubbliche? Secondo il nostro parere e quello di tutta l’opinione pubblica, andrebbero tutti immediatamente rimossi dai loro incarichi, così come i Cancellieri, il personale giudiziario e i funzionari della DIA, a meno che chi dovrebbe rimuoverli non si trovi anche lui sotto ricatto.

Gli intoccabili. Il caso Saguto e la società delle caste, scrive Pino Maniaci su "Telejato" il 26 ottobre 2015. IL CASO SAGUTO E LA SOCIETÀ DELLE CASTE: L’ANTIMAFIA, I GIUDICI, I BUROCRATI, I POLITICI. E POI LA PLEBE. Di fronte a tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in questi ultimi tempi sul caso della gestione personalizzata dei beni sequestrati da parte di un nutrito numero di magistrati, componenti del CSM, cancellieri, funzionari della DIA, personale giudiziario e amministratori giudiziari, sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Ci chiediamo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti: Se a un comune mortale cittadino italiano fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stato sottoposto agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Ci chiediamo ancora una volta, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che a “Zà Silvana” indossi ancora la toga? È opportuno che tutte le persone coinvolte in favoritismi, raccomandazioni e assunzioni ad amici e parenti restino ancora al loro posto? È opportuno che funzionari della DIA al servizio di questo sistema continuino a svolgere ancora funzioni pubbliche? Non comprendiamo quale sia la differenza tra questi soggetti e chi incassa una tangente. Entrambi utilizzano i propri ruoli istituzionali per rubare soldi pubblici. La giustizia è davvero uguale per tutti? Non ci soddisfano più le assicurazioni che tutto sarà chiarito. Sarà chiarito da chi? Quando e davanti a chi? Tutti invece devono essere immediatamente rimossi dai loro pubblici incarichi, in modo trasparente perché come cittadini abbiamo concesso credito a giudici che abbiamo ritenuto credibili, che abbiamo rispettato per la loro vita blindata, giudici che abbiamo ascoltato e dei quali abbiamo rispettato il lavoro senza alcuna delegittimazione preventiva. Vengano rimossi senza stipendio per rispetto verso tutti quei magistrati che hanno onorato e onorano i valori di autonomia e indipendenza, assicurando credibilità alla Giustizia con i comportamenti di tutti i giorni. Vengano rimossi per rispetto a tutti quei servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere. Vengano rimossi e gli vengano sequestrati i beni per rispetto a tutti coloro che chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria con compiti delicatissimi e complessi lo fanno con coraggio. Pochi giorni fa i deputati della nostra regione hanno approvato in Commissione in tempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle società partecipate dalla Regione e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxicompensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia, Crocettino, è diventato il Santo protettore della casta. Ricordiamo che negli anni ’80, ’90, il sogno di tanti giovani era quello di una società nella quale se sei bravo e se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli antimafia, come se l’antimafia fosse una categoria dello spirito, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. E in quanto tali trattano gli altri con arroganza e sfacciataggine. Ci sentiamo come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che ha detto “Se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo a “Zà Silvana” che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. È la Rivoluzione Francese ai tempi da “Zà Silvana”. Un ultimo e accorato appello a tutte le Associazioni Antiracket e Antimafia che non sentono la necessità di proferire parola neanche davanti a delle gravissime minacce ricevute dal Direttore di Telejato, Pino Maniaci, da parte della Saguto (a “Zà Silvana”) e del Prefetto Cannizzo, che parlando tra di loro hanno affermato: “Pino Maniaci ha le ore contate”. E ai ragazzi di Addiopizzo. Forza ragazzi fate sentire la vostra variopinta presenza e alzate in coro la voce organizzando graziosi sit-in di protesta nelle pubbliche piazze e davanti al Tribunale di Palermo, datevi da fare ad appendere sui pali e le vetrine di Palermo la scritta: “Un Magistrato e un Prefetto che usano il loro potere per fini personali sono persone senza dignità”.

Il caso Saguto e la società delle caste: l'antimafia, i giudici, i burocrati, i politici. E poi la plebe. L'inchiesta che riguarda il giudice Saguto, insieme ad una serie di altri fatti di cronaca mi hanno convinta che viviamo in una società divisa in caste. Da un lato gli intoccabili, i privilegiati, dall'altro la plebe. Ai tempi di Maria Antonietta lei diceva "mangiate biscotti se non avete pane", oggi c'è un giudice che non si accorge di 18 mila euro di conto non pagato al supermercato..., scrive domenica 25 Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. Il caso Saguto non mi ha fatto dormire la notte. Per 10 giorni ho avuto il panico temendo quale cosa raccapricciante avrei letto il giorno dopo a proposito dell’inchiesta su Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione misure preventive del Tribunale di Palermo. L’indagine su quel che accadeva nella gestione dei beni confiscati alla mafia (che in Sicilia rappresentano il 43% del totale) sta facendo emergere di tutto. La Saguto spaziava dalle nomine di amministratori giudiziari nelle società confiscate in cambio di incarichi per il marito, i parenti e gli amici, all’utilizzo dell’auto blindata come taxi per prelevare la nuora e accompagnarla nella villa al mare, o delle sue ospiti per non incappare nel traffico palermitano, oppure dal farsi recapitare a casa per le cene 6 chili tonno fresco, lamponi, (di provenienza da aziende sotto sequestro) al conto da quasi 20 mila euro non pagato al supermercato confiscato (“una dimenticanza, non sono io quella che va a fare la spesa..”). La “zarina” delle misure preventive si è data da fare per la laurea del figlio ottenuta grazie all’aiuto del docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano che in cambio veniva nominato consulente. Il giovane laureato, stando alle intercettazioni, la festa proprio non la voleva “questa laurea è una farsa, gli altri sgobbano per averla” ma il giudice non sentì ragioni e affidò l’organizzazione proprio al professore Provenzano che oltre a scrivere la tesi ha provveduto al menù, così come avverrà per la successiva festa di compleanno della Saguto. Gli agenti della scorta infine venivano utilizzati per andare in profumeria a fare acquisti. Ciliegina sulla torta del dichiarazioni del giudice antimafia a proposito dei figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Anna. Il 19 luglio, anniversario dell’assassinio di Borsellino, Silvana Saguto partecipa come madrina alla manifestazione Le vele della legalità, fa il suo bel discorso antimafia, poi sale a bordo dell’auto blindata ed al telefono dice ad un’amica: “Poi Manfredi che si commuove, ma perché minc...a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff....o". Di fronte a tutto questo sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Mi chiedo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti ma se a Donna Sarina fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stata agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Mi chiedo, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che indossi ancora la toga? La giustizia è davvero uguale per tutti? Leggo anche dell’arresto per corruzione dell’ex direttrice del carcere di Caltanissetta Alfonsa Miccichè. La signora affidava progetti con somme inferiori ai 40 mila euro (quindi non soggetti ad evidenza pubblica) a società che in cambio assegnavano incarichi alla figlia ed al genero. Sempre in questi giorni scopro che al Comune di Sanremo il 75% dei dipendenti è assenteista e c’è chi è stato filmato mentre timbrava il cartellino in mutande e poi tornava a letto o lo faceva timbrare da moglie e figli. Il sindaco di Sanremo dichiara: “sto valutando i provvedimenti da prendere. Forse ANCHE il licenziamento”. A prescindere dal fatto che se licenzi questi ladri di lavoro almeno puoi assumere qualcuno onesto che ti fa funzionare il Comune e adesso è disoccupato, mi chiedo signor sindaco: che significa ANCHE il licenziamento? Che vorresti fare? Premiarli? Che differenza c’è tra questi assenteisti e l’impiegato che incassa la tangente? Entrambi rubano soldi pubblici. Torniamo in Sicilia dove pochi giorni fa i deputati hanno approvato in Commissione intempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle partecipate e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxi compensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia è diventato il Santo protettore della casta. A Roma mentre la sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu viene rinviata a giudizio per peculato per rimborsi da 81 mila euro il presidente del Consiglio Renzi annuncia di voler togliere l’Ici sulla prima casa a TUTTI, sia che abbiamo un castello che un tugurio. E si definisce di sinistra….Ricordo negli anni ’80, ’90, il sogno della Milano da bere era quello di una società nella quale se sei bravo, se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli “antimafia”, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. La Barracciu era la candidata che Renzi voleva ad ogni costo per la presidenza della Regione Sardegna. A causa dello scandalo, ha ripiegato per un posto di sottosegretario. La Barracciu, la Saguto, le leggi ad personam mentre la Sicilia muore di fame. E’ la sfacciataggine degli intoccabili. Mi sento come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che dice “ma se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo il giudice antimafia Silvana Saguto che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. E’ la Rivoluzione Francese ai tempi della Saguto. Rosaria Brancato.

Cultura antimafia con pregi e difetti, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 ore” del 26 Ottobre 2015. I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti – istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi – in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della “mela marcia”. Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo – sostiene Saguto – sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari – anche molto meno esposti di Palermo – che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, gli ammontari, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere «una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta» (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un po’ più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti.

QUESTIONI DI FAMIGLIA. I fatal mariti, scrive Sabato 19 Settembre 2015 Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Silvana Saguto è costretta a lasciare il suo incarico a causa di una indagine che riguarda presunti favori al marito. La corsa di Anna Finocchiaro verso il Quirinale è stata frenata anche dal caso del Pta di Giarre che coinvolse il coniuge. E non sono gli unici casi, dalla consulenza del "signor Chinnici" al ritardo di "mister Monterosso". La moglie di Cesare deve apparire più onesta dell'imperatore. L'immagine è rievocata a ogni scandalicchio e parentopolina. Qualcuno, però, in questi anni ha forse dimenticato i mariti delle imperatrici. Fatal mariti, in molti casi. È il caso di Silvana Saguto, ma non solo il suo. Perché i coniugi delle donne di potere, in qualche caso, hanno finito per frenare e troncare carriere. O, in qualche caso, per trascinare nella centrifuga di polemiche più o meno sensate, le mogli. Ne sa qualcosa, come abbiamo già detto, Silvana Saguto, che ha lasciato l'incarico di presidente della Sezione misure di prevenzione. È indagata per corruzione e abuso d'ufficio. E la questione riguarda anche il marito, appunto. L'accusa al magistrato infatti è relativa ai rapporti con Gaetano Cappellano Seminara, il più noto degli amministratori giudiziari. A lui sono giunti diversi incarichi di gestione di beni confiscati alla mafia. Una fiducia ripagata – questa l'accusa, tutta da dimostrare – tramite consulenze che lo stesso Cappellano Seminara avrebbe assicurato a Lorenzo Caramma, marito della Saguto. Quanto basta, ovviamente, per fare da miccia a un'esplosione di veleni e accuse incrociate che pare ancora all'inizio. E ha già portato all'estensione dell'indagine ad altri tre magistrati. Intanto, la Saguto ha fatto le tende. Attenderà un altro incarico. Ma il “colpo” alla carriera del magistrato è stato durissimo. Marito, fatal marito. Che a pensarci bene, un'altra storia di coniuge “scomodo” potrebbe aver contribuito a chiudere le porte del Quirinale a una donna siciliana. È il caso di Anna Finocchiaro e soprattutto del fatal marito, Melchiorre Fidelbo. Quest'ultimo è infatti finito dentro una inchiesta su un maxi appalto dell'Asp di Catania destinato all'apertura del “Pta” di Giarre: una struttura sanitaria “intermedia” che avrebbero dovuto alleggerire il peso dei grossi ospedali. Fidelbo nell'ottobre del 2012 è stato anche rinviato a giudizio per abuso di ufficio e truffa: è accusato di aver fatto pressioni indebite sui dirigenti dell'Azienda sanitaria con lo scopo di ottenere l'affidamento. Una vicenda ovviamente tirata fuori dai detrattori della Finocchiaro, nei giorni caldi che hanno portato alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Siciliano, ma uomo. Nonostante la Finocchiaro pare piacesse molto anche a Forza Italia. Ma quella storia... Chissà cosa si saranno detti, invece, Patrizia Monterosso e Claudio Alongi, suo marito. E no, non c'entrano nulla i potenziali conflitti di interesse tra un Segretario generale che contribuisce a scrivere le norme sui dipendenti regionali e il commissario dell'Aran che – visto il ruolo – con i dipendenti regionali deve discutere le norme che li riguardano. No, la storia è un'altra. Ed è, in fondo, sempre la stessa. Quella per la quale la plenipotenziaria di Palazzo d'Orleans è stata condannata dalla Corte dei conti a oltre un milione di risarcimento per la vicenda degli extrabudget nella Formazione professionale. Una condanna giunta nonostante l'appassionata difesa del marito-avvocato Claudio Alongi. Anzi, “tecnicamente” proprio a causa dell'avvocato-consorte. Perché il ricorso della Monterosso, al di là delle questioni di merito che, stando ai giudici sarebbero rimaste tutte in piedi, è stato respinto per un ritardo nella presentazione di alcuni documenti. Ritardo dei legali, appunto. Marito compreso. Paradossi delle vite coniugali che si intrecciano con le vite pubbliche. Ne sa qualcosa Caterina Chinnici. Fu lei la massima sostenitrice di una legge sulla trasparenza che finalmente poneva dei paletti (in questi anni a dire il vero, serenamente ignorati) riguardo alla pubblicazione degli atti, degli stipendi e degli incarichi pubblici. Il caso, però, ha voluto che a ignorare quelle disposizioni fosse anche un consulente dell'Asp di Siracusa, Manlio Averna. Marito di Caterina Chinnici. Un caso che creò anche tensioni all'interno della giunta di Raffaele Lombardo, con Massimo Russo, ad esempio, molto critico sulla “dimenticanza” dell'Azienda siracusana. "Non si può addebitare alla sottoscritta – replicò Caterina Chinnici - l'eventuale inadempienza di coloro che dovrebbero controllare”. Polemiche, ovviamente, poco più. Nulla a che vedere col “caso Saguto”, se non il ricorrere di questi “incroci pericolosi” tra il divano di casa e le scrivanie del sistema pubblico. Fastidi, o poco più, in cui il marito non sarà stato “fatale” per la carriera, ma che certamente ha regalato alla consorte qualche minuto o qualche giorno di tensione. Avvenne anche a Vania Contrafatto, attuale assessore all'Energia. E il casus belli fu addirittura una cena, organizzata da Sandro Leonardi, candidato dell'Idv al Consiglio comunale e marito della Contrafatto. All'appuntamento c'erano, tra gli altri, il procuratore Francesco Messineo e gli aggiunti Leonardo Agueci e Maurizio Scalia. Quest'ultimo era il magistrato che coordinava l'indagine sui brogli alle primarie del centrosinistra. Una rivelazione, quella, lanciata ironicamente nel corso di una conferenza stampa da Antonello Cracolici: “Per sapere qualcosa sui presunti brogli alle primarie - disse il capogruppo del Pd all'Ars - forse avremmo dovuto essere a una cena elettorale che si è tenuta sabato a Mondello alla quale hanno partecipato, oltre al candidato sindaco Leoluca Orlando, alcuni pm di Palermo che seguono le indagini sulla vicenda". Orlando aveva denunciato brogli a quelle consultazioni accusando il vincitore di quelle primarie, Fabrizio Ferrandelli. Tutto si sgonfiò presto, con una nota del pm Scalia con la quale il magistrato spiegò di aver preso parte “a un ricevimento in una casa privata di una collega e amica per festeggiarne l'inaugurazione”. Vania Contrafatto, appunto. Una delle cene probabilmente più indigeste per quello che sarebbe diventato il futuro assessore all'Energia. E un marito può essere fatale persino “a costo zero”. Chiedete a Valeria Grasso, nominata da Crocetta Soprintendente della Fondazione orchestra sinfonica. Tra i consulenti, ecco spuntare il marito Maurizio Orlando: “Ma è qui a titolo gratuito”, provò a spiegare l'imprenditrice antiracket. Pochi mesi dopo, Crocetta l'avrebbe rimossa dalla guida della Foss. 

Dio, Satana e il colonnello, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 28 ottobre 2015. ORMAI NON CE LA FACCIAMO PIÙ AD ANDARE DIETRO A TUTTE LE “MINCHIATE”, LE INTERCETTAZIONI CHE GIORNALMENTE VENGONO FUORI, LE DICHIARAZIONI, E LE CONDIZIONI PSICOLOGICHE DEI PROTAGONISTI DI QUESTA SQUALLIDA STORIA CHE HA MESSO IN VETRINA TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO DENUNCIATO DA DUE ANNI A QUESTA PARTE. Per fortuna da Caltanissetta, dove Pino Maniaci era già stato ascoltato un anno e mezzo fa, hanno lavorato sodo e hanno scoperto una sorta di complotto che aveva le mani su tutto il sistema produttivo delle province di Trapani e Palermo, con diramazioni anche a Catania e ad Agrigento. Ieri ci sembrava che si era toccato il fondo: “Io sono come Dio onnipotente”, diceva la Saguto al suo Cappellino, ma da altre intercettazioni “ho sentito dire di Cappellano Seminara cose poco sotto di quello che può fare Satana in persona… ma siamo in un paese in cui quando non riesci ad incastrare uno non puoi dire che sei tu incapace di incastrarlo, devi dire che ci sono i poteri oscuri, le protezioni, i poteri forti”. Il Giornale di Sicilia, con la sua furbizia redazionale, ma che in realtà è poca correttezza deontologica, riporta quest’ultima dichiarazione, senza dire chi la dice, ma solo chi la riceve, ovvero il chiarissimo prof. Provenzano Carmelo. Con ogni probabilità si tratta del golden boy avvocatino Walter Virga. Dio… Satana, siamo agli estremi. Un potere illimitato dato dalla tremenda legge sulle misure di prevenzione, con la quale puoi sequestrare tutto a chi vuoi e affidarlo a chi vuoi, e un Rasputin siciliano, se vogliamo un cardinale Richelieu, il “consigliori”, la mente che indirizzava i vari movimenti del circuito della procura di Palermo, e che gestiva e gestisce il tutto come una sorta di burattinaio… Satana o poco sotto di lui, un ruolo che a suo tempo, nel suo delirio di potenza, si era attribuito Totò Riina. Lo strumento di Riina era l’omicidio, quello di Cappellano e della Saguto era lo spolpamento delle aziende, sino al fallimento. Elemento in comune era ed è invece il parassitismo, ovvero la volontà di assorbire voracemente i frutti del lavoro degli altri, senza rendersi conto che proprio la persistenza del lavoro può consentire la sopravvivenza della propria condizione. E adesso che il giocattolino è rotto Lorenzo Caramma si sente “umiliato” per avere fatto davanti a tutta Italia il ruolo del pupo, sistemato a Roma o a Palermo per qualche incarico, dietro spinta della moglie dea. Cappellano è invece “addolorato” perché la cosa non doveva venir fuori e la sanno tutti, mentre a Zà Silvana è ancora depressa e non va a lavorare, anche perché non gli conviene, dal momento che il ministro ha chiesto di sospenderla dall’incarico e dallo stipendio: qualche giornale parla addirittura di ricchezze portate all’estero, ma senza alcuna prova. Il problema della sopravvivenza economica del giudice è serio. E speriamo che non si arrivi davvero alla disperazione, come essa stessa ha detto qualche giorno fa, perché tutti ci farebbero sentire come i responsabili morali di quello che sta succedendo dopo la “rottura” del cerchio magico. Il Consiglio Superiore della Magistratura, come abbiamo già detto, vuole il suo tempo: bisogna attentamente conoscere, considerare, valutare chi possa esserci in mezzo, che cosa si rischia se la Saguto parla, ascoltare, ingenerare nel proprio cervello una linea di giudizio e di lettura prima di arrivare, tra qualche anno, alla conclusione. E il prefetto Cannizzo? Per sua fortuna è una di quelle che parla poco. E il colonnello della Guardia di Finanza Nasca? Che cosa significava quella frase “è questione di ore” nei confronti di Telejato? Qualcosa è venuta fuori. Quando è stato introdotto il digitale terrestre sembrava che per Telejato fosse la fine: la legge prevedeva la creazione di gruppi, consorzi, nuclei di televisioni che avrebbero dovuto costituire il bouquet, cioè arrivare a un punteggio, stabilito su capitale sociale, attrezzature, personale delle varie televisioni. Telejato non aveva neanche un punto, quindi nessuno l’avrebbe richiesto. Sul tavolo dell’allora ministro Passera arrivarono 70 mila email a chiedere che Telejato fosse salvata e allora il ministro con una sua telefonata chiese a Tele-med, cioè la televisione dei fratelli Rappa, di metter dentro Telejato, che comunque rimase dentro solo con un piede, mentre l’altro era legato ad altro circuito internazionale. Nasca, dopo avere gonfiato il sequestro dei Rappa e averlo fatto affidare al giovane Virga, pensava di intervenire nei confronti di costui per chiudere Telemed e quindi Telejato. È triste constatare che un uomo al servizio dello Stato falsi i conti di quello che è stato deciso di porre sotto sequestro e si presti alle manovre sotterranee del giudice che ne ispirava le mosse. Le false attestazioni nell’esercizio delle proprie funzioni, sono cose contro cui la Finanza dovrebbe procedere, non invece atti che essa stessa porta avanti. Se Nasca rimarrà al suo posto, se qualcuno avrà il coraggio di inquisirlo, se i vertici (ma quali?) della stessa Guardia di Finanza, per tutelare l’immagine e la serietà non decideranno di adottare qualche decisione. Alla fine c’è una domanda inquietante: quanti altri ci sono dentro? Verranno tutti fuori o rimarranno a lavorare nell’ombra per rafforzare la ragnatela che hanno costruito attorno alla Sicilia?

Caramma, la revoca e l'equivoco. "Che fa, ti stanno arrestando", scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Le microspie svelano i retroscena della rinuncia all'incarico del marito di Silvana Saguto nella cava Buttitta, gestita da Gaetano Cappellano Seminara. Lorenzo Caramma si sentiva “umiliato”. Gaetano Cappellano Seminara, invece, era “addolorato”. Era stato caratterizzato dalle polemiche il passo indietro di Caramma, ingegnere e marito di Silvana Saguto, costretto a rinunciare all'incarico di coadiutore tecnico in una cava gestita dal principe degli amministratori giudiziari. Stando alle intercettazioni delle conversazioni della stessa Saguto si erano mossi il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli, e del Tribunale, Salvatore Di Vitale, per arrivare alla revoca dell'incarico di Caramma nella cava Buttitta di Trabia. “Diremo, per non dire che si dimette, - spiegava la Saguto - che cessa l'incarico, nel senso che non serve più la sua figura professionale”. Il fatto che Caramma non sarebbe più andato al lavoro ero stato comunicato in azienda con una email circolare. Pure questa finita agli atti dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta coordinata dall'aggiunto Lia Sava. “Lorenzo ha avuto telefonate di tutti i tipi”, diceva nel luglio scorso l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. “Cappellano - annotano i finanzieri - ribatteva che non era nei suoi pensieri e che per questo ha buttato fuori la persona che ha scritto l'email”. L'amministratore era addirittura pronto a fare un passo indietro, a lasciare le misure di prevenzione. Si era stancato “perché questa cosa è iniziata male ed è finita peggio”. Poco dopo l'avvocato chiamava Lorenzo Caramma: “... siccome ho sentito tua moglie e mi ha detto, ah, ma so che hai dato comunicazione, quindi io mi sono, dissi ma comunicazione in che senso, hai mandato la mail, io non le ho detto niente ma ti sto chiamando perché ho chiesto a questo cretino di chiedere scusa”. Caramma non l'aveva presa bene, perché “ho dovuto spegnere il telefono, perché mi sono arrivate cinquanta telefonate, ma che fa ti hanno denunciato, ti stanno arrestando, che cosa hai combinato”. Si era dovuto sorbire pure “le risatine dietro le telefonate”.

L'incarico e la paura della Saguto: "È un ragazzetto, non so come farà", scrive ancora Riccardo Lo Verso il 27 ottobre 2015. Lo scorso luglio la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sequestrò un patrimonio sterminato agli imprenditori Virga di Marineo. La nomina ad amministratore faceva gola a molti. La scelta preoccupava lo stesso magistrato travolto dallo scandalo. Si indaga anche sugli incarichi di Walter Virga in altri settori. "Gli daranno un incarico di quelli giganteschi", diceva un commercialista all'avvocato Walter Virga. Era il 2 luglio scorso. La voce correva nei corridoi del Tribunale di Palermo ed era arrivata alle orecchie di molti. Anche del commercialista. Un patrimonio sterminato sarebbe finito sotto la scure della sezione Misure di prevenzione e comprendeva "di tutto e di più, dalle case di cura, alle immobiliari alle cave". Il 6 luglio successivo agli imprenditori Virga di Marineo furono sequestrati beni per un miliardo e 600 milioni, tra cui 33 imprese di calcestruzzo, 700 tra case, ville e immobili, 80 rapporti bancari, 40 assicurativi e oltre 40 mezzi. Il collegio delle misure di prevenzione, presieduto da Silvana Saguto, scelse come amministratore giudiziario il commercialista Giuseppe Rizzo. Virga era rammaricato. Riteneva che un suo collaboratore, Alessio Cordova, fosse pronto per l'incarico: "... senti, ma secondo te questa qua non è andata, non tanto a me, ad Alessio, alla luce delle pressioni di quello la", oppure poteva essere una conseguenza "di quello che è successo". Lo sponsor di Rizzo, secondo i finanzieri, sarebbe stato l'ufficiale della Dia, Rosolino Nasca, mentre Virga non escludeva che la mancata scelta di Cordova fosse dovuta allo scontro aperto con la Saguto dopo che il giovane amministratore aveva allontanato dal suo studio Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli del magistrato. Il 17 luglio era la stessa Saguto a mostrarsi timorosa per la nomina di Rizzo. Aveva scelto "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò". La scelta sarebbe ricaduta su Carmelo Provenzano perché "è un docente e non può dire niente nessuno". Le cose sarebbero andate in maniera diversa. Oggi Provenzano, professore alla Kore di Enna, è finito sotto inchiesta. Sarebbe stato l'organizzatore di quella che gli stessi indagati definiscono la "laurea farsa" di Emanuele Caramma, altro figlio della Saguto. Il 17 luglio i rapporti fra l'allora presidente delle Misure di prevenzione e Walter Virga erano ormai ai ferri corti. Virga non si rammaricava più per l'incarico sfuggito al suo collaboratore Cordova, piuttosto voleva fare un passo indietro. Fabio Licata, altro giudice delle Misure di prevenzione indagato, riferiva le parole pronunciate da Tommaso Virga, presidente di una sezione del Tribunale e padre del giovane amministratore giudiziario: "Io ci ho pensato, dice, mi dovete liberare Walter". Il figlio si sentiva sotto pressione, voleva rinunciare alle amministrazione di Rappa e Bagagli. La stessa Saguto era incredula: "Non lo capisco cioè Walter non lavorerà più col Tribunale. Cioè non si prende più curatele, non fa più l'avvocato? Perché lui qua è, fatti suoi sono... se può campare senza lavorare al Tribunale di Palermo, fatti suoi, perché come è questa sezione, così è un'altra, non è che Tommaso (Virga, ndr) è in questa sezione". Il riferimento era ad altri incarichi ricevuti dal giovane in altri settori dell'amministrazione della giustizia. Da qui i controlli della finanza alle sezioni delle Esecuzioni immobiliari e alla Fallimentare. Alla fine Virga avrebbe davvero rinunciato agli incarichi, ma solo quando l'inchiesta della procura di Caltanissetta era già avviata e lo scandalo esploso nelle stanze del palazzo di giustizia palermitano.

"Vulnus all'immagine della giurisdizione", "condotte gravemente scorrette plurime e continuate nel tempo", "commercializzazione della qualità di magistrato": sono durissimi i giudizi che il procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo ha formulato sulle condotte dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, indagata a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio, scrive "Live Sicilia" il 28 ottobre 2015. Ieri il pg e il ministro hanno chiesto alla sezione disciplinare del Csm di sospendere, in via cautelare il magistrato, da funzioni e stipendio. Una decisione che il pg motiva in una richiesta di sette pagine dai toni molto pesanti. Le condotte illecite del magistrato "emergono con grado di sufficiente certezza, particolare gravità per le modalità in cui sono state poste in essere, per gli ingenti interessi economici sottostanti e per il notevole risalto mediatico conseguente", scrive il pg che sottolinea "l'allarme tra colleghi e operatori del diritto e lo sconcerto dei cittadini dinnanzi alla commercializzazione della qualità di magistrato e alla gestione disinvolta dei patrimonio dei beni di provenienza mafiosa". Comportamenti di tale gravità "da minare la credibilità indispensabile per svolgere con necessario prestigio le funzioni giurisdizionali". "I cittadini - conclude la richiesta - non possono essere giudicati da un magistrato venuto meno ai fondamentali doveri di correttezza e imparzialità".

LE OMBRE DEL CASO SAGUTO: “CHE FINE HANNO FATTO LIBERA, ADDIOPIZZO E TUTTI QUELLI CHE PER MOLTO MENO SCENDONO IN PIAZZA?”

"Lo smarrimento dei siciliani nella lettera di un avvocato che il palazzo di giustizia lo conosce bene: fanno più clamore i 20 mila euro di spese di Marino, tutte da dimostrare, che una gestione così sfrontatamente arrogante del potere. L’allarme dimenticato dell’ex prefetto Caruso. Alcune volte i magistrati dimostrano di non avere quella dignità e quella sensibilità che a parti opposte pretendono dai politici che solo perché raggiunti da un avviso di garanzia si autosospendono ovvero si dimettono dalla carica o dall'incarico ricevuto. Evidentemente l'ambizione, la vanità, l'arroganza e l'interesse privato a mantenere uno status symbol porta qualcuno a dimenticare che prima di tutto il "Magistrato" con la M maiuscola deve essere un fedele servitore dello Stato che non esercita il potere in quanto tale, anche a proprio beneficio e proprio vantaggio, ma esercita una professione che prima di tutto deve essere intesa quale servizio reso al cittadino e alla collettività. Il vantaggio economico, l'alleanza con i poteri forti dello Stato, le cene e i pranzi fini a se stessi per rinsaldare le alleanze e incrementare il proprio potere, il peculato, l'interesse privato, l'abuso di potere, l'induzione alla concussione, sono tutte fattispecie che confondono i cittadini e le persone oneste che si ritrovano smarriti, disorientati e increduli nell'apprendere giornalmente fatti che investono chi apparentemente sembra avere svolto un ruolo pubblico da vero paladino della legalità e della lotta alla mafia, quotidianamente impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata. Scoprono, invece, che nel privato agisce da persona modesta, piena di difetti, che compie soprusi a danno di lavoratori alle proprie dipendenze che non possono opporsi alle ingiuste e insensate richieste del "capo", che chiede favori a chi ha fatto favori, raccomandazioni, trova lavoro a chi è raccomandato e dispensa incarichi a chi ne è meritevole non solo per personali capacità professionali dimostrate sul campo, ma a chi potrà essergli utile secondo fini di personali interessi utilitaristici. In questo mare di grande confusione e smarrimento, viene da chiedersi dove sono finite le associazioni come Libera, AddioPizzo, Fondazione Giuseppe Fava, Fondazione Progetto Legalità e tutte le altre che per molto meno sono prontissime a scendere in piazza per organizzare fiaccolate e cortei a sostegno di questo o quel personaggio che credono sia minacciato dal potere occulto della mafia, ma non assumono alcuna posizione rilevante dinnanzi a una così triste vicenda. Forse in Italia, curiosamente oggi, fa più clamore l'ingiusta accusa rivolta al primo cittadino di Roma capitale di avere "dilapidato" in diciassette mesi l'iperbolica somma di € 20.000 per pranzi, cene e spese personali, sempre che venga dimostrata la fondatezza dell'accusa, fino a pretenderne le dimissioni immediate, piuttosto che ribellarsi a una gestione così sfrontatamente arrogante del potere, manifestato ufficialmente dagli organi istituzionali nei confronti di quella parte delle ricchezze sottratte alla criminalità organizzata e sottoposta al controllo dello Stato. Uno Stato che ha voluto presto dimenticare il grido di dolore e di allarme sociale lanciato nelle sedi istituzionali competenti dall'ex Prefetto Caruso, circa diciassette mesi fa". Matteo Raimondi Avvocato a Palermo.

L’attacco a Cantone tra i magistrati divisi sul governo. Quegli applausi delle toghe a chi ancora critica il “collega” prestato all’Anticorruzione, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” il 25 ottobre 2015. L’affondo del segretario dell’Associazione magistrati, Maurizio Carbone, arriva quando parla della «degenerazione del correntismo», tra favoritismi nelle carriere dei giudici e spartizione delle poltrone. Ovviamente lui è contrario, però mette in guardia dal pericolo opposto: «l’individualismo che svilisce la funzione del nostro ruolo e del Csm, aumentando i condizionamenti esterni ancora più pericolosi di quelli interni». Sarebbe come liberarsi delle correnti per mettersi nelle mani dei partiti, che immaginano strani progetti di riforma dell’autogoverno. «Non è casuale - aggiunge - che oggi le maggiori critiche verso le correnti e il Consiglio superiore provengano da ambienti politici o da parte di chi ha intrapreso altri percorsi professionali che lo portano lontano dalla giurisdizione!». In molti capiscono che il riferimento è al collega Raffaele Cantone, e in molti applaudono; la polemica di fine estate del magistrato prestato all’Anticorruzione, contro le correnti e il Csm, ha lasciato il segno. Non solo ai vertici dell’Anm. E una certa insofferenza che si registra nei corridoi del congresso verso l’uomo scelto da Renzi come simbolo della lotta governativa al malaffare, è pure un portato dell’insofferenza verso i modi considerati poco rispettosi del presidente del Consiglio; come se si manifestasse per interposta persona. Da parte di molti, non di tutti. Perché divisioni e differenze emergono anche all’interno della magistratura, del suo sindacato e dell’organo di autogoverno, sul tema del rapporto con la politica. Luca Palamara, già presidente dell’Anm e oggi rappresentante al Csm per la corrente centrista di Unicost lo dice chiaro: «Non si possono affrontare tutte le fasi allo stesso modo, non tutti i governi solo uguali; non possiamo non prendere atto, ad esempio, dei passi avanti fatti nell’ultimo anni in materia di lotta alla corruzione». Sembra una presa di distanza dal suo successore alla guida del sindacato, Rodolfo Sabelli (compagno di corrente) e alla polemica innescata dalla frase «si pensa più alle intercettazione che alla lotta alla mafia». Un’analisi che, spiega Palamara, «non mi trova d’accordo; anche perché dobbiamo fare attenzione al pericolo dell’isolamento rispetto alla politica». Come dire che, finito l’anti-berlusconismo che accomunava magistrati e Pd, ora si rischia di restare soli, e subire le iniziative della politica senza riuscire a contare. In tempi di renzismo, sembra che tra i magistrati - come in Parlamento - il premier conquisti più consensi al centro che a sinistra. E così la corrente di Unicost, al Csm, si trova spesso al fianco dei «laici» di centrosinistra; anche per contrastare l’anomala convergenza che, da ultimo, s’è registrata su alcune nomine tra la sinistra giudiziaria di Area e il blocco (sempre compatto) che lega Magistratura indipendente e i «laici» di centro-destra. Adesso però c’è la «questione morale» esplosa con il «caso Palermo» (dove la maggior parte dei giudici coinvolti nelle indagini per corruzione aderisce a Mi) che potrebbe aiutare a scompaginare le alleanze. Non a caso Palamara batte sul tasto: «Serve una risposta forte e immediata». Ma prima di lui è stato proprio Carbone, di Area, a brandire l’argomento. Anche in risposta al ministro dell’Interno Alfano, che aveva invitato l’Anm a guardare al proprio interno prima di criticare il governo: «Si impone sempre maggiore attenzione e rigore per le condotte che ledono gravemente l’etica del magistrato, con l’esigenza di combattere ogni opacità». Applausi.

Beni confiscati, scontro Alfano-magistrati sul caso Palermo, scrive “la Repubblica” il 24 ottobre 2015. Il Csm: "Strumenti inadeguati per intervenire". Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini parla del caso Palermo al congresso Anm di Bari: "Occorrono nuove leggi e regolamenti, basta polemiche distruttive". "Credo che ci voglia coraggio e una certa faccia per attaccare questo governo. Invece dell'autocritica, per quanto successo a Palermo, arrivano gli attacchi. E' un modo ottimo per sviare l'attenzione ma nessuno si illuda che non ce ne siamo accorti". Il ministro degli Interni, Angelino Alfano risponde a muso duro alle critiche dell'Associazione nazionale magistrati e tira in ballo lo scandalo scoppiato alle Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Per Alfano, ci vuole coraggio a rivolgere critiche al Governo "nel momento in cui questo Governo ha fatto leggi importati, in cui il contrasto a Cosa Nostra va bene e nel momento in cui - ha detto - credo che tutta l'opinione pubblica nazionale si aspetti una profonda autocritica e parole molto forti per spiegare da parte della magistratura quello che è successo a Palermo". A Palermo, ha detto Alfano a margine di una convention di Ncd a Limatola (Benevento), "è successo un qualcosa che manda un messaggio devastante all'opinione pubblica che pensa che se così vengono gestiti i beni confiscati da coloro i quali devono contrastare la criminalità organizzata c'è qualcosa di molto grave che non quadra". Anche al Csm il "caso Saguto" continua a tenere banco. "A fronte di fatti gravissimi come quelli che vanno emergendo a Palermo nell'affidamento degli incarichi di amministrazione e gestione dei beni confiscati, conosciuti i quali il Consiglio si è attivato con rapidità e decisione, si manifesta per intero l'inadeguatezza di questo strumento di intervento del governo autonomo su talune patologie che si manifestano nell'esercizio della giurisdizione". Così nella sua relazione il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. "La portata applicativa dell'articolo 2 della legge sulle guarentigie e il relativo procedimento improntato ad un pur doveroso garantismo - ha detto - hanno vieppiù svuotato l'istituto. In talune circostanze, tale procedimento risulterebbe prezioso ed anzi essenziale proprio per garantire serenità negli uffici giudiziari ed autorevolezza della giurisdizione. Ribadisco - ha continuato - che occorre un intervento urgente sulla materia, sia per via legislativa che regolamentare; e ciò - ha concluso - ancorchè non mi sfugga la ristrettezza degli spazi riservati alla normazione secondaria". Anche il segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, ha parlato a Bari del caso Palermo, nel quale potrebbero essere coinvolti alcuni consiglieri del Csm: "Recenti vicende giudiziarie ripropongono drammaticamente l'attualità della questione morale e l'esigenza, mai trascurata, di combattere ogni opacità. Occorre in questi casi fermezza e rapidità - ribadisce - è l'unico modo per tutelare la dignità e la serenità di tutti i colleghi che lavorano quotidianamente negli uffici, soprattutto nelle zone di frontiera. E' l'unico modo per ricordare e onorare la memoria di chi ha pagato con la vita il proprio impegno nella lotta al crimine organizzato". "Bisogna distinguere tra la dinamica di un confronto, anche critico, e le polemiche distruttive a cui ci sottraiamo". Così il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, a margine del congresso delle toghe, replica alle dichiarazioni del ministro dell'Interno Angelino Alfano. "Spiace che si pensi che la magistratura voglia con le polemiche sottrarsi a un intervento sul caso Palermo. Non è assolutamente vero che con le polemiche ci si voglia sottrarre alla riflessione", aggiunge Sabelli. Sul "caso Palermo", sottolinea ancora il leader del sindacato delle toghe "il 23 settembre la sezione Anm Palermo ha diffuso un comunicato. Io ho affrontato il tema nella relazione di ieri, oggi lo ha fatto il segretario Carbone. Per noi chiarezza e trasparenza sono fondamentali perchè è tutta lì la costruzione della fiducia tra istituzioni e magistratura". Con Sabelli, interviene Matteo Frasca, presidente dell'Anm Palermo: "qualunque opacità - rileva - porta a ledere l'immagine della magistratura. Se è stato fatto scempio delle regole da parte di qualcuno, gli organi competenti sapranno fare chiarezza. Singoli episodi non potranno mai sporcare la professionalità della magistratura palermitana". Il presidente Sabelli, infine, ricorda gli esempi di Falcone e Borsellino, dopo che ieri, in conclusione del suo discorso di apertura al congresso, aveva ricordato il giudice Livatino e tutti i magistrati uccisi.

La giustizia a due velocità, scrive “Trentarighe”. Non saranno i tecnicismi ad aiutarci a capire perché il giudice Silvana Saguto continua a fare il giudice nonostante la mole di accuse che la sommerge. Non sarà il senso di civile prudenza a scacciare il pensiero malevolo di una corsia preferenziale, anzi di una comoda area di sosta, approntata ad hoc per l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, oggi in Corte di assise. Il problema c’è ed è disorientante per un’opinione pubblica sensibile e drammaticamente sensibilizzata dal surrogato di informazione liquida dei social network che tutto avvolge e poco contiene (c’è pure un gruppo su Facebook che vuole la Saguto fuori dalla magistratura). Come viandanti in marcia su strade diverse che viaggiano però verso la stessa metà, i cittadini-spettatori di questa inchiesta si dividono per molteplici correnti di pensiero – garantisti, manettari, arrabbiati, attendisti, agnostici del diritto – ma inevitabilmente si ritrovano tutti davanti alla stessa domanda: allo stato delle cose è proprio necessario che quel giudice rimanga dov’è? La sensazione è che il sistema di cautele che un’inchiesta giudiziaria impone all’individuo non togato, sia talvolta diverso da quello che riguarda un magistrato. Insomma, in uno scenario dove da un lato c’era la Saguto con la sua cerchia di amici, parenti, accoliti e divoratori di ventresca aggratis, e dall’altro l’umanità residua, c’è sete di uguaglianza. Niente esecuzioni né verdetti affrettati, ci mancherebbe altro. Solo una consapevolezza: l’ingiustizia è la prima minaccia alla giustizia.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 22 ottobre 2015: Jurecrazia. Il Pdl, due anni fa, disse che il Senato non doveva votare la decadenza di Berlusconi e che si doveva investire la Consulta affinché decidesse se la Legge Severino era costituzionale; o ancora, come opzione, che si doveva lasciar fare alla Cassazione con una prevista sentenza sull'interdizione del Cavaliere. Al che il piddino Felice Casson - era il 12 novembre 2013 - rispose così: «Non si può far decidere i giudici e non la politica... la legge Severino l'abbiamo votata per ribaltare il ragionamento». Bene. Da allora, a cominciare dal caso De Magistris, la politica ha dovuto inginocchiarsi a: 1) i tre gradi del giudizio penale; 2) un ricorso al Tar; 3) una sentenza della Cassazione secondo la quale il Tar non doveva occuparsene, perché doveva occuparsene il tribunale civile; 4) una sentenza del tribunale civile (vari gradi) che ha revocato la sospensione del sindaco Luigi De Magistris decisa dalla Severino; 5) una sentenza della Corte Costituzionale che, l'altro giorno, ha stabilito che la Severino non è anticostituzionale. Questo solo per De Magistris. Nel caso di parlamentari, come Berlusconi, alla proliferazione di sentenze (corti, tribunali, procure e cassazioni) si aggiungerà la Corte di Strasburgo: perché sapete, ogni tanto l'opinione dei magistrati può essere utile. Contate voi i livelli di giudizio. Intanto la politica, che doveva «ribaltare il ragionamento», è ferma al palo, a guardare. È riuscita a ribaltare solo una cosa. Anzi, una persona. 

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Il disco rotto dell'Anm: "Politica ci delegittima". "Come Associazione magistrati, in questi anni ci siamo mantenuti fedeli alla missione indicata nei principi del nostro statuto: tutela dell'indipendenza, dell'autonomia, del prestigio e delle prerogative della magistratura e contributo di pensiero nella fase di elaborazione delle riforme legislative e nei progetti di innovazione. Lo abbiamo fatto con una passione pari al rispetto che proviamo per la nostra funzione anche quando essa ci ha indotto a rivolgere critiche forti ma sostenute da null'altro che dal desiderio di essere ascoltati, per sostenere una giustizia in grave affanno". Così il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nella sua relazione di apertura del XXXII Congresso dell'Anm, a Bari il 23 ottobre 2015. Secondo Sabelli "un maturo sistema penale dovrebbe mirare anzitutto a realizzare il principio della durata ragionevole del processo, a recuperare l'efficacia del dibattimento, a restituire alle impugnazioni la loro funzione esclusiva di approfondimento e di verifica e a rendere pienamente alla Cassazione il suo ruolo di giudice della legittimità e la sua preziosa funzione di nomofilachia. La via intrapresa, purtroppo, va in altra direzione". Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati sottolinea come debba essere "introdotto un meccanismo di decisione anticipata sulle questioni di nullità e di competenza, accompagnato da termini più rigorosi per la loro eccezione. La rinnovazione dell'istruttoria per il caso di diversità del giudice andrebbe disciplinata in forma più aderente alle necessità realmente imposte dal principio di oralità. Va prevista la domiciliazione necessaria dell'imputato presso il difensore di fiducia, per non vanificare i benefici della notifica telematica. Il ruolo della Cassazione andrebbe definito in misura più rigida, sull'esempio dell'esperienza europea. Sono solo alcuni esempi. I rapporti fra magistratura e politica, oggi sono restituiti a una dinamica meno accesa nella forma ma più complessa. Il principio di indipendenza e autonomia dei giudici che nessuno in astratto mette in discussione, costituisce uno dei cardini degli equilibri istituzionali, ma l’indipendenza non si alimenta di ossequio formale ma di una cultura fondata sul rispetto. Sono i temi sui quali oggi si sviluppano tensioni nuove o si riaccendono altre antiche e mai davvero sopite, che alimentano delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario. Sul tema della prescrizione - prosegue Sabelli - è deludente il disegno in esame al Senato, che si limita timidamente a prevedere un aumento dei termini per le fasi di Appello e Cassazione, senza affrontare l’esigenza di una riforma strutturale dell’istituto, che ponga rimedio ai guasti prodotti dalla legge del dicembre 2005 e accolga i richiami che da tempo giungono dall’Europa, fino alla recente sentenza della Corte dell’Unione sulle frodi Iva". Insomma, il solito disco rotto dell'Anm.

Anm-faccia di bronzo sul caso della Saguto, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”. Per una volta uno può essere d’accordo persino con Angelino Alfano quando, rivolgendosi ai magistrati dell’Associazione nazionale magistrati, riuniti fino a domenica scorsa a Bari per il loro conclave, gli ha ricordato che ci vuole una bella faccia tosta a prendersela con la politica, che a loro dire vorrebbe spuntare le armi ai pubblici ministeri per combattere la corruzione, quando poi sul caso dei beni sequestrati alla mafia e amministrati in maniera familistica dall’apposita sezione del Tribunale di Palermo hanno tenuto un atteggiamento a dir poco morbido con i protagonisti negativi della “storiaccia”. Tutti rigorosamente magistrati progressisti. E nessuno finito neanche agli arresti domiciliari, pur con la mole di indizi e prove che è piovuta loro addosso. Ci sono intercettazioni che evidentemente producono effetti meno devastanti nelle vite delle persone, se gli intercettati hanno la toga. Ad esempio quella dello scorso 10 luglio, in cui la dottoressa Silvana Saguto (solamente ieri è arrivata dal Csm la richiesta di sospensione dalla carica e dallo stipendio) sembrava nervosissima a chi ne ascoltava le conversazioni con le microspie piazzate nel suo ufficio. Con lei un ufficiale della Dia che le consigliava di non parlare al telefono. E che per ora nessuno ha neppure identificato. E pensare che, in altre conversazioni captate e diffuse qualche giorno fa da numerosi siti di giornali palermitani, usciva fuori un ritratto di una donna che spendeva decine di migliaia di euro al mese, arrivando ad indebitarsi persino con un supermercato sequestrato ad un imprenditore in odore di mafia per una cifra vicina ai 20mila euro. Le accuse per la donna? Concorso in corruzione, induzione alla concussione, autoriciclaggio e abuso d’ufficio. I fatti? Incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori, assunzioni, consulenze. Tutto questo forse darà luogo ad un trasferimento d’ufficio se, bontà sua, il Consiglio superiore della magistratura, si darà una mossa in tal senso. Di manette facili neanche a parlarne. E neppure di arresti domiciliari. Per un cittadino qualunque sarebbe stata questa la regola? Al marito della giudice era andato, per la cronaca, una specie di subappalto da parte dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quello che fino a pochi giorni orsono gestiva la maggior parte degli incarichi conferiti dalla sezione di cui la Saguto era il presidente. Persino il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, esternò a suo tempo contro di lui davanti alla Commissione antimafia presieduta dalla Bindi rivelando che per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il Cda percepiva 150mila euro l’anno”. Ma sino a un paio di settimane fa a Palermo di questo verminaio tutti sapevano e parlavano, ma nessuno interveniva a livello giudiziario. Tantomeno con arresti spettacolo. Secondo i Pm, Cappellano Seminara, mantenuto dalla Saguto nelle cariche in cui già si trovava ad amministrare i beni di mafia, avrebbe dato all’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulenze negli anni per 750mila euro. L’avvocato avrebbe fatto anche assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, albergo a quattro stelle in pieno centro storico, controllato, per gli inquirenti, dallo stesso Cappellano Seminara tramite la società L.G. Consulting srl, riferibile alla madre e alla figlia. A Palermo, nell’allegra gestione dei beni di mafia, più della metà degli undicimila “asset” immobiliari e mobiliari sequestrati in tutta Italia per un valore stimato intorno ai 35 miliardi di euro, sono coinvolti altri due giudici: i Pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte. Il primo è accusato di rivelazione di segreto per aver fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione. Per il secondo si parla di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. Il Csm era “curato”, secondo l’accusa, da Tommaso Virga, che in passato ne fu membro. Il quale a propria volta aveva un figlio, Walter, nominato in seguito ad amministrare i beni sequestrati agli imprenditori Rappa e Bagagli. Bene, in un altro Paese uno scandalo del genere sarebbe stato ben peggiore nei propri riflessi mediatici. Ben più della consueta corruzione da mazzetta ai vigili in cui si sostanziano la maggior parte delle inchieste di Roma e Milano. Che un assessore prenda una mazzetta in una burocrazia come quella italiana è, purtroppo, “nelle cose”. Ma che dei giudici con stipendi da 100 o 150mila euro l’anno nominino familiari, amici e parenti con compensi a sei zeri per parassitare, più che amministrare, i beni sequestrati alla mafia, anziché renderli disponibili alla collettività che dalla mafia viene quotidianamente danneggiata e oppressa, a chi scrive sembra cosa infinitamente più grave.

Delegittimare la Magistratura? Scrive Salvo Vitale su "Telejato".

QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.

Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede. Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica, è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire: a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.

Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell'anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un'Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l'effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l'aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l' azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l'affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell'esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell'elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è una autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.

E poi danno lezioni di legalità!

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

"Non lavoro più in nero per te" e Don Ciotti lo prende a ceffoni. Voleva un impiego regolare. Il prete lo prende a sberle e pedate, poi colto dal rimorso gli scrive e confessa di averlo picchiato. Leggi la lettera, scrive di Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è   stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa - caratteristica preziosa e rara da quelle parti - e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e - stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara - lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l'antimafia...».

 “L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…).

Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti.   

«L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!».

Va giù duro il presidente Antonio Giangrande.

«Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D'altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!»

Continua Antonio Giangrande.

«Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Le associazioni antiracket ed antiusura riconosciute dal Ministero dell’Interno sono pubblicate sul sito ministeriale.

Alcune non sono schierate, molte di loro, invece, fanno capo al FAI (Federazione Antiracket Antiusura Italiana) di Tano Grasso ed a LIBERA di Don Ciotti. Notoriamente, questi coordinamenti sono destinatari dei fondi statali e regionali.

Quei sette milioni che spaccano l'antiracket, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. L'ultima polemica nell'antimafia è scoppiata dopo la firma di quattro convenzioni, per quasi 7 milioni di euro, fra il ministero dell'Interno e le associazioni che fanno capo al leader storico del movimento antiracket, Tano Grasso. «Convenzioni basate su un finanziamento milionario», accusa Lino Busà, presidente nazionale di Sos Impresa, animatore di un'altra rete nazionale di associazioni antiracket, la Rete per la legalità: «D'ora in poi potremo dire che esiste un antiracket no profit e un'industria dell'antiracket», accusa Busà. «Stiamo valutando la legittimità di quelle convenzioni, che hanno assegnato finanziamenti davvero esorbitanti senza alcun bando pubblico», aggiunge il presidente di Sos Impresa. «Quei finanziamenti tolgono soprattutto autonomia alle associazioni», dice l'avvocato Fausto Amato, legale di parte civile in molti processi di mafia, impegnato anche lui nelle iniziative di Sos impresa e della Rete per la legalità. Una delle convenzioni riguarda anche l'attivissima associazione palermitana Addiopizzo: con la collaborazione della federazione di Tano Grasso si occuperà di promuovere la diffusione del "consumo critico antiracket", fra Palermo e Gela. Per questa iniziativa, che proseguirà per tre anni, il commissario antiracket del governo ha previsto un milione e 400 mila euro. Dice Tano Grasso, presidente onorario della Fai, federazione delle associazioni antiracket e antiusura: «È necessario dare una svolta all'impegno importantissimo delle associazioni sul territorio. E per farlo sono necessari strumenti. Per il resto, le associazioni continueranno ad operare in autonomia, senza alcuna soggezione nei confronti della politica, anche perché quei finanziamenti arrivano dall'Unione Europea, non dallo Stato. Cosa avremmo dovuto fare? Rinunciare a questa opportunità, che è anche un riconoscimento che l'Europa fa del lavoro svolto dalle associazioni sul territorio?». Grasso spiega che Fai e Addiopizzo avranno solo il compito di coordinare le iniziative: «Gli operatori degli sportelli sono stati selezioni attraverso rigide selezioni avvenute attraverso un bando pubblico», spiega. «Sono stati scelti professionisti che neanche conosco - dice ancora Tano Grasso - sono tutte persone che concretamente, e in modo professionale, potranno aiutare le vittime degli esattori». È ormai scontro fra le due anime del movimento antiracket: da una parte il Fai, dall'altra la Rete per la legalità. «Da due anni abbiamo fatto una scelta netta - dice Busà - vogliamo essere liberi dalla politica. Non riesco davvero a comprendere come si possa arrivare a finanziamenti così elevati: vengono dati 700 mila euro per realizzare uno sportello che noi offriamo da anni gratuitamente». La settimana prossima, il ministro dell'Interno firmerà un'altra convenzione, questa volta con il presidente Confindustria Emma Marcegaglia: il cuore di altre iniziative antiracket sarà la provincia di Caltanissetta. «L' antiracket non è solo Palermo o Napoli, dove tanti commercianti hanno scelto di denunciare», prosegue Tano Grasso: «In tante realtà, soprattutto in provincia, la situazione è ancora difficile, e non basta il volontariato delle associazioni, bisogna costruire progetti e sostenerli con adeguate professionalità, solo così potremo vincere davvero la lotta al pizzo». Busà ribatte: «Le associazioni antiracket devono nascere dal basso, dagli stessi commercianti. Non servono soldi, solo tanta buona volontà».

Il venticello della calunnia sfiora e avvelena il fronte dell'antiracket, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera” . Non perché i boss siano passati al contrattacco nell'era della ribellione di commercianti e imprenditori. Ma perché a temere una burocratizzazione delle strutture «anti» e, addirittura, a sospettare un giro di mazzette per pilotare i rimborsi del Fondo appositamente costituito è qualche «vittima» adesso lanciata contro i vertici delle associazioni. E un nome s'impone su tutti, quello di Tano Grasso, mitico condottiero dei commercianti di Capo d'Orlando ai tempi di Libero Grassi, presidente onorario della Fai, la federazione antiracket, casa a Napoli dove è consulente del sindaco per la stessa materia. «Spazzatura», dicono di ogni accusa i suoi amici, da don Luigi Ciotti a Pina Grassi, comprese le icone dell'antiracket in Calabria e Campania, Maria Teresa Monaco e Silvana Fucito. Come l'avvocato di Grasso, Fausto Amato, già alla settima querela. Mentre lui sale al Viminale temendo la «delegittimazione» e trovando solidarietà nel ministro Amato. Sembra riecheggiare la polemica sui professionisti dell'antimafia dopo le prime frecciate arrivate attraverso «L'Espresso» con la storia di Giuseppe Gulizia, il costruttore siciliano che ha denunciato il coordinatore Fai nell'isola Mario Caniglia, altro simbolo dell'antiracket. Un terremoto. Perché Gulizia sostiene di avere «ringraziato», dopo i primi rimborsi del Fondo, con bottiglie di champagne imbottite da mazzette da cento euro e di avere dovuto comprare olio a prezzo maggiorato. In totale, una tangente di circa 60 mila euro, il dieci per cento di una prima tranche da 600 mila euro incassata dallo stesso imprenditore con le pratiche antiracket. La vicenda è complessa. Di certezze nessuno ne ha. L'indagine appare difficilissima. E chi denuncia potrebbe passare per un calunniatore. Ma il sospetto soffia come una bufera. Anche contro Grasso che Gulizia giura di avere informato. Quanto basta per scatenare un fuoco di sbarramento a difesa, ma anche nuovi forti attacchi. Come quello di Sonia Alfano, quasi conterranea di Grasso visto che la mafia le ha ucciso il padre giornalista a Barcellona, vicino a Capo d'Orlando, adesso candidata per Grillo alla presidenza della Regione: «L'antiracket non può essere una sola persona. Si faccia da parte per un momento Grasso, se ci sono ombre. Come abbiamo chiesto tante volte a chi ha i riflettori della giustizia puntati addosso. E' il caso di Caniglia. Altrimenti si da la sensazione di una casta. Se si tocca uno di loro ci si scotta...». Non piace questa posizione a don Ciotti che invita piuttosto «ad accertare le responsabilità di chi sparge zizzania». Un po' come Pina Grassi, arrabbiata con i cronisti: «Le notizie vanno verificate prima di questi subdoli attacchi...». E Maria Teresa Morano, coordinatrice dell'antiracket in Calabria: «Noi, con Grasso, siamo quelli che da 15 anni accompagniamo le vittime in tribunale. Il resto lascia il tempo che trova». Severa Silvana Fucito, presidente dell'associazione San Giovanni a Teduccio, tre anni fa indicata da Time «personaggio dell'anno in Europa»: «Sono infuriata contro chi si erge a giudice additando le associazioni e Tano Grasso. Mi sento parte offesa in prima persona». Un fiume in piena e anche se Rita Borsellino non risparmia «solidarietà» a Grasso, la Fucito che sa di una frizione con Don Ciotti bacchetta pure su questo fronte: «La Borsellino ormai non riesce a guardare verso il basso, dove noi operiamo accanto a chi soffre e vive i problemi...». Altra frecciata interna ad un mondo sul quale non tollera «il rischio delegittimazione» lo stesso Grasso: «Per questo sono andato da Amato, pronto alle dimissioni. Ma io sono sciasciano puro. E, da professionista dell'antimafia, convinto che Sciascia avesse ragione, ho usato la sua lezione come antidoto. Ombre? Vedo solo quelle di chi vuole ridimensionare il ruolo dell'antiracket e normalizzare».

Esponente della Terra dei fuochi allontanato dall’aula del Suor Orsola. Angelo Ferrillo senza autorizzazione per entrare. «Toglietemi le mani di dosso», scrive “Il Corriere della Sera” il 20 novembre 2015. Durante l’apertura del nuovo anno accademico all’Università Suor Orsola Benincasa, in attesa dell’arrivo del Capo dello Stato Sergio Mattarella, il leader del movimento “Mai più la Terra dei fuochi” Angelo Ferrillo è stato allontanato dall’aula Magna dove si sta svolgendo la cerimonia. Gli uomini della polizia sono intervenuti in quanto Ferrillo non aveva espletato le procedure per accreditarsi ed essere autorizzato ad entrare. «Sono un cittadino, non ho fatto niente. Voglio stare qua, non sono un camorrista e dovete togliermi le mani di dosso. Come è possibile che nessuno mi venga a difendere? Mi state strappando tutti i vestiti. Basta, presidente. Mi trattate così perché sto facendo una battaglia per la terra dei fuochi», queste le urla di Ferrillo che ha opposto resistenza all’intervento delle forze dell’ordine.

Mattarella a Napoli: momenti di tensione, allontanato attivista della Terra dei fuochi, scrive “La Repubblica” del 20 novembre 2015. Dopo numerosi inviti a uscire da parte delle forze dell'ordine e dal questore, Angelo Ferrillo, attivista e fondatore del blog "laterradeifuochi.it", è stato trascinato all'esterno dell'aula magna del Suor Orsola Benincasa, poco prima dell'arrivo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l'inaugurazione dell'anno accademico. Ferrillo era seduto in sala pur non essendo accreditato. Mentre le forze dell'ordine tentavano di portarlo via l'attivista ha urlato: "Sono un cittadino. Ho diritto a stare qui. Al Presidente stanno dicendo bugie, non vogliono che sappia la verità sulla terra dei fuochi". 

Mattarella a Napoli, tensione al Suor Orsola. Disturbatore Ferrillo portato via dalla digos. L'uomo si sarebbe introdotto all'Università accreditandosi come studente, scrive il 20-11-2015 Salvatore Piro su “Lo Strillone” mettendolo in cattiva luce. “Lasciatemi mi fate male. Sono un cittadino, non un camorrista. A Mattarella dicono solo bugie sulla Terra dei Fuochi. Io voglio raccontargli la verità”. Così Angelo Ferrillo, da anni la voce contro i rifiuti tossici nelle province di Napoli e Caserta, portato via con la forza stamattina da quattro agenti della digos. Ferrillo ha provato oggi a disturbare la visita del Capo dello Stato. Visita in programma all’Università Suor Orsola Benincasa, in occasione dell’apertura del 114esimo anno accademico dell’Ateneo. L’attivista della Terra dei Fuochi, secondo le prime ricostruzioni in polizia, avrebbe evitato i controlli ai varchi d’ingresso della sede di Corso Vittorio Emanuele, accreditandosi come studente. In questo modo, sarebbe riuscito a non mostrare il suo documento di riconoscimento. In basso, il video integrale dell’intervento con la forza della digos in Aula Magna.

Ferrillo cacciato dalla sala in attesa di Mattarella, la replica: “Avevo l’accredito”, scrive il 20 Novembre 2015 “Il Meridiano News”. Il blogger è stato allontanato di forza dalla sala dell’Università Suor Orsola Benincasa prima dell’arrivo del Capo dello Stato. “Caro Presidente, su Terra dei Fuochi le hanno detto un mare di bugie”. Attimi di tensione stamani durante la cerimonia di apertura del nuovo anno accademico all’Università Suor Orsola Benincasa. L’attivista-blogger della Terra dei Fuochi Angelo Ferrillo è stato portato via di forza dal personale addetto alla sicurezza prima dell’arrivo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ferrillo è stato portato anche in Questura ed ora ha deciso di affidare la sua versione dei fatti ad un post pubblicato su facebook: “Sono entrato chiedendo permesso e mostrando i miei documenti, – afferma – non trovato l’accredito inviato all’ufficio del cerimoniale, allora chiedevo e mi hanno lasciato entrare sedendomi tra il pubblico in ultima fila con gli universitari. Quella dell’accredito è stato un pretesto perché forse qualcuno non vuole arrivino certe informazioni al Presidente Mattarella. Tant’è che anche il capo dell’ufficio stampa del Suor Orsola, il dottor Conte, aveva detto davanti a tutti che potevo restare. Non immaginavo che una pubblica Università sarebbe diventata un’accademia militare o un circolo privato. Ripeto, volevo solo assistere alla conferenza stampa e consegnare nelle mani del Presidente della Repubblica la nostra lettera che sin dal suo insediamento nessuno pare gli voglia consegnare! Caro Presidente, nonché Capo delle Procure di tutta Italia e presidente del CSM, su terra dei fuochi le hanno detto un mare di bugie. Attendo fiducioso – conclude il blogger – di essere ricevuto da Lei per comunicarLe importanti notizie di reato. Solo Lei può ascoltarci”.

Ferrillo cacciato dal Suor Orsola, cinque giorni di prognosi. Il blogger: “Trattato come un criminale”, scrive il 21 Novembre 2015 “Il Meridiano. Il portavoce de “La Terra dei Fuochi” ha riportato ecchimosi ed escoriazioni. In Questura è stato trattenuto cinque ore in stato di fermo. Non se l’è vista bene ieri Angelo Ferrillo, il portavoce dell’associazione “La Terra dei Fuochi”, cacciato con la forza dai poliziotti dall’aula magna del Suor Orsola Benincasa perché – secondo gli stessi – privo di accredito. Dopo essere stato vittima di quell’episodio, la cui notizia ha fatto subito il giro del web, Ferrillo è stato trattenuto in Questura, in stato di fermo, per cinque ore con i vestiti stracciati. Una volta rilasciato, si è recato in visita al Pronto Soccorso dell’ospedale dei Pellegrini. I medici gli hanno diagnosticato ecchimosi ed escoriazioni in varie parti del corpo, guaribili in 5 giorni. “Il nostro portavoce Angelo Ferrillo dopo i fatti di ieri – si legge sulla pagina ufficiale dell’associazione – accusa ancora forte dolore al collo e alla gola dovuto alla stretta procuratagli attorno alla testa con violenza. L’associazione pertanto chiede le scuse del Questore di ‎Napoli, il quale, come si vede anche nel video, ha condotto personalmente tale operazione, e si riserva di difendersi in ogni sede contro questo abuso e le lesioni cagionate al nostro portavoce”. Ancora oggi Ferrillo – contattato dalla nostra redazione – lamenta dolori alla gola, nausea e mal di testa. E’ tornato in ospedale per accertamenti. “Un trattamento che non si riserva manco ai criminali – ci ha scritto -. Mi hanno strangolato quasi affogandomi, con lesioni ed ecchimosi, e senza reagire solo perché mi hanno voluto tirare via”.

LUCA ABETE PORTA A “STRISCIA” IL CASO ANGELO FERRILLO. Scrive il 27 novembre 2015 “Isola Verde tv”. L’inviato di Striscia la Notizia nel servizio andato in onda ieri sera al tg satirico di Antonio Ricci ha mostrato i modi barbari utilizzati per allontanare Angelo Ferrillo (fondatore dell’associazione La TERRA dei FUOCHI) dalla sala dove era atteso il presidente Mattarella. La violenza con cui Ferrillo è stato trascinato di peso fuori dalla sala riempie di sconcerto e stupore. Le immagini andate in onda su Canale 5 mostrano come alcuni agenti in borghese prendano di peso, con la forza l’uomo per poi trascinarlo via dalla sala del Suor Orsola, tra le sue grida disperate. Luca Abete ha intervistato Ferrillo sulla questione per avere spiegazioni sull’accaduto. L’uomo, blogger e fondatore dell’associazione Terra dei Fuochi, ha affermato di essere entrato da comune cittadino, accreditato come portavoce della sua associazione, e di essere stato cacciato in quanto voleva dare al Capo dello Stato un invito sottoscritto dagli associati. Al termine dell’intervista Ferrillo si è commosso e Luca Abete ha rivolto un appello o a Mattarella perché prenda a cuore il dramma dei territori campani interessati dai roghi tossici. “Ognuno può pensarla come crede, ma in una terra dove non si contano i disastri ambientali, un rappresentante dei cittadini non andrebbe trattato come un CAMORRISTA.” ha scritto su facebook Abete.

È accaduto nella giornata di Mattarella a Napoli. Il presidente dell'associazione "La terra dei fuochi" a Luca Abete: "Sono stato letteralmente strozzato, strangolato, ho sentito un dolore cane", scrive Valeria Scotti il 27 Novembre 2015 su "Napoli Today". È approdato a Striscia la Notizia il caso di Angelo Ferrillo cacciato dall’aula magna del Suor Orsola Benincasa in occasione della visita del Capo dello Stato, Sergio Mattarella. A parlarne in un servizio è Luca Abete. Dopo aver riproposto il video delle polemiche -  il blogger de La Terra dei Fuochi viene strattonato e portato via dall'aula - il racconto del blogger notevolmente commosso. "Sono stato letteralmente strozzato, strangolato, ho sentito un dolore cane, si vede dale immagini. Ancora adesso ho dei dolori al collo. Dopo aver ascoltato in religioso silenzio la sua conferenza, volevo consegnare nelle mani dello staff del Presidente un documento in cui gli chiedevo un incontro per dirgli come stanno i fatti. La Terra dei fuochi brucia ancora ed una una vicenda su cui sono state raccontate molte bugie”. "Lotta contro la TERRA dei FUOCHI e lo trattano come un CRIMINALE. I modi utilizzati per allontanare Angelo Ferrillo (fondatore dell'associazione La TERRA dei FUOCHI) dalla sala dove era atteso il presidente MATTARELLA riempiono di sconcerto e stupore. Ognuno può pensarla come crede, ma in una terra dove non si contano i disastri ambientali, un rappresentante dei cittadini non andrebbe trattato come un CAMORRISTA. Ed ora... #‎presidenteTOCCAaLEI".

Terra dei Fuochi, è scontro tra i comitati. Sale la tensione in vista della nuova manifestazione del sedici novembre, scrive il 28 ottobre 2013 su “La Repubblica” Conchita Sannino. L’obiettivo è comune, ma il popolo che protesta e chiede giustizia, per la Campania inquinata, resta pericolosamente diviso. Con la temperatura dello scontro pronta a salire. Dopo la coda di polemiche con cui si è chiuso il corteo dei 50 mila promosso dal blogger Angelo Ferrillo e dagli attivisti de “La Terra dei fuochi” che sabato ha attraversato tutto il centro, si temono scintille e nuove tensioni per l’altro evento gemello in programma per sabato 16 novembre. È la manifestazione che si annuncia imponente e vedrà in prima fila il parroco Maurizio Patriciello, il medico Antonio Marfella e migliaia di famiglie colpite da lutti e malattie che vengono ricondotte, pur in assenza di una correlazione scientificamente condivisa, allo sversamento di rifiuti e veleni nelle terre del giuglianese e dell’agroaversano. Sabato scorso, proprio l’assenza del prete e dei tantissimi cittadini che si riconoscono nella sua battagliera leadership ha mostrato, platealmente, ciò che prima si poteva solo intuire: la Terra dei fuochi non è solo la drammatica fotografia di territori rimasti per anni sotto il dominio delle ecomafie e dei business criminali, non è solo bandiera di un riscatto civico per un’intera provincia che aveva finto di non vedere e non sapere, ma rischia di diventare anche “brand” di una lotta dagli istinti diversi. Da un lato, quelli che come Ferrillo pensano che «sia inutile chiedere ora le bonifiche se prima non si spengono i roghi» e denunciano «aspirazioni personali di pochi, nel business e nella vigilanza dei luoghi». Dall’altro, il coordinamento guidato da don Patriciello, a cui si accompagnano i comitati antidiscariche e del “No all’inceneritore di Giugliano”, che dialogano con istituzioni e politica, chiedono l’intervento del ministro Andrea Orlando, ritengono «necessario» un grande investimento sulle bonifiche «per salvare altre vite umane» e riconquistare «vivibilità per queste terre martoriate». Lo stesso Patriciello, nei giorni scorsi, ha dialogato con il Capo dello Stato, incontrato la commissione Ambiente del Senato, inviato accorati sos a Papa Francesco. Tanto da dire: «Da un momento all’altro, il Papa mi chiamerà sul cellulare. Sono convinto che, dopo aver visto una parte delle 150 mila cartoline che ritraggono le undici mamme con i loro piccoli uccisi dal cancro, Sua Santità si farà vivo». Resta il dubbio: cosa resterà dell’escalation mediatica, della collezione di testimonial? Cosa cambierà davvero, nel quotidiano, per famiglie che si sentono, a ragione o a torto, esposti all’“avvelenamento”? Rintracciato, don Patriciello non può rispondere perché «impegnato a ritirare il premio Moscati a Carinola», nel casertano. Ma dopo, per ore, fino a tarda sera, il suo cellulare squilla invano. Posizioni ormai inconciliabili. L’altro giorno, durante il corteo, numerose scintille. Prima le tensioni con esponenti di CasaPound, allontanati poco dopo. Poi le contestazioni contro Ferrillo, che ha guidato il corteo via microfono, dall’inizio alla fine, fino a quando non sono scattate le proteste. Un gruppo di partecipanti issa lo striscione: “No all’inceneritore”, chiede di esprimersi. Ferrillo li “richiama”, ricordando che «non devono esserci protagonismi e striscioni», quelli reagiscono con urla, insulti, accuse contro il “monopolizzatore” Ferrillo, mentre quest’ultimo chiede ordine e arriva a dire “Chiamate la Digos”. Ieri su Facebook lo stesso Ferrillo definisce «camorristi» gli atteggiamenti di alcuni partecipanti. «Noi abbiamo ricevuto un attacco — scrive infatti — Questi sono atteggiamenti in stile camorristico organizzato». E poi: «Non ci faremo intimidire, né dai partiti né dai loro riferimenti associativi. Siamo solo all’inizio». Per oggi, alle 12, Ferrillo annuncia nuova conferenza (ma i giornalisti non erano il bersagliopreferito?) presso lo studio legale Bersani, al 60 di vico Tre Re a Toledo (accrediti: a staff@laterradeifuochi.it; oppure al 338/2601669). E ora il movimento promette di tornare a marciare anche il 16 novembre: vicini, nonostante le divisioni. Impazza ovviamente il flusso del web, reazioni di pancia comprese. Pochi, ma accorati, gli appelli al buon senso: «Dividetevi tra voi in privato, ma cerchiamo di essere compatti per le nostre terre e il futuro dei nostri figli». 

La terra dei fuochi è mia, la versione di Ferrillo, scrive Adriana Costanzo il 25 ottobre 2013. A cura di Vincenzo Strino su “Rete News”. L’ennesima guerra tra poveri. Ulteriore dimostrazione che non sono solo i partiti politici a dividersi. Ma anche li compulsa ogni giorno richiamandoli al loro dovere. In queste ore infatti si sta consumando lo strappo definitivo tra i sostenitori di don Maurizio Patriciello e del medico Antonio Marfella, e tra quelli di Angelo Ferrillo, deus ex machina del comitato della Terra dei Fuochi. La diatriba è nata a causa della manifestazione indetta da Ferrillo per domani pomeriggio a Napoli alla quale sia don Patriciello che Marfella non parteciperanno perché, come loro stessi hanno dichiarato, avevano già dato la loro adesione ad una manifestazione a Macerata Campana. Da qui la reazione di Ferrillo pubblicata sul suo profilo Facebook: “E’ proprio vero le delusioni non finiscono mai. Si parla di unione e poi si dice, o questa o quella…Andiamo avanti!”. Ma i sostenitori del duo Patriciello-Marfella non ci stanno e giudicano la manifestazione di domani soltanto una contro-manifestazione rispetto a quella contro il biocidio in programma per il 16 novembre, creata quindi solo per semplice personalismo di Ferrillo. Come se non bastasse, trattandosi di una polemica in cui il terreno dello scontro è il social network per eccellenza, la guerra si è estesa persino agli hastag di twitter: #fiumeinpiena quello della manifestazione di novembre e #ondainarrestabile quello comparso da pochi giorni sui link della manifestazione di domani, con Ferrillo accusato di aver “pezzottato” l’hastag del 16 novembre. Ecco la rettifica inviata da Ferrillo: “Si fa riferimento a informazioni inventate di sana pianta in base a un discorso non ascoltato ma preso dal web da interviste altrui e smentite dallo stesso autore del pezzo al quale il vostro cronista dice di aver fatto riferimento”.

Vertice in prefettura Don Patriciello attacca Ferrillo, si legge sul canale youtube di Angelo Ferrillo in allegato ad un video pubblicato il 24 luglio 2014. Don Maurizio Patriciello ancora una volta parlava per mezze frasi dicendo "finti attivisti e finti scienziati", così al mio invito a fare i nomi è venuto fuori il vero don Patriciello. Se queste sono le parole di un uomo di Chiesa intenzionato a unire giudicate voi. Quello che ha detto nei nostri confronti è vergognoso. Ora, si assuma le responsabilità. Intanto attendiamo pazienti le sue pubbliche scuse. Reduci dall'ennesimo vertice in Prefettura, questa volta a un anno dall'entrata in vigore del cosiddetto "patto per la terra dei fuochi", pur riscontrando l'impegno del delegato del Ministero dell'Interno, Donato Cafagna, rilevando una serie di criticità da lui stesso confermate, lo abbiamo invitato a portare sul tavolo del Governo le sue dimissioni qualora non ci fossero le condizioni ulteriori per continuare a svolgere in modo incisivo e decisivo il suo compito. A quasi due anni dal suo mandato i dati forniti sono parziali e i #roghitossici non sono affatto diminuiti, anzi! Inoltre, (come vedete dal video) denunciamo che nel suo intervento di apertura don Maurizio Patriciello anziché prendersela -esclusivamente- con chi detiene ruoli e obblighi istituzionali, lancia accuse diffamanti verso di noi e di quanti assieme a noi stanno facendo emergere la farsa che si protrae ai danni di tutti. 

Patriciello shock sui falsi attivisti e Ferrillo: "Si vendono per un piatto di lenticchie". Scontro in prefettura, spunta un «fuori onda». A Roma i ministri annunciano: pronti con visite gratis, scrive "Il CorrieredelMezzogiorno" il 28 luglio 2014. Impazza sul web lo scontro polemico che c’è stato quattro giorni fa in Prefettura, al tavolo sull’emergenza ambientale, tra il parroco di Caivano, don Maurizio Patriciello, ed il responsabile della pagina web LaTerradeiFuochi.it Angelo Ferrillo. Il secondo ha interrotto don Patriciello mentre, riferendosi allo scontro scientifico sul tema, sempre caldissimo, della correlazione tra le malattie oncologiche ed i rifiuti tossico-nocivi smaltiti o bruciati illegalmente in Campania, il sacerdote accusava genericamente fila «negazioniste» di presunti esperti - o che includono personaggi in passato al vertice di autorità preposte alla tutela dell’ambiente e della salute, anche nel doppio ruolo di controllori e controllati - responsabili, secondo Patriciello, del confondere ancora le acque davanti ad un’emergenza per la salute gravissima. A quel punto Ferrillo ha detto al parroco: «Faccia i nomi». Quindi Patriciello non si è risparmiato nel criticare Ferrillo e suoi intimi: «Vi vendete per un piatto di lenticchie».

TERRA DEI FUOCHI IL PARROCO DI CAIVANO POLEMIZZA CON IL COORDINATORE DEL SITO SUI ROGHI. Terra dei Fuochi: divampa l’incendio tra Don Patriciello e Ferrillo, scrive il 26 Luglio 2014 Martina Brusco su “L’Espresso”. Decisamente incandescente il tavolo tecnico tenutosi l'altro ieri in Prefettura. Convocato e coordinato dal Prefetto Donato Cafagna, commissario contro i roghi tossici in Campania, incaricato dal Ministero degli Interni, ha visto la partecipazione di rappresentanti della Regione Campania, delle Forze dell'Ordine, Legambiente, comitati e associazioni impegnate nella tutela dell'ambiente. Tra i presenti Don Patriciello, il parroco di Caivano divenuto icona della battaglia per il risanamento della Terra dei Fuochi, Angelo Ferrillo, attivista e creatore di un seguitissimo blog che da anni denuncia i numerosi roghi tossici nell'area e il Dott. Antonio Marfella, oncologo presso l'Istituto Nazionale Tumori "Pascale" di Napoli e membro dell'IISDE Medici per l'Ambiente. Sin dai primi interventi la tensione è alta e non solo nei confronti delle istituzioni presenti. L'intervento di Don Patriciello, denuncia la staticità della situazione, l'inefficienza delle strutture ospedaliere, una sanità sempre più privata che pubblica e il deludente servizio svolto dall'esercito nell'ambito dei provvedimenti stabiliti dalla legge Terra dei Fuochi. Il controllo del territorio promesso dal Governo, che avrebbe dovuto mettere in campo per due anni 850 militari - denuncia don Patriciello - al momento ha fornito solo un centinaio di unità, insufficienti per presidiare un'area così vasta e che quindi non si sono quasi mai visti nelle zone a rischio. Ma la verità scomoda quanto innegabile, che Don Patriciello urla a gran voce, è l'impossibilità di risolvere la questione attraverso una semplice raccolta differenziata. Il problema non sta nella "monnezza della nonna", ma in qualcosa di ben più serio, ovvero un sistema di illegalità. Le accuse di ipocrisia, che il parroco scaglia contro chiunque affermi il contrario o ometta tale punto, sono sferzanti e colpiscono soprattutto Ferrillo: "Sei tu, Ferrillo, che insieme ai tuoi amici stai rendendo un pessimo servizio perché ti avranno offerto un piatto di lenticchie". Divampa immediatamente un'aspra polemica tra le parti, polemica che ha radici ben più profonde frutto di divisioni in merito alle proposte. Ferrillo, infatti accusa le Istituzioni di interventi parziali e insufficienti e propone, essenzialmente, una maggiore sensibilizzazione ad opera dei media, l'ottimizzazione degli interventi delle forze dell'ordine che, a suo parere, svolgono un ruolo esclusivamente di repressione, ma ancora troppo poco di prevenzione e l'istituzione di "sentinelle ambientali" al fine di favorire una partecipazione più attiva dei cittadini e rendere gli interventi delle Forze dell'Ordine più diretti. Piuttosto eloquente l'implicito invito, rivolto al Prefetto Cafagna, di rassegnare le dimissioni qualora i ministeri preposti non fossero in grado di fornirgli mezzi adeguati. Ad avere un ulteriore ruolo nell'accesa discussione, è il Dott. Antonio Marfella. L'oncologo, da sempre in prima linea soprattutto in merito alle inefficienze scientifico-sanitarie, ha contestato duramente l'operato del Ministero della Salute e dell'Assessorato regionale della Sanità, in particolare contro coloro che, possedendo conoscenze adeguate, dovrebbero impegnarsi maggiormente nella risoluzione della problematica. Denuncia inoltre la mancanza di impianti per lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri radioattivi e le difficoltà nella realizzazione dei Registri Tumori, ottenuti dopo anni di opposizioni politiche e lungaggini burocratiche dalla Regione Campania. Nonostante numerosi attacchi incrociati appare evidente come gli interventi convergano su diversi punti: l'inutilità degli interventi repressivi condotti da Forze dell'ordine ed Esercito come stabilito della legge sulla Terra dei Fuochi, la denuncia di un servizio sanitario sempre più attento alle esigenze del privato, destinando quindi pochi fondi al pubblico che risulta inefficace nell'affrontare una tale emergenza e l'assenza delle Istituzioni, assenza confermata, tra l'altro, dalla scarsissima partecipazione delle stesse alla discussione svoltasi al tavolo tecnico. Ma tra i punti deboli di tale questione non è forse opportuno annoverare anche l'inconcludenza delle parti in causa che, sebbene attive ed impegnate sul territorio, hanno speso gran parte del tempo nello scagliarsi l'una contro l'altra piuttosto che fare fronte comune con lo scopo di porre fine alla vergognosa catastrofe che è la Terra dei Fuochi? Del resto, l'obiettivo è comune, eppure sembrano infinite le futili polemiche che sottraggono tempo ed energia alla ricerca di soluzioni efficienti. E intanto, mentre le Istituzioni si nascondono, la sanità e le industrie badano al proprio tornaconto, la malavita organizzata continua nella sua opera di distruzione del territorio, nella 'Terra dei Fuochi' l'incidenza dei tumori continua ad aumentare e la gente continua a morire.

Perché questo astio nei confronti di Ferrillo? Forse perché non è omologato e genuflesso al potere istituzionale come le altre associazioni e comitati antimafia? Forse perché ha il coraggio di denunciare le omissioni dei Vigili del Fuoco, delle Forze dell’Ordine e della Magistratura, cosa che altri non fanno? Conosciamo meglio il pensiero di Angelo Ferrillo attraverso la lettura dei suoi post della sua pagina facebook. “Ogni volta che un magistrato dà spiegazioni sulla ‪#‎terradeifuochi, è evidente che in questo Paese non cambierà mai niente. Scuse. Solo e sempre giustificazioni. "Non ci sono le leggi". "Non possiamo fare più di tanto". "Non dipende da noi". Insomma, in questa dannata Italia, pare che le responsabilità non siano mai di nessuno... Nel frattempo anche oggi il nostro avvelenamento da ‪#‎roghitossici continua indisturbato. Questi signori o non hanno compreso la gravità dei fatti o fanno finta di non capire. Quanto ancora durerà questa Farsa (?)”

La Terra dei fuochi è fuori controllo? Secondo la Prefettura i roghi illegali di rifiuti sono in calo, ma le foto dei residenti mostrano ancora decine di incendi al mese, scrive Gianluca Dotti, Giornalista scientifico, su “Wired” l'1 settembre 2014. L’associazione La Terra dei fuochi, presieduta da Angelo Ferrillo, ha dichiarato che le forze dell’ordine e le istituzioni non sono in grado di controllare il territorio tra le province di Napoli e Caserta. La Terra dei fuochi sarebbe ancora tempestata ogni mese da centinaia di incendi illegali di rifiuti speciali, come confermato delle foto di roghi scattate durante il mese di agosto e dalle decine di segnalazioni dei residenti sia sul portale laterradeifuochi.it che sulla sua pagina Facebook. Le denunce dell’associazione sono in contrasto con i dati recentemente diffusi dalla Prefettura, che invece testimoniavano una diminuzione degli incendi di rifiuti speciali a 8 mesi dal decreto, a quasi due anni dalla nomina del commissario e 4 mesi dopo che l’esercito ha inviato sul posto 100 militari. Secondo Ferrillo, invece, la situazione continua come prima, se non peggio: richieste di intervento alla Polizia non evase, Vigili del Fuoco in carenza di organico in particolare di notte, “assenza di intelligence” nelle operazioni di contrasto alla malavita. A questo poi, secondo Ferrillo, si aggiunge la disorganizzazione delle istituzioni a tutti i livelli, “dai magistrati ai prefetti fino agli amministratori locali e governativi”, definiti “come dilettanti allo sbaraglio”.

Ferrillo: Terra dei fuochi fuori dal controllo delle forze dell’ordine di Angelo Ferrillo Presidente Associazione "La terra dei fuochi” su “La Voce Sociale” del 30 agosto 2014. Il territorio della cosiddetta terra dei fuochi è completamente fuori il controllo delle forze dell’ordine e di ogni istituzione preposta. È sufficiente consultare il portale www.laterradeifuochi.it o la sua pagina facebook utilizzata dai residenti, per trovarsi di fronte a un quadro apocalittico. I territori a nord di Napoli e a sud di Caserta sono tempestati da centinaia di incendi illegali di rifiuti speciali al mese. Decine le segnalazioni e testimonianze dei residenti. Richieste di intervento alle forze di polizia non evase. Vigili del Fuoco in carenza di organico non sempre tempestivi nel rispondere alle centinaia di chiamate soprattutto notturne. Denunce fatte da anni e depositate nelle Procure che non intervengono a dovere su ogni livello di responsabilità. Assenza di Intelligence nelle operazioni di contrasto finora messe in campo. Insomma istituzioni come dilettanti allo sbaraglio. Dai magistrati ai prefetti fino agli amministratori locali (Regione e Comuni) e governativi. Questo il quadro drammatico della situazione a ben 8 mesi dal Decreto, e dopo che si sono spesi in prima persona ben 8 ministri della Repubblica degli ultimi 3 governi (Monti, Letta, Renzi) , 2 primi ministri (Letta e Renzi) e ultimo tra tutti, il Capo dello Stato Giorgio Napolitano. I ministri coinvolti in ordine sono stati Cancellieri, Clini e Balduzzi del Governo Monti, poi Lorenzin, De Girolamo, Orlando, Alfano del Governo Letta, e ancora Orlando, Galletti e Alfano sotto il Governo Renzi. Ricordiamo inoltre che sono passati quasi due anni dalla nomina di un commissario ad acta incaricato dal Ministero dell’Interno (vice prefetto Donato Cafagna) e 4 mesi dall’invio di 100 uomini dell’Esercito Italiano. Recentemente la Prefettura ha diffuso dati confortanti parlando di una diminuzione degli incendi di rifiuti speciali, ma essi non corrispondono assolutamente alla realtà. Malgrado tutto questo, l’avvelenamento da roghi di rifiuti speciali continua come se non peggio di prima.

CAMERA DEI DEPUTATI SENATO DELLA REPUBBLICA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLE ATTIVITÀ ILLECITE CONNESSE AL CICLO DEI RIFIUTI. RESOCONTO STENOGRAFICO MISSIONE GIOVEDÌ 16 LUGLIO 2009 PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GAETANO PECORELLA INDICE Audizione del dottor Angelo Ferrillo, responsabile regionale di «Terra dei fuochi», accompagnato dal dottor Gianluca Manco.

Pecorella Gaetano, Presidente …………………………………………………

D’Ambrosio Gerardo (PD) …………………………………………………….

De Angelis Candido (PdL) …………………………………………………….

Ferrillo Angelo, responsabile regionale di «Terra dei fuochi» ……………….

Izzo Cosimo (PdL) ………………………………………………………………

La seduta comincia alle 13.50.

PRESIDENTE. Signor Ferrillo, lei è responsabile regionale di «Terra dei fuochi» e mi pare che abbiate fatto oggetto di alcune riprese il fenomeno degli incendi notturni appiccati per eliminare immondizie e in particolare copertoni. Vorrei sapere innanzitutto se, in queste occasioni, ci siano stati interventi della forza pubblica, dell'autorità giudiziaria, per impedire di registrare, o se invece abbiate potuto registrare tranquillamente, in assenza di chicchessia.

ANGELO FERILLO, responsabile regionale di «Terra dei fuochi». Interventi ce ne sono stati, però non in misura sufficiente, rispetto alla mole di fenomeni criminali che si verificano sul territorio. Molte volte abbiamo registrato la carenza di risorse (uomini e mezzi) da parte dei vigili del fuoco e delle stesse forze dell'ordine, nella fattispecie la polizia e i carabinieri. Parlo della mia zona di residenza, la provincia di Napoli nord: Giugliano, Villaricca, Qualiano, in cui abbiamo due commissariati (carabinieri e polizia). Tra poco sarà inaugurato il terzo commissariato a Villaricca. Si parla di due sole pattuglie «volanti» per il turno notturno, una in forza ai carabinieri e l’altra in forza alla polizia. Allo stato dei fatti, le forze dell'ordine sono in grande difficoltà nell’intervenire, qualora i cittadini segnalino questo tipo di problematiche. Anche alcuni vigili del fuoco, tramite le testimonianze video che abbiamo registrato mantenendo la riservatezza della privacy, dichiaravano di non essere in numero sufficiente per sopperire alle esigenze dell'intero territorio.

PRESIDENTE. Vorrei sapere come fate a essere tempestivamente presenti dove si verificano questi incendi.

ANGELO FERILLO, responsabile regionale di «Terra dei fuochi». È presto detto: abbiamo stabilito una rete informatica su internet, tramite la quale i cittadini dislocati sul territorio, qualora si manifesti un fenomeno del genere, ci avvisano mediante e-mail, sms, telefonate o altri modi consueti. Ad esempio, c'è un amico che fa parte della nostra associazione, che abita in una zona panoramica, sui Camaldoli, e ha tutta la situazione sotto controllo. Non volendo, stiamo svolgendo un compito che spetterebbe alle istituzioni e in particolar modo alla Protezione civile. Abbiamo istituito un sito che è un punto di raccolta informazioni e, se vogliamo, è anche un'unità speciale di gestione di questa crisi e di questa emergenza. I roghi, talvolta, si verificano in vicinanza dei centri abitati, non solo nelle zone abbandonate di campagna o poco controllate. Si parla di Scampia, territorio cittadino del comune di Napoli, di Giugliano, località Ponte Riccio, dove, oltre alla zona ASI (Area sviluppo industriale), ci sono abitazioni, oppure di Casoria, altro sito interessato da questo fenomeno. Le persone, insomma, hanno il fumo in casa, quindi sono direttamente interessate. Non ci vuole un mezzo speciale per intervenire, o per sapere dell'evento. Avendo tempo a disposizione, avendo sposato questa causa, ci stiamo dedicando alla raccolta di prove di reato inconfutabili, dal momento che i fatti dimostrano continui fumi neri che si levano dal suolo e non sono imputabili a fabbriche o industrie (peraltro non sono presenti sul territorio), bensì a incendi indiscriminati, incontrollati e dolosi di rifiuti speciali, tossici e nocivi, ovvero tutti quei rifiuti che non rientrano nei rifiuti solidi urbani. Non si tratta di malcostume, o di un fenomeno culturale antropologico, come si potrebbe pensare. Queste componenti, magari, sono anche presenti nel fenomeno globale; tuttavia, questo fenomeno è imputabile prevalentemente a un’economia «in nero», che deve smaltire «in nero». Si tratta di un intero indotto economico, che va dal gommista (prima sono stati citati i copertoni) a chi ha un’impresa di termoidraulica e produce resti di lavorazione (tubi di rame ricoperti da guaine di coibentazione). Sapete benissimo che il rame è ritenuto «l’oro rosso», ha un costo e un mercato nero, ragion per cui questi materiali vengono riciclati in modo illegale, recuperando il rame e bruciando le guaine e le plastiche. Come abbiamo documentato, questa attività avviene un po' su tutto il territorio regionale: un rogo l'abbiamo individuato proprio ora sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, venendo qui. Sappiamo che sono roghi tossici, perché partono dal suolo e si trovano in aree delocalizzate. Non può essere, quindi, l’incendio di un capannone, ma potrebbe essere un incendio di altro tipo di materiale. Insomma, si tratta di roghi la cui unica ipotesi di reato è quella dell’incendio di rifiuti, per le aree in cui si trovano. Spesso, quando ne abbiamo avuto il tempo e le condizioni ce l’hanno permesso, siamo arrivati fin sul posto per riprendere quello che bruciava. Si evince dai video che si bruciano copertoni e carcasse di elettrodomestici. Molte volte le finalità degli incendi sono due: per smaltimento e per far perdere le tracce della provenienza del rifiuto. Ad esempio, se ho una fabbrica che produce «in nero» calzature e manifatture in genere di pellame o tessile, devo per forza smaltirne i residui «in nero». Se ci sono dei segni che possono permettere di risalire alla produzione, questi scompaiono con l'incenerimento che, però, lascia spazio ad altri scarichi e quant’altro. Il fenomeno, quindi, è molto complesso. In particolar modo, ci sentiamo di denunciare – fino ad ora non abbiamo sentito voci nella pubblica opinione di questa parte del reato – che purtroppo la maggioranza di questi fenomeni si verifica nei campi Rom localizzati sul territorio, o nei loro pressi. Comunque, si manifestano in tutte le zone degradate, o lontane dai centri abitati e poco controllate. Il fenomeno, però, ha una particolare gravità nei campi Rom, dove dal calar del sole, in tutti i periodi dell'anno, fino all'alba si producono incendi a ciclo continuo. È come una centrale che non si ferma mai.

PRESIDENTE. Ho capito. Vorrei sapere se, nel momento in cui ricevete una segnalazione, non la trasmettiate anche all’autorità di polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Certamente: è stata sporta una denuncia, in cui specifichiamo questi fatti. Al momento, chiamiamo sempre tutte le forze dell'ordine, telefonicamente.

PRESIDENTE. Le chiedo anche se queste forze dell’ordine intervengano sempre.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Molte volte non intervengono, perché i vigili del fuoco – sono due le caserme che competono la nostra zona, quella di Scampia e quella di Monte Ruscello – sono fuori per altri tipi di intervento.

PRESIDENTE. Non ci ha detto niente riguardo a carabinieri e polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Carabinieri e polizia non intervengono quasi mai: ci dicono di chiamare i vigili del fuoco.

PRESIDENTE. Il problema non è di spegnere l'incendio, ma di individuare i responsabili.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Infatti abbiamo pronta una citazione per grave condotta omissiva anche nei confronti delle forze dell'ordine locali, perché, ogni volta che chiamiamo, riscontriamo questo scaricabarile tra la polizia, le forze dell'ordine e i vigili del fuoco. La prima telefonata che si fa è ai vigili del fuoco; poi, provvediamo a chiamare Polizia, Carabinieri e qualche volta anche il Corpo forestale dello Stato. Ebbene, ogni volta ci sentiamo rispondere che dobbiamo chiamare i vigili del fuoco, perché, se non li chiamiamo, loro non intervengono. Da parte nostra sottolineiamo che si tratta sempre degli stessi posti. Non stiamo parlando di luoghi diversi e bisognerebbe svolgere un'attività di controllo per prendere in flagranza di reato questi criminali, Il decreto n. 90 del 2008, istituito dall'attuale Governo, prevede l'arresto, in flagranza di reato. Puntualmente, però, ci troviamo di fronte a questo scaricabarile di responsabilità tra le forze dell'ordine e i vigili del fuoco. Molte volte, ci viene detto che non hanno pattuglie per intervenire. Questa è una situazione paradossale e drammatica. Voglio fare un richiamo alla denuncia che abbiamo sporto. In base ai fatti appena detti, si denunciano seri danni per la salute dei cittadini sottoposti a questi fumi nelle aree indicate, sulla base dei dati emersi dagli studi condotti dall'Istituto superiore di sanità e dall’OMS. Inoltre, sussiste una contaminazione di tutta la catena agroalimentare. Come ben sapete, il problema del latte alla diossina può essere facilmente ricondotto anche a questo tipo di fenomeni. Per di più, i danni sono anche biologici, esistenziali, morali, economici e all'immagine dell'intero territorio. Pertanto, in base alle normative vigenti, visti gli articoli di legge 32 della Costituzione, 40 del codice penale, 2043, 2050, 2051, 2053 e 2059 del codice civile, chiediamo l'adozione di provvedimenti urgenti e cautelari a carattere di straordinarietà e ai fini della salvaguardia della salute e della sicurezza pubblica. La mancata adozione di tali misure integrerà gli estremi dei già gravi reati omissivi a carico della pubblica amministrazione competente, in riferimento al codice penale. Riteniamo che uno dei tanti modi per risolvere la questione (che va al di là dell'emergenza, poiché questa è una questione che risale a vent'anni fa, come già testimoniano i rapporti di Legambiente, i rapporti ecomafia e le varie denunce dei cittadini), sarebbe quello dell’istituzione di un'unità di crisi per coordinare tutte le forze sul territorio (comuni, province, regioni) affinché si affronti il problema a 360 gradi. Partendo da queste economie, che producono i loro rifiuti «in nero», o dalle economie legali, che smaltiscono per abbattere i costi, bisogna cercare di risolvere il problema alla radice, così impedendo alla criminalità locale o extracomunitaria di fare da manovalanza per questo tipo di smaltimento. Le consegno un dossier, con allegata una breve descrizione dei fatti, assieme ad alcune copie per tutti i presenti.

PRESIDENTE. Vorrei sapere se abbiate presentato una denuncia alla procura della Repubblica, per omissione di atti d'ufficio, o se vi siate limitati a un atto politico.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Abbiamo presentato alla procura della Repubblica una denuncia a carico d’ignoti, per reati contro l'ambiente. In base ai documenti prodotti, il prossimo passo sarà….

GERARDO D’AMBROSIO. Mi scusi, vorrei chiedere se abbiate anche indicato, in questa denuncia, tutte le località, note e precise, in cui questi roghi di solito avvengono. Lei parlava prima, ad esempio, di campi Rom: vorrei sapere se ne abbiate indicato l’ubicazione.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Sì, queste località sono specificate e la ringrazio per la domanda, che mi offre la possibilità di precisarlo.

COSIMO IZZO. Quando provvedete a comunicare alle autorità di polizia dell’incendio in corso, vorrei sapere se lo facciate verbalmente, comunicando soltanto che c'è un incendio, o se invece indichiate qualcosa di più particolare in riferimento al sito ed eventualmente, atteso che vi rechiate anche sul posto, comunichiate anche quello che può essere un sospetto sul materiale che viene incendiato.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. La ringrazio per questa domanda, che trovo molto pertinente. Tengo a precisare che, ogni volta che intervengono i vigili del fuoco, viene redatto un verbale d'intervento, dal quale scaturisce una notificazione alla procura e alla prefettura di notizie di reato. I vigili del fuoco riscontrano il materiale che sta bruciando, per cui penso che il Comando generale provinciale dei vigili del fuoco abbia faldoni enormi, relativi a interventi di questo tipo. Questa è una delle tante cose che evinciamo con questa denuncia e ci chiediamo per quale ragione, se le istituzioni sanno, nessuno intervenga. Nell'ultimo anno, solo a Scampia, i vigili del fuoco hanno fatto circa 4.000 interventi, di cui l’80 per cento circa per spegnimento di incendi di rifiuti, con una percentuale di rifiuti speciali. I dati sono in possesso del comando provinciale dei vigili del fuoco. Inoltre, abbiamo fatto una segnalazione unica, mediante una petizione di 700 firme, denunciando questo tipo di reato a carico di ignoti, alla sede della procura della Repubblica di Napoli. Tuttavia, è impossibile da parte dei cittadini fare una dichiarazione scritta di quello che sta bruciando, anche perché non compete loro.

PRESIDENTE. Vogliamo capire se c'è un disinteresse da parte delle forze dell’ordine. Vogliamo sapere, ad esempio, se, quando telefonate, comunichiate specificamente che in una certa località si sta sviluppando un incendio con fumo, oppure se vi limitate a fare una comunicazione dopo l’intervento.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Il disinteresse lo possiamo riscontrare da parte dei vigili del fuoco, in alcuni casi. Non voglio giustificare i vigili del fuoco, ma sono costretti a intervenire nei campi Rom decine di volte al giorno, in particolar modo in quelli di Giugliano e di Scampia. Molte volte – è una testimonianza che ho raccolto con una telecamera che puntava a terra senza riprendere le persone e si sentono solo le voci – la centrale operativa a volte degrada la priorità di questi interventi, perché non possono stare sempre nel campo Rom: non appena si allontano, tornano a incendiare.

PRESIDENTE. Voi sapete che esiste un reparto speciale dei carabinieri, il NOE. Quando si sta verificando un incendio, voi venite avvertiti e, chi vi avverte, vi comunicherà il posto preciso. Ebbene, le chiedo se facciate la stessa cosa con i carabinieri e con la polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. È matematicamente impossibile farlo ogni volta. Chiamiamo i carabinieri, il 113 e il 115, però al numero del NOE non risponde mai nessuno. Aggiungo che, nel momento in cui facciamo la telefonata d’emergenza, al 113 e al 112, specifichiamo il posto dove si sta verificando l’incendio. Addirittura, facciamo di più: sul sito internet, che adesso è diventato un portale, abbiamo raccolto su una mappa digitale – usiamo una tecnologia GPS – ogni singolo luogo che è stato oggetto, fino a oggi, del nostro intervento. Sono stati censiti, quindi, oltre 400 siti da bonificare e da verificare, non presenti nei rapporti ufficiali – questo è specificato nel foglio che vi ho dato – con tanto di coordinate GPS. Abbiamo chiesto anche alla procura di ascoltarci, perché abbiamo del materiale utile per fare intervenire direttamente le forze dell'ordine, o i commissariati per la bonifica. Ripeto che si tratta di siti che non sono presenti nei rapporti ufficiali ARPAC e del Commissario per l’emergenza.

COSIMO IZZO. Al di là dei complimenti per questa attività che svolgete, alla luce di questo censimento che fate dei siti, vorrei che ci chiarisse se ci sono siti ricorrenti.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Sono sempre gli stessi.

COSIMO RIZZO. Le chiedo se, come associazione, non abbiate avuto l'idea di esporre alle autorità e alla magistratura questa ripetizione di incendi, che avvengono sempre nello stesso sito. Non ho capito se lo abbiate già fatto, o meno.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Nella denuncia di novembre 2008 è stato specificato tutto ciò.

CANDIDO DE ANGELIS. Nel materiale bruciato non ci sono solo copertoni. Le chiedo che cosa si bruci d’altro.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. I rifiuti speciali bruciati in questi incendi sono i più svariati possibili. I copertoni sono una parte del problema, perché, come si è accertato da parte di questa Commissione nella riunione che si è tenuta in prefettura in questi giorni…

CANDIDO DE ANGELIS. Mi scusi, la interrompo per chiederle se, secondo voi, si tratti di una questione di criminalità organizzata, oppure di rom. Lei ha fatto un presupposto preciso, poco fa.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Il fenomeno è complesso. Secondo noi dietro tutto ciò si cela un sistema: lo rivelano la sistematicità degli eventi, l’esistenza di un indotto economico, come testimoniano anche le operazioni della procura di Torino fatte un mese fa, che hanno smantellato una banda italo rumena che faceva traffico e ricettazione di rame per un valore di 8 milioni di euro all'anno, 22.000 euro al giorno. Non dimentichiamo che Torino è una città quattro volte più piccola di Napoli e provincia. Se solo volessimo citare il settore specifico del rame, qui in Campania, in particolare nella provincia di Napoli, immaginate di quali cifre stiamo parlando: cifre forse quattro volte superiori a quelle di Torino, quindi siamo nell’ordine dei 30 milioni di euro all'anno. A questo, poi, bisogna aggiungere il mercato degli altri metalli (acciaio e ferro) che vengono ricavati. Pensate che, nell'incendio dell’altra sera nel campo Rom di Giugliano, dove i vigili del fuoco sono intervenuti per merito nostro – i vigilantes all'esterno del campo non volevano farci passare, tanto che ho ricevuto anche intimidazioni verbali – abbiamo trovato che stavano bruciando (ho girato alcuni video) resti di climatizzatori, privati delle parti interne per bruciare le carcasse e per separare le materie plastiche dall’anima di metallo. Immaginate l’inquinamento che si sta producendo! Mentre siamo qui a preoccuparci di ben altri problemi, noi abbiamo definito questa come la vera emergenza della Campania.

PRESIDENTE. Grazie.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Signor presidente, le chiedo di farci sentire la vostra vicinanza, poiché abbiamo ricevuto minacce, non limitate alle sole intimidazioni verbali. Personalmente, ho subito un inseguimento e ho dovuto rottamare una macchina. Hanno cercato più volte di scoraggiarci in questo tipo di attività che svolgiamo. Vista l’attività condotta fino ad ora, senza mettersi contro le istituzioni e cercando sempre il dialogo e un modo civile di servire la cittadinanza, penso che sarebbe il minimo.

PRESIDENTE. Faremo veramente quello che è possibile fare, anche parlando di nuovo con il questore, che abbiamo sentito questa mattina.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Ringrazio la Commissione e buon lavoro.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa l’audizione La seduta termina alle 14.15

Mafia capitale, M5s: “Indagare sulle associazioni antimafia di Ostia”, scrive il 2 dicembre 2015 “Il Nuovo Corriere di Roma”. A due giorni dalla visita della Commissione parlamentare Antimafia ad Ostia, l’unico Municipio di Roma sciolto per le infiltrazioni della criminalità organizzata, M5S ha chiesto «un’indagine approfondita su tutte le associazioni antimafia attive nel X Municipio – dicono fonti parlamentari del Movimento -, che si concilia con la volontà di far luce su ogni attore che opera sul territorio ostiense, visto l’alto grado di permeabilità criminale del territorio». Nella relazione su Ostia, firmata dai consiglieri M5S in Campidoglio – poi decaduti per la fine dell’amministrazione Marino – si fa riferimento «all’Associazione daSUD», al «Comitato Civico 2013», a «I cittadini contro le mafie e la corruzione», a Luna Nuova e a Libera di don Luigi Ciotti. La polemica tra associazioni antimafia a Ostia – un territorio di 300 mila abitanti in cui operano Camorra, Cosa Nostra e clan nomade Spada – e tra Pd e M5S è infuriata soprattutto negli ultimi mesi, specie dopo le dimissioni e il successivo arresto nell’inchiesta Mafia Capitale del presidente Pd del X Municipio Andrea Tassone. Il senatore dem Stefano Esposito, commissario del partito a Ostia e assessore ai Trasporti nell’ultima fase della Giunta Marino, ha più volte accusato i 5 Stelle di essere ambigui con personaggi criminali o chiacchierati di Ostia. «Alla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi del Pd» chiediamo di svolgere le opportune verifiche di indagine al fine di valutare in modo certo e inequivocabile la natura politica e legale di ognuna delle suddette associazioni – si legge nella relazione M5S -, ricorrendo ai poteri che l’ordinamento giuridico. «Il fenomeno dell’associazionismo – scrivono ancora i grillini – dev’essere considerato con molta attenzione in quanto, se da una parte può sicuramente rappresentare uno strumento fondamentale di azione civile per il contrasto e la lotta alla mafia, dall’altra si può rivelare uno strumento per la gestione di imponenti interessi economici dietro apparenti attività non lucrative, sociali o culturali che, come dimostrano le indagini riguardanti Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, possono essere spesso un facile strumento operativo in mano a gruppi criminali». «Dopo l’arresto dell’ex presidente di Ostia Andrea Tassone (PD) esistono attualmente, per la prima volta, tutte le condizioni per una rivoluzione innanzitutto culturale nel X Municipio – ancora dalla relazione -, che potrebbe raggiungere il fine di isolare i clan criminali e mafiosi, infondere coraggio ai commercianti onesti che si ribellano alle estorsioni del racket e rafforzare l’azione sociale di contrasto all’illegalità da parte della rete di associazioni del territorio». «Ad Ostia – scrivono i 5 Stelle – la mafia è un cancro da estirpare ed è possibile farlo». Inoltre nel testo si chiede che la Commissione Antimafia «sviluppi un’indagine approfondita e accurata sul grado di permeabilità criminale che interessi o possa interessare» sia «il Partito Democratico capitolino e nazionale», sia «Forza Italia» ed in particolare l’ex giunta Vizzani del X Municipio.

L’antimafia che indaga l’antimafia, scrive Giulio Cavalli il 2 dicembre 2015 su Left”. Il paradosso è che, come conferma il vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ormai si arrivi ad indagare se stessi: i parlamentari decidono di aprire una serie di audizioni per capire cosa sta succedendo nel movimento antimafia che negli ultimi anni vive un lento e inesorabile declino di credibilità che di sicuro non rende felice nessuno. Mafiosi a parte, ovviamente. E così mentre si cerca di capire come è potuto succedere che in Sicilia scoppi il bubbone della gestione dei beni confiscati (con la giudice Saguto, intercettata, in preda a deliri di onnipotenza, senza che nessuno se ne accorga). E proprio sui fatti siciliani e sul processo romano di “Mafia Capitale” ha acceso la luce l’addio a Libera di Franco La Torre, storico componente del movimento nonché figlio di quel Pio La Torre che ebbe l’intuizione di una legge (quella della confisca e riuso sociale dei beni mafiosi) che gli costò la vita. E La Torre, senza mezzi termini e con molta lucidità, ha parlato di «inadeguatezza della classe dirigente» riferendosi a Libera in tutte le sue ramificazioni. Perché se l’antimafia è un cosa seria allora è utile che il movimento sia plurale, con una classe dirigente all’altezza e al passo con i tempi e soprattutto trasparenza. Il magistrato calabrese Nicola Gratteri (uno che l’antimafia la vive al fronte tutti i giorni, mica nei palazzi) ha dato una soluzione che se a prima vista può sembrare banale in realtà sarebbe sicuramente chiarificatrice: togliete i soldi all’antimafia, quei soldi dateli alle scuole e sarà facile capire chi c’è per passione e chi per mestiere. E sarebbe un’ottima idea. Già.

ALTRA TEGOLA SULL'ANTIMAFIA! Scrive il 02/12/2015 Telesud3. A sbattere la porta dell'associazione guidata da don Ciotti è stato il figlio di Pio La Torre, ex segretario regionale del PCI assassinato dalla mafia; entrato in rotta di collisione con il leader torinese, Franco La Torre diventa l'ennesima tegola che si abbatte sull'Annus horribilis dell'Antimafia political correct. Nella seconda edizione del nostro Tg, La Torre ha spiegato a Telesud i motivi della sua decisione di lasciare Libera. A pochi giorni dalle parole del presidente del Senato Pietro Grasso, un’altra tegola si abbatte sull'Antimafia "praticante": Franco La Torre lascia polemicamente Libera. Già l'ex Procuratore Nazionale Antimafia era andato giù duro rivolgendo parole di fuoco al fronte della lotta alla criminalità organizzata invitandola "a guardare al proprio interno ed a abbandonare sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, corsa al finanziamento pubblico e privato". E l'uno-due è arrivato ieri dal figlio dell'ex segretario regionale del PCI, trucidato da Cosa Nostra nel 82. La Torre mette nero su bianco il suo sconforto, sottolineando "l'inadeguatezza della classe dirigente di Libera" rea di ostacolare quel confronto che servirebbe alla sua crescita, rifugiandosi spesso "in un silenzio assordante" mentre "è crescente l'eco dell'Antimafia di convenienza schermo d'interessi indicibili". Parole durissime che si sommano nell'Annus horribilis delle star della lotta alla mafia caduti in disgrazia; dall'inchiesta sul leader di Confindustria Montante al presidente della Camera di Commercio Roberto Helg, tratto in arresto mentre intascava una mazzetta. Ma soprattutto, lo scandalo del Giudice per le Misure di prevenzione di Palermo Saguto, caduta nelle polveri per una indagine che definire imbarazzante è poco; tanto da far decidere al CSM la sua sospensione dalla professione. Ora, l'uno-due di Grasso e La Torre; soggetti che conoscono bene quel mondo, motivo per cui risultano ancora più inquietanti le loro parole. Da registrare che don Ciotti si è detto addolorato per le critiche dell'ex responsabile di Libera Europa, difendendo però la sua creatura "con le unghie e con i denti" ribadendone "l'integrità e correttezza" nel proprio operato; il fondatore di Libera in verità aveva anticipato la "cacciata" di La Torre, con uno stringatissimo sms, dopo che il figlio dell'ex segretario comunista aveva criticato l'associazione all'assemblea generale tenuta ad Assisi lo scorso 7 novembre, in un intervento dal palco dove anticipava le frasi poi ribadite in questi giorni alla stampa.

“SONO STATO CACCIATO NEMMENO CON UNA TELEFONATA MA CON UN SMS DI DON LUIGI CIOTTI. PERBACCO, HO 60 ANNI E PENSO DI MERITARE RISPETTO E BUONA EDUCAZIONE”. La voce di Franco La Torre è pacata, il fraseggio elegante e misurato. Eppure non si capacita della rottura clamorosa con il fondatore di Libera, che l’ha allontanato dall’associazione e persino dalla cura del premio dedicato al padre Pio La Torre, il politico Pci ucciso nel 1982 a Palermo dalla mafia. Una vicenda che scuote il mondo dell’antimafia perché Franco La Torre è uno dei nomi più altisonanti nella battaglia alla criminalità organizzata: “Don Ciotti è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario, questa cacciata ha il sapore della rabbia di un padre contro il figlio ma io un padre ce l’ho e me lo tengo stretto”, dice al telefono con l’HuffPost. Tutto è cominciato con un intervento all’assemblea generale di Libera il 7 novembre ad Assisi. Dal palco, apertamente, La Torre aveva sollevato questioni imbarazzanti come la mancata comprensione di Mafia Capitale o le problematiche di Palermo, dove in pochi mesi un simbolo dell’antimafia come il presidente di Confindustria Sicilia è stato arrestato per rapporti con Cosa Nostra mentre la giudice Silvana Saguto è indagata per la gestione dei beni confiscati ed è stata intercettata mentre sproloquia contro la famiglia Borsellino. E Libera non si era accorta di nulla, o almeno questa è la lettura di La Torre. Dopo qualche giorno un secco messaggio di don Ciotti: “Si è rotto il rapporto di fiducia”. Poi il nulla. La Torre è categorico: “Una modalità impropria e irrispettosa: di quale fiducia parliamo se si può neutralizzare con un messaggio di 140 caratteri?”.

Cacciato da Libera. Ha capito il motivo?

Provo un grande dolore per questa vicenda. Poiché non sono ancora riuscito a parlare direttamente con don Luigi, posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all’assemblea di Libera. Ma ho 60 anni e pretendo un minimo di educazione. Se don Luigi non la pensa come me, allora dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia. E invece nonostante i miei numerosi tentativi per il momento ho saputo che don Ciotti non desidera parlare con me, o forse lo farà prossimamente. Chissà.

Perché ha mosso critiche a Libera? Cosa non va nell’associazione?

Libera è cresciuta in maniera straordinaria grazie a don Luigi e alle migliaia di attivisti che lavorano volontariamente a livello locale. Ma anche la mafia è cambiata negli ultimi anni. Le classi dominanti che noi chiamiamo mafia hanno assunto caratteristiche differenti e basti guardare all’inchiesta Mafia Capitale. Ecco, all’interno di Libera eravamo molto concentrati su Ostia, dove avevamo fatto un ottimo lavoro, ma abbiamo perso la visuale d’insieme che invece è stata compresa perfettamente dal procuratore Pignatone. Purtroppo avevamo sottovalutato il fenomeno così come abbiamo sottovalutato i casi della giudice Segato a Palermo. Da quel palco ad Assisi ho detto che dovevamo alzare l’asticella.

Ha accusato Libera di mancanza di democrazia interna. Questa caratteristica è legata alla mancata comprensione della nuova mafia?

La crescita vertiginosa di Libera non ha permesso il rafforzamento, la formazione e la selezione di una classe dirigente. Non vedo i criteri di alcune nomine dall’alto, poiché penso che una persona debba essere testata sul campo prima di affidarle un compito dirigenziale. Allo stesso tempo se in pochi mesi cinque figure di primo piano si allontanano allora significa che occorre rivedere gli schemi. A don Ciotti forse non è piaciuto che lo dicessi così apertamente: gli riconosco grandi capacità e un enorme carisma ma è un personaggio paternalistico con tratti autoritari.

Libera non è più all’altezza del suo compito?

L’associazione ha dei meriti enormi, a partire dalla lotta per i beni confiscati. Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Don Luigi proprio a causa di queste inefficienze è costretto a occuparsi in prima persona di assemblee provinciali e regionali e troppi in Libera sono ancora convinti che “tanto c’è don Luigi”. Ma fino a quando porterà la croce? Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità.

Si è dimesso anche dal premio intitolato a suo padre, Pio La Torre. Lo lascerà in mano a Libera?

Il premio Pio La Torre è libero e indipendente ma per comprendere cosa succederà dovrebbe chiederlo ai referenti di Libera.

Se don Ciotti dovesse tornare sulla propria decisione?

Ho raccontato la mia verità e probabilmente devo fare anch’io autocritica. Sulla vicenda della mafia ad Ostia non sono stato presente e avrei dovuto dare una mano. Io mi auguro di parlare presto con don Luigi, queste sono le mie idee e se non siamo d’accordo possiamo anche dividerci ma non capisco perché la discordanza di vedute debba portare a un litigio che ricorda le rabbie famigliari e non certo un’associazione matura come dovrebbe essere questa. Credo che l’antimafia debba compiere un salto ulteriore per continuare a svolgere il suo compito importante. E’ una grande opportunità, spero che a Libera sappiano coglierla. Articolo di Laura Eduati su "L'huffingtonpost" dell'1 dicembre 2015.

Estremisti dell'antimafia riflettete sul caso Libera. La lite Ciotti-La Torre manda in crisi un mondo che crede di avere la verità in tasca, scrive Peppino Caldarola il 02 Dicembre 2015 su “Lettera 43”. La rottura al vertice di Libera racconta molte cose sui cambiamenti nell’Italia di ieri. Scrivo l’Italia di ieri perché fino a poco tempo fa alcuni nomi, alcune associazioni, alcune situazioni apparivano inattaccabili e ogni critica veniva presa come lesa maestà o, peggio, collusione con il nemico. Libera si è spaccata perché Franco La Torre, figlio di Pio, è stato estromesso con un sms di don Luigi Ciotti dal vertice dell’associazione dopo un suo duro intervento nell’ultima assise. Don Ciotti è un prete benemerito a cui dobbiamo tanta parte della crescita civile del Paese. Instancabilmente ha girato l’Italia per sollecitare prese di posizione singole e associate contro il crimine, ha segnato con la sua presenza stagioni intere dell’Antimafia, ha salvato ragazzi dalle droghe. Una bella storia, una bella biografia. Franco La Torre è un uomo mite e colto. A differenza del suo papà, di cui mi onoro di essere stato amico e che mi chiese di collaborare con lui quando diventò responsabile del Mezzogiorno del Pci, Franco non ama le grandi platee. Era un conduttore molto bravo di Italiaradio, l'emittente del Pci di cui fu la “voce” con un altro personaggio ora scomparso di grande valore, Romeo Ripanti, poi scelse l’associazionismo. Insomma, stiamo parlando di due persone di qualità, diversissime che hanno per anni collaborato e che ora si lasciano bruscamente e con un filo di rancore. Non so se riusciranno a ricomporre il rapporto, sappiamo che un vero terremoto sta scuotendo il mondo che ha segnato la cultura di sinistra in Italia negli ultimi trenta anni. È caduto il mito della magistratura integerrima e infallibile. Si sono moltiplicati i casi, l’ultimo a Palermo, di magistrati infedeli, troppi pm hanno scelto la strada della politica rivelando la propria modesta statura (basta pensare alle ultime dichiarazioni di Ingroia contro il Pd legato a gruppi criminali), i magistrati litigano fra di loro come comari inselvatichite, persino Travaglio comincia a nutrire qualche dubbio sul casino che lui e i suoi hanno combinato. Sul versante politico il movimento 5Stelle, la cui crescita è stata agevolata dagli errori della sinistra e dalla strada spianata del giustizialismo, mostra di non voler avere debito verso alcuno: hanno messo alla porta Di Pietro, ignorato Ingroia, attaccato don Ciotti su Ostia. C’è solo un piccolo drappello di politici e giornalisti ( e uso il termine “drappello” non a caso perché notoriamente indica un gruppo ristretto di uomini comandati da ufficiali di rango inferiore) che continua a muoversi sulla scena pubblica come se stessimo nel passato. La ricreazione, invece, è finita anche per loro. Vedete la fine dei talk serali interamente politici, inventati a sinistra e oggi dominati da centurioni della destra. Ciascuno è vittima delle proprie macchinazioni. Il tema di oggi è come salvare il meglio di quelle esperienze, come mettere in sicurezza quei settori della magistratura che hanno ben lavorato senza secondi fini spettacolari o politici, dare fiducia a quegli uomini e donne dell’associazionismo che hanno faticato per costruire una tela che ha aiutato l’Italia a salvarsi, quel mondo intellettuale, specie siciliano, ma non solo, che ha analizzato la mafia con gli strumenti scientifici (Fiandaca, Lupo, Sciarrone) e non con i teoremi di magistrati in vena di spettacolarizzazione. Forse bisognerebbe invitare questi mondi antimafia, e quelli pacifisti che gli sono stati a fianco, a fare un’analisi realistica sui limiti culturali della loro esperienza, sul prezzo pagato al protagonismo di leader e capipopolo, su una maggiore apertura verso chi non ha sposato le loro tesi estremiste. Insomma loro, come tutti sapevamo, non avevano la verità in tasca e spesso nelle loro fila qualcuno in tasca non aveva buone intenzioni, come teme Franco La Torre.

Maledizione Antimafia su Libera. Volano gli stracci tra i duri e puri, scrive Martedì 01 Dicembre 2015 Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Il network di associazioni fondato da don Ciotti, che negli anni ha visto accrescere il suo peso anche nel rapporto con la politica, non viene risparmiato dai veleni che hanno attraversato in questo anno il mondo dell'antimafia. E alla fine, proprio negli ultimi scampoli, l'anno maledetto dell'Antimafia non ne risparmiò nemmeno l'ultimo baluardo. Investendo persino Libera, l'ultimo moloch rimasto in piedi dell'antimafiosità organizzata, con una polemica interna innestata da Franco La Torre, figlio di Pio, che lascia la creatura di don Ciotti sbattendo la porta. Una baruffa che scuote il coordinamento di associazioni antimafia, fondato e presieduto del sacerdote torinese. La Torre, nell'articolo apparso oggi su Repubblica, parla di “autoritarismo” e “mancanza di democrazia”, sollevando dubbi sulla classe dirigente del movimento. Un network che in questi vent'anni ha visto crescere esponenzialmente le sue dimensioni e il suo peso. E ampliare sempre di più la sua influenza sulla politica. Libera è un coordinamento di associazioni antimafia, punto di riferimento per oltre 1.600 realtà nazionali e internazionali, impegnato su diversi fronti contro la criminalità organizzata. Un mondo articolato e variegato il cui cuore economico, ricostruiva in un dettagliato articolo su Livesicilia Claudio Reale qualche mese fa, è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. All'impegno sul fronte dei beni confiscati, la galassia di don Ciotti affianca altre attività di impegno sociale come i percorsi educativi in collaborazione con 4.500 scuole e numerose facoltà universitarie e il sostegno alle famiglie delle vittime delle mafie, che passa anche dalla mobilitazione annuale del 21 marzo, “Giornata della memoria e dell’impegno”. Affollatissima quella di quest'anno a Bologna, presenti tra gli altri la presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi e l'immancabile Giancarlo Caselli, che con don Ciotti da tempo forma un ideale tandem, germogliato in quel cattolicesimo torinese di sinistra (cattocomunista, direbbero i detrattori), dialogante con la tradizione azionista del capoluogo piemontese. Un ambiente culturale e politico rappresentato ai massimi livelli, non solo nell'associazionismo e nelle procure. Ma anche nella politica, dove la galassia di Libera si è fatta e si fa sentire eccome. Ad esempio spingendo anni fa, a suon di imponenti raccolte di firme, per l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati. Ma anche, negli ultimi anni, con una più diretta attività di lobby, entrando direttamente nelle Istituzioni con propri rappresentanti. Come già era avvenuto con Rita Borsellino, cofondatrice, vicepresidente e poi presidente onoraria dell'associazione. Alle ultime Politiche, i candidati vicini a don Ciotti furono ben quattro, tra Piemonte e Calabria, distribuiti tra Pd e Azione civile di Antonio Ingroia. Tra loro il piemontese Davide Mattiello, per anni dirigente di Libera, che in Parlamento è andato a fare anche il relatore della legge di riforma della gestione dei beni confiscati, tema quanto mai caro a Libera. Riverita dai politici di sinistra (che fanno a gara ad apparire pubblicamente a fianco al “don”), la creatura di don Ciotti negli ultimi tempi è stata presa di mira dal Movimento 5 Stelle per una vicenda che riguardava la gestione di lidi balneari a Ostia. Vicenda sulla quale Libera rispose punto per punto alle accuse grilline. Fu la rottura di quello che era sembrato un mezzo idillio con i pentastellati. Ora arriva il “caso” La Torre. Raccontato oggi da quello che in questi anni è stato uno dei giornali più attenti alle vicende della creature di don Ciotti, quella Repubblica diretta (ancora per un po') da un altro figlio della Torino crogiolo di ideologie in cui confluivano il Pci, la cultura azionista e pure un certo "intransigentismo" cattolico, cioè Ezio Mauro. A sua volta già direttore de La Stampa, quotidiano che negli anni della Primavera seguì da molto vicino le mosse di quell'antimafia politica che prendeva corpo in Sicilia e che per lessico antisistema e contenuti aveva quasi un filo rosso a collegare la Palermo di Padre Sorge, Padre Pintacuda e Leoluca Orlando alla Torino di Cesare Romiti. Proprio negli anni caldissimi della procura guidata da Giancarlo Caselli. Nell'anno in cui l'Antimafia s'è rotta, insomma, nessuno sembra immune dal terremoto. Azzoppata l'antimafia-lobby in giacca e cravatta degli imprenditori, "mascariata" persino quella togata dopo lo choc dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati, ha tenuto botta quella delle t-shirt, del clergyman e dei cappellini. Che pur restando lontana da scandali giudiziari, vede adesso irrompere l'ombra dello scontro e dei veleni. Scatenati, spiega La Torre a Riccardo Lo Verso, anche dal “caso Saguto”. Già quella Silvana Saguto che raccontò in un'intervista di avere ricevuto da Libera e Addiopizzo segnalazioni sugli amministratori da nominare. Circostanza questa smentita dagli interessati. Che pararono il colpo, così come era accaduto con la polemica dei 5 Stelle. Ma che stavolta si trovano a dover fare i conti con le accuse di chi ha vissuto sotto quel tetto per anni. È l'annus horribilis dell'Antimafia, in cui ogni giorno ha la sua pena. Proprio per tutti.

Clamoroso, Don Ciotti vuole abolire la parola “antimafia”: Libera in crisi, scrive “Sicilia Informazioni” il 2 dicembre 2015. “Antimafia è una parola che non bisognerebbe più usare, è stata svuotata di ogni significato”. Don Luigi Ciotti in una intervista a La Repubblica, ha lanciato la sua provocazione. La sua “creatura”, Libera, vive una stagione difficile. Crisi nera. Cinque dirigenti dimissionari e l’uscita di scena di Franco La Torre, figlio di Pio, che se ne va accusando Libera di non avere saputo prevenire ed intercettare fenomeni gravi, come Roma Capitale e il caso Saguto, Palermo, i beni sequestrati alla mafia. E’ stata la magistratura a scoperchiare la pentola. Libera non ha mai avvertito alcuna delle anomalie diventate oggetto di inchiesta giudiziaria. Sulla gestione dei patrimoni sequestrati si è osservato il silenzio. Non sapevano niente o andava bene così? Ora le domande se li fanno anche all’interno di Libera. A cominciare da Franco La Torre che propone il suo j’accuse, dopo le dimissioni. “Libera – sostiene – unisce l’autoritarismo, l’assenza di democrazia, l’inadeguatezza della sua classe dirigente. E ricorda le dimissioni dei dirigenti, il silenzio assordante sull’antimafia di convenienza, “schermo di interessi indicibili”. Libera, accusa La Torre, non è riuscita ad “intercettare interessi oscuri che si muovono in campi di sua competenza”. Don Luigi Ciotti confessa di essere addolorato per ciò che avviene, ma raccomanda di uscire dalla generalizzazione, di indicare fatti precisi su cui intervenire e riflettere. Altrimenti si fa danno e basta. Ma le accuse di Franco La Torre “bruciano”. Chi è il destinatario principale? Chi gestirebbe Libera con pugno di ferro? Chi sono gli incompetenti che l’hanno danneggiata? Chi protegge gli oscuri indicibili interessi? Don Luigi Ciotti, amareggiato, avverte che lanciare strali generici fa solo male a Libera, ma lancia a sua volta accuse molto gravi sul mondo dell’antimafia, contro “chi ha approfittato del lavoro e del sacrificio di migliaia di persone”. Libera non è una holding, ricorda, ma un tante associazioni insieme, che agiscono in piena indipendenza ed autonomia. “Ci sono comportamenti che hanno fatto venir meno il rapporto fiduciario”, osserva Don Ciotti, lasciando anche lui molte domande senza risposta. Stanno esplodendo, uno dopo l’altro, i casi di un uso “privato” della lotta al crimine organizzato. Mafia Capitale e la sezione dei beni confiscati di Palermo sono stati, forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La crisi di Libera è, infatti, la crisi dell’antimafia. Libera è il cuore dell’antimafia, la sua proiezione nazionale più forte e, finora, più rispettata. Ma è anche qualcos’altro, le sue associazioni di Libera gestiscono patrimoni colossali ovunque nel Paese, ed in particolar modo in Sicilia, Campania e Puglia, Calabria. La gestione “autoritaria”, denunciata da Franco La Torre, e l’ingente patrimonio amministrato forse spiegano, in qualche misura, la crisi di Libera. Don Ciotti, preoccupato, vuol abolire la parola “antimafia”. Potrebbe servire ben altro.

A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia, il 41 bis, ma il 12 marzo del 2001 gli venne revocato l'isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell'ora di libertà. Proprio mentre era sottoposto a regime di 41 bis, il 24 maggio 1994 durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l'uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto dal capo-redattore della Gazzetta del Sud Paolo Pollichieni, al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli ed altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L'intervento di Riina causò l'apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41 bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno. Nella primavera del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci, e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell'ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell'udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, e riferisce dei contatti fra l'allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo al tempo non convocato in dibattimento. Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006 all'ospedale San Paolo di Milano, sempre per problemi cardiaci. Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte del Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l'accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato. Il 31 Agosto 2014 i giornali riferiscono che nel novembre dell'anno prima il Riina avrebbe rivolto minacce anche nei confronti di Don Luigi Ciotti.

Le marchette a favore di Libera e di don Ciotti. Dal carcere duro di Opera, Totò Riina, pericoloso e potente boss di Cosa Nostra minaccia Don Luigi Ciotti, uomo semplice, sacerdote con il Vangelo sempre in tasca e le mani sempre tese verso l'altro. Ma perché tanta paura di un solo prete?, si chiede Desirèe Canistrà su “Parolibero”. Le intercettazioni pubblicate da La Repubblica, risalgono al 14 settembre scorso, vigilia del ventesimo anniversario dell'omicidio di Padre Pino Puglisi; sono le solite chiacchierate tra Riina e il suo compagno d'ora d'aria, Alberto Lorusso, boss della Sacra Corona Unita, ascoltate in diretta dagli investigatori della Dia di Palermo. A rendere irrequieto Riina sembra essere il desiderio della Chiesa di rilanciare il messaggio del prete di Brancaccio, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno e beatificato lo scorso anno. «Questo prete- afferma Riina in riferimento a Don Luigi Ciotti - è una stampa e una figura che somiglia a padre Puglisi; il quartiere lo voleva comandare. Ma tu fatti il parrino, pensa alle messe, lasciali stare... il territorio, il campo, la Chiesa, lo vedete cosa voleva fare? Tutte cose voleva fare iddu nel territorio... cose che non ci credete». Don Ciotti prende le distanze da questo paragone con Padre Puglisi, «Sono un uomo piccolo e fragile» afferma, preferisce definirsi un membro della «Chiesa che interferisce». Ma il punto é proprio questo: c'è una Chiesa che interferisce? O gli uomini consacrati, che si impegnano ogni giorno per il bene comune, sono solo persone stra-ordinarie? Nel dialogo Riina-Lorusso, l'ex boss di Cosa Nostra ha poi minacciato di morte il sacerdote presidente di Libera «Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo...Salvatore Riina, uscendo, è sempre un pericolo per lui... figlio di puttana». Nella Chiesa che interferisce, queste parole non fanno paura, «la forza si trova nel "noi", è un "noi" che vince» ripete anche in questa occasione Don Luigi, un "noi" che racchiude vent'anni di lotta contro la criminalità organizzata attraverso l'associazionismo laico e attraverso la testimonianza del Vangelo da parte di un sacerdote che non si impone con catechismo e magistero ma dimostra l'amore per Dio e per gli altri attraverso l'impegno quotidiano, «Per me l'impegno contro la mafia - afferma Don Ciotti - è da sempre un atto di fedeltà al Vangelo, alla sua denuncia delle ingiustizie, delle violenze, al suo stare dalla parte delle vittime, dei poveri, degli esclusi». «Sono sempre agitato perché con questi sequestri di beni..."; è con questa frase a metà del Boss di Corleone che, ancora ora oggi, l'intuizione di Rognoni e La Torre e la legge sul riuso sociale dei beni confiscati ai malavitosi si dimostrano le armi più potenti per la lotta contro la mafia. «Quei beni restituiti a uso sociale segnano un meno nei bilanci delle mafie e un più in quelli della cultura, del lavoro, della dignità che non si piega alle prepotenze e alle scorciatoie - prosegue Ciotti - C'è una mentalità che dobbiamo sradicare, quella della mafiosità, dei patti sottobanco, dall'intrallazzo in guanti bianchi, dalla disonestà condita da buone maniere».

La verità è che Riina è un vecchio ergastolano, che non fa più paura a nessuno, ma che, nonostante sia al 41 bis, quindi in isolamento, ogni sua affermazione stranamente trapela e viene diffusa in tutto il mondo. Il regime si applica a singoli detenuti ed è volto ad ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale all'interno del carcere ed i contrasti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri. La legge specifica le misure applicabili, tra cui le principali sono il rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all'aperto (cosiddetta ora d'aria) e la censura della corrispondenza. Eppure, come spesso si legge su “La Repubblica”, le intercettazioni sono passate e pubblicate. I pizzini ora li danno i magistrati ed i giornalisti. Che senso ha diffondere una notizia di procurato allarme per una minaccia inesistente e montare un coro unanime di solidarietà con destinatario Don Ciotti. Che avesse bisogno di ulteriore visibilità, rispetto alla sua flebile notorietà destinata all’oblio?

Di seguito vi è un articolo di "la Repubblica", noto giornale fan sfegatato dei magistrati e di Libera di Don Ciotti. Un esempio lampante di come il sistema di pennivendoli corrotti dall’ideologia, prono alla sinistra ed ai magistrati, riesca a fare una pubblicità ingannevole a favore di Libera, infangando centinaia di associazioni antimafia locali, che non possono difendersi, proprio perchè non hanno soldi per pagare l'informazione. Sì. Perchè l'informazione si paga.

«Cari miei amici giornalisti e magistrati comunisti – afferma Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte Le mafie” – il fatto che denigrate o ignorate o addirittura perseguitate quelli che come me danno fastidio al vostro tornaconto, non mi esime dal dirvi che non un euro è stato versato alla mia associazione, sia da privati, che dallo Stato, né un bene confiscato alla mafia mi è stato affidato. Non per questo, però, mi si impedisce di far leggere i miei libri in tutto il mondo. Giusto per raccontare una verità storica in antitesi alle vostra verità artefatte ed ingannevoli.»

Il lato oscuro dell'antimafia. Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo e Alan Davis Scifo su “La Repubblica”. Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà.

Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparente.

Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio.

Gli inganni dell'antimafia. Nel composito -  e talvolta oscuro -  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".

A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.

Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?

"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: 'O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casinò".

Lei come ha risposto?

"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".

Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?

"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".

Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.

"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".

Da chi è composta questa associazione antimafia?

"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".

Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telematico.

"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".

Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?

"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".

Lei ha paura di queste persone?

"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".

Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?

"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".

La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.

Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".

Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?

"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".

Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?

"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".

Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?

"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".

Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?

"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".

Che tipo di controlli si possono fare?

"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".

Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?

"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".

Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?

"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".

Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?

"Assolutamente sì".

Un'associazione per tutti i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie tutti i testimoni di giustizia d'Italia.

Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione che raccoglie tutti i testimoni di giustizia?

"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.

Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?

Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.

Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?

Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?

Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?

Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.

Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.

Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi…

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

Foggia, sottoscritto il protocollo contro il racket delle estorsioni, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 12 ottobre 2015. E' stato sottoscritto oggi nella prefettura di Foggia, alla presenza del commissario straordinario di governo per le iniziative antiracket e antiusura, Santi Giuffrè, un protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni estorsivi nei cantieri edili. Alla cerimonia della firma sono intervenuti il prefetto di Foggia, Maria Tirone, il presidente onorario della Fondazione antiracket, Tano Grasso e il presidente dell’Ance Foggia, Gerardo Biancofiore. (Mancavano tutte le altre associazioni tematiche locali). L'iniziativa consente il rafforzamento di tutte le azioni a sostegno delle imprese di costruzione e a tutelarne il libero esercizio. Mira, in particolare, a incrementare il senso di sicurezza percepito dagli imprenditori e a divulgare le informazioni per la conoscenza delle iniziative e delle norme esistenti in materia di racket. "La firma dei protocolli sta ad indicare la volontà da parte dello Stato e delle istituzioni di muoversi in una direzione compatta e congiunta verso la legalità". Lo ha dichiarato nel corso di un incontro in prefettura il commissario straordinario di governo antiracket e antiusura, Santi Giuffrè. "Il punto – ha spiegato – è far capire che la firma dei protocolli rappresenta solo il punto di partenza verso un percorso comune, una strada difficile e complessa ma che rappresenta l’unica strada che può portare ad una sorta di riscatto del Sud e del Mezzogiorno. La realtà di Foggia è una delle più complesse d’Italia. La mia ennesima presenza qui è la testimonianza della volontà di dare una mano a questo territorio". "Siamo qui per testimoniare la presenza di uno Stato – ha proseguito Giuffrè – che oltre ad essere repressivo possa essere un momento di ristoro per le vittime che intendono fare una scelta di legalità e di denuncia. L’edilizia è il volano dell’economia nazionale ed è dunque il settore più colpito dal fenomeno estorsivo. Un settore delicato in cui gli interessi sono contrapposti, però anche in questo caso bisogna provare a cambiare, forti della convinzione che lo Stato dà aiuti e contributi a chi si dirige verso la legalità". "Quindi – ha concluso – è una scelta non solo di dignità ma anche di necessità anche perchè non praticando legalità le aziende hanno una durata temporale molto contenuta. Molte volte gli imprenditori sono stati prima complici e poi vittime, questo perchè la linea di confine è molto labile".

Antiracket Foggia nel caos, la famiglia Panunzio lascia l’associazione: Grasso tace, scrive “Il Resto del Gargano” il 13 ottobre 2015. Non è solo lo scontro tra Tano Grasso e Franco Landella a tenere banco. La famiglia di Giovanni Panunzio, l’imprenditore ucciso per aver denunciato i suoi estorsori, chiede la restituzione del nome. Clima tutt’altro che sereno a Foggia per l’associazione antiracket nata nel capoluogo pugliese appena un anno fa. Al centro delle polemiche lo scontro tra il Comune di Foggia e Tano Grasso, presidente della FAI (Federazione delle associazioni antiracket) e presidente onorario della Fondazione di Foggia.

Ad accendere la discussione sono state le parole di Grasso nel corso della sottoscrizione, ieri in prefettura, del protocollo di intesa per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni estorsivi nei cantieri edili. “Una delle cose che mi ha stupito in questo anno di esistenza dell’Antiracket a Foggia – ha detto Grasso – è stato l’atteggiamento negativo del Comune. Nel processo ‘Corona’, uno dei più importanti processi in corso contro il racket delle estorsioni, il Comune di Foggia inspiegabilmente e gravemente non si è costituito parte civile né nel rito ordinario né in quello dell’abbreviato. Nel momento in cui si tenta di attivare un meccanismo virtuoso, nel momento in cui prefettura, magistratura e forze dell’ordine manifestano un impegno di questo tipo – ha concluso – è molto grave che in questo circolo virtuoso manchi proprio il soggetto che rappresenta la comunità, ovvero il Comune”.

Parole che naturalmente non sono state apprezzate a Palazzo Città, in particolare dal primo cittadino di Foggia Franco Landella: “Il tono e il contenuto delle dichiarazioni rilasciate questa mattina contro il Comune di Foggia da Tano Grasso sono inaccettabili – ha commentato Landella – Delegittimare le istituzioni liberamente e democraticamente elette dai cittadini non solo non è d’aiuto per sconfiggere il racket delle estorsioni, ma, cosa ancor più grave, rappresenta una palese ed intollerabile mancanza di rispetto verso la città”. “Come ha già ampiamente dimostrato l’assessore al Contenzioso, Sergio Cangelli, si è trattato di un mero disguido – precisa il primo cittadino –. Questa Amministrazione in altre circostanze si è già costituita parte civile in altri processi, proprio a dimostrazione della sua sensibilità verso questo tema, e continuerà a farlo, a prescindere dalle polemiche strumentali messe in campo in queste ore”.

Non è mancata una frecciata personale del sindaco nei confronti di Tano Grasso: “Vale la pena ricordare al presidente Grasso – sottolinea Landella – che mentre oggi punta l’indice contro la politica e le istituzioni, in passato ha preferito tenere lontani proprio i rappresentanti della politica dalle sue iniziative antiracket. Mi riferisco in particolare al 5 dicembre 2012, quando Grasso impedì al sottoscritto di partecipare, come cittadino (benché all’epoca fossi anche vicepresidente del Consiglio comunale) alla ‘passeggiata antiracket’ organizzata per le strade di Foggia dalla sua Federazione. Sarebbe dunque il caso che Grasso chiarisse in modo più preciso la sua posizione sul punto: la battaglia contro il racket è una prerogativa esclusiva della sua Federazione ed è lui a decidere quando è opportuno l’intervento dei rappresentanti delle istituzioni (e, soprattutto, di quali rappresentanti)?”.

A spiegare perché il Comune di Foggia non si è costituito parte civile nel Processo "Corona" è l’assessore comunale all’Avvocatura Sergio Cangelli: “Restituiamo al mittente le considerazioni espresse dal Presidente onorario della FAI, Grasso. Sul caso specifico, il Comune aveva dato l’indirizzo di costituirsi parte civile nel processo ‘Corona’. Non essendo, però, parte lesa in questo procedimento, ha dovuto acquisire autonomamente, grazie alla collaborazione della Camera di Commercio, i relativi dati identificativi. Pertanto, quando si è materialmente provveduto a formalizzare l’atto di costituzione di parte civile, erano scaduti da un giorno i termini per la detta costituzione. Ci rammarichiamo per il disguido, ma non riteniamo che possa essere oggetto di strumentalizzazione da parte di chicchessia”. Una risposta però che potrebbe non bastare a placare le polemiche in corso.

Ad inasprire ulteriormente gli umori c’è un altro fattore: le dimissioni della famiglia di Giovanni Panunzio, l’imprenditore ucciso per aver denunciato i suoi estorsori, di cui l’associazione foggiana porta il nome. La notizia, ieri sussurrata, è stata confermata oggi dalla stessa famiglia. Michele Panunzio e la moglie Giovanna Belluna hanno inviato, infatti, sia a Tano Grasso che alla referente foggiana dell’antiracket, Cristina Curci, una lettera di abbandono dell’associazione chiedendo di non utilizzare più il nome del loro congiunto.

Una decisione alla quale il presidente Grasso finora non ha dato risposta, come ha fatto notare il capogruppo de La Destra in Consiglio comunale, Bruno Longo: “Il presidente l’ha stranamente taciuta. Così come a fronte di cospicui finanziamenti comunitari ottenuti, non siamo a conoscenza dei numeri che ha prodotto la FAI in provincia di Foggia, ovvero quante denunce siano state effettuate da imprenditori e commercianti taglieggiati. Sembra, addirittura, che la Corte dei Conti di Napoli abbia aperto un’inchiesta sui fondi comunitari ottenuti dall’associazione che fa capo a Tano Grasso, ex parlamentare del Partito Democratico della Sinistra”.

Duro scontro tra l'associazione antiracket e il sindaco foggiano per la mancata costituzione di parte civile al maxi processo contro la mafia locale. Una grave assenza, denuncia il presidente Tano Grasso, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso” il 20 ottobre 2015. A Foggia la lotta alla mafia istituzionale fa dieci passi indietro. Il Comune infatti ha deciso di non costituirsi parte civile nel processo iniziato ormai il mese scorso alla “Società foggiana”, un'organizzazione feroce e affaristica allo stesso tempo. Una grande famiglia criminale composta da una testa, un vertice, e da tante batterie per quartiere. Da troppo tempo sottovalutata, e proprio per questo cresciuta a dismisura. Ma a tenere banco è la polemica tra l'associazione antiracket guidata da Tano Grasso (parte civile nel dibattimento in corso insieme alla camera di commercio e all'associazione capitano Ultimo), e il sindaco di centro destra Franco Landella. Già, perché mentre a Roma, contro mafia capitale, a Palermo, contro Cosa nostra, a Reggio Calabria, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria e in Emilia contro la 'ndrangheta, ormai è prassi che i municipi si costituiscano parte civile nei processi di mafia, nella città pugliese l'antimafia istituzionale perde una grande occasione. La mancata presenza al maxi processo è un pessimo messaggio agli imprenditori vittime della cosca foggiana e ai cittadini. Così almeno la vede il presidente dall'associazione antiracket Grasso, che a “l'Espresso” dichiara: «Tale processo è il più importante procedimento penale degli ultimi anni per associazione mafiosa che riguardi la città di Foggia. Un assessore, nel giustificarsi, ha dichiarato che il Comune non era parte lesa in tale procedimento. Si tratta di una grave inesattezza: per definizione una comunità è sempre parte offesa allorchè l’autorità giudiziaria persegue un’associazione mafiosa; il Comune in quanto rappresentante della comunità ha il dovere di intervenire nel processo per la tutela degli interessi della comunità ed in suo nome rivendicare il risarcimento dei danni». Il primo cittadino Landella si è difeso dagli attacchi giustificando l'assenza con non meglio precisati ritardi burocratici dovuti alla mancata comunicazione dell'inizio del processo e alla lentezza nella risposta da parte degli uffici preposti a predisporre la documentazione necessaria. Insomma, per sindaco e assessori si è trattato solo di un disguido tecnico. «Troviamo per nulla convincente la spiegazione addebitabile al cosiddetto “disguido temporale”. E’ bene richiamare l’ampia disponibilità di tempo avuta: l’udienza preliminare nel corso della quale si è costituita parte civile la Fai e la Camera di Commercio si è tenuta il 25 marzo e, tra l’altro, molto annunciata sui media locali; il 25 maggio ha avuto inizio il processo con il rito abbreviato, scelto in prevalenza dai boss imputati; il 14 settembre, infine, quello con il rito ordinario. C’era tutto il tempo per intervenire nel procedimento!», replica Grasso, che aggiunge: «Così avviene pacificamente in ogni parte d’Italia sin dal 10 febbraio 1986 quando per la prima volta il Comune di Palermo si è costituito parte civile nel maxi processo di Falcone e Borsellino. Inoltre, l’intervento nel procedimento penale del Comune assume un rilevante significato politico: è un segnale per i criminali e allo stesso tempo un segnale per la comunità che si amministra. Vedendo gli avvocati del Comune nel processo, seduti accanto alla pubblica accusa e alle altre parti civili, i criminali capiscono che contro di loro è schierata in maniera inequivocabile la comunità contro cui hanno compiuto i loro delitti». C'è da dire, poi, che il Comune non è il solo a non essersi costituito contro la “Società”, delle 36 parti offese infatti, neppure una ha deciso di chiedere i danni ai boss. Segno che il lavoro da fare è ancora molto. E che la paura è diffusa. Come, del resto, accadeva molti anni fa nei feudi delle tre grandi organizzazioni mafiose del Paese.

Parte civile contro racket polemica tra Grasso e il sindaco Landella, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno" del 14 ottobre 2015. L’accusa di Grasso: «Assenza grave quella del Comune nel processo antimafia Corona dove non si è costituito parte civile». La replica degli amministratori: «la legalità non si afferma delegittimando le istituzioni». La lotta al racket vive anche di polemiche, come quella tra Tano Grasso, simbolo italiano della lotta al racket, presidente onorario della Federazione antiracket italiana che tanto si è speso per la nascita anche in città di un’associazione antiracket; e il Comune. Oggetto della querelle la mancata costituzione del Comune nel processo «Corona» alla mafia (di cui riferiamo a parte, ndr), stigmatizzata da Grasso in prefettura lunedì mattina in occasione della firma del protocollo d’intesa tra prefettura, Fai e sezione foggiana dell’associazione nazionale costruttori edili «per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni estorsivi nei cantieri edili». Nella polemica, dopo il botta e risposta tra Grasso e l’assessore comunale alla legalità Sergio Cangelli, è intervenuto anche il sindaco Franco Landella. «Il tono ed il contenuto della dichiarazioni rilasciate mattina contro il Comune di Foggia da Tano Grasso sono inaccettabili» le parole del primo cittadino: «Delegittimare le istituzioni liberamente e democraticamente elette dai cittadini non solo non è d’aiuto per sconfiggere il racket delle estorsioni, ma, cosa ancor più grave, rappresenta una palese ed intollerabile mancanza di rispetto verso la città. Al contrario, ci saremmo aspettati da Grasso un coinvolgimento diretto del Comune di Foggia in una sfida così importante ed ambiziosa che però non è mai giunto». «Come ha già ampiamente dimostrato l’assessore Cangelli la mancata costituzione di parte civile del Comune nel processo Corona è stata solo un mero disguido. Questa amministrazione in altre circostanze si è già costituita parte civile in altri processi, proprio a dimostrazione della sua sensibilità verso questo tema, e continuerà a farlo, a prescindere dalle polemiche strumentali messe in campo in queste ore». Il sindaco prosegue ancora più duro contro il presidente della Fai: «vale la pena ricordare al presidente Grasso che mentre oggi punta l'indice contro la politica e le istituzioni, in passato ha preferito tenere lontani proprio i rappresentanti della politica dalle sue iniziative antiracket. Mi riferisco in particolare al 5 dicembre 2012, quando Grasso impedì al sottoscritto di partecipare, come cittadino (benché all’epoca fossi anche vicepresidente del consiglio comunale) alla “passeggiata antiracket” organizzata per le strade di Foggia dalla sua Federazione. Sarebbe dunque il caso che Grasso chiarisse in modo più preciso la sua posizione sul punto: la battaglia contro il racket è una prerogativa esclusiva della sua Federazione ed è lui a decidere quando è opportuno l’intervento dei rappresentanti delle istituzioni (e, soprattutto, di quali rappresentanti)?». «Piuttosto che bacchettare in modo pretestuoso il Comune e la sua attività istituzionale, il presidente onorario della Fai ed ex parlamentare dovrebbe impegnarsi per realizzare un allargamento della partecipazione dei commercianti e degli imprenditori della città alla sua associazione ed alla sua attività - sottolinea il sindaco di Foggia - Un allargamento che, evidentemente, può essere promosso soltanto attuando una logica inclusiva, che unisca e non divida il fronte antiracket; che non delegittimi le istituzioni e non consideri questa battaglia come una esclusiva prerogativa dell'associazione, perché per sconfiggere questa piaga occorre unire le forze ed essere per davvero tutti dalla stessa parte della barricata».

Antiracket, la famiglia di Panunzio lascia l’associazione fondata a Foggia. Dimissioni del figlio e della nuora dell’imprenditore ammazzato dalla sigla presieduta da Cristina Cucci e affiliata alla Fai di Tano Grasso, scrive Antonella Caruso su “Il Corriere del Mezzogiorno”. L’associazione antiracket aderente al Fai non potrà più utilizzare il nome di Giovanni Panunzio, l’imprenditore ucciso per aver denunciato i suoi estorsori. La famiglia Panunzio ha lasciato l’associazione antiracket presieduta da quasi un anno da Cristina Cucci ma di fatto coordinata dal presidente onorario nazionale, Tano Grasso. Questo quanto contenuto in una lettera con la quale Michele Panunzio, (figlio di Giovanni) una ventina di giorni fa, si è dimesso dall’incarico di presidente onorario dell’associazione, così come ha fatto sua moglie Giovanna Belluna che ha lasciato il sodalizio. In queste ore l’associazione foggiana è nell’occhio del ciclone, sia per lo scontro intrapreso da Grasso con il Comune di Foggia e il sindaco, Franco Landella; sia per questa notizia delle dimissioni di Panunzio sussurrata ieri e oggi ufficialmente confermata dalla stessa famiglia. «La lotta al racket delle estorsioni ed ad ogni forma di devianza sarà sempre al centro delle attività e delle attenzioni della famiglia Panunzio anche se ufficialmente da qualche giorno non è più parte dell’associazione antiracket nata lo scorso ottobre a Foggia» è stato precisato. A quanto sembra le dimissioni erano maturate mesi fa, all’interno dell’associazione il clima sarebbe tutt’altro che sereno. Ma solo una ventina di giorni fa sono state formalizzate. Cosa sia accaduto e perché si sia creata questa frattura la famiglia Panunzio non lo dice né Tano Grasso ha ritenuto ieri, in Prefettura, di rendere nota e chiarire questa novità, non da poco. «La nostra città è capace, seppur con i suoi tempi, di alzare la testa e di opporsi come movimento civile al sistema criminale» sottolinea Panunzio, evidenziando che il «disimpegno ufficiale dalle attività che l’Associazione riterrà di mettere in atto, non coincidono con un disimpegno morale, anzi rafforzano l’intento di combattere in favore della legalità, al fianco della Magistratura e delle Forze dell’Ordine». La famiglia Panunzio ringrazia il prefetto Maria Luisa Latella che «ha sostenuto l’intero percorso di costituzione», il procuratore capo e i vertici delle Forze dell’ordine. Poi l’annuncio: «Da oggi, senza alcuna contrapposizione alle attività dell’Associazione Antiracket, per noi inizia un nuovo percorso che moltiplicherà le azioni sul territorio e, quindi, amplificherà il senso che ognuno di noi può e potrà dare alla lotta al racket, all’usura, alla criminalità. Siamo certi che le istituzioni saranno al nostro fianco e che, con noi, continueranno un percorso che non si è mai esaurito con la pur apprezzata manifestazione di solidarietà e sostegno per quanto di così doloroso è accaduto alla nostra famiglia». Insomma qualcosa, anzi più di qualcosa, si è rotto. Prova ne sia che il 6 novembre la famiglia Panunzio sarà presente alla manifestazione in memoria di Giovanni Panunzio promossa dall’associazione «Progetto Foggia – Eguaglianza, legalità e diritti» alla quale parteciperanno tra gli altri il presidente della Regione, Michele Emiliano, l’associazione Libera, e il senatore Corradino Mineo. Il punto è capire se in quella giornata del 6 novembre le istituzioni saranno impegnate in altra manifestazione commemorativa.

Antiracket Capitano Ultimo: Il Silenzio degli Innocenti, scrive su “Stato Quotidiano”. Purtroppo la memoria ci da ragione poiché ci saranno altre passeggiate, altre fiaccolate con in testa saccenti politici, ma al “Processo Corona” non ci sarà nessuno. Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. Adesso è facile dire ve l’avevamo detto. Lungi da noi far leva sulla situazione di disagio che la F.A.I –Federazione Antiracket Italiana-, in particolare quella di Foggia, e Tano Grasso che in questi giorni stanno affrontando per la presa di posizione della famiglia Panunzio. Un disagio rafforzato dalle dichiarazioni dello stesso Lino Panunzio, figlio di Giovanni Panunzio ucciso a Foggia nel 1992 dal racket locale, che addirittura richiede il non utilizzo del nome del congiunto, dimettendosi da presidente onorario della F.A.I. di Foggia. Sembra che sia quasi una testimonianza indiretta che letta fra le righe (non troppo…) attesta che le cose in quella sezione non funzionino come dovrebbero. Certo è, e ci rammarica come associazione che ha lo stesso obiettivo costitutivo, che la F.A.I. di Foggia da quando si è costituita ha usufruito dei cospicui finanziamenti comunitari previsti dalla legge e che, purtroppo, non ha portato a conoscenza opinione pubblica e istituzioni varie dell’utilizzo in base alle azioni intraprese. Non si conoscono i numeri delle denunce fatte da chi è estorto e ciò non è un buon gesto, specie se parliamo di attività associative che alla base hanno la trasparenza e la fiducia di tutti. Ripetiamo, è facile sparare a zero su di un personaggio (Tano Grasso) spesso risultato “Ingombrante” e a volte arrogante; noi non lo faremo. Noi, dell’Associazione Onlus Antiracket Capitano Ultimo, dal canto nostro ci soffermiamo a quanto di buono Tano Grasso ha saputo costruire sul territorio. Un lavoro svolto con mille fatiche. A lui va dato atto di averci messo impegno e abnegazione nel mettere in piedi a Foggia un’associazione antiracket. A differenza nostra lui ha avuto inizialmente l’appoggio istituzionale delle due Marie (i Prefetti foggiani Maria Latella e Maria Tirone) che gli hanno spalancato le porte di Corso Garibaldi, quella di una Prefettura che conserva nel dimenticatoio il nostro Modello Antiracket e anti Soprusi consegnato mesi fa. Alla F.A.I. porte aperte finanche da Colonnello dei Carabinieri e dal Questore di Foggia, tanto da mettergli in “mano” una task-force antiracket, poi soppressa. Beh, come vedete c’erano tutti gli elementi per far si che la suddetta associazione, la F.A.I. di Foggia appunto, operasse sul territorio della Capitanata nel migliore dei modi. Forse, ma non troppo, e ve lo chiediamo, la motivazione potrebbe risiedere che questi signori sopraelencati non sono di Foggia, eccetto il Questore, e perciò non comprendono ancora come ragioni un foggiano? Può essere, ma non lo diamo per scontato; altri interessi prevalgono su scelte di bene comune e legalità comune. Ne siamo convinti! Spesso è stato detto che il foggiano è omertoso; noi lo ripetiamo a gran voce, il foggiano parla e anche troppo. Il motivo dell’incomunicabilità tra i foggiani e questi signori è la comprensione del linguaggio che il foggiano adotta quando deve dir qualcosa. Il foggiano parla tra le righe, mima, lancia messaggi ironici per far conoscere verità scomode, spesso “vomita” il sopruso senza clamori, ma parla, anzi comunica, non fa soffiate esplicite tanto per intenderci. Lo fa per non essere portato alla ribalta poiché il racket uccide. Il punto è che questi signori non riescono a comprenderli fra le righe, non sanno codificare ciò che dicono e spesso li mettono innanzi a deposizioni ufficiali anche con tanto di nome in prima pagina, senza citare le gole profonde, luoghi comuni in tutte le realtà dove la giustizia dovrebbe proteggere l’anonimato. Noi siamo del parere che certe attività debbano essere svolte da gente esperta, non solo in divisa (e ci sono ma non ben utilizzate), bensì da cittadini addestrati a tal compito. Ecco perché siamo fermamente convinti che uno degli strumenti per far pervenire le “soffiate” è la denuncia passiva. Li si che il foggiano dirà tutto. Gli addetti ai lavori e le persone addestrate e istruite a tal compito sanno di cosa parliamo. Ed il tutto è totalmente legale per chi si sta chiedendo il contrario. Contrariamente il foggiano, messo innanzi a una denuncia attiva e o ad una confessione spontanea scritta e firmata, rinnegherà anche i suoi avi per non passare come un infame e preservare l’incolumità sua e dei suoi cari. Solo con gli strumenti adatti si ottengono informazioni e collaborazioni, per poi diventare oggetto d’indagine da parte degli inquirenti preposti. Invece a Foggia massimamente avviene il contrario. Tutti Voi fate proclami, fate sfilate, fate sentire il cittadino onesto impotente dinanzi la criminalità organizzata con un vittimismo che presta il fianco alla criminalità. La criminalità, specie quella organizzata, non teme la polizia o i carabinieri ma teme fortemente una ribellione delle coscienze da parte dei cittadini, delle sue vittime predefinite, quella ribellione che li porta a temere di perdere il controllo del territorio ottenuto con l’organizzazione tentacolare diramata in tutte le istituzioni; ecco perché la chiamiamo “organizzata” la criminalità. Noi, ed è triste dirlo, in terra di Capitanata a tutto questo abbiamo desistito già da tempo. Lo abbiamo fatto quando abbiamo provato a trasmettere alcune delicate e importanti note informative alla caserma dei carabinieri e alla Questura, senza mai essere ascoltati e, ancor più grave da parte loro, senza essere convocati per dei chiarimenti, e questo ci ha sempre fatto riflettere. Interpretate voi come…. Voi urlate che le cose devono cambiare, ma cambiate al vostro interno perché è li che bisogna prima “candeggiare” per poi uscire in strada a ramazzare il marciume. Il silenzio degli innocenti è assordante perché prodotto da chi dovrebbe parlare, agire, farci sentire sicuri. D’altro canto la nostra operatività è ben radicata in altri territori, anche più “caldi”, dove la criminalità organizzata è disumana e dove il cittadino, snervato del sopruso, ci chiama, si rivolge a noi. Gli atti conservati in associazione ci danno ragione e sono a disposizione per gli organi preposti dalla legge. Siamo attivi in tutta Italia e lo facciamo volontariamente (siamo una Onlus, non un’associazione che prende soldini…. e iscritta ad albi prefettizi), ottenendo consensi e risultati significati e risolutori per gli estorti, per chi ha bisogno di aiuto. I proventi sono utilizzati per la beneficenza, non per noi; noi siamo volontari. Ne andiamo fieri e continueremo. La scelta di rimanere come sede in Capitanata è strategica geograficamente e per la mappatura della criminalità organizzata, poiché questa stupenda terra è ahinoi un importante crocevia della mala. In tutta Italia ci sono caserme dove sono comandate da Marescialli Superiori da oltre 20 anni che, causa forza maggiore, sono depositari di inciuci e intrallazzi perpetrati da persone ormai divenute col tempo “amiche”. Pertanto quando un onesto cittadino deposita una denuncia contro gli amici degli amici spesso questa finisce nel dimenticatoio. Lo stesso è per le ordinanze di Organi Giudiziari che intimano a queste Caserme, comandate e gestite da questi “Comandanti”, un provvedimento di perquisizione e sequestro presso aziende, commercialisti, imprenditori, e poi vieni a sapere che l’acquisizione di tali documenti è avvenuta non con una perquisizione in loco, bensì con una semplice telefonata partita dalla caserma. Una comunicazione che invitava l’amico a portare determinati documenti per trasmetterli in procura, per poi redigere un regolare verbale di perquisizione e di sequestro, come se tutto questo fosse avvenuto sul serio, lasciando l’amico nella sua “buona continuazione a delinquere” alle spalle di cittadini inermi e oltraggiati, ottenendo in cambio chissà cosa. Di chi è la colpa? Noi la conferiamo a quei sindaci disinformati che fanno politica “spoliticando” senza avere nessuna cognizione del potere che hanno a disposizione in termini giudiziari, lo stesso che va attuato se nel loro circondario non è presente un commissariato di Polizia. Voi sindaci in territori del genere siete i mammasantissima. Se non avete le palle e il fegato per fare determinate azioni, “gentilmente” fatevi da parte. E se proprio non potete fare a meno della poltrona, “ancora gentilmente” (in nome della legalità e giustizia), delegate ai posti chiave Assessori esterni (non eletti, perciò non frutto del mercimonio della politica) che hanno il coraggio di richiedere agli organi preposti una istanza di situazione patrimoniale contro un impiegato presso la Pubblica Amministrazione che viva sopra le righe, ovvero sopra le proprie possibilità economiche. Sindaci abbiate il coraggio di farlo anche se si tratta di carabinieri, di poliziotti, di finanzieri, di impiegati comunali, di vigili urbani o agenti di polizia municipale e/o locale, di agenti penitenziari, etc… etc… . Indossare una divisa è un dovere morale verso gli altri e mai per se stesso; se ognuno di questi sopra elencati trae benefici personali indossandola, va buttato fuori con disonore. Eppure, pur avendo desistito in terra di Capitanata, noi volontari dell’Associazione Onlus Antiracket Capitano Ultimo non ci siamo arresi, anzi ci siamo rafforzati in toto. Ciononostante abbiamo smesso di passare informazioni ai locali organi competenti perché ci siamo resi conto che siamo pesci fuor d’acqua in un contesto saturo di melma. Ci manca l’ossigeno, quello puro, quello che ti da la guarigione. Molti dicono che siamo avanti di 20 anni perché operiamo convenzionalmente con operatività all’avanguardia. Ma dove risiede la conservazione, dove vige la regola “A deo rex, a rege lex”, dove the Untouchables sono tutt’uno con la società pubblica e civile, è difficile scardinare, smembrare, sgrovigliare la matassa che intrecciando la trama ha prodotto nodi divenuti metastasi avanzate di un territorio governato con il beneplacito degli amici degli amici. Noi, comunque, non ci arrendiamo; in Capitanata stiamo in ascolto e, credeteci, i risultati arriveranno. I Prefetti cambiano, i Questori diventano Prefetti, i Colonnelli diventano Generali, a chi frega mettersi contro chi e cosa, e poi contro la criminalità se poi questa risiede anche nei palazzi, spesso sostenendola (e Mafia Capitale ne è un ampio esempio)? Noi crediamo, e ne siamo certi, agli stessi che di professione fanno gli incantatori di piazze, anche spoliticando. La gente vuole il cambiamento, ma lo vuole in silenzio e con forza.

I distinguo fra soggetti che fanno capo ad associazioni che si riempiono la bocca con la parola “Legalità”, che si riuniscono intavolando sedute fine e se stesse senza produrre risultati consistenti per arginare il fenomeno malavitoso, che diventano belligeranti per un diniego personalistico, non servono a ridar legalità, bensì a ottenere crediti che sfociano in voti. La politica dei politicanti purtroppo ha questa potenza. Tutto ciò fa ribrezzo perché la legalità si ottiene con la condivisione degli intenti, con la collaborazione tra persone-associazioni-istituzioni, credendo fino in fondo e rimettendoci la faccia, il nome, le proprie risorse, non quelle comunitarie, ovvero pubbliche, quelle versate dai cittadini con le tasse. Quindi Sig. Grasso se ne ritorni nella sua terra; qui non si è perso niente, solo una magra figura che lei è in grado di metabolizzare precocemente perché l’associazione che l’andrà a sostituire sarà un’altra manovrata da burocrati con fini politici (chi oggi ne è parte ha avuto esperienze attive in politiche, ed il politico è sempre in campagna elettorale). Chi vivrà vedrà. Noi speriamo che sia il contrario anche perché alla nuova realtà, che riprende nel suo Progetto il termine “Legalità” e che nascerà a breve, noi tendiamo la mano perché siamo convintamente degli irrinunciabili collaboratori d’intenti e di azioni. Una chiosa comunque dobbiamo dirla su di lei, sig. Tano Grasso: non ci è piaciuta la sua apparizione in pompa magna, con al seguito i suoi aderenti, dinanzi alla Questura di Napoli quando manifestava per la vicenda di Nicola Barbato che lottava tra la vita e la morte, pubblicizzando la F.A.I. Sappiamo che la vicinanza c’era, ma il momento, secondo noi, non era adeguato. Sarebbe stato più bello tacere li davanti e parlare quando Nicola poteva farlo da se, così da testimoniare personalmente la sua azione. Purtroppo la memoria ci da ragione poiché ci saranno altre passeggiate, altre fiaccolate con in testa saccenti politici, ma al “Processo Corona” non ci sarà nessuno. E pensare che noi la richiesta per costituirci parte civile l’avevamo formulata per essere al vostro fianco, ma ci è stato detto che eravamo lì per metterci in mostra. Noi a questi malpensanti della stampa servizievole, perché la colpa è loro e di chi li manovra dai palazzi, gli rispondiamo “non avete capito un c…”, tenetevi la criminalità organizzata, che se non lo avete capito dal nome ve lo rinfreschiamo noi, il termine organizzata è perché sono ORGANIZZATI a differenza di altri, e qui ci fermiamo. E come da consuetudine, salutiamo tutti insieme la nostra “beata sonnecchiante” Marije che dorm…Noi ci siamo!!!

NOI DELL’ASSOCIAZIONE ONLUS CAPITANO ULTIMO ABBIAMO UN MODUS OPERANDI CHE SPESSO FUNGE DA RICETTACOLO PER SEGNALAZIONI E VARI SFOGHI PERSONALI". Nella Tan”O” dell’Antiracket. La Trilogia (I parte). "Non basta accompagnare la vittima all’ufficio preposto per la denuncia quando ormai a parer nostro non c’è più nulla da salvare", A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. Ed in riferimento al Decreto del Ministero dell’Interno del 24 Ottobre 2007, n. 220, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (GU n. 276 del 27-1 -20 7), in particolare all’art. 1 comma 1 e 2 che recitano espressamente:

1. Presso ogni Prefettura – U.T.G. è istituito l’elenco provinciale delle Associazioni e delle Fondazioni Antiracket ed Antiusura;

2. Possono essere iscritte nell’elenco di cui al comma 1, le Associazioni, anche non riconosciute, le Fondazioni e i comitati di cui all’articolo 13, comma 2, della legge 23 febbraio 1999, n. 4, e le Associazioni e le Fondazioni Antiracket ed Antiusura, aventi tra gli scopi sociali, risultanti dall’Atto Costitutivo, quello principale di prestare assistenza e solidarietà a soggetti danneggiati da attività estorsive. Dunque, è nostra premura dirlo e scriverlo per puntualizzare ed informare i disinformati che, nonostante sia un nostro diritto iscriverci presso l’elenco Provinciale delle Associazioni, a decorrere da un anno dalla nascita della nostra associazione non è nei nostri intenti inserirci in un elenco Prefettizio. Il motivo? È semplice ed è sempre quello che abbiamo detto e scritto fino a ora, e che continueremo a dire e scrivere, ovvero che tale scelta, l’iscrizione in termini di legge è utile solo ed esclusivamente per far accedere al fondo vittime del racket chi denuncia. Difatti, a tal riguardo la legge permette all’interessato (la vittima) di presentare direttamente domanda per la concessione dell’indennizzo mediante apposito modulo da presentare presso la Prefettura di residenza o, col consenso di questi –che è facoltativo- di avvalersi dell’associazione di categoria o ordine professionale di appartenenza. Ma può anche avvalersi delle associazioni istituite al fine di tutelare (parola a parer nostro molto ambigua, perché si parla solo di tutela economica) le vittime del racket iscritte in un apposito albo prefettizio. Pertanto, il nostro compito -sempre a parer nostro- non è quello di istruire pratiche di “finanziamento”, bensì quello di affiancare lungo tutto il “percorso – calvario” che una vittima affronta dopo una richiesta in queste circostanze. Il nostro dovere sociale -dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo- è di trasformare una vittima in un denunciante; il resto burocratico e Istituzionale spetta agli organi preposti. “Noi” siamo del parere che un’Associazione che si definisce Anti-Racket non debba mai e poi mai maneggiare o beneficiare di soldi pubblici. Lo ribadiamo a gran voce affermando che se i soldi non sono messi al servizio di chi realmente necessita di liquidità per salvaguardare la sua persona e la sua azienda da atti ignobili, diventano strumento terzo e non prioritario e fondamentale per la Sua Persona, quella della vittima – denunciante. Noi dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo abbiamo un modus operandi che spesso funge da ricettacolo per segnalazioni e vari sfoghi personali. Vi citiamo uno su tutti, vittima, e poi con noi denunciante, in uno dei territori più “caldi” della male estorsiva: il Sig. F. G. C., dopo aver fatto richiesta d’aiuto a un’Associazione Antiracket d’“Elite” presente sul suo territorio, maledisse il giorno in cui denunciò le “N’drine Calabresi”, Lo fece poiché trovò innanzi a lui quel muro di gomma che rimbalzava il suo aiuto. Ebbene, quel muro si chiamava, e si chiama tuttora, ricerca di beni da confiscare e contributi vari per poterlo assistere. Altri ci dicono addirittura che alcune Associazioni, per il caso del Sig. F. G. C., non si sono volute costituire Parte Civile nei processi per il sol fatto che gli imputati non possedevano beni da confiscare e quindi da poter beneficiare. Per noi tutto questo è assurdo, non vi è Onore. Sentiamo parlare più volte di legalità, di invogliare alla denuncia chi subisce. Ma è un dato incontrovertibile che denunciare oggi equivale ad una condanna a morte. E non ci riferiamo a quella fisica, della persona, ma alla morte dell’azienda, costruita col sudore e col sacrificio, perché, e tutti lo sanno bene, che i primi a “darsela a gambe” -in ordine cronologico- sono i fornitori, la clientela, i conoscenti, gli amici, i parenti e infine lo Stato. Noi abbiamo capito e compreso che la Politica/Stato, con determinati atteggiamenti, con le disgrazie altrui ne fa un cavallo di battaglia per i propri obiettivi. Sul territorio nazionale, ma in particolare quello della provincia di Foggia, ci sono abbastanza Associazioni Antiracket da poter soddisfare le esigenze di un denunciante. È bene ricordare, specie a chi del presenzialismo ne fa un dovere irrinunciabile senza però mettersi in gioco e stare tra la gente, che l’operato di un’Associazione Antiracket lo si percepisce sul campo, con la presenza costante e preventiva nei confronti dei commercianti e dei cittadini, anche se non associati. Questo per Noi è un atto dovuto a salvaguardia del Bene Comune, della Legalità. Non basta accompagnare la vittima all’ufficio preposto per la denuncia quando ormai a parer nostro non c’è più nulla da salvare. È giusto parlarne, specie se a farlo sono realtà associative che perseguono la Legalità, ma poi ci vuole il “polso duro e credibile” di un’Associazione Antiracket che mette sul campo azioni e modelli risolutori, non propositivi: di quelli ce ne sono già tanti e tutti sorvolati dalle Vittime del Racket, dell’usura, dei Soprusi. Noi dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo ci chiediamo, non per polemica ma per precisa e corretta informazione, come può un’Associazione Antiracket sostenere delle campagne onerose e di sensibilizzazione contro il fenomeno estorsivo promuovendo e sensibilizzando e soprattutto invogliando il cittadino nel non acquistare prodotti da chi non espone quel bollino blu, quasi a testimonianza che chi non aderisce paga il pizzo? La nostra decisa irreversibile e corretta risposta è semplicemente “ASSURDO”. Lo affermiamo giacché in tutto questo non vi è contropartita. Ma volete comprendere che inserendo il commerciante nella cosiddetta “lista nera” quelle attività commerciali, dai cittadini, vengono –e non verrebbero- viste come disoneste e complici, e non come vittime terrorizzate da una giustificata paura nel non esporsi? Noi lo abbiamo capito perché abbiamo parlato con tanti commercianti che purtroppo convivono con questa assurda situazione, lo abbiamo compreso parlando con la gente che evita quelle attività, cittadini impauriti di comperare merce che credono che parte dei proventi delle vendite vada nelle mani del racket. Tutto questo, malgrado gli sforzi profusi da chi come noi cerca la Legalità anche con la corretta informazione, non produce una campagna riparatrice alla riabilitazione morale del commerciante. Veda egregio dott. Tano Grasso, la gente si aiuta, non si affossa per loro scelte risultate sbagliate nell’aver acconsentito ad una richiesta di “pizzo”, spesso terrorizzate da malavitosi che con una pistola puntata alle tempie la costringe a sborsare soldi lavorati onestamente. Lei lo sa molto bene e ci meravigliamo come può affermare che «I commercianti non collaborano, Foggia sottomessa alla “Società”». Lei c’è passato, ha avuto il coraggio di denunciare in tempi che le associazioni antiracket erano inesistenti. Ha avuto coraggio e ne prendiamo atto. Ma oggi il coraggio lo deve profondere e non indurre con proclami lesivi per un territorio che fa fatica a fidarsi di chi si fa chiamare “Antiracket” e poi si muove solo se ha fondi a disposizione. Il ricattato –e Lei lo sa molto bene- da vittima, per cavilli forensi, diventa perseguitato da chi lo deve proteggere, lo è per aver inconsciamente, in quel preciso istante, quello dell’estorsione, salvaguardato se stesso e la propria famiglia da atti ignobili e da un pericolo immediato, pagando il pizzo senza avvisare le Forze di Polizia. Non a caso il legislatore ha pensato bene di creare una legge chiamata Stato di Necessità -art. 54 c.p.-, proprio a tutela di quelle persone che sbagliano sapendo di sbagliare, o meglio, mentono sapendo di mentire. Per noi tutto questo è sconcertante. L’estorto ricade in un ricatto morale velato, nonostante sia vittima del cosiddetto “Pizzo”. E anziché aiutarlo, che fa la giurisprudenza e le sue machiavelliche applicazioni? Lo isola, lasciandolo solo più che mai, sperando di indurlo alla denuncia. Tutto questo come si chiama? Per noi è RICATTO, come a dire (anzi a fare) ti lascio in mutande senza via di scampo per farti denunciare. Ed ancora, perché di carne al fuoco ce n’è così tanta che un barbecue non basterebbe per sfamare quei lupacchiotti bramosi di apparire vicino a quel “Grasso che cola e cala i suoi anatemi”, Noi ci chiediamo come le Associazioni possano accaparrarsi strutture sottoposte a sequestro per reati di Mafia aggiudicandosele senza un bando pubblico? Noi ci chiediamo con tutti questi beni e questo denaro pubblico come mai nessuno di questi “Colossi” dell’Antimafia ha utilizzato un solo euro per la salvaguardia personale di chi denuncia? Oggi al vertice della Regione Puglia c’è un magistrato che conosce bene il fenomeno estorsivo e del sopruso: speriamo che abbia lungimiranza nell’ascoltare più cori, diversamente dal suo predecessore che ha lasciato campo libero a chi oggi non ha sortito risultati, solo assegnazioni di soldi e strutture pubbliche. Il “Nostro Modello Antiracket e anti Soprusi” (che nessuno ha voluto visionare, o meglio non prendere in considerazione, visto che le due “Marie” il nostro plico lo hanno ricevuto e tenuto in un cassetto in Corso Giuseppe Garibaldi, 56) è stato studiato e messo a punto da uomini di legge e di Stato, immedesimandosi nella vittima di estorsione, affinando quei temi primari che un denunciante richiede nel momento devastante della richiesta estorsiva e nella meditazione che lo porta alla denuncia e di conseguenza di riporre la fiducia in terze persone. Noi lo abbiamo fatto; peccato che non apparteniamo a nessuna Associazione d’Elite Nazionale, ma siamo semplici umili e straccioni con le idee altruiste e pertanto non meritevoli di tanta attenzione, ma semplicemente di una insana incuranza mascheratasi dietro una non appartenenza (per scelta) ad una lista Prefettizia, la quale secondo il principio di associazionismo vigente in Italia non vi è nessun obbligo di legge che ne impone l’iscrizione, ma non per questo emarginati a prescindere e consapevoli di agire contro i propri interessi. Vi sono politici, come spesso avviene in campagna elettorale, che acclamano la tanto agognata legalità e sicurezza, per poi accorgersi, nel confrontarsi lontano da resse acclamanti, che di legalità e trasparenza nessuno vuol sentirne parlare se non con proclami propagandistici tra folle teleguidate per unanimi consensi. E i fatti? Sul campo cosa fanno? Niente di niente! Noi dell’Associazione -nostro malgrado e analizzando bene la non voglia di cambiamento che i potenti della Capitanata ostentano o meglio giacciono tranquilli fra le braccia di Morfeo- siamo consapevoli di aver dato il massimo a chiunque si sia rivolto -a noi-. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo seppur andando contro corrente, spesso incappando in una ottusità Istituzionale e Politica alquanto disarmante che non lascia apertura a soluzioni che potrebbero realmente essere di sostegno per quanti, indotti a sfidare la criminalità organizzata, ci mettono faccia cuore e vita, oltre che pericoli familiari, i più cari tanto per intenderci. Una nota, anzi una precisazione è doverosa: ci siamo chiesti più volte il motivo che ha spinto dapprima, Sua (e non nostra) Eccellenza il Prefetto Maria Luisa Latella e poi Sua (ancora n.p.) Eccellenza Maria Tirone, entrambe Prefetti di Foggia, a non darci mai udienza pur sapendo quanto impegno e quanto di buono abbiamo fatto e costruito nel limite delle nostre possibilità sul territorio. Ma non basta. In quel Palazzo ci si fida e ci si deve fidare di quelle Associazioni definite “Autorevoli e Ministeriali”, o meglio deve dar credito al pourparler degli amici degli amici, senza interrogare gli interessati. In altre parole, cambia il capo ma rimangono i subalterni che indicano le vie maestre, i “fidati”, i confidenti, chi è buono e chi è cattivo. Allora, Le diciamo in tutta franchezza che a Foggia e in Italia se l’andazzo è questo non cambierà mai nulla. Sono i dati che lo dicono, non noi. Al denunciante occorre PROTEZIONE PERSONALE e vi assicuriamo che i mezzi e le leggi per farlo ci sono: basta volerlo. Noi lo diciamo sempre, fino allo sfinimento. In Italia le leggi ci sono e sono fatte anche molto bene, e non solo nel limitarsi ad accompagnare alla denuncia chi si ribella al racket, quasi a testimoniare che la persona offesa sia un portatore di handicap non in grado di andare da solo in una Caserma o in Questura per esporre una denuncia. Poi se qualcuno dei “potenti” fa orecchie da mercante solo perché noi non garantiamo voti e favoritismi o avanzamenti di carriera a nessuno, beh…, il marciume, la purulenza, l’infezione della società ha sconfitto le sue difese. Noi siamo pronti a lottare per i nostri ideali di giustizia, quella sana, quella povera di denaro ma ricca di idee propositive, proattive e funzionali. Dalla nostra parte ci conforta il fatto di avere numerose richieste per aperture di nostre sedi in altre province italiane, come Messina e Bagnara Calabra (RC). Ne abbiamo avute molte altre da svariate Amministrazioni Comunali, perlopiù campane, che non badano alla poltrona ma al bene collettivo. Siamo certi che nel territorio Italiano troveremo un Prefetto, una “Eccellenza”, che ci accolga non per chi siamo ma che ci identifica per ciò che facciamo. Però non si dica che l’Associazione Onlus Capitano Ultimo non sia stata presente e non lo è sul territorio di Capitanata. È sola dalle istituzioni ma è al fianco del cittadino indifeso. Chi ha avuto il nostro appoggio ci ha sempre lodato per la nostra professionalità e competenza, e soprattutto per il nostro aiuto incondizionato e gratuito. Pertanto, la classe politica governante in Capitanata si assuma le sue di responsabilità nei confronti dei cittadini, lo faccia come garante di trasparenza, di legalità, del buon lavoro. E sappiate che la Capitanata è un bene di tutti, non un bacino di voti e di avanzamenti di carriera per sfamare la Vostra bramosia di potere. Ci riferiamo anche a Lei dott. Michele Emiliano, neo eletto Presidente della Regione Puglia, il Sindaco di Puglia, “venuto fra noi” in terra di Capitanata come il Messia portatore di ripristino della sicurezza, di trasparenza e di legalità, per sentirci dire che è sua intenzione aprire uno sportello Antiracket F.A.I. nella cittadina di San Severo, quasi a dirci implicitamente (voi non contate un c…) beh…! Le ricordiamo, Sindaco di Puglia, che il giorno 24 Ottobre 2014 “Noi” eravamo in tribunale a Foggia per un importante Processo che riguardava la nostra Comunità, che è anche sua, e lei e il “Suo” Sindaco del Comune di cui ricopre il ruolo di Assessore alla Sicurezza (San Severo) dove eravate? Non certo al fianco delle vittime, quegli imprenditori che hanno subito l’onta e il male dell’estorsione e i suoi distruttivi effetti. Probabilmente eravate in giro per la Puglia e la Provincia di Foggia con i vostri rispettivi ruoli ormai acquisiti, ad aprire le acque e chiedere consensi, dato che erano prossime le elezioni cui Lei ha vinto. Noi ci definiamo umili al servizio di umili. Con ciò non possiamo e ci rifiutiamo di essere al servizio di Caste programmatrici a discapito della collettività, inermi allo strapotere dei Palazzi. Il Colonnello Ultimo in prima persona, e lo rivendichiamo con sano e sincero orgoglio, ci ha fatto prendere visione di cosa sia l’umiltà e di cosa significhi essere al servizio del Popolo, ma soprattutto ci ha insegnato a saper dire “Rinuncio”. Pertanto, fiduciosi di aver a Tutti fatto cosa corretta e gradita, sperando di non aver offeso nessuno, cogliamo l’occasione di augurare a Tutti il nostro più sincero augurio di una pronto risveglio di Legalità in una terra dove vige subdolamente in modo latente lo strapotere Politico/Mafioso. Non a caso Istituzionalmente e Ufficialmente lo dissero sia Sua Eccellenza il Questore di Foggia e Sua (e non nostra) Eccellenza il Prefetto di Foggia Maria Luisa Latella dinanzi una recentissima Commissione di Governo. Noi ci siamo!!!

''OGGIGIORNO LA SITUAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI ANTIRACKET IN CAPITANATA VE LA RACCONTIAMO NOI, NUDA E CRUDA, SAPENDO DI SUSCITARE NON POCHE POLEMICHE''. Nella Tan”O” dell’Antiracket – La Trilogia’(2^) A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. Rieccoci con il sequel della prima parte della trilogia “Nella Tano”O” dell’Antiracket” pubblicato in data 15 Giugno 2015. Se avessimo dovuto attribuire un titolo alla prima parte, indubbiamente sarebbe stato “FUCK BLACKLIST”. Oggigiorno la situazione delle associazioni antiracket in Capitanata ve la raccontiamo noi, nuda e cruda, sapendo di suscitare non poche polemiche. Noi a differenza dei cronisti sordi e ciechi per volontà, la verità la pubblichiamo, pronti ad affermare e a dimostrare in qualsiasi contesto quanto da noi esposto. Cosa differenzia un’associazione antiracket da una dell’antimafia o da una semplice associazione? Innanzitutto che nel proprio statuto è sancito che combatte i soprusi ed ogni forma di criminalità organizzata. Poi, citando il motto di Cetto La Qualunque, “Na’ beata minchia!” È sotto gli occhi di tutti che in questi anni gli attuali “signori antimafia” hanno avuto l’esclusiva di sedere alla destra dei potenti. Un monopolio per il sol fatto che erano in pochi, riferendoci al territorio di Capitanata. Questi si sono arrogati il diritto di partecipare a tavole rotonde e tavoli tecnici che riguardavano temi come mafia e sicurezza, quasi avessero in mano un progetto per il bene comune. Il FAI –Federazione Antiracket Italiana- ha fatto il suo ingresso in Foggia da pochi mesi, portando un nome importantissimo. Lo ha fatto dopo anni di corteggiamento con l’intento di unire i commercianti affinché abbracciassero la causa. Alla fine il matrimonio si è consumato, ma ad oggi rischia di rimanere solo un grande amore. Il motivo è semplice, intuibile e più volte esposto da chi chiede aiuto: se dal matrimonio non nasce un’idea funzionale che non si limiti al solo bollino blu, il parto non avverrà mai. Anzi, oltre ad abortire, rischia di implodere mettendo a rischio quegli commercianti che vi hanno riposto fiducia. Con ciò, e lo diciamo con onestà intellettuale e pieno rispetto delle persone citate, c’è da chiedersi se i famigliari di Panunzio siano contenti degli strumenti contro la lotta al racket messi in campo dal FAI. E dire che prima della nostra nascita, per una forma di reverenza, noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo fatto richiesta di un incontro con l’associazione Antiracket Vieste. Come detto per far conoscere la nostra volontà di collaborare insieme sul territorio. Altro contatto, e direttamente con la sede centrale del FAI, quella di Napoli, lo inoltrammo chiedendo un appuntamento diretto con il sig. Tano Grasso, appuntamento mai accordato. Ed infine contattammo direttamente il figlio di Giovanni Panunzio per rendergli noto che era nostra intenzione accomunare il nome di suo padre al nostro. Sapete perché? Per noi Giovanni Panunzio è Giovanni Panunzio, come Francesco Marcone è Francesco Marcone, uomini capaci di dare la vita per non sottomettere i loro ideali di libertà, giustizia e piena legalità. Ma le ragioni del suo diniego il sig. Grasso forse un giorno ce le renderà in tutta franchezza. Noi ci siamo! Noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo un modo di “fare antiracket” di per se innovativo: chi ha avuto l’opportunità di conoscere il nostro modello ci detto, -e lo hanno detto tutti- «Modello davvero stupefacente, innovativo, fuori dagli schemi dei soliti piani e modelli proposti. Siete avanti di 20 anni, mentre noi siamo ancorati a chi e cosa vuol essere al di sopra. Ci penseremo…» Quel “…ci penseremo” oggi non l’ha ancora fatto, forse indotto da chi lo controlla. Nel nostro “Modello Antiracket e Anti Soprusi” la vittima è tutelata in pieno, oltre che essere provvista di strumenti per essere immediatamente preservata. Ma il punto cardine del nostro Modello, che ci differenzia dagli altri è che in tribunale noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo andiamo con loro e vi rimaniamo. Stiamo al loro fianco, a quelli che denunciano, ma non come parte civile, bensì come persone informate dei fatti. Mentre voi del FAI, di Libera, di tutte quelle associazioni antiracket presenti sul territorio nazionale, ad ora non avete mai fatto questa scelta. Ecco la differenza che, a parer nostro, è fondamentale per sedere a tavoli tecnici. E se un giorno sarete in tribunale al fianco del denunciate, rischiando come noi in prima persona, allora chapeau. Se avete fatto caso all’ultimo video-proclama di Tano Grasso, Presidente onorario del FAI, riportato sull’articolo pubblicato da ilmattinodifoggia.it in data 09/06/2015 “Tano Grasso: «Commercianti foggiani omertosi»” è palese che in mano sia lui, sia l’associazione che rappresenta, non hanno nessun progetto volto all’abbattimento del fenomeno omertoso, non hanno un piano con strategie per far sì che un estorto non risolva i problemi da solo godendo delle dovute coperture in termini di “soffiate”, che sottolineiamo sono quelle che danno il via per una indagine di polizia giudiziaria. A rafforzare questa nostra affermazione, ci sono anche considerazioni e affermazioni pubblicate nell’articolo “Foggia, una città presa a schiaffi” da ilmattinodifoggia.it in data 14/06/2015 sul blog Controverso, dove si dice che «Tano Grasso incontra la stampa. Cosa dice? C’è omertà, i commercianti danno del tu ai mafiosi (ma chi sono i mafiosi? A chi si riferisce? Chi dà del tu a chi?), non bisogna andare nei negozi di chi non denuncia – come se fosse stata già consegnata ai cittadini una mappa – basta invocare l’intervento dello Stato – quello c’è -, Foggia è la città peggio messa in tutta la Puglia, sarà sempre sottomessa alla “Società'”…». Insomma, una sequela di proclami rafforzando quelli precedenti, dove Grasso invitava i cittadini a non comperare laddove il pizzo era pagato. Lui, Tano Grasso, si è soffermato (secondo il diritto di critica degli autori del testo,ndr) nel far passare il concetto che un commerciante qualora subisca un atto intimidatorio e lo non denunci, va inesorabilmente lasciato solo, invitando i cittadini a non comprare merce nella sua attività. Una specie di boicottaggio, cui noi siamo allibiti al solo ascolto di queste parole “indefinibili…”. Lo rimarchiamo: questo concetto è più che sbagliato perché vuol dire che, noi compresi, non siamo capaci di garantire quella dovuta rassicurazione agli operatori commerciali nell’affidarsi a noi associazioni. E questo la dice lunga sul lavoro da fare sul campo e intorno ai tavoli. Purtroppo la società attuale, quella che si definisce perbenista, legale, rassicuratrice, scelta, bada più alla leadership venendo meno ad un confronto per unire gli intenti. Questo è un atteggiamento che favorisce la criminalità. Come abbiamo sempre sottolineato, a noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo non interessa il riconoscimento di aver prodotto una denuncia, ma quello di mettere in campo un sistema che porti a più denunce. Lo diciamo a prescindere dall’associazione che si fa promotrice del progetto, perché per noi sono tutte uguali, purché si raggiunga l’obiettivo. Se poi ci mettiamo ad analizzare il video-proclama possiamo anche ipotizzare un certo nervosismo del soggetto che parlava (..) Tutti i foggiani sanno che tra Tano Grasso e il Sindaco Franco Landella non c’è feeling. Tutti ricorderanno di quel gesto sconsiderato da parte del Presidente onorario del FAI e di Sua (e non nostra) Eccellenza Maria Luisa Latella, allora Prefetto di Foggia, i quali pur sapendo di essere alla mercé di telecamere non si fecero scrupoli di estromettere l’attuale Sindaco di Foggia in una delle tante sfilate o meglio come le amano chiamare, passeggiate per la legalità. Un gesto che fece passare un messaggio sbagliato nei confronti di Landella, come a dire non degno di partecipazione. A quel tempo, nel dicembre 2012, Franco Landella era consigliere comunale, lontano da proclami elettorali. E se anche si ipotizzava una sua volontà a farla, diteci voi qual è quel politico che non sin fa campagna elettorale 365 giorni l’anno, 24 ore su 24? Eh..? Allora…? Siate più pragmatici e onesti, e vedrete che lo specchio rifletterà un’immagine più bella. Tuttavia, a quel diniego Franco Landella non la mandò a dire. Anzi, come è nel suo stile, rispose immediatamente e direttamente, paventando una sua auto-sospensione dall’assise comunale foggiana. Eccovi le sue parole riportate fedelmente: «Che senso ha continuare a rappresentare la città in cui sei nato, cresciuto e che ami in un consiglio comunale che il Prefetto di Foggia rinnega come istituzione degna di essere al fianco dei cittadini che lo hanno eletto in una qualsivoglia manifestazione promossa per sostenere le ragioni della legalità contro il sopruso del malaffare? Che ragione ha dare ancora un senso ad una rappresentanza politica che viene scacciata, perché ritenuta malevola, da consessi democratici in cui dovrebbe trovare legittima espressione?». Mettiamo in chiaro un punto: noi non siamo schierati con l’uno o altro politico, non siamo politicamente di nessun partito, movimento, lista, ecc… Siamo con chi vuole legalità, giustizia, libertà, con chi aiuta. Dal canto nostro abbiamo imparato, perché ci è stato insegnato, che “L’efficienza delle associazioni Antiracket non si misura in base ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla canonizzazione di toghe e divise”. L’attività delle Associazioni Antiracket, Antiusura a Anti Soprusi, non si misura in base alla visibilità mediatica, né tantomeno in base alle denunce presentate o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte a vantaggio di truffatori e, ancor più grave, sempre bene attenti a non toccare i poteri forti, come per esempio le banche e chi le rappresenta in cerchie istituzionali e politiche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica Regionale o Provinciale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antiracket non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di qualcuno. La capacità delle Associazioni, nel caso Antiracket, è legata alla loro competenza e al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire, e tutto senza fare politica. Il loro compito è informare forze dell’ordine, inquirenti, chi deve rappresentare in tribunale il denunciante, è assistere l’estorto, e perciò il denunciante, nella stesura degli atti. Quindi, l’associazione Antiracket inevitabilmente diventa soggetto informato dei fatti. Con ciò, e lo ripetiamo apertamente, le denunce le presentano le vittime, o presunte tali, e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allontanare a questo punto della vicenda, come avviene, purtroppo. Noi pensiamo che la vittima di sopraffazione e violenza non ha bisogno di pubblicità. Per questo noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo ci mettiamo la faccia, perché ogni forma di reato è e verrà sottoposta alle forze dell’ordine o direttamente alle Procure della Repubblica del territorio dove si è perpetrato il reato. E lo facciamo anche se in quest’ultimo periodo non mancano le lamentele di un ipotetico abbandono da parte dello Stato, e questo non bisogna ometterlo. Inoltre, Noi non siamo affiliati, associati, aggregati, seguaci, aderenti, fate un po’ voi giacché ce ne avete dette di tutti i colori e di più, a nessuno e quindi non riceviamo nulla da qualcuno e qualcosa. Né abbiamo un ritorno di immagine, né copertura delle spese. Del resto che volontariato è se poi si è finanziati e quindi diventa una professione? Il nostro grido va ai Media, a tutti quelli che informano e comunicano, ai quali diciamo di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche che catturano l’attenzione dei lettori, e non solo, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni Anti…. che vanno per la maggiore chi vengono pagate e chi votano e come mai aprono sportelli Antiracket in città. Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare; più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né tantomeno di mistificatori. L’abito non fa il monaco. Lo veste e lo accomuna a qualcosa. La legalità non va promossa solo nella forma, va coltivata anche nella sostanza. È sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di Ufficiali e giornalisti e il sornione atteggiamento degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica quella contemporanea, anche scomoda ai potenti di turno, e rapportandola al passato e proiettandola al futuro, non è cosa facile e umilmente affrontabile, in particolare per non reiterare vecchi errori. Il tutto perché la massa è indotta con solerzia dai poteri forti e loro seguaci a dimenticare o non conoscere. Questa è sociologia storica. Questo accade perché la maggior parte di noi cittadini non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso. In 16 mesi di attività intensa sul campo, Noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo potuto riscontrare un totale disinteresse da parte di chi avrebbe dovuto metterci il tappeto rosso sul nostro percorso. Ma abbiamo solo percepito invidie, timori e paure da parte di qualcuno “minacciato” nel veder minato un campo ormai monopolizzato e ben collaudato. No, non siamo esuberanti; i fatti ci danno ragione. E lo ripeteremo fino allo sfinimento quando diciamo che dopo sei mesi dal nostro insediamento in Capitanata ci sono giunte ben 135 notizie criminis: questi sono fatti di una battaglia civile in nome della legalità e non parole. Capitano Ultimo disse “Questa battaglia si perde solo se non si fa”. Notizie criminis giunte sia dalla provincia di Foggia, sia, e ne sono molte di più, da quelle campane, calabre, siciliane, terre molto più “calde” di questa e che hanno anche altre associazioni Antiracket che evidentemente sono “allineate” al modus operandi del FAI. Tuttavia, visti gli eventi criminali che si sono succeduti e ripetuti sul territorio, e nonostante la “venuta o scesa qualsivoglia definirla” della Commissione Parlamentare Antimafia, per tutta risposta nella stessa giornata venivano scarcerati boss di grido della criminalità locale. Questo per noi vuol dire prendersi gioco delle persone che combattono coi denti e con la vita determinati atteggiamenti sociali. Da qui, ed è amaro dirlo, nasce la rassegnazione di tanti operatori di polizia “avviliti” da tali atteggiamenti superficiali, spesso messi alla gogna quasi fosse colpa loro che le cose non cambiano. Noi non smetteremo mai di dire che le leggi in Italia ci sono e sono fatte anche molto bene, basta saperle far applicare ed avere il coraggio a costo della Poltrona, senza cavilli che inficino il buon funzionamento della giustizia. Una guerra la si combatte uniti. Pertanto, l’Associazione Antiracket Capitano Ultimo chiede a mezzo stampa, a tutte quelle realtà sul Territorio Nazionale e ci riferiamo ad Amministrazioni Comunali, Procure, Prefetture, Comandi Provinciali dei Carabinieri e Questure, Noi se interpellati, saremo ben lieti di dare il nostro contributo attivo sul campo per un’attività seria e concreta contro il fenomeno criminale; Noi daremo la massima disponibilità a patto che ci sia la reale voglia di cambiamento. Vede, Sua Eccellenza il Prefetto di Foggia dr.ssa Maria Tirone, capiamo la diffidenza che abbiamo suscitato, ma 13 mesi per chi l’ha preceduta e 6 mesi per lei sono tanti per non aver preso cognizione di quanto fatto sul territorio, perlomeno in termini di sostanza. Quantomeno poteva riceverci come da sua competenza. Non faccia come Sua (e non nostra) Eccellenza dr.ssa Maria Luisa Latella, allora Prefetto di Foggia, che ad una richiesta di audizione presso il suo ufficio, ci dirottò presso il Comando Provinciale dei Carabinieri. Noi avevamo chiesto un incontro con un organo di Governo sul territorio e non con un organo di Polizia Giudiziaria. A lei Prefetto Tirone è stato consegnato il nostro “Modello Antiracket e Anti Soprusi” e non ci ha fatto sapere nulla, neanche un no. Come siamo certi che da altre realtà associative che si definiscono Antiracket, non ha uno stralcio di modello fattivo sul campo, solo proposte “intavolate” innanzi a microfoni e telecamere. Noi da Umili fra gli Umili diciamo passi anche questa. Ci dispiace dirlo per non peccare di presunzione, ma il nostro nome è una garanzia alla Legalità che lei e chi prima di lei non ha saputo dargli dovuta attenzione. Noi ci siamo!!!

"PER IL NOSTRO PIANO O MODELLO TERRITORIALE DI FARE ANTIRACKET OCCORRONO ZERO EURO PER LA SUA REALIZZAZIONE. SI SIGNORI, ZERO EURO. " Nella Tan”O” dell’Antiracket – La Trilogia – (III). A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. "Alcuni, in certi territori italiani, dicono che in certe istituzioni ci sono le Lady di Ferro". “E…Marije dorm…!!!” Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. E in riferimento al Decreto del Ministero dell’Interno del 24 Ottobre 2007, n. 220, pubblicato in Gazzetta Ufficiale (GU n. 276 del 27-1 -20 7). Questa volta ci limitiamo ad un piccolo articolo, sperando di arrivare diritto al punto. Siamo giunti alla parte finale della trilogia dove, nostro malgrado, abbiamo espresso con la “verità di cronaca” che ci contraddistingue ciò che abbiamo da dire, da far conoscere, da rendere pubblico. Nonostante tutto ci teniamo a precisare che non siamo depositari della verità. Pertanto, siamo aperti ad ogni qualsivoglia smentita in merito. Come detto, nel miglior modo possibile, ci siamo limitati nel far comprendere a tutti voi il mondo ovattato che le persone “importanti” vogliono farvi credere nell’azione di contrasto al malaffare. In realtà quelle azioni non fanno un bel niente e non sono così rischiose da fa saltare le loro poltrone dorate. Noi abbiamo presentato il nostro modo di fare antiracket ovunque ci siamo rapportati e a persone cosiddette “importanti”, individui che ricoprono cariche funzionali, di Governo, Comunali e Ministeriali, sia nel circondario della Capitanata e da qualche tempo anche oltre il distretto foggiano. Lo abbiamo con umiltà, in prima persona, ponendo in primo luogo la mission del “nostro fare” associazione. Vedete -per chi non ancora l’avesse compreso- il nostro programma ha alla base il sociale, l’aiuto reciproco nel supportare una vittima di un sopruso, ha nel proprio pacchetto la salvaguardia e la sicurezza di chi per ragioni di estorsione ed usura varca la soglia di una caserma per denunciare il suo aguzzino, ha nel proprio fagotto la sicurezza di ogni cittadino, oltre la creazione di posti di lavoro. Ve lo abbiamo detto in tutti i modi, in tutte le salse –se preferite comparare le parole al cibo, sempre ben apprezzato nei salotti dove i tavoli sono utilizzati convivialmente piuttosto che per decidere-. Il Modello Antiracket e Anti Soprusi che utilizziamo lo abbiamo creato e partorito Noi dell’Associazione Onlus Antiracket Capitano Ultimo. Lo hanno fatto, per dirlo in parole povere, dei perfetti sconosciuti e quindi incapaci di avere quella lungimiranza intellettuale che solo i “Grandi” possono avere. Sconosciuti che conoscono il mondo malavitoso perché lo contrastano da anni, sconosciuti che indossano divise, sconosciuti civili volenterosi e addestrati a tal fine, sconosciuti forensi, sconosciuti psicologi, sconosciuti agenti governativi. Pur non ricevendo risposte da Voi, gente delle locali istituzioni, noi una risposta ce la siamo data: se il nostro piano o modello –scegliete voi la forma migliore- di sicurezza avesse preso piede, le Associazioni “supposte” d’Élite, come avrebbero giustificato anni e anni di contributi Statali ed Europei elargiti a loro favore per non aver fatto nulla di concreto alla lotta contro i soprusi e la criminalità in genere e soprattutto alle estorsioni? Un dato è certo ed è sotto gli occhi di tutti e, da qualche tempo, nelle riflessioni si sindaci eletti in liste civiche piuttosto che nei partiti politici: chi ha avuto tanto dalle amministrazioni pubbliche, soldi e strutture in primis, ad oggi non ha fatto nulla, e quel poco che è riuscito a fare non è servito a risolvere il problema e neanche ad arginarlo. Come è anche vero che mai nessuno di questi luminari ha partorito (con i fondi ricevuti) un sistema di protezione individuale di chi denuncia una estorsione. Le carte parlano, basta consultarle. Da articoli di giornali di stampa campana, e nello specifico partenopea, nel “Il Fatto Quotidiano” e precisamente nell’articolo “Associazioni Antiracket i conti non tornano”, si evince chiaramente che la Corte dei Conti di Napoli ha indagato un’associazione Nazionale, cosiddetta d’élite, per aver mal distribuito ai loro associati un importo di circa 3,5 milioni di euro. Per farla breve, le associazioni che facevano e fanno capo a quella d’élite non sono state trattate tutte nello stesso modo, differenziandole in quelle di serie A e quelle di serie B. Ovviamente questa disparità ha generato nelle piccole associazioni un malcontento che ha portato alla denuncia dell’Associazione “Madre”. Ma il dato che salta agli occhi – ed è un bel flash…- è l’importo di 3,5 milioni di euro che questi hanno ricevuto, soldi che non hanno sortito azioni, soldi per non fare nulla. Se vi diciamo che noi con la metà di un quarto di quella cifra avremmo potuto far tanto; la dimostrazione sta nel nostro modello di fare antiracket. Ciononostante, per fortuna per alcuni ma anche malauguratamente per taluni, chi pone il visto per queste iniziative di sicurezza sono i Prefetti, i quali si susseguono. Lo fanno nelle poltrone, e dove arrivano trovano i galoppini del posto che li ragguagliano su chi evitare, perché rompi scatole, e su chi ascoltare, perché amico dell’amico. Un circolo (anche un circo…) vizioso o virtuoso – secondo i punti di vista…- ben visibile poiché chi siede a quei tavoli cosiddetti tecnici su sicurezza e legalità, e ci chiediamo con quale diritto ci si arroga di questo privilegio, son le stesse persone che intrecciano rapporti amicali più che amichevoli, come a far comprendere che il rapporto è più stretto, pur essendo i due termini sinonimi di entrambe. Per quanto ci riguarda siamo orgogliosi di essere premiati in altri contesti territoriali, come nel casertano, dove abbiamo ricevuto un riconoscimento sulla legalità. Siamo fieri che in Sicilia, ed esattamente nella città di Messina, la Confcommercio addivenendo a un protocollo d’intesa con Noi, ci ha dato disponibilità di aprire un nostro ufficio all’interno della struttura. Siamo soddisfatti che a Bagnara Calabra, in Calabria, presto apriremo un’altra sede della nostra Associazione. Mentre ci fa specie che il Nostro territorio, quello della Capitanata, di noi se ne “fotte” altamente, mentre gli altri ci accolgono come innovatori di un sistema di fare antiracket risultato negli anni inerme, amorfo, in parole povere, morto. Di tutto questo siamo rammaricati, delusi e nel contempo consapevoli che altri poteri coprono quelli dediti alla libertà di scelta. Scusate se abbiamo usato il termine “fotte”, “scusate il francesismo”, ma il termine è appropriato per la gente cui recapitiamo il messaggio. Ma, scusate, per ottenere un incontro con Prefetto c’è bisogno che a Foggia in via Giuseppe Garibaldi 56 qualcuno faccia rumore, perché Marije dorm? Eppure la cura che doveva somministrare alocale, rimanendo in tema con la sua omonima provincia di Foggia non era debilitante, ma dimagrante per la mala. Alcuni, in certi territori italiani, dicono che in certe istituzioni ci sono le Lady di Ferro. Sono fortunati giacché nel nostro, come ci risulta, due lady ci sono state e che più della latta non hanno. Impressioni…? Mah…. Con questo articolo, se non lo specifichiamo, possiamo indurre qualcuno a capire che noi ci lamentiamo perché non abbiamo ricevuto alcun fondo statale. Non è così e lo ribadiamo pubblicamente e a gran voce. Noi precisiamo che per il nostro piano o modello territoriale di fare antiracket occorrono ZERO euro per la sua realizzazione. Si signori, ZERO euro. Allora capite perché a qualcuno stiamo sulle palle? Perché non siamo come Loro, noi i soldi non li vogliamo. Ri-scusate il “francesismo”, ma la chiarezza, spesso, ha bisogno di termini comprensibili da chi ci snobba. Noi ci siamo!!!

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei beni confiscati. Il suo presidente è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente, tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali  e i misteri italiani, senza peli sulla lingua.

L’associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.

200 mila euro. In favore della Cooperativa “Terre di Puglia – Libera Terra” (100 mila euro) e dell’Associazione Libera di don Luigi Ciotti (100 mila euro).

La cooperativa denominata «Terre di Puglia – Libera Terra» è formata da giovani pugliesi e si occupa della gestione dei terreni agricoli e degli altri beni confiscati alla Sacra Corona Unita. Attualmente, in partenariato con la Prefettura e la Provincia di Brindisi, con l’Associazione Libera ed Italia Lavoro Spa, gestisce un progetto che prevede l’impiego a fini agricoli dei terreni confiscati alle mafie nella provincia di Brindisi, nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico.

L’Associazione Libera di don Luigi Ciotti in Puglia sosterrà il progetto MOMArt (Motore Meridiano delle Arti), che prevede la trasformazione di una ex discoteca di Adelfia (Ba), centrale di spaccio e illegalità, in un luogo generatore di sviluppo sociale e civile per i giovani pugliesi. Per il raggiungimento di questo obiettivo la Giunta il 15 luglio 2008 ha approvato un protocollo d’intesa tra Regione Puglia, Tribunale di Bari, Commissario governativo per i beni confiscati e Associazione Libera.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie denuncia una palese ingiustizia e discriminazione politica che viene perpetrata da parte della Giunta della Regione Puglia guidata da Nicola Vendola e dal suo assessore competente Loredana Capone.

«Sin dal 27 settembre 2008, avendone titolo anche in virtù di una verifica della Guardia di Finanza che ne attesta la reale attività, il sodalizio nazionale riconosciuto dal Ministero dell’Interno ha chiesto l’iscrizione all’Albo Regionale delle associazioni antiracket ed antiusura – dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie -. La risposta che è stata data è che l’Albo non è stato ancora costituito, nonostante in pompa magna si sia dato risalto della sua emanazione per legge. Intanto però la Giunta Vendola si prodiga a finanziare ed a promuovere “Libera” e le sue associate in ogni modo, pur non essendo iscritta all’albo non ancora costituito. Ciò che dico è confermato dalle varie determine di finanziamento delle varie convenzioni e così come appare su “Striscia La Notizia”del 18 novembre 2011. In occasione del servizio di Fabio e Mingo in tema di favoritismi e privilegi l’assessore alle risorse umane, Maria Campese, pur non essendo competente sulla materia della mafia, in bella vista presso i suoi uffici sfoggiava un muro tappezzato di manifesti di “Libera”, da cui si palesava la scritta “I beni confiscati sono Cosa Nostra”.

Spero che questa ipocrisia antimafia cessi e la Giunta Vendola sia meno partigiana, perché oltre a discriminarle, perché non sono comuniste, nuoce a quelle associazioni che si battono veramente contro le mafie. Spero che sia dato dovuto risalto alla denuncia, in quanto abbiamo bisogno del sostegno istituzionale per poter continuare a svolgere la nostra attività.»  

In un'intervista a Magazine del Corriere della Sera, si rivela che non c'erano motivi perchè a Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, Mondadori editore, venisse assegnata la scorta. Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli, è un poliziotto con gli “attributi” che ha ottenuto l'importante incarico all'età di 40 anni; rischia la pelle tutti i giorni e, persona seria in questo mondo di quaquaraquà e opportunisti. Intervistato da Vittorio Zincone ha detto le cose come stanno: “Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni”.

Da notare che Pisani non è il solo uomo d'azione in prima fila contro la criminalità organizzata ad esprimere perplessità sulla figura di Saviano. Ricordiamo il "precedente" del prefetto di Parma, Paolo Scarpis, già questore con al suo attivo importanti successi contro le mafie italiane e internazionali, che aveva liquidato come "sparate" certe uscite del giornalista napoletano.

All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo, schierando persino cani anti-bomba; eppure, rivela Pisani, “a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta”. In cosa consistevano le pretese minacce subite dal giornalista campano? Si parla di volantini e scritte sui muri: armamentario da studentelli, tutte cose che hanno ben poco a che fare con il modus operandi dei camorristi. Si arriva così al “fiore all'occhiello” di Saviano, il presunto attentato con autobomba che avrebbe dovuto consacrarlo come uomo da abbattere, proiettandolo nell'olimpo dei Falcone e Borsellino: una chiacchiera presa subito per buona, che venne completamente smontata dalle indagini rivelandosi una clamorosa bufala, tuttavia strombazzata ai quattro venti e senza alcun rigore dalla grancassa dell'informazione-spettacolo di sinistra.

D'altro canto, gli scritti del giornalista napoletano non tolgono certo il sonno alla criminalità organizzata, al punto che il film prontamente tratto da Gomorra viene clonato tale e quale dai camorristi e venduto nei circuiti della contraffazione. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica, negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna con il Times. Intanto continua a lamentarsi dell'opprimente presenza di autista e guardaspalle (un benefit per cui tanti vip fanno carte false) piangendo sul conto in banca che giganteggia.

Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose, toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il porto d’armi ?

Il pm "arresta" don Ciotti. "Libera? Partito pericoloso". La toga anticamorra Maresca su "Panorama" accusa: "Gestisce i beni mafiosi con coop non affidabili". Il sacerdote: "Fango, quereliamo", scrive Mariateresa Conti, Giovedì 14/01/2016, su "Il Giornale". In principio, a fine estate, è stato il caso Ostia, lo scontro con i grillini che li hanno accusati di essere come le coop poi finite in Mafia Capitale nella gestione dei lidi, altro che garanzia di trasparenza e legalità. Quindi, ai primi di dicembre, c'è stato lo strappo più doloroso, quello con Franco La Torre, il figlio di quel Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982 e padre della legge che inventò il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni ai boss. Un addio al vetriolo al consiglio di presidenza, quello di La Torre, che ha accusato il leader e padre di Libera, don Luigi Ciotti, di essere «autoritario e paternalistico». Ma ora l'attacco all'associazione contro le mafie che raccoglie oltre 1500 associazioni di vario genere sotto lo scudo della legalità è se possibile ancora più pesante. Perché a muoverlo è un magistrato. Un giovane pm anticamorra come Catello Maresca, che in un'intervista a Panorama in edicola oggi lancia l'affondo: «Libera dice è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anti-concorrenziale. Personalmente, sono contrario alla sua gestione, la ritengo pericolosa». Parole pesantissime cui don Ciotti, ieri in commissione Antimafia proprio per rispondere ai veleni sulla gestione dei beni sequestrati, replica furibondo annunciando querela. Brutta aria per la creatura di don Ciotti, nata 20 anni fa sulla scia dello sdegno per le stragi del '92 e del '93. Maresca, 43 anni, non è un pm qualunque. A dispetto dell'età è uno dei magistrati di punta dell'antimafia napoletana e vanta una lunga esperienza in prima linea, costatagli anche minacce personali: è lui che ha inchiodato latitanti del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine; è lui che in aula, durante un processo, si è visto apostrofare da un killer dei boss con minacce pesanti all'indirizzo della sua famiglia; è ancora lui che a Ferragosto del 2013 ha subito in casa un raid di strani ladri, che hanno rubato foto con i suoi familiari. Ecco perché l'attacco frontale a Libera di questo pm è più incisivo degli altri: «Libera - dice Maresca a Panorama - gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Per combattere la mafia è necessario smascherare gli estremisti dell'antimafia, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo, insomma l'estremismo dei settaristi, e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che si deve fare sempre così». Un siluro. Cui don Ciotti risponde a muso duro: «Noi questo signore - tuona - lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza. Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti». Don Ciotti davanti all'Antimafia si è difeso a spada tratta: «Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono. Tanto fango fa il gioco dei mafiosi. Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna». Con don Ciotti si schiera la presidente Bindi che parla di dichiarazioni «offensive» del pm: «Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse gratuite e infondate».

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su "L'Inkiesta". I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia». Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia. Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

L’associazione antimafia “Libera” è troppo legata alla politica, scrive Antonio Amorosi, Domenica, 15 luglio 2012, su "Affari Italiani". Suona un campanello di allarme oggi in Italia se si parla di antimafia, alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio (l’assassinio del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta): l’antimafia rischia di diventare un mezzo per le forze politiche? Il caso riguarda l’esponente antimafia Christian Abbondanza noto per il suo impegno contro le cosche ma anche per numerose frizioni con l’associazione nazionale “Libera” e che pubblica sul suo sito, La Casa della Legalità, un attacco molto duro all’associazione presieduta da don Ciotti. Christian è sotto protezione e già vittima di un boicottaggio anni fa a Bologna, si ritrova prima come esperto antimafia a cui si rivolge un sindaco Pd di un comune ligure (Sarzana) per valutare a chi assegnare un'onorificenza, e poi, pianificato l’evento sotto sue indicazioni, escluso dall’appuntamento e con l’associazione “Libera” in cartellone.

Che è successo Abbondanza?

«Mi contatta il Sindaco di Sarzana, mi chiede se posso essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata un'onorificenza antimafia. Mi chiede a chi secondo me va assegnata. Accolgono la mia proposta. Mi contatta la sua segreteria per avere conferma dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli do conferma. Mi arriva l'invito. Non ci sono. C'è “Libera”».

E che significa? Non ci vedo niente di scandaloso alla fin fine…

«No. E’ da un po’ di tempo che accade. Perché ho posto l’accento su alcune incongruenze come questa che vi dico.  A Casal di Principe il sindaco e l'assessore distribuivano con “Libera” targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati arrestati poco dopo perché collusi con i Casalesi... “Libera” li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolata a Don Peppe Diana.  Oppure ne dico un’altra. “Libera”, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta anche dei finanziamenti che dà a Libera. Ma nei cantieri della Unieco troviamo società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco. Questa cooperativa finanzia “Libera” per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso!? Quando lo fai notare nasce un problema con “Libera”».

Non sono solo casi isolati!? Libera è un’associazione grandissima per dimensioni…

«Non credo. Ci sono tantissime altre contraddizioni della stessa natura da nord a sud. Molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che “Libera” sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è un po’ differente. Il quadro che ci viene presentato è utile a “Libera”, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma la realtà non è questa! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato con l’Associazione Casa della Legalità anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!»

Sentiamo a questo punto un altro attivista e scrittore, Francesco Saverio Alessio, calabrese che ha prodotto diversi scritti sulla ‘ndrangheta.

E’ vero che c’è un monopolio politico di “Libera” sul tema antimafia in Italia?

«Se parli del tema in modo obiettivo, senza far riferimento né a destra né a sinistra ti ritrovi emarginato. Parlo del problema “Libera” che ha forti legami col potere politico. E’ molto grande come associazione e non sempre chi sta dentro è così immune dagli interessi che la politica esprime. Ha un sorta di monopolio. Se vai in contrasto con i loro referenti politici non ti invitano più a niente e diventi invisibile anche se ricevi, come me, minacce».

Sentiamo allora l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta dopo le sue manifestazioni antimafia.

«A me non è mai successo di essere escluso come Christian ma mi capita spesso di vedere eventi antimafia che sorvolano sulle connessioni politica-mafia locali. E’ facile parlare di Falcone e Borsellino e non voler vedere la mafia sotto casa in Lombardia, in Piemonte, in Liguria ed Emilia Romagna. Non mi stupisce che persone come Christian diventino scomode perché fanno nomi e cognomi. Come diceva Peppino Impastato “c’è un solo modo per fare antimafia, rompere la minchia!” Molte volte in contesti ipernoti per presenze criminali c’è chi non fa questo anche se fa antimafia. Allora è palese che c’è qualcosa che non va».

Ai nostri microfoni anche Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo.

«Abbiamo avuto frizioni con “Libera” ma su questioni di democrazia. “Libera” nomina i suoi rappresentanti senza eleggerli. Quando facevo parte della Rivista mensile Narcomafie dell’arcipelago di “Libera” e scrivevo su Repubblica Palermo posi la questione di dirigenti dell’associazione destituiti dai propri incarichi senza alcuna discussione. Anche se ci conoscevamo da molti anni, Don Ciotti mi fece telefonare da una responsabile, tale Manuela, per comunicarmi che ero ufficialmente sospeso dall’associazione. Mi sono dimesso subito da Narcomafie. Un altro conflitto simile è sorto quando abbiamo posto critiche a un sindaco leghista della provincia di Bergamo che pretestuosamente aveva rimosso l’intitolazione di un biblioteca a Peppino Impastato. Ci siamo ritrovati isolati da tutto il mondo che gravita intorno a “Libera” perché Don Ciotti sosteneva che c’erano buoni rapporti con il Ministro degli Interni Roberto Maroni. Avevo un rapporto ottimo con lui prima che ponessi quelle questioni di democrazia. Ma non c’è la possibilità discutere in quell’ambiente. Si adottano prassi rigide e di parte come ho viso solo in ambienti tardo clericali o in partiti veterocomunisti».

La domanda allora è: l’antimafia rischia di diventare uno strumento per dividersi e fare politica? Un modo per vedere il crimine solo nell’avversario? Un rischio che corre anche l’Emilia Romagna dove il Dipartimento Investigativo Antimafia sostiene ci siano più attentati intimidatori che in Sicilia. Da quando l’Ente Regione eroga denaro per eventi antimafia si organizzano molti studi e momenti culturali sul fenomeno. Ma prima, quando questi fondi non esistevano, in Emilia non si poteva neanche parlare del fenomeno. Una coincidenza? Per le istituzioni in Emilia la mafia non esisteva o si diceva “era presente in modo marginale” quando invece ha profonde radici da decenni. La situazione diventa ancora più problematica quando nel mondo culturale antimafia emerge una sorta di monopolio su chi deve produrre attività. Di fatto il monopolio è di pertinenza dell’associazione “Libera” che esprime una forte capacità di azione sul territorio nazionale anche perché oltre all’attivismo di tanti militanti impegnati ha anche alle spalle grossi sponsor economici di area centrosinistra che in Emilia primeggiano. E “Libera” oltre a tante iniziative di sensibilizzazione ha sviluppato progetti e iniziative antimafia traducendoli in prodotti di consumo che possiamo trovare in vendita negli scaffali dei supermercati Coop, come la pasta, i biscotti, i vini, in un ciclo virtuoso in cui la farina “che darà la pasta” è ottenuta dai terreni confiscati alla mafia. Tutto questo è molto bello e da sostenere! Meno bello ma sempre di notevole rilevanza sono invece gli episodi di discriminazione e isolamento nei confronti di coloro che fanno attività antimafia fuori dalla copertura politica di sinistra (ma sarebbe valido anche se questo riguardasse la destra o il centro). L’evidenza dei fatti mostra che anche persone valorizzate da “Libera” si ritrovano poi implicate in fatti di crimine. Ora o l’antimafia è un problema importante che ci deve far andare fino in fondo alle questioni, senza titubanze, restando indipendenti dalla politica, oppure diventa principalmente uno strumento politico, visto che sentiamo politicamente più vicini alcuni soggetti invece di altri. Dopo queste interviste stiamo cercando di contattare il presidente di “Libera” don Ciotti per sentire cosa pensa delle questioni affrontate e capire quale sia la sua opinione e versione dei fatti.

Libera, arriva la scissione: se ne vanno quattro gruppi del Lazio. Nell’area tra la Capitale e Caserta gli attivisti ribelli alla resa dei conti: “Dissenso non più ammesso, addio”. Replica l’associazione di don Ciotti: “Realtà manipolata”, scrive Andrea Palladino il 23 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Era il 22 marzo 2014. L’appuntamento annuale di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti contro le mafie, sbarcava a Latina. Terra difficile, incastonata tra Caserta e Roma, asse dove tutte le mafie hanno trovato da decenni una seconda patria. Una città che tanti chiamano la “lavatrice” della capitale, il luogo giusto dove ripulire soldi e carriere per le mafie. Era un simbolo quella sfilata di migliaia di persone arrivate da tutta Italia, che sanciva il rilancio di Libera nel sud del Lazio, grazie al protagonismo di tantissimi volontari, in gran parte ragazzi. Oggi quella parabola sembra affievolirsi, diventando la coda di un momento di difficoltà dell’associazione fondata da don Ciotti, che – nel 2015 – si era giù trovata al centro di una dolorosa bufera, con l’addio di Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare comunista siciliano assassinato da Cosa nostra. I presidi di Latina, Cisterna, Anzio e Nettuno hanno ufficialmente lasciato la casa madre, aprendo un cammino autonomo, con la nuova sigla di Reti di giustizia. “In questo ultimo periodo i rapporti tra la dirigenza dell’associazione e gli iscritti di questi territori si sono profondamente deteriorati – si legge in un comunicato stampa firmato dai presidi che facevano riferimento a Libera nel sud del Lazio – a fronte di una linea di chiusura verso il nostro territorio non motivata e delegittimando il lavoro svolto da tutti noi”. Una scelta che viene definita “molto sofferta, perché continuiamo a riconoscerci in tutti i principi che Libera ha proposto e portato avanti dalla sua fondazione fino al passato recente”, spiegano i volontari. I gruppi – che riuniscono poco più di una sessantina di attivisti, ora usciti dall’associazione di don Ciotti – evitano lo scontro: “Non vogliamo fare polemiche – spiega Fabrizio Marras, già referente per il Lazio di Libera e ora in prima fila con il gruppo di fuoriusciti – non siamo antagonisti o in contrapposizione. Preferiamo non commentare in questo momento, continueremo la nostra attività antimafia sul territorio”. Più chiaro e diretto è il documento che è stato diffuso martedì sera: “La centralizzazione autoritaria delle decisioni, l’incapacità di riconoscere gli errori, il permettere alla dicotomia fedele/infedele (e infedele è chi non la pensa come l’Ufficio di presidenza o osa porre problemi o obiezioni) di predominare dentro l’associazione, il ricondurre tutti i problemi che nascono ad aspetti personali e non politici, nascondendo il tutto dietro un generico e velleitario ‘va tutto bene’ o un altrettanto generico vogliamoci bene generalizzato, sono alcuni dei sintomi di questa deriva dell’associazione”. Nell’area del sud pontino i volontari delle città di Formia e Gaeta – luoghi con alta densità mafiosa – hanno deciso di rimanere all’interno dell’associazione di don Ciotti, mantenendo così la presenza, almeno parziale, di Libera nella provincia. “Ancora una volta siamo davanti alla manipolazione della verità – spiega in un comunicato Libera, replicando al documento dei presidi che hanno abbandonato l’associazione – Una verità che deve essere ripristinata per il rispetto delle tante realtà associative, dei tanti giovani e volontari che compongono e fanno Libera ogni giorno nel paese”. L’associazione di don Ciotti assicura di non aver mai allentato “in questi anni l’attenzione al territorio della provincia di Latina e continuerà a farlo con determinazione e responsabilità garantendo sempre il supporto alle realtà sociali impegnate” assicurando di voler mantenere in ogni caso una presenza nell’area a sud di Roma.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

Aziende e amministratori giudiziari, in attesa di una querela facciamo qualche domanda alla D.I.A., scrive Pino Maniaci su "TeleJato". “Io lo posso dire aboliamo la Dia”, dice Gratteri criticando il soprannumero di dirigenti, uffici e segreterie, mentre gli stessi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Sono queste le proposte che avrebbe fatto se fosse arrivato al dicastero della giustizia. “Nessuno ha il coraggio di farlo, i politici mi chiamano e mi dicono: ‘Se lo facciamo ci danno dei mafiosi’. Allora lo dico io. Non possiamo pensare che non si possa chiudere un tribunale inutile. Non possiamo lasciare il 35 per cento di magistrati in più alla procura di Palermo. O si ha il coraggio di mandare a regime il ministero della giustizia oppure non cambierà mai nulla. . Non possiamo sperperare le energie”. La critica è diretta soprattutto agli interventi poco incisivi del passato: “Io sono d’accordo anche nel fare tagli, ma negli ultimi governi sono stati fatti solo quelli lineari del 5 per cento. Oggi guida la commissione che deve redigere norme e procedure per combattere la criminalità organizzata e annuncia le proposte che verranno fatte nei prossimi mesi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Ma vogliamo risparmiare davvero? Allora chiudiamo la Dia (Direzione investigativa antimafia). Parlo io: risparmiamo in dirigenti e segreterie e affitti e facciamoli tornare sul territorio. Aboliamo il Dap: sapete quanto guadagna un dirigente? 20mila euro”. Ed è proprio lì che, secondo Gratteri, bisogna intervenire. Queste le parole di Gratteri cioè di un magistrato in prima linea che fa’ i conti dello sperpero di ingenti capitali tra forze di polizia in surplus, che non servono a nulla se non a vivere di immagine di comunicati stampa e sparare minchiate di numeri nei vari sequestri di ingenti capitali; ma anche per far si che amministratori giudiziari e periti vengono pagati con le cifre fittizie dei lanci di agenzie. Partendo da questo presupposto vogliamo parlare di quello che succede nel nostro territorio, avendo sempre il coraggio di assumerci le responsabilità e sperando in una querela che finalmente apra uno squarcio di verità su quello che è diventato il business dell’antimafia fittizia e parolaia, buona per fare affari sulle spalle di mafiosi ma anche di cittadini onesti, sperperando e rubando soldi alla comunità tutta. Abbiamo parlato di giudici e amministratori giudiziari voraci, ladri che commettono illegalità diffuse che vengono denunciate agli organi competenti che per convenienza (e vorremmo capire che tipo di convenienza o connivenza) non danno seguito alle segnalazioni fatte da cittadini inermi di fronte a tribunali blindati, che non rispondono nemmeno alle domande di giornalisti che non sono leccaculo. Partiamo dal fatto e ci rivolgiamo alla Dia e speriamo che abbia il coraggio di risponderci, anche se fosse il caso con un mandato di cattura. La nostra Italia o ha investigatori che sanno lavorare o come viene molto spesso fuori dalle notizie di cronaca si prestano a fiancheggiare tribunali dove si trovano magistrati; e non siamo solo noi a dire che sono delle mele marce a cui piace visibilità e i “picciuli”. Prima domanda: oggi con i mezzi a disposizione quanto ci vuole a risalire ad una transazione di denaro? Con la tracciabilità e i potenti mezzi che disponete, perché prima sequestrate un’azienda e poi cercate di capire di chi è la proprietà? Prestate il fianco a far mangiare e arricchire amministratori giudiziari e loro collaboratori, che sono figli di magistrati, di cancellieri e cosi via? C’è un’organizzazione parallela che si spaccia per antimafia e che invece fa’ affari alla stessa maniera dei mafiosi? È questa l’Italia della legalità, della giustizia, della legge uguale per tutti? C’è da ridere se si va’ a sequestrare un impianto di carburante che un onesto cittadino ha comprato ben 16 anni fa’ in maniera regolare, e avete pure il coraggio di farvi consegnare i soldi che ha in tasca continuando a ridergli in faccia. Costate 70 milioni di euro al mese per pagare super stipendi a chi non sa’ nemmeno fare un’indagine seria? Allora chiudiamo la Dia anche perché non sa lavorare; inoltre, ci sono troppe forze di polizia superflue ed inutili che vivono solo di immagine di lanci di agenzie e di sperpero di denaro pubblico. Cara Dia, perché non indagate come un’ amministratore giudiziario possa guadagnare più di sette milioni di euro l’anno? Di chi è amico? Chi lo sostiene? Chi lo foraggia? Chi ci lavora dietro? E quante illegalità ha commesso, tanto da rischiare il giudizio per truffa aggravata e rimanere ancora in carica? Un rappresentante dello Stato deve aspettare eventualmente i tre gradi di giudizio? O per etica morale e dignità di un tribunale deve essere cacciato a pedate in culo? Perché le nomine come amministratori coadiuvatori etc etc vengono fatte anche a figli di cancellieri del tribunale come Grimaldi o come Cannarozzo, sempre gli stessi e sempre olio per tutte le insalate? Perché c’è un’ albo di 4000 pretendenti amministratori, ma vengono nominati sempre i soliti dieci? Sono bravi? Gli piacciono i picciuili? E sempre gli stessi portano al fallimento le aziende sequestrate. C’è pure chi se li vende o rimane all’interno dopo la confisca come amministratore dell’azienda? E l’albo nazionale previsto per legge è un’ optional? Perché sparate sempre cifre iperboliche non conformi alla realtà dei beni sequestrati? Usate i parametri catastali, o il valore di mercato che vi inventate? E sapete poi che i periti vengono pagati sulle cifre da voi esposte? Credo che di materiale per denunciarmi, arrestarmi o investigare, se decidete di fare le cose seriamente ce ne sia abbastanza; ma le nostre domande non finiscono qui: ne abbiamo anche di riserva, insieme alle carte e alle prove che vorremmo sottoporre alla vostra attenzione. Noi speriamo che la sezione misure di prevenzione di Palermo e gli ingenti capitali che amministra siano oggetto di attenzione da parte dei ministeri e della politica di competenza, perché la legge, così com’è, troppo allegra e troppo fantasiosa, colpisce i mafiosi; e lì saremo sempre al vostro fianco, ma colpisce anche le persone per bene. E come una volta mi ha detto un magistrato in prima linea della procura di Palermo, noi i beni prima li sequestriamo e poi vediamo di chi sono non funziona, non funziona, funziona solo per fare arricchire altri manciatari che rappresentano lo stato. Per chiudere, Gratteri è un pazzo? Il prefetto Caruso è un pazzo? Noi pensiamo di no, ma pensiamo invece che la Dia lavori male molto male. Siamo pronti come abbiamo già fatto al tribunale di Caltanissetta e in commissione nazionale antimafia ad essere uditi . Aspettiamo risposte.

Proprio mentre si sta facendo luce sul malaffare che ruota attorno al Tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione (vedi i servizi delle Iene e di Telejato, Marco Salfi), proprio quando viene fuori il coinvolgimento della Saguto nell'affidamento fin troppo allegro degli incarichi a pochi amministratori giudiziari, esce fuori la notizia che la mafia, non si sa come, vorrebbe uccidere la Saguto.

La mafia vuole uccidere la Saguto. È il giudice che sequestra i beni, scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Allarme attentato. Una nota dei Servizi segreti mette in guardia il presidente che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Uno "scambio di favori" fra clan gelesi e palermitani. A rischio ci sarebbe anche un altro magistrato. Potenziate le misure di sicurezza. Le notizie sono tanto frammentarie quanto inquietanti: la mafia vuole uccidere Silvana Saguto, il giudice che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Come se non bastasse, c'è un altro dato che rende lo scenario ancora più preoccupante: per eliminare il magistrato, che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani. Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato. Indiscrezioni vogliono che si tratti di Renato Di Natale, oggi procuratore capo di Agrigento, ma in passato a Caltanissetta dove ha coordinato le inchieste che hanno decimato il clan Emmanuello. C'era Di Natale alla testa dei pm che davano la caccia a Daniele Emmanuello. La latitanza del capomafia finì nel sangue, morto nel 2007 nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia in provincia di Enna. Con i suoi fratelli aveva organizzato uno dei clan più potenti della Sicilia sud-orientale, in grado di dialogare con i boss di Palermo. L'allarme è suonato per la prima volta l'anno scorso, ma due mesi fa è stata una nota dei Servizi segreti a fare scattare il piano di sicurezza straordinario per la Saguto. Per proteggere il giudice sono arrivati più uomini di scorta, le è stata assegnata una nuova macchina, messa a disposizione dal ministero dell'Interno, con il livello massimo di blindatura, e l'esercito vigila sotto la sua abitazione. Il progetto di morte - si parla di un attentato le cui modalità restano top secret - ad opera del clan gelese sarebbe stato sventato mesi fa grazie ad alcuni arresti. Ed era un progetto già entrato nella fase operativa, visto che gli esecutori avevano eseguito dei sopralluoghi in città. La nota dell'intelligence, però, avrebbe proiettato nel presente il rischio attentato, probabilmente alla luce di alcune conversazioni captate dalle microspie. Le stangate patrimoniali hanno messo a rischio la stessa sopravvivenza di alcuni clan palermitani. Perché decidere di affidarsi agli uomini al soldo degli Emmanuello? Forse a Palermo non era stata trovata l'intesa tra i boss su chi dovesse entrare in azione o forse sapevano di essere sotto osservazione. Avrebbero così preferito affidarsi a killer che, venendo da fuori città, avrebbero destato meno sospetti. Ma quale famiglia mafiosa palermitana voleva eliminare il giudice? Impossibile fare delle ipotesi, visto che i sequestri delle Misure di prevenzione hanno colpito a tappeto tutti i mandamenti mafiosi. Troppi interessi economici - dalle piccole attività alle grandi imprese - sono stati intaccati della sezione Misure di prevenzione. Senza soldi la mafia non è più in grado di garantire assistenza alle famiglie dei detenuti, pagare gli stipendi dei picciotti, assoldare nuove leve. Insomma senza soldi, Cosa nostra non può né rinnovarsi, né garantire quella catena di mutuo soccorso e assistenza che ne rappresenta il punto di forza. Da quando c'è la Saguto alla guida della sezione del Tribunale, sono stati oltre 400 i provvedimenti avviati. Molti su input della Procura ma tantissimi su iniziativa degli stessi giudici. Sono saltate le connivenze, molto spesso le cointeressenze, fra pezzi dell'imprenditoria e le famiglie mafiose. Un lavoro scomodo che qualcuno vorrebbe spegnere con un gesto eclatante.

Questa mafia bifronte. I patrimoni di Cosa Nostra. I beni tolti ai boss, aumenta il numero dei gestori di tesori immensi, scrive Leopoldo Gargano su "Il Giornale di Sicilia". Ha iniziato la sua carriera facendo da uditore giudiziario con Giovanni Falcone e adesso ha 34 anni di sequestri e confische antimafia alle spalle. Una vita spesa a togliere denaro ai boss ed ai loro complici, quella di Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale. Proprio come sosteneva Falcone, che della lotta ai patrimoni mafiosi aveva fatto un punto fermo del suo lavoro. «Follow the money», diceva il giudice ucciso a Capaci, frase abusatissima ma sostanzialmente vera. Bisogna seguire il denaro per scoprire i misteri di Cosa nostra e dopo averlo seguito, possibilmente bisogna toglierlo alla mafia e restituirlo ai cittadini. E in questi anni di beni e denari, strappati ai mafiosi ce ne sono stati tanti. Dall' ottobre 2010 ad oggi, questo il periodo della gestione Saguto dell'ufficio, sono stati avviati 451 nuovi procedimenti patrimoniali e ne sono stati definiti 401. Ancora pendenti, dunque in attesa di confisca definitiva o di restituzione, ne risultano 257. La stima sui milioni di euro bloccati, tra immobili, aziende, terreni e conti correnti, è molto più difficile. Il valore dei beni sequestrati varia da personaggio a personaggio, impossibile fare una media. Ma per capire di che cifre parliamo, basta citare i due sequestri più grossi degli ultimi mesi. Quello ai danni degli eredi Rappa, un colpo da 800 milioni di euro, e il provvedimento a carico del ragioniere di Villabate Giuseppe Acanto, ex deputato Biancofiore all' Ars e collaboratore del mago dei soldi Giovanni Sucato, a cui è stato bloccato un tesoro da 750 milioni di euro. Ma chi amministra questo enorme patrimonio che da solo potrebbe fruttare quanto una legge finanziaria dello Stato? È uno dei punti di maggior criticità, secondo il punto di vista di alcuni osservatori. Troppo denaro, troppe aziende concentrate nelle mani di pochi professionisti superfortunati che si spartiscono, praticamente senza reale concorrenza di mercato, una torta gigantesca. Il presidente Saguto preferisce non intervenire sulla questione, sostiene di non volere in alcun modo alimentare polemiche. Ma i suoi uffici comunicano un dato. In quattro anni e mezzo, sono stati nominati poco più di cento nuovi amministratori giudiziari, che mai in passato avevano lavorato con la sezione. Una media di 25 ogni anno. Facendo un po' di conti dunque, ognuno gestisce non più di quattro procedimenti. E nuove nomine sono state fatte pochi giorni fa, giovani commercialisti e avvocati che hanno iniziato la carriera di amministratori di patrimoni considerati «sporchi», fino a prova contraria. E poi c'è la questione delle questioni. Le aziende sequestrate sono destinate a chiudere in poco tempo, il loro destino è il fallimento. Questa l'obiezione ripetuta un po' ovunque, lo slogan letto sui cartelli portati in piazza da operai licenziati. È così? Dagli stessi uffici al piano terra del nuovo tribunale, viene fornito un dato. Ovvero un numero: l'1. C'è una sola azienda che ha chiuso i battenti per fallimento. Ed è la sala Bingo Las Vegas di viale Regione Siciliana, un tempo gestito dal clan di Nino Rotolo. Lo Stato si era trasformato in croupier ma ha avuto scarsa fortuna e la società è naufragata. Ma non è finita qui. Perché proprio il mese scorso è stato ceduto il ramo di azienda e l' attività è stata rilevata da un imprenditore che riaprirà la sala, riassumendo parte dei vecchi dipendenti. Alcuni erano stati rimossi perché considerati troppo vicini ai vecchi titolari mafiosi. Le aziende in difficoltà sono invece tante, causa anche la crisi che ha devastato la già gracile economia siciliana, ma inutile nascondere che non è solo questo. Quando comanda il boss, spesso i fornitori sono molto più morbidi, gli impiegati sono in nero e costano di meno e la concorrenza fa un passo indietro. Per legge però i debiti fatti sotto amministrazione giudiziaria sono garantiti dall' Erario, mentre per quelli accumulati in precedenza, e dunque da saldare, c' è il disegno di legge presentato da Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia, che dovrebbe essere risolutivo. Inutile usare eufemismi. Quando arrivano gli amministratori il discorso cambia. Intorno si crea una sorta di ostracismo, le banche sono propense a chiudere i conti ed i clienti fuggono. Come nel caso del ragioniere Acanto. Gestiva la contabilità di circa 400 aziende, 390 delle quali dopo il sequestro si sono volatilizzate in meno di una settimana. Ma gli sono rimaste fedeli. Il ragioniere ha aperto un nuovo studio e tutte le imprese sono tornate da lui.

La signora Saguto in una intervista al Giornale di Sicilia replica alle accuse sulla sua gestione: tutto falso, scrive Telejato. Siamo al botta e risposta. Ma non in un dibattito a viso aperto, in un procedimento giudiziario per diffamazione, nei riguardi della redazione di Telejato, che potrebbe essere fatto senza problemi, poiché la magistratura e i suoi componenti hanno in mano tutti gli strumenti per inquisire, giudicare, condannare. Un procedimento giudiziario potrebbe portare alla luce tante cose che è preferibile tenere nascoste, che è meglio secretare per allontanare la presenza della stampa e delle telecamere. Il botta e risposta avviene in modo più sottile, proprio grazie alla possibilità di poter disporre in qualsiasi momento di giornalisti compiacenti, di porgitori di microfono, di cantori d’ufficio delle opere, delle meraviglie e del grande contributo nella lotta contro la mafia che una singola persona è stata capace di portare avanti nella conduzione dell’ufficio misure di prevenzione di Palermo. E così, dopo i due servizi delle Iene sul comportamento e sull’operato disastroso degli amministratori giudiziari di Palermo, sui fallimenti del 90% delle imprese sequestrate, sul cumulo impressionante di cariche e nomine nelle mani di pochi amministratori giudiziari, ecco che la regina di cui parliamo, la dott.ssa Saguto, per mostrare che si tratta solo di fumo e di notizie sbagliate, alza il telefono, chiama un giornalista del solito Giornale di Sicilia, questa volta si tratta di Leopoldo Gargano, e si fa fare un’intervista nella quale dichiara che nei suoi 34 anni di servizio ha avviato 451 sequestri, che di questi 275 sono in attesa di confisca definitiva, che non è vero che gli amministratori sono sempre gli stessi, ma che sono più di cento i “quotini”, pardon, gli amministratori giudiziari nominati, alcuni dei quali di nuovissima nomina, che non è vero che i beni sequestrati sono amministrati male e falliscono, ma che ne è fallito uno solo , la sala Bingo Las Vegas di Nino Rotolo, dal momento che ai palermitani non piaceva che lo stato si fosse trasformato in croupier, ma che anche questa sala al più presto riaprirà. È vero, ci sono difficoltà c’è la crisi, il boss comandava con metodi non legali, le banche non fanno credito agli amministratori, i clienti fuggono, ma tutto si sistema piano piano. Quindi tranquilli, tutte menzogne di gente che non si rende conto di fare un favore alla mafia nel momento in cui se la prende con questa eroina e regina dell’antimafia, erede del messaggio di Falcone, che è quello di colpire la mafia nei suoi patrimoni. Non è il caso di dire che, a giudicare da quanto si dice attorno, sia la Commissione Antimafia, sia la stampa, sia gli stessi vertici giudiziari di Palermo e Caltanissetta stanno cercando di alzare il velo sui tanti misteri e sulle distorsioni e anomalie che ruotano attorno all’ufficio misure di prevenzione, evidenziando l’assoluta urgenza di nuove normative che regolino il complicato settore della gestione dei beni mafiosi. Staremo a vedere se tutto, come al solito non sarà archiviato. La Saguto, nella sua sapiente strategia di controllo del tutto, cerca di metterci una pezza, o, come diciamo in siciliano, di “mettersi u ferru arrieri a porta”. Da tempo denunciamo tutto ciò, ma da tempo il potere finge di non sentire e non vuole procedere: tutto va bene, abbiamo scherzato, tanti omaggi, dott.ssa Saguto, dio salvi la Regina.

I Quotini. Il Cerchio magico che ruota intorno agli amministratori giudiziari, tutti in quota, nella quota del loro re, cioè di colui che li fa lavorare..., scrive Salvo Vitale su "Telejato". Avere visto allo stadio di Palermo, in tribuna d’onore, la sig.ra Silvana Saguto, il sig. Cappellano Seminara e il sig. Aulo Giganti, ospiti di Zamparini, ha fatto suonare una serie di campanellini d’allarme. Che, malgrado il muro d’impenetrabilità che circonda l’argomento, hanno trovato qualche conferma. L’inghippo che sta sotto questo affare è grosso , tutti suggeriscono di “levarci mano”, tanto non si potrà cambiare, perché il sistema di potere che è stato organizzato attorno ai beni confiscati è capace di resistere a qualsiasi attacco. C’è chi dice che dietro ci sta la massoneria, si parla, senza poterlo dimostrare, di rapporti d’affari tra Cappellano Seminara e il marito della sig.ra Saguto, tal ingegnere Caramma, si dice che la convivente del figlio della Saguto, un’altra avvocatessa dal nome esotico, Donna Pantò, gestirebbe i beni delle aziende Rappa assieme a Walter Virga, figlio del magistrato Virga del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha archiviato un procedimento giudiziario nei confronti della Saguto. Queste e altre maldicenze non mettono in discussione un principio: esiste un cerchio magico tra i personaggi che abbiamo citato, tant’è che sono sempre gli stessi , gestiscono imperi economici e hanno trovato vitalizi, affari e ricchezze, senza che nessuno parli e denunci con chiarezza. Sono i nuovi padroni della città. Hanno scoperto come vivere parassitariamente alle spalle degli altri, secondo lo stesso schema e lo stesso principio usato dai mafiosi, sfruttando i proventi dell’accumulazione mafiosa, nel momento in cui questa ha scelto, sperando di poter “farla franca”, cioè di sfuggire ai fulmini del controllo istituzionale, di darsi all’imprenditoria, soprattutto nel settore dell’edilizia. La strada della denuncia nei loro confronti e nei confronti del magistrato delle misure di prevenzione che li nomina è in genere sconsigliata dagli avvocati, sia perché pure essi devono campare, sia perché inasprirebbe le sanzioni repressive, mentre essi devono dimostrare di sapere portare a casa del cliente qualche risultato, sia perché non ci sarebbe più nessuna possibilità di lavoro né per il cliente sotto indagine né per i propri eredi, dal momento che non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede, ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati. Qualcuno ha parlato di “mafia dell’antimafia”: non è esatto spacciare per antimafia l’esercizio di un potere fatto a fini repressivi. La repressione ha un senso quando sotto c’è il dolo, ma l’altra parte del dolo, quello di chi esercita la repressione, eufemisticamente chiamata “prevenzione”, diventa molto spesso prevaricazione e sopruso, specie se sotto c’è un disegno e un circuito affaristico da tutelare. Il circuito lo abbiamo individuato: è fatto dai vari Dara, Cappellano Seminara, Gigante, Turchio, Benanti, Sanfilippo, Aiello, Virga e da una serie di “collaboratori”, avvocati e dipendenti che vi girano attorno, girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: così, se uno di essi compie otto mesi di lavoro, retribuito da 3 a 5 mila euro, ha diritto alla disoccupazione, scaduta la quale sarà assunto da un altro avvocato del giro, per un altro incarico. A Palermo, negli ambienti giudiziari li chiamano “quotini”, nel senso che ognuno versa una quota al sommo re dei “giustizieri”, a colui che regge le fila della Cappella. A vederli, i collaboratori sono tutti avvocaticchi, i “nominati”, cioè gli assunti per espletare incarichi di sorveglianza, sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati. Calcolando missioni, spese di viaggio gonfiate, fatture a rimborso ecc, si arriva a impressionanti cifre. Si veda il caso dei negozi di Niceta, che, al momento del sequestro avevano un fatturato di 20 milioni, che, con la crisi avevano dimezzato la cifra, ma riuscivano a mantenerla, anche in gestione giudiziaria: è stato calcolato un budget spese di 500.000 euro l’anno, di cui, almeno 200 nelle tasche dell’amministratore capo Gigante: lui stesso ha detto che in fondo non è una grande cifra, è pari al 5%, cioè a un vero e proprio pizzo. Anche gli emolumenti dei suoi collaboratori, che non fanno assolutamente niente, se non un saltuario atto di presenza, magari per rifornirsi il guardaroba, sono sbalorditivi: tutto naturalmente grava sui mancati pagamenti per le commesse d’acquisto, sulla chiusura di alcuni punti vendita, che, per una falsa concezione dell’economia, comporterebbero risparmio, e su contratti di solidarietà con i quali si obbligano i dipendenti ad accettare una riduzione del 20% dello stipendio. Onde evitare licenziamenti in grande numero, che susciterebbero clamore mediatico e proteste, oltre che suscitare malumori per le norme che regolano l’amministrazione dei beni sotto sequestro, si spostano i dipendenti del punto chiuso in un altro che ancora resiste e che comunque è già sufficientemente coperto dal personale. E intanto, visto che i fornitori, non avendo più le garanzie di una volta, si rifiutano di fornire merce, gli scaffali si svuotano, gli inizi di stagione, che in genere comportano molte vendite, non partono, sono finiti gli sconti, che hanno portato , con il 70%, perdite e fine rapporti di lavoro. Da questa disperazione, vengono fuori altri risvolti: perché alla Conca D’oro di Zamparini al negozio di Zara, oltre 2000 mq. è stato concesso di non pagare affitto per due anni, mentre Niceta paga 20 mila euro al mese di spazio? C’è forse un sottile disegno che vuole favorire l’imprenditoria straniera e bloccare qualsiasi forma di lavoro in Sicilia, con l’accusa che tutta l’economia palermitana è mafiosa? E se c’è questo, cosa c’è sotto di questo?

Il “Re” è nudo. Come nella favola di Hans Christian Andersen l'incantesimo sembra si stia spezzando, il re è nudo,  scrive Marco Salfi su "Telejato". Parliamo di un Re che paradossalmente ha molti tratti in comune con quello delle fiabe per bambini dello scrittore Danese. Si tratta infatti del sovrano degli amministratori giudiziari, diciamo per usare un eufemismo che è il più quotato a Palermo. I dati della camera di commercio parlano chiaro e non mentono a differenza di quanto a riferito nell’intervista rilasciata a Matteo Viviani. Ma andiamo con ordine. Telejato da più di tre anni sta portando avanti un inchiesta sugli amministratori giudiziari e il sistema a tratti marcio che si è sviluppato intorno alle misure di prevenzione del tribunale di Palermo. L’abbiamo di recente ribattezzata “La mafia dell’antimafia” e in merito alle vicende scoperte e denunciate dalla nostra emittente, da diverso tempo abbiamo chiesto di essere ascoltati dalla commissione nazionale antimafia che più volte si è occupata del tema, ascoltando solo la campana della presidente della prima sezione misure di prevenzione de tribunale di Palermo, la dottoressa Silvana Saguto. Si tratta di un giro d’affari di svariati miliardi nelle mani di pochissimi e sotto la responsabilità di uno dei due giudici a latere del fu maxi processo. Le vicende che si intrecciano in queste storie sono diverse e vanno dalla mala amministrazione di patrimoni acclarati mafiosi, a presunti sequestri arbitrari di beni che in alcuni casi hanno portato pure all’amministrazione controllata di grandi aziende come l’Italgas. La speranza è che dopo il passaggio delle Iene non si spengano i riflettori e che la commissione nazionale antimafia e gli organi della magistratura competenti possano far luce su questa vicenda, tenendo conto anche delle tante denunce fatte non solo dalla nostra emittente, ma anche dal prefetto Caruso, che più volte è stato ascoltato in merito, proprio dalla commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Rosy Bindi. Forse finalmente qualcosa sta cambiando e auspichiamo che associazioni che a volte si sono comportate da “professioniste dell’antimafia” possano inserire seriamente questi temi nelle loro agende, in maniera laica, lontane quindi da logiche che poco hanno a che fare con la lotta e il contrasto  alla criminalità organizzata. L’antimafia non è un business.

Le Iene intervistano Cappellano Seminara, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Parliamo di Cappellano Seminara, un personaggio che ormai i nostri telespettatori conoscono bene, da noi definito “u re”, ovvero il signore degli amministratori, al quale sono stati dati una sessantina di incarichi da parte della Procura di Palermo, ufficio misure di prevenzione, diretto dalla dott.ssa Saguto. Di questi tempi Cappellano si fa vedere anche con un altro bell’esemplare della razza degli amministratori giudiziari, l’avv. Aulo Gigante, anche lui nel cuore della Saguto e attuale amministratore dell’impero dei Niceta, ormai ridotto allo sfascio. I due si conoscono sin dai tempi in cui a Cappellano venne affidata l’amministrazione giudiziaria del Gruppo Aiello a Cappellano Seminara, e l’avvocato Gabriele Aulo Gigante era il legale rappresentante del Gruppo. Poiché Cappellano Aveva già molte amministrazioni, tirò fuori dal cappello il nome di Andrea Dara, un oscuro revisore dei conti, al quale, tramite i suoi contatti privilegiati con l’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, riuscì a fare dare la nomina di amministratore giudiziario, restando egli nell’ombra a muovere i fili delle imprese sequestrate. Dara intorno al 2007 ebbe una serie di contrasti e divergenze con Gigante, che diede le dimissioni, e si scrollò anche della tutela di Cappellano, il quale, nel timore che Dara stesso potesse coinvolgerlo nel dissesto in cui il Gruppo Aiello stava precipitando, prese le distanze e iniziò un contenzioso per il recupero di parcelle per amministrazione della Clinica S. Teresa. La richiesta iniziale era di circa € 1.200.000. Due anni fa Dara, come amministratore, è stato condannato a pagare € 1.000.000 allo stesso Cappellano. Bazzeccole. E nessuno pensi che Dara li abbia tirati fuori dalla sua tasca. In altre occasioni vi abbiamo parlato di come il Cappellano controlla un “cerchio magico” dei “quotini”, ovvero di avvocati, figli di magistrati ecc. in qualche modo legati a lui, nella sua quota”, ai quali vengono dati incarichi vari dal tribunale o da parte di lui stesso. Per darvi una mezza idea del personaggio vi diremo che, dove Cappellano ha realizzato il suo miglior capolavoro è nella Legal.gest.consulting srl, in sigla LGConsulting srl, che risulta di proprietà della figlia Cappellano Carlotta, la quale ha versato 100 euro di quote nominali per diventarne azionista, ma solo del 5%, mentre il padre Gaetano ne ha versati 9.900, proprietario perciò al 95% e ne è amministratrice unica la madre Seminara Elda, nata nel 1932 e quindi di 82 anni. Si tratta di un albergo che mette il Cappellano in concorrenza con se stesso, perché amministratore giudiziario dell’hotel Palazzo Brunaccini. Nel 2011 la Legal gest cede la gestione dei servizi alberghieri ad un’altra società, la Turism project srl, della quale il 100% delle quote sociali è della Legal gest consulting srl, socio unico, cioè lo stesso Cappellano Seminara, il quale è amministratore giudiziario di un altro gruppo alberghiero, la ghs hotel Ponte spa. Tutto questo è quel che si sa sino al 2011, dopodichè, non si sa con quale motivazione, le nomine degli amministratori e delle aziende loro affidate sono diventate segreti d’ufficio. Adesso, dopo il bel servizio sulle imprese Cavallotti e sull’altro bel campione delle amministrazioni giudiziarie che è Modica de Moach, i simpatici ragazzi delle Iene ci riprovano con Cappellano. Quello che hanno combinato lo sapremo in questi giorni e, dopo che andrà in onda, speriamo di darvi tutto il servizio, dal momento che la nostra collaborazione è stata preziosa per la sua realizzazione. Ecco una feroce satira con cui Telejato ha bollato l’immarcescibile amministratore giudiziario:

Seminara Cappellano è un gran figlio di bu….ano…,

quando allunga un po’ la mano egli prende a tutto spiano,

Parcheggiato all’Arenella tiene un gran catamarano

sequestrato a un mafioso siciliano e palermitano,

ci va sopra e va lontano, si diverte a tutto spiano,

Beni ne ha affidati tanti, di mafiosi e pur di santi,

fa fallire tutti quanti, frega soldi e non va avanti.

Porta tutti al fallimento, solo allora egli è contento.

State attenti a Cappellano, non girate il deretano

è capace di strapparvi tutti i peli intorno all’ano.

Tutti dicon che è un co…cciuto, quelli che l’han conosciuto,

tutti eccetto la dott.ssa Saputo.

Cappellano Seminara, “il re” è rinviato a giudizio dalla procura di Roma, scrive "Telejato". L’elenco dei beni sequestrati ed affidati a Gaetano Cappellano Seminara coinvolge una cinquantina di aziende già confiscate ( di quelle sequestrate non si sa nulla), ed offre uno spaccato di come l’attenzione dei mafiosi sia particolarmente rivolta al settore edilizio e immobiliare, ma non disdegna di occuparsi di altri campi, come quello delle forniture mediche, del turismo, dei trasporti, della plastica, delle reti idriche, del metano, dei lavori della pubblica amministrazione. Buona parte dei beni in oggetto si trovano nel circondario di Bagheria, dove Seminara ha uno studio e dove l’imprenditoria siciliana legata a Bernardo Provenzano ha trovato un fertile terreno per investire denaro. A Bagheria c’è Villa Teresa, una delle cliniche più attrezzate, costruita con i soldi di Michelangelo Aiello,il più ricco imprenditore siciliano, con investimenti collaterali di Bernardo Provenzano e con la protezione politica di Totò Cuffaro, oltre che con la complicità della Regione Sicilia, che ha assicurato pagamenti esorbitanti di pagelle mediche. Comunque Villa Teresa è stata affidata a un altro di questi campioni, Dara, al quale l’incarico è stato revocato dopo lunghi anni di cattiva amministrazione. Non faremo l’elenco dei circa 60 beni affidati al nostro grande amministratore, forse il più grande, il re degli amministratori giudiziari. Titolare di uno studio legale nel quale, per sua ammissione, lavorano oltre trenta dipendenti. Si può dire che buona parte dell’imprenditoria palermitana sia finita sotto le sue grinfie, perchè la dott.ssa Silvana Saguto, che dirige il settore delle misure di prevenzione, è assolutamente convinta che nessuno sia migliore di lui. In quest’orgia di affari, ne è capitato uno che si è rivelato la classica buccia di banana su cui il Cappellano è scivolato. Si tratta della discarica di Bucarest, ritenuta la più grande d’Europa, sulla quale aveva messo le mani Vito Ciancimino e poi il figlio Massimo, che ne gestivano una parte, poi confiscata e affidata al solito Cappellano. Quando uno dei proprietari si ritirò e bisognava rinnovare il Consiglio di amministrazione, Cappellano pagò un lavavetri per acquistare, come prestanome una quota importante ed entrare nel consiglio di amministrazione, per poi diventarne presidente, giochetto che gli è riuscito numerose volte. Questa volta il gioco è stato smascherato. Infatti, grazie alle grandi intuizioni del Procuratore Capo di Roma Pignatone, già del tribunale di Palermo, e quindi collega della dott.ssa Saguto. Valenti, che già da 5 anni ha smesso di occuparsi della discarica rumena, di cui era socio, è stato arrestato per “tentativo di riciclaggio” dei soldi della discarica rumena. Tutto ciò malgrado il GUP di Palermo nel 2013 si fosse dichiarato incompetente per territorio e avesse dichiarato l’estraneità del Valente rispetto ai fatti di cui era accusato. Il Valente, che ha denunciato anche un tentativo ricattatorio di alcuni sindaci di importanti città italiane (si parla di Roma e, in particolare di Napoli e del suo sindaco De Magistris, il quale avrebbe speso oltre 10 milioni di euro per intercettarlo e spiare i suoi movimenti, con la richiesta di farsi carico del deposito dei rifiuti della città. Un arresto per “tentativo di riciclaggio” è il massimo cui possa ricorrere la giurisprudenza: non il reato, ma il tentativo di farlo, prima che sia stato fatto. Ecco perché le misure di prevenzione. Prevenire è meglio che curare. Ma Valenti, a questo punto, ha sporto denuncia contro l’operato di Cappellano Seminara, il quale si ritrova oggi inquisito, per truffa aggravata, non solo in Romania, ma anche in Italia, esattamente dalla Procura di Roma, dove dovrà presentarsi il 22 ottobre, perché rinviato a giudizio, dopo tre archiviazioni della stessa inchiesta, sulle quali è facile ipotizzare l’intervento dei magistrati di cui ci siamo occupati. Sembra che la quarta volta il GUP non abbia potuto fare a meno di procedere. Tra gli accusatori di Seminara c’è anche il principale gestore della discarica rumena, un certo Dombrowsky, il quale apparteneva ai servizi segreti rumeni quando era ancora dittatore Jarusewsky . Costui ha chiesto 50 milioni all’ufficio diretto dalla dott.ssa Saguto, come acconto per una ulteriore richiesta di rimborso danni per la cattiva gestione della discarica fatta da Seminara, almeno nella parte che gli competeva. E così Seminara, nel prossimo ottobre, farà un viaggetto a Roma, non sappiamo se per raccontare altre balle, mentre la dott.sa Saguto dovrà cominciare seriamente a pensare dove trovare i primi 50 milioni di euro chiesti da Dombrowsky, in attesa che non le si presentino altri conti. Gli suggeriamo di fare una misura di confisca dei beni proprio nei confronti del suo pupillo, Cappellano, il quale di beni confiscati ne avrà messo da parte parecchi.

Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. “Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia” ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale, che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente  ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante,  pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta.

Mafia e “antimafia” qualcosa si muove, scrive Marco Salfi su “Telejato”. La notizia è molto recente, sembrerebbe che dopo anni di denunce, editoriali e servizi da parte di questa testata qualcosa si stia muovendo. Ad essere sotto indagine per l’accusa d’abuso d’ufficio teoricamente dovrebbe esserci Andrea Modica de Moach ex amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti, tuttavia al momento non si sa nulla in merito. Quello che è certo è che nei giorni scorsi un servizio delle Iene realizzato con la collaborazione della nostra redazione ha messo in luce la storia dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, imprenditori assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e nonostante tutto oggetto ancora di misure di prevenzione patrimoniali. Il processo penale che ha visto l’assoluzione con formula perché il fatto non sussiste che ha visto protagonisti i 6 fratelli del piccolo paesino in provincia di Palermo era incentrato sulle presunte raccomandazioni che questi avrebbero avuto nell’aggiudicazione di alcuni appalti per la metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In realtà i pizzini che secondo l’accusa, e a tutt’oggi secondo le misure di prevenzione di Palermo incriminerebbero i Cavallotti indicavano chiaramente il pagamento del pizzo, la così detta in gergo mafioso “messa a posto” e non una raccomandazione che lascerebbe così spazio all’ipotesi di turbativa d’asta. Modica de Moach è stato nominato amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti nel 1999 dal tribunale di Palermo. Il suo compito era quello di amministrare le aziende in attesa che venisse concluso il processo legato alle misure cautelari che procede parallelamente a quello penale. Stando alla legge Modica avrebbe dovuto mantenere in attivo le aziende preservando i livelli occupazionali e mantenendo inalterato il volume d’affari. Tuttavia nulla di tutto questo è avvenuto. Per quella che in una relazione dello stesso modica è stata definita insolvenza tecnica è stato dato il via ad una serie di operazioni finanziarie, avallate per altro dal tribunale di Palermo, nelle quali attraverso alcune compravendite di rami d’azienda e alla cessione di debiti già prescritti Modica avrebbe percepito indebitamente del denaro dalle casse della Comest azienda del gruppo Cavallotti specializzata nella metanizzazione. Il dottor Vincenzo Paturzo curatore fallimentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci aziendali ha riscontrato una situazione davvero singolare. Al contrario di quanto sostenuto da Modica la Comest aveva tutte le risorse finanziarie e non era come affermato in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo parliamo di una azienda sconvolta da una vicenda giudiziari importante ma non così malata. Al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudiziaria la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Modica con l’avallo del tribunale. Un operazione che nei bilanci non avrà alcun beneficio. Beneficio che invece trarranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro. Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti ne esigibili) nel 2009 questi vengono ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura privata, facendogli così acquisire indebitamente un milione di euro. Sui fatti esposti, la commissione regionale antimafia dapprima ha audito Pino Maniaci e qualche giorno fa ha ascoltato la testimonianza di Pietro Cavallotti. Sulla scorta di queste audizioni e delle numerose denunce di anomalie la commissione guidata da Nello Musumeci sta preparando un dossier. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria’. «Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Pietro Cavallotti dopo l’audizione si è detto soddisfatto per aver avuto la possibilità di raccontare davanti alle istituzioni la storia della sua famiglia. «Ho avuto la possibilità – ha affermato Cavallotti –  di replicare alle affermazioni fuorvianti rese dai magistrati Scaletta e Petralia lo scorso 21 ottobre alla Commissione Nazionale Antimafia» «Viviamo in una condizione di indigenza a seguito dei vari provvedimenti giudiziari e siamo impossibilitati a trovare un lavoro per la cattiva reputazione costruita attorno alla nostra famiglia» Cavallotti ha chiosato «Tuttavia  ringrazio Telejato per avere per primi avuto il coraggio di denunciare il malaffare che ruota attorno al sistema dei beni sequestrati». Continuerà l’indagine di Telejato che da anni sta denunciando questa gravissima situazione, anche attraverso la petizione lanciata su change.org nella quale si chiede che Pino Maniaci venga ascoltato dalla commissione nazionale antimafia.

Il lato oscuro dell'antimafia, scrive “La Repubblica” che diventa paladina di quell’antimafia partigiana, di sinistra e pro magistrati che vedono in “Libera” lo sbocco naturale e interessato. Perché al di la di “Libera” c’è un sistema emarginato di associazioni libere di fatto che ogni giorno devono combattere la mafia e l’antimafia.

Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo.

Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà. Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti. Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio. Gli inganni dell'antimafia. Nel composito  -  e talvolta oscuro  -  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".

A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.

Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?

"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casino".

Lei come ha risposto?

"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".

Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?

"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".

Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.

"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".

Da chi è composta questa associazione antimafia?

"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".

Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telamatico.

"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".

Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?

"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".

Lei ha paura di queste persone?

"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".

Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?

"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".

La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.

Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".

Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?

"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".

Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?

"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".

Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?

"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".

Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?

"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".

Che tipo di controlli si possono fare?

"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".

Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?

"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".

Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?

"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".

Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?

"Assolutamente sì".

Un'associazione per i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie i testimoni di giustizia d'Italia.

Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione?

"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.

Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?

Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.

Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?

Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?

Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?

Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.

Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.

Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.

“Buttanissima Sicilia” a Palermo. Intervista a Salvo Piparo e Pietrangelo Buttafuoco di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”. Il 31 gennaio 2015 Buttanissima Sicilia arriva a Palermo. In questa tappa, che si preannuncia la più importante, sarà il Teatro Biondo a offrire il palco al libro denuncia di Pietrangelo Buttafuoco – già successo editoriale di questa estate – divenuto recitazione per mezzo dello stile inconfondibile di Salvo Piparo, Rosemary Enea e Costanza Licata. Un grido di disperazione e d’amore, amore terribile, verso una terra ormai patria del malaffare e del peggiore costume politico. Ed è il fardello di ogni siciliano: soffrire. Perchè – e qui Carmen Consoli ci permetta la citazione – amare la Sicilia è come amare una prostituta, ti tradirà sempre, ma ne sei così innamorato che non puoi separartene. Abbiamo incontrato per voi i protagonisti: Pietrangelo Buttafuoco e Salvo Piparo, il giornalista scrittore e il cuntastorie, ”un cronista ai tempi in cui non esisteva ancora il telegiornale”.

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

In un doc la storia di Don Ciotti e Libera: "La battaglia di chi combatte ogni giorno", scrive Silvia Fumarola l'08 dicembre 2015 su “La Repubblica”, tessendo le lodi del loro protetto per ideologia. Da sempre "La Repubblica" è stata sponsor e promulgatrice mediatica di Libera e del suo Guru. Si intitola "Sono Cosa nostra" il film dedicato alla vita e all'operato di Don Luigi Ciotti girato da Simone Aleandri. Lanciato in anteprima al cinema Nitehawk di Brooklyn, New York, il doc è anche un modo per celebrare i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie: "Rappresento un 'noi' perché Libera raccoglie 1600 associazioni". Don Luigi Ciotti non smette di ripeterlo: «La legge c’è ma non basta, bisogna fare di più». È un’Italia che fa sperare quella raccontata nel documentario Sono Cosa nostra di Simone Aleandri: l’anteprima mondiale è ospitata nello storico cinema Nitehawk di Brooklyn, per iniziativa di Rai cinema. «Lo faremo girare nelle scuole e verrà trasmesso in tv, è un film da servizio pubblico, racconta l’impegno per la legalità, la battaglia quotidiana di chi combatte tutti i giorni» dice l’amministratore delegato Paolo Del Brocco. Il film celebra i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie, nata a fuor di popolo, con la raccolta di un milioni di firme, promossa dall’associazione Libera. Visita lampo a New York per don Luigi Ciotti, l’incontro col vescovo, la sera la proiezione. Speranza e resistenza sono le parole chiave di chi in Campania, Calabria, Sicilia, ma anche in Lombardia e in Piemonte, ha trasformato beni appartenuti ai boss in cooperative (500), mettendo a frutto casali e terreni, creando un circolo virtuoso e offrendo lavoro. La casa del jazz a Roma, i prodotti di Libera venduti nei negozi, la volontà di educare alla bellezza – anche quando sembra un’impresa disperata - perché nessuno possa dire un giorno: «Tu non hai fatto niente?». Antimafia sul campo. Passione e rigore, una vita sotto scorta, Don Ciotti, è accolto dagli applausi: «Rappresento un “noi” perché Libera è un’organizzazione che raccoglie 1600 associazioni. Nel 1996 in Italia grazie a una legge voluta dai cittadini, i beni nella mani della mafia sono diventati beni condivisi». Con il sacerdote c’è Daniela Marcone: il padre Francesco fu ucciso a Foggia il 31 marzo 1995 era direttore dell’ufficio del Registro, aveva combattuto la corruzione. Il suo volto è finito su un murale, il nome sui vasetti di olive della cooperativa Pietra di Scarto di Cerignola. «Oggi la memoria di mio padre» racconta Daniela con orgoglio «non sono più sola a portarla avanti». Il riscatto e la dignità passano per il lavoro: immigrati, persone che hanno avuto qualche difficoltà nella vita, lavorano la terra e curano gli ulivi. Pietro Fragasso che coordina la cooperativa sociale non ha dubbi: «Per noi l’antimafia deve diventare economia». Dopo la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio che lo riporta in Sicilia, Don Ciotti segue la strada di Pio La Torre, il sogno di togliere alla mafia i capitali rappresentati dalle proprietà immobiliari, terreni, aziende agricole. Il magistrato Francesco Menditto spiega come sia importante questa battaglia di civiltà e come sia lunga la strada per la confisca dei beni. «La cosa che dà più fastidio alle mafie» spiega don Ciotti «è che i beni privati diventino condivisi. I ragazzi devono mettersi in gioco, quando trovano parole sono di carne gli brillano di occhi, s’infiammano: non devono scoraggiarsi». A Quindici (Avellino) primo comune sciolto per associazione mafiosa, la villa confiscata al boss della camorra Graziano, oggi ospita il maglificio 100quindici passi. Ci sono state minacce e intimidazioni, contro la struttura furono sparati cinque colpi di pistola, ma il lavoro continua. A Castel Volturno (Caserta) Massimo Rocco ha creato il caseificio “Le terre di Don Peppe Diana” in un terreno confiscato al camorrista Michele Zaza; la cooperativa produce le mozzarelle di bufala, ma quando fu inaugurata i lavoratori venivano definiti “folli”. I vigneti della cooperativa curata da Valentina Fiore a San Giuseppe Jato nascono nel ricordo di Placido Rizzotto, rapito e ucciso da Cosa Nostra nel 1948; la gente in un primo momento aveva paura di andare a lavorare su quelle colline, perché occuparsi delle terre confiscate ai boss significa fare antimafia. La cascina di San Sebastiano da Po in Piemonte, intitolata al procuratore capo di Torino Bruno Caccia, (ucciso nell’83) e alla moglie Carla, è meta di pellegrinaggi, unisce un’intera comunità. Qui si fa il miele, si raccolgono le nocciole. Il bene apparteneva alla famiglia ‘ndranghetista dei Belfiore, responsabile dell’omicidio del magistrato. La figlia di Caccia ha scelta una foto dei genitori che ballano, un frammento di felicità e speranza per il futuro, come immagine simbolo per il casale. «Papà è stato il primo magistrato del nord ucciso per mano mafiosa» racconta, parlando del «dolore puro, fortissimo» provato il giorno dell’attentato. Dal sorriso degli operatori della cooperativa Il Balzo che hanno trasformato un’edicola di Baggio (Milano) che faceva da quartier generale per la ‘ndrangheta in un centro per ragazzi diversamente abili all’orgoglio di gestire un bar, quest’Italia liberata grazie a Don Ciotti fa bene al cuore, ma niente è facile. È lui stesso a lanciare l’allarme: «C’è ancora tanta illegalità. Nei momenti di crisi i mafiosi hanno un’immensità di denaro da riciclare, dobbiamo essere più scaltri, più attenti e ricordarci che gli affari li hanno sempre fatti anche al nord. La confisca dei beni deve essere trasparente: ci sono sempre paroline, virgole, punti. La prima riforma da farsi in Italia è quella delle nostre coscienze». E spiega come il potere dei segni (caro al codice della mafia) sia importante, così diventa un gesto forte quello della Nazionale che va a giocare a Rizziconi, in Calabria, nel campetto di calcio che la ‘ndrangheta per anni non voleva venisse utilizzato. «Questo è un documentario che riassume piccoli esempi» dice don Ciotti «è ancora troppo poco, sono stati confiscati solo 17mila beni. Se si uniscono le forze – magistrati e società civile – è possibile guardare al futuro. La lotta alla mafia ha bisogno di lavoro e scuole, è la cultura che dà la sveglia alle coscienze, è importante conoscere. A marzo del prossimo anno saranno vent’anni della legge 109. Il sistema legislativo in atto è inadeguato, si potrebbe fare di più. Questo governo e quello precedente hanno creato una commissione per vedere come la legge della confisca dei beni può essere migliorata, attualmente i progetti sono arrivati alla Camera e in Senato. Il primo elemento inserito è il sequestro dei beni dei corrotti, non solo dei mafiosi. L’agenzia che opera deve essere potenziata, bisogna agire anche sui beni aziendali: quello finora è stato un fallimento».

Strapaese delle meraviglie. Fuoco amico, scrive Gabriele della Rovere il 4 dicembre 2015 su "L'Indro". Bufera di Libera, leadership di Don Ciotti e Democrazia carismatica. Allora la questione è se ci siano zone di riserva, amici ed amici degli amici, magari benemeriti operatori nel sociale come nella fattispecie, nei cui confronti conviene (di più: è giusto) applicare peculiari criteri di riguardo e tutela. La nostra risposta è no. Fondamento della nonviolenza è che il fine non giustifica i mezzi, ma i mezzi prefigurano il fine: così, dunque, non si può rivendicare buona finalità per coprire comportamenti che rappresentino comunque un vulnus alle regole di comportamento. Alla democrazia ‘interna’ di un soggetto, gruppo, o quel che sia. Ce ne eravamo già occupati a proposito del Movimento Cinque Stelle, che in questo nostro disgraziato strapaese delle meraviglie (disgraziato perché senza la grazia di valori comuni, di rispetto delle regole del gioco e delle regole tout court) rappresenta un utile, prezioso strumento per la Democrazia: a prezzo però, a volte, della Democrazia decisionale. Come fatto ne il Contrappunto, 2015 Novembre 25, delineando la Fenomenologia di Gianroberto Casaleggio. Chi è l’uomo che ha trasformato Beppe Grillo in Beppe Grillo. Ed a cui l’Italia deve qualcosa. «E’ grazie a lui, non solo ma molto, se l’Italia ha un po’ più, forse molto più, di Democrazia. Anche se purtroppo pagata a volte, e ripetutamente, con un meno di Democrazia interna al Movimento ed alle sue espressioni elettorali. Che è cosa di non poco conto, anzi di moltissimo conto, visto che da nonviolenti riteniamo che il fine non giustifichi i mezzi, ma i mezzi prefigurino il fine». Ecco, diversamente ed analogamente, si può forse si deve ragionare su Luigi CiottiDon Luigi Ciotti. Creatore del Gruppo Abele, del mensile Narcomafie e di Libera, poderosa galassia-strumento per il contrasto alla criminalità organizzata e l’affermazione della legalità. Da tempo anche tra quelli a lui più vicini, o comunque consentanei alla sua azione, si sostiene: «Occorre guardare l’opera, non la persona». Adesso emerge lo ‘scontro interno’ il ‘fuoco amico’ aperto dalle parole di Franco La Torre. Dirigente di Libera che porta sulle spalle la dolorosa esperienza della morte di Pio La Torre, suo padre, esponente del Partito Comunista ucciso da Cosa Nostra nel 1982, a Palermo. Aveva criticato, in occasione dell’Assemblea Nazionale del 7 Novembre 2015, ad Assisi, con un ampio intervento, il comportamento di Enrico Fontana, Direttore dell’associazione, e quindi il suo più importante dirigente operativo. Costretto alle dimissioni per aver ricevuto in sede esponenti del mondo ambientalista finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale. Non è tanto rilevante la questione in sé (lo è eccome, ma non di questo ci stiamo occupando ora), quanto le modalità con cui il confronto e lo scontro si è articolato. Con la defenestrazione del reo di lesa maestà. Sino ad arrivare a sostenere, come fa Nando Dalla Chiesa che di Libera è Presidente onorario, una ardita tesi. «Certo che quello di Don Luigi è un potere carismatico, ma nel nostro caso è un vantaggio: perché quando la leadership è a portata di tutti, come nei Partiti, non si pensa ad altro che alle lotte di successione». A parte che una cosa non esclude l’altra, anzi vi è più la immeschinisce, grati dovremmo conseguentemente rivolgere il pensiero a due giganti come Benito Mussolini e Silvio Berlusconi che la questione della Guida Suprema l’hanno radicalmente proprio così risolta. La tesi odierna è peraltro analoga a quella esposta a suo tempo dall’allora berlusconiano Italo Bocchino per avallare il porcellum calderoliano, che avrebbe permesso una migliore selezione, dall’alto e senza quasi intervento degli elettori, della classe dirigente e parlamentare. Utilmente il Fatto Quotidiano, pur tra qualche imbarazzo, ha preso spunto dal'Huffington per dare ripetuto spazio alla vicenda di Libera. Può essere doloroso toccare determinati argomenti, certi territori riservati, certi operati dei buoni. Ma non toccarli è ancor più effettivamente doloroso e causa, in primo luogo ai protagonisti, le ferite più gravi. Quelle per protezione ed omissione.

E, dunque, ricapitolando questo incrocio di Novembre-dicembre 2015. Da Lunedì 30 Novembre a Venerdì 4 Dicembre.

Lunedì 30 Novembre. Finisce Novembre. Non è una gran notizia, ma già che la vedete è una buona notizia.

Martedì 1 Dicembre. Inizia Dicembre. Anche questa non è una gran notizia, ma intanto… Franco La Torre dice all’Huffington Post che è stato emarginato, e di fatto cacciato, da Libera per aver criticato alcuni dirigenti e comportamenti. Anche del fondatore e leader, Don Luigi Ciotti.

Mercoledì 2. Il Fatto Quotidiano“Mandato via con un sms”. Don Ciotti e la guerra di Libera.

Giovedì 3. Il Fatto QuotidianoLibera, il mito della purezza affronta il “fuoco amico”. Ivi ripresa, senza commento, anche una bizzarra teoria socialpolitologica di Nando Dalla Chiesa.

Venerdì 4. ‘Il Fatto Quotidiano’: “Libera”, attenzione al fuoco amico. Intervento di Gian Carlo Caselli.

E poi Sabato 5 e Domenica 6. Vediamo…

E la prossima settimana da Lunedì 7 Domenica 13. Continuiamo a vedere. Che già è una buona cosa.

E così ecco iniziato questo Dicembre. E quasi finito questo 2015. Non torneranno mai più, ma li abbiamo vissuti, ed è una gran fortuna che purtroppo prima o poi finirà. Ma mica è detto…

Consulenze, soldi e veleni. In fondo a Libera, scrive “Live Sicilia” Mercoledì 09 Dicembre 2015. L'inchiesta di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza fa le pulci a Libera che, dopo anni di splendore, conosce qualche momento di opacità. Dopo le ultime polemiche e l'addio di Franco La Torre, anche la stampa nazionale si occupa di Libera con paginate e inchieste. Oggi, per esempio, Il Fatto Quotidiano pubblica un servizio - a firma di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza - che fa le pulci all'associazione di don Luigi Ciotti. Titolo: "Consulenze, soldi pubblici e veleni: in fondo a Libera". "L'ultimo direttore, Luigi Lochi - si legge - è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora ha ritenuto di dovere affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana, si è dovuto dimettere all'inizio dell'estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna: Francesca Rispoli, amica del Pd Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416 ter. Anche lei nel settembre del 2013 ha dovuto lasciare l'incarico; non aveva segnalato in tempo a don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente". "La leadership è quella di don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l'ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccoglie oltre 1500 associazioni, gestisce 1400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell'antimafia sociale. Non solo. 'Libera' è l'invenzione stessa dell'antimafia che, per la prima volta, dopo Capaci e via D'Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio (...). Vent'anni sono passati da quel lontano 1995 quando don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri. (...). Che ne è oggi di quella teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo?". L'inchiesta del Fatto approfondisce personaggi e situazioni. Ricostruisce una storia che sta conoscendo momenti di opacità. Riprende il discorso dei soldi: "L'organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per un milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d'autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a un milione e 268 mila euro (...). Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera. Che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, un po' meno attratti dal don Ciotti manager". Né può mancare il riferimento alle recenti polemiche in cronaca. "E' per questo che Franco La Torre ad Assisi ha lanciato l'allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma? Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo don Ciotti un despota e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che che a denunciare le emergenze criminali".

LIBERA: CONSULENZE, SOLDI PUBBLICI E VELENI. L'avevano denuciato il M5S, l'avevamo denunciato anche noi in più occasioni. Per chi vuole capire, approfondire e Libera-rsi dai dogmi. L’ultimo direttore, Luigi Lochi, è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora a ritenuto di dover affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana (sotto la cui egida è nata l'associazione da Sud n.d.r.) si è dovuto dimettere all’inizio dell’estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna, Francesca Rispoli, amica del PD Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416ter. Anche lei nel settembre 2013 ha dovuto lasciare l’incarico: non aveva segnalato in tempo a Don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente, esponendolo ad una pubblica retromarcia. Ma non è tutto. A giugno dell’anno scorso si è dimesso pure il Vice Presidente Carlo Andorlini: coinvolto in un’indagine della Corte dei Conti su alcune spese ordinate quando era a capo-gabinetto del Sindaco a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Uno, due, tre dimissioni ‘imbarazzanti’ nel giro di un anno, strappi consumati in silenzio, senza clamore, all’interno di un’associazione che funziona come una holding da quasi 5 milioni di euro all’anno, e nello stesso tempo viene descritta come una struttura arcaica, chiusa come una setta e riservata fino alla paranoia: quella che lo stesso Presidente Onorario, Nando Dalla Chiesa, definisce “una creatura fondata sul potere carismatico, dove la leadership non si discute”. La leadership è quella di Don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l’ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccogli 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell’antimafia sociale. Non solo. Libera è l’invenzione stessa dell’antimafia, che per la prima volta, dopo Capaci e Via D’Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio dove ancora fumanti le macerie del tritolo di Cosa Nostra. Vent’anni sono passati dal quel 1995 quando Don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri, infiltrandosi nel cuore delle borgate mafiose, nelle case, nelle scuole, per insegnare il rifiuto di Cosa Nostra e del suo strapotere. Ma oggi? Che ne è oggi di teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo? La sensazione è che tutto sia cambiato, a partire dall’idea stessa di antimafia, oggi fagocitata dal sistema, perché sempre più succube della necessità di assicurarsi risorse finanziarie. Al punto che il Presidente del Senato, Pietro Grasso, recentemente ha voluto ricordare che “serve un’antimafia umile, per un fine comune, che non è certo quello di essere l’associazione più visibile o finanziata”. Lo stesso Don Ciotti ha più volte messo in guardia dai rischi di una banalizzazione dell’impegno contro le cosche: “l’antimafia – ha detto – è ormai una carta di identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Ma qualcuno osserva che pure Libera, come le altre associazioni che hanno nello Statuto il contrasto alla cultura mafiosa, è diventata una campionessa nel fare incetta di finanziamenti pubblici. L’organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per 1 milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d’autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a 1 milione 268 mila euro.  Solo Unipolis, la Fondazione di Unipol, che fa riferimento alla Lega Coop, sgancia ogni anno 70 mila euro. Poi c’è il capitolo dei finanziamenti europei, come quello del Pon Sicurezza da 1 milione e 416 mila euro, per migliorare la gestione dei beni confiscati, assegnati al Consorzio Sviluppo e Legalità, che raccoglie alcune cooperative della galassia antimafia in provincia di Palermo. Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera, che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del Don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, e un po’ meno attratti dal Don Ciotti manager che oggi ha un’agenda fitta di presentazioni, tavole rotonde e comparsate tv. Nessuno parla apertamente. Ma sono tanti i delusi e gli scontenti che pongono una domanda cruciale: qual è la reale capacità di denuncia di un’antimafia che è appesa ai finanziamenti pubblici e appare sempre più consociativa al potere che tiene i cordoni della borsa? Qualcuno ha persino scritto che i commenti del prete duro e puro sono apparsi piuttosto tiepidi nei confronti delle coop rosse coinvolte negli affari di Mafia Capitale. L’associazione di Don Ciotti rischia di addomesticarsi? E’ per questo che Franco La Torre (ex candidato di Rivoluzione Civile insieme a Gabriella Stramaccioni, Direttrice Nazionale di Libera, che il gossip vuole compagna di Attilio Bolzoni di La Repubblica n.d.r.), ad Assisi, ha lanciato l’allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma. Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre (il segretario del PCI siciliano ucciso dalla mafia nel 1982) ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo Don Ciotti un “despota” e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che a denunciare le emergenze criminali. Don Luigi nega che l’associazione sia una holding: “Nessuno – dice – sporchi la nostra trasparenza”. Ma i suoi fedelissimi si sono chiusi a riccio. Non parla l’avvocato Enza Rando, dell’Ufficio di Presidenza, che difende i familiari delle vittime di mafia e nel frattempo ha ottenuto una consulenza da 25 mila euro presso al Regione Emilia-Romagna (governata dal PD Stefano Bonaccini) oltre a far parte del cda della Cassa di Risparmio di Modena. Non parla neppure Fontana, lo stesso che La Torre ha additato come uomo simbolo del nuovo corso di Libera: è l’ex consigliere regionale di SeL Lazio che dal 2011 incassa un vitalizio, pur essendo promotore della campagna “Miseria Ladra” contro i vitalizi, e due anni dopo, in piena giunta Polverini, diventa consulente del Presidente del Consiglio regionale PDL, Mario Abbruzzese: 20 mila euro per un progetto antimafia. E tace soprattutto il neo direttore Lochi, dal 1991 al 1999 dirigente di Sviluppo Italia e poi collaboratore di Invitalia (il suo contratto è scaduto il 31 maggio): l’esperto della gestione dei beni confiscati. Appena 4 giorni dopo la sua nomina, avvenuta l’8 novembre, la Camera ha approvato la c.d. “norma Saguto” che ha scatenato la furia del M5S. Perché? “La nuova legge – hanno spiegato i grillini – stabilisce che le aziende sequestrate, anche di grande rilievo, verranno gestite da Invitalia, erede di Sviluppo Italia, il carrozzone mangiasoldi dello Stato”. La stessa azienda dove ha lavorato per anni il nuovo direttore di Libera. Che dice Lochi? Nulla. E’ la nuova antimafia bellezza! Quella dei pennacchi, dei premi, delle liturgie e delle litanie sommerse da un fiume di denaro. (Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2015) 

La Torre contro Don Ciotti. "Dovevamo vigilare", scrive su “Live Sicilia” Martedì 01 Dicembre 2015 Riccardo Lo Verso. C'è anche il caso Saguto all'origine della scelta del figlio di Pio La Torre di divorziare dall'associazione antimafia. "Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. “Mi dicono che a Palermo lo sapevano tutti. Mi sarei aspettato che Libera ponesse il problema visto che sui beni confiscati ha fondato la sua forza. Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. Eccolo uno dei motivi per cui Franco La Torre, ormai ex componente del consiglio di presidenza di Libera, ha deciso di andare via dall'organizzazione di don Luigi Ciotti. Libera, a suo dire, non avrebbe tenuto le antenne dritte sulla gestione “scandalo” dei beni sottratti ai boss che ha portato all'azzeramento della sezione misure di Prevenzione del Tribunale palermitano. A cominciare dal suo ex presidente Silvana Saguto, finita sotto inchiesta e sospesa dal Csm. “Si sturino le orecchie”, aggiunge La Torre pronunciando la frase in dialetto siciliano e sgombrando da possibili dubbi: non è polemico, di più. Il figlio di Pio La Torre, l'ex segretario del Pci siciliano che assieme a Rognoni firmò nel 1982 la legge per colpire i patrimoni mafiosi, individua nel caso Saguto e in Mafia Capitale le spie dell'inefficienza della classe dirigente di Libera che avrebbe bisogno di una radicale ristrutturazione. “Siamo arrivarti dopo la magistratura. Non abbiamo capito che stava accadendo tutto questo - aggiunge - non va bene che una mattina ci si alzi, si legga il giornale e si scopra il caso. Non ce lo possiamo permettere”. Cosa si poteva fare a Palermo? “Non lo so, non ho ricette. Certamente si doveva analizzare il problema”. E se gli fai notare che in molti, per ultima la Commissione nazionale antimafia, il sistema Palermo lo avevano passato al setaccio finendo per elogiarlo, La Torre taglia corto: “Magari anche noi avremmo concluso che le cose andavano bene. Si può sbagliare nelle conclusioni, ma non accorgersene no. Non si può”. È innegabile che l'esigenza di combattere la mafia colpendo i patrimoni dei boss sia diventata una enorme macchina economica. Nel panorama del movimento antimafia Libera è una holding (termine che non piace affatto al suo fondatore). L'organizzazione, nata per la promozione della legalità e l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, oggi è alla guida un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi, che gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che sfiora i sei milioni di euro. Ad inizio di novembre, durante l'assemblea nazionale di Libera, ad Assisi, La Torre aveva chiesto a gran voce un confronto perché, alla luce dei numeri sopra citati, “Libera è molto cresciuta in questi anni, serve un nuovo modello di organizzazione. Si deve avviare un progetto di formazione della classe dirigente, non si può dirigere tutto da Roma. Il mio discorso non è stato gradito (pochi giorni dopo Ciotti gli comunicò la 'rottura del rapporto di fiducia' ndr'), nonostante l'abbia fatto in un contesto dove è fondamentale la libera espressione del pensiero”. Da qui la scelta di fare un passo indietro che rende esplicito il malessere che da tempo covava nel movimento antimafia. “Io voglio bene a Libera e a Luigi, abbiamo lavorato bene in questi anni e speravo - spiega La Torre -, anzi spero, perché sono un ottimista, che le mie parole siano un'occasione di crescita”. Per il momento non è andata così. Oggi l'ormai ex rappresentante di Libera mette in guardia dai “rischi dell'antimafia di convenienza” e di quella che si fa “schermo di interessi indicibili”. Ed è in questo contesto che l'organizzazione di don Ciotti non avrebbe fatto sentire la sua voce: “Ci siamo fatti sentire a L'Aquila nel post terremoto e in Lombardia, ma non a Palermo per le Misure di prevenzione e a Roma per Mafia Capitale. Il nostro compito si è affievolito”. Ciotti non ci sta, dalle colonne di Repubblica difende l'organizzazione (“Non c'è nessun problema, Libera sta lavorando bene”) e spiega che “prima si conosceva il nemico, era la mafia, ora gli attacchi arrivano da più parti”. Chissà se alla voce “attacchi” vadano inserite le parole di Silvana Saguto. A chi le ha contestato, intercettazioni alla mano, di avere fatto favorito amici e parenti nella scelta degli amministratori il magistrato rispondeva che i “nomi di persone valide li abbiamo chiesti anche ad associazioni antimafia come Libera”. Circostanza che un paio di mesi fa Libera smentì categoricamente.

Antimafia, Pino Maniaci: «Libera? Ormai è una holding». Associazioni poco trasparenti e non al passo coi tempi. Il direttore di Telejato fotografa la lotta a Cosa Nostra. E fa un paio di domande a don Ciotti, scrive Francesca Buonfiglioli il 02 Dicembre 2015 su “Lettera 43”. Sono passati 30 anni e un'infinità di polemiche da quando Leonardo Sciascia sfidò i «professionisti dell'antimafia», quegli «eroi della sesta» che agiscono solo per fini personali e per accaparrarsi consenso. E cos'è cambiato? Praticamente nulla. «C'è che Sciascia aveva ragione», ammette a Lettera43.it Pino Maniaci direttore di Telejato, l'emittente del Palermitano da sempre in prima linea contro la mafia. Lo dimostrano le parole dure di Franco La Torre figlio di Pio segretario siciliano del Pci ucciso dalla mafia nel 1982 nei confronti di don Luigi Ciotti, numero uno di Libera. «Sono stato cacciato dall'associazione con un sms», ha spiegato La Torre all'Huffpost dopo aver criticato apertamente la gestione dell'associazione che non è riuscita a intercettare il fenomeno di Mafia Capitale, per esempio, o il caso Saguto a Palermo, la giudice, militante dell'antimafia, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Uno scandalo, quello legato ai beni confiscati, accompagnato dal silenzio assordante delle istituzioni. Che quando si sono decise a parlare, dice arrabbiato Maniaci, «l'hanno fatto troppo tardi». «Solo ora qualcuno comincia a rilasciare dichiarazioni», aggiunge. «Ma sono in ritardo. Da Raffaele Cantone a Piero Grasso». Proprio il presidente del Senato il 27 novembre aveva lanciato un appello per «un'antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandoni sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, e corsa al finanziamento pubblico e privato». Ma, insiste Maniaci, «finora se ne è stato muto come un pesce. E dire che nel 2010 Saguto era alle sue dipendenze...». Con Telejato da tempo il giornalista aveva denunciato delle irregolarità, anche al presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta. «Non volevo buttare merda, ci mancherebbe altro. Gli dissi solo che all'interno del tribunale c'era un verminaio», ricorda.

DOMANDA. E quale è stata la risposta?

RISPOSTA. Mi sentii rispondere che così prestavo il fianco agli altri, cioè ai mafiosi.

D. Quale è la situazione dell'antimafia oggi?

R. Ha perso credibilità. Ed è doloroso non credere nelle istituzioni. Tutta l'antimafia dovrebbe fare pulizia al suo interno, ormai è diventata una holding perfetta per fare affari. Se decontestualizziamo siamo di fronte a due mafie.

D. Tutto da buttare?

R. No, assolutamente. C'è una vera antimafia che non è quella delle holding, ma quella delle onlus che si autofinanziano, della gente comune, dei ragazzi. E che è nel cuore delle persone.

D. Una critica a Libera?

R. Il messaggio di Libera è meraviglioso. Ci sono migliaia di giovani in tutta Italia che lavorano e ci credono.

D. Ma...

R. Ma deve rivedere la sua gestione. Ormai non è più un club come all'inizio ma una holding.

D. Però sostiene di essere in prima fila nella trasparenza dei bilanci.

R. Lo dicono loro. La trasparenza è fondamentale.

D. I soldi rovinano tutto?

R. A mio parere così si mortifica l'antimafia vera. Ripeto ormai non parliamo di un club ristretto ma di un'associazione nazionale. E anche a livello territoriale dovrebbero essere scelte persone capaci e competenti.

D. Quindi è d'accordo con La Torre?

R. Se uno come La Torre, e stiamo parlando del figlio di Pio, sostiene che non c'è democrazia e altri membri del consiglio nazionale lasciano l'associazione...

D. Un'altra accusa è di non essere a passo con i tempi. Cosa ne pensa?

R. Le mafie sono cambiate, sono quelle dei colletti bianchi. Anche l'antimafia deve aggiornarsi, cambiare pelle e guardare il fenomeno per quello che è. Però don Ciotti si incazza. Vabbè che lui è uno che si incazza facilmente... io però avrei un paio di domande da fargli.

D. Prego.

R. Perché i ragazzi che da tutta Italia arrivano in Sicilia per partecipare a progetti come 'Liberarci dalle Spine' non solo lavorano gratis nei terreni confiscati ma devono pure pagare 150 euro per vitto e alloggio? Manodopera gratuita?

D. La seconda domanda?

R. Perché la pasta di Libera fatta col grano di Corleone viene venduta a 6 euro al chilo? Non sarebbe un messaggio bellissimo fare sì che questa pasta sia accessibile anche a chi è meno abbiente?

D. In attesa delle risposte, non crede che questa gara ad accaparrarsi un patentino antimafia stia diventando una farsa?

R. Ci sono politici antimafia, commissioni antimafia, la Dda, la Dna. Manca solo il Ddt. Farsi fotografare accanto al Don è diventato trendy. Il fatto è che ormai la normalità non esiste, è paradossale. Suggerisco a Camilleri di rivedere anche il suo Montalbano...

OLTRE LIBERA. CHE COSA C’È DIETRO LA GRANDE DISFATTA DELL’ICONOGRAFIA ANTIMAFIA. Lo scontro tra don Ciotti e La Torre e tutte le macerie in cui oggi si muovono i professionisti del moralismo chiodato, scrive Salvatore Merlo il 03 Dicembre 2015 su "Il Foglio". Don Luigi Ciotti è un ottimista, e l’ottimismo è di per se stesso un segno d’innocenza: chi non fa né pensa il male è portato a rifiutare di credere alla fatalità del male. Ed è forse per questo che il prete piemontese, il fondatore di Libera, la più estesa rete di associazioni che in Italia si occupa di gestire i beni confiscati alla mafia, dice “che non c’è nessun problema” nella sua creatura nata vent’anni fa dopo gli anni terribili delle stragi e coltivata in quel clima di rinascita, di primavera palermitana, in quella stagione d’impeti morali e di buone intenzioni che don Ciotti ha incarnato non meno di Gian Carlo Caselli, suo amico, il magistrato ed ex procuratore della Repubblica che questo prete impegnato e di sinistra andava a trovare nelle torri blindate del quartiere la Favorita, quando si cominciava a scrivere un capitolo tra i più confusi e inafferrabili della storia politica e giudiziaria d’Italia. Quando cioè da quelle stanze bunker di Palermo cominciarono a essere istruiti il processo a Giulio Andreotti, il processo “del secolo” o il processo alla “storia”, e poi la grande inchiesta su Corrado Carnevale, il giudice “ammazza sentenze” assolto e reintegrato in magistratura, fino alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti delle stragi. Così, di fronte ai contrasti che hanno portato all’allontanamento di Franco La Torre, suo collaboratore a Libera e figlio di Pio La Torre, il dirigente del Pci assassinato dalla mafia nel 1982, di fronte alle allusive ma ferme accuse del suo braccio destro di non essersi accorto e forse persino di essersi fidato (e dunque inevitabilmente affidato) al sistema dell’antimafia deviata scoperchiato dalla procura di Caltanissetta, don Ciotti dice che “è da molto tempo ormai che ci attaccano da diverse direzioni. Prima si conosceva il nemico, era la mafia”, ha detto a Repubblica. “Ora gli attacchi arrivano da più parti. Non accettiamo tuttologi. Se si vogliono fare delle critiche si indichino fatti precisi”. E insomma, con gli occhi fissi davanti a se, don Ciotti, guidato dalla sua purezza di visione come da un invisibile arcangelo, sembra quasi non vedere, non udire il trambusto indiavolato che lo circonda, quel pandemonio attraverso cui passa l’antimafia tutta, lui che pure, qualche mese fa, aveva usato parole dense: “L’antimafia non è più un fatto di coscienza”, aveva detto, “ma una carta d’identità: se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo chi ci ha costruito sopra una falsa reputazione”. E d’altra parte, per la verità, La Torre ha indicato due circostanze precise in cui la dirigenza di Libera non sarebbe riuscita “ad intercettare” i guasti e il malaffare, cioè a evitare di venire a contatto con interessi poco limpidi che si muovevano attorno al sistema istituzionale con cui in Italia vengono gestiti i beni sequestrati alla mafia: a Palermo, nell’affaire del giudice Silvana Saguto (l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione e abuso d’ufficio), e a Roma, nei rivoli torbidi della cosiddetta Mafia Capitale. La Torre ha poi avuto un aspro confronto con don Ciotti – o almeno così dice lui: “Mi ha scaricato con un sms” – e si è dunque dimesso, in violentissima polemica. Ma al di là delle ragioni e dei torti di ciascuno, questo conflitto deflagrato in pubblico, sui giornali e sui siti internet, in un contesto in cui gli ultimi fatti di cronaca giudiziaria descrivono un’antimafia deformata, mostrificata, “infangata dagli scandali”, come ha detto il presidente del Senato ed ex procuratore antimafia Pietro Grasso, con arresti in flagranza di reato (l’ex presidente antimafia della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg), con indagini su impegnatissimi esponenti della Confindustria siciliana (Antonello Montante), indagini che sfiorano imprenditori come Mimmo Costanzo, e poi ancora magistrati, avvocati, fino alle vicende non penalmente rilevanti ma politicamente disastrose di Rosario Crocetta (già “icona” dell’antimafia), insomma in questo contesto crepuscolare della stagione antimafiosa la vicenda di don Ciotti e Franco La Torre assume un suo speciale rilievo nell’atroce degrado che viene imputridendo come un tumore dentro la guerra alla mafia. Quando si parla di mafia, quando ci si accosta alle stragi, agli orrori, al sangue versato dall’eroismo di carabinieri, poliziotti, magistrati, sacerdoti, amministratori pubblici, s’accelera il metabolismo di ciascuno. Ma questo groviglio di eroismo e barbarie, di impegno civile e di sacrificio estremo, richiede una delicatezza che tuttavia non può trasformarsi in reticenza. “Il mondo dell’antimafia è ricoperto di macerie”, ha detto Salvatore Lupo, lo storico, il professore, il più grande studioso di Cosa nostra: “Più si allontana il tempo drammatico dell’emergenza più si svuota l’idea di pulizia e s’imbarcano in questo fronte carrieristi, lestofanti, impostori. Guardiamo quante imprese hanno aderito al fronte antiracket, quanti politici hanno iniziato a gridare ‘la mafia fa schifo’. E’ la grande impostura dell’antimafia”. Un fenomeno che è stato motore della lotta – efficace – contro la criminalità organizzata, fatto di leggi che si sono affinate col tempo, composto di consenso sociale, di figure dignitose, un meccanismo che ha contribuito in maniera tangibile a intaccare il potere della mafia, ma che pure ha subito una degenerazione, non sempre, non dovunque, ma strisciante, pervasiva, inquinante – “c’è una mafia dell’antimafia”, ha detto Claudio Martelli. Eppure un meccanismo insospettabile a prescindere, perché chiunque in questi anni si sia mai definito antimafioso – attenzione: antimafia erano anche Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo – è rimasto come protetto da un incontestabile alone di santità, nell’incarnazione più completa e sorprendente, forse preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia. Ogni professione ha un costo, ha un albo d’onore, una storia, una geografia, una pianta organica, un sapere specialistico, una retorica e un’aneddotica. E allora quello che allarma, e tormenta, è l’idea che anche Libera, come altre associazioni, istituzioni private e pubbliche che si occupano della gestione dei patrimoni mafiosi, possa essersi in qualche modo mineralizzata sotto gli occhi dolci e velati di don Ciotti, trasformata cioè, con la sua rete di milleseicento associazioni, con i millequattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia, le centoventisei persone impiegate, il fatturato di sei milioni di euro nella sola gestione dei beni del 2013, in un organizzazione di tipo politico, quasi una lobby, come suggeriscono i più accesi tra i detrattori, o comunque in un’organizzazione complessa, con i suoi interessi, i suoi eletti in Parlamento (Davide Mattiello, deputato del Pd, ex dirigente di Libera, relatore della riforma del Codice antimafia), con i suoi candidati nei diversi movimenti politici (due per il partito di Antonio Ingroia, uno per il partito di Nichi Vendola), e dunque le sue divergenze di linea interna, di orizzonte non soltanto manageriale – come sembra testimoniare il caso di Franco La Torre: “L’associazione ha dei meriti enormi”, ha detto l’ex dirigente di Libera all’Huffington post. “Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità”. Due mesi fa l’Italia ha scoperto che il manager più pagato d’Europa non era Marchionne, né l’amministratore delegato di Deutsche Banke John Cryan, ma un tale Gaetano Cappello Seminara, sovrano degli amministratori giudiziari d’Italia, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali, indagato a Caltanissetta assieme al giudice Saguto, in una storia di favoritismi sfacciati e di gestione familistica delle attività imprenditoriali sottoposte a sequestro: per duecento giorni di lavoro l’avvocato Seminara aveva chiesto diciotto milioni di euro alla Italcementi, azienda i cui vertici erano sospettati di aver favorito Cosa nostra. Sono i fatti a descrivere la deformazione dell’antimafia, trascinata in una palude, stretta in legami stabili con i misteri dell’Interno e dell’Istruzione che elargiscono considerevoli somme di denaro pubblico con una discrezionalità assai discutibile, tra bandiere al vento, agende colorate, frasi sgorgate da una grandezza e una commozione con il tempo divenute retoriche, vale a dire una via d’uscita illusoria da quel labirinto della verità che, ormai lo sappiamo, è fatto di mafia e di antimafia. “L’Antimafia dovrebbe guardare al proprio interno”, ha detto Pietro Grasso qualche giorno fa, “e dovrebbe abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato”, non dovrebbe cioè muoversi come un “potere”, che per sua definizione scatena anche lotte per il potere. L’antimafia politica si è squassata in un macello di conflitti tra Leoluca Orlando, Beppe Lumia e Rosario Crocetta. L’antimafia Confindustriale è esplosa in Sicilia nel conflitto tra Marco Venturi e Antonello Montante (poi inquisito). Dopo ogni guerra, dopo ogni rivoluzione, così come dopo una pestilenza, si sa che i costumi decadono. Ed ecco il punto. Quel che don Ciotti non può permettersi è di diventare un’altra figura di quel genere letterario dominato dai professionisti dell’antimafia, ai quali probabilmente molto più della lotta alla mafia interessa la rendita di posizione che da questa vicenda politico-burocratica possono ricavare.

Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".

La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:

a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?

b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.

c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.

d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!

e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".

«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».

Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?

«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».

Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.

«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».

Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?

«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».

È una manovra politica?

«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».

D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.

«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».

E il paragrafo su Libera?

«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».

Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?

«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».

Cosa chiedete nell’interpellanza?

«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».

Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?

«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».

Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?

«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».

I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».

Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".

Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».

Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.

Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.

Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».

A quale sistema fa riferimento?

«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».

Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».

Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara.  - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.

Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi -  neanche tanto velatamente -  altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente -  diceva all'amministratore -  una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio  -  avverte il Csm  -  in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.

Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI  GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo niente. Però la famiglia è importante.

Beni sequestrati a mafia, “Saguto aveva un debito da 18mila euro in un supermarket confiscato”. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha prelevato alcuni documenti nel supermarket Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato a un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra le carte anche il conto non pagato dall'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale - indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio - da 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell'inchiesta, scrive Giuseppe Pipitone su "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2015. Per tre anni si è rifornita nel supermercato confiscato a Cosa nostra, pagando raramente il conto, e lasciando un debito sospeso pari a 18.451 euro. A Palermo il confine tra mafia e antimafia subisce un ulteriore colpo dagli ultimi atti acquisiti nell’inchiesta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha sequestrato alcuni documenti nel supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato ad un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra quella documentazione anche il conto non pagato della Saguto, che ammonta, appunto, a 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito del giudice, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell’inchiesta. “Mi sono sempre rifornita in quel supermercato e pagavo le spese mensilmente: in ogni caso non mi sono mai occupata di quella misura di prevenzione”, si è difesa Saguto. L’amministratore giudiziario dei supermercati, Alessandro Scimeca, nelle scorse settimane aveva chiesto il pagamento del debito, trovandosi in una situazione imbarazzante perché Saguto era comunque la presidente della sezione di tribunale che gli aveva conferito l’incarico. Il magistrato, in ogni caso, ha annunciato di avere chiesto trasferimento a Milano: una decisione presa per anticipare il provvedimento di trasferimento d’ufficio aperto nei suoi confronti da parte del Csm. Oltre alla Saguto, la procedura di trasferimento è stata aperta anche per gli altri quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta e cioè per Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata, entrambi in servizio alla sezione misure di prevenzione, per il pm Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto, e per Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo, padre di Walter Virga, da pochi giorni ex amministratore giudiziario dei beni della famiglia Rappa. Palazzo dei Marescialli nel frattempo ha aperto anche un’altra pratica, pendente alla settima commissione, per fare luce sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A chiedere un nuova indagine sulla gestione Saguto è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che in prima commissione è il relatore del fascicolo sul “caso Palermo”. La nuova pratica è stata aperta per verificare la “congruità delle scelte organizzative e il rispetto delle disposizioni tabellari”, e cioè se la gestione del magistrato sotto inchiesta abbia violato le regole anche sul versante degli emolumenti liquidati agli amministratori giudiziari. Proprio oggi a Palazzo dei Marescialli è stato ascoltato il presidente dell’ordine degli avvocati di Palermo, Francesco Greco, che ai membri del Csm ha parlato di vero e proprio “caos organizzativo” della sezione misure di prevenzione, confermando il “clima di sfiducia e di grande disagio” che ha colpito l’ufficio giudiziario dopo l’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta. Lunedì 19 ottobre, invece, sono previste le audizioni del presidente della corte d’appello di Palermo Gioacchino Natoli, del procuratore generale Roberto Scarpinato e del presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca. Il giorno successivo è il turno del presidente della Camera penale palermitana Antonino Rubino, che nelle scorse settimane, ha chiesto di “azzerare” la sezione misure di prevenzione e di trasferirne le competenze alle sezioni ordinarie. A quel punto il Csm dovrà decidere quando convocare i cinque magistrati coinvolti dall’inchiesta che imbarazza il mondo dell’antimafia.

Silvana e le continue sorprese: spunta anche un giornalista nell’inchiesta della Procura, scrive il 16 ottobre 2015 Danilo Daquino su "Telejato". SILVANA NON FINISCE MAI DI STUPIRCI. Dopo la collana ricevuta in regalo da Cappellano e il debito da 18 mila euro presso il supermercato Sgroi, concesso in amministrazione giudiziaria, dal giudice Vincenzi, ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca (un nome che ritorna spesso), adesso viene fuori che la signora aveva rapporti privilegiati con giornalisti che celebravano e vantavano le sue attività svolte all’interno della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A renderlo noto è il Csm: “Propalazione delle notizie relative ad un immobile confiscato ad un giornalista che lo aveva chiesto in assegnazione con l’intento di destinarlo a sede dell’Assostampa, in cambio, da parte sua, della redazione di interviste e articoli celebrativi pubblicati su Il Giornale di Sicilia”. Un piano perfetto che avrebbe garantito alla signora Silvana massima copertura da più punti di vista, in cambio del bene che avrebbe fatto comodo a numerosi giornalisti siciliani e non solo al Giornale di Sicilia. Basti pensare alla notizia di qualche mese fa che annunciava “La mafia vuole uccidere la Saguto”, fatta sfuggire ad arte da un funzionario della Dia (bingo!) finito nel registro degli indagati. Articoli inventati con lo scopo di rafforzare e tutelare l’immagine dell’illustre magistrato e pubblicati su giornali buoni solo per incartarci le sardine! Non tarda a rispondere alle accuse l’Assostampa, sindacato dei giornalisti: “Il Consiglio regionale dell’Associazione siciliana della Stampa, nella riunione del 27 aprile 2015 tenuta ad Agrigento, aveva dato mandato a un suo componente di informarsi, presso le sedi competenti, sui passaggi che bisognava compiere per arrivare all’affitto di un bene confiscato alla mafia. Di tutto questo c’è traccia nel verbale di quella seduta. A oggi, comunque – prosegue la nota – non è stato ancora presentato alcun atto formale di richiesta. Quanto al riferimento del Csm a ‘interviste e articoli celebrativi’ come presunta merce di scambio, è una ipotesi del tutto impensabile e fuori dalla realtà: per il semplice fatto – conclude – che nessun giornalista, a maggior ragione se è anche un dirigente sindacale, sarebbe in grado di garantire una cosa del genere visto il sistema di competenze e controlli interni che regola un giornale”. Insomma, nel caso ci sono ancora troppi lati oscuri da chiarire. Intanto all’interno del tribunale di Palermo, ormai al centro della cronaca italiana, si respira un clima pesante. Una pesantezza che si sarebbe potuta evitare se gli indagati avessero portato avanti la giustizia nell’ottica della legalità. La ciliegina sulla torta, oggi, la mettiamo sulle testimonianze degli agenti di scorta che, interrogati, hanno raccontato di essere stati utilizzati come “servizio taxi” per fare la spesa, ritirare vestiti in tintoria o accompagnare addirittura amici e parenti del giudice. Caramma che sorpresa!

Non ci lasciare, Silvana…scrive Salvo Vitale su "Telejato". APPRENDIAMO DAL GIORNALE DI SICILIA, CON IL SOLITO ARTICOLO SCRITTO “SU MISURA” E AL MOMENTO GIUSTO, DA RICCARDO ARENA, CHE SILVANA SAGUTO, DOPO LA BUFERA CHE LE È CADUTA ADDOSSO, HA DECISO DI ANDARSENE, NATURALMENTE PRIMA CHE IL CSM POSSA DISPORRE IL SUO TRASFERIMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE. In questo caso si tratterebbe di una punizione, il trasferimento volontario invece sarebbe una sua scelta. L’articolo parte dalla solita scusa che in questi giorni abbiamo sentito spesso: “Vogliono fermarci”. E sì, signor giudice, può darsi che anche i mafiosi vogliano fermarla, ma noi ci proviamo per tutt’altre ragioni, legate al ripristino della legalità, della funzionalità e della “giustizia giusta” nell’ufficio sinora da lei presieduto. Apprendiamo dalle sue dichiarazioni che ha un figlio svogliato, che lo ha affidato alle cure di un suo pupillo, il chiarissimo professore di tre università Carmelo Provenzano, pare di capire, sulla base di quanto dice lei stessa, che gli ha scritto la tesi, o forse che gli ha fatto da consulente. Apprendiamo che il solito Cappellano, per il suo compleanno, le ha regalato una bella collana. Ma guarda un po’! Ai comuni mortali si regala un profumino o una borsa, a lei una collana, un regalo che si fa solitamente alle mogli. Mah!!!! Apprendiamo anche che lei versa in qualche difficoltà economica, malgrado tutti i soldi delle consulenze incassati da suo marito. Insomma, una buona madre di famiglia che pensa anche a farsi aiutare da suo padre. E infine che vuole andarsene a Milano o a Catania. Le consigliamo Milano, lì la giustizia funziona un po’ meglio e lei stessa avrà possibilità di dare e ricevere un contributo. Intanto da qualche giorno le udienze alle misure di prevenzione cominciano alle 10 e non a mezzogiorno, come quando c’era lei, il Cappellaccio è sempre là con una decina di suoi quotini che lo guardano in attesa di ordini, i tempi delle udienze sembrano essersi notevolmente accorciati, pare che il suo sostituto, il dott. Fontana non starà ancora a lungo al suo posto e sarà sostituito dal dott. Montalbano. Che non è il commissario di Camilleri. Insomma, se le premesse sono giuste, sembra ci stiamo avviando alla normalità. Le sembra niente?

"Saguto cercò notizie riservate". Le accuse del Csm, scrive "Telejato". L'inchiesta della procura di Caltanissetta riguarda la gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.RMO - Avrebbe "mobilitato persone di sua conoscenza per acquisire notizie riservate presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo sull'esistenza di un procedimento penale che dal capoluogo siciliano avrebbero mandato ai colleghi nisseni". C'è anche questo nel lungo elenco di accuse che il Consiglio Superiore della Magistratura contesta al giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio. La prima commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti e di altri quattro magistrati, anche loro indagati, un procedimento per il trasferimento d'ufficio. Saguto, nel frattempo, ha fatto domanda di trasferimento. Sulle toghe coinvolte grava anche un possibile procedimento disciplinare: il pg della Cassazione ha avviato, infatti, accertamenti sul caso. L'inchiesta nissena - parte degli atti sono stati inviati al Csm che, anche sulla base delle carte ricevute ha potuto avviare il procedimento per il trasferimento - riguarda l'illecita gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. Quel che viene fuori è però un sistema più ampio basato su scambi di favori e condotte, quando non illecite, "suscettibili di valutazioni critiche", scrive la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Tra gli episodi elencati dal Csm la nomina del figlio del giudice Tommaso Virga, Walter, amministratore giudiziario di un patrimonio milionario, in cambio di un presunto intervento del padre, ex consigliere di Palazzo dei Marescialli, in un procedimento disciplinare riguardante la Saguto. E ancora pressioni del giudice su Walter Virga perché facesse entrare nel proprio studio la compagna del figlio, e l'esistenza di "un rapporto corruttivo" tra il magistrato e uno dei principali amministratori giudiziari della città, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quest'ultimo avrebbe assegnato consulenze al marito della Saguto, anche lui indagato, e fatto lavorare il figlio nella sua società, la Tourism Project srl. Nell'inchiesta spunta anche il nome di un altro amministratore giudiziario, Carmelo Provenzano, ricercatore all'università di Enna: avrebbe fatto la tesi all'altro figlio del magistrato e regalato al giudice diversi generi alimentari di una attività da lui amministrata. Il trasferimento potrebbe riguardare anche il pm Dario Scaletta, indagato per rivelazione di segreto istruttorio, e i giudici Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d'ufficio e Fabio Licata, accusato di concorso in corruzione aggravata. Infine a Saguto si contesta l'avere instaurato rapporti "privilegiati" con alcuni giornalisti in cambio di campagne di stampa a lei favorevoli. (ANSA).

Caso Saguto, gli avvocati rinunciano alla difesa del giudice, scrive “Il Giornale di Sicilia” il 14 Ottobre 2015. Gli avvocati Francesco Crescimanno e Roberta Pezzano hanno annunciato che rinunceranno al mandato difensivo del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di una inchiesta su illeciti nelle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati a Cosa nostra. Dietro la rinuncia al mandato ci sono differenti visioni della strategia difensiva. I legali hanno reso noto che rinunceranno anche al mandato difensivo del figlio, del marito e del padre del giudice, anche loro coinvolti nell'indagine. Dietro la scelta degli avvocati ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate oggi dal magistrato al Giornale di Sicilia.

Palermo, inchiesta su gestione beni confiscati: indagata Saguto. Lei: nessun dubbio su mio operato. Le ipotesi di reato sono corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. Tra gli indagati anche il marito del giudice e l’avvocato Cappellano Seminara, scrive la Redazione online de "Il Corriere della Sera”. A Palermo quasi la metà dei beni sequestrati d’Italia. La Procura di Caltanissetta ha aperto un’inchiesta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio nei confronti della Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, che si occupa della gestione dei patrimoni mafiosi sottoposti a sequestro. «Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata»: ha detto il magistrato al sito Live Sicilia. «Incarichi a mio marito? - ha aggiunto - Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione». «La notizia dell'inchiesta è contenuta in una nota ufficiale della stessa Procura di Caltanissetta «allo scopo - è scritto - di evitare il diffondersi di notizie inesatte». «Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge nella nota - militari del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015». «Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari». Risulterebbe indagato anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che per conto del tribunale gestisce numerosi beni sequestrati ai boss. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo avrebbero notificato un terzo provvedimento anche al marito della Saguto, l'ingegnere Lorenzo Caramma, che è stato consulente di Cappellano Seminara. L'affidamento di numerosi beni sequestrati alla gestione dell'avvocato Cappellano Seminara, con relative «parcelle d'oro», era stato denunciato dall'allora direttore dell'Agenzia per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, anche di fronte alla commissione parlamentare antimafia. I rilievi di Caruso, poi sostituito con il prefetto Umberto Postiglione dopo essere andato in pensione, erano stati giudicati «non esaurienti» dalla presidente Bindi secondo la quale c'era il rischio di «delegittimare l'intero sistema». Si tratta dunque, di un’inchiesta che scotta, visto che come la stessa Saguto comunicò lo scorso aprile «Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l’Italia». Quattro mesi fa era trapelata l'indiscrezione su un progetto mafioso per uccidere Silvana Saguto. Ci sarebbe stato, secondo una segnalazione dei servizi di sicurezza, uno scambio di favori tra boss. Un sicario legato al clan Emmanuello di Gela avrebbe dovuto uccidere il giudice a Palermo e in cambio killer palermitani avrebbero dovuto eliminare Renato Di Natale, attualmente procuratore di Agrigento. Quando Di Natale ricopriva lo stesso incarico a Caltanissetta aveva coordinato le inchieste sulla cosca di Daniele Emmanuello, ucciso durante la latitanza nel 2007 in un conflitto a fuoco con la polizia nelle campagne di Enna. Il piano per eliminare i due magistrati sarebbe stato scoperto attraverso intercettazioni ambientali. Al giudice Saguto era stata subito rafforzata la scorta e assegnata un'auto con il livello massimo di blindatura.

Beni sequestrati alla mafia, Caltanissetta indaga su gestione del giudice Saguto. La procura nissena ha aperto un'inchiesta per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Nel registro degli indagati oltre alla presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 9 settembre 2015. Ennesimo terremoto nel mondo dell’Antimafia: questa volta a finire sotto inchiesta è la gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio è stata aperta dalla procura di Caltanissetta e coinvolge direttamente Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, la donna che si occupa della gestione dei patrimoni sottratti ai boss mafiosi.  Sono indagati anche l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. A dare notizia dell’inchiesta è la stessa procura nissena, con una nota diffusa “allo scopo di evitare il diffondersi di notizie inesatte“. “Su disposizione della procura della Repubblica di Caltanissetta – si legge nella nota – i militari del nucleo di polizia tributaria della guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015″.  “Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. “Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata”, ha commentato Saguto con il sito online livesicilia. Appena quattro mesi fa una nota dei servizi di sicurezza aveva fatto filtrare un allarme che indicava il magistrato come obbiettivo do un piano di morte di Cosa Nostra, citato anche in alcune intercettazioni ambientali. Secondo l’informativa, i boss palermitani avrebbero chiesto ai mafiosi di Gela di eliminare la donna che l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli definì in un’intervista “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”. Era il maggio del 2015 e la polemica sull’Olimpo degli amministratori giudiziari era tornata d’attualità grazie ad un servizio delle Iene, la trasmissione televisiva di Mediaset che aveva rilanciato le denunce di Pino Maniaci. Il direttore della piccola emittente Telejato aveva condotto una battaglia quasi solitaria contro quelli che lui chiama “gli uomini d’oro” e cioè i pochi amministratori giudiziari che si spartiscono la gestione dei beni sequestrati a Cosa nostra. Maniaci è anche l’autore di un esposto depositato alla procura di Caltanissetta e di parecchie interviste in cui attacca frontalmente lo stesso avvocato Cappellano Seminara, che per tutta risposta nei mesi scorsi lo ha denunciato per stalking. “I beni confiscati dovrebbero essere riutilizzati a fini sociali e invece, in troppi casi, sono stati considerati beni privati da alcuni amministratori giudiziari che li hanno gestiti come fortune sulle quali garantirsi un vitalizio”, aveva detto invece un anno prima l’ex direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, davanti la commissione parlamentare Antimafia. Il prefetto (che nel frattempo è stato sostituito da Umberto Postiglione) aveva citato il caso dell’Immobiliare Strasburgo confiscata al costruttore Vincenzo Piazza e da diversi anni gestita proprio dall’avvocato Cappellano Seminara che, secondo l’ex direttore dell’Agenzia, aveva percepito una “parcella di 7 milioni di euro” come amministratore giudiziario mentre aveva incassato 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. “Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?” aveva sottolineato Caruso. “Faccio questo lavoro da 28 anni – aveva replicato Cappellano Seminara – con uno studio di 35 professionisti specializzati e non mi sembra che i nuovi amministratori siano stati nominati dall’Agenzia con criteri obiettivamente diversi da quelli utilizzati dal tribunale. Quanto ai compensi una cosa è gestire l’amministrazione dinamica di un’impresa che richiede progettualità e rischio, come abbiamo fatto noi fino al 2010, altra cosa è liquidare un’azienda secondo le nuove direttive dell’Agenzia”. Le parole del prefetto Caruso in ogni caso furono liquidate da Rosy Bindi, presidente di palazzo San Macuto, perché rischiavano di delegittimare “magistrati che rischiano la vita”. Dodici mesi dopo ecco che la gestione dei beni sequestrati ai boss di Cosa nostra è diventata argomento d’indagine per i pm nisseni.

Inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia, ecco tutte le accuse alla Saguto, scrive Riccardo Arena su "Il Giornale di Sicilia”. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto tra il 2004 e il 2014. A casa del presidente Saguto hanno sequestrato anche una collezione di coltellini e una tesi di laurea, entrambe appartenenti a uno dei figli del magistrato e dell'ingegnere Lorenzo Caramma, mentre Gaetano Cappellano Seminara è stato raggiunto e perquisito pure nella stanza dell'albergo romano in cui si trovava. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto, tra il 2004 e il 2014, non solo a Palermo, ma anche a Caltanissetta e Trapani, ricevendo una retribuzione complessiva di 750 mila euro lordi: e 306.788 euro gli sarebbero stati «corrisposti direttamente dall'avvocato Cappellano Seminara». Non si trattava di prestazioni professionali ma ci sarebbe stato dietro uno scambio di favori, sostiene l'accusa, perché Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, a Cappellano Seminara affidò poi una serie di incarichi. L'avvocato è ritenuto una sorta di recordman delle amministrazioni giudiziarie: ma non lavora certo solo per conto dei magistrati palermitani. Nel mirino dei pm nisseni e del Gip Maria Carmela Giannazzo, che ha emesso il decreto con cui è stata autorizzata la perquisizione nello studio legale di Cappellano Seminara, c'è lo «stabile rapporto di collaborazione professionale» tra l'avvocato e Caramma, marito della dottoressa Saguto.

Gestione dei beni confiscati: "Bomba giudiziaria" a Palermo, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. La procura di Caltanissetta indaga sull'accusa di corruzione e abuso d'ufficio. Avviso di garanzia alla presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo e al più noto fra gli amministratori giudiziari del capoluogo. Perquisiti la cancelleria e l'ufficio del magistrato che replica: "Non ho dubbi sul mio operato, voglio essere interrogata". La bomba giudiziaria è esplosa stamani. Sotto inchiesta finiscono Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano appellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. È, infatti, la gestione del patrimonio sottratto ai boss a finire sotto accusa. Ipotesi pesanti quelle contestate dalla Procura di Caltanissetta: corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Stamani alla Saguto è stato notificato un avviso di garanzia - o meglio l'avviso dell'avviso, visto che era fuori città - e sono stati perquisiti il suo ufficio e la cancelleria al piano terra del nuovo palazzo di giustizia di Palermo. L'inchiesta affidata ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria ruota attorno agli incarichi che il marito della Saguto avrebbe ottenuto divenendo consulente di Cappellano Seminara. Il magistrato da noi raggiunto al telefono taglia corto: “Non ho dubbi suol mio operato e chiederò subito di essere interrogata. Incarichi a mio marito? Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione”. A dare notizia dell'inchiesta è stata la stessa Procura nissena "allo scopo - si legge in una nota - di evitare il diffondersi di notizie inesatte". "Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge ancora - militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". I pm non fanno i nomi, ma oltre alla Saguto l'indagine coinvolge il marito e Cappellano Seminara, l'uomo che più di tutti - facendo montare la polemica sulle parcelle - ha gestito il patrimonio sequestrato dai magistrati ai boss. L'avvocato è stato uno dei primi ad occuparsi del settore e negli anni ha costruito una macchina che ha gestito patrimoni sterminati: da quello del costruttore Piazza ai beni della famiglia di don Vito Ciancimino. Cappellano Seminara era stato uno dei principali obiettivi delle critiche mosse da Giuseppe Caruso, ex responsabile dell'agenzia per i beni confiscati. Il prefetto era stato piuttosto duro, sostenendo che alcuni amministratori avevano "usato a fini personali" i beni confiscati, incassando "parcelle stratosferiche" e mantenendo incarichi nei consigli di amministrazione delle stesse aziende confiscate. Convocato dalla Commissione parlamentare antimafia, arrivata appositamente in città nel marzo 2014, l'avvocato Seminara aveva risposto per le rime bollando come “sorprendenti e gravi” le parole di Caruso. Le definì “un ingiustificato attacco alla sua persona e a tutto il sistema dell'amministrazione giudiziaria”. Nel braccio di ferro alla fine Caruso ebbe la peggio. La presidente della Commissione, Rosi Bindi, e il suo vice, Claudio Fava, confermarono il rischio delegittimazione provocato dalle parole di Caruso, considerate tardive perché giunte alla vigilia della scadenza del suo mandato.

Indagati Saguto e Cappellano Seminara. Il grande intrigo dei beni confiscati, continua Riccardo Lo Verso. In ballo ci sono le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. L'inchiesta dei pm di Caltanissetta, che coinvolge la presidente delle Misure di Prevenzione e il più noto fra gli amministratori giudiziari, fa tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si basa il contrasto allo strapotere economico dei boss. “La faccenda è seria, molto seria” dice qualcuno bene informato. Ieri, fino a tarda serata, i finanzieri della Polizia tributaria di Palermo cercavano carte nello studio dell'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Prima erano stati nell'ufficio di Silvana Saguto, la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e pure in cancelleria nel nuovo Palazzo di giustizia. Magistrati - in questo caso i pubblici ministeri di Caltanissetta - che frugano nella stanza di una collega. Basta questo per capire la portata dell'inchiesta che rischia di picconare l'intero sistema su cui si regge la gestione dei beni sequestrati alla mafia. Roba da fare tremare i polsi. Non si tratta delle voci degli addetti ai lavori che di scandalo hanno spesso parlato. O delle inchieste giornalistiche che hanno puntato il dito contro gestioni poco chiare e parcelle milionarie. Stavolta si è mossa la Procura di Caltanissetta che ieri si è presentata a Paleremo con avvisi di garanzia e decreti di perquisizione. Un'indagine che va avanti da mesi, forse anni se ad essa vanno collegate alcune tracce emerse nel tempo. Come la convocazione, nel marzo 2014, nelle vesti di persona informata sui fatti, del battagliero giornalista Pino Maniaci che alla gestione dei beni e agli scandali che ad essa sarebbero connessi ha dedicato una fetta importante del proprio lavoro. Erano i giorni in cui Cappello Seminara veniva nominato amministratore giudiziario di alcuni alberghi e qualcuno fece notare il suo presunto conflitto di interessi visto che l'avvocato era diventato, nel frattempo, titolare assieme ai familiari di un hotel nel centro storico di Palermo. Non sappiamo cosa ci sia nel fascicolo dei pm nisseni guidati, ancora per pochi giorni, da Sergio Lari, che dal 15 settembre diventerà procuratore generale sempre a Caltanissetta. Analizzando gli unici dati certi finora trapelati saremmo di fronte ad una partita di giro. Un magistrato, la Saguto, che stando ad una nota dei servizi segreti di alcuni in mesi fa la mafia voleva ammazzare, sarebbe in combutta illecita con un professionista, Cappellano Seminara, al quale avrebbe assegnato le amministrazioni giudiziarie facendogli guadagnare cifre consistenti. In cambio Cappellano avrebbe affidato, secondo la Procura, incarichi di consulenza a Lorenzo Caramma, ingegnere e soprattutto marito della Saguto. Il tutto in contesti diversi dal tribunale di Palermo. Da qui le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. C'è dell'altro? È solo l'inizio di un'inchiesta più ampia oppure l'approdo di una lunga scrematura investigativa? La nota della Procura, stilata quando ieri a Caltanissetta hanno capito che era impossibile tenere nascosta la notizia, dice tutto e niente: “Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". Di certo l'inchiesta che i bene informati definiscono "molto seria" perchè ci sono "molte posizioni al vaglio" fra tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si è basato il contrasto economico allo strapotere dei boss. La Procura chiede, le forze investigative propongono e la sezione misure di prevenzione dispone il sequestro e le confische dei patrimoni affidati quindi alla gestione degli amministratori scelti in via fiduciaria. Sui provvedimenti, decine negli ultimi anni per centinaia di milioni di euro, c'è la firma della Saguto e di altri due magistrati che compongono il collegio. Lo stesso collegio che vista i passaggi seguiti dagli amministratori. Eppure il meccanismo che in questi anni ha colpito padrini, boss e picciotti della vecchia e nuova Cosa nostra sarebbe divenuto groviglio di interessi. Roba da comitato di affari. Fra i primi a specializzarsi nel settore delle amministrazioni giudiziarie c'è Cappellano Seminara che, solo per citare la pratica più conosciuta, ha gestito i beni di Massimo Ciancimino. E attorno al suo nome si è consumato un aspro conflitto. Perché la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia è stato spesso terreno di scontri e veleni. Una saga con tanti protagonisti. A cominciare dai parlamentari della Commissione nazionale antimafia. Nel 2014 il prefetto Giuseppe Caruso, poco prima di lasciare la direzione dell'Agenzia, sollevò un polverone denunciando la “gestione ad uso privato” dei beni da parte di alcuni amministratori giudiziari scelti dai Tribunali. Il riferimento, neppure nascosto, era a Cappellano Seminara che reagì con durezza. Ne venne fuori un braccio di ferro vinto dalla magistratura con l'appoggio “incondizionato” della politica. Un appoggio che si concretizzò nella due giorni di visita siciliana della Commissione guidata da Rosi Bindi. Allora il vice presidente, Claudio Fava, definì “bizzarro” il comportamento di Caruso, soprattutto per la tempistica delle dichiarazioni dell'allora direttore dell'Agenzia. La Bindi rincarò la dose: “Sono affermazioni (quelle di Caruso ndr) che possono delegittimare un intero sistema”. In realtà Caruso sul punto aveva sostenuto di non volere certo delegittimare il lavoro della magistratura, ma segnalare l'inopportunità che gli amministratori giudiziari fossero anche presidenti dei consigli di amministrazione delle società, molte delle quali non passavano e non passano dal sequestro alla confisca. Un anno dopo - febbraio 2015 - fu la commissione regionale antimafia, presieduta da Nello Musumeci, ad annunciare l'invio alle autorità competenti di un dossier su presunte anomalie: "In alcuni casi abbiamo ricevuto denunce di incompatibilità, eccessiva concentrazione di incarichi, in altri tentativi di favorire società o studi professionali vicini all’amministratore”. Un mese dopo di beni confiscati si tornò a parlare quando Antonello Montante, nominato dal governo all'Agenzia nazionale oggi guidata da Umberto Postiglione, fu “costretto” a fare un passo indietro dopo la notizia dell'indagine per mafia a suo carico. Montante avrebbe dovuto offrire la sua competenza di leader confindustriale per sdoganare da prefettizia a manageriale la gestione dei beni strappati alla criminalità organizzata. Un patrimonio sconfinato: quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende che spesso restano impantanati. Colpa della burocrazia, della cattiva gestione ma anche della difficoltà di misurarsi nel mercato con un socio “scomodo” come lo Stato. Stare nell'alveo della legalità è anti economico. Ieri l'ultima tappa dell'intrigo con le perquisizioni subite dalla Saguto e da Cappellano Seminara. L'avvocato che rispose così all'accusa di essere un professionista dalle parcelle d'oro: “Ho presentato una parcella lorda di 7 milioni di euro per 15 anni di lavoro durante il quale ho amministrato, insieme ad un team di 30 collaboratori, 32 società e ho accresciuto il valore commerciale degli asset a me conferiti a 1,5 miliardi di euro. Nel periodo di gestione giudiziaria i soli beni aziendali giunti a confisca hanno prodotto ricavi per oltre 280 milioni di euro, attestando così il costo della gestione giudiziaria a circa il 2,50% dei ricavi. Giova inoltre ricordare che dalla liquidazione disposta dal Tribunale, interamente corrisposta con fondi del patrimonio confiscato, ne è derivata a mio carico, in favore dell'Erario una imposizione fiscale di complessivi euro 4.248.281 pari al 60% del lordo percepito”. E la Saguto come replica? "Non ho dubbi sul mio operato e chiederò ai magistrati di essere subito interrogata", ha detto ieri a Livesicilia mentre si trovava fuori città.

Beni confiscati, consulenze, intercettazioni. I pm: "Ecco il prezzo della corruzione", continua ancora Riccardo Lo Verso. Nel cuore dell'inchiesta sul presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima si dice certa di poter dimostrare la propria correttezza, il legale: "Incarichi sempre decisi da giudici". Una ventina di consulenze in dieci anni per un totale di 750mila euro lordi. Ecco quale sarebbe il prezzo della corruzione, secondo i pubblici ministeri di Caltanissetta, nel presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima è la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo; il secondo è il più conosciuto fra gli amministratori giudiziari nell'intero territorio nazionale. La Saguto avrebbe assegnato a Cappellano Seminara la gestione di grossi patrimoni tolti alla mafia ottenendo in cambio incarichi per il marito Lorenzo Caramma, ingegnere e consulente dell'avvocato. Tutti e tre sono finiti nel registro degli indagati in un'inchiesta che ipotizza reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Reati tanto gravi da spingere i pm nisseni a perquisire persino l'ufficio della Saguto e la cancelleria del Tribunale. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati all'ingegnere Caramma dal 2004 al 2014, in un arco temporale che inizia quando la Saguto è membro del collegio delle Misure di prevenzione e arriva fino a quando dello stesso collegio il magistrato è ormai divenuto presidente. E cioè dal 2010. Nel decreto di perquisizione notificato ieri agli indagati nel corso delle “viste” a casa, in studio e in Tribunale vengono snocciolati numeri, cifre e fatture delle consulenze. Incarichi che non riguardano fascicoli istruiti dal Tribunale di Palermo, ma da quelli di Agrigento, Trapani e Caltanissetta. Nel decreto si fa cenno ad un capitolo dell'indagine che, in realtà, costituirebbe il fronte più caldo dell'inchiesta. E cioè all'esistenza di intercettazioni telefoniche. Le cose sarebbero andate più o meno così: i pm ricevono nel 2014 alcuni esposti, fra cui quello del giornalista di Tele Jato Pino Maniaci, che gettano pesantissime ombre sulla gestione dei beni da parte del Tribunale presieduto dalla Saguto e denunciano presunti intrecci illeciti e pagamenti di parcelle d'oro; quindi i magistrati - l'inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Lia Sava e dal sostituto Gabriele Paci - decidono di mettere i telefoni sotto controllo. Ed è anche, e forse soprattutto, per trovare riscontri a quanto captato dai nastri magnetici che fino a stamattina i finanzieri del Nucleo di polizia Tributaria di Palermo hanno acquisito atti del tribunale, dichiarazioni dei redditi e documenti contabili. Ieri la Saguto si è difesa sostenendo di essere certa di potere dimostrare la propria correttezza ai magistrati dai quali spera di essere presto convocata. Oggi tocca a Cappellano Seminara, ultimate le operazioni dei finanzieri alla presenza del suo legale, l'avvocato Sergio Monaco, respingere le accuse. "Gli incarichi a Caramma, in qualità di Coadiutore o Consulente in alcune procedure di Amministrazione Giudiziaria, sono stati decisi dai Giudici Delegati dei rispettivi Tribunali, gli unici preposti a dette nomine ed alla liquidazione dei relativi compensi - precisa Cappellano Seminara in una nota -. Il mio ruolo è stato quello di proporre la figura di un affermato e stimato professionista che, da oltre trent’anni, collabora quale Consulente fiduciario con le Procure della Repubblica ed i Tribunali siciliani, sia in sede penale che civile, incluso il Tribunale di Caltanissetta. Caramma non è mai stato da me proposto nell’ambito di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo presieduto dalla dottoressa Saguto e le nomine del predetto, in talune procedure, sono avvenute diversi anni prima dell’incarico del Giudice Silvana Saguto alla Presidenza della Sezione. Osservo che in tutti i Tribunali siciliani congiunti dei Magistrati che ivi prestano servizio - ancora Cappellano Seminara -, ricevono quotidianamente, da altri Magistrati dello stesso Tribunale, incarichi sia quali Avvocati, Curatori, Consulenti, Amministratori Giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un Magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei Distretti delle Corti d’Appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente e senza rilievo alcuno".

La nota diramata dalla procura dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta non ammette repliche, dopo anni di denunce e inchieste la giustizia sta facendo il suo corso, scrive Telejato. L’abbiamo chiamata Mafia dell’Antimafia, cercando in questi lunghi mesi di denunciare il malaffare e la corruzione che hanno imperversato nella gestione di molti beni sequestrati alla mafia. Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015. Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari. La sezione del tribunale presieduta da Silvana Saguto gestisce un patrimonio immenso di misure di prevenzione, beni sottratti ai presunti mafiosi, circa il 43% di tutti quelle emesse in Italia. I beni negli anni sono stati gestiti in maniera molto discutibile secondo un sistema che Telejato ha definito in tempi non sospetti dei Quotini, amministratori giudiziari in quota che hanno gestito la maggior parte dei sequestri Palermo e provincia.

Nonostante le denunce cadute nel vuoto da parte dell’ex prefetto Caruso che aveva presieduto l’agenzia nazionale dei beni confiscati e vari casi eclatanti denunciati dalle Iene in collaborazione con Telejato, anche la commissione nazionale antimafia, ad eccezion fatta di un suo solo membro, ha sempre creduto alla versione dei fatti della Saguto, mostrandole anche solidarietà, come nel caso eclatante della famiglia Cavallotti. Fiduciosi che la giustizia farà il suo corso, aspettiamo con ansia il coro di sdegno dell’antimafia da passeggio e parolaia che in questi anni ha ignorato deliberatamente certe denunce, acclamando talvolta l’operato di queste persone.

Indagata la Saguto, il marito e Cappellano Seminara. Il triangolo no…non l’avevo considerato, continua "Telejato".

VENGONO AL PETTINE I NODI CHE DA TEMPO ABBIAMO DENUNCIATO E CHE PINO MANIACI AVEVA RIVELATO GIÀ CIRCA DUE ANNI FA ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA, LA QUALE AVEVA PRESO L’IMPEGNO, MAI RISPETTATO DI RISENTIRLO.

Qualcuno potrebbe pensare che abbiamo fatto salti in aria di gioia quando abbiamo saputo che la signora Saguto, presidente dell’ufficio misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è sotto indagine, da parte della procura di Caltanissetta, per concussione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. E invece no. Ogni volta che un rappresentante della giustizia, e pertanto che amministra la giustizia in nome dello stato, finisce sotto indagine, da parte dei suoi stessi colleghi, non possiamo che preoccuparci ed esprimere il nostro disagio su come si amministra la giustizia in Italia. E’ qualcosa che colpisce tutti e di cui non si può gioire, ma rattristarsi. E questa indagine dimostra proprio le due facce della giustizia italiana: quella di una procura, quella di Caltanissetta, competente per le indagini che riguardano l’operato dei magistrati di Palermo, che, in questo caso, scavalcando tutti i nostri dubbi e sospetti di reciproche protezioni tra magistrati che hanno lavorato fianco a fianco, ha “osato” posare l’occhio sull’operato di un settore della Procura di Palermo, e quella di un magistrato di questa procura che invece ha operato in assoluta libertà nell’uso di uno smisurato potere datole dalla normativa che regola le misure di prevenzione. Già Caselli aveva definito la Saguto una delle donne più potenti di Palermo e la sua potenza le deriva nell’avere costruito un patrimonio che supera i 40 miliardi di euro (parliamo solo della provincia di Palermo e di quella di Trapani, spesso ad essa connessa). In pratica buona parte del capitalismo siciliano è finita sotto sequestro, sotto il controllo dell’ufficio di prevenzione, con accuse spesso fondate su deduzioni, sospetti, dichiarazioni spesso pilotate di pentiti, scavalcando in parecchi casi anche la collaborazione offerta dagli stessi imprenditori che hanno fatto una scelta di legalità e si sono invece visti sequestrare tutto, senza alcuna possibilità di potere ricominciare un qualsiasi lavoro.  Si potrebbe pensare che alla fine la giustizia arriva, come ogni tanto succede, ma moltissimi casi di sequestro sono stati ritenuti infondati da sentenze e dalla normale procedura penale e, nonostante ciò l’ufficio misure di prevenzione ha invece continuato ad emettere decreti di confisca nei confronti degli imprenditori assolti. Abbiamo denunciato la gestione e i metodi disinvolti, per usare un eufemismo, della “signora” di Palermo da quasi due anni. Abbiamo ricostruito pezzi del suo “cerchio magico” fatto da magistrati e avvocati che abbiamo chiamato “quotini”, cioè in quota al re degli amministratori giudiziari palermitani, Cappellano Seminara, il quale oggi si ritrova anche lui indagato assieme al marito della Saguto, l’ing. Caramma, suo collaboratore. Si tratta di nomi ormai noti, Dara, Turchio, Benanti, Santangelo, Miserendino, Virga, Ribolla, Modica de Moach, di avvocati che dovrebbero tutelare gli interessi dei clienti e che invece cercano accordi e intese con i magistrati per dare il contentino al cliente ma anche per non mettersi contro le decisioni dell’apparato giudiziario nel quale essi convivono. E così l’imprenditoria siciliana non ha scelta: o schierarsi con l’apparente scelta di legalità della Confindustria ed entrare “in quota”, o correre giornalmente il rischio di finire sotto sequestro per una parentela, una presenza, una commissione fatta nel corso degli anni con qualche mafioso, cosa che in Sicilia capita spesso. Nel caso del triangolo Saguto-Caramma-Seminara abbiamo da tempo denunciato gli intrecci tra il figlio della Saguto, Elio Crazy, chef valente che lavora presso l’hotel Brunaccini, nell’albergo di Cappellano Seminara, di cui è consulente suo padre l’ing. Caramma. Con abile mossa l’avvocato Cappellano è riuscito a mettere le mani su una parte del settore alberghiero palermitano, quello del Gruppo Ponte, con la scusa della presenza del mafioso Sbeglia, tra i presunti lavoratori dell’albergo. Adesso la situazione dell’albergo è pietosa, ci sono state denunce di clienti che si sono trovati in stanze con le vasche da bagno sporche e con fuoriuscita di acqua verdastra dai rubinetti, ma il solito Cappellano ha invitato il cliente a soprassedere. La longa manus di Cappellano, sempre con la firma della Saguto, si è estesa a novanta incarichi ad esso assegnati, di cui siamo in grado di fornire l’elenco, e dove si incontrano enormi patrimoni interamente assorbiti dal nulla o rivenduti ad amici o finiti in partite di giro dove ci sono strani passaggi di mezzi, beni, merci e quant’altro da un’azienda a un’altra, il tutto svenduto per quattro soldi. E’ il caso dell’Aedilia Venustas, per non parlare di quello della Immobiliare Strasburgo del mafioso Piazza, per la cui amministrazione, secondo l’ex prefetto Caruso, Cappellano avrebbe incassato 7 milioni di euro e altri 100 mila euro come compenso del suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione. Altra pagina che lascia sgomenti e per la quale Cappellano è indagato è quella della discarica di Glina, che il nostro insaziabile rappresentante dello stato avrebbe cercato di controllare interamente, mandando un lustrascarpe a comprarne una quota per 300 mila euro.  Si potrebbe andare avanti, ma parliamo di cose che abbiamo denunciato da tempo e che speriamo possano emergere adesso se il giudice Paci di Caltanissetta avrà la possibilità di procedere serenamente, senza interferenze, pressioni, o peggio che mai, minacce. Non è certo un’indagine su un magistrato potente che risolverà il problema dei beni confiscati e soprattutto sulla anomalia tutta italiana dei poteri dati a un ufficio di prevenzione che, nel 90 per cento dei casi invece di prevenire affossa e chiede all’imputato l’onere della prova, compito che invece spetterebbe al magistrato. E questo onere è costantemente rinviato in attesa di una giustizia che non arriva, che distrugge le aziende e le lascia nelle mani di parassiti, sono pagati con i proventi dell’azienda stessa. Tra i tanti commenti che abbiamo letto su “Il fatto quotidiano” ne riportiamo uno che scrive: “spero che Caltanissetta stia indagando anche sugli altri amministratori, come il giovane avvocato trentenne che l’anno scorso si è visto assegnare, sempre dalla Saguto, la gestione di un patrimonio da 600 milioni (aggiungiamo, quello dei fratelli Rappa), non si sa grazie a quali incredibili capacità. Si può soltanto dire che prima di questa assegnazione lo stesso avvocato gestiva 4 negozi di scarpe, sempre per il tribunale di Palermo (presumiamo che si riferisca a Bagagli). Si sa che il padre, giudice presso il tribunale di Palermo, al momento della nomina era membro togato del CSM. In quel periodo imperversava la polemica con il prefetto Caruso per le parcelle d’oro accordate agli amministratori dalla Saguto. Negli stessi giorni il CSM archiviava il procedimento disciplinare, sempre nei confronti della Saguto. Lo stesso giudice, padre del trentenne amministratore, non è stato rieletto al CSM e ora fa il giudice di corte d’appello a Palermo. In ultimo l’amministratore trentenne ha acquistato da poco una villa a Mondello”. La nota è firmata “Bastian Contrario”. Nulla di nuovo rispetto a quanto abbiamo già detto, ma che giova ripetere.  E, a proposito di ville, pare che, secondo il nostro commentatore, “un’altra villa a Mondello sia stata acquistata da Cappellano Seminara per un milione e duecentomila euro gentilmente anticipati da una banca. Le garanzie per tale anticipazione sono le parcelle già emesse per l’attività di amministratore giudiziario del patrimonio a lui assegnato dalla Saguto, che, ricordo, essere superiore ai 600 milioni (si riferisce, pare, all’Immobiliare Strasburgo) e, visto che non erano sufficienti, ha messo a garanzia anche quelle che emetterà sempre per la sua attività di amministratore giudiziario”. Ci fermiamo, perché sull’argomento abbiamo già scritto un dossier di oltre cento pagine, che nessuno si è detto disponibile a pubblicare. Ora che è scoppiata la bomba, forse qualcuno si accorgerà che non abbiamo fatto, come ci hanno accusato di fare, il gioco dei mafiosi, ma quello di una giustizia che protegga gli interessi di tutti i cittadini, che sia uguale per tutti, che metta a posto le disfunzioni senza distruggere l’economia e i posti di lavoro, in una drammatica situazione di povertà in cui stiamo vivendo. Un’ultima cosa: la signora Saguto ha detto che vuole essere ascoltata, e ci mancherebbe altro, che chiarirà tutto, e ci auguriamo che lo faccia bene e senza truccare le carte. Già ha detto che l’incarico a suo marito è stato dato quando non era all’ufficio di prevenzione. E dov’era? Adesso il procedimento andrà nelle mani del Presidente del tribunale dott. Vitale, il quale deciderà sulle misure da adottare e, con ogni probabilità invierà tutto al CSM, quello che ha già archiviato il primo procedimento sulla Saguto. Perché, in un paese normale, come abbiamo letto in un altro messaggio, questa gente sarebbe già agli arresti per il rischio di inquinamento delle prove e la possibilità di reiterare il reato. In Italia siamo più buoni, diamo una possibilità a tutti e, considerato che abbiamo 7 mila km di costa con infiniti granelli di sabbia, la possibilità che tutto sia ricoperto, mare o sabbia non importa, appartiene al nostro modo di essere italiani.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto  e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

LIBERA DI DON CIOTTI: “PARTITO MAFIOSO, CRIMINALE E PERICOLOSO”.

Il pm "arresta" don Ciotti. "Libera? Partito pericoloso". La toga anticamorra Maresca su "Panorama" accusa: "Gestisce i beni mafiosi con coop non affidabili". Il sacerdote: "Fango, quereliamo", scrive Mariateresa Conti Giovedì, 14/01/2016, su "Il Giornale". In principio, a fine estate, è stato il caso Ostia, lo scontro con i grillini che li hanno accusati di essere come le coop poi finite in Mafia Capitale nella gestione dei lidi, altro che garanzia di trasparenza e legalità. Quindi, ai primi di dicembre, c'è stato lo strappo più doloroso, quello con Franco La Torre, il figlio di quel Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982 e padre della legge che inventò il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni ai boss. Un addio al vetriolo al consiglio di presidenza, quello di La Torre, che ha accusato il leader e padre di Libera, don Luigi Ciotti, di essere «autoritario e paternalistico». Ma ora l'attacco all'associazione contro le mafie che raccoglie oltre 1500 associazioni di vario genere sotto lo scudo della legalità è se possibile ancora più pesante. Perché a muoverlo è un magistrato. Un giovane pm anticamorra come Catello Maresca, che in un'intervista a Panorama in edicola oggi lancia l'affondo: «Libera dice è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anti-concorrenziale. Personalmente, sono contrario alla sua gestione, la ritengo pericolosa». Parole pesantissime cui don Ciotti, ieri in commissione Antimafia proprio per rispondere ai veleni sulla gestione dei beni sequestrati, replica furibondo annunciando querela. Brutta aria per la creatura di don Ciotti, nata 20 anni fa sulla scia dello sdegno per le stragi del '92 e del '93. Maresca, 43 anni, non è un pm qualunque. A dispetto dell'età è uno dei magistrati di punta dell'antimafia napoletana e vanta una lunga esperienza in prima linea, costatagli anche minacce personali: è lui che ha inchiodato latitanti del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine; è lui che in aula, durante un processo, si è visto apostrofare da un killer dei boss con minacce pesanti all'indirizzo della sua famiglia; è ancora lui che a Ferragosto del 2013 ha subito in casa un raid di strani ladri, che hanno rubato foto con i suoi familiari. Ecco perché l'attacco frontale a Libera di questo pm è più incisivo degli altri: «Libera - dice Maresca a Panorama - gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Per combattere la mafia è necessario smascherare gli estremisti dell'antimafia, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo, insomma l'estremismo dei settaristi, e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che si deve fare sempre così». Un siluro. Cui don Ciotti risponde a muso duro: «Noi questo signore - tuona - lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza. Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti». Don Ciotti davanti all'Antimafia si è difeso a a spada tratta: «Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono. Tanto fango fa il gioco dei mafiosi. Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna». Con don Ciotti si schiera la presidente Bindi che parla di dichiarazioni «offensive» del pm: «Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse gratuite e infondate».

La maledizione dei beni confiscati. Un pm contro Libera: "Gestione pericolosa", scrive Mercoledì 13 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Il pubblico ministero di Napoli, Catello Maresca, intervistato da Panorama, parla di "estremisti dell'antimafia" che si anniderebbero nelle “associazioni nate per combattere la mafia che tendono a farsi mafiose loro stesse". Don Luigi Ciotti non ci sta: "Menzogne, lo denuncio per diffamazione". La “maledizione” dei beni confiscati si sposta da Palermo a Roma e Libera torna ad essere bersaglio di polemiche. Stavolta è un magistrato ad attaccare l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, che non ha alcuna intenzione di essere messo all'angolo: denuncerà per diffamazione il pm Catello Maresca. È stato quest'ultimo, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che coordinò le indagini sui clan dei Casalesi, intervistato da Panorama in edicola domani, a spendere parole pesanti contro la più grande delle associazioni antimafia: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". Ed ancora: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale. Libera è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Vere e proprie bordate quelle lanciate da Maresca, secondo cui, bisogna smascherare gli "estremisti dell'antimafia" che si anniderebbero nelle “associazioni nate per combattere la mafia”, ma che “hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l'estremismo dei settaristi e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre cosi". Don Ciotti è partito al contrattacco: "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza". Davanti alla commissione antimafia dice che “oggi è in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità. Libera gode di buona salute, il movimento giovanile chiede, partecipa, c'è un fermento impressionante di ragazzi che cercano punti di riferimento veri e credibili. Io rappresento un noi non un io". Probabilmente il riferimento del sacerdote è alle polemiche sollevate da Franco La Torre a inizio dicembre, all'indomani delle dimissioni da consigliere di amministrazione di Libera. “Mi dicono che a Palermo lo sapevano tutti - aveva detto La Torre a Livesicilia -. Mi sarei aspettato che Libera ponesse il problema visto che sui beni confiscati ha fondato la sua forza. Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. Inaccettabile per La Torre che un'organizzazione come Libera non avesse tenuto le antenne dritte sulla gestione “scandalo” dei beni sottratti ai boss che ha portato all'azzeramento della sezione misure di Prevenzione del Tribunale palermitano. A cominciare dal suo ex presidente Silvana Saguto, finita sotto inchiesta e sospesa dal Csm. Ad inizio di novembre, durante l'assemblea nazionale dell'associazione, ad Assisi, La Torre aveva chiesto a gran voce un confronto perché “Libera è molto cresciuta in questi anni, serve un nuovo modello di organizzazione. Si deve avviare un progetto di formazione della classe dirigente, non si può dirigere tutto da Roma. Il mio discorso non è stato gradito (pochi giorni dopo Ciotti gli comunicò la 'rottura del rapporto di fiducia' via sms ndr'), nonostante l'abbia fatto in un contesto dove è fondamentale la libera espressione del pensiero”. Ora anche il pm di Napoli Maresca affonda la critica contro l'organizzazione e il lavoro di Libera, oggi alla guida un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi, che gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che sfiora i sei milioni di euro. Maresca e don Ciotti si vedranno in Tribunale, perché il sacerdote lo denuncerà per diffamazione.

Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

E finalmente!!! Catello Maresca santo subito. Critiche del Pm a “Libera”, che non è più un santuario di intoccabili. E il vanaglorioso don Ciotti lo querela, scrive Gianluigi Guarino il 14 gennaio 2016 su “Caserta ce”. Ci si sente meno soli quando si leggono dichiarazioni come quelle rilasciate dal Pubblico Ministero della Dda di Napoli. Le “giarretelle” cominciano a rompersi. E, aggiungiamo noi, meglio tardi che mai. Perchè il professionismo dell’anticamorra ha prodotto sicuramente molti più guai di quelli prodotti da coloro che il Corriere della Sera, titolando l’editoriale di Leonardo Sciascia, definì i “professionisti dell’antimafia”. La cosa bella di questa storia è che sono stati proprio i magistrati napoletani della Dda ad accorgersi ultimamente, dragando i mille rivoli che attraversano le loro tante inchieste, che la maggior parte della cosiddetta anticamorra militante non era altro che una furba rappresentazione delle peggiori attitudini clientelari, corruttive, consociative, compromissorie, di questo territorio. Un approccio bello, meravigliosamente laico, intellettualmente onesto, quello dei magistrati Dda, i quali avranno sicuramente avvertito un senso di profonda delusione quando hanno scoperto quello che hanno scoperto, o hanno colto quello che hanno colto, su un Lorenzo Diana o su un Donato Ceglie. Oggi sono disincantati. Al punto che uno di loro, tra i più autorevoli e tra i più esperti di indagini di camorra, stiamo parlando di Catello Maresca, non ha avuto alcun problema a dire quello che le proprie coscienza, scienza e conoscenza hanno maturato negli ultimi tempi, anche a costo di colpire quello che era diventato una sorta di dogma della fede anticamorrista e antigomorrista, cioè “Libera” di don Ciotti. “Se un’associazione come Libera – ha dichiarato Catello Maresca – diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro contribuisce ad inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi”. E non finisce qui: “Libera  aggiunge il magistrato della Dda – gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale. Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia. Ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie affiancandosi alle istituzioni dello Stato e ha contribuito a creare la consapevolezza e la convinzione che si potessero sconfiggere”. Insomma, un pensiero articolato, un giudizio in chiaroscuro. Comunque roba veramente grossa rispetto all’intoccabilità, dogmatica appunto e, concedetecelo, anche un po’ settaria, di un passato molto prossimo in cui chi ha osato mettere in discussione ruolo e funzione di don Ciotti e di “Libera” è finito sul rogo del sospetto e della maldicenza calunniosa di una connivenza, almeno morale, con la camorra. Maresca ha dichiarato queste cose proprio nel giorno in cui don Ciotti è stato ascoltato, pardon, audito, dalla più che inutile Commissione Antimafia, altro luogo di chiacchierologia applicata al nulla pneumatico. Una coincidenza? Può darsi, ma può darsi anche di no. Ma torniamo alle parole di Maresca: “Bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire (e definiamola, dottor Maresca, perchè è proprio così, n.d.d.) pseudo-imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del paese come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali abbiano potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Ciò ha fatto in modo che si sminuisse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo-antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale”. Avete letto bene, amici di Casertace: pseudo-antimafia. Con tutto il rispetto per il dottor Maresca e con l’emozione che ci pervade nell’accogliere la notizia del vero sdoganamento della categoria, a noi ben nota, dei “marpioni dell’antimafia”, queste sono cose che noi scriviamo da almeno cinque anni. Ma ancor più importanti sono le successive dichiarazioni del magistrato. “L’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati non riesce ad espletare il compito che le è stato affidato. A mio parere – consiglia il Pm – bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno, quindi, venduti. Scremando questo mare magnum di beni, se i medesimi, da 15mila, diventano mille, questi mille potranno essere distribuiti in maniera più ampia tra diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le serie organizzazioni antimafia, come Libera”. Davanti a queste parole, tutto sommato pacate e anche dense di riconoscimenti nei confronti di “Libera”, che garbatamente e pudicamente Maresca fa apparire come parte lesa, sapete don Ciotti come ha replicato? Con questa frase: “Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto”. Secondo don Ciotti si tratta di dichiarazioni sconcertanti, con cui “viene distrutta la dignità di migliaia di giovani. Libera non riceve alcun bene. Libera promuove e agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce direttamente 6 strutture”. Come si suol dire, don Ciotti fa finta di non capire e sposta la sua replica su una posizione sorda e inutilmente difensiva. “Libera” è diventata un totem e don Ciotti, ammesso e non concesso che abbia il 100% delle buone intenzioni, non immagina neppure quanti parassiti, a partire dal territorio della provincia di Caserta, abbiano utilizzato questo totem per farsi propaganda, per promuovere se stessi e il loro fariseismo da sepolcri imbiancati. Per cui, noi andiamo al di là di quello che Maresca sostiene, nel momento in cui affronta soprattutto l’aspetto materiale, un po’ deviato, della funzione di “Libera”. Noi diciamo a don Ciotti: lei da sacerdote ha compiuto peccato di vanità, perchè è stata la vanità dei salotti televisivi, che ha frequentato a iosa, a farle perdere di vista lo spirito iniziale della sua missione e della missione di “Libera”. Lei non poteva non comprendere, esimio don Ciotti, che allargare a dismisura il perimetro dell’azione della sua associazione avrebbe comportato come conseguenza la perdita del controllo delle sue attività, svolte nei territori attraverso l’uso e l’abuso di quello che è diventato, suo malgrado riteniamo, in una sorta di sublimazione dell’eterogenesi dei fini, un brand buono solo per fare affari. Gianluigi Guarino

Vittorio Sgarbi: "Sto pensando di lasciare Salemi, non voglio dare terreno a Libera di don Ciotti", scrive "Marsalaviva" il 27 novembre 2011. Vittorio Sgarbi sta pensando di lasciare la carica di sindaco di Salemi perchè, spiega, ''non ne posso più'' delle polemiche sulla presunta presenza della mafia nel territorio. Il critico d'arte ne ha parlato a Torino nel corso della presentazione di un evento culturale. ''A Salemi - ha affermato - la mafia non c'è, è in letargo''. ''Una cosa è un mafioso, un ex mafioso, un mafioso superstite, un conto è la mafia vera e propria. I Salvo ci sono stati, ora non ci sono più. E' come per il nazismo: oggi come oggi da qualche parte può saltar fuori un nazista, uno che odia gli ebrei e che ha di quelle idee, ma non si può dire che esista il nazismo in quanto tale. Eppure se dico questo mi danno dell'amico dei mafiosi''. Sgarbi ha anche lanciato uno strale contro don Luigi Ciotti: ''C'è una situazione ambientale in cui devo per forza dare un terreno dell'antimafia a Libera di don Ciotti. E io non glielo dò perchè mi stanno sui coglioni i preti, non voglio dare niente ai preti, voglio uno Stato laico dove i preti si occupano delle anime. Ma se penso questo, e se non dò il terreno a Ciotti, dicono che sono amico dei mafiosi''.

Maresca: Libera si muove come la Mafia, scrive il 14 gennaio 2016 “Il Quotidiano Piemontese”. Parole pesanti da parte di Catello Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli, nei confronti di Libera, l’associazione guidata da Don Luigi Ciotti. Per Maresca, in un’intervista a Panorama, Libera ha ormai perso i suoi obiettivi e si muove in regime di monopolio come la Mafia stessa. Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa. […] Per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse.

«No agli estremisti dell’antimafia»: duro attacco del Pm Maresca a don Ciotti, scrive mercoledì 13 gennaio 2016 “Il Secolo d’Italia”. Tempi duri per i troppo “virtuosi”. Il Pm di Napoli Catello Maresca, magistrato della Direzione nazionale antimafia, mette il dito nella piaga della gestione dei beni sequestrati ai mafiosi affidata a Libera di don Ciotti. È durissimo, Maresca, nell’intervista rilasciata a Panorama, in edicola giovedì 14 gennaio.  «Libera è stata un’importante associazione antimafia – dice Maresca – Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». «Oggi» aggiunge Maresca «per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse». Maresca insiste: «Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che “si deve fare sempre così”». E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: «Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale». Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive il 13 gennaio 2016 “Panorama”. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Il pm Maresca attacca Libera: «C’è chi la sfrutta per suoi fini». Don Ciotti: sconcertante, lo denuncio. Il magistrato: «Ha perso lo spirito iniziale esclusivamente volontaristico e si è affiancata un’altra componente, pseudo imprenditoriale con persone poco affidabili, vedi in Sicilia». La replica del sacerdote: «Chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese», scrive “Il Corriere della Sera” il 13 gennaio 2016.  Don Ciotti contro il pm Catello Maresca. Il fondatore di Libera è andato su tutte le furie leggendo l’anticipazione di un’intervista del magistrato a Panorama, in edicola giovedì. «Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza». Ma cos’ha detto Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli? In pratica ha parlato dell’associazione antimafia in questi termini: «Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi». E ha aggiunto: «Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale». Don Ciotti vede rosso: «Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese», ha detto il sacerdote parlando davanti alla Commissione parlamentare Antimafia. «Mi fa piacere che il direttore dell’Agenzia per i beni confiscati Umberto Postiglione abbia ribadito che le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono». Maresca, che coordinò le indagini per la cattura del boss dei Casalesi Zagaria, precisa che «Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia. Ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie, affiancandosi alle istituzioni dello Stato, ha contribuito a creare la consapevolezza e la convinzione che si potevano sconfiggere». Però, secondo il pm, «bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali, abbiamo potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Questo ha fatto sì che si snaturasse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale». Secondo Maresca, l’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati non riesce a espletare il compito che le è stato affidato: «A mio parere bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno quindi venduti. Scremando questo mare magnum di beni, se da 15mila diventano mille, questi possono essere distribuiti in maniera più ampia tra le diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le serie organizzazioni antimafia, come Libera». «Le affermazioni del pm Maresca «sono offensive ed era giusto far replicare don Luigi Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate». Lo ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, nel corso della seduta odierna nella quale è stato ascoltato il fondatore di Libera. «Questo nostro lavoro, di cui non mi sfugge la difficoltà - ha aggiunto Bindi - lo abbiamo intrapreso nell’ottica di rilanciare l’antimafia, non per delegittimarla. Per fare questo bisogna fare opera di verità, avendo il senso del limite. Credo che sia doveroso smascherare o contribuire a smascherare ambiguità se ci sono e impedire che ci siano processi di delegittimazione». «La mia sensazione è che in atto una campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l’antimafia ha prodotto di utile in questi anni». Lo ha detto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava (Si), durante l’audizione di don Luigi Ciotti. Fava ha accusato il pm Maresca di «affermazioni calunniose e ingenerose: c’è una falsificazione di ciò che viene descritto in quanto Libera non gestisce i beni. Ma c’è anche un elemento di ingenerosità: va ricordato che in questi 20 anni Libera ha avuto il compito di anticipare scelte che la politica non ha avuto il coraggio di fare». Fava ha domandato a don Ciotti quali tentativi di infiltrazione può aver subito il tessuto delle cooperative di Libera. «Esistono e quali sono gli strumenti per evitare queste infiltrazioni e i loro effetti?», ha concluso.

Antimafia, pm che catturò Zagaria attacca Libera: “Inquinata da intenti economici”. Don Ciotti: “Fango, lo denunciamo”. Catello Maresca, magistrato della Dda di Napoli, punta il dito sulle cooperative che gestiscono i beni confiscati alla criminalità: "C'è chi lo fa per i propri interessi", dice in un'intervista a Panorama. La reazione del fondatore, sentito oggi in Commissione parlamentare: "Le promuoviamo, ma non sono nostre. Così si fa il gioco delle mafie". E denuncia: "La nostra rete sotto attacco". Bindi lo difende: "Commissione vuole rilanciare l'antimafia, non delegittimarla", scrive "Il Fatto Quotidiano il 13 gennaio 2016. “Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittano del suo nome per fare i propri interessi”. L’attacco arriva da uno stimato pm antimafia, Catello Maresca, il sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che tra l’altro ha coordinato le indagini sui Casalesi e la cattura del boss Michele Zagaria. In un’intervista su Panorama in edicola domani, il magistrato napoletano afferma ancora: “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”. L’affondo arriva proprio nel giorno in cui don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia, che sta svolgendo una serie di audizioni proprio sui temi sollevati da Maresca. Cioè su casi di interessi economici e carriere personali coltivati approfittando della popolare etichetta dei movimenti antimafia, sull’onda di casi di cronaca che hanno coinvolto per esempio Confindustria Sicilia e il magistrato palermitano Silvana Saguto, impegnata appunto sul fronte dei beni confiscati. Libera ha comunque incassato l’immediata solidarietà del presidente della Commissione Rosy Bindi (Pd), secondo la quale le affermazioni di Maresca “sono offensive, assolutamente gratuite e infondate”. Perché il lavoro dei commissari è stato “intrapreso nell’ottica di rilanciare l’antimafia, non per delegittimarla”. Durissima la reazione di Libera, a cominciare dallo stesso don Ciotti, che ha definito le parole di Maresca “sconcertanti”: “Noi lo denunceremo questo signore, se quelle dichiarazioni saranno riportate domani in virgolettato. Quando viene distrutta la dignità di tanti giovani, io credo sia un dovere difenderli”. E ancora: “Non ho rilasciato nessuna intervista neppure quando Panorama e altri giornali ci hanno gettato fango addosso. Le fonti vanno verificate, le parole non devono essere interpretate. I giornalisti che gettano fango fanno il gioco delle mafie”. Il magistrato, però, non retrocede: “Vedremo se sarà della stessa idea quando avrà letto l’intera intervista, che affronta il tema in modo più ampio”, dice Maresca a ilfattoquotidiano.it. “Poi vedremo in che sede dovremo confrontarci”. In un successivo colloquio con l’Ansa, Maresca ha comunque riconosciuto che “Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia” e “svolge un ruolo fondamentale”. Però, secondo il pm, “bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali, abbiamo potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Questo ha fatto sì”, continua Maresca, “che si snaturasse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale”. Il nodo è sempre quello delle cooperative sociali a cui vengono affidati in gestione i beni immobili confiscati alle mafie, tema affrontato anche da don Ciotti in Commissione: “Le cooperative non sono di Libera, Libera le promuove”. E i beni sono assegnati, per la realizzazione di attività sociali, dai Comuni “con un bando pubblico”. Ai parlamentari guidati da Rosy Bindi, il fondatore di Libera ha spiegato: “C’è un equivoco che qualcuno vuole attribuire a don Ciotti: la capacità di concentrare beni e poteri economici. Non è assolutamente così. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”. Inoltre “i fondi europei vanno agli enti locali, non a Libera. Che sia chiaro a tutti: per la gestione dei beni confiscati, Libera non riceve contributi pubblici”. Libera non gestisce, ha sottolineato anche Fava, che ha bollato le dichiarazioni di Maresca come “calunniose e ingenerose”. Libera è sotto attacco, ha sostenuto don Ciotti. “Oggi è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera”. Insomma, “le trappole dell’antimafia le abbiamo ben chiare mai come oggi”. Oggi “è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera”. “Purtroppo”, ha continuato Ciotti rispondendo alle domande del senatore Pd Giuseppe Lumia e del vicepresidente della Commissione Antimafia Claudio Fava, “il tentativo di infiltrazione c’è ed è trasversale in Italia. Le nostre rogne sono cominciate con 17 processi in cui Libera si è costituita parte civile”. Altri problemi, poi, “sono nati con le cooperative. Ogni sei mesi noi chiediamo alla prefettura di verificare perché cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate e siamo dovuti intervenire noi – ha precisato -. Sono 1600 le associazioni coordinate da Libera, alcune grandi e a livello nazionale”. Il pm Maresca chiede una riforma di tutto il sistema. L’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati, sostiene, non riesce a svolgere il compito: “Bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno quindi venduti. Scremando questo ‘mare magnum’ di beni, se da 15mila diventano mille, questi possono essere distribuiti in maniera più ampia tra le diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le ‘serie’ organizzazioni antimafia, come Libera”.

Il pm Maresca contro Libera: "Non è affidabile". Don Ciotti in Commissione antimafia: "Vogliono demolirci con le menzogne". Il procuratore della dda di Napoli accusa: "Le associazioni antimafia tendono a farsi mafiose loro stesse". Il fondatore di Libera contrattacca: "Lo denuncio", scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica” il 13 gennaio 2016. Accuse pesanti lanciate da un procuratore antimafia contro l'associazione antimafia Libera, risposte altrettanto dure da parte del fondatore don Ciotti che annuncia querele e il tentativo di "demolire" la sua creatura "con le menzogne". Ma don Ciotti ascoltato proprio oggi in Commissione parlamentare antimafia ammette che i problemi di trasparenza di alcune cooperative ci sono stati ma prontamente risolti. Le accuse questa volta vengono da un pm antimafia. Dopo il polemico addio di Franco La Torre, "licenziato" da Don Ciotti via sms in seguito alle critiche mosse nel corso degli stati generali, a sparare a zero contro Libera è il sostituto procuratore della Dda di Napoli Catello Maresca che in una intervista a Panorama dice: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". Libera -  secondo il pm -  "gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale". Il magistrato napoletano accusa Libera di "gestire i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti". Parole dure che scatenano l'ira di don Luigi Ciotti, proprio oggi ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia. Il sacerdote, che preannuncia querele nei confronti del magistrato se qualcuno pubblicherà le sue parole anticipate dal settimanale con un lancio d'agenzia, replica indignato: "Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna. E' fondamentale la verità. Perché va bene le contraddizioni ma non bisogna calpestare la verità". Lo ha detto don Ciotti, presidente di Libera, parlando davanti alla commissione Antimafia. "I nostri bilanci - ha ricordato - sono pubblici, on line. Nessuno - ha ammonito - metta il cappello addosso a Libera. Noi difendiamo la dignità, la libertà e la trasversalità di tutti". "Non si può demolire il percorso di Libera con una menzogna - ha continuato don Ciotti - Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo paese. Libera gestisce solo 6 strutture direttamente. Libera non riceve nessun bene, che invece viene dato ai comuni e poi affidato alle cooperative. Per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve finanziamenti pubblici. I bilanci sono pubblici, da anni. Nessuno, nessuno, nessuno metta il cappello su Libera". "Tanto fango fa il gioco dei mafiosi -  è l'adirata replica di don Ciotti - Domani esce questa intervista. E noi questo signore (il pm napoletano antimafia, Maresca, ndr) domani mattina lo denunciamo perché si tace una, due, tre volte ma quando viene distrutta la dignità del lavoro di tante persone, è un dovere ripristinare la verità". "Il tema dell'infiltrazione è reale - ha proseguito don Ciotti, rispondendo alle domande del senatore Lumia Pd e del vicepresidente della Commissione Antimafia Fava Si - le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Di fatto noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono stati vinti da noi. Ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c'è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo delle realtà che non avevano piu i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità". "Le affermazioni del pm Maresca sull'associazione Libera sono offensive ed era giusto far replicare don Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate". Lo ha detto la presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, nel corso della seduta di oggi nella quale è stato ascoltato il fondatore di Libera. "Questo nostro lavoro, di cui non mi sfugge la difficoltà - ha aggiunto Bindi - lo abbiamo intrapreso nell'ottica di rilanciare l'antimafia, non per delegittimarla. Per fare questo bisogna fare opera di verità, avendo il senso del limite. Credo che sia doveroso smascherare o contribuire a smascherare ambiguità se ci sono e impedire che ci siano processi di delegittimazione". "La mia sensazione è che in atto una campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l'antimafia ha prodotto di utile in questi anni", ha aggiunto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava (Si). "Dobbiamo dare atto a Libera di avere svolto un lavoro importante non solo sui beni confiscati, su cui ha svolto un vero ruolo di supplenza, ma non si può non riconoscere che Libera ha costituito anche uno stimolo legislativo alla politica". Così il capogruppo del Pd in Commissione Antimafia, Franco Mirabelli - Oggi però la mafia è cambiata: si mimetizza, sta nell'economia. Oggi il movimento antimafia deve vivere sul presente e sul futuro e vivere un rapporto sulla percezione che ha l'opinione pubblica delle mafie e che è molto bassa. Oggi forse un ripensamento dell'antimafia va fatto".

"Gli interessi economici hanno snaturato Libera". E Don Ciotti querela il magistrato Catello Maresca, scrive il 13/01/2016 "L'Huffingtonpost.it". Don Luigi Ciotti denuncerà per diffamazione il pm Catello Maresca, il quale in una intervista accusa l'associazione "Libera" di albergare "persone senza scrupoli" e di aver acquisito "interessi di natura economica" simili agli interessi della mafia: "Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Parole pesanti che il fondatore di Libera non intende lasciar passare senza un intervento forte. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo", dichiara don Ciotti, non nuovo a profonde critiche all'associazione antimafia. "Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza". Le parole di Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che coordinò le indagini e la cattura di un superboss del clan dei Casalesi come Michele Zagaria, sono affidate a una intervista in edicola giovedì sul settimanale Panorama: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale", dichiara Maresca. "Libera è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa", continua il pm. "Oggi, aggiunge Maresca, per combattere la mafia è necessario smascherare gli "estremisti dell'antimafia", i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. "Registro e osservo - continua il pm – che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l'estremismo dei settaristi e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre cosi". "Oggi è in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna", ha detto don Luigi Ciotti davanti alla Commissione parlamentare antimafia. "Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità. Libera gode di buona salute, il movimento giovanile chiede, partecipa, c'è un fermento impressionante di ragazzi che cercano punti di riferimento veri e credibili. Io rappresento un noi non un io". "Il tema dell'infiltrazione è reale - ha proseguito don Ciotti, rispondendo alle domande del senatore Lumia Pd e del vicepresidente della Commissione Antimafia Fava (Sinistra Italiana) - le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Di fatto noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono stati vinti da noi. Ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c’è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c'è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo delle realtà che non avevano piu i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità". "Alcune situazioni creano sconcerto: io non ho rilasciato alcuna intervista, neppure quella che mi è stata attribuita tempo fa su Repubblica", ha concluso don Ciotti. A difendere don Ciotti è intervenuta Rosy Bindi: le affermazioni del pm Maresca "sono offensive ed era giusto far replicare don Luigi Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate", ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia. Nemmeno Claudio Fava (Si) ha apprezzato le parole del magistrato: "affermazioni calunniose e ingenerose: c'è una falsificazione di ciò che viene descritto in quanto Libera non gestisce i beni. Ma c'è anche un elemento di ingenerosità: va ricordato che in questi 20 anni Libera ha avuto il compito di anticipare scelte che la politica non ha avuto il coraggio di fare". "Per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le convenzioni vengono stipulate solo per lo svolgimento delle attività statutarie" ha specificato il fondatore di Libera contro le mafie. "Tanto fango fa il gioco dei mafiosi", ha aggiunto, anche riferendosi alle parole del pm napoletano antimafia Maresca. E ancora: "Libera non riceve nessun bene, che viene dato ai comuni e da questi affidato alle cooperative". "C'è un equivoco: qualcuno vuole attribuire a don Ciotti la capacità di concentrare beni e poteri economici. Non è assolutamente così: ci sono pochissime cose assegnate direttamente a Libera. Libera è un coordinamento di 1600 associazioni che opera con oltre 5 mila scuole e ha protocolli con 64 facoltà universitarie". "L'antimafia non può essere una carta di identità che uno tira fuori a secondo delle circostanze, è un problema di coscienza", ha aggiunto don Ciotti. "Le trappole dell'antimafia sono davanti agli occhi, mai come oggi. Si deve togliere anche questa parola Antimafia, rischiamo di essere travolti", ha aggiunto, dopo aver ricordato gli allarmi lanciati da Libera sui rischi di infiltrazioni mafiose subito dopo la riapertura del "Caffè de Paris" a Roma nel 2011. "Quando abbiamo avuto elementi, siamo andati dai magistrati a consegnarli: se alcuni processi sono in atto è anche perché abbiamo fornito noi elementi per istruirli", ha concluso, riferendosi anche alle critiche arrivate da alcuni ambienti che li hanno accusati "di non essere intervenuti per tempo e di aver taciuto sulla situazione a Roma".

Le sentite scuse del magistrato querelato da don Ciotti. Il pm antimafia che accusava «Libera» Catello Maresca scrive una lettera al sacerdote: «Sono molto spiacente, offro una completa e assoluta ritrattazione», scrive Gian Antonio Stella l'1 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Va bene, va bene, mi scuso! Sono molto molto spiacente, mi scuso senza riserve. Offro una completa e assoluta ritrattazione...». Era dai tempi della mitica abiura dell’avvocato Archie appeso per i piedi in Un pesce di nome Wanda che non si assisteva a una retromarcia come quella che ieri, con le pubbliche scuse del giudice Catello Maresca a don Luigi Ciotti ha messo fine allo scontro più duro degli ultimi anni tra i protagonisti della lotta alla mafia. Una frase per tutte: «Mai ho pronunciato quelle parole che ovviamente non mi possono in nessun modo essere attribuite, parole che non condividevo e non condivido». Meglio così. Ma c’è qualcosa che non torna.

Le accuse. Ripartiamo dall’inizio? Di qua c’era Maresca, il pm napoletano della Direzione nazionale antimafia autore tra l’altro dell’inchiesta su Michele Zagaria e i Casalesi. Di là don Ciotti, bellunese trapiantato a Torino, anima e presidente prima del Gruppo Abele e poi di Libera, la rete di associazioni, enti e gruppi locali contro le mafie. Insomma, due icone della legalità schierate sullo stesso fronte finché il magistrato, nel gennaio 2016, aveva fatto il botto. Dando un’intervista a Carmelo Caruso, di Panorama, il cui titolo deflagrava così: «L’antimafia a volte sembra mafia. A iniziare da Libera, che non è più un esempio ma un pericolo». Tra le accuse riportate tra virgolette, eccone una: «Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse».

Le critiche. «Sta parlando forse di Libera, l’associazione fondata da don Ciotti?», chiedeva il giornalista. Risposta: «Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Tesi ribadita, dopo le anticipazioni del settimanale, all’Ansa: «Libera ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie» ma «purtroppo, col tempo, a questo spirito iniziale volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali abbiano potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi».

La reazione di don Ciotti. Don Luigi Ciotti saltò su furente e indignato: «Questo signore lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi». E dopo aver insistito sul fatto che «per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici» e che «sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1.600 associazioni che la compongono», spiegò che sì, «il tema dell’infiltrazione è reale» e «le trappole dell’antimafia sono davanti ai nostri occhi» ma che proprio lui e i suoi avevano lanciato i primi allarmi facendo nomi e cognomi. Insomma: «È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna».

L’articolo sul «Mattino». Il giorno dopo, mentre sui giornali piovevano titoloni, nuova puntata: in un articolo scritto di suo pugno sul Mattino di Napoli, il pm se la prende con Ciotti anche perché l’ha chiamato «questo signore» (mentre lui l’ha «sempre chiamato con nome e cognome e con il suo meritato titolo») e sospira: «Sono rammaricato perché mi sarei aspettato una reazione diversa da parte sua e degli altri rappresentanti di Libera». Al di là di qualche distinguo, però, non smentisce nulla: «Il problema generale che io ho denunciato, rispetto al quale ho riscontrato alto interesse e condivisione, resterà». E mentre qua e là spuntano affettuosi pacieri, il fondatore di Libera aspetta per un mese e si decide. Querela.

Il mea culpa. Un anno dopo ecco il «mea culpa». Con una lettera di Catello Maresca indirizzata al «caro don Luigi» e ai «cari amici di Libera». Ricorda che «i nostri nemici sono altri e noi tutti li conosciamo bene e li sappiamo individuare, perché li combattiamo tutti i giorni» e giura: «Mi dispiace tantissimo per lo spiacevole equivoco che è nato a seguito della mia intervista a Panorama». Spiega che si trattava della sintesi di una chiacchierata «di oltre due ore», che molte sue «dichiarazioni non erano affatto riferite a Libera», che altre erano «frutto della libera interpretazione del giornalista di un concetto più articolato», che il suo unico scopo «era e resta quello di dire: stiamo attenti a non farci — tutti — strumentalizzare» e via così. Di più: rivendica di avere dato subito la sua «pronta smentita alla interpretazione offerta e pubblicata da Panorama» proprio nell’articolo sul Mattino già citato. Quindi elenca: «Mi dispiace perché mai ho voluto neanche lontanamente screditare il vostro quotidiano impegno sul campo delicatissimo dell’antimafia sociale, né mettere in dubbio il valore inestimabile della storia di Libera. Mi dispiace perché alcune mie considerazioni tecniche e tratte dalla mia esperienza operativa sono state strumentalizzate e utilizzate in una ingiusta e scorretta campagna di delegittimazione di Libera e del lavoro di molti volontari».

La replica. Meglio così, gli risponde a stretto giro Luigi Ciotti: «La lettera che ci scrive Catello Maresca è per Libera un gesto importante» perché quell’intervista «era stata per tutti noi motivo di sofferenza. Non solo per i giudizi ingiusti e non veri che conteneva, ma perché quei giudizi sono stati in seguito ripresi, amplificati, strumentalizzati da chi mira a screditare il nostro nome e la nostra storia».

Pietra sopra. Tutto è bene quel che finisce bene? In tribunale, dove lo scontro fratricida sarebbe stato letale, senz’altro. Resta però dell’amaro in bocca. Vabbé che, come ironizzò Gianfranco Fini ai tempi in cui dava la scalata al cielo, «le smentite non hanno scadenza». Ma forse val la pena che chi ha pubbliche responsabilità ricordi sempre un vecchio adagio veneto scherzoso ma non troppo: «Prima de parlar, tasi».

Ma cosa aveva detto Maresca?

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". 

Il pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione. Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

A volte l'antimafia sembra mafia. È Il pensiero di Catello Maresca, magistrato antimafia a Napoli che ha accusato Libera: "Sono contrario a come gestisce i beni sequestrati alle mafie", scrive Carmelo Caruso il 18 gennaio 2016 su Panorama. In quest'intervista, pubblicata sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il magistrato Catello Maresca punta il dito contro un certo tipo di antimafia e contro Libera, l'associazione fondata da Don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie "in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale". Le sue dichiarazioni hanno suscitato lo sdegno di Don Ciotti che ha risposto alle accuse, come è possibile leggere qui.

Ecco l'integrale dell'intervista.

Dice che i bunker lo tormentino.

"Da magistrato ho passato 10 anni a studiare quello di Michele Zagaria".

Il padrino di “Gomorra”?

"Non solo un padrino. La sua biografia criminale è l’autobiografia di un popolo e di un territorio".

Le piace studiare il sottosuolo?

"Mi piace perché tutta la mafia è un mondo capovolto. I mafiosi abitano sottoterra, parlano con il sottotesto, utilizzano un soprannome. La mafia si nasconde e si maschera nell’opposto".

È l’antimafia l’ultimo travestimento della mafia? 

"È stata ed è la più eccezionale via di fuga che la mafia ha escogitato per celarsi". È più pericolosa la mafia di sotto o l’antimafia di sopra? "Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". 

Parla di “Libera”, l’associazione fondata da Don Ciotti? 

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa".

A Napoli, Catello Maresca, magistrato della direzione nazionale antimafia, ha ereditato la stanza dell’uomo più invocato e affaccendato d’Italia quel Raffaele Cantone oggi presidente dell’Anac.

"E non ho ereditato solo la stanza ma anche i fascicoli, i quadri e la sua assistente".

Come si chiama?

"Rosaria. Un esempio di pazienza e laboriosità".

Maresca assomiglia alle sue indagini che sono lente ma solide e non improvvise ma deboli. Con metodo che lui chiama scientifico ha catturato i gangster di Casal di Principe, i “Tony Montana” che canta il neomelodico Nello Liberti: "O capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver".

Dove ha iniziato?

"A Torre Annunziata. Mi occupavo di crimini finanziari".

Figlio di magistrati?

"Maestri elementari entrambi, vengo dalla provincia e mi piace ritornarci".

Maresca ha quarantatre anni e da undici è magistrato della direzione antimafia di Napoli, "una città che muore di doppiezza".

I beni sequestrati alle mafie. Come i dati che immagazzina e assembla, Maresca si lascia crescere una barba fiamminga e dura che non taglia, "per un principio d’economia temporale" dice, ma anche per trattenere le idee e le parole che infatti sulla barba si fermano e non scivolano.

Chi è stato il suo maestro?

"Franco Roberti, un magistrato eccellente e oggi procuratore nazionale antimafia".

È ancora credibile l’antimafia dopo lo scandalo di Palermo dove a essere indagato dalla procura di Caltanissetta per induzione, corruzione, abuso d’ufficio è l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, il giudice Silvana Saguto?

"L’antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa".

Per Giapeto editore, Maresca ha pubblicato “Male Capitale”, un libro che grazie alle foto di Nicola Baldieri non è solo un documento antropologico, i “tristi tropici” della camorra e delle sue tane, ma anche un campionario di non luoghi, il catalogo dei beni confiscati e inceneriti dalla cattiva procedura. Maresca stila un piccolo elenco campano: l’ex convento dei Cappellini Avella, l’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro.

"E poi ci sarebbe l’azienda Bufalina, un gioiello che venduto sarebbe stato non solo un simbolo di vittoria da parte dello Stato, ma anche un pezzo d’identità restituito alla Campania".

Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere?

"Vendere, vendere, vendere. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. Una volta sequestrati i beni, bisogna individuare quelli riutilizzabili per fini sociali. Dove possibile si possono costruire caserme ad esempio. Ma tutto il resto è da alienare".

Libera e l'antimafia. Anche Maresca conosce i numeri del fallimento che hanno accompagnato la gestione dei beni sequestrati: 11 mila immobili, 2000 imprese, 90 per cento è il parametro delle aziende estinte.

"Il ciclo di vita è sempre lo stesso. Prima li divorano gli amministratori giudiziari poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari".

Non sono i magistrati a decidere la loro sorte?

"E io infatti rispondo che i magistrati non possiedono quella expertise necessaria per svolgere questo compito. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni".

Da “cosa nostra” a “cosa loro”?

"Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento “che si deve fare sempre così”.

Don Ciotti ha scomunicato e cacciato il figlio di Pio La Torre, Franco, per lesa maestà proprio per le stesse critiche.

"Sarò malpensante ma i malpensanti sono a volte ottimisti che non hanno fretta. Libera ha monopolizzato la gestione dei beni sequestrati alle mafie".

E però, Libera dice di non avere mai gestito beni...

"Libera li gestisce attraverso cooperative che non sempre sono affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Maresca smonta anche il pregiudizio della mafia come destino, la convinzione che il suo influsso si riproduca e ritorni come la maschera sith di Dart Vader in Star Wars.

Vendere i beni sequestrati.

"Sinceramente trovo risibile la ragione per cui Libera si oppone alla vendita. Si dice: “I beni ritornano ai mafiosi”. Io rispondo che sono contento due volte perché lo Stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno Stato può, anzi, deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un’idea d’impotenza".

Il nuovo codice antimafia non le piace?

"Ripeto, rimane ancora tabù la parola vendita e farraginosa la gestione. Eppure un esempio virtuoso ce lo abbiamo già. È l’Anac guidata da Cantone".

Non crede che Cantone non sia più un magistrato ma un oracolo?

"Essere bravi non è una colpa diverso è quando i mediocri salgano sulle spalle dei bravi appesantendoli. Perchè non fare dell’Agenzia dei Beni confiscati una sorta di Anac?"

È il suo emendamento al nuovo codice?

"Non basterebbe solo questa modifica. Quanti beni vengono sottratti ma tenuti in bilico tra la confisca e la restituzione? Inoltre esistono termini precisi per quanto riguarda il sequestro preventivo, ma non per quello penale che si può trascinare per anni".

Magistratura e corruzione. Maresca si muove sotto scorta sin da prima che con la semantica vigliacca, il macellaio Cesare Setola lo abbia avvisato "che tutti tengono famiglia". Il capo della camorra, Michele Zagaria, guardando la fronte alta e le guance ferme di Maresca ha detto: "Stimo il dottor Maresca. Perché voi fate un mestiere, io me ne sono scelto un altro".

Anche questo riconoscimento nasconde l’avvertimento ambiguo?

"È possibile. Di certo da magistrato ho rispettato gli avversari. Non credo nella faccia feroce del pm. Sarò ancora eretico, ma per sconfiggere le mafie e la corruzione penso che non serva inasprire le pene e neppure aumentare il termine della prescrizione. Bisogna smontare questo sistema infetto di valori, la corruzione come patrimonio trasmissivo".

Ma la corruzione non è anche il vizio dello strapotere dell’uomo di legge, dei giudici?

"Accade. Bisogna attendere e illuminare le ombre".

Il caso Saguto a Palermo, il caso Scognamiglio a Napoli …c’è il sottosuolo anche nella magistratura?

"Di certo viene fuori un mondo opaco. Eppure voglio ricordare che tutti i casi di corruttela che hanno riguardato giudici sono stati svelati da altri giudici. La magistratura possiede ancora gli anticorpi".

Quando si ammala la magistratura?

"Quando un magistrato perde l’equilibrio e sopravvaluta la sua funzione. Quando invece di farsi rapire dall’enigma della giustizia un giudice è chiamato ad amministrare patrimoni da milioni di euro. Quando la giustizia diventa l’angoscia del bunker e smette d’essere luce a mezzogiorno".

Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo". Il presidente dell'Anticorruzione interviene nella polemica sui beni confiscati alle mafie. E su Libera dice: "Ha fatto tanto ma è diventata un brand", scrive Maurizio Tortorella il 25 gennaio 2016 su Panorama. “C’è chi usa l’antimafia e va smascherato”. Questo dice Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato attivo a Napoli nella lotta alla camorra. In questa intervista, Cantone parla della opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia ha lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, proprio il pm che di Cantone è stato il successore alla Procura di Napoli.

Dottor Cantone, il pm Maresca attacca “gli estremisti dell’antimafia, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato”. Le sue accuse sono molto gravi. Lei è d’accordo con lui?

"Ho letto l'intervista di Catello Maresca, cui mi legano rapporti di affetto e amicizia, e anche le precisazioni dopo che è scoppiata la polemica con Libera. Condivido gran parte dell’analisi svolta da Catello e ritengo sia stato giusto e opportuno richiamare l’attenzione su cosa sta accadendo in generale nel mondo dell’Antimafia sociale e nella gestione dei beni confiscati."

Che cosa sta accadendo, secondo lei, in quel mondo?

"Si stanno verificando troppi episodi che appannano l’immagine dell’antimafia sociale e troppe volte emergono opacità e scarsa trasparenza sia nell’affidamento che nella gestione di beni confiscati. Questi ultimi, invece, di rappresentare una risorsa per il Paese, spesso finiscono per essere un altro costo; vengono in molti casi affidati a terzi gratuitamente e a questi affidamenti si accompagnano spesso anche sovvenzioni e contributi a carico di enti pubblici. Cosa che può essere anche giusta e condivisibile in astratto ma che richiede un controllo reale in concreto su come i beni e le risorse vengano gestite per evitare abusi e malversazioni. Non sono, però, d’accordo nell’aver individuato quale paradigma di queste distorsioni Libera; e il mio giudizio in questo senso non è influenzato dai rapporti personali con Luigi Ciotti né dal fatto che come Autorità anticorruzione abbiamo avviato una collaborazione con Libera, che rivendichiamo come un risultato importante."    

Su Libera, Maresca ha dichiarato a Panorama: «Libera gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Ha torto o ha ragione?

"Sono sicuro che in questa parte il ragionamento di Catello sia stato equivocato; non mi risulta che Libera abbia il monopolio dei beni confiscati e che li gestisca in modo anticoncorrenziale; conosco alcune esperienze di gestione di beni da parte di cooperative che si ispirano a Libera (per esempio, le terre di don Peppe Diana) e li ritengo esempi positivi; beni utilizzati in una logica produttiva e che stanno anche dando lavoro a ragazzi dimostrando quale deve essere la reale vocazione dell’utilizzo dei beni confiscati. Condivido, invece, l’idea di fondo di Catello; è necessario che le norme prevedano che anche l’affidamento dei beni confiscati debba seguire procedure competitive e trasparenti, non diverse da quelle che riguardano altri beni pubblici. Ovviamente tenendo conto delle peculiarità dei beni che si affidano."

Ma lei, che alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli occupava proprio la stanza che oggi è di Maresca, che cosa pensa di Libera?

"Libera è un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo paese; le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini; e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui gli siamo grati. Certo Libera è un’associazione che è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventato anche un “brand” di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato. E’ però il rischio di un’associazione che cresce ed è un rischio che ha ben presente anche Luigi Ciotti che in più occasioni non ne ha fatto nemmeno mistero in pubblico."

Don Ciotti ha annunciato querela contro Maresca. Viene un po’ in mente la polemica di Leonardo Sciascia del gennaio 1987 sui «professionisti dell’antimafia»: è possibile criticare l’antimafia?

"Spero che Ciotti possa rivedere la sua posizione. Sono certo che, se parlasse con Maresca, i punti di contatto sarebbero maggiori delle distanze. E lavorerò perchè questo accada. Credo che la reazione a caldo di Ciotti però si giustifichi anche perché in questo momento ci sono attacchi a Libera (che non sono quelli di Catello, sia chiaro!) che giustamente lo preoccupano. Ciò detto, l’antimafia può ben essere criticata se è necessario e parole anche dure, come quelle dette anni fa da Sciascia, non possono essere semplificativamente respinte come provenienti da “nemici”. Sciascia con quella sua frase dimostrò di essere in grado di guardare molto lontano e di aver capito i rischi della professionalizzazione di un impegno civile, anche se aveva sbagliato nettamente l’obiettivo immediato; quelle critiche si riferivano a Paolo Borsellino ed erano nei suoi confronti ingiuste ed ingenerose."

Maresca dice anche che «è necessario smascherare gli estremisti dell’antimafia». La frase è forte: ha ragione?

"Si, anche se io preferisco dire che bisogna smascherare chi l’antimafia la usa e la utilizza per fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni di contrasto alla mafia. E negli ultimi tempi di soggetti del genere ne abbiamo visto non pochi!"

Lo scorso settembre il «caso Saguto» ha fatto emergere a Palermo lo scandalo della cattiva gestione dei beni confiscati. Il procedimento è in ancora corso. Ma lei che opinione s’è fatto?

"Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, come è giusto che sia; lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche soprattutto quando passano per incarichi lucrosi e discrezionali a terzi professionisti, con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali. Da presidente dell’Anac ho chiesto formalmente al Governo di fissare le tariffe per gli amministratori (a cui sono legati gli emolumenti per gli amministratori dei beni da noi commissariati) proprio perchè certe discrezionalità in questo settore possono aprire la strada ad abusi."

Certi Uffici misure di prevenzione dei Tribunali sono forse diventati "enclave" con troppo potere?

"Può forse essere accaduto in qualche caso, ma le generalizzazioni rischiano di far dimenticare quanto sia stato importante il ruolo di quelle sezioni del tribunale nella lotta alla mafia. La natura temporanea di questi incarichi, prevista opportunamente da regole interne introdotte dal CSM, è un antidoto utile a favore degli stessi magistrati per evitare eccessive personalizzazioni. Ed aggiungo, io non sono affatto favorevole alla norma, in discussione in parlamento, secondo cui le sezioni in questione devono obbligatoriamente occuparsi solo di prevenzione."

Già nel marzo 2012 l’ex direttore dell’Agenzia beni confiscati Giuseppe Caruso diceva che "i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente". Possibile che per altri tre anni sia prevalso l’immobilismo?

"L’affermazione di Caruso  ha un che di vero, ma è comunque esagerata. È vero che ad oggi lo Stato non è riuscito ancora a cogliere l’occasione di utilizzare in modo più proficuo i beni confiscati e che è indispensabile un cambio di passo. Non va, però, dimenticato quanto siano state importanti le confische per indebolire le mafie. Non vorrei che qualcuno pensasse di utilizzare queste criticità per indebolire la lotta alla mafia, che ha invece assoluta necessità di utilizzare le misure di prevenzione patrimoniale."

Più di recente, nel 2014, Caruso aveva denunciato l’esistenza di amministratori giudiziari "intoccabili", di "professionisti che hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi" e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. Era stato criticato ferocemente da sinistra: Rosy Bindi disse che aveva "delegittimato i magistrati e l’antimafia". Eppure Caruso aveva ragione: allora, perché è stato isolato?

"Con il senno di poi non si può dire altro che avesse ragione. Non conoscendo, però, con precisione le sue dichiarazioni non so se avesse fornito indicazioni precise che, ovviamente sarebbe stato compito della commissione antimafia approfondire, o avesse fatto affermazioni generiche che potevano essere considerate effettivamente delegittimanti. Del resto Caruso, era un prefetto ed un pubblico ufficiale e se aveva conoscenza di fatti illeciti non doveva limitarsi a segnalarli all’Antimafia, ma denunciarli alla Procura competente!"

Anche l’Associazione nazionale magistrati nel 2014 aveva criticato il prefetto: "I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori" si leggeva in un comunicato "operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro". Un comunicato che oggi grida vendetta, vero?

"Spesso scatta una sorta di riflesso condizionato, di difesa della magistratura e dei magistrati “a prescindere”. Ma io non voglio altre polemiche con l’Anm. Credo che l’Anm possa e debba svolgere un ruolo importante anche per tenere alta la questione morale in magistratura. Ho fatto parte alcuni anni fa del collegio dei probiviri dell’Anm ed ho verificato quanto fosse difficile applicare le regole deontologiche. Disponemmo un’espulsione di un magistrato dall’associazione ed avviammo altri procedimenti analoghi e per capire anche come stilare il provvedimento di espulsione cercammo precedenti che non trovammo. Fummo sicuramente noi poco diligenti nel non reperirli."

Una domanda da 30 miliardi di euro (tanto si dice sia il valore dei patrimoni sequestrati): che cosa dovrebbe fare lo Stato per gestire al meglio i beni confiscati alle mafie?

"Lo Stato deve capire quale sia la destinazione migliore e farlo anche grazie ad esperti indipendenti. In qualche caso ho avuto l’impressione che certe attività, che funzionavano chiaramente solo perchè gestite da mafiosi, siano state tenute in vita senza una logica e abbiano finito per creare solo inutili perdite. Bisogna preferire le destinazioni economiche dei beni, incentivando l’utilizzo in funzione produttiva piuttosto che destinazioni poco utili".

Per esempio?

"Quante ludoteche e centri per anziani abbiamo in passato aperto in beni confiscati? È per questo che credo che iniziative come quelle citate prima, dell’utilizzo di terreni da parte di cooperative di giovani siano assolutamente da favorire. È un segnale importante che deve dare lo Stato, di essere capace di utilizzare i beni per produrre ricchezza, non lasciandoli deperire. Quando nel mio paese vedo un immobile oggi confiscato, nel quale prima operava una scuola, e oggi è completamente vandalizzato, mi chiedo se questa non sia l’immagine peggiore che riesce a dare l’istituzione pubblica."

Non sarebbe meglio vendere tutto quel che è possibile vendere, come suggerisce Maresca?

"La vendita deve essere ammessa, ma considerata comunque eccezionale e riguardare beni che non possono essere destinati in alcun modo. Il primo impegno deve essere quello di utilizzarli per fini di utilità sociale o per avviare attività economiche a favore di giovani e soggetti svantaggiati."

Come si evita il rischio che poi, a ricomprare, siano gli stessi mafiosi o loro teste di legno?

"Il rischio è reale; ma se si fanno controlli veri, attraverso la Guardia di finanza, su chi li compra e si stabilisce, per esempio, un vincolo di non alienazione per alcuni anni, questo rischio si riduce. Eppoi questo rischio non può giustificare il lasciar andare in malora qualche bene. Meglio è, come provocatoriamente più volte ha detto Nicola Gratteri, abbatterli e destinare per esempio i terreni a parchi pubblici!"

Certo, è più facile alienare beni mobili e immobili confiscati. Lo è meno nel caso delle aziende: qui quale soluzione prospetta?

"È molto più difficile gestire un’impresa appartenuta ad un mafioso, che come ho accennato sopra, spesso si è imposta nel mercato e ha utilizzato il know-how mafioso per ottenere risultati economici. Perciò va fatta una valutazione immediata e preliminare per capire se un'impresa è in grado di funzionare. Se no è meglio chiuderla ed eventualmente vendere i beni che di essa fanno parte. Se l’impresa è sana o comunque riportabile nella legalità, lo Stato può pensare di creare condizioni favorevoli (per esempio esenzioni fiscali e crediti di imposta) per consentirle di operare secondo le regole."

Perché tante aziende mafiose confiscate falliscono (creando tra l’altro un malessere sociale di cui poi le mafie inevitabilmente si approfittano)?

"Perché gli imprenditori mafiosi utilizzano regole diverse nello svolgimento dell’attività; utilizzano i canali mafiosi per imporre i loro prodotti; non hanno bisogno di farsi dare soldi in prestito dalle banche; non devono andare in tribunale per riscuotere i crediti; né rivolgersi a sindacati per i problemi con i lavoratori. Sono imprese "drogate" e quando viene meno il doping criminale non reggono il mercato! Il loro fallimento crea sicuramente malessere sociale ma bisogna stare attenti a salvarle a tutti i costi e fare un’attenta prognosi come dicevo prima. Spesso in esse lavorano persone direttamente collegati alle cosche e si rischia, salvandole a spese pubbliche, di foraggiare indirettamente i clan."

Nel luglio 2015, due mesi prima dell’emersione dello scandalo Saguto, lei aveva chiesto al governo d’intervenire sulle elevatissime retribuzioni degli amministratori giudiziari. Aveva intravisto qualche criticità?

"Ho fatto il pubblico ministero antimafia per otto anni e pur non essendomi occupato di misure di prevenzione, mi era chiaro come un sistema con regole non chiare rischiava di aprire il varco ad abusi. In qualche caso mi era capitato di vedere liquidazioni che mi erano sembrate eccessive. Ammetto, però, che sono sobbalzato quando ho sentito di alcune liquidazioni di onorari fatti ad amministratori giudiziari."

Le leggi e la prassi permettono effettivamente agli amministratori giudiziari dei beni confiscati di raggiungere retribuzioni elevatissime: è un errore da cancellare, oppure con un calo dei compensi nessuno accetterebbe?

"Il rischio c’è: le tariffe introdotte dal provvedimento del governo sicuramente renderanno meno appetibili le amministrazioni e probabilmente allontaneranno alcuni professionisti di valore dal settore. C’è pero una certa elasticità che consente di adeguarle e forse sarà l’occasione per dare spazio a giovani professionisti che non sempre hanno avuto l’occasione di operare in tale ambito."

Non sarebbe più corretto ordinare il sequestro di un bene soltanto quandosi è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa?

"No. Il sequestro resta un provvedimento necessario per togliere subito i beni ai mafiosi. Bisogna invece fare in modo che duri il meno possibile e che sia sostituito da provvedimenti definitivi di confisca."

Non sarebbe bene, anche, svincolare le competenze sui decreti di sequestro e di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato, per attribuirla a tutti i magistrati di un pool antimafia?

"Già è competenza collegiale del tribunale, quantomeno nei casi di confische di prevenzione. Il sistema prevede controlli sufficienti anche da parte dei vertici degli uffici. Basta che tutti gli attori siano realmente attenti e scrupolosi rispetto ai loro compiti. Non sempre può dirsi dopo “non me ne ero accorto” o “non avevo capito”."

Il nuovo Codice antimafia, varato dalla Camera e in attesa di approvazione al Senato, è la soluzione?

"Va nella giusta direzione per molti aspetti. Vuole migliorare la capacità di lavoro dell’Agenzia, un’entità utile che ad oggi ha dovuto fare sforzi enormi, per difficoltà oggettive. Prevede regole più chiare sulla destinazione dei beni. Ci sono delle criticità in quella normativa, come ad esempio l’estensione automatica delle regole della prevenzione ai fatti corruttivi che rischia di creare più problemi di quanti ne risolve. Complessivamente comunque un provvedimento positivo, ma probabilmente saranno opportuni interventi modificativi da parte del Senato."

È una soluzione il divieto giacobino di affidare beni confiscati a un «commensale abituale» del giudice che decide?

"Come magistrato lo sento gravemente offensivo; non avrei mai pensato, anche senza questa regola, di affidare un incarico ad un mio commensale abituale. Certe vicende, però, giustificano persino regole che dovrebbero rientrare nella deontologia minima. Quelle vicende, però, sono l’eccezione, per fortuna, perché di queste regole la maggior parte dei magistrati non ha certo bisogno!"

Torniamo a Catello Maresca: non crede che ora rischi parecchio (e non sto parlando, ovviamente, della querela di Don Ciotti…)?

"Lo escludo. I rischi che ha corso e corre Catello sono legati al suo eccezionale impegno giudiziario e ai risultati ottenuti, quale la cattura del più importante boss dei casalesi. E su quell’aspetto non è stato lasciato solo. Nè lo sarà, assolutamente."

“Nei comuni di Bordighera e di Ventimiglia, sciolti per mafia, i sindaci manifestavano accanto a Libera contro la mafia. Ad Albenga Libera aveva perfino consegnato il braccialetto della legalità al candidato sindaco Giorgio Cangiano, ma nelle sue liste compariva Francesco Accame, indagato perché vicino alla famiglia ‘ndranghetista dei Gullace. Quando lo ha scoperto, Libera si è limitata a chiedere chiarimenti”. Queste le parole di Christian Abbondanza, fondatore della “Casa della Legalità” rilasciate al settimanale “Panorama” uscito il 28 gennaio 2016 in edicola. Nell’articolo a firma Carmelo Caruso dal titolo “Se l’antimafia si trasforma in trust economico”, viene messa al centro l’associazione Libera e anche la sezione savonese. Secondo l’articolo l’associazione fondata da don Luigi Ciotti “è di fatto il primo trust antimafia, creato per amministrare il patrimonio confiscato alla mafia. Su tutti i beni sequestrati alle organizzazioni criminali, che in Italia valgono circa 30 miliardi di euro, l’associazione fondata nel 1995 esercita un’egemonia di fatto”. Secondo Panorama questo avviene “attraverso 1600 cooperative affiliate, quelle che in oltre 20 anni Libera stessa ha incentivato a costruire”.

“Se l’antimafia si trasforma in trust economico”. Gran parte dei beni confiscati a Cosa Nostra negli ultimi anni sono andati a cooperative affiliate a Libera, l’associazione di Don Ciotti. Ma più cresce, più difficile diventa il controllo. E’ di fatto il primo trust antimafia, creato per amministrare il patrimonio confiscato alla mafia. Su tutti i beni sequestrati alle organizzazioni criminali, che in Italia valgono 30 miliardi di euro, l’associazione Libera fondata nel 1995 da Don Luigi Ciotti esercita un’egemonia di fatto. Attraverso 1.600 cooperative affiliate, quelle che in oltre 20 anni Libera stessa ha incentivato a costruire, non c’è praticamente immobile confiscato che non sia stato affidato dai comuni senza prima sentire i tecnici dell’associazione, così come non c’è quasi bando pubblico che non l’abbia favorita.

E’ storia che va avanti da molto tempo. A Genova, per assegnare nel 2008 un appartamento requisito nel centralissimo vico del Mele al Boss Rosario Caci, l’allora sindaco Marta Vincenzi lasciò che a occuparsene fosse Nando Dalla Chiesa nella sua duplice veste di responsabile progetti culturali del comune ma anche presidente onorario di Libera. Come se non bastasse il conflitto tra i due ruoli, il bando comunale restringeva il campo dei partecipanti, prevedendo agevolazioni proprio per quelle cooperative caratterizzate dalla vendita di prodotti ottenuti dalle terre confiscate. Ad aggiudicarsi l’immobile fu l’associazione In Scia Stradda, che commercializzava i prodotti alimentari di Libera.

A Lecco, per assegnare l’ex pizzeria Wall Street da 21 anni confiscata al clan Coco-Trovato, la Regione Lombardia ed il comune nel 2014 hanno firmato un altro protocollo, ovviamente con Libera. Denuncia l’associazione Qui Lecco Libera (non collegata all’associazione di Don Ciotti): “L’unico progetto presentato è stato confezionato proprio da Libera. E a vincere la gara, nel 2015, sono state tre associazioni gradite a Libera. Però a tutt’oggi la pizzeria non ha aperto”.

Dice Adriana Musella, figlia di una vittima di mafia che a Reggio Calabria ha fatto nascere la piccola associazione Riferimenti, fatta di due stanze e di impegno gratuito: “Io non posso negar, sia pure con garbo ed equilibrio, che la gestione dei beni confiscati fino a oggi sia stato parziale”.

Nel pianeta dell’antimafia la supremazia di Libera viene chiamata “Competenza”, ma il risultato è comunque un notevole accentramento. Come quelle multinazionali che diversificano i marchi e settori per accrescere il loro business, anche l’associazione di Don Ciotti ha fatto ricorso alla clonazione di successo: Libera negli anni ha generato almeno sei figlie, tutte con nomi simili, ma attive in comparti diversi: Libera Terra; Cooperative con Libera Terra Mediterraneo; Agenzia Cooperare con Libera Terra; Cooperare con Libera Terra Mediterraneo; Cooperative Libera Terra; Botteghe Libera Terra; Libera International.

“E più il gigante si gonfia, più difficile diventa il controllo” dice Christian Abbondanza, 41 anni, il blogger genovese che per primo ha scritto di ‘ndrangheta in Liguria ed è diventato anche il responsabile della Casa della Legalità. Abbondanza non è nei favori di Libera. Don Ciotti ha definito la sua associazione con un aggettivo negativo: cattiva. Così ora Abbondanza deve difendersi non soltanto dagli ‘ndranghetisti, che da anni lo minacciano di morte, ma anche da Don Ciotti, che lo ha querelato esattamente come ha annunciato di fare nei confronti del pm antimafia di Napoli, Catello Maresca, che su Panorama aveva osato parlare del monopolio di Libera. In realtà, che sia necessario aprire un confronto sulla gestione dei beni confiscati, e quindi anche su Libera, ha poi ribadito Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Intervistato da Panorama ha difeso il pm Maresca e ha aggiunto: “Condivido gran parte della sua analisi”. E su Libera ha detto: “E’ cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; ed è diventata anche un brand di cui, a volte, qualche speculatore potrebbe volersi appropriare”.

Non hanno tutti i torti: del resto, ad ogni gemmazione di Libera, fanno riferimento cooperative capaci di generare fatturato. Il totale nell’ultimo bilancio economico sociale del 2014 supera i 10 milioni. Il miglior esempio d’incassi è il Consorzio Libera Terra Mediterraneo, che nel 2013 aveva prodotto un giro di affari di 5,6 milioni. Questo consorzio alla casa madre gira contributi, nel bilancio stesso definiti royalty, il cambio del diritto ad applicare il bollino antimafia sui prodotti alimentari che vende.

Il vice presidente del consorzio è Enrico Fontana, che fino alla scorsa estate era anche vicepresidente nazionale di Libera, ma poi è stato invitato ad uscire di scena dai vertici (don Ciotti ha dichiarato: “E’ una ferita, si è dovuto dimettere un galantuomo”) per i suoi imbarazzanti contatti con alcuni personaggi coinvolti nell’inchiesta di Mafia Capitale.

Enzo Guidotto, presidente dell’Osservatorio veneto del fenomeno mafioso, amico personale di Paolo Borsellino, ma anche uno dei fondatori di Libera nel 1995, sottolinea che è sempre toccato proprio ai vicepresidenti svolgere le funzioni esecutive. In certi casi hanno quel ruolo di collettori di fondi pubblici che Libera ha sempre negato di ricevere direttamente. Un esempio? Davide Mattiello, dal 2009 al 2012 vicepresidente di Libera, oggi deputato del PD che ha poi redatto il nuovo Codice Antimafia, varato dalla Camera in Novembre 2015 ed ora all’esame del Senato. Nel 2013 Matiello ha fondato l’associazione di promozione sociale Acmos. La sua sede è a Torino in via Leoncavallo numero 27, la stessa del Gruppo Abele (un’altra creatura di Don Ciotti) ed anche del Comitato beni Confiscato Libera Piemonte Onlus. Tra Acmos e Libera i rapporti sono stretti, c’è anche uno scambio di contributi: 5 mila euro passati da Libera ad Acmos sono registrati nell’ultimo bilancio presentato, quello del 2013. Nel 2012 Acmos ha contabilizzato attività per 886 mila euro, nel 2013 per 625 mila. E’ denaro incassato da enti pubblici come province (179 mila euro quella di Torino) e comuni (8 mila euro per Laboratori Libera dal Comune di La Spezia), ma anche da scuole. Nel bilancio 2013 gli istituti piemontesi son ben 21: tra loro l’Avogadro (30 mila euro), il Boselli (3 mila euro), il Liceo Copernico (2.250 euro), il Liceo Giordano Bruno (3 mila euro), la scuola Saluzzo (3.170 euro). “Solo l’idea mi atterrisce: non voglio credere che l’antimafia debba essere pagata dalla scuola. Posso capire un rimborso spese, ma non queste cifre” dice Adriana Musella, che a Reggio Calabria insiste a credere nell’antimafia “di sentimento e non della partita Iva.”

Christian Abbondanza racconta un’altra storia: “Matiello ha fondato anche Benvenuti in Italia, che ha sede sempre in via Leoncavallo 27 a Torino, ed è un altro contenitore che serve a rilevare beni sequestrati”. Sia Acmos si Benvenuti in Italia sono i partner di un’associazione di Sarzana, intitolata L’Egalitè, che è nata da Libera e per Libera ha effettuato molte iniziative. Insieme, le tre associazioni, hanno fatto richiesta al Comune di Sarzana per un immobile confiscato. E l’hanno ottenuto. Come sostiene Cantone, del resto, il gigantismo offre il fianco a qualche rischio. E’ un fatto che nell’elenco dei soci di Libera, come si legge nella relazione “L’Uso sociale dei beni confiscati” curato per il Ministero dell’Interno da Davide Pati, attuale vicepresidente di Libera, sia presente la cooperativa Cpl Concordia. Nel luglio 2015 il presidente di Cpl, Roberto Casari, è stato arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione camorristica in una inchiesta della Procura di Napoli.

Possibile che Libera sia penetrabile dalla Mafia? “Il problema dell’infiltrazione è reale” ha dovuto ammettere in un’audizione parlamentare Don Luigi Ciotti. “Però quando ho sollevato il caso in Veneto Libera non mi ha ascoltato” ribadisce Guidotto. Ed esiste anche una mappa di città dove nei cortei di Libera si sono esibiti proprio quelli impresentabili che l’associazione combatte. “A Facca di Cittadella, vicino a Padova, il referente di Libera era salito sul palco di manifestazioni accanto a un imprenditore cui i magistrati avevano sequestrato quote societarie, perché ritenuto vicino ai clan”, aggiunge Guidotto. Abbondanza fa una lunga sequenza di casi: “Nei Comuni di Bordighera e di Ventimiglia, sciolti per mafia, i sindaci manifestavano accanto a Libera contro la mafia” segnala. “Ad Albenga Libera aveva perfino consegnato il braccialetto della legalità al candidato sindaco Giorgio Cangiano, indagato perché vicino alla famigli ‘ndranghetista dei Gullace. Quando lo ha scoperto, Libera si è limitata a chiedere chiarimenti”.

A Savona, la referente di Libera fino al maggio 2015 è stata Dina Molino. “Per anni - accusa Abbondanza – non ha visto in quel Comune la presenza dei Fotia, un’altra famigli di ‘ndrangheta che eseguiva lavori nel porto di Savona. E il responsabile gare e lavori del porto di Savona era Flavio De Stefanis, marito proprio dell amolino”. Abbondanza fa esempi anche al Sud. “A Casal di Principe, il feudo di Gomorra, sindaco ed assessori distribuivano le targhe della legalità con Libera. Poi si sono scoperti i legali con i casalesi”.

Insomma, se l’astuzia della mafia è nascondersi nell’antimafia, molte volte proprio a Libera sembra aver guardato. Demolire l’associazione di don Ciotti? Al contrario. Chi la critica cerca di aiutarla, come ha spiegato il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Il 22 gennaio 2016 a Reggio Calabria il magistrato ha detto: “Non è nascondendo i problemi che ce ne liberiamo. E’ vero che qualche volta ci sono i tentativi di infiltrazione mafiosa nella gestione dei beni confiscati. E’ un dato di fatto che viene fuori da molte indagini. Nessuno si deve offendere se qualcuno avverte su un possibile rischio”. 

Oltre All'inchiesta Di Panorama, Qualche Altra (Per Ora) Breve Annotazione Su LIBERA, scrive il 28 gennaio 2016 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. "Panorama" è arrivato alla 3° puntata dell’inchiesta sull’Antimafia e LIBERA dal titolo «Se l'Antimafia si trasforma in trust economico» (la 1° puntata con l’intervista al pm della DDA di Napoli Catello Maresca «L'Antimafia a volte sembra mafia» la 2° puntata con l’intervista a Raffaele Cantone «Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo"»). E’ il momento, ora, di fare alcuni ulteriori esempi oltre quelli citati. Esempi concreti che servono più di ogni disquisizione, anche perché non si è qui per fare letteratura, nel chiarire il contesto di cui si sta trattando...

Partiamo da Reggio Calabria. Quando sul tavolo del Ministro dell'Interno vi era la Relazione della Commissione d'Accesso sul Comune di Reggio Calabria, il referente provinciale di LIBERA, Nasone Mimmo, sottoscriveva il "Manifesto contro la diffamazione della città". Un'iniziativa che, in quel preciso momento, assumeva il sapore di un appello contro lo scioglimento e commissariamento del Comune di Reggio Calabria. Un aggregarsi a quella mentalità pericolosa secondo cui è “offendere la città” il procedere contro le Pubbliche Amministrazioni piegate da illegalità dilaganti con segni tangibili e concreti di infiltrazione e condizionamento mafioso, e, nel caso di Reggio Calabria, di infiltrazione e condizionamento ‘ndranghetista. Don Luigi Ciotti smentì quell'adesione al manifesto (che però non venne ritirata!) e confermava al contempo la piena fiducia ed apprezzamento per il lavoro di Nasone che quel manifesto aveva firmato e che veniva utilizzato – ovviamente – per cercare di scongiurare l'adozione del provvedimento antimafia sul Comune. Fortunatamente l'allora Ministro Cancellieri andò avanti e promosse il Decreto che disponeva lo Scioglimento (e quindi il Commissariamento) del Comune di Reggio Calabria.

Saliamo in Emilia-Romagna. Qui, quando la Casa della Legalità insieme al giornalista Antonio Amorosi promossero il volume “Tra la via Emilia e il clan”, con la storia documentata del radicamento ormai consumato da lungo tempo delle mafie (‘Ndrangheta, Camorra e Cosa Nostra) in quella regione, e dei rapporti dei clan sia con Pubbliche Amministrazioni, politici ed imprese, dalle grandi spa ai colossi delle cooperative rosse. Girando l'Emilia-Romagna, insieme ad Antonio Amorosi ed Elio Veltri non si è registrata soltanto l'assenza costante della classe dirigente politica dagli incontri, ma anche l'assenza totale di LIBERA, mai intervenuta in alcuna delle molteplici occasione. Delle mafie in Emilia-Romagna non si doveva parlare. Quella terra, con la sua classe dirigente, era stata presentata e doveva continuare ad essere presentata come “isola felice”, proprio come la Milano dove si negava sino all'ossessione la presenza ed operatività mafiosa. Non minore isolamento subiva, ad esempio, anche l’allora Presidente della Camera di Commercio di Reggio Emilia, Enrico Bini, “reo” di aver osato sollevare la questione della presenza ed attività delle mafie, con le loro imprese mafiose che condizionavano l’economia. Bini da un lato subiva, per il suo lavoro di monitoraggio e segnalazione, attacchi ed isolamento da quella classe dirigente, ma trovò, fortunatamente, sponda nel Prefetto di Reggio Emilia che avviò un’azione mai vista in quel territorio con l’adozione di quelle misure interdittive antimafia (che a Modena si iniziavano ad adottare) contro cui la politica, per garantirsi consensi elettorali, contestava in vari modi, più o meno plateali. Erano gli anni in cui il silenzio iniziava ad essere rotto da giovani di quel territorio, da qui ragazzi determinati che non intendevano cedere alla paura ed al cultura dilagante dell’omertà, come quelli di Corto Circuito e del Gruppo Pio La Torre. Era il 2010. Era prima che venisse aperta l'inchiesta conosciuta come “AEMILIA”...Soltanto dopo l'esplodere pubblicamente - con arresti e sequestri - dell'inchiesta giudiziaria, nel 2015, si è rotto in modo dirompente quel muto del silenzio (ovvero di omertà) e del negazionismo più sfrenato. Lo si è rotto, però, solo in parte, visto che di denunce ferme e risolute contro la politica viziata da contiguità e connivenze - quando non addirittura complice - da parte di LIBERA non se ne sono viste. Così come LIBERA ha mantenuto il silenzio sui colossi delle cooperative rosse che alle imprese mafiose da anni affidavano subappalti e forniture, mentre in parallelo sostenevano il progetto di LIBERA di “LIBERA TERRA”. Qualche piccolo richiamo, ma senza troppo rumore e senza soprattutto lanciare un messaggio chiaro. Era (è) così difficile dire che soldi delle cooperative che avevano affidato (e continuavano ad affidare) commesse ad imprese di mafia, LIBERA ed i progetti di “LIBERA TERRA” non li accettano e quindi li restituivano al mittente? (Identico discorso poi si potrebbe fare per le varie Fondazioni bancarie, come ad esempio MONTE PASCHI DI SIENA che veniva addirittura portato da LIBERA come esempio di legalità nel sistema bancario italiano!).

Passiamo alla Liguria. Se ad esempio il caso di Savona è già stato evidenziato nella terza puntata dell'inchiesta di Panorama, non fa male ricordare anche che una componente di LIBERA, la CISL, era addirittura scesa in piazza, con tanto di cortei sotto le proprie bandiere, promossi contro leinterdizioni antimafia (confermate prima Tar e poi, successivamente, anche dal Consiglio di Stato), disposte dal Prefetto di Savona, a carico dei FOTIA. Fatti che nonostante segnalazioni e molteplici richieste di chiarimento e soluzione da parte di molteplici soggetti (oltre che sollecitati dalla Casa della Legalità) vedevano la ferma volontà di non affrontare il problema. Potremmo parlare di Genova, ma sarebbe troppo lunga, e quindi sintetizziamo, sul capoluogo, con il semplice richiamo all'assoluto e inquietante silenzio relativo ai rapporti della politica e delle Pubbliche Amministrazioni (anche quell'Amministrazione comunale di cui Nando Dalla Chiesa era consulente e sostenitore) con i noti MAMONE, ma anche con il noto (già dalla prima inchiesta “MAGLIO” di primi anni duemila) FURFARO Antonio, oltre che, ancora due esempi eclatanti, con le concessioni, ad esempio, ai FIUMANO' (commercio) ed al GULLACE Ferdinando (appalto, nonostante anche un’interdittiva del Gip di Reggio Calabria). Il caso che invece qui vogliamo indicare riguarda il Levante della regione. E' Sarzana. In questa realtà – così come altrove – vi sono tanti ragazzi di buona volontà che mettono energie in LIBERA. Ma in questa realtà vi è tanto che non torna e tanti pessimi segnali. Il primo: LIBERA ha promosso un ottimo opuscolo (“Una storia semplice. Pare che Sarzana sia 'ndranghetista”) in cui sono richiamati molteplici delle inchieste giudiziarie che hanno riguardato quel territorio, ma in cui manca un “pezzo”. Manca letteralmente e totalmente il contesto di relazioni e rapporti di quei nuclei familiari della 'ndrangheta radicata a Sarzana - i ROMEO e SIVIGLIA - con la politica e la Pubblica Amministrazione. Manca quindi quel contesto di contiguità e connivenze che vanno poi a costituire il “capitale sociale” della 'ndrangheta, perché attraverso quei rapporti, con quelle relazioni, promosse dai diversi esponenti di una famiglia di 'ndrangheta, si consolida il riconoscimento e l'accreditamento sociale di quel nucleo familiare. A Sarzana un esponente della famiglia ROMEO, come si è già documentato, era stato candidato ed eletto nella maggioranza dell'ex Sindaco (ora Senatore) Massimo Caleo (di cui era assessore l'attuale Sindaco, Cavarra). Per quel candidato dei ROMEO al Comune di Sarzana si mobilitarono i più alti livelli del PD spezzino (e già dei DS). Andrò infatti in scena con una cena elettorale a cui parteciparono, insieme, per sostenere il giovane ROMEO, il Caleo Massimo (Sindaco uscente e ricandidato Sindaco), Guccinelli Enzo (assessore regionale e ricandidato alla Regione sempre con Burlando) e Forceri Lorenzo (già Senatore e Presidente dell'Autorità Portuale di La Spezia). Ecco, su questo, ad esempio, silenzio assoluto da parte di LIBERA che, invece, parallelamente, con l'Amministrazione comunale guidata dal Caleo, costituiva la “Consulta della Legalità”. Quando il Caleo volò a Roma, alla guida del Comune di Sarzana è giunto il suo “delfino” Alessio Cavarra, che, eletto Sindaco, chiamò in Giunta anche il Segretario provinciale del PD, Juri Michelucci, come Assessore alla legalità. Il Sindaco Alessio Cavarra, con l'Assessore ai Lavori Pubblici, Massimo Baudone, e la Giunta, si sono contraddistinti (ancora nell'anno 2015) per il negazionismo più assurdo e inquietante sulla presenza della 'ndrangheta a Sarzana. E qui, come già ricordammo, oltre al “paravento” offerto dalla Fondazione Antonino Caponnetto (povera memoria di Nonno Nino!), l'Amministrazione Comunale ha potuto contare su quello offerto da LIBERA e dalla sua rete di satelliti locali. Infatti il silenzio fu totale. Nessuna replica al negazionismo Sindaco ed all'Assessore da parte di LIBERA e satelliti, così come nessun commento nemmeno alla “bazzecola” degli esponenti della famiglia ROMEO che hanno fatto irruzione ad una conferenza stampa della Casa della Legalità. In contemporanea però andava avanti il lavoro a braccetto di LIBERA e satelliti con quell’Amministrazione Comunale negazionista, per la gestione di un bene confiscato. Ed è proprio qui che viene fuori un nuovo elemento critico, accennato anche nella terza puntata dell'inchiesta di Panorama... A far domanda per la gestione del bene confiscato (che il Comune guidato da Cavarra con l'amministrazione targata PD) sono l'associazione locale con ACMOS e la FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA di Davide Mattiello (già braccio destro di Don Ciotti il LIBERA nazionale, già alla guida di LIBERA PIEMONTE accanto a Laura Romeo moglie di Giancarlo Caselli, già promotore di ACMOS e poi – dal 2013 – Parlamentare del PD in Commissione Antimafia). Se risulta già significativo che una FONDAZIONE di un Parlamentare faccia domanda per la gestione di un bene confiscato (che poi viene puntualmente assegnato alla cordata di soggetti in questione), quel che risulta assolutamente non opportuno è che quella stessa FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA che chiede (e poi otterrà) – insieme alle altre realtà satelliti di LIBERA – l'assegnazione del bene confiscato al Comune di Sarzana (amministrato dal PD), abbia promosso nel 2014 un appello al voto ed alla mobilitazione a favore dei candidati del PD in Piemonte, e che qui si riproduce di seguito, con anche il modulo allegato alla richiesta di assegnazione del bene confiscato.

Ora, portati questi ulteriori, esempi, che il problema ci sia e sia serio dovrebbe apparire evidente al di là di ogni possibile dubbio. Ci vuole solo un briciolo di laicità nel vedere la questione. Dovrebbe essere stimolo ad aprire gli occhi soprattutto per quanti sono in LIBERA, che credono nello spirito originario di LIBERA e che queste cose non le accettano. Dovrebbe essere, una volta ancora, un invito ad un confronto serio, senza reticenze, nell'interesse di fare un passo avanti, eliminando le criticità pesanti che esistono inconfutabilmente. Perché, cerchiamo di chiarirlo, non è chi indica la questione, promuovendo una critica limpida su fatti concreti, che fa il gioco delle mafie (come qualcuno cerca di far pensare), o che vuole il “male di LIBERA”, bensì è proprio il perseverare nell’acquiescenza di questa degenerazione, che nega e non affronta e non risolve le criticità evidenti, che fa il male di LIBERA. Personalmente e come Casa della Legalità si ha un'idea di antimafia ben diversa, rispetto a quella promossa da LIBERA così come si è evoluta negli anni. E' un'idea che dice che l'antimafia non è “l'educazione civica” nelle scuole o sul territorio (attività importante, anzi fondamentale in un paese civile... ma è altra cosa, non è “antimafia”). E' un'idea che dice che l'antimafia si fa senza contributi pubblici e senza grandi sponsor ma con il volontariato e raccogliendo donazioni e sottoscrizioni libere che non condizionano. E’ un idea che dice che il riutilizzo dei beni confiscati non può attendere anni. I beni confiscati che non vanno alle Autorità dello Stato, va promosso con il volontariato (cioè senza contributi pubblici) e sulla base di progetti di utilità sociale effettiva e con verifiche periodiche, pena annullamento della concessione. Che dice che quei beni non riutilizzati dalle strutture dello Stato e su cui non ci sono progetti concreti di riutilizzo per fini sociali (e non per business!), si devono vendere - con tutte le verifiche preventive e successive - perché altrimenti diventano un costo per lo Stato... In altre parole: i beni che non si possono utilizzare (perché non vengono richiesti) devono essere venditi per permettere “entrate” allo Stato da destinare ai Reparti Investigativi. E' un idea che dice che l'antimafia è azione di monitoraggio del territorio, dell'economia, delle pubbliche amministrazioni (quindi anche concessioni, licenze, appalti), con anche denuncia pubblica e denuncia alle autorità competenti, perché il limitarsi, invece, nel promuovere una lotta alla “mafia ectoplasma”, senza nomi e senza volti, non da fastidio a nessuno e non incrina in alcun modo il “potere” mafioso. E' un'idea di antimafia che significa essere integerrimi e che quindi pone al bando i “due pesi e due misure” ed ogni forma di strabismo, perché la contiguità, così come la collusione e complicità, con i mafiosi va indicata e denunciata sempre e comunque, chiunque riguardi, qualsiasi sia la collocazione di partito o lo schieramento coinvolto. E' un'idea di antimafia che significa anche essere disposti a pagare un prezzo, vuoi che sia quello di beccarsi querele - con le conseguenze del caso -, vuoi che sia quello dell'isolamento o dell'arrivo di intimidazioni e minacce... perché quando si combatte seriamente la mafia, nelle sue cointeressenze con il potere politico-economico (e massonico), si deve mettere in conto che qualche fastidio prima o poi ti arriva. Pensare di fare antimafia all’acqua di rose per non avere problemi, non facendo nomi, non rischiando di inimicarsi il Potere, non è fare antimafia ma dedicarsi ad un attività inefficace per sistemarsi la coscienza, magari anche perché va di moda, ma si fanno solo danni. E’ un’idea di antimafia che significa essere ed anche apparire rigorosamente indipendenti, sia da qualsivoglia soggetto politico, sia da qualsivoglia interesse economico. E’ un’idea di antimafia che significa rifiutare di farsi usare dal politico di turno, dalla Pubblica Amministrazione o dall’impresa/cooperativa che vogliono garantirsi una sorta di “bollino” antimafia. Ed allora prima di accettare un invito ad un convegno si fanno le verifiche e se vi sono ombre in chi quell’invito lo promuove, si declina con fermezza. Nel dubbio si declina. Prima di accettare una sponsorizzazione o un contributo pubblico si verifica se quell’impresa o quell’Amministrazione Pubblica ha delle ombre e se le ha si rifiuta o rimanda al mittente il “dono”. Nel dubbio lo si rimanda indietro. Prima di accettare un bene confiscato da un Amministrazione Pubblica si verifica se questa ha o meno ombre e se ha ombre si rifiuta l’offerta di assegnazione. Nel dubbio si rifiuta. E’ un’antimafia che promuove proposte concrete, fuori da ogni logica clientelare, anche se scomode, senza mai porsi il timore di scontrarsi con il Potere politico e con la determinazione di indicare le resistenze (che anche in questo caso hanno protagonisti con nomi e cognomi) che quelle proposte incontrano. E’ un’antimafia che ha il coraggio di indicare con franchezza anche quelle inquietanti criticità nell’ambito della magistratura e delle forze dell’ordine perché è nell’interesse dei magistrati con la schiena dritta, così come degli agenti integerrimi dei reparti investigativi e delle forze dell’ordine, ripulire i rispettivi ambiti da chi, per molteplici e variegate ragioni che qui è inutile elencare, si mostrano più servitori di “altri Poteri” che dello Stato. Un'idea di antimafia (e di vita) che si basa sul principio (lo stesso per cui solleviamo certe questioni sulle pesanti criticità di LIBERA) per cui:o ci diciamo la verità oppure è inutile perdere tempo e dirsi impegnati. Senza guardare la realtà per quello che è, diviene impossibile incidere per cambiarla. Detto questo, vi è un punto che per noi è irrinunciabile: ognuno sceglie cosa fare nel proprio cammino personale o collettivo... Noi abbiamo le nostre convinzioni ed i nostri metodi. Altri hanno i loro. Chiarirsi non fa mai male, a nostro avviso... e proprio per questo crediamo che sarebbe opportuno - anziché arroccarsi in minacce di querele o nel presentare querele -, umilmente, sedersi tutti ad un tavolo e confrontarsi seriamente. Se invece LIBERA, ancora una volta, preferirà rifiutarsi al confronto, trincerarsi dietro minacce di querele o presentazioni di querele, perseguire nel tentativo di soffocare ed annientare gli “altri”, perché hanno un’idea diversa del “fare antimafia” e perché “osano” indicare i problemi reati (concreti e documentati), allora sarà l’ennesima occasione persa, e la responsabilità sarà chiara a tutti.

L'altra "Gamba" (E Cassa) Di "LIBERA" È ACMOS… Poi C'è "BENVENUTI IN ITALIA" (Anche A Sarzana), scrive il 14 aprile 2015 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Avevamo già visto quanto produce come Entrate "LIBERA CONTRO LE MAFIE", con un passaggio di entrate dai 2.706.569,00 euro nel 2009 ai 4.770.221,00 nel 2013 (vedi qui l'articolo con tutte le tabelle). Avevamo già visto molteplici dei finanziatori di questa struttura (fondazioni bancarie e cooperative rosse), così come anche il progetto di "LIBERA INFORMAZIONE" con la partnership del MONTE DEI PASCHI DI SIENA e l'operazione "Certosa 1515" insieme al GRUPPO ABELE ed Oscar FARINETTI, finanziata dalla Fondazione bancaria CRT. Ora andiamo avanti, con le strutture che hanno visto e vedono l'opera di Davide Mattiello divenuto parlamentare PD. (E due note a margine in coda sui rappori LIBERA e COOP). Questa volta vediamo, prima di tutto, quella struttura che nei propri Bilanci si indica come «a servizio di LIBERA», ovvero "ACMOS". "ACMOS" ha la propria base in Piemonte. Una sorta di "gemella" di "LIBERA - Piemonte". Per lunghi anni (dal 1999 al 2010) il suo presidente di ACMOS è stato Davide Mattiello, braccio destro di Don Luigi Ciotti Laura Romeo (moglie di Gian Carlo Caselli) nell'organizzazione piemontese di "LIBERA" (è stato Referente regionale di LIBERA PIEMONTE dal 2002 al 2010), poi nell'Ufficio di Presidenza nazionale di "LIBERA" (dal 2009 al 2012), quindi dal 2012 presidente della "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" (che vedremo dopo) e, dopo essere divenuto (nel 2012) Socio Onorario del "ROTARY CLUB", è divenuto nel 2013 Parlamentare, “eletto” alla Camera dei Deputati con il PD.

Per l'analisi delle entrate e di chi ha sovvenzionato questa struttura guardiamo agli stessi anni già esaminati per "LIBERA", ovvero dal 2009 al 2013.

I CONTRIBUTI RICEVUTI DA "ACMOS"

2009 € 916.400,03

2010 € 687.498,10

2011 € 719.642,44

2012 € 630.218,07

2013 € 625.790,53

Nel dettaglio da dove vengono questi contributi? Dal Bilancio 2009 (che si apre con "Questo Bilancio sociale è dedicato a Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica con gratitudine e riconoscenza") apprendiamo che:

100.000,00 euro sono stati dati da un MINISTERO;

365.000,00 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

49.500,00 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

25.414,03 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

126.606,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

29.380,00 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

174.500,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui FONDAZIONE CRT 45.000,00; COMPAGNIA SAN PAOLO 30.000,00; FONDAZIONE BELLEVILLE 58.000,00).

Dal Bilancio 2010 apprendiamo che:

150.000,00 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

85.500,00 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

153.500,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

57.722,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

39.380,00 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

120.350,00 euro sono stati da PRIVATI (tra cui COMPAGNIA SAN PAOLO 30.000,00; FONDAZIONE CRT 45.000,00).

Dal Bilancio 2011 (che conta anche una bella Cena di Natale con Don Luigi Ciotti e Oscar Farinetti) apprendiamo che:

170.000,00 euro sono stati dati dal MINISTERO DEL LAVORO;

136.000,00 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

45.000,00 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

132.500,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

12.500,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

37.797,00 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

90.840,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui COMPAGNIA SAN PAOLO 20.000,00; FONDAZIONE CRT 46.000,00).

Dal Bilancio 2012 apprendiamo che:

53.000,00 euro sono stati dati dal MINISTERO DEL LAVORO;

96.350,99 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

51.174,86 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

77.700,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

37.360,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

35.598,40 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

128.908,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui: COMPAGNIA SAN PAOLO 20.000,00; FONDAZIONE CRT 45.000,00; 8xmille Valdese 18.000,00).

Dal Bilancio 2013 apprendiamo che:

12.000,00 euro sono stati dati dal CONSIGLIO D'EUROPA;

193.692,50 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

37.100,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

13.331,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE (8.000,00 dal Comune ligure di LA SPEZIA);

64.709,40 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

142.328,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui: COMPAGNIA SAN PAOLO 30.000,00; UNICREDIT 60.000,00; 8xmille Valdese 15.000,00).

[si può notare come se è venuto meno il contributo della REGIONE PIEMONTE vi è stato un aumento consistente dei contributi della PROVINCIA, delle SCUOLE e dei PRIVATI con UNICREDIT che hanno compensato]

IL COMITATO ONLUS… OVVERO "LIBERA PIEMONTE". Se "LIBERA" di suo ha milioni e milioni di euro all'anno - come si è documentato - ed ACMOS integra non poco la raccolta fondi, LIBERA PIEMONTE, sotto la sigla di "COMITATO BENI CONFISCATI LIBERA PIEMONTE ONLUS", riceve mezzi e fondi pubblici per le proprie attività. Sul sito di LIBERA PIEMONTE c'è la pagina per la raccolta fondi e donazioni ma non c'è un elenco dei contributi giunti negli anni. Facendo una veloce ricerca sul web si apprende che certamente qualcosa è arrivato…Se ad esempio nel 2014 la PROVINCIA DI TORINO ha dato in comodato (gratuito) per la CAROVANA un pulmino da 9 posti al "COMITATO BENI CONFISCATI LIBERA PIEMONTE ONLUS" (oggetto della "CONCESSIONE IN COMODATO DI UN AUTOMEZZO DI PROPRIETÀ PROVINCIALE A FAVORE DELL’ASSOCIAZIONE “LIBERA PIEMONTE” PER INIZIATIVE DI CARATTERE SOCIALE"), si apprende anche che nel 2013 sempre la PROVINCIA DI TORINO ha dato un contributo di 36.000,00 euro per "Contributo annuale per la realizzazione di progetti sperimentali di volontariato"; sempre dalla PROVINCIA DI TORINO un altro contributo per il progetto "Un bene di tutti" di 10.800,00 euro su 10.800,00 richiesti e nel 2014, per il progetto "E' bene raccontare i beni confiscati alle mafie nella provincia di Torino", un contributo di 6.690,00 euro su 7.360,00 richiesti.

ARRIVA LA FONDAZIONE "BENVENUTI IN ITALIA". Nei Bilanci di ACMOS, dove si ritrovano molteplici foto di Mattiello Davide (foto a lato), troviamo anche alcune informazioni sulla "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" che lo stesso Mattiello, con ACMOS,ha lanciato come Presidente. Precisamente nel Bilancio ACMOS 2011 si legge: «Benvenuti in Italia sarà una “fondazione in partecipazione” perché le buone idee costano e noi scommettiamo sulla raccolta diffusa, trasparente e costante di piccole somme di denaro. La fondazione sarà la nostra cassa, la nostra autonomia, la fonte della nostra economia».

E poi ancora nello stesso documento di ACMOS si legge: «Un soggetto forte di credibilità sociale e culturale, autonomo finanziariamente, capace di entrare apertamente e autorevolmente nelle campagne elettorali e nella vita normale delle Istituzioni. Non stiamo costruendo un nuovo partito, non ci candidiamo a fare la corrente in un partito esistente, né saremo il comitato elettorale di qualche campione, non baratteremo pacchetti di voti in cambio di garanzie».

Sul sito della "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" non ci sono i Bilanci. Troviamo l'indirizzo di Via Leoncavallo 27 a Torino (che è lo stesso indirizzo dell'associazione ACMOS ed anche dell'Accoglienza del GRUPPO ABELE e del "COMITATO BENI CONFISCATI LIBERA PIEMONTE ONLUS"). Troviamo invece che nel "periodo costituente giugno 2010 - dicembre 2011" destinava a Fondo di Dotazione della Fondazione 107.300,00 euro ed al Fondo di Gestione 25.000,00. Sempre sul sito apprendiamo che la "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" «dispone oggi di un ricco fondo di dotazione costituito in opere d’arte» ed ha realizzato un “museo on line”«grazie al contributo della Fondazione CRT nell’ambito del progetto “Esponente”». Sul sito risulta confermato che il Presidente della "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" è sempre Davide Mattiello, che nel 2013 si è candidato, in Piemonte, con il PD alle elezioni politiche, venendo eletto alla Camera dei Deputati, ed entrando successivamente nella Commissione Parlamentare Antimafia. 

DAL PIEMONTE ALLA LIGURIA (A SARZANA)… e pare una questione tutta del PD. Partiamo ancora una volta da quanto scrive ACMOS (la struttura "a servizio" di LIBERA come si è già visto). Nel Bilancio annuale del 2012 ACMOS scrive: «Il network “Per Mano” è un percorso di accompagnamento, di consulenza di tipo amministrativo contabile, studiato per affiancare le piccole esperienze associative o imprenditoriali nate nell’alveo di Acmos o in rapporto di partenariato». Ed ancora «Da quest’anno “Per mano” accompagna anche il percorso dell’estensione nazionale del “We Care” attraverso il sostegno delle associazioni Rime di Trieste, L’égalité di Sarzana…» (We Care è attività comune di ACMOS con "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" e "LIBERA"). Sempre nello stesso documento di ACMOS leggiamo: «L’égalité un’associazione di promozione sociale fondata il 27 Gennaio 2011a Sarzana, in provincia di La Spezia; nasce dall’esperienza dei ragazzi del presidio Dario Capolicchio[di LIBERA, ndr]. (…) L’attività di L’égalité si svolge all’interno del territorio e vede come nella diffusione della cultura della legalità democratica [probabilmente, quindi c'è anche una "legalità antidemocratica", ndr], instaurando un dialogo con le Istituzioni nell’intento di valorizzarne il ruolo ma anche, vigile e attenta nonché, talvolta, rispettosamente e adeguatamente critica. Nel concreto, la nostra attività comprende collaborazioni con enti pubblici e privati nella realizzazione di iniziative, incontri formativi, attività educative nelle scuole…». Il fatto che "L'ègalitè" sia strettamente espressione di "LIBERA" e ACMOS è evidenziato dal fatto che nella stessa scheda pubblicata da ACMOS si legge che "L'ègalitè" ha realizzato «12 moduli di laboratori per Libera in collaborazione con ACMOS». Andiamo avanti…Il COMUNE DI SARZANA con la sua Giunta Comunale targata PD (quella Giunta che non vede la 'ndrangheta che lì a Sarzana ha una roccaforte da decenni, così come non la vede il PD che vede il proprio Segretario Provinciale di La Spezia, Juri Michelucci, essere anche l'assessore alla Legalità del Comune di Sarzana - vedi qui) deve assegnare un bene confiscato.

L'associazione "L'ègalitè" promuove quindi un progetto per ottenere l'assegnazione di quel bene confiscato.

Chi spunta tra i partner dell'associazione "L'ègalitè" per richiedere il bene confiscato? ACMOS ed anche la FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA, ovvero la struttura con alla Presidenza Davide Mattiello, cioè il parlamentare del PD componente della Commissione Parlamentare Antimafia.

I° NOTA A MARGINE "LIBERA" CONCORDIA (CPL). In una pubblicazione ufficiale sui beni confiscati a cura di Lorenzo Frigerio e Davide Pati. Ufficio Presidenza nazionale LIBERA. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie (a pag. 79) CAPITOLO 9 COOPERARE CON LIBERA TERRA AGENZIA PER LO SVILUPPO COOPERATIVO E LA LEGALITÀ.

Nelle terre confiscate alle mafie “Libera Associazioni nomi e numeri contro le mafie”, con il progetto “Libera Terra”, ha portato avanti un’esperienza unica ed efficace di economia diversa, pulita e sostenibile. (…) Per queste ragioni è nata l’Agenzia “Cooperare con Libera Terra”, uno strumento attivo per accedere alla rete cooperativa, rendendo disponibili tutte le conoscenze necessarie alla crescita di un’economia che pone l’etica al suo centro, per dimostrare, con i fatti, che solo l’agire legittimo è fonte di sviluppo. (…) (a pag. 80) La rete delle competenze. L’Agenzia opera attraverso prestazioni di servizi rese dai propri associati e dai rispettivi dipendenti e collaboratori, che mettono a disposizione in maniera volontaria, e per quanto possibile gratuita, le proprie competenze e professionalità per sviluppare la mission dell’Agenzia. Ad oggi (ottobre 2007) la rete a disposizione è composta da:

(…) (a pag. 88) CPL Concordia. CPL Concordia è un gruppo cooperativo nato nel 1899 nella Bassa pianura emiliana. Partita come cooperativa di braccianti, CPL Concordia copre oggi interamente lo spettro di attività delle maggiori multiutility dell’energia: oltre a gestione calore, reti elettriche, reti gas/acqua occupa la filiera del gas, con un’intensa attività di trading, vettoriamento, distribuzione e vendita di gas metano e gpl. Ad oggi, con 107 anni di storia, conta 1000 addetti nelle sedi dislocate sull’intero territorio italiano e all’estero. CPL Concordia soc. Coop. è a capo di un gruppo di 32 società fra controllate e collegate. (…)

II° NOTA A MARGINE. Chi faceva le iniziative con la "COOP 29 GIUGNO" del BUZZI ("MAFIA CAPITALE")?

Annotazioni Su LIBERA Ed Illazioni Varie…scrive il 15 dicembre 2014 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Prima di tutto: non ce l'ho con quanti credono, in buona fede, in LIBERA, e non ce l'ho con quanto si impegnano concretamente in alcuni "presidi", mettendoci energie e impegno. Queste persone meritano rispetto. Sono ancora in attesa, con la Casa della Legalità, di quel confronto chiesto a LIBERA, più volte, alla luce del sole, per affrontare alcune criticità che si sono notate e per chiarirsi...Non abbiamo mai voluto "annientare" o "distruggere" LIBERA (mentre invece qualcuno in LIBERA ha operato ed opera per "annientare" e "distruggere" la Casa della Legalità). Se noi abbiamo promosso critiche a viso aperto, volte ad aprire quel confronto negato, altri hanno preferito usare altri mezzi, come l'agire sotterraneo, nell'ombra, con illazioni di ogni specie perché "bisogna fermare Abbondanza" (come se poi io fossi tanto determinante, boh). Se noi abbiamo scelto di non querelare mai (anche davanti ad insulti palesi, illazioni varie), LIBERA ha invece scelto di farlo (unica denuncia presentata da LIBERA in Liguria, ed unica costituzione di parte civile in questa regione, è contro di noi). Non c'è problema. Ognuno sceglie chi denunciare. Loro hanno denunciato noi, noi invece abbiamo preferito chiedere l'intervento della magistratura denunciato mafiosi, corrotti, corruttori, devastatori dell'ambiente e della salute, come ha sintetizzato, qualche tempo addietro, Mario Molinari su NININ, in una tabellina. Come Casa della Legalità non ci sogniamo di costruire un "monopolio" nell'antimafia ed al contempo crediamo che LIBERA non possa avere questo monopolio. L'iniziativa antimafia non può essere "esclusiva" di qualcuno e sarebbe bene che, una volta per tutte, si uscisse anche dalla logica di un "antimafia di parte" (cioè di una specifica parte politica) che vede la mafia e le collusioni solo quando vi sono con soggetti politici della parte avversa e non le vede, le tace o le minimizza, quando invece riguardando la propria parte politica. Anche questo strabismo fa male all'antimafia. La rende non credibile oltre che fornire strumento per garantire ad alcuni politici un "paravento" o "patentini" che non è il proprio caso che abbiano. Abbiamo sempre detto e sostenuto che ognuno è libero - e ci mancherebbe - di scegliere di essere la struttura antimafia di un determinato blocco politico (ed economico), ma visto che dovrebbe essere opportuna anche l'onestà intellettuale, sarebbe doveroso dichiarare tale appartenenza apertamente, senza nasconderla o negarla. Non essere indipendenti, ma di parte, non è un reato, ma è opportuno (e corretto) che lo si renda chiaro a tutti. Come Casa della Legalità abbiamo un metodo di azione che non è certamente l'unico e non vogliamo, quindi, imporlo ad altri. LIBERA ha il suo metodo, altri hanno i loro. Sarebbe bene (e maturo) quindi che si accettasse che esistono altre realtà, ognuna con il suo metodo di lavoro ed azione. Non è quindi tollerabile la logica del "o con noi o non esistete", "o con noi o non dovete esistere". E qui, su questa differenza di metodi, come sulla necessità di abbandonare la logica monopolistica e di egemonia, sarebbe ancora una volta, utile un confronto tra le diverse realtà dell'antimafia. Non possiamo accettare la mancanza di rispetto per chi non entra nell'orbita di LIBERA. Ogni realtà concreta merita rispetto. Ogni realtà, anche se piccola, ha una dignità che non può essere calpestata. Per noi della Casa della Legalità è imprescindibile, oltre che porre l'attenzione facendo nomi e cognomi, indicando mafiosi e collusi al disprezzo sociale, ad esempio, anche pretendere che le Pubbliche Amministrazioni adottino criteri rigorosi per le gare d'appalto, visto che le norme già esistono e permettono alle Stazioni Appaltanti di porre paletti ben precisi (se lo si vuole) per la presentazione di offerte e partecipazione alle gare. Quando ciò non avviene riteniamo, conseguentemente, che le lacune e, in taluni casi, le infiltrazioni, vadano denunciate, alla Magistratura ed anche pubblicamente. Non si può tacere (e coprire) atteggiamenti ambigui che rendono penetrabile la Pubblica Amministrazione. Per questo non possiamo quindi, legittimamente, accettare di fare iniziative comuni con quelle Pubbliche Amministrazioni che non operano seriamente nella prevenzione delle infiltrazioni. LIBERA, invece, predilige fare iniziative con le Pubbliche Amministrazioni (anche con Avviso Pubblico), eludendo la denuncia e sorvolando dall'indicare e richiamare le Pubbliche Amministrazioni che tale prevenzione non realizzano. Anche qui, due modi di vedere ed agire diversi, ma perché mai noi dovremmo rinunciare al nostro? Secondo me, secondo la Casa della Legalità, per fare concretamente antimafia servono fatti. La retorica non ci piace, così come non ci piacciono i fiumi di parole senza fatti. Noi abbiamo dimostrato, umilmente, che si può fare concretamente antimafia, raggiungendo anche risultati importanti (sia in materia di contrasto che di prevenzione), con poco. Non servono grandi risorse se si vuole fare volontariato, serve quel minimo per coprire le sole spese vive. Si deve essere professionali nell'opera che si promuove, ma non professionisti pagati. Altri, invece, preferiscono il business dell'antimafia e questo è un "essere" radicalmente all'opposto alla nostra idea di antimafia che onestamente non possiamo condividere. Saremo liberi di pensarla così? Se altri scelgono la via del compromesso e la ritengono insindacabile, noi abbiamo scelto di non cedere mai al compromesso e pretendiamo rispetto per questa scelta. Per noi della Casa della Legalità fare antimafia significa fare inchiesta. Avere il coraggio di scavare e denunciare anche le storture della Pubbliche Amministrazioni, così come anche quelle che si possono riscontrare all'interno degli apparati dello Stato e della Magistratura. Non assumersi questa responsabilità, se si vuole fare antimafia seriamente, è incomprensibile per come la vediamo noi. Ed allo stesso modo se facciamo antimafia seriamente non si può prescindere dal prestare collaborazione fattiva nella raccolta di dati ed elementi utili ai reparti investigativi dello Stato, alla Magistratura ed anche alle Prefetture per quanto (e non è poca) loro competenza. Altri, come LIBERA, ritengono che questa non sia la strada? Benissimo, libera scelta. Loro percorrano quella strada che ritengono, ma non possono pretendere che noi si abbandoni la nostra!

Ora visto che certe illazioni continuano a circolare (perché "Bisogna fermare Abbondanza", come hanno scritto ancora di recente in una discussione e-mail interna a LIBERA a Savona), ed ovviamente vengono fatte circolare senza uscire allo scoperto, senza assumersi le responsabilità di ciò che si afferma, è giunto il momento di rispondere documentalmente. Ed allora a chi cerca di far credere che la Casa della Legalità vuole "fare i soldi" o "chissà chi c'è dietro", vediamo con alcune schede la realtà dei fatti...

Entrate a Confronto tra realtà nazionali dell'antimafia

Libera Associazione, nomi e numeri contro le mafie di Don Ciotti: 2009, 2.706.569 euro; 2010, 3.047.710 euro; 2011, 3.649.414 euro; 2012, 3.768.614 euro; 2013, 4.777.221 euro.

Casa della Legalità Onlus di Cristian Abbondanza: 2009, 6.013. euro; 2010, 11.154 euro; 2011, 9.185 euro; 2012, 7.824 euro; 2013, 9.973 euro.

Associazione Contro Tutte le Mafie di Antonio Giangrande: zero, sempre!!!

Libera riceve contributi pubblici e riceve contributi privati tra cui: Coop, Telecom, Unipoli, Carige, Unicredit, BNL, Cariplo, BNC, CRT, Unipolis, Vodafon, MPS.

In questo articolo sul sito di "LIBERA INFORMAZIONE" si legge "L’antimafia si fa anche mangiando. Una battuta, ma non troppo, quella con cui Tonio Dell’Olio spiega il senso della collaborazione tra Libera e la Fondazione Monte dei Paschi di Siena" ed ancora "Anche le banche possono fare la propria parte. “Spesso sono il luogo del riciclaggio del denaro sporco – aggiunge Dell’Olio – ma possono essere anche il motore della legalità”.  Ecco che la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, con il suo presidente Gabriello MANCINI ha deciso di sostenere l’avvio della Fondazione Libera Informazione, e rinnova adesso la fiducia dopo il primo anno di vita dell’Osservatorio sulla legalità…"

Con Clientelismo Ed Assistenzialismo Non Si Sconfigge La Cultura Mafiosa, Anzi...scrive l'1 gennaio 2014 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. [in coda AGGIORNAMENTO E RISPOSTA A DAVIDE MATTIELLO, deputato PD, storico braccio destro di Don Ciotti]. Pensare di contrastare la cultura mafiosa promuovendo un nuovo clientelismo ed assistenzialismo è pura follia. E' l'esatto opposto di ciò che è necessario fare. Assistenzialismo e clientelismo sono pratiche devastanti che alimentano la pratica, oltre alla mentalità, dell'assoggettamento “al favore” da parte delle persone. Mentalità e pratica antitetiche al Diritto. Mentalità e pratica affine a quella mafiosa. Purtroppo in troppi, anche dichiarando buone finalità sociali, finiscono per muoversi nel perpetuare questa cultura e questa pratica, proponendo una nuova stagione di assistenzialismo e clientelismo. Non è possibile assecondare questa logica perversa che, ricordiamolo, non ha aiutato il “riscatto” di alcuno, sia esso individuo o collettività. Ancora una volta con slogan e dichiarazioni di intenti lodevoli, in Italia, si nascondono proposte assurde, come quella nata dalla proposta di legge promossa da Libera, Cgil, Lega Coop & C., sotto lo slogan "Io riattivo il lavoro"... Nell'ambito della gestione di quelle “briciole” di beni confiscati che vengono oggi riutilizzati questo tipo di mentalità è purtroppo dilagante. E' vero che è stata attivata l'Agenzia Nazionale ma ancora non si è a regime nell'attuazione di questa “riforma” e la svolta, contro l'impostazione monopolistica che si è consolidata “nei fatti” e che si autoalimenta, non c'è stata. Prima di tutto grande parte dei beni che vengono sequestrati non finiscono a confisca definitiva prima di lunghi, lunghissimi anni, e quelli che vanno a confisca vengono riutilizzati solo in minima parte. Nella maggior parte dei casi c'è l'abbandono, poi ci sono i casi non rari, da sud a nord, in cui i beni confiscati vengono lasciati in mano ai mafiosi. Quei pochi che vengono assegnati spesso finiscono in una sorta di monopolio di gestione che, alla fine, anziché portare “riscatto” produce nuovo assistenzialismo e clientelismo, perché senza contributi pubblici non reggono e si promuovono e sopravvivono contro ogni logica di “libera concorrenza”. Certo ci sono casi di beni confiscati che vengono riutilizzati al meglio e onestamente, ma sono solo piccole particelle di gocciole di un oceano. Purtroppo questo è un tema che non si vuole affrontare e che agli scandali già evidenziatisi ne riserverà ancora molti, pronti ad esplodere se le inchieste andranno a avanti. Noi sollevammo la questione documentandola nel dicembre 2009 (vedi qui). Risposte ricevute: zero. E' un tema tabù, se osi affrontarlo finisci all'indice di certa “antimafia”, a partire da quella che con i beni confiscati si è snaturata in preda ad una sorta di morbo del business, in una logica di assegnazione che è negazione stessa della libera concorrenza e quindi antitetica ai principi che dovrebbero essere alla base di ogni azione antimafia concreta e, per questo, intransigente. L'assenza di svolta e coraggio nel riformare questo “tassello”, essenziale elemento del contrasto al potere ed alla cultura mafioso, rappresenta un fallimento. Un fallimento come quei tempi interminabili tra sequestro e confisca che ancora ostacolano l'efficacia del contrasto alle mafie quale è l'aggressione risoluta ai patrimoni illecitamente accumulati. Le riforme approvate nella scorsa legislatura hanno semplificato e ampliato l'azione di aggressione ai patrimoni mafiosi ma non sono ancora sufficienti. Vi sono stati, possiamo dire così, dei passi avanti a cui però buona parte dell'antimafia sociale ha contribuito a porre il freno con la demagogia e la retorica. Emblematica di questa perversa mentalità è l'ipocrisia di alcuni soggetti che hanno promosso una proposta di Legge di iniziativa popolare (vedi qui), oggi in discussione in Parlamento, sulla questione delle aziende sequestrate e confiscate. Che ora esaminiamo partendo dai promotori e dalle premesse...Si legge nelle premesse: “Con la mafia si lavora e con lo Stato no. Questa è una delle frasi che in molti hanno dovuto ascoltare in questi anni”. Ed i soggetti che si lamentano, giustamente, di questa mentalità (“Con la mafia si lavora e con lo Stato no”) chi sono? Vediamoli...C'è la CGIL che a parte i proclami, in molteplici occasioni e territori ha omesso la denuncia dei cantieri (ben noti) dove operano le imprese mafiose, dove vi è lavoro nero e caporalato, dove sono le cosche a decidere le forniture come l'uso di cemento depotenziato. Quella stessa CGIL che in molteplici casi ha assecondato il negazionismo e l'omertà in molteplici realtà del territorio. Quella CGIL che ha coperto dirigenti sindacali amici di famiglie mafiose ed ha allontanato chi invece “rompeva” con denunce e verifiche nei cantieri.

C'è la LEGACOOP che ha tra i propri principali consociati imprese cooperative che nel nome dell'economicità dei fornitori hanno fatto lavorare nei propri cantieri (e fanno lavorare nei propri cantieri) società di famiglie mafiose e/o di uomini “cerniera” tra mafia – impresa e politica. I grandi colossi delle cooperative emiliane con i loro cantieri sono un monumento all'ipocrisia del parlare bene, magari anche sponsorizzare associazioni antimafia, e poi razzola male garantendo lavoro ad imprese di soggetti legati alle cosche che soffocano la concorrenza ed il libero mercato.

C'è AVVISO PUBBLICO che dovrebbe raccogliere gli Enti Locali impegnati nel contrasto alle mafie ma che poi ha tra i propri soci alcuni Enti Locali e Regioni ove la presenza, il condizionamento e l'infiltrazione mafiosa sono conclamati, o che negavano (e negano) la presenza delle mafie sui propri territori, agevolando così la mimetizzazione delle imprese mafiose ed il loro assalto ad economia locale e appalti. Il caso della Regione Liguria con i Burlando, Monteleone e Saso è emblematico. Ancora di più, per fare un altro esempio, è esemplare dell'ipocrisia l'adesione del Comune di Isola Capo Rizzuto.

C'è l'ARCI che in molteplici realtà ha “riconosciuto” cosiddetti “circoli” che erano usati dalle organizzazioni mafiose (vedesi il caso del Circolo “Falcone e Borsellino” di Paderno Dugnano dove si tenne la riunione dei “locali” della 'Ndrangheta di Lombardia per nominare il reggente successore dell'assassinato NOVELLA; il caso del circolo Arci di San Luca che era gestito dai PELLE-VOTTARI; il caso di una Casa della Popolo toscana dove avevano il proprio deposito i promotori dei cd dedicati ai “canti di 'ndrangheta”; o molteplici circoli, ad esempio, genovesi, in Valpolcevera, che sono stati usati per decenni da esponenti di Cosa Nostra come i Maurici o i gelesi legati agli Emmanuello). Ente di promozione sociale che se conta esempi di attività coerenti con i valori enunciati (come ad esempio nell'ambito di Savona), ha in gran parte del territorio nazionale omesso ogni sorta di controllo sui proprio circoli affiliati così che potessero essere aperti, sotto l'insegna ARCI, anche luoghi dediti al gioco d'azzardo (dalle più antiche “bische” o con le più recenti videolottery e slot).

C'è LIBERA che ha chiuso più volte gli occhi su chi gli dava i finanziamenti (vedi Unipol, Monte dei Paschi, Unieco...) e su amministrazioni pubbliche e politici con pesanti contiguità che se era bene tenere lontani invece vedevano Libera al loro fianco nella promozione di “percorsi” nel nome della Legalità e dell'Antimafia. Una struttura che ha perso la sua spinta ideale originaria (custodita ormai da poche locali realtà sparse nel paese), finendo “prigioniera” di in una sorta di monopolio, costruito nell'ambito dell'antimafia, anche per quanto concerne la gestione dei beni confiscati, parallelamente al consolidato rapporto con un blocco politico-economico a cui si offriva come "paravento" per garantire una sorta di "patentino" antimafia. In troppi casi ha piegando la propria azione alle esigenze di “accreditamento” degli esponenti politici ad essa vicini che invece sarebbe stato bene tenere distanti e nonostante inviti al confronto ed a correggere gli "errori" non ha mai voluto rispondere se non a malo modo.

Venendo al merito della Proposta di Legge sulle aziende sequestrate e confiscate, promossa da questi soggetti, si può dire che essenzialmente pare scritta da chi non conosce (e non è così perché conoscono) cosa sia la mafia. Pare infatti essere sfuggito un punto. Le imprese mafiose non stanno sul mercato perché competitive, bensì perché riciclano soldi, corrompono e si impongono con le estorsioni. Che siano Ditte Individuali o imprese, anche con molti dipendenti, le imprese mafiose “reggono” (e reggono anche in periodo di crisi) perché hanno una disponibilità di risorse e condizionamento che gli permettere di non conoscere crisi, di non subirla! Se le si pone sul mercato della libera concorrenza, togliendogli la capacità di “drogare” il mercato e gli appalti, queste imprese crollano. In una parola semplice: falliscono. Certo esistono eccezioni, ma sono eccezioni che comunque dimostrano – se andiamo a guardare – che il “fatturato” in caso di sequestro o confisca, ed una gestione onesta e regolare, crolla. Se prima guadagnava tanto con le forniture di calcestruzzo depotenziato, nel momento in cui opera nella legalità quel guadagno centrato sulla frode nella fornitura viene meno. Se prima smaltiva i rifiuti speciali tossici con smaltimenti illeciti, siano con roghi o interramenti, avendo ampio margine di guadagno, operando nel rispetto delle norme quei margini di guadagno che l'impresa macinava svaniscono. E così via...Inoltre ci sono anche altro dettagli che pare sfuggano a chi promuove la proposta di Legge. Nelle imprese mafiose che finiscono sotto sequestro e poi a confisca, non sempre, ma quasi sempre, buona parte del personale è “manovalanza” della cosca, se non addirittura esponenti della cosca. I macchinari e le attrezzature utilizzate, a partire dai mezzi per il movimento terra, vengono sempre più spesso non acquistati ma presi in leasing. Il livello “occupazionale” come i parchi mezzi sono figli della conquista di lavori (pubblici o privati) “drogati”. E' questo che determina la produttività ed un fatturato elevato. Con una gestione corretta ed onesta dell'impresa, in competizione libera corretta e non viziata con le altre imprese, non potrebbe avere quei livelli di produttività e di fatturato, non potendo quindi permettersi quei livelli occupazionali e di parco mezzi. Ora viste questi aspetti risulta incomprensibile pensare di proporre, come avviene invece con la proposta di Legge in questione, che lo Stato di faccia carico di garantire tutto il personale (compresa la manovalanza e/o gli esponenti delle cosche) ed i livelli di fatturato e produttività (realizzati con riciclaggio, frodi fiscali, lavoro nero, corruzione, estorsioni e quant'altro) realizzati durante la gestione precedente, ovvero con la “gestione mafiosa”. Lo Stato non può farsi carico di spendere per tenere in piedi aziende fallite nel momento stesso in cui escono dal circuito della gestione mafiosa. Lo Stato può invece dare incentivi, questo sì, alle imprese sane, che assorbono il personale (non legato alle cosche) delle imprese mafiose poste sotto sequestro e quindi a confisca, ma non può garantire manco per un centesimo il credito bancario per imprese il cui fatturato era “drogato” dalla gestione mafiosa. Non sta in piedi nemmeno la proposta avanzata nel disegno di Legge di garantire una sorta di “corsia preferenziale” per l'assegnazione di incarichi, forniture o lavori che siano, alle imprese sequestrate e confiscate da parte delle Pubbliche Amministrazioni e/o società pubbliche o partecipate. La lotta alle mafie è una cosa seria ed il contrasto alle imprese mafiose sottratte alla mafia non può prevedere deroghe alla libera concorrenza ed all'eguaglianza alle altre imprese. L'accesso ai sostegni pubblici non può essere privilegiato per un'impresa che è stata posta sotto sequestro o confisca, deve essere garantito equamente a tutti. Se le imprese mafiose, poste sotto sequestro e confisca non possono reggere sul mercato, lo Stato non può salvarle dal fallimento. Con quale criterio infatti si va a dire alle imprese oneste, magari schiacciate dalla concorrenza sleale delle imprese mafiose, portate al fallimento che loro devono fallire ma quelle che erano mafiose no? L'amministratore giudiziario incaricato della gestione, a seguito del provvedimento della Magistratura – e servirebbe un albo nazionale in cui vengono inseriti professionisti dopo attento “esame del sangue”, così da evitare incarichi a professionisti legati, contigui o a libro paga delle cosche – dovrà esaminare lo stato dell'impresa e nel caso di insostenibilità della gestione dovrà procedere con la liquidazione della stessa. Se invece sussistono le condizioni per il mantenimento, certamente anche con riduzione (ovvia) del fatturato, allora l'impresa potrà essere gestita durante il sequestro a seguito della necessaria riorganizzazione aziendale e, una volta andata a confisca, dovrà andare all'asta perché possa essere assorbita o rilevata anche come ramo d'azienda da altra impresa “sana” o rilevata integralmente da un imprenditore o imprenditori su cui sia stata effettuata un'adeguata verifica con apposita informativa antimafia. Vi è poi l'ennesima surreale proposta nel disegno di Legge promosso da Libera, Cgil, Legacoop e compagni. Se sappiamo tutti che è necessario alleggerire la burocrazia ed i tempi nell'affrontare la gestione di imprese poste sotto sequestro o confisca, e che tale gestione deve essere fatta dall'Agenzia Nazionale e dal professionista individuato e delegato all'amministrazione giudiziaria, nella proposta di Legge vi è un elemento che davvero non si comprende. Infatti viene proposto di realizzare un bel “tavolo” presso le Prefetture con i Sindacati e l'associazione con maggiore esperienza nella gestione dei beni confiscati (che, guarda caso, nel sistema “monopolista” venutosi a creare in Italia è LIBERA) con cui l'Agenzia Nazionale si deve rapportare e che deve anche esprimere pareri obbligatori (pur se non vincolanti) sui singoli casi. Secondo noi, quindi, siamo davanti ad una proposta insostenibile e viziata di quella cultura e pratica di assistenzialismo e clientelismo puro, inaccettabile perché fuori da ogni logica del libero mercato e della concorrenza. Una proposta che pare scritta da chi non conosce la mafia e le imprese mafiose. Una proposta che sarebbe bene respingere con anche tutta l'ipocrisia che la avvolge. Sulla questione delle aziende poste sotto sequestro e confisca, così come sui beni sequestrati e confiscati, occorre promuovere proposte serie, non figlie di logiche assistenzialiste e clientelari. Noi abbiamo avanzato da tempo riflessioni e proposte in merito. Siamo disponibili ad un confronto serio per portare il nostro contributo. Un confronto che purtroppo mai si è voluto aprire nell'ambito dei movimenti antimafia, altro pessimo segnale... visto poi cosa hanno prodotto quelli del "blocco rosso", ovvero Libera, Cgil, Lega Coop & C., con la proposta che qui abbiamo contestato nel merito.

P.S. Vi facciamo un esempio molto pratico e concreto di come si è mosso un Sindacato di primo piano, quale la CISL (che siede anche nel coordinamento di LIBERA a Savona), in merito ad un'impresa posta sotto interdizione antimafia.

Il Prefetto di Savona ha promosso (dopo l'interdizione temporanea disposta dal GIP per l'operazione DRUMPER) un'interdizione antimafia alle imprese dei FOTIA, indicati dai reparti investigativi dello Stato come referenti della cosca MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI nel savonese e con consistenti rapporti con gli esponenti della cosca GULLACE-RASO-ALBANESE.

La CISL ha promosso le mobilitazioni di piazza dei lavoratori della SCAVO-TER davanti alle sedi istituzionali savonesi, a partire dalla Prefettura, per chiedere l'annullamento dell'interdizione antimafia emessa nei confronti delle imprese del FOTIA GROUP. Una delle frasi celebri di queste mobilitazioni era “Legalità sì, ma prima il lavoro”. Ecco, se questo è contrasto alle mafie allora significa che quelli della CISL (come di LIBERA LIGURIA) hanno un grossa confusione... Anche perché se è vero che senza appalti pubblici le imprese dei FOTIA avrebbero dovuto ridurre il personale, i lavori pubblici che non potevano più essere eseguiti dalle società del FOTIA GROUP avrebbero visto l'assegnazione ad altre imprese che, davanti alla concorrenza sleale dei FOTIA, non riuscivano a lavorare. Quindi il dire, come ha fatto la CISL, che si creava “disoccupazione” se i FOTIA non potevano lavorare con le pubbliche amministrazioni, per “colpa” dell'Interdizione, era una balla colossale. Non avrebbero lavorato loro ma altri si. Altre imprese che, soffocate dalla posizione dominante dei FOTIA, erano ridotte ai minimi termini avrebbero potuto assumere personale per far fronte a nuovi lavori.

AGGIORNAMENTO E RISPOSTA A DAVIDE MATTIELLO (deputato PD, storico braccio destro di Don Ciotti). La questione che abbiamo sollevato è stata ripresa da Antonio Amorosi su Libero. Nel frattempo Davide Mattiello, storico braccio destro di don Luigi Ciotti al vertice di LIBERA, in risposta alle critiche alla proposta di legge sulle aziende sequestrate e confiscate (figlia della cultura e pratica clientelare ed assistenzialista), sul sito della sua Fondazione "Benvenuti in Italia", pone una domanda: “Chi fa il gioco dei mafiosi?”. E' un ottima domanda a cui, crediamo di poter dare una risposta, prima di entrare nel merito, nuovamente, della proposta di legge, con alcuni esempi...Il gioco dei mafiosi, ad esempio, lo fa chi:

- si fa “paravento” ad amministrazioni pubbliche e politici che hanno contiguità, quando non addirittura connivenze e complicità, con esponenti delle organizzazioni mafiose e con gli “uomini cerniera” da questi posti in campo, in ogni parte del territorio ove abbiano appetiti, per perseguire i propri interessi criminali;

- si fa complice del negazionismo sulla presenza mafiosa (negandone se non la presenza gli interessi concreti e le influenze su politica ed economia) in determinati territori per compiacere la classe politica che foraggia con contributi e sostegni di varia natura la c.d. "antimafia";

- accetta sovvenzioni e contributi da Pubbliche Amministrazioni e/o soggetti privati (dalle banche alle cooperative), facendo iniziative comuni con questi e/o ricambiando con promozione dei “marchi”, quando queste Amministrazioni Pubbliche e questi privati “benefattori” intrattengono rapporti d'affari con soggetti appartenenti o pesantemente legati alle organizzazioni mafiose ed ai loro interessi;

- vede la mafia, le contiguità e complicità dei mafiosi solo quando ad amministrare la cosa pubblica sono esponenti dalla parte politica avversa ai “propri amici”, con uno strabismo perverso che mina alla radice la credibilità di quella che professa il proprio impegno “antimafia”;

- si rifiuta di pretendere dai propri sponsor (a partire dalle banche ai soggetti privati) coerenza nella pratica, con effettive e "normali" attività di contrasto all'illegalità;

- si rifiuta di denunciare con nomi e cognomi le reti di relazione delle organizzazioni mafiose con politica, economia, finanza, professionisti, garantendo così quella “mimetizzazione” ed “omertà” che le mafie perseguono in quanto radice principale della propria forza;

- assume logiche monopolistiche, contro ogni principio di equità e libera concorrenza, cercando di “isolare” gli “altri”, anche nell'ambito della gestione dei beni confiscati.

Può bastare per dare l'idea no? Crediamo di si, ed allora passiamo oltre.

Anni fa il Presidente della Casa della Legalità incontrò Davide Mattiello a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. “LIBERA LIGURIA” non era ancora nata, ma il “blocco rosso” si stava muovendo per costituirla facendo fuori chiunque non facesse parte di quel "blocco", mettendo quindi al bando, oltre alla Casa della Legalità, tutti quei soggetti che si erano mobilitati in Liguria contro quel “partito del cemento” che, trasversale, non solo devastava (e devasta) il territorio, ma che aveva, nei fatti, garantito (e garantisce) gli interessi e gli affari di faccendieri e famiglie mafiose.

A Davide Mattiello vennero fatti leggere alcuni rapporti della Guardia di Finanza relativi alle indagini sui MAMONE (quelli relativi ai vari filoni dell'inchiesta PANDORA che, per una fuga di notizie, finirò per divenire pubblici), per mettere in evidenza che chi stava “costruendo” LIBERA in Liguria erano i soggetti legati a quel blocco di potere che emergeva essere strettamente compromesso con i MAMONE, ovvero con chi è stato individuato ed indicato dalla Guardia di Finanza, come il “punto di contatto” tra cosche e mondo della politica e delle imprese. Quei MAMONE che già nel 2002 la DIA indicava chiaramente nella propria relazione pubblica in merito all'infiltrazione della 'ndrangheta negli appalti pubblici a Genova e provincia. Mattiello ha letto quelle carte. 

Mattiello è stato poi delegato a coordinare il percorso fondativo di LIBERA in Liguria e che cosa è successo? Ha tenuto conto di quanto era indicato in quelle carte o, ad esempio, nel libro-inchiesta “Il Partito del Cemento”? No. Hanno fondato LIBERA in Liguria con quel “blocco di potere” inquinato e compromesso. Chi combatteva quel “blocco” (e con quel "blocco" combatteva ed indicava anche le collusioni e complicità con esponenti delle cosche e promotori degli interessi delle cosche) è stato fatto fuori, con tentativi perpetui di delegittimazione finalizzata ad annientare ed isolare (che Mattiello rilancia chiaramente anche ora).

Tornava un'accusa, scritta nero su bianco anni prima, ad esempio, contro la Casa della Legalità, che era proprio quella di aver "osato" indicare i rapporti tra i MAMONE e la classe dirigente del centrosinistra genovese, sino a quelli diretti con BURLANDO già quando era parlamentare e consolidatisi con la sua guida della Regione Liguria. E così mentre tutti i rapporti indecenti degli Amministratori del centrosinistra ligure emergevano dalle inchieste, LIBERA promuoveva iniziative nel nome della “legalità” e della c.d. “antimafia” con questi, e da questi riceveva contributi e sostegni... Non meno importante, anche si tratta di un piccolo Comune, è il consolidato e perpetuato rapporto con BERTAINA, l'ex Sindaco ed ora vice-Sindaco di Camporosso (IM), per la promozione del “progetto legalità”... Questo mentre il BERTAINA risultava essere “gradito” alla cosca del MARCIANO' – capo locale della 'ndrangheta a Ventimiglia – e formava liste elettorali con le candidature di uomini della 'ndrangheta, come il MOIO Vincenzo, CASTELLANA Ettore e il GIRO Tito (che gli uomini della 'ndrangheta avrebbero voluto vedere come nuovo sindaco di Ventimiglia). E chi ha promosso le denunce alle Autorità preposte? Chi ha, in questi anni, raccolto segnalazioni e fatto sì che arrivassero ai reparti investigativi e Procure? Chi ha osato chiedere le Commissioni di Accesso o misure interdittive? Chi ha indicato pubblicamente nomi e cognomi dei mafiosi, le loro società, gli appalti e gli intrecci con la politica e l'economia in Liguria, come in basso Piemonte ed altrove? E stata la Casa della Legalità. LIBERA era troppo impegnata, per poterlo fare, con le Amministrazioni Pubbliche, con i politici dalle pesanti ombre, con l'incassare fondi, sostegni e visibilità a braccetto con quella politica ma anche con, ad esempio, la Rosy CANALE portata anche a Genova, come a Milano o in Emilia e Toscana, da LIBERA, che la presentava come simbolo del “riscatto” (sic) e dell'antimafia. A noi, e soprattutto al Presidente della Casa della Legalità, Abbondanza, così come anche a Marco Ballestra, sarebbe stato più utile avere una LIBERA attiva e coerente in Liguria. Se non fossero e fossimo stati isolati e lasciati soli nelle denunce (riscontrate!!!), le promesse di morte da parte degli uomini della 'ndrangheta non le si avrebbe, probabilmente, ricevute. Ma questo, per Mattiello è un dettaglio su cui sorvolare. Così come sorvola sulla storia del bene confiscato di Vico delle Mele a Genova che ha rappresentato una pessima storia - come denunciato dagli stessi abitanti della zona, impegnati insieme alla Casa della Legalità, nelle denunce e segnalazioni delle attività dei vecchi boss del centro storico -.

Vogliamo ricordarci ora la domanda posta da Mattiello: “Chi fa il gioco dei mafiosi?” ? ...e soprattutto, a questo punto, forse è più chiaro chi vuole "impantanare l'antimafia”... e non certamente Abbondanza e la Casa della Legalità, come invece vorrebbe far credere il Mattiello. Veniamo ora alla questione dell'assurda Proposta di Legge di cui Mattiello è relatore e che, nella sua risposta, rivendica con forza. Mattiello rivendica la logica clientelare ed assistenzialista della proposta di cui è relatore e che è stata scritta da LIBERA, LEGA COOP, CGIL & C...Afferma, nella sua replica, ad esempio: “La Commissione parlamentare anti mafia ha recentemente raccolto l’allarme dei magistrati siciliani su questo punto. A preoccupare sono certo le minacce al pool di Palermo che ha in mano il processo sulla “trattativa”, ma non di meno le minacce sistematiche che arrivano ai magistrati che nel trapanese si occupano delle misure di prevenzione. Perché?” Cosa c'entra la “TRATTATIVA” con la questione dell'assurdità della proposta di Legge non è dato saperlo, ma è di moda e fa tendenza citarla e così Mattiello la mette nel minestrone, dimenticando che ad oggi, il Tribunale di Palermo ha già espresso un chiaro pronunciamento su tale “teorema” (della TRATTATIVA) con la sentenza che assolve MORI e OBINU, in cui smonta non solo "teorema" ma anche la “bocca della verità” (ovvero della calunnia e del depistaggio) del neo "eroe" di certa c.d. “antimafia” quale è il CIANCIMINO Massimo. Il fatto che i mafiosi siano (a Trapani ed altrove) preoccupati e inferociti con lo Stato per l'azione di aggressione ai patrimoni mafiosi è ovvio. Ma questa azione non è mica figlia di LIBERA e della proposta di legge di LIBERA di cui si sta parlando... E' figlia del lavoro dei reparti investigativi e dalla magistratura. E' conseguenza del meticoloso lavoro – così come le interdizioni antimafia o le altre misure preventive e repressive – di DIA, GICO, SCO, ROS, e delle diverse DDA che coordinano le indagini. Forse nella foga di essere in “Commissione Antimafia” il Mattiello pensa che sia frutto del suo lavoro e di quella proposta di legge tutto questo? Pensiamo di no, sinceramente pensiamo che anche mettendo in conto l'auto-esaltazione non possa arrivare a tanto... Ed allora, di nuovo, cosa c'entra questo passaggio con l'assurda proposta di legge che hanno promosso? Nulla...

Ma già che cita il tema delle aggressioni a beni mafiosi e Trapani, vediamo... Quante denunce e segnalazioni sulle reti dei beni delle cosche e sulle loro attività sul territorio ha fatto LIBERA all'Autorità Giudiziaria, ai Reparti Investigativi e Prefetture? Noi sappiamo quelle che abbiamo fatto noi. E sono tante... come ad esempio le denunce sul FAMELI che, a seguito delle indagini, hanno portato a confisca di 10 milioni di beni da parte del Tribunale di Savona; le denunce sul NUCERA che hanno portato, a seguito delle indagini, alla confisca del maxi cantiere della T1 di Ceriale ed al crollo dell'impero; le denunce sui GULLACE-RASO-ALBANESE e sui traffici illeciti di rifiuti che coinvolgono anche i MAMONE nel basso Piemonte; quelle sui FOTIA oggetto di procedimenti aperti di carattere preventivo e interdittivo, oltre al procedimento per frode, corruzione e riciclaggio; ci sono quelle fatte sugli uomini ed affari del “locale” del basso Piemonte, acquisite dagli inquirenti per sostenere l'accusa contro gli 'ndranghetisti... e via discorrendo, per arrivare alla mole immane di segnalazioni e denunce sulle cave, tra cui quella di Rocca Croaire dove operavano gli SGRO', i PELLEGRINO, i FOTIA & C... o quella dei FAZZARI-GULLACE a Balestrino, su cui vi sono molteplici procedimenti aperti.

Ed a proposito di Trapani, realtà che lui cita... Come lo spiega Mattiello che una delle imprese individuate nell'inchiesta GOLEM III (che riprende alcuni filoni dell'Operazione “EOLO”), che per far lavorare nel Parco Eolico "Vento Di Vino" le imprese facenti capo a Matteo MESSINA DENARO operava coscientemente per aggirare i vincoli del “protocollo di legalità”, è proprio quell'impresa tanto amata dall'Amministrazione della Regione Liguria di BURLANDO (quella Regione che Don Ciotti ha ringraziato per l'azione antimafia)?

Mattiello prosegue poi dando un dato reale: “il 90% delle aziende sequestrate e confiscate fallisce”. Usa questo dato per sostenere l'utilità della proposta di legge da neo assistenzialismo e clientelismo promossa da LIBERA & C. Ma questo dato significa una cosa semplice e ben diversa: le imprese mafiose se si elimina la capacità di “drogare” il mercato da parte delle mafie non reggono la libera concorrenza. Non possono reggere perché: gli viene la disponibilità di fondi derivanti dal riciclaggio del denaro sporco; gli viene meno l'acquisizione di lavori attraverso l'estorsione o la corruzione. Non reggono nella "legalità" perché la gestione mafiosa dell'impresa avveniva in sfregio alle norme, nell'illegalità, e nel momento in cui quella stessa azienda deve operare correttamente (con lavoratori in regola e non in nero, con materiali conformi, con il rispetto delle norme,...) diviene un'azienda NON competitiva e con una gestione antieconomica. Vediamo poi alcuni esempi per far comprendere meglio, nel concreto, la questione.

1) Prendiamo la nota TERRA DEI FUOCHI (o qualsivoglia caso di smaltimento illecito di rifiuti tossico-nocivi). Prendiamo le imprese mafiose che hanno effettuato i trasporti e gli interramenti. Dobbiamo forse tutelare l'occupazione ed il reddito di quegli autisti che ben sapendo cosa facevano l'hanno fatto pur di portare a casa lo stipendio?

2) Prendiamo le imprese che producono ed utilizzano il CEMENTO DEPOTENZIATO. Dobbiamo forse tutelare l'occupazione ed il reddito di quegli operai, geometri o ingegneri che hanno prodotto e usato quel materiale scadente ben consci di ciò che facevano pur di portare a casa la busta paga?

3) Prendiamo l'esempio delle imprese che fanno MOVIMENTO TERRA E BONIFICHE. Dobbiamo forse tutelare l'occupazione di quanti facevano i “giri bolla”, con finti conferimenti della terra scavata in un appalto che poi andavano a conferire per un'altro appalto? Oppure dobbiamo tutelare l'occupazione di quanti hanno fatto bonifiche fasulle consci di ciò che stavano facevano?

Per Mattiello, LIBERA & C, pare proprio di sì. Per noi questo è un assurdo. Anzi inaccettabile. Il personale “pulito” delle imprese che vanno a sequestro e confisca deve essere ricollocato con agevolazioni (questo sì) nelle imprese “pulite” che spesso, tra l'altro, erano massacrate e soffocate dalla concorrenza sleale dell'impresa mafiosa. Il personale delle imprese mafiose poste sotto sequestro e confisca che risultava essere “manovalanza” per la cosca, nell'ambito delle attività dell'impresa, ci spiace, non merita sostegno da parte dello Stato. Dire che bisogna combattere la crisi, garantire l'accesso al credito bancario ed altre agevolazioni, è un principio ed una pratica che lo Stato deve a tutti, non può essere frutto di un provvedimento specifico ed esclusivo per le "imprese mafiose” poste sotto sequestro e confisca. Lo Stato il sostegno alle imprese lo deve alle imprese che stanno sul mercato, a partire da quelle vittime dell'inquinamento mafioso del mercato e della competizione “drogata” dalle mafie nell'ambito dei lavori pubblici, con equità e non con occhi di riguardo per alcuni e indifferenza per altri.

Andiamo avanti. Se si affida la gestione aziendale a chi ne cura l'amministrazione giudiziaria a seguito del sequestro o confisca, e questi sono selezionati con attenzione e severità assoluta, sono questi e solo questi Amministratori che devono verificare se l'impresa mafiosa posta sotto sequestro o confisca può stare in piedi economicamente o se invece deve essere liquidata. Non è concepibile che si costituiscano dei “tavoli” con sindacati, associazioni e chi si vuole d'altro, e che sia questo "tavole" che debba “valutare”. No! Chi assume l'amministrazione giudiziaria del bene, incaricato dallo Stato, valuta, non altri. Non scherziamo quindi... Assegnare a “tavoli” politico-sindacali la valutazione è assurdo. Così come è assurdo che vi siano fondi dello Stato (anche se derivanti da altre confische) che vengano destinati per tenere in piedi imprese sequestrate o confiscate che non reggono da sole sul mercato. Prevedere assistenzialismo, anche sotto forma di ammortizzatori sociali, per le imprese mafiose finite sotto sequestro o confisca è follia pura. E' un'azione chiaramente ed inequivocabilmente clientelare, fuori da ogni logica di libero mercato. Anche perché, ancora una volta, se questo modello promosso da LIBERA entrasse in funzione, voglio vedere con che faccia si presenta poi lo Stato davanti all'impresa onesta che è stata soffocata dalla concorrenza mafiosa e che deve chiudere, mandare a casa i propri dipendenti o operai, portare i libri in tribunale e fallire, visto che non ha avuto “agevolazioni” (come la garanzia per l'accesso al credito ed altro) che LIBERA & C. propongono di destinare alle imprese sequestrate e confiscate (e non ad altre). Se si vuole essere seri si pretende, molto semplicemente, una norma che riconosca incentivi alle imprese sane che assorbono i dipendenti “puliti” delle imprese sequestrate o confiscate che falliscono. Allo stesso modo si deve prevedere, semplicemente, che l'impresa mafiosa che viene confiscata e può reggere sul mercato (con le proprie forze e risorse) vada all'asta... così come, invece, che i beni delle imprese confiscate che sono in situazione di “fallimento” siano posti all'asta per ricavare allo Stato quanto possibile dalla loro liquidazione.

Mattiello dice che sono pronti a migliorarsi. Bene, ritirino questa assurda proposta di legge e ne presentino una seria! Poi sulla finalità di garantire l'occupazione, il diritto al lavoro, contrastando così anche l'acquisizione di consenso sociale che le mafie costruiscono "facendo lavorare", impone di stroncare la pratica clientelare, la corruzione ed i condizionamenti mafiosi negli appalti pubblici e nella selezione dei fornitori da parte delle grandi imprese... LIBERA inizi con il pretendere dalle amministrazioni pubbliche amiche, dalle banche amiche e dalle grandi cooperative amiche che operino in questo senso. Il consenso sociale alle mafie serve per condizionare la politica, i voti... per stringere patti con questo e quel politico... per trattare con quell'amministratore pubblico... per conquistare uno spazio di agibilità che gli permetta di agire in violazione delle norme e dei controlli per offrire servizi a basso costo alle imprese... E' questo il circuito da rompere per garantire la libera concorrenza tra le imprese e per garantire quindi un mercato del lavoro pulito, secondo Diritto e non quindi secondo clientela, assistenzialismo o peggio.

P.S. Usare il generale Dalla Chiesa, come fa Mattiello, non è bello. Usare altri per far sembrare che questi fossero d'accordo con questa assurda proposta di legge è anche di pessimo gusto, soprattutto quando si usano quelli che non ci sono più e non possono replicare.

Che LIBERA Si Faccia Un Bagno D'umiltà... Sarebbe Utile A Tutti, scrive il 26 agosto 2013 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Luigi Pio Ciotti ha superato ogni possibile limite di decenza e dimostra che le critiche che abbiamo mosso, in questi anni, a certe pratiche e concezioni di “Libera” erano più che mai fondate. Davanti ad un bando pubblico per assegnare un bene confiscato quale la tenuta di Suvignano, a Siena, cosa va a tuonare il prelato leader di Libera? Quattro parole: “Lo Stato si fermi!”. Ma stiamo scherzando? No, purtroppo non è uno scherzo. Per loro invece è lo Stato che si deve fermare, perché loro – Libera - con l'accordo della Giunta “rossa” della Regione Toscana, della “rossa” Arci, dell'Amministrazione “rossa” del Comune di Monteroni d'Arbia e la “rossa” Provincia di Siena - il bene lo volevano assegnato alla loro rete, a prescindere... perché così, quasi esistesse una sorta di (loro) diritto "divino"...Per “Libera” se c'è un bene confiscato questo deve andare a loro. Gli altri non esistono. La possibilità di collaborazione con altri, esterni alla loro “rete”, non è contemplata. La “libera concorrenza” è, per loro, un'intollerabile pratica. Noi, negli anni, abbiamo indicato queste storture nella pratica, così come nella mentalità del gruppo dirigente di Libera [vedi ad esempio qui]. Abbiamo evidenziato le contraddizioni di predicare l'antimafia, la lotta alla corruzione ed alle storture della politica e delle Pubbliche Amministrazioni, a cui si sviluppavano (e sviluppano) il far salire sui palchi esponenti politici con pesanti ombre, quando non indecenze conclamate, oltre all'accettare fondi da soggetti economici discutibili, come il MPS, Unipol o la galassia delle grandi cooperative rosse che assegnano i subappalti ad imprese di famiglie legate ed appartenenti ad organizzazioni mafiose. Noi abbiamo vissuto sulla “pelle” che certe assegnazioni di beni confiscati avvengono per via “preconfezionata”, facendo fuori, senza mezzi termini, chi potrebbe concorrere o collaborare alla gestione di quel bene sottratto alle cosche [vedi qui e qui]. Così come abbiamo visto soggetti politici in stretto rapporto con esponenti della criminalità organizzata presentarsi alla comunità con al proprio fianco “Libera”, a garanzia di una “verginità” che non c'è. Anche l'aver indicato che “Libera” ha un rapporto particolarmente saldo e proficuo con un particolare blocco politico e politico-economico, non è stato altro che indicare quando è alla luce del sole. Non abbiamo mai detto che Libera dovesse “sparire” ma semplicemente che davanti al legame conclamato ad un particolare schieramento politico, sarebbe necessaria quell'onestà intellettuale del dichiararlo e non invece il persistere nel presentarsi e professarsi “indipendenti”. Ed ancora, se si indicano i casi di storture pesantissime, che fanno divenire “ipocrite” le nobili dichiarazioni di intenti, non è perché si vuole porre “Libera” sul banco degli imputati ma - come abbiamo sottolineato sempre - perché si affrontino ed eliminino tali situazioni particolari. Senza ripercorrere qui quanto già affrontato ma facendo solo alcuni esempi, non certamente nostra responsabilità se Libera promuove a Sanremo una “fiaccolata” contro le mafie e fa sfilare in prima fila i sindaci di Bordighera e Ventimiglia, Bosio e Scullino; così come non è colpa nostra se un pezzo di “Libera” a Savona, la Cisl, si schiera in pubblica piazza contro un'interdizione antimafia della Prefettura alle imprese dei Fotia... o, ancora, non è certamente nemmeno colpa nostra se la Regione Liguria, viene ringraziata pubblicamente da Don Luigi Pio Ciotti per l'attività antimafia, quando in questi anni, con la gestione Burlando, ha visto un proliferare di appalti e concessioni ad imprese che “puzzano”. Tutto ciò che abbiamo raccontato, in quelle quattro parole pronunciate da Don Luigi Pio Ciotti (“Lo Stato si fermi!”) trova conferma. Tutto ciò che in questi anni abbiamo detto e scritto lo confermiamo e ribadiamo, punto per punto. Anche se per alcuni l'indicare il "re nudo" pare essere, più che mai, inaccettabile e non tollerabile. Non ci facciamo intimidire da chi, credendo di vivere in un “santuario" intoccabile, si sente immune da ogni possibile critica, e ci vorrebbe tappare la bocca. Non ci facciamo quindi intimidire dalla scelta di Luigi Pio Ciotti e Nando Dalla Chiesa che alle nostre critiche – tutte documentate – anziché rispondere nel merito hanno preferito presentare querela per diffamazione (sia a noi che ad Antonio Amorosi, giornalista di Bologna che pubblico questo articolo). Abbiamo raccontato fatti, evidenziato storture e criticità. Non abbiamo mai ceduto all'insulto anche quando l'insulto era diretto a noi da alcuni esponenti di Libera (a partire proprio da Nando Dalla Chiesa che da consulente – pagato – del Comune di Genova promuoveva – al di fuori delle proprie funzioni – un bando per l'assegnazione di un bene confiscato a chi vendeva i prodotti di Libera, di cui era ed è il Presidente onorario). Noi non abbiamo mai pensato di “rispondere” con querele nei confronti degli esponenti di Libera, bensì di rispondere pubblicamente, come si sul dire: politicamente. Abbiano cercato sempre il confronto. Un confronto in campo aperto, sul merito delle questioni. Un confronto che il gruppo dirigente di Libera non ha mai voluto. Da parte nostra abbiamo continuato a cercare questo dialogo, e lo abbiamo avviato con alcun “pezzi” di Libera che volevano dialogare, capire e collaborare...Noi, a questo punto sia chiaro, però, non pratichiamo il cattolico principio del “porgere l'altra guancia” e la bocca non ce la facciamo tappare, perché ciò che c'è da dire noi, come sempre, lo diciamo e scriviamo, anche quello che per alcuni è “indicibile”. Libera ha scelto di promuovere le proprie attività con sponsor quali Unipol o Monte Paschi di Siena? Sì. E' una scelta legittima, ma quella scelta non può essere taciuta. Ha scelto di avere contributi da soggetti come la Unieco che in Liguria seleziona quali fornitori perché li fa risparmiare le imprese dei Mamone e dei Fotia? Sì. E' una scelta legittima, ma anche questa scelta non può essere taciuta. Hanno scelto di avere un legame saldo con un blocco politico, quale PD-SEL-RC e INGROIA? Sì. Anche questa è una scelta legittima, ma anche questa non può essere taciuta, a parlare sono i fatti (come gli esponenti politico di lungo corso, rimasti fuori dal Palazzo, e reimpiegati proprio nella rete di Libera, quali Nando Dalla Chiesa, Francesco Forgione o Vittorio Agnoletto o, ancora, ad esempio, il neo eletto in Parlamento con il Pd Davide Mattiello, ex braccio destro, in Libera, di Don Ciotti). Ed allora se Libera compie delle scelte non può pretendere che queste sia insindacabili, immuni da rilievi e critiche... Si faccia una ragione: la si può pensare diversamente e si possono avere metodi di lavoro diversi, ricordarlo, affermarlo non è un "offesa" o una "diffamazione", si chiama LIBERTA'. E la "libertà" dovrebbe essere anche nell'ambito della assegnazione e gestione dei beni confiscati... e quindi a doversi fermare per un'attenta e seria analisi ed autocritica non è "lo Stato", ma proprio Libera! Quindi se i fatti che abbiamo indicato hanno fatto risentire Luigi Pio Ciotti e Nando Dalla Chiesa, il problema non è nella nostra trattazione ma in quei fatti, in quelle dinamiche, di cui noi siamo solo stati narratori. Se non volete cambiare atteggiamento, e preferite le "querele" al confronto schietto, per noi non c'è problema nel documentare e dimostrare nel dibattimento la fondatezza tutti i punti di critica ed i fatti che abbiamo scritto e pubblicato su LIBERA. Ma sia chiaro che quella sede l'ha scelta LIBERA e non noi!

P.S. Quando il Presidente della Casa della Legalità ha annunciato dalla sua pagina facebook la querela dei massimi dirigenti di “Libera” uno degli esponenti di Libera a Genova (che si riunisce presso la LegaCoop) e già esponente del Comitato Marco Doria Sindaco, Luigi Cornaglia, ha risposto affermando: “fa più Libera in una giornata di lavoro in tutta Italia che Abbondanza in tutto un anno di blog con dozzine di post autoreferenziali e logorroici, che non legge nessuno”. Il presidente della Casa della Legalità ha postato quindi un semplice testo: “Luigi Cornaglia, di LIBERA (ed ex Comitato Doria Sindaco di Genova), afferma: “fa più Libera in una giornata di lavoro in tutta Italia che Abbondanza in tutto un anno di blog con dozzine di post autoreferenziali e logorroici, che non legge nessuno”. Quindi che dire... forse mi devo ritirare e sospendere le attività di inchiesta e denuncia, oltre che le informazioni attraverso il sito...” Il risultato? Il post del presidente della Casa della Legalità è stato segnalato a facebook come “offensivo” con la conseguenza che è stato censurato e l'account del Presidente della Casa della Legalità è stato bloccato per 12 ore... come racconta questa immagine.  

P.S. 2. Non vorremmo che si pensasse che sia una questione “ligure”. E se avevamo già indicato, in altre occasioni, fatti di altre realtà, oggi, riportiamo integralmente una Lettera Aperta che riguarda una vicenda che si è sviluppata nel nord-est, a Vicenza. Buona lettura...

Vicenza, 28-03-2013 Lettera aperta al sindaco di Vicenza Achille Variati. Egregio signor sindaco. Leggiamo su Vicenzapiu.com di ieri una notizia relativa alla rivitalizzazione di Campo Marzo [1] nella quale si fa menzione di Gian Giuseppe Carpenedo come referente della associazione Il Fiero. Con la quale il comune di Vicenza ha posto in essere una iniziativa tesa al rilancio di Campo Marzo. Circa le iniziative de "Il Fiero" l'albo notizie del comune di Vicenza riporta notizie di tenore simile e alla data 4 ottobre 2012 [2] e alla data del 13 novembre 2012 [3]. In quest'ultima circostanza l'assessore al decentramento Massimo Pecori dichiara: «Non solo i cittadini potranno godere delle novità de “Il Fiero” in questo fine settimana, ma anche i turisti i cui autobus fermano proprio nell'esedra di Campo Marzo... Sabato e domenica l'occasione sarà ancora più ricca grazie alla presenza della “Confraternita della Quaglia di Levà” di Montecchio Precalcino che preparerà lo spiedo di quaglie, piatto tipico locale che va ad integrarsi con i prodotti esposti nelle bancarelle de “Il Fiero” che per questa seconda edizione saranno 70 e nelle quali si potranno trovare nuove proposte rispetto all'edizione precedente». Da numerosi articoli di stampa del 2011, anche stampa nazionale, risulta che un tale di nome Gian Giuseppe Carpenedo è stato arrestato nell'ambito di una vicenda per gravi fatti di camorra [4]. In data 12 dicembre 2011 il sito internet de Il Giornale di Vicenza [5] riporta che sempre tale Carpenedo verrà mandato «presto a processo». Orbene, in considerazione di quanto evidenziato sopra chiediamo al sindaco Variati anzitutto una cosa. Di sapere se il Carpenedo coinvolto nelle iniziative di rivitalizzazione del centro cittadino sia o meno lo stesso finito nelle cronache riguardanti gravissimi fatti di camorra. Qualora sia vero chiediamo al sindaco se egli sia a conoscenza dell'esito o dello stato del procedimento o dei procedimenti a carico di Carpenedo. Inoltre qualora fosse appurato l'abbinamento tra il Carpenedo oggetto delle indagini della magistratura e quello in rapporti con l'amministrazione, chiediamo a Variati se consideri la cosa opportuna o meno per l'amministrazione comunale. Abbiamo deciso di porre un quesito del genere al primo cittadino anche in ragione di altre situazioni da chiarire che hanno avuto luogo in passato. Ci riferiamo alla iniziativa antimafia patrocinata dal comune e avvenuta sotto l'egida dell'associazione Libera. Di tale evento si trova traccia sempre nell'albo notizie del comune di Vicenza [6] e vieppiù anche nel portale web della stessa Libera [7]. Dalla lettura dei due bollettini si evince che hanno partecipato all'evento del 25 febbraio 2011 l’assessore allo sport del comune di Vicenza Umberto Nicolai, il referente regionale di Libera coordinamento Veneto don Luigi Tellatin, il consigliere comunale Raffaele Colombara e il presidente del Vicenza Calcio del tempo Danilo Preto. Per quest'ultimo il sito de Il Giornale di Vicenza in data 16 ottobre 2009 [8] parla di una inchiesta della magistratura siciliana che lo accuserebbe di avere custodito i beni di una famiglia mafiosa.

Anche alla luce di tutto ciò ci aspettiamo dal sindaco una rapida risposta. Franca Equizi, SOS Vicenza giustizia e legalità.

Insulti Da Un E-Mail Di Libera... Ma Noi Guardiamo Avanti, scrive il 26 dicembre 2012 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Ancora una volta apprendiamo di messaggi interni alla “rete” di LIBERA perché escono dalla “riservatezza” delle loro comunicazioni ed approdano sul web. Noi non abbiamo mai “insultato” nessuno di LIBERA. Abbiamo espresso critiche, anche forti, ed abbiamo sempre indicato con precisione fatti e circostanze. Abbiamo, su questo, chiesto chiarimenti e confronto. Senza mai ricevere risposta. Saremo fatti male ma a noi non interessa “colpire” o “distruggere” LIBERA, bensì che questa torni all'origine, ovvero struttura indipendente e libera da condizionamenti di politica ed imprese. Abbiamo anche detto che non vi è nulla di male a farsi “struttura” di parte, come è, negli anni, purtroppo, divenuta LIBERA, ma questa scelta, crediamo, per correttezza, dovrebbe essere ammessa e non negata. Fatta questa premessa, veniamo al dunque di questa nuova “uscita” di LIBERA, con questa “nota interna”...Duole constatare che "Libera" non voglia accettare che possano esistere realtà autonome e indipendenti dalla sua "rete" e che esistano altri metodi di azione per la prevenzione ed il contrasto delle mafie e della loro rete di relazioni e complicità. La logica per cui chi ha metodi diversi dai propri deve essere considerato un “cattivo” è preoccupante e non ci appartiene. Ben venga l'impegno "culturale". Per noi questo, per la realtà che ci circonda ed in cui viviamo, è però un impegno insufficiente. Come Casa della Legalità consideriamo legittimo ed anzi un arricchimento che vi siano realtà diverse e metodi diversi di impegno, per loro pare, invece, che la sola idea che ci siano "altri", oltre a Libera, produca una profonda intolleranza. Noi, pur avendo ricevuto insulti e calunnie da esponenti di Libera non abbiamo, sino ad ora, mai pensato di querelare. Abbiamo risposto, in alcuni casi anche pubblicamente, ma tenendo fermo un principio: non ci si fa la guerra quando si è sullo stesso fronte! Abbiamo indicato diverse volte, in modo articolato e documentato, fatti su cui chiedevamo a Libera di fare chiarezza. In altre occasioni abbiamo segnalato distorsioni pesanti. Mai abbiamo diffamato o calunniato alcuno. Hanno ritenuto, anziché rispondere nel merito delle questioni politiche poste, di promuovere "tre" querele nei nostri confronti? Ad oggi non ci è arrivata nemmeno una notifica in merito, ma siamo pronti a discuterne anche nelle sedi giudiziarie scelte da don Luigi Ciotti e Nando Dalla Chiesa, a quanto si apprende. Ed ancora: noi saremo "egoisti"? Noi? Come Casa della Legalità non abbiamo mai chiesto a nessuno una contropartita per ciò che abbiamo fatto per sostenerli o aiutarli. MAI! Non abbiamo chiesto nulla di materiale e nemmeno "atti di fede". Non abbiamo mai "usato" nemmeno la nostra cedibilità per fare campagne elettorali. Ogni volta che era necessario siamo corsi, ovunque ci chiamavano, compatibilmente con i pochi mezzi a disposizione. Abbiamo fatto sempre tutto il necessario per aiutare chi ci chiedeva aiuto e per tutelare anche nell'anonimato chi faceva segnalazioni. Abbiamo messo in contatto vittime e testimoni con chi di dovere. Chiunque ci chieda contributi di idee e progetti, proposte li riceve gratis, non in cambio di "consulenze" o "contributi". Ci siamo sempre assunti la responsabilità, sulle nostre spalle, senza mai nasconderci. Non ci abbiamo guadagnato un euro! Ogni risorsa giunta con le donazioni (tutte elencate sul sito) è stata usata per le attività! Ci si esposti quando era necessario per smuovere le acque, a viso aperto... garantendo così ancora maggiori coperture a chi stava collaborando e "sbloccando" inchieste che qualcuno non voleva far andare avanti. Ci abbiamo guadagnato due condanne a morte, una per il Presidente della Casa della Legalità ed una per il Referente di Imperia. E questo sarebbe "egoismo"? Non diciamo fesserie! Sul fatto che il Presidente della Casa della Legalità sia "inaffidabile", la miglior risposta sono i risultati raggiunti in questi anni di attività, portata avanti senza contributi pubblici e senza padrini politici... senza mai “strabismi” che piegassero le denunce e le attività ad opportunismi di qualsivoglia natura. Se per loro essere "inaffidabili" è avere il coraggio di denunciare nelle piazze, sul web, ma anche nelle opportune sedi, senza distorsioni, anche gli intrecci che coinvolgono quella parte politica e imprenditoriale tanto amica di Libera, allora sì, la Casa della Legalità, e non solo Abbondanza, è "inaffidabile"! Crediamo che sia il tempo che si incominci a capire che legittimamente esistono diverse realtà che operano con metodi diversi. Loro hanno inseguito e costruito una sorta di “monopolio” sul tema, noi no e non ci interessa questa strategia ed anzi riteniamo che più realtà ci siano, impegnate, anche con metodi diversi, ma comuni obiettivi, siano un “aiuto” nel perseguire l'obiettivo della prevenzione e del contrasto alle mafie ed alla cultura mafiosa. Le critiche sono stimolo per migliorarsi, per correggere gli errori che tutti, noi come anche Libera, possiamo commettere... ma tentare di delegittimare chi la pensa e agisce diversamente etichettandolo come "inaffidabile", è una vecchia pratica, di un vecchio stile, che onestamente non ci appartiene e che non vogliamo adottare. Noi non operiamo per "cancellare" gli altri che combattono, come noi, le mafie e le loro collusioni. Possiamo non essere d'accordo sui metodi o sui contenuti, ma non ci siamo mai posti l'obiettivo di "cancellarli", di "oscurarli" e "isolarli". Mai ci siamo posti l'obiettivo di costruire in noi una sorta di "monopolio". Anzi: abbiamo reputato di costruire una realtà, pronta a collaborare con altri, che fosse "strumento" per chi ha voglia di fare, di impegnarsi concretamente. Forse si ritiene "inaccettabile la nostra idea di "lavoro" in rete tra diversi piuttosto che l'essere tutti "nella stessa rete"? Forse è questo, ma noi restiamo convinti che, ad esempio, sulla partita dei beni confiscati non sia giusto che vi sia una sorta di monopolio di "Libera" e gli altri, tutti gli altri, se non si fanno parte di Libera, sono esclusi. Non siamo d'accordo perché è un segnale pessimo. Non siamo d'accordo perché crediamo che il riutilizzo dei beni confiscati debba vedere la compartecipazione di più soggetti, perché il segnale (oltre che il progetto di gestione) diventa più forte! Quando abbiamo mosso critiche, anche pesanti, erano su fatti ed elementi ben precisi, e mai volte a delegittimare (vedi ad esempio qui)! Elementi, tra l'altro, confermati anche da altre realtà attive nel Paese. Se, ad esempio, abbiamo detto che non riteniamo opportuno (oltre che credibile) sostenere e ringraziare Burlando per la lotta alla mafia che porta avanti in Liguria (come ha fatto Libera recentemente), lo abbiamo sottolineato perché Burlando è uno di coloro che le porte le ha spalancate alle imprese mafiose in questa regione e non gli si può offrire alcun “paravento”. Ed ancora, se abbiamo detto che Libera doveva prendere le distanze da Bertaina, ad esempio, a Camporosso, perché non è “credibile” nel promuovere un “progetto legalità” in quei territori, non è per distruggere Libera, ma per impedire che la strumentalizzazione della lotta alla mafia promossa da Bertaina si perpetuasse. Ed ancora, in ultimo, un esempio: se abbiamo detto che a Savona, Libera doveva chiarire come faceva la CISL che manifestava con e per i FOTIA ad essere parte di Libera, è perché se si promuovono manifestazioni contro un provvedimento interdittivo antimafia non si può, secondo noi, essere dentro alla “rete” di Libera. Ecco, noi siamo "laici" e quindi affrontiamo laicamente anche la questione della lotta alla mafia, per la legalità e la Giustizia. Allo stesso modo, laicamente, guardiamo al mondo della cosiddetta "antimafia". Non possiamo tacere ciò va detto o plasmarlo per fare un favore a qualcuno o per questioni di opportunismo. Se vi sono distorsioni, anche nell'antimafia, crediamo vadano dette. Se le si nasconde non le si affronta e quindi non le si risolve. Ed allora, forse, è proprio questa nostra "laicità" che non viene digerita... perché, ad esempio, è quella ci ha fatto dire che non avremmo partecipato alla "fiaccolata per la legalità" di Libera a Sanremo anni fa. Non lo abbiamo detto per "antipatia" ma perché non riteniamo che si potesse sfilare insieme a partiti complici di frequentazioni indecenti e di candidature viziate dai contatti e patti con esponenti della 'ndrangheta. Non ritenevamo possibile e credibile che in testa a quella manifestazione promossa Libera vi fossero gli allora sindaci Bosio di Bordighera e Scullino di Ventimiglia, i due sindaci mandati poi a casa per le infiltrazioni ed i condizionamenti mafiosi sulle loro amministrazioni. Noi non siamo "ecumenici", siamo "laici" e forse è proprio, davvero, questo, che non si sopporta di noi! Don Ciotti promuove spesso l'invito ad assumersi ognuno un pezzo di responsabilità. Noi lo abbiamo fatto da tempo. Lasciati soli anche da Libera. Così è stato quando andammo allo scontro per far giungere lo scioglimento di Bordighera o, poi, quello del Comune di Ventimiglia, così come quando si sono indicati, puntando l'indice, i mafiosi conclamati del savonese che per decenni avevano visto garantitagli una sorta di vergognosa impunità... ed ancora, per fare due esempi, quando indicammo i problemi che vi erano, evidenti e devastanti, nella magistratura, sin dentro alla DDA di Genova, o l'assurdo che amministrazioni pubbliche che tanto si riempivano la bocca di lotta alla mafia, come quelle genovesi, anche in occasione della Giornata della Memoria e dell'Impegno, fossero quelle stesse amministrazioni che ritardavano di anni l'adozione della Stazione Unica Appaltante proposta dal Prefetto Musolino e continuando a dare lavori ad imprese intedette o sotto inchiesta con informative "atipiche". Noi la nostra parte di responsabilità, su questo e molto altro, ce le siamo assunte, caro Don Ciotti, altri possono dire altrettanto? Non è questione di chi ha fatto di più o di meno. Non ci interessa. Non è una corsa a premi. E' questione di riconoscere il dovuto rispetto agli "altri", anche se profondamente diversi, per il lavoro fatto. Questo lo pretendiamo per noi e per gli altri! Si vuole guardare avanti? Noi guardiamo sempre avanti. Ci interessano i risultati che si possono (e devono) raggiungere! Non abbiamo tempo da perdere, il lavoro da fare è tanto e non possiamo permetterci di perdere alcun istante. Se si vuole un confronto, come abbiamo già detto in più occasioni, noi siamo disponibili. Se ci si vuole "omologare" o “annientare” invece no! Per questo, da parte nostra, rispondiamo all'invito di SavonaNews, con: sì, ad un confronto serio siamo disponibili, lo auspichiamo da anni, senza, purtroppo, risposta alcuna!

P.S. Se poi per "cattivi" ed "inaffidabili" si intende invece che si è osato chiedere che LIBERA rigettasse ogni forma di strumentalizzazione da parte della politica e delle grandi cooperative, che da un lato fanno tanti begli slogan antimafia, dando anche nutriti contributi economici, mentre dall'altro poi danno appalti o subappalti a imprese di mafia, allora sì, siamo molto "cattivi" e totalmente "inaffidabili", e lo saremo ancora, perché la lotta alla mafia si fa, secondo noi, coerentemente, in modo credibile, indipendente e senza fare sconti a nessuno, senza mai cedere a strabismi... altrimenti, se la si fa per fare "paravento" a qualcuno, si fanno solo, ulteriori, gravi danni! Noi per andare avanti non abbiamo sponsor e contributi pubblici da ogni dove, anche da amministrazioni ed imprese non proprio limpide, come invece ha LIBERA. Facciamo fatica ad andare avanti con le sole donazioni di persone semplici... Ma andiamo avanti con DIGNITA' e concretezza. Se si fa business con merchandising d'ogni tipo si è "buoni" e se invece si fatica nel tirare avanti, giorno per giorno, si è "cattivi"? Se questa è la domanda, noi preferiamo essere "cattivi" perché non "sfruttiamo" (e mai sfrutteremo) la lotta alle mafie e per la Giustizia.

P.S. 2 Noi non mandiamo in giro e-mail in cui insultiamo gli esponenti di LIBERA. Quando avevamo delle critiche (su fatti specifici e mai su simpatie o antipatie personali) li abbiamo sempre detti e scritti alla luce del sole e mai con l'intento di "distruggere" o "screditare", ma solo con il fine di un confronto, di avere risposte, di promuovere una riflessione utile a tutti! Anche questa è una differenza di "metodo", ma forse anche qualcosa in più!

P.S. 3 Per dovere di precisione poi, sarebbe anche opportuno che Don Ciotti - se corrisponde al vero quanto a lui attribuito nel testo dell'e-mail della "rete" di LIBERA - spiegasse meglio le ragioni per cui le strade tra LIBERA e la CASA DELLA LEGALITA' si sono separate. Infatti, come tra l'altro ben documentato da Bruno Lugaro sul blog di TrucioliSavonesi anni fa, LIBERA scelse in Liguria di cosituirsi con il "blocco rosso" color cemento, proprio quel blocco che la CASA DELLA LEGALITA' combatteva da anni perché strettamente "complice" nel negazionismo e delle infiltrazioni dilaganti in Liguria. LIBERA scelse di farsi ingurgitare dal "blocco" del Partito del Cemento (e definiva "destabilizzante" la Casa della Legalità). Noi non ci siamo stati e le strade si separarono. Forse raccontata così, cioè come andò davvero, è più corretto, ci pare!

Ecco il testo "interno" della "rete" di LIBERA di cui siamo venuti a conoscenza grazie a SavonaNews: Care e cari, venerdì mattina si è riunita a Roma l'assise dei referenti regionali di LIBERA. Presente la Presidenza Nazionale e la grand parte dei referenti dei territori (con eccezione dell'Emilia Romagna). Luigi Ciotti ha introdotto i lavori parlando della crisi sociale del Paese e dell'imminente campagna elettorale: saremo chiamati - ci dice Don Luigi - a dare respiro alle proposte importanti e sostenere la Buona Politica contro tutti coloro i quali ci tireranno per la giacchetta, tentando di USARCI. Si riparte da tre temi: la CONTINUITA' del nostro impegno, la CORRESPONSABILITA', il MORSO del PIU'. Ciotti ha quindi fatto riferimento a quanti nell'antimafia sociale o dentro la stessa rete di Libera non aiutano nella sfida di lotta culturale contro le mafie, creando divisioni o favorendo forme pericolese di egoismo: tra questi "cattivi" ha citato anche Cristian Abbondanza della Casa della Legalità, per cui è segnalata la richiesta presso il Ministero di richiesta di assegnazione di protezione, LIBERA Liguria ha firmato l'appello.  Don Luigi ha però inteso precisare: LIBERA NON PUO' SOTTRARSI DAL TUTELARE LA DIGNITA' DEI SUOI DIRIGENTI, ATTACCATI IN MODO INGIUSTO: ECCO PERCHE' RIBADISCE CHE UNA PERSONA INAFFIDABILE NON POTEVA RESTARE DENTRO LA NOSTRA RETE e NON SI POTEVA FARE A MENO di QUERELARLA NELLE TRE OCCASIONI IN CUI, nel corso di questi anni, HA AVANZATO ACCUSE PRIVE DI FONDAMENTO nei CONFRONTI SUOI E DI DALLA CHIESA.

“LIBERA” Di Nome Ma Non Di Fatto Rappresenta Un Problema Politico, scrive il 15 luglio 2012 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia? Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi...Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene. Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...Non è in discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare...Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che dà a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza. Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso. Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti. Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi. Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro... Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita.

A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania.

A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti.

Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime. Ma Libera non è una struttura indipendente? No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera!

Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria.

A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia.

Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante!

Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso!

Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania.

A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato.

Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...

Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”. Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”?

A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza... A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero? 2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, dà il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante? Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso. Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no? Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato!

Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti? Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera? La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.

In che senso “grande illusione”? Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe. Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi. Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...

Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione.

Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro?

Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”!

Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! 

La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.

Ma allora Libera...Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. 

Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.

Ma siete gli unici a dire queste cose? Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si dà voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera? Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...

A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata!

A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...

Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione? Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.

Franco La Torre: "Don Ciotti irrispettoso e autoritario. L'antimafia di Libera ha fallito alcuni obiettivi", scrive l'1/12/2015 "L'Huffingtonpost.it". "Sono stato cacciato nemmeno con una telefonata ma con un sms di don Luigi Ciotti. Perbacco, ho 60 anni e penso di meritare rispetto e buona educazione". La voce di Franco La Torre è pacata, il fraseggio elegante e misurato. Eppure non si capacita della rottura clamorosa con il fondatore di Libera, che l'ha allontanato dall'associazione e persino dalla cura del premio dedicato al padre Pio La Torre, il politico Pci ucciso nel 1982 a Palermo dalla mafia. Una vicenda che scuote il mondo dell'antimafia perché Franco La Torre è uno dei nomi più altisonanti nella battaglia alla criminalità organizzata: "Don Ciotti è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario, questa cacciata ha il sapore della rabbia di un padre contro il figlio ma io un padre ce l'ho e me lo tengo stretto", dice al telefono con l'HuffPost. Tutto è cominciato con un intervento all'assemblea generale di Libera il 7 novembre ad Assisi. Dal palco, apertamente, La Torre aveva sollevato questioni imbarazzanti come la mancata comprensione di Mafia Capitale o le problematiche di Palermo, dove in pochi mesi un simbolo dell'antimafia come il presidente di Confindustria Sicilia è finito sotto inchiesta per rapporti con Cosa Nostra mentre la giudice Silvana Saguto è indagata per la gestione dei beni confiscati ed è stata intercettata mentre sproloquia contro la famiglia Borsellino. E Libera non si era accorta di nulla, o almeno questa è la lettura di La Torre. Dopo qualche giorno un secco messaggio di don Ciotti: "Si è rotto il rapporto di fiducia". Poi il nulla. La Torre è categorico: "Una modalità impropria e irrispettosa: di quale fiducia parliamo se si può neutralizzare con un messaggio di 140 caratteri?"

Cacciato da Libera. Ha capito il motivo?

«Provo un grande dolore per questa vicenda. Poiché non sono ancora riuscito a parlare direttamente con don Luigi, posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all'assemblea di Libera. Ma ho 60 anni e pretendo un minimo di educazione. Se don Luigi non la pensa come me, allora dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia. E invece nonostante i miei numerosi tentativi per il momento ho saputo che don Ciotti non desidera parlare con me, o forse lo farà prossimamente. Chissà».

Perché ha mosso critiche a Libera? Cosa non va nell'associazione?

«Libera è cresciuta in maniera straordinaria grazie a don Luigi e alle migliaia di attivisti che lavorano volontariamente a livello locale. Ma anche la mafia è cambiata negli ultimi anni. Le classi dominanti che noi chiamiamo mafia hanno assunto caratteristiche differenti e basti guardare all'inchiesta Mafia Capitale. Ecco, all'interno di Libera eravamo molto concentrati su Ostia, dove avevamo fatto un ottimo lavoro, ma abbiamo perso la visuale d'insieme che invece è stata compresa perfettamente dal procuratore Pignatone. Purtroppo avevamo sottovalutato il fenomeno così come abbiamo sottovalutato i casi della giudice Segato a Palermo. Da quel palco ad Assisi ho detto che dovevamo alzare l'asticella».

Ha accusato Libera di mancanza di democrazia interna. Questa caratteristica è legata alla mancata comprensione della nuova mafia?

«La crescita vertiginosa di Libera non ha permesso il rafforzamento, la formazione e la selezione di una classe dirigente. Non vedo i criteri di alcune nomine dall'alto, poiché penso che una persona debba essere testata sul campo prima di affidarle un compito dirigenziale. Allo stesso tempo se in pochi mesi cinque figure di primo piano si allontanano allora significa che occorre rivedere gli schemi. A don Ciotti forse non è piaciuto che lo dicessi così apertamente: gli riconosco grandi capacità e un enorme carisma ma è un personaggio paternalistico con tratti autoritari».

Libera non è più all'altezza del suo compito?

«L'associazione ha dei meriti enormi, a partire dalla lotta per i beni confiscati. Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Don Luigi proprio a causa di queste inefficienze è costretto a occuparsi in prima persona di assemblee provinciali e regionali e troppi in Libera sono ancora convinti che "tanto c'è don Luigi". Ma fino a quando porterà la croce? Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità».

Si è dimesso anche dal premio intitolato a suo padre, Pio La Torre. Lo lascerà in mano a Libera?

«Il premio Pio La Torre è libero e indipendente ma per comprendere cosa succederà dovrebbe chiederlo ai referenti di Libera».

Se don Ciotti dovesse tornare sulla propria decisione?

Ho raccontato la mia verità e probabilmente devo fare anch'io autocritica. Sulla vicenda della mafia ad Ostia non sono stato presente e avrei dovuto dare una mano. Io mi auguro di parlare presto con don Luigi, queste sono le mie idee e se non siamo d'accordo possiamo anche dividerci ma non capisco perché la discordanza di vedute debba portare a un litigio che ricorda le rabbie famigliari e non certo un'associazione matura come dovrebbe essere questa. Credo che l'antimafia debba compiere un salto ulteriore per continuare a svolgere il suo compito importante. E' una grande opportunità, spero che a Libera sappiano coglierla».

Dopo il prete cosiddetto antimafia parliamo dello scrittore cosiddetto antimafia.

E POI…ROBERTO SAVIANO.

Prima di Gomorra. Saviano: "La rivoluzione va fatta col fucile" / l'audio di quando aveva 20 anni. Lotta armata, terrorismo e anni di piombo. L'intervento dell'autore di Gomorra a un convegno quando era studente universitario, scrive “Libero Quotidiano”. Pensare che oggi è il volto rassicurante della sinistra progressista: ieri era un filoterrorista marxista senza pietà che declamava: "La rivoluzione si fa con il fucile". Parliamo di Roberto Saviano, l'autore di Gomorra e coprotagonista con Fabio Fazio di Che tempo che fa. Ora siamo abituati a vederlo denunciare le ingiustizie nel mondo con prediche grondanti moralità, ma i suoi giovanili interventi in pubblico grondavano altro. Nel 2000, quando era uno studente universitario di 21 anni, Saviano prese la parola in un convegno dal titolo "Terrorismo ieri, oggi, domani?" presso la Federico II di Napoli. A un anno dall'omicidio (firmato Brigate Rosse) del giuslavorista Massimo D'Antona, il virgulto Saviano si lancia in una disanima degli anni di piombo il cui leit motiv è "la rivoluzione comunista in Italia è mancata per una questione di metodo". "I terroristi - diceva - hanno sbagliato semplicemente forma: la rivoluzione non si fa, si dirige. Loro hanno cercato come piccola cellula di individui isolati di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo e quindi anche castrandolo". Dal momento che il convegno, cui partecipavano magistrati e cattedratici, poneva anche interrogativi sul futuro, Saviano concludeva il suo intervento con un auspicio: "Vorrei soltanto fosse focalizzato il problema sul capitalismo e sulle sue crisi che generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato”. Giovane rivoluzionario - Possiamo riascoltare il Saviano-pensiero grazie a Radio Radicale. Secondo il giovane Roberto, i terroristi “Erano parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci, che aveva tradito con la sua scelta socialdemocratica le aspettative rivoluzionarie“. Gli anni di piombo sono dovuti qundi, stando al piccolo Saviano, a un naturale riequilibrarsi della lotta proletaria: "E così – prosegue – i terroristi prendono le armi per cercare in qualche modo portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci”. Non era spaventato dalla scia di sangue e morte rimasta sull'asfalto: quella dei terroristi era autodifesa di classe. "Un magistrato, un poliziotto, un politico - argomentava - non fanno qualcosa di più lecito se parliamo di etica di quello che fa un rivoluzionario sparando. Certo non ho vissuto quegli anni ma non sto certo dalla parte della magistratura - incredibile a sentirsi oggi - non sto certo dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo". Il pranzo di gala - E' un combattente vero l'autore di Gomorra negli anni pre-Gomorra. “La rivoluzione - arringava la platea di studenti della sua età - è la modificazione dell'attuale stato di cose presenti diceva Marx, quindi si fa col fucile. La polizia era armata, chi faceva resistenza doveva armarsi”. L'origine dei problemi, in ogni caso, non era la repressione degli organi dello Stato: “Il problema – tagliava corto Saviano – rimane il capitalismo”.

Daniele Sepe scrive un rap anti Saviano: «È intoccabile più del Papa». Il musicista, «comunista» napoletano, accusa lo scrittore di non accettare il contraddittorio e di essere manovrato, scrive Antonio Fiore su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Roberto Saviano bugiardo e imbroglione, costruttore del proprio mito, showman interessato più al diritto d’autore che al dovere della verità: se il libro di Dal Lago era una critica all’«eroe di carta», Cronache di Napoli di Daniele Sepe è un attacco senza precedenti all’autore di Gomorra.

Sepe, ma perché ce l’ha tanto con Saviano? «Non c’è nessuna polemica verso di lui».

Alla faccia: nel suo testo gliene dice di tutti i colori. «Contesto innanzitutto il fatto che Saviano sia un esperto di mafia».

Nega che a partire dal libro di Saviano sia cambiata nell’opinione pubblica non solo nazionale la percezione del fenomeno camorra? «Ricordo una bellissima copertina di Der Spiegel negli anni Settanta, quella con la pistola sul piatto di spaghetti. Sin da allora la mafia faceva notizia».

Già, ma quella fu una trovata giornalistica, di costume. «E anche Gomorra è un libro di costume. Con dentro tante imprecisioni e inesattezze che nessuno si è però preso la briga di verificare».

La storia del container pieno di cinesi morti, va bene. Però Saviano le risponderebbe che... «Risponderebbe che il suo è un romanzo. D’accordo, anche Sciascia scriveva (straordinari) romanzi sulla mafia. Ma non mi risulta che fosse considerato un esperto di mafia».

Saviano, però, ha portato alla luce gli intrighi di un clan pericolosissimo eppure mediaticamente sottovalutato come quello dei casalesi. Almeno questo, glielo possiamo riconoscere? «Perché, oltre a quello dei conosciutissimi boss ha fatto mai qualche nome? Se lui sa che i casalesi fanno affari con i grandi della politica e della finanza, perché non ci dice chi sono? Oppure i casalesi il business li fanno con i cinesi morti? Dice di sapere tutto dello scandalo-rifiuti in Campania. Ma quali aziende ha denunciato? Nessuna. Per attaccare un politico - vedi il caso Cosentino - aspetta che i giudici tirino fuori le carte. Saviano è solo una bella cortina fumogena. Se devo informarmi su che cosa è la camorra, scelgo sempre il buon vecchio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo».

Da un uomo di sinistra, anzi di sinistra radicale, non si sente politicamente scorretto? «Da comunista dico: quando da decenni la politica è fatta da governi presieduti dagli editori di Saviano, e quando i provvedimenti finanziari si accaniscono sulla povera gente, sicuramente chi ci guadagna è la camorra. La povera gente qualcosa deve pur mangiare, e la legalità è una cosa bellissima, ma non si mangia. Il problema criminale, in Campania e in tutto il Sud, va analizzato tendendo conto che qui sono 20 anni che le aziende chiudono per favorirne altre al Nord, e che la malavita attecchisce per mancanza di alternative, non perché qui vivono scimmie malvagie dedite al cannibalismo».

Intanto Saviano, per aver lanciato la sua sfida ai clan, è costretto a vivere sotto scorta. Ma lei ha da ridire anche su questo.  «A me risulta che, a suo tempo, il capo della Mobile dette parere negativo alla concessione della scorta. E per avere espresso questo punto di vista è stato rimbrottato addirittura dal capo della Polizia. Ma allora io mi chiedo: in Italia non c’è solo Padre Pio tra gli intoccabili? Possibile che si possa criticare il Papa, e Saviano no? Che persino Berlusconi accetti il contraddittorio, e Saviano no? Perché non posso dirgli guaglio’, stai dicenno ’na strunzata?».

Forse perché incrinerebbe un fronte di solidarietà verso una persona minacciata di morte? «Ma chi minaccia Saviano, e perché? Da cittadino italiano avrei il diritto di saperlo: quali sono ’ste minacce? Le telefonate anonime? Non che la cosa mi scandalizzi: in Italia ci sono tante scorte inutili, una in più, una in meno...».

Ma lo sa che cose simili le ha dette Emilio Fede, uno con il quale non credo che lei sia in sintonia? «Fede è sotto scorta da 15 anni, però continuiamo a criticarlo. E invece Saviano no, è incriticabile?».

Lei comunque non si fa pregare: nel finale della canzone definisce Berlusconi il capo burattinaio che paga l’affitto a Saviano. «Non sono il capo dei servizi segreti e non ho prove da portare, anche se prendo atto che Saviano è sempre molto deferente verso il suo editore. Del caso Saviano io faccio un’analisi politica: ciò che sta accadendo intorno a questo autore è funzionale a una destra populista, in cui il fenomeno della camorra è ridotto alla cattiveria innata di ceti popolari dediti al malaffare e al loro desiderio di fare soldi il più in fretta possibile. Secondo questa analisi il problema si risolve con più 41 bis, con più esercito, più polizia come vuole Maroni, non a caso amatissimo da Saviano».

E ora come si aspetta che valuteranno a sinistra questa sua presa di posizione? «Ormai il savianismo è una religione. Credo che come minimo mi scorticheranno vivo».

Intimidazioni, ricatti, violenza sono le armi del mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa una associazione, secondo l’art. 416 bis C.P., è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva: ossia è quello che fa il potere in tutti i suoi gangli.

GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.

Giancarlo Caselli: "Vi racconto la Procura di Palermo". Dai successi contro la mafia all’alt della politica. Alla vigilia delle nomine del Csm, il pm del caso Andreotti racconta la Procura più dura d’Italia, scrive Giancarlo Caselli su “L’Espresso. Stretta fra Cosa nostra (a lungo l’organizzazione criminale più pericolosa al mondo, rafforzata dalla complicità di personaggi “eccellenti”) e l’irredimibile propensione della politica a delegare il contrasto della mafia - ridotta a questione di ordine pubblico - esclusivamente a forze dell’ordine e magistratura, ma con un’asticella (non tracciata ma ben individuabile) da non superare a pena di “scomunica”, la procura di Palermo è sempre stata un ufficio “difficile”: per le aspettative di cui è stata caricata senza adeguato sostegno, accumulando tensioni su tensioni destinate alla fine ad esplodere. Le difficoltà sono diventate choc e tempesta con le stragi del 1992. Poi vent’anni di alterne vicende. Oggi, di nuovo una situazione “difficile” per un concorso di fattori, a partire dal processo sulla “Trattativa”, con un intreccio - nel capo d’accusa - mai visto prima, fra boss, uomini politici e ufficiali del Ros. Un processo che ha registrato un inedito conflitto di attribuzioni sollevato dal Capo dello Stato verso la procura, sia pure (nelle intenzioni dichiarate) per tutelare il proprio successore. Senza precedenti è anche l’interruzione della procedura, in fase avanzatissima, che stava portando il Csm alla nomina come nuovo procuratore di un candidato degnissimo dato ormai per sicuro vincitore (sperando che non sia un’invocazione sterile che la conclusione della vicenda rimanga estranea ad ogni condizionamento, comprese le famigerate degenerazioni correntizie che purtroppo spesso affliggono il Csm). Nuovo è anche il caso di dichiarazioni torrenziali dal carcere (41 bis) di uno dei boss/imputati nella “Trattativa” che parla e straparla di tutto, processo compreso, aiutato da un co-detenuto curiosamente petulante. Infine, fa da robusta cornice al tutto la persistente centralità (soprattutto mediatico-politica: la Sicilia è sempre un serbatoio decisivo di voti) della questione mafia riferita all’isola, nonostante la forza crescente ed il dilagare della ’ndrangheta. Quanto alla mia esperienza di capo della procura di Palermo per quasi sette anni (1993-99), le difficoltà che ho incontrato non sono state né poche né lievi. Avevo chiesto di andarci subito dopo le stragi che avevano causato la morte di Falcone, di Borsellino e di quanti erano con loro a Capaci e in via d’Amelio nel maggio-luglio 1992. Il Csm mi aveva “accontentato”, ma qualcuno si era opposto perché… non sapevo parlare siciliano. La vedova di Libero Grassi, Pina, e Giancarlo Caselli Lo spiritoso sostenitore di questo singolare profilo non capiva che invece di una difficoltà sarebbe stato un vantaggio. Infatti, al momento del mio insediamento trovai una situazione disastrosa, ancora segnata dai corvi e veleni della stagione di ostilità e umiliazione che avevano dovuto subire in vita Falcone e Borsellino: e il fatto di non avervi avuto parte - declinazione della mia… non sicilianità - mi fu di aiuto nel nuovo lavoro. Fior di colleghi pretendevano che con questo o quello non si dovesse avere più niente a che fare. Per contro, riunii tutti e li invitai a guardare solo al futuro, facendo squadra insieme. Ne derivò una procura coesa e compatta, che seppe ottenere risultati importanti. Quasi tutti, in procura, vivevamo sotto scorta. La scorta ti salva la vita ma nello stesso tempo te la cambia in profondo. Io vivevo con la scorta fin dal 1974, dai primi tempi dell’antiterrorismo. Chiedendo io stesso di essere trasferito da Torino a Palermo, dopo un chilometro e mezzo di autostrada polverizzata e dopo un quartiere di una capitale europea come Palermo trasformato in Beirut, sapevo benissimo che mi aspettavano misure di sicurezza quasi maniacali. Ma una vita da “prigioniero” vero e proprio, in ogni momento del giorno e della notte, senza poter fare niente di niente che non fosse deciso o approvato dai 12 ragazzi del Nocs della Polizia che costantemente e letteralmente mi circondavano, confesso che non me l’aspettavo. Comunque ho vissuto quasi sette anni “impossibili”. La mia famiglia rimasta a Torino e mia moglie che cercava di “assistermi”, le poche volte che riuscivo a tornare, caricandomi di monorazioni di pietanze congelate da stivare in freezer a Palermo. Una nipote nata nel luglio ’95, che nei primi bellissimi anni della sua vita non ho potuto godermi per nulla (impensabile per qualunque nonno “normale”...). Con il costante incombere di gravi pericoli che senti, anche se non sai mai bene cosa stia capitando. Come quando, praticamente senza preavviso (solo il tempo, come nei romanzi, di afferrare dentifricio e spazzolino), dal palazzo di Palermo di otto piani, dove io - unico inquilino - abitavo in un bunker che Fort Knox era una bagatella, fui deportato fuori città ed “esiliato” nell’aeroporto militare di Boccadifalco. Forse perché si era saputo qualcosa di quel che anni dopo (nel corso di un’udienza del tribunale palermitano in trasferta a Torino) mia moglie presente fra il pubblico apprese dalla viva voce di Gaspare Spatuzza: la preparazione da parte sua, fin quasi all’esecuzione, di un attentato contro la mia abitazione di Palermo, con un missile che doveva essere sparato dal prospiciente monte Pellegrino. Appena misi piede a Palermo venne arrestato Salvatore Riina. Avevo partecipato all’organizzazione della sua cattura negli ultimi miei giorni a Torino. I carabinieri di questa città mi avevano avvertito che un mafioso disposto a collaborare (Balduccio di Maggio) sapeva qualcosa di Riina. Avevo subito coinvolto il Ros di Palermo e informato, perché seguisse l’operazione, il collega Aliquò di quella Procura. Di Maggio non mentiva, e riuscì a fornire l’ultimo decisivo nodo alla rete che il capitano “Ultimo” aveva già steso intorno a Riina. Purtroppo la soddisfazione di tutti per questo successo fu rovinata dal fatto che i carabinieri del Ros (persino “Ultimo”, autore materiale della cattura) insistettero perché la perquisizione già decisa dalla procura non si svolgesse immediatamente, in modo da poter realizzare operazioni di vasta portata già programmate. Così venne deciso, nella certezza che il “covo” sarebbe stato tenuto sotto costante osservazione. Invece, senza mai avvertirci, non fu disposta alcuna sorveglianza. Il risultato si sa: il “covo” fu impunemente svuotato dai mafiosi. Una vicenda grave e oscura. Per noi un’autentica mazzata. Che però - paradossalmente - ci servì come spinta per darci dentro ancor di più e superare anche questo perverso, inaspettato ostacolo. Difatti, se le stragi avevano fatto correre all’Italia il pericolo di essere risucchiata in un buco nero, la procura di Palermo contribuì fortemente ad invertire la tendenza. Una serie infinita di pericolosi latitanti, mafiosi di primaria grandezza criminale, finalmente catturati. Beni per diecimila miliardi di vecchie lire confiscati ai boss: una piccola finanziaria, base dell’antimafia sociale, con la dimostrazione che la legalità conviene. Davanti ai nostri uffici c’era la fila di “pentiti” che volevano collaborare (diceva Falcone che ci si pente solo quando ci si fida dello Stato). Grazie a loro, prove su prove riscontrate in processi con 650 ergastoli e secoli di carcere inflitti all’ala militare di Cosa nostra. Scoperti arsenali da fare invidia ad un esercito regolare. Armi micidiali - anche lanciamissili e lanciagranate - tolte ai corleonesi impedendo che altro sangue scorresse. Sembrava fatta: la mafia ormai stretta in un angolo. Pensavamo di averla irreversibilmente isolata. Invece dopo un paio d’anni qualcosa cominciò a mettersi di traverso. E imparammo che finché indaghi su Riina e soci vai bene. Ma quando ti affacci anche al livello delle possibili complicità con politici, imprenditori, medici, insegnanti etc. la musica cambia e cominciano i guai. Qualcuno ti mette i bastoni fra le ruote. E preferisce perdere una guerra che si poteva vincere pur di inceppare un accertamento di responsabilità che oltrepassi l’asticella dei mafiosi di strada, sanguinari e perciò indifendibili. Insomma, lo Stato - nella partita contro la mafia - si è come fermato a undici metri dalla fine. Come se si dovesse tirare un rigore al novantesimo: ma invece di tirare, ci ha fatti rientrare negli spogliatoi. Lo storico Salvatore Lupo ha scritto che già nella campagna elettorale del 1994 (vinta da Silvio Berlusconi) partì “un attacco alla legge sui pentiti”. Se fosse stato solo un problema di consenso, nessun uomo politico avrebbe azzardato operazioni di questo tipo. In realtà furono operazioni “per il futuro, perché c’è bisogno di mafia”. Sta di fatto che dopo un paio d’anni in cui avevamo respirato un’aria esaltante, fummo costretti a subire attacchi e calunnie organizzati (in particolare dagli ambienti di centro-destra) con volgarità e protervia spesso davvero incivili. Sul banco degli imputati, al posto dei mafiosi e dei loro complici, ci finimmo noi. Ed ecco un classico: l’azione antimafia - in quanto scomoda per certi interessi - viene stravolta e falsamente accusata di essere azione “politica”, ispirata da una fazione in danno di un’altra. Si avvertiva in giro una gran voglia di “normalizzazione”. Anche il centrosinistra finì per dileguarsi, se è vero - lo sostiene Paul Ginsborg - che dal 1996 in poi “uno scarso entusiasmo del potere politico” accompagnò gli inquirenti palermitani, con la conseguenza che “la questione della mafia e della magistratura più esposta non diventa una priorità nell’azione di governo”. Certamente non ci giovò l’accertamento di forme di compartecipazione delle strutture economiche denominate “cooperative rosse” nel sistema di condizionamento politico-mafioso degli appalti. Accertamento che gli ambienti di centro-destra hanno dolosamente ignorato, forse perché incompatibile con la falsa etichetta di “comunisti” che amavano appiopparci. Il primo, chiarissimo segnale che le cose stavano cambiando si manifestò nel 1995 con l’incriminazione di Francesco Musotto, presidente della provincia di Palermo. Prima ancora di poter conoscere anche solo il colore della copertina del fascicolo (perciò con evidente pregiudizio ostile), venne organizzata davanti al palazzo di giustizia una contestazione della procura con “Forza Italia” e Gianfranco Micciché in testa e l’avvocatura in toga. Una piazzata. Niente in confronto a quel che succederà col processo Andreotti: una vera gara nello stravolgere la verità e nell’aggredire i pm di Palermo, pigmei a fronte di tanto imputato. David Lane ha scritto che “i politici e i media hanno raccontato un’altra storia, come se la suprema Corte avesse detto che (l’imputato Andreotti) era innocente: “un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi”. Un copione simile si è ripetuto per il processo Dell’Utri, scandito dalla beatificazione dello stalliere Mangano come “eroe” e dalla denigrazione dei pm, accusati delle peggiori nefandezze, partecipi di un complotto politico-mediatico-giudiziario, asserviti agli interessi di chissà chi, omuncoli da “periziare”. Lo scopo evidente di queste campagne è di “sbianchettare”, cancellandoli, i gravi fatti e le responsabilità che stanno a base delle due sentenze. Operare in questo modo equivale a legittimare - per il passato, ma pure per il presente e per il futuro - un modo di fare politica che contempla anche rapporti col malaffare, persino mafioso. Stracciarsi le vesti se non si riesce a sconfiggere la mafia è ipocrita, se non si ragiona sui rapporti tra mafia, politica e imprenditoria (fino alla “Trattativa”) partendo dalla realtà torbida e sconvolgente che proprio le due sentenze rivelano. Quanto poi alla “Trattativa”, nei miei sette anni di Palermo non ne ho mai saputo nulla. Il processo appena cominciato dirà come sono andate le cose. Certo è che i pm che hanno svolto l’inchiesta hanno dimostrato grande coraggio e spirito di servizio nell’inoltrarsi in un labirinto di cui non potevano ignorare le insidie, lasciandosi guidare unicamente dal dovere di ricercare la verità secondo legge. Gli attacchi concentrici cui vengono sistematicamente sottoposti sono del tutto ingiusti e ingenerosi. Tornando alle campagne sui processi Andreotti e Dell’Utri, non posso dimenticare lo spudorato corollario del “tradimento” del metodo Falcone che la procura avrebbe perpetrato. Un’accusa ridicola, formulata con la tecnica di parlar bene dei morti per meglio aggredire i vivi; smentita dall’esito in Cassazione dei due processi, esito a fronte del quale chi aveva strillato al “tradimento” avrebbe dovuto vergognarsi, ma non l’ha fatto. E dire che proprio a causa del processo Andreotti ho dovuto pagare un prezzo inaudito: essere scippato del diritto di partecipare al concorso per la nomina a procuratore nazionale antimafia con una assurda leggina “contra personam” (la mia), che ha cambiato le regole a partita ormai quasi conclusa e che la Consulta dichiarerà incostituzionale. Ma ormai i giochi erano fatti, senza che dal Csm o dal candidato che si era vista spianata la strada da un’ingiustizia ai miei danni si fosse levata una qualche voce di dissenso. Anche grazie a questa legge ignobile e meschina, ero consapevole che nessuno - solo perché hai sudato sette camicie per fare il tuo dovere - può pensarti come... avvolto nel tricolore. Ci mancherebbe! Non immaginavo invece che un’esperienza così dura e intensa potesse lasciare spazio al dileggio offensivo, com’è invece accaduto in una “clip” del film di Sabina Guzzanti sulla “Trattativa”. Infine, tra gli “eventi” del mio periodo palermitano un posto di assoluto rilievo spetta ad un interrogatorio del 23 ottobre 1993. Un mafioso di Altofonte arrestato per più omicidi, Santino Di Matteo, aveva chiesto di parlare con il procuratore di Palermo. Quando mi sedetti di fronte a lui, la prima parola che mi disse fu «Capaci». Il 23 maggio del ’92 era lì. Verbalizzai per sei ore le sue parole, la prima confessione di uno degli esecutori materiali dell’“attentatuni”, la ricostruzione precisa in ogni dettaglio della strage, decisiva per il successo delle indagini. Un successo avvelenato dalla vendetta nazista di Cosa nostra, che il 23 novembre rapì il figlio di Di Matteo, Giuseppe, di appena 13 anni. Dopo una prigionia di 779 giorni di maltrattamenti e torture il ragazzino fu strangolato e sciolto nell’acido dagli uomini di Giovanni Brusca. La stessa rappresaglia successe a Torino nel 1981, quando le Brigate rosse rapirono e giustiziarono Roberto Peci per “punire” il fratello Patrizio, capo colonna torinese, che aveva rivelato - in un interrogatorio da me condotto - tutti i segreti dell’organizzazione. Non sempre è vero che la storia non si ripete.

La sbroccata, per quanto stagionata - anzi stagionatissima - costa cara a Vittorio Sgarbi, professionista dello scontro televisivo, scrive “Libero Quotidiano”. E proprio per un attacco in tv avvenuto nel 1995, ora il critico d'arte è stato condannato. L'accusa: "danni morali" nei confronti dell'ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli. Il risarcimento: la bellezza di 100mila euro, da pagare in solido con Rti, la società del gruppo Mediaset che gestisce Canale 5. Già, perché a distanza di 18 anni, la condanna arriva per quanto affermato da Sgarbi nel corso di una puntata della sua rubrica Sgarbi Quotidiani, andata in onda per la precisione il 7 aprile 1995. In quell'occasione, il critico lesse una lettera di un anonimo che sosteneva di aver raccolto una confidenza di don Pino Puglisi, il prete ucciso dalla mafia nel 1993. Il sacerdote gli avrebbe detto di essere turbato per le pressioni di Caselli affinché si "pentisse", denunciando i fatti di mafia di cui era a conoscenza, violando anche il vincolo del segreto confessionale. "Caselli - avrebbe aggiunto don Puglisi - ha fatto di me consapevolmente un sicuro bersaglio". Caselli aveva poi negato le pressioni che gli erano state attribuite dall'anonimo, e aveva querelato Sgarbi per diffamazione a mezzo stampa ma il procedimento si è prescritto. Ma tramite l'avvocato Antonio Coppola, citò sgarbi in giudizio anche per danni morali, che gli sono stati riconosciuti ora, contestualmente all'assegno da 100mila euro.

Gian Carlo Caselli: “Io, giudice che ho fatto la Resistenza”. A Torino contro le Br. A Palermo contro la mafia. Per salvare la democrazia applicando la legge. Caselli fa il bilancio di 46 anni da magistrato, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Il corteo di tre auto blindate percorre le vie di Torino, a un incrocio tra i portici è costretto a fermarsi, ma la sosta dura troppo e la macchina di testa scatta in avanti, mentre un agente mostra la paletta dal finestrino. Il procuratore simbolo della lotta alla mafia e al terrorismo, Gian Carlo Caselli, è da molti anni, troppi anni, un magistrato ad altissimo rischio. Quella scorta non è la sua, ma fa parte del corteo che lo accompagna. In strada nessuno contesta la manovra delle auto blindate. L’unico a dispiacersene è proprio Caselli: «No, no, via quella paletta, noi non l’abbiamo mai usata!». Una reazione spontanea, da cittadino che rifiuta ogni privilegio, per quanto giustificato. Caselli, 74 anni, è fatto così. Dopo 46 anni di magistratura, da fine dicembre l’ex procuratore di Torino e Palermo è in pensione, con qualche mese di anticipo su consiglio di medici amici. Testimone, anzi protagonista della storia d’Italia, in questo 2014 gli resta solo la carica di coordinatore dell’osservatorio contro le agromafie di Eurispes e della Coldiretti, a cui tiene molto. Perché Cosa nostra era nata come braccio armato dei latifondisti siciliani, perché ancor oggi le cosche spadroneggiano sui mercati alimentari, certo, ma anche perché la buona terra, il cibo sano, la rinascita dell’agricoltura sono un valore concreto su cui fondare un futuro migliore. Alla sua Torino il cittadino Caselli è molto affezionato. Mentre attraversa il centro, indica una per una le bellezze della città, ne enumera musei e palazzi, descrive le piazze ricordandone gli eventi tragici e gloriosi. Ai cronisti che lo accompagnano è orgoglioso di mostrare «come è diventata bella Torino in questi anni». E il suo racconto di 46 anni di indagini, dalle Brigate rosse alla “resistenza” contro la mafia, prende corpo come le immagini di un film. C’era una volta il terrorismo. «Il periodo più buio della nostra storia l’abbiamo vissuto negli anni Settanta. Ed è qui a Torino che le cose sono cambiate. Per caso, per un discorso di connessione con un sequestro di persona, ci era toccato il primo processo ai capi storici delle Brigate Rosse. In città c’era un clima di paura, di terrore. Ricordo l’immagine dei brigatisti che rivendicano in aula l’omicidio di Francesco Coco, il magistrato ucciso a Genova perché si era rifiutato di piegarsi ai ricatti dei sequestratori del giudice Mario Sossi. Tra le prime vittime c’è anche l’avvocato Fulvio Croce, un gentiluomo che cercava di organizzare le difese d’ufficio. Lo sbandamento nella società civile è tale che non si riesce a formare una giuria: sulla scrivania del presidente della corte si accumula una catasta di certificati di malattia, nessun cittadino accetta il rischio di fare il giudice popolare. Il processo resta sospeso per un anno, in quel momento sembra che i terroristi abbiano vinto. La città antifascista, capitale delle lotte operaie, è piegata. Ma poi, nonostante gli omicidi, le gambizzazioni, le minacce quotidiane, il processo si celebra e si chiude nel rispetto delle regole, dei diritti, perfino dell’identità politica degli imputati. Sfidando le critiche, il giudice Guido Barbaro lascia ai brigatisti la libertà di contro-interrogare i testimoni d’accusa, perfino Sossi che ne era stato ostaggio. È allora che cade l’impalcatura ideologica dei terroristi: salta la logica per cui la risposta dello Stato deve essere fascista e reazionaria. Le Br nascevano dalla strage di piazza Fontana e come Feltrinelli avevano l’incubo del golpe. Con il processo di Torino la lotta armata perde ogni alibi». Caselli rivendica il ruolo storico della magistratura italiana, ma avverte che non può esistere una soluzione solo giudiziaria. «Nella prima fase del terrorismo di sinistra ci fu sottovalutazione, ambiguità, contiguità da parte di fette consistenti del mondo intellettuale, politico e sindacale. Si parlava di “compagni che sbagliano”, slogan come “né con lo Stato né con le Br” venivano accreditati da scrittori del valore di Sciascia, di cui però ho tutte le opere... Per la sinistra in Italia la vera svolta si avrà solo con l’omicidio di Guido Rossa. Ma qui a Torino le cose cominciano a cambiare già con la stagione delle assemblee. Il sindaco Novelli, con Sanlorenzo e Viglione, esponenti della Regione, organizza incontri pubblici sul terrorismo, riuscendo a coinvolgere partiti, sindacati, parrocchie, movimenti. Alle prime assemblee partecipano solo gli organizzatori, i poliziotti del nascente Siulp, noi “magistrati di guerra”... I cittadini impauriti mandano messaggi anonimi, che vengono letti dai relatori. Ma per la prima volta si discute, si usano gli strumenti della democrazia contro il terrorismo. A poco a poco la partecipazione cresce, si organizzano assemblee affollatissime nei reparti della Fiat, dove sono gli operai a spiegare che il terrorismo sembra colpire pochi ma è nemico di tutti e non risolve nulla, anzi ritarda e aggrava i problemi. I terroristi capiscono che quello è l’inizio del loro isolamento politico, infatti vengono a spiare queste assemblee, trascrivendole in dossier che ritroveremo nei loro covi. È allora che per la prima volta entrano in crisi. Per scaricare un mitra contro una persona disarmata, bisogna avere la convinzione di essere nel giusto. Solo così può darsi quel “coraggio della viltà” che occorre per fare i terroristi in una democrazia». Con le indagini sull’ala dura dei No Tav, oggi si torna a respirare aria viziata. “Caselli farai la fine di Moro”, gli è capitato di leggere sui muri di Torino e altre città, mentre qualche imbecille firmava su Internet attacchi anonimi al procuratore “fascista” o “mafioso”. Con la sua famosa chioma bianca, il passo ormai stanco, Caselli ha la saggezza di non cadere nella provocazione: «Nessuna equiparazione è possibile tra il terrorismo del passato e ciò che succede oggi. La protesta in Val Susa è composta in grandissima parte da cittadini perbene. Discutere i costi, l’impatto ambientale, l’utilità di un’opera pubblica è un diritto. Ma commettere reati è qualcosa di più. Certo, le Br erano un altro mondo, ma è innegabile che in valle c’è qualcuno che sta provando a ricreare un laboratorio dove si sperimentano azioni violente. Per il momento è limitato, ma sarebbe velleitario escludere che possa avere potenzialità espansiva. Quello che temo di più è la sottovalutazione, la strizzatina d’occhio. Certe forme di contiguità sono benzina sul fuoco». E quegli attacchi anonimi, “Caselli morirai”, le hanno fatto male? «Il problema è che non c’è stata dissociazione sostanziale da quelle scritte. Se un commando di venti persone, organizzate e travisate, assalta un cantiere e ricaccia gli operai in un cunicolo invaso dal fumo, come è successo pochi mesi fa, l’aggravante della finalità di terrorismo è sacrosanta. Si parla di diritti negati, però qui c’è una lesione del diritto fondamentale di lavorare in sicurezza. Ma visto che non c’è il morto, allora si dice che ogni sabotaggio è legittimo e la violenza non si processa». Un bell’attacco lo ha firmato lo scrittore Erri De Luca sulla rivista di Magistratura democratica. Caselli sorride e non vuole aggravare la polemica con la sua corrente, da cui si è dimesso: «Probabilmente i dirigenti di Md credevano che De Luca, pur con il suo passato nel servizio d’ordine di Lotta continua, avrebbe avuto il pudore di non scrivere di terrorismo, invece si sono ritrovati quell’articolo e l’hanno pubblicato per non sembrare censori... Dentro Md abbiamo sempre avuto dibattiti infuocati, ma leali. La spaccatura più grave, per quanto mi riguarda, resta la decisione di non sostenere Falcone al Csm come successore di Caponnetto. Comunque stavo per dimettermi già negli anni del terrorismo, quando mi fu rinfacciato un arresto, da me ordinato d’accordo con il procuratore Caccia, di un intellettuale di sinistra. Già allora ero sospetto di eresia un po’ per tutti: per alcuni ero un fascista, per altri un giudice ragazzino, oltretutto di Md, che indagava sulle Br...». Ma quanto è forte oggi il rischio che torni il terrorismo? Caselli unisce i palmi delle mani e porta gli indici sotto il mento: «La premessa, obbligatoria, è che il magistrato è solo un notaio del passato: possiamo registrare quel che è già successo, non abbiamo strumenti per azzardare previsioni. Detto questo, posso fare due osservazioni. La prima è che i gruppi che hanno praticato la violenza in quegli anni hanno approfittato di una situazione di crisi e disagio sociale che è molto simile all’attuale. Ma le Brigate rosse si sono strutturate con un’organizzazione pesante, monolitica, mentre oggi sembra mancare un centro di riferimento. Il mondo anarchico, per definizione, rifiuta forme di organizzazione troppo centralizzata. La speranza è che il nostro Paese sia ormai vaccinato a considerare il terrorismo come un virus da isolare. Ma la situazione è fluida e non mancano comportamenti preoccupanti». Con la sua cultura da magistrato, Caselli è lontanissimo da certe ricostruzioni complottistiche degli anni di piombo. «Sono abituato a ragionare di fatti che vanno provati al di là di ogni ragionevole dubbio». Ma oggi non le sembra sospetta la decisione politica di smantellare la storica squadra investigativa del generale Dalla Chiesa? «Col senno di poi ci siamo accorti che in effetti nel 1976, con le indagini dei corpi speciali creati da Dalla Chiesa per i carabinieri e da Santillo per la polizia, le Brigate rosse erano state praticamente azzerate. Lo smantellamento fu un errore sciagurato. Il recupero è iniziato dopo l’omicidio Moro, a partire dal 1979. Ma contro i corpi speciali, che potevano indagare in tutta Italia scavalcando i comandi territoriali, c’erano invidie e ostilità anche all’interno delle forze di polizia». Quindi nella storia delle Br non ci sono misteri? «Beh, qualcosa di poco chiaro c’è. Sicuramente c’è il memoriale di Moro: perché non renderlo pubblico, se è vero che il sequestro mirava proprio a disvelare i segreti inconfessabili del potere? Che senso aveva tenere nascosto un documento in cui il leader della Dc rivelava, senza troppi giri di parole, l’esistenza di Gladio e altri segreti? Dai capi brigatisti, a cominciare da Moretti, non è mai arrivata una risposta credibile. Detto questo, del terrorismo di sinistra conosciamo quasi tutto. È dello stragismo di destra che sappiamo ancora poco o nulla». Nella biografia di Caselli ci sono continui rimandi a tre uomini eccezionali, che sono diventati eroi per tutti solo quando sono morti: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Con il generale abbiamo lavorato per anni gomito a gomito, all’inizio non fu facile ma ne nacque un rapporto straordinario. Le Br erano molto compartimentate, a un livello alto di conoscenze poteva portarci solo un dirigente come Patrizio Peci, capo della colonna di Torino». I terroristi reagirono come i mafiosi, ammazzandogli il fratello. «Prima Linea era organizzata diversamente, anche un “soldato” semplice come Sandalo poteva conoscere tutto, persino il ruolo del figlio di Donat Cattin, e chiamare in causa Cossiga per la sua fuga in Francia. Voglio solo ricordare che Peci e gli altri ex terroristi iniziarono a collaborare quando ancora non esisteva una legge sui pentiti: segno che erano già in crisi». Dalla Chiesa nel 1982 morì assassinato proprio a Palermo. Lo Stato lo aveva lasciato solo a sfidare la mafia. Come è successo a Falcone e Borsellino. «Tutto cominciò al Csm, quando dal 1986 al 1990 ci fu un continuo caso Palermo. Falcone fu umiliato ed il pool smantellato perché non si voleva accettare il suo metodo vincente. Il momento più basso fu la calunnia dopo l’attentato all’Addaura... Ma oggi il metodo Falcone, che significa specializzazione e centralizzazione delle indagini, è diventato legge, come le norme sui pentiti, il 41 bis o la lotta al riciclaggio. Ora le convenzioni internazionali sono modellate sul modello italiano: gli stranieri sanno che il nostro Paese ha un grandissimo problema di mafie, ma hanno anche una grandissima ammirazione per le nostre tecniche d’indagine, per la capacità italiana di contrapporre alla mafia un’antimafia sociale, l’antimafia dei diritti». Caselli diventa procuratore di Palermo nel gennaio 1993 e guida per sette anni l’ufficio giudiziario più esposto d’Italia. Per i poliziotti dei Nocs che lo scortavano, era “penna bianca”. In città echeggiavano ancora le amare parole del giudice Caponnetto («Tutto è finito») dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio. «Sembrava che la democrazia italiana stesse soccombendo sotto i colpi dello stragismo corleonese», ricorda Caselli. «La nostra reazione è stata forte: in nome del popolo italiano ci siamo occupati prima della mafia che sparava, della frangia militare di Cosa nostra, e poi delle complicità degli imputati eccellenti». Politici e colletti bianchi vengono per la prima volta rinviati a giudizio, dimostrando che «c’era materiale sufficiente per affrontare il processo». Quando la Procura di Caselli tocca gli intoccabili, però, è l’antimafia a finire sotto attacco. «Prima di Palermo nessuna procura era mai riuscita a dimostrare, con prove sicure che hanno retto fino in Cassazione, la responsabilità e la collusione con il potere criminale mafioso di due personaggi centralissimi nella nostra storia come Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri. Nel caso di Andreotti, c’è una sentenza di prescrizione del reato commesso, che perciò lo giudica colpevole fino al 1980. Per Dell’Utri, oltre alla recente condanna in appello, c’è un verdetto della Cassazione che lo dichiara colluso con la mafia almeno fino al 1978. E Dell’Utri è stato definito dai giudici l’intermediario di Silvio Berlusconi». Qui il tono di Caselli si fa deciso: «Andreotti e Dell’Utri hanno avuto rapporti cordiali, proficui, non sporadici con la criminalità mafiosa. Questa realtà torbida, sconvolgente, è la base per qualunque riflessione riguardante i rapporti fra mafia, politica e imprenditoria, fino alla cosiddetta trattativa. Ma di tutto questo non si parla. O lo si fa per negare e stravolgere la verità processuale. La nostra democrazia sarà sempre debole se non faremo chiarezza su quegli anni». «Mi chiedo con quale faccia si possa parlare di fallimento della nostra stagione palermitana o di processi celebrati solo per mettere alla gogna qualche politico. Si è arrivati al punto di varare una legge contra personam per cancellare il mio diritto di concorrere alla carica di procuratore nazionale antimafia, sostenendo pubblicamente che bisognava farmela pagare per il processo Andreotti. Una legge poi dichiarata incostituzionale». Eppure la stagione di Caselli era iniziata con un successo storico, l’arresto di Totò Riina. «Si, è stato un bel segnale. Incontrai Riina, nel giorno del suo arresto, in una caserma dei carabinieri: era in piedi sotto la foto del generale Dalla Chiesa. Gli feci qualche domanda, ma disse che non voleva parlarmi. Poi c’è stata la brutta pagina della mancata sorveglianza da parte del Ros e della mancata perquisizione del suo covo. Un fatto grave, una vicenda che purtroppo è andata stortissima». Nonostante troppi veleni, Caselli resta orgoglioso dell’esperienza di Palermo: «Abbiamo fatto la resistenza contro lo strapotere mafioso. Sì, credo che a Palermo in quegli anni abbiamo contribuito a salvare la democrazia italiana. Per questo lo rifarei senza pensarci un attimo». E cosa pensa dei magistrati che scelgono la strada della politica, come Antonio Ingroia che le era stato accanto nelle indagini più delicate? «Sono tanti i magistrati prestati alla politica. Di solito si sale sul carro di questo o quel partito. Ingroia invece ne ha fondato uno suo, dimostrando anche così la sua indipendenza e coerenza. Poi non gli è andata bene, e mi dispiace». E se proponessero a lei di candidarsi? «La politica attiva non è il mio mestiere». Vent’anni fa molti giovani sognavano un futuro da magistrato in città simbolo come Palermo o Milano. Oggi pochi chiedono di lavorare in queste procure, per non parlare di Napoli o Reggio Calabria. E in molti palazzi di giustizia si scontrano fazioni e cordate. Anche la magistratura è un potere in crisi? «Parlo di ciò che conosco, e su procure diverse da Torino, dove le cose van bene, non so nulla. Certo è che in questi vent’anni la magistratura ha subito un vero e proprio assalto. La politica ha scaricato sui giudici una massa di problemi che non ha saputo o voluto risolvere: terrorismo, mafia, corruzione, e poi ambiente, salute, opere pubbliche... Prima si affida alla magistratura una delega eccessiva, con una giustizia che non si vuole far funzionare; poi si dice che sono i magistrati a voler straripare e si arriva a definirli pazzi, terroristi, golpisti, eversori... In questa situazione, mi stupisco che la magistratura sia ancora, nonostante tutto, così popolare».  «Nel complesso la macchina della giustizia tiene, spero, ma per molti magistrati è forte la tentazione di scegliere la soluzione meno rischiosa: una gestione formale e burocratica della giustizia. È chiaro che la vera posta in gioco è il principio di indipendenza, che è la premessa dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Una magistratura indipendente continua a dare fastidio. E non so dire come andrà a finire». Caselli esce dal suo ufficio di procuratore, forse per l’ultima volta. Fuori dalla porta c’è una fila di lavoratori della giustizia e comuni cittadini che vogliono salutarlo. “Penna bianca” stringe la mano a tutti. L’ultima è una signora torinese che gli dice solo una parola: «Grazie». 

Ma non è tutto oro quello che luccica. Sulla rete c’è un lettera inviata da Pietro Melis a Giancarlo Caselli. La pubblichiamo per amore di onestà come contraltare alle ossequiose interviste fatte all’Ex Procuratore generale di Torino. Al Procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli, commesso viaggiator per tutta l'Italia per pubblicizzare un suo libro da autopanegirico. «Ho notato che lei ha fatto il giro d'Italia per presentare in varie città il suo libro Le due guerre. Un magistrato fuori legge dove lei fa il suo autopanegirico. In questo libro lei difende anche il suo operato riguardo l'interrogatorio del mio amico Luigi Lombardini, che si suicidò nel 1999 nella sua stanza del palazzo di "giustizia" per sottrarsi ad una persecuzione giudiziaria da lei promossa. Avrei voluto che vi fosse un incontro pubblico tra lei e Grauso per spiegare come mai Grauso sia stato assolto per i fatti addebitatigli nel contesto dell'episodio del sequestro di Silvia Melis. Se non vi fu estorsione nei confronti del padre Tito e se risulta vera la versione di Grauso secondo cui fu lui a pagare per la liberazione di Silvia Melis (non escluso un versamento non riconosciuto apertamente anche da parte dello Stato), come mai Lombardini poteva essere accusato dello stesso reato per cui è stato assolto Grauso? E' da escludere che Lombardini, ben conoscendo la sua dirittura morale, abbia sconfinato in un reato. Al massimo si è impicciato in una questione che non poteva riguardarlo come capo della Pretura, ufficio a cui era stato confinato dall'invidia rancorosa dei colleghi di Cagliari. E vi è una questione importante da chiarire. Grauso in una intervista (leggibile su Internet) ha dichiarato dopo l'assoluzione che il gip di Palermo non aveva dato a lei alcuna autorizzazione all'interrogatorio di Lombardini e che lei pertanto avrebbe agito oltre i limiti del mandato. Se la cosa fosse vera lei avrebbe commesso una grave irregolarità (se non un reato attribuendosi un potere che non aveva). Nella sua vita lei ha predicato bene ma ha razzolato male. Un magistrato serio non fa il commesso viaggiatore girando per l'Italia al fine di pubblicizzare il proprio libro. A lei piace il palcoscenico, come ormai piace a molti magistrati penali, che, non sopportando di vivere nell'oscurità, approfittano della loro veste per esibirsi in pubblico anche come personaggi televisivi. Lei si vanta di aprire i suoi discorsi agli studenti dicendo: "non fidatevi di ciò che dico". Dunque non debbo fidarmi nemmeno di ciò che lei scrive a sua difesa. Nemmeno della sua versione dei fatti che portarono Lombardini al suicidio, di cui le dovrebbe rimordere la coscienza. Ai magistrati deve essere tolta la boria che essi hanno nel sentirsi padroni, e non umili servitori, della giustizia. Io ho smesso di votare dal 1994 perché nella baraonda politica che sta perdurando non mi sento rappresentato da alcun partito, e tanto meno da Berlusconi, che in tanti anni di governo non ha rivoluzionato (non basta riformarlo) l'ordinamento giudiziario. Non aggiungo altro perché ciò che dovrei aggiungere l'ho già scritto nel mio ultimo libro, come risulta da quanto ho scritto nel sito sotto citato. Legga bene perché si renda conto che anche in campo civile si possono commettere degli ORRORI giudiziari che gridano vendetta. Il mio esposto del 2009 al ministro Alfano e al P.G. presso la Cassazione perché venisse aperta un'inchiesta sulla mia allucinante vicenda civile ha avuto una risposta del CSM ma non se ne farà nulla. Non so nemmeno se il P.G. presso la Cassazione abbia avuto voglia di occuparsi della mia vicenda e se il CSM abbia trasmesso gli atti alla sezione disciplinare. Vi sono dei giudici che dovrebbero pagarla cara per certe sentenze aberranti. E' inutile che lei si proponga in pubblico come maestro se non riconoscerà che un giudice deve rispondere personalmente dei gravi errori che commette sottraendosi al principio costituzionale che dice che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge. Non è vero. Vi è una categoria di arroganti, a cui lei appartiene, che si sentono al di sopra della legge perché sono resi esenti da qualsiasi responsabilità. I pubblici ministeri in teoria non dovrebbero avere alcuna responsabilità perché indagano ma non giudicano. In pratica non è così perché essi sono vicini di stanza dei giudici, che spesso firmano senza nemmeno darsi la pena di studiare bene il fascicolo presentato dai pubblici ministeri. Questi dovrebbero vivere in diversi palazzi e non avere alcuna confidenza con i giudici. Dovrebbero darsi del lei. In pratica, invece, sono i pubblici ministeri che comandano. Lei certamente sarebbe uno dei più fieri oppositori della costituzione di un'Alta Corte di giustizia non formata da giudici togati (ma da una giuria popolare di esperti, come negli Stati Uniti) a cui un cittadino possa rivolgersi direttamente per porre sotto processo un giudice quando faccia sentenze palesemente aberranti, dettate da "ignoranza o negligenza inescusabile" (art. 1 Provvedimenti disciplinari) senza più passare attraverso le pastoie di altri magistrati. Se non è d'accordo sulla responsabilità civile dei giudici (senza che sia lo Stato, con le tasse pagate dai cittadini, a pagare in loro vece il risarcimento dei danni alle vittime della "giustizia") lei è un venditore di fumo, un imbroglione che predica solo da cattivo maestro. (Tra l'altro domandandomi come mai non sia andato oltre una casetta editrice come Melampo). Ho letto interamente su Internet la sua storia. Non ha sopportato di essere stato escluso dalla direzione antimafia con una legge ad hoc contro di lei.»

Lombardini, il giallo del documento che spinse il magistrato al suicidio. La data dell’atto di perquisizione è precedente all’interrogatorio del pm sardo, scrive Lino Jannuzzi – su “Il Giornale”. La sera dell’11 agosto del 1998, quando il procuratore di Cagliari Luigi Lombardini si suicidò, il procuratore generale Francesco Pintus disse: «Sono avvilito, disgustato. Sono indignato, senza fiato. Ora bisogna che la verità venga fuori. Bisogna che si sappia che Lombardini è stato oggetto di un’aggressione senza precedenti. Il dottor Lombardini era un buon magistrato e in cambio è stato massacrato. Bisogna che si sappia che da anni la procura di Palermo ha aperto la caccia nei nostri uffici giudiziari, che questi sono i metodi, sono venuti in cinque. Lo hanno sentito per sei ore, capite? Sei ore. Bisogna finirla, finirla...». Per queste parole Francesco Pintus fu querelato dall’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e dai suoi sostituti. Dopo sette anni, quattro querele, quattro processi di primo grado e tre processi d’appello, tutti vinti, ora Francesco Pintus, e il Giornale che aveva riportato il suo sfogo, hanno avuto definitivamente ragione anche dalla Cassazione, che ha scritto: «Pintus intendeva tutelare la figura morale di Lombardini, che essendo deceduto non si poteva difendere». Se ne dovrebbe dedurre nell’ordine: che Luigi Lombardini era un buon magistrato e ha fatto bene Pintus ha tutelarne la figura morale; che Lombardini è stato accusato e massacrato ingiustamente e con un’aggressione senza precedenti dalla procura di Palermo, che da anni dava la caccia agli uffici giudiziari di Cagliari; che questi erano i metodi dei magistrati di Palermo e che con questi metodi bisognava finirla... E ci si deve domandare: a Palermo è veramente finita con questi metodi? E soprattutto: dopo sette anni e le assoluzioni di Pintus dalla querele di Caselli e compagni è venuta fuori la verità, tutta la verità? Come e perché Luigi Lombardini si è ucciso? Sotto la montagna di carte che si sono trascinate e sono cresciute da processo a processo e sono arrivate fino alla Cassazione c’è un foglio imbrattato di sangue. È l’ultima pagina di un decreto di perquisizione: Luigi Lombardini reggeva questo decreto nella mano sinistra mentre con la destra si è infilato in bocca il revolver. Il fiotto di sangue è schizzato sull’ultima pagina e ha coperto i timbri e la firma di Caselli. Ma ha lasciato intatta e ben visibile la data apposta sotto il documento: Palermo, 5 agosto 1998. È dietro questa data che si cela l’ultimo mistero del suicidio di Lombardini. Lombardini era stato accusato di essersi intromesso abusivamente e per tornaconto personale nelle trattative per il sequestro di Silvia Melis, la ragazza rapita nel febbraio del ‘97 e liberata nove mesi dopo. Caselli e quattro dei suoi sostituti, competenti per le indagini, erano volati da Palermo a Cagliari quell’11 agosto del '98, avevano occupato militarmente con le loro scorte il palazzo di Giustizia e avevano proceduto a interrogare per sei ore Lombardini, tutti e cinque gli inquirenti, alternandosi nelle domande, e uscendo e entrando dalla stanza, come si vede in quegli uffici di polizia dei film americani sui gangster. Dagli interrogatori non era venuto fuori niente, come risulta dalle bobine delle registrazioni e niente di serio e di concreto, del resto, il procuratore e i pm avevano avuto da contestare a Lombardini, che risponde a tutte le domande, esasperatamente e inutilmente ripetitive, con chiarezza e precisione e non appare mai in difficoltà. A questo punto Lombardini è invitato a uscire e ad attendere fuori, e tutto sembra finito (e infatti l’avvocato di Lombardini lascia anche il palazzo di Giustizia), ma Caselli e i suoi sostituti si riuniscono per un breve conciliabolo (pomposamente definito «camera di consiglio») e quando ne escono, consegnano a Lombardini il decreto di perquisizione. Lombardini lo legge, ha il presentimento che dopo la perquisizione lo arresteranno, si chiude nel suo ufficio e si spara. Il punto è questo: a giudicare dalla data del documento, «Palermo 5 agosto 1998», che il sangue di Lombardini schizzato sul foglio non è riuscito a coprire e a cancellare e che continua a galleggiare su quel sangue, il decreto di perquisizione sarebbe stato emesso a Palermo cinque giorni prima dell'interrogatorio e Caselli e i suoi sostituti sarebbero volati a Cagliari con il decreto già in tasca. Ma ciò contrastava con il fatto che il decreto del gip di Palermo che autorizzava Caselli e i suoi sostituti alla spedizione di Cagliari mentre li autorizzava a procedere all’interrogatorio dell’indagato, dichiarava «inammissibile» la loro richiesta di ottenere l’autorizzazione al «compimento di altri atti che si rendessero indispensabili per il proseguimento delle indagini (come la perquisizione e magari l’arresto). Alle contestazioni che gli sono state fatte nel corso dei processi per le querele per diffamazione, i magistrati di Palermo hanno risposto sostenendo che si sarebbe trattato di un equivoco, che il gip li aveva autorizzati a decidere degli atti ulteriori, la perquisizione e eventualmente l’arresto dopo l’interrogatorio, e che sul decreto di perquisizione consegnato a Lombardini era rimasta la data di «Palermo 5 agosto» soltanto per errore e per la confusione del momento, e perché non fecero in tempo a modificarla con quella dell’11 agosto. In ogni caso, la sequenza è impressionante e dimostra, ancora meglio, che tutto era stato deciso. L’autorizzazione del gip di Palermo all’interrogatorio risulta depositata alle ore 13 e 30 del 5 agosto; l’avviso per l’interrogatorio risulta spedito a Lombardini il 4 agosto, prima ancora del deposito dell’autorizzazione del gip; il decreto di perquisizione con la data (eventualmente) sbagliata viene mostrato a Lombardini dopo l’interrogatorio, e quando il suo avvocato, confortato dall’esito dello stesso interrogatorio e ignaro della (eventuale) ulteriore autorizzazione del gip di Palermo a procedere oltre, lascia il palazzo di Giustizia; Lombardini legge il decreto con la data di «Palermo 5 agosto», e capisce che hanno già deciso tutto, la perquisizione e l'arresto, a Palermo, e prima ancora dell’interrogatorio e a prescindere dall’esito dell’interrogatorio. È proprio quando vede la data che ci vomita su il suo sangue. «Sono pervaso da emozione, turbamento, dolore - scriverà Francesco Pintus nel suo diario - i cinque procuratori venuti da Palermo sono tutti lì, e si apprestano a mettere in atto, presente il cadavere, quella perquisizione al cui annuncio Lombardini era corso avanti, si era chiuso nel suo ufficio e si era sparato. Mi allontano e mi segue il dottor Caselli, mi mette una mano sulla spalla e mi dice: mi dispiace».

La versione di Giancarlo Caselli scritta da: Pasquale Motta. Nel 2005, Giancarlo Caselli ritorna sulla vicenda del Giudice Lombardini dedicandogli un passo del suo libro Giudici sotto attacco edito dalla Melampo Ecco come racconta la vicenda del Giudice Lombardini: “Un caso esemplare è quello del suicidio di Luigi Lombardini, capo della Procura presso la Pretura di Cagliari, l’11 agosto 1998. I fatti sono questi. Nel corso delle indagini sul sequestro di Silvia Melis, la procura di Cagliari si imbatte in fatti penalmente rilevanti a carico del dottor Lombardini. Ci trasmette subito gli atti, perchè per legge le indagini che coinvolgono magistrati di Cagliari spettano alla procura di Palermo. Assegno il fascicolo al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò, che coordina i sostituti Antonio Ingroia, Giovanni Di leo e Lia Sava. Gli elementi emersi a carico di Lombardini sono seri. Durante il sequestro, Tito Melis, il padre della ragazza, viene invitato a recarsi a un appuntamento segreto, di notte, nei pressi di Elmas, l’aeroporto di Cagliari. Gli viene chiesto addirittura di viaggiare nel baule di un’auto (ma lui non riesce a entrarci). Al luogo convenuto si presenta un uomo in parte travisato. Si accerterà in modo inoppugnabile che si tratta proprio di Luigi Lombardini. L’uomo usa modi bruschi, prospetta gravi pericoli per Silvia e fa alcune richieste: il versamento di un secondo miliardo di lire (uno era già stato versato) all’avvocato Antonio Piras; una lettera “liberatoria” per lo stesso Piras dove Melis avrebbe dovuto affermare –falsamente – che la Procura di Cagliari aveva autorizzato le trattative e il pagamento. Le ipotesi di reato a carico di Lombardini sono quindi tentata estorsione (per il nuovo versamento, poi non effettuato), estorsione (richiesta della lettera, effettivamente redatta e poi acquisita agli atti del processo), falso e calunnia (per il contenuto della lettera). Quando i colleghi partono per Cagliari per interrogare Lombardini, penso che sia opportuno unirmi a loro. Mi hanno insegnato che i rapporti fra magistrati, nei casi delicati, devono intercorrere tra “pari grado”. Lui è un capo ufficio, come me. Essere presente è, da parte mia, un atto dovuto di cortesia istituzionale, anche perchè avevo avuto modo di conoscerlo in passato. D’accordo con i colleghi di Cagliari, ci preoccupiamo di incontrarlo nel palazzo di giustizia, ma lontano da giornalisti e telecamere. L’interrogatorio di Lombardini si svolge in un clima di normalità assoluta, con le “rituali” pause per un caffè e con una interruzione perché Lombardini possa fare il punto della situazione con il suo difensore. Ce ne dà atto a verbale proprio il suo avvocato, Luigi Concas. Per fortuna (viste le disgustose strumentalizzazioni che si scateneranno) di tutto ciò resta traccia documentale, perchè l’intero interrogatorio viene fonoregistrato. Alla fine decidiamo di chiedere a Lombardini di esibire alcuni documenti. In caso contrario avremmo dovuto procedere a una perquisizione del suo ufficio. La tragedia si compie a questo punto. Lombardini cammina verso il suo ufficio con Ingroia e gli altri (tra cui un suo legale). A un certo punto fa uno scatto in avanti, raggiunge la sua stanza, si chiude dentro e si uccide con un colpo di pistola prima che chiunque possa intervenire. La perquisizione permette di trovare materiale rilevante che porterà all’incriminazione di un’altra persona. Nonostante il Consiglio superiore della Magistratura e il ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, riconoscano subito l’assoluta correttezza del nostro operato, anche in base all’ascolto della registrazione integrale dell’interrogatorio, si scatena immediatamente la canea.”

CHI HA PAURA DEI GIUDICI, scrive Delia Parrinello e Luciano Scalettari su “Famiglia Cristiana”. La ricostruzione dell’interrogatorio del giudice Luigi Lombardini, culminato nel suo tragico gesto. L’indagine del pool di Palermo permette di gettare un primo sguardo sui retroscena, le ombre e i sospetti in cui si muovono i protagonisti del più squallido tra i crimini, tra minacce, intercettazioni, fondi neri e ambigue mediazioni. Arrivano in cinque, seguiti da un nugolo di poliziotti. Sono magistrati in missione da Palermo a Cagliari per interrogare un altro magistrato che alla fine di quell’interrogatorio si sparerà un colpo di pistola. Giancarlo Caselli, il procuratore che guida la missione, non sa che quel suicidio diventerà «l’accusa più ingiusta» della carriera. Antonio Ingroia, uno dei "ragazzi" di Paolo Borsellino e pm di Andreotti, non sa che sta per arrivare «il momento più drammatico della carriera». Per Lia Sava e Giovanni Di Leo, giovani sostituti, sarà il battesimo con i veleni di Palermo. Il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò arriva a Cagliari per il dovere d’ufficio di due interrogatori contestuali: quello del procuratore della Repubblica presso la pretura, Luigi Lombardini, indagato per avere, «sotto mentite spoglie di avvocato civilista, trattato e minacciato» fra i rapitori di Silvia Melis e suo padre Tito. E l’interrogatorio dell’avvocato della famiglia Melis, Antonio Garau. Cosa non sa Luigi Lombardini? Tutto ciò che i magistrati di Palermo gli chiederanno di spiegare in quattro ore e mezzo di interrogatorio registrato: il pool di Caselli arriva con relazioni di servizio, intercettazioni telefoniche, diari e dichiarazioni dello stesso Melis che indica in Lombardini l’avvocato civilista intermediario fra la famiglia e i banditi. Procura di Cagliari, martedì 11 agosto, ore 10. Entrano i magistrati di Palermo e li accoglie il procuratore Carlo Piana. Lombardini è pronto ma c’è un imprevisto: il suo difensore Luigi Concas difende anche Garau, «c’è un problema di incompatibilità», dice Caselli a Concas. L’avvocato obietta, chiede una sospensione, si apparta con Lombardini, poi torna e comunica: «Rinuncio a difendere Garau». L’avvocato dei Melis viene sentito in un’altra stanza dai sostituti Sava e Di Leo (si avvarrà della facoltà di non rispondere). Caselli, Aliquò e Ingroia chiamano Lombardini nell’ufficio del sostituto Mura. Rispondeva di no a tutte le domande. Entra «impenetrabile e distaccato», si siede davanti ad Aliquò e Ingroia che stanno alla scrivania. Caselli cammina avanti e indietro. Parla Aliquò, legge le dichiarazioni di Melis che racconta di aver incontrato Lombardini nei pressi dell’aeroporto, il suo invito a pagare i rapitori, il suo volto coperto, il tono minaccioso. Lombardini nega. «Ma c’è la testimonianza dell’avvocato Antonio Piras: anche lui, il custode del miliardo, giura di averla incontrata la sera dell’8 ottobre». «Non conosco Piras». «Dottor Lombardini, c’è la relazione di servizio del maresciallo dei carabinieri Francesco Testoni che conferma le dichiarazioni di Melis: vi siete incontrati all’aeroporto». «Il maresciallo Testoni è una persona inaffidabile». I giudici tornano alla carica, leggono dall’agenda dell’avvocato Garau: «C’è scritto che un sedicente avvocato civilista si è incontrato con Melis all’aeroporto, era lei? C’era anche una ragazza?». «Tito Melis non dice la verità e avvocati civilisti a Cagliari ce ne sono tanti. Non mi sono mai incontrato con Melis e quindi non c’era nessuna ragazza». E l’agenda di Garau? «Non l’ho scritta io, e dunque chiedete a Garau chi era quella persona». Ma come giustifica tutto questo, che spiegazione ci offre, come si difende? «Qualcosa è stato costruito contro di me per i miei contrasti interni al mondo giudiziario sardo». Un complotto ordito dai colleghi della Procura di Cagliari. Lombardini non perde la calma, resta freddo e distaccato, sempre di poche parole. L’80 per cento di quanto detto in 4 ore e mezzo di interrogatorio è stato pronunciato dai magistrati di Palermo. Rivolgendosi al più giovane di loro, Lombardini è paterno, «so bene che è la prassi, faccia pure». Gli chiedono se vuole pranzare. «Preferisco andare al bar con l’avvocato Concas». L’interrogatorio riprende alle 15, va avanti ancora per un’ora, alle 16 parla Caselli: «Dottor Lombardini, le abbiamo esposto tutto ciò che è in nostro possesso e che la riguarda, se ha qualcosa da aggiungere la dica». Silenzio per qualche secondo, Lombardini sembra incerto, chiede un’altra sospensione per parlare con l’avvocato Concas. Restano nella stessa stanza, si appartano in un angolo, poi Lombardini torna al suo posto: «Non ho altro da dire, ma mi riservo di presentare una memoria». «Dottor Lombardini, lei usa agende, o prende appunti al computer?». «No, non uso agende e non uso il computer per questo tipo di argomenti». «Ma qualunque magistrato ha un’agenda, anche per tenere gli appuntamenti». «Non io». L’interrogatorio si conclude e Ingroia stacca il registratore, sono le 16.40. Una lunga verbalizzazione, Caselli al computer. Lombardini chiede di andare in bagno e si allontana per dieci minuti. Non c’è anima viva nei corridoi, il silenzio è totale, fuori cronisti e fotografi. C’è il rito della lettura e firma del verbale, poi i magistrati di Palermo, che hanno già deciso di perquisire lo studio di Lombardini per ottenere «non spontaneamente» agende e appunti, chiedono al procuratore e al suo avvocato: «Potete attendere ancora un quarto d’ora?». Luigi Lombardini aspetta in corridoio e si abbandona su una poltrona, la testa sullo schienale. In questa posizione un teleobiettivo lo fotografa per l’ultima volta. Lo richiamano, «si può accomodare», e gli consegnano il provvedimento di perquisizione. Non gli tremano le mani, fino all’ultimo è impassibile, dice: «D’accordo» e cerca l’avvocato. Concas non c’è. Chiede di telefonare, cerca qualcuno allo studio dell’avvocato. «Stanno arrivando», dice. Il dramma del procuratore si decide qui, in questi ultimi minuti, pensieri tumultuosi e silenzio, facciata gelida e disperazione. Un gioco delle parti senza parole e senza capire. Quando arriva il figlio dell’avvocato Concas, c’è l’ultima richiesta a Lombardini: «Ci accompagni nel suo studio», e l’ultima sua parola: «D’accordo». Apre l’ufficio, «con un balzo va verso una seconda porta, si chiude dentro e si spara». «Interrogatorio regolare», dichiara il ministro della Giustizia Flick. E manda gli ispettori a Cagliari, «all’interno della Procura dove qualcosa», diceva Lombardini, «è stato costruito contro di me».

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. DON CIOTTI. IL FUSTIGATORE ANTIMAFIA.

Qui vi si presenta Don Ciotti, che agli occhi della gente, mediaticamente strabica, è il simbolo dell’antimafia militante e partigiana. Per tutti non è Leonardo Sciascia l’icona dell’antimafia, ma è un prete venuto dal nord. Si presenta con una sua intervista resa a Fabrizio Ravelli pubblicata su “La Repubblica”. Per fare corretta informazione bisogna che all’auto biografia si presenti il contraltare della biografia non autorizzata, ossia quello che su di lui dice chi ne conosce le più nascoste virtù o i più sordidi vizi. E’ importante conoscere colui il quale, di fatto, con la sua rete di associazioni e comitati che fanno capo a “Libera” e tutti vicini alla CGIL, ha il monopolio delle assegnazioni dei beni confiscati ai cosiddetti mafiosi, quindi un bene comune da condividere anche con chi non è di sinistra e non santifica i magistrati. Tra i tanti non appartenenti all’antimafia di regime troviamo il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’antimafia truccata ha scritto un libro “Mafiopoli. La mafia vien dall’alto. L’Italia delle mafie che non ti aspetti”. Libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Va giù pesante Antonio Margheriti “Mastino” con un suo articolo pubblicato su “Papalepapale”. Si prendono le distanze dal tono dissacrante e satirico, a volte sprezzante, ma non diffamatorio, ma si condivide il contenuto di fondo, per questo, per diritto di critica e di cronaca, è indubbio che non si può tacere quello che altri non dicono, specialmente se lo scritto è il contraltare ad una intervista che racconta una verità personale.

Don Ciotti, prete di lotta e di governo: "Ho cominciato sui treni dei disperati". Incontro di Frabrizio Ravelli con il fondatore di Libera: "Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada. Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l'avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po' meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.

Montanaro veneto, no?

«Sì sono nato a Pieve di Cadore nel '45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza».

E te ne sei andato a cinque anni.

«Mi ricordo l'impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell'impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere, il capomastro».

A Torino da immigrato che viveva in una baracca.

«Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all'anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all'esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po' coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po' disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi».

E com'eri tu, bambino della baracca?

«L'altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c'erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo».

Finisce che il diverso si ribella.

«Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l'è presa con loro, ma se l'è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c'entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un'espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel'ho tirato. L'ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l'ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 - io ero già espulso - e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo».

Montanaro, e ribelle.

«Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E' stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L'altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l'incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell'età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l'aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano - allora non c'era l'eroina - prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita».

E poi?

«Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l'ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada».

Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.

«Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c'erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell'omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l'aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l'extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere».

Dentro le carceri?

«Sì, a Roma al ministero c'era un direttore dell'Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l'intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell'atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli».

Un momento indietro. Quando già c'era il Gruppo Abele sei andato in seminario.

«Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l'ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l'esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c'era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del '75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti».

Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.

«Sì, io l'ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c'è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell'ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev'essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un'aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l'accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta».

A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.

«Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie».

E poi nella tua vita entra la mafia.

«E' stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all'Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all'accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos'è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev'essere l'eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest'estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell'acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s'è mai fatto un passo indietro, s'è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia».

Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?

«Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c'è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s'è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell'università della strada per la formazione degli operatori. Qui c'è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l'accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c'è Libera».

Un'ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?

«Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l'attenzione agli altri, l'accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C'è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».

Posizione antitetica ed aspramente critica sul personaggio pubblico è quella di Antonio Margheriti “Mastino” che, nel suo articolo,  definisce Don Ciotti come il prete da marciapiede: don Ciotti. Dolce&(volta)Gabbana e antimafia delle chiacchiere. Sottotitolo: riflessioni cattoliche a partire dall’attentato di Brindisi.

L’articolo è diviso in Paragrafi:

Siamo tutti “addolorati” col culo degli altri;

Il figlioccio di Michele Pellegrino, il cardinale rosso;

Ladri benefattori e derubati ladri. Una storiella su don Ciotti;

Il Dolce&(volta)Gabbana della Chiesa: Ciotti, il cappellaio… ops… cappellano delle mode;

Il radical-ciottismo porta infine laddove dall’inizio era stabilito dovesse portare: alla religione civile;

Diffidate dei preti pieni di patacche;

La mosca sarcofaga;

Il silenzio se non ti “uccide”, ti evita molte figure di merda;

Ciotti grida “è mafia!”. Ma i giudici chiedono aiuto proprio alla mafia;

Se per l’inchiesta Jacini al Sud “tutto è Africa” per Ciotti “tutto è mafia”;

Ciotti si scusa: gli è scappata una parolaccia: ha citato Gesù;

Dio, il Grande Sconosciuto d’Occidente;

“Ho visto pezzetti di carne sparsi”. Ma l’ha colpito solo “un quaderno di educazione civica”;

Sostituire il Decalogo con la costituzione, il confessore col magistrato;

“Non importa chi è Dio, ma da che parte sta”. Il mancato leader socialista;

Quegli studenti che marciano per marinare la scuola lecitamente: senza fantasia, senza sincerità;

E’ politicamente scorretto dire “la mafia non esiste”, anche se è vero che non esiste;

La vera mafia che pretende omertà è quella del professionismo dell’antimafia delle chiacchiere;

Dio è lui, don Ciotti. E “Libera” è il suo corpo mistico, la sua chiesa.

SIAMO TUTTI “ADDOLORATI” COL CULO DEGLI ALTRI. I fatti di Brindisi, dunque. Ognuno dice la sua, stante il fatto che gli strascichi mediatici caricaturali di stragi e delitti sono una passionaccia arcitaliana: non chiedono di meglio i teledipendenti che fare tifoseria colpevolisti-innocentisti, scoprire alla fine chi è l’assassino come in un giallo della Christie. Tanto siamo tutti “addolorati” col culo degli altri. Solo che invece di sfogliare libri gialli, fanno zapping da talk-show in talk-show nella tv delle lacrime, dei sentimentalismi, del macabro, e, subito dopo, delle sganasciate di risate mignottesche con la caccia al chi ha scopato chi, chi s’è lasciato con chi, chi ha incornato chi.

Brindisi, dunque. Napolitano e Bersani dicono: “E’ terrorismo”. Don Ciotti: “E’ mafia”. Criminologo: “Forse squilibrato”. Complottisti professionisti: “Strage di Stato” (anche se tecnicamente neppure strage c’è stata). Procura: “Non sappiamo”. Tutti insieme in comune hanno una cosa: parlano senza sapere di che parlano… e come potrebbe essere diversamente dal momento che 5 minuti dopo avevano già tutti il loro teorema buono per ogni evenienza?! Ognuno cerca di trascinare cadaveri entro la propria specializzazione e contingenze immediate, se politiche tanto meglio. Non mi meraviglierò se presto interverrà Radio Radicale a dire: “Preti pedofili”. Dopo tanti castelli costruiti sul fango di lussuose teorie politico-criminologiche, si scoprirà (come si scoprirà!) che si tratta d’un semplice sfigato di mentecatto, certamente qualche disoccupato nevrotizzato dalla mancata assunzione al bidellaggio, qualche altro che ce l’ha in modo parossistico con l’agenzia delle entrate, qualcuno che ce l’ha col prospiciente tribunale che gli ha fatto perdere o non ha mai discusso la causa che gli stava a cuore; qualche “inventore” pazzo. La banalità del male! Ma certo non è di questo che voglio parlare, non si occupa di cronaca questo sito. È un pretesto per dire d’altro.

IL FIGLIOCCIO DI MICHELE PELLEGRINO, IL CARDINALE ROSSO. Don Ciotti ha fatto tutti i suoi studi da prete, se così posso chiamarli, nel lustro peggiore della storia della Chiesa: fra il ’68 e il ’72, anni di autodemolizione, autopersecuzione, autocontestazione della Chiesa. Anni pazzi. Soprattutto anni rivoluzionari: i seminari erano diventati, in quel lustro, covi di pazzissimi sediziosi dottrinali, bordelli teologici, fucina di rivoluzionari spompati, evirati e inutili persino ai rivoluzionari al caviale laici. Ininfluenti sul mondo, ma funestissimi dentro la Chiesa. Ecco, quei cinque anni maledetti, sono tutta la formazione di Ciotti: psicologicamente, retoricamente tuttora là è fermo, non s’è mai mosso; e spesso proprio questo suo modaiolo anacronismo è travisato, in un qui pro quo ridicolo, scambiandolo per avvenirismo, futurismo. In realtà, da quaranta anni, è uno spacciatore abusivo di ricette (“salvavita”, buone parimenti per la Chiesa e per la “società”) scadute. A complicare le cose per l’allora seminarista Ciottino intervenne il fatto che il suo seminario si trovava nella Torino operaista e laicista, e per giunta il suo cardinale era il vescovo più rosso della storia d’Italia: Michele Pellegrino. Tutte le fortune, poveraccio! E allora ti spieghi tante cose. Il cardinale rosso della Torino di quel tempo infame che vide nascere proprio nelle sue fabbriche i teorici e la manovalanza del terrorismo comunista, Michele Pellegrino, definì bonariamente il suo comiziante pretino, il giovane Luigi Ciotti, “prete da strada”, e aggiunse: “la strada sarà il tuo altare”. Una permuta a tutto vantaggio non si sa bene di chi, della Chiesa dubito. Se è vero come è vero che il programma ciottesco è questo: “Non si va per la strada ad insegnare ma ad apprendere”: affascinante come slogan, bellissimo, non v’è dubbio, ideologico anche; l’apice del buonismo delle “anime belle”, di quelle che s’innamorano dell’idea già bella impacchettata e infiocchettata a prescindere da quello che c’è dentro il pacco (in questo caso: il vuoto), ignorando trasognati e poeticanti la realtà, quel sano realismo che deve essere sempre il compagno di viaggio del cattolico. Sostituito in questo caso con un tanto al chilo di sociologismo vittimistico, piagnone e melodrammatico. Che suona sempre la stessa sinfonia dagli anni ’70: “Le colpe della società!”, qualsiasi cosa uno abbia fatto, “è colpa della società”. Anche se oggi ha mutato un po’ registro: qualsiasi cosa succeda, foss’anche il crollo di Wall Street, il Nostro dice che è “colpa della mafia”. Almanacco del “clima sociale mafioso” e, va da sé, “omertoso”.

Ciotti, l’uomo che “apprendeva dalla strada”, dunque, invece che insegnare la Strada, che poi sarebbe Cristo. Senza contare che Cristo non è andato per le strade del suo tempo ad “apprendere” ma a insegnare, appunto. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare Ciotti, insegnare le cose del Maestro, che aveva infatti detto “non chiamate nessuno maestro”, neppure una strada, “perché uno solo è il Maestro”, cioè Lui; e poi aggiunse che siccome Lui “era la via, la verità, la vita…” ai suoi toccava andare “per le strade” ad annunciarlo, a “insegnare le cose del Padre mio”. Ma siccome Ciotti è capitato in epoca materialista (infatti ripropone il “Gesù rivoluzionario” tipico degli anni ’60 e dell’agnosticismo), le cose si sono ribaltate: strada e asfalto son diventati “maestri”, Cristo un semplice passante. E uno sconosciuto. Mentre invece era Lui la Strada. E la vita. La sola salvezza possibile. Non l’antropocentrismo ideologico del Nostro. Se c’è una cosa che dalla bocca di Ciotti non s’è mai sentita è questa: “E’ peccato”. Proprio non manda giù l’idea che il singolo possa avere dei peccati, delle colpe agli occhi di Dio e che possa pagare per queste; che ci sia un Giudice Supremo diverso dal pubblico ministero. È proprio l’idea di peccato individuale che gli è estranea. Il libero arbitrio gli va bene per tutto, lo applica a tutto, ne fa uso abbondante egli stesso, è tutto un arbitrio Ciotti; però nel peccato no, l’uomo-individuo non pecca secondo “libero arbitrio”: “è la società che pecca”… anzi no (ha abolito pure la parola “peccato”) commette “ingiustizie”; è la società “che è sbagliata”, in ogni caso “è colpa della società” (quella che non vota comunista, almeno). Mai si dica che l’individuo “ha sbagliato”, peggio di peggio poi “ha peccato”, “ha scelto” liberamente di peccare.

LADRI BENEFATTORI E DERUBATI LADRI. VI RACCONTO UNA STORIELLA (PARADOSSALE E SATIRICA) SU DON CIOTTI. Se ti entra un ladro in casa, ti svuota casa, ti bastona il nonno: è colpa tua, pezzo di merda!, merdaccia che bivacchi e ti abbeveri in questo cesso di società!, sei tu che hai ridotto quel “poveraccio”, quella “vittima della società” a entrarti in casa, derubarti di tutto, bastonarti il nonnetto magari pure reduce della RSI (e un po’, quindi, se lo meritava!) e andarsi poi a ubriacare con gli amici gaglioffi, ossia le “altre vittime”. Sai che c’è di nuovo? Te lo dice un don Ciotti, uno che impara dalla strada invece che insegnare la retta via a quelli che per strada, quella sbagliata, ci stanno: sei tu il ladro, sei tu il bastonatore di tuo nonno; dovresti vergognarti e chiedere scusa al ladro bastonatore di tuo nonno, e se proprio vuoi essere perfetto, purgarti del tuo “peccato sociale” (tale perché nella società ci vivi), dovresti rendere al ladro pure quello che non ti ha ancora rubato, perché il possederlo da parte tua è un “furto”, verso tutte le altre “vittime della società”. Ossia tutti gli altri ladri. Ovvero, sei tu, in fondo, che hai rubato in casa dei ladri… perdon… delle “vittime della società”. Non è manco più il tuo un “peccato sociale”. È proprio mafia! Sei un mafioso. Cornuto e mazziato, dunque. La domanda curiosa che ti fai su questa de-forma mentis clericale ferma a sociologismi radical anni ’70, è una: perché tali principi di “vittimismo” sociale validi per qualsiasi criminale (o detta alla cattolica: peccatore), non possono valere, a sentire Ciotti, anche per la criminalità organizzata, per i mafiosi, appunto? Non sono criminali e dunque “vittime” l’uno e gli altri, il ladro e il mafioso? Perché no? Del resto, secondo dottrina cattolica entrambi violano lo stesso Decalogo, entrambi altro non sono che peccatori… e in questo il cattolicesimo è molto “democratico”. Perché no, Ciottino-ino-ino? Io un sospetto lo avrei, me che sono di natura maligna (realista): la mafia ha fama di essere anticomunista; un tempo persino d’essere “democristiana”; poi – dicono gli ex sputtanatori di Falcone vivo, ossia la sinistra al caviale che da morto ne ha fatto bandiera – divenne “berlusconiana”. Ha fama, cioè, di farsela coi “potenti”. Tutte cose che il Ciotti dovrebbe avere in gran dispitto. Dovrebbe. Ma pure lui, Ciotti, a suo modo è un “potente”: la potenza oggi non è data più solo dai soldi e dalle poltrone, ma dalla visibilità mediatica e dal servilismo plaudente (e ipocrita) dell’establishment televisivo nei tuoi confronti. È o non è il Ciotti un nuovo potente, “intoccabile” da qualsiasi schermo o palco appaia, qualunque cosa dica (ché poi: dice sempre le stesse cose)? È vero o no che per diventare un “intoccabile televisivo” del genere devi essere messo a contratto dalla sinistra radical-chic che di quella fanghiglia è padrona gelosa? È o non è sempre sotto telecamera? È o non è sempre in compagnia di potenti, purché comunisti o almeno catto-comunisti? Non sono i suoi commensali abituali ormai?

IL DOLCE & (VOLTA)GABBANA DELLA CHIESA: DON CIOTTI. IL CAPPELLAIO… OPS… IL CAPPELLANO DELLE MODE.

 Fine anni ’60. Per via dell’anarchismo “antiautoritario” e “antirepressivo” del ’68, in quegli anni era di gran moda la questione “abolizione del carcere”, da sostituire (diceva l’ideologo radical-chic) con “pene alternative”. Subito Ciotti se ne appassiona e fonda gruppi alternativi al carcere minorile per il “recupero dei piccoli carcerati” che spesso avevano un curriculum criminale poco sotto quello di Riina. Erano “vittime della società”. E fu la prima moda che condivise il suo talamo: tanto di applausi mondani e dell’intellighenzia radical ne derivarono. Poi la moda “abolizionista” decadde e Ciotti passò ad altro.

Primi anni ’70. Anni di piombo. L’ultima moda erano l’operaismo (in genere aizzato dalla ricca, balorda, annoiata borghesia radical, come eccentricità d’alta società) e le più assurde “rivendicazioni sindacali”. Torino ne era il sanguinoso epicentro. Il Ciottino si beccò la passione degli “operai”. Fondò associazioni e s’incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Poi passarono di moda pure questi, e lui li abbandonò al loro destino, che era diventato terrorismo, nel frattempo.

Sul finire degli anni ’70. Dopo la sbornia anarcoide e marxista immaginaria del ’68, se ne ebbero i primi frutti fra quei giovincelli generosi “contestatori”: oltre al terrorismo portarono in Italia anche la “moda” e le abitudini “culinarie” dei figli dei fiori (oppiacei) d’oltreoceano: droga a colazione, pranzo e cena. Comparvero i primi tossici italiani, ex contestatori del sistema. L’ultimo Maritain, quello considerato “pessimista”, “e perciò rimosso”, scrive Messori, all’apparire di questo fenomeno fra la satolla (di pane e ideologie arruffone) gioventù d’Occidente, disse una cosa profonda e atroce, atroce perché vera, “profetica” direbbero i progressisti se non fosse null’altro che una constatazione: “Quel buco è il sacramento di Satana. E’ la cresima, è l’effusione dello spirito di una cultura che ha preso congedo dal Cristo per volgersi all’Ingannatore”. Tutte queste cose non disse e tantomeno pensò il Ciotti. Troppo affaccendato in chiacchiere, affari e presidenze pluripremiate, per pensare all’essenziale delle cose. L’affare era grosso, guadagnava ormai le prime pagine dei giornali, si facevano inchieste di grido, faceva notizia, insomma. Ciotti non se lo fece ripetere due volte: ci si buttò a capofitto, fondò associazioni, se ne incoronò presidente. I risultati sono dubbi, e più che altro contraddittori. Ossia al fondo c’era sempre e solo l’ideologia radical di Ciotti, il vero motore del suo chiacchierificio itinerante buonista e indignato speciale di professione; mentre tutto il resto era carrozzeria, pretesto e contorno, foglia di fico sulle vergogne. Illustrazioni di copertina del suo personale Capitale all’amatriciana. Leggo da una biografia del Nostro: “In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale (con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada”) e, in senso lato, politico, per costruire diritti e giustizia sociale, con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685”. Paraponziponzipò! Per aiutare i drogati, la prima cosa che questa anima bella propose, fu una “legge non repressiva” sull’uso di droghe. Pannella non avrebbe saputo fare di meglio. Come dire? Ci sono troppi malati di cancro ai polmoni in giro? Bene, abbassiamo il prezzo delle sigarette. I primi risultati di questo buonismo vittimista si videro un quinquennio dopo, quando in Italia scoppiò una vera pandemia di tossicodipendenza. Naturaliter: l’intellighenzia mondana e radical-chic, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ciotti era ormai una star. Sulla pelle di chi lo divenne non sappiamo.

Con il primo lustro degli anni ’80 venne dopo la sbornia di “comunismo” al sangue, la sbornia di consumismo alla puttanesca. Con questo dilagarono sì i vizi tipici dei nuovi sazi e indifferenti, alcol, gioco e droghe (come risultato ultimo delle prediche “libertarie” radical post-68) e ottenevano i galloni della cronaca i “drogati” e i loro “recuperatori”. Venne pure dell’altro, però: il clima euforico e orgiastico, il culto del sesso sfrenato e promiscuo, nel quale il massimo della gloria effimera, della sbornia e quindi dell’indecente capovolgimento del mondo la raggiunsero gli omosessuali, nuova rumorosa e attivissima setta pagana. Che nel cuore di Ciotti dovevano immediatamente avere il sopravvento sui drogati. Infatti, manco fece in tempo a scoppiare, facendo un boato immane su tutti i media del mondo, la peste del XX secolo, l’Aids, che subito Ciotti ne divenne un “appassionato”, un santo patrono, la ennesima “voce dei senza voce” (con tutte le categorie sociali alle quali crede di aver dato “voce”, potrebbe doppiare l’intero cast di un film colossal del cinema muto). Qui pure, come aveva dato “voce” a tutti gli altri: con le chiacchiere e i tour di chiacchiere in giro per l’Italia. A confermare i “senza voce” nel loro errore, e, se battevano la strada, a “prendere lezioni da loro invece che insegnare”, senza mai affrontare la scaturigine di quell’epidemia mortifera. Ossia il peccato, quello contronatura in questo caso, la sessuomania di massa, che proprio i modaioli maitre a penser radical-chic avevano predicato e propiziato dal ’68. I risultati ultimi ora erano sotto gli occhi di tutti: ma Ciotti vedeva solo questi, ignorando come sempre le cause prime: un gatto che si morde la coda. E al solito fondò associazioni e se ne incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, radical-chic, la stessa responsabile ideologica di questa strage, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte.

Poi viene il 1988. E diventa abortista. Se andaste a scovare le ciottate di quegli anni ne provereste brividi: posa il suo bacio bavoso su tutte le più infami mode ideologiche del tempo, indossa tutte le più spettrali, e melense al contempo, svergognate maschere dell’epoca, e diventa femminista, abortista, contraccettivista, divorzista. Ma sempre per “solidarietà umana”, è chiaro. Come i peggiori radicali, approfittando del dramma dell’Aids, fa sciacallaggio pro contraccezione, pro aborto, pro aborto selettivo: tutto questo, al solito, per “solidarietà”, per la “bella idea” dell’ideologo, per “buonismo”. Quella solidarietà, quella bella idea, quel buonismo che senza rimorso alcuno ora gli fanno sostenere il diritto di scelta per una donna di abortire un figlio malato; “per rispetto umano” verso i sieropositivi si mette a propugnare le più “umanitarie” teorie sull’aborto selettivo, che poi erano le stesse teorizzate e applicate dai nazisti (ché però quelli almeno ad un certo punto ebbero scrupoli, e si sottrassero: don Ciotti e gli abortisti no). Così così così arriva, con l’ambiguità tipica del Maligno che mescola la verità alla menzogna, ad ammettere che “abortire i bambini che potrebbero nascere sieropositivi è una possibilità che deve essere riconosciuta a una donna”. E poi naturalmente per “eliminare alla radice” il problema, cioè uccidere bambino e sieropositività, buttare bambino e acqua sporca. Ma non si rende conto che proprio la “radice”, proprio quella è il problema, non le fronde, la sieropositività: quella “radice” che questo prete vorrebbe “recidere” è la vita umana stessa, la maestà di Dio su di essa. Ma che prete è questo? Per chi lavora? Come fa a parlare così? Ah, non è affar suo dice lui, lui riconosce che v’è “una pluralità di vedute” e per non offenderne alcuna, non intende affermare quella della Chiesa. Che poi non è manco quella di Ciotti. Lui, intanto, “riconoscendo la pluralità di vedute” se ne sta in ogni organizzazione “umanitaria” fuori e radicale e abortista dentro: per dare “speranza”, pur nella “pluralità di vedute”. “Speranza” basata su cosa non è dato sapere. Il Nostro, racconta Luigi, un testimone di allora, “fece molte interviste pro contraccettivi e surrettiziamente pro aborto. Allora io scrissi ad Avvenire protestando: il direttore in persona mi onorò con una sua risposta in cui mi disse che ero inutilmente severo…”. Guardate, il discorso, giunti a questo punto, mi fa tanto schifo che lascio a voi la facoltà di approfondirlo cliccando sui ritagli di giornale del 1988 che l’amico Guido mi ha gentilmente mandato, sapendo che stavo affrontando questo articolo. Ma se proprio volete saperne di più sulle schifose prese di posizione su questi temi del Ciotti, nel fragore degli applausi delle sue platee di post-cristiani, post-comunisti, vetero-radicali, leggete online questo resoconto agghiacciante di Vittorio Agnoletto.

E siamo già a cavallo fra anni ’80 e ’90. Cominciò a scemare sui media l’interesse per drogati e sieropositivi, ed entrambi cominciavano a subire un “calo fisiologico”, che li rendeva ormai poco numerosi e perciò ancor meno appetibili. Dai media. Don Ciotti cercava altri stimoli mondani. Che infatti vennero sicuri come la morte. Iniziarono i primi flussi migratori, sino al botto scuro della nave che rovesciò miriadi di albanesi sulle coste di Brindisi. Che scappavano dai rottami di quel comunismo “nuovo” ossia “maoista” del quale proprio quelli come Ciotti & compagni radical-chic, qualche anno prima s’erano fatti cantori e sponsor, come “non plus ultra di civiltà” (era passata di moda la loro vecchia passione per l’Urss come paradiso terrestre e modello da imitare, anche per la Chiesa). Che ve lo dico a fa’? Ciotti subito andò in prima linea col suo solito armamentario chiacchierone: tour di convegni in giro a spiegarci quanto erano belli buoni e bravi i clandestini, e più ce n’erano meglio era; i soliti numeri verdi e telefoni amici, le solite leghe, associazioni e l’auto-incoronazione napoleonica del Ciotti a loro presidente-imperatore. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ma dopo un po’, pure questa “moda” buonista con relativa retorica dell’accoglienza a prescindere, che aveva saturato tutti i media, i pulpiti e la bocca dei Ciotti e dei Tonino Bello, cominciò a scemare. Specie quando si vide che questa stessa retorica altro non aveva prodotto che un’infornata pazzesca di criminalità organizzata che invase tutte le città e che ancora scuote e insanguina la pacifica penisola e la sicurezza dei troppo generosi italiani. Generosità che nel frattempo, giustamente, s’era trasformata in risentimento.

Sentendo puzza di bruciato, mancando ormai di stimoli e di visibilità, don Ciotti stava col dito umido per aria per captare che altra corrente modaiola spirasse. Uomo fortunato, e contraddittorio, la trovò subito bella e pronta.

Contraddittorio, sì. Se è vero che alle sue spalle ora si lasciava la moltiplicazione di pani e pesci dell’immigrazione clandestina indiscriminata e persino aizzata; ossia un dilagare di manovalanza criminale anche al servizio delle mafie. E proprio adesso il Don, proprio lui, sta per buttarsi anema e core nell’oceano mediatico della “lotta”, a forza di mitragliate di logorrea, “alle mafie e alla criminalità” organizzate. Contraddittorio… Ma tant’è! Lo dico con un sorriso: sembra che prima di imbracciare una nuova moda solidaristica, si premuri, negli anni che la precedono, di coltivarne la potenziale clientela con cui “solidarizzare”. Fateci caso: per un tot di anni, come ogni radical, predica per una presunta “buona” cosa, poi quella cosa accade davvero e puntualmente è un disastro, dunque da predicatore diventa infermiere dello stesso male che ha coltivato (in buona fede, spero). Un ideologo consumato!

E infatti siamo nel 1992. Salta in aria il giudice Falcone e poi Borsellino: ne deriva un immane e giusto clamore, non sempre sincero (e mai da dove te l’aspetti) da parte di troppi . È l’argomento di fine secolo. E qui Ciotti darà il meglio e dunque, alla fine, il peggio di sé. Fonda Libera, e inizia allora un chiacchiericcio che dura da vent’anni. Ma siccome spesso manca di pretesti per gridare “al lupo al lupo”, alla fine è diventato una specie di don Villa dell’antimafia delle chiacchiere: come don Villa vede massoneria dappertutto foss’anche in un circo equestre, alla stessa maniera il Nostro grida “è mafia è mafia”, anche dinanzi a un petardo natalizio. Purché se ne parli. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaude e molteplici volte lo premia. Ormai è un abbonato speciale.

IL RADICAL-CIOTTISMO PORTA INFINE LADDOVE DALL’INIZIO ERA STABILITO DOVESSE PORTARE: ALLA RELIGIONE CIVILE. Tuttavia nel nuovo millennio pure la mafiologia e la mafiopolite acuta da talk-show, l’antimafia delle chiacchiere, ha cominciato a scricchiolare, almeno nell’interesse dei media. Vuoi perché i successori di Falcone e Borsellino erano palesemente indegni e marchiati a sangue di ideologia radical-comunista, e la lotta alla mafia è rimasta tale solo sulla carta diventando invece nei fatti un gioco sporco al massacro di lobby togate estremiste ai danni di Berlusconi; vuoi anche perché il fenomeno mafioso, almeno in Sicilia, per così come lo abbiamo conosciuto sta mostrando un fisiologico calo di peso, un ridimensionamento e una trasformazione, essendo prossimo a diventare qualcosa d’altro, per ragioni che non sto qui a spiegare. E allora, stante tutte queste magre vacche mediatiche, Ciotti ha rimesso il dito per aria per capire dove tirava il vento giornalistico. E in men che non si dica… l’ha indovinato.

Porta laddove sin dalle origini era stabilito dovesse portare, perché era inscritto nel suo Dna, l’ideologia radical-ciottista, fatta passare per clericato “impegnato”. Alla religione civile. Al culto del dio Stato; al feticcio della Costituzione; all’estremismo legalista; alle liturgie politiche; alla sociologia come nuova teologia. All’ideologia che è alla base della fine della civiltà cristiana: quella sorta dalla Rivoluzione Francese. Con tutto il corollario trombone ma pericoloso che ne deriva: mondialismo, ecologismo, monetarismo, pacifismo da paci-finti, umanitarismo ateo e peloso, filantropismo rapace ed esibizionista. È scritto ne Il Nome della Rosa: “Il Diavolo sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”. Perciò le mode del mondo, ossia le ideologie, anche clericali, sono la Sua strada e il Suo arco trionfale. E il trionfo di chi ne viene a patti. Quei “falsi trionfi” dettati dalle mode, che sono lo spirito del mondo e lo spirito del mondo è Lucifero, e che hanno la forza di far perdere la testa ai saggi ai potenti ai preti. “Trionfi” contro i quali Gesù stesso ci metteva in guardia. Lo stesso Gesù che ripetutamente nei vangeli ci ammonisce a guardarci dalla “gloria del mondo”, perché è un inganno. Soprattutto perché non è questo il destino del cristiano; poiché, ha predetto il Signore, il suo destino vero sarà sempre, fino alla fine dei tempi, la persecuzione e il martirio, l’infamia e non gli onori del mondo. “Hanno perseguitato me: perseguiteranno anche voi. Ma io vi dico: beati voi quando a causa mia diranno di voi, mentendo, ogni sorta di male”. Da questo si può discernere fra il vero e il finto cristiano, fra il vero servo di Dio e il servo del Mondo, fra l’agnello e il lupo travestito da agnello.

DIFFIDATE DEI PRETI PIENI DI PATACCHE . Io l’ho per regola. Diffido sempre di quei (rari, va detto) cattolici che sono ospiti “d’onore” ovunque, travolti da applausi, specie da parte di chi più è lontano dalla Chiesa, dai suoi nemici più spietati talora; diffido dei preti invitati a tutte le trasmissioni e a tutti i convegni, premiati con ogni patacca e in ogni circostanza pacchiana. Lì qualcuno sta barando: la gloria del mondo ha per compagna la menzogna. E poi la “tristezza”, dice l’Ecclesiaste. Mi fido dei martiri e dei perseguitati, dei preti umiliati a causa della loro fede, di coloro che parlando delle cose sante suscitano scalpore, sdegno, rifiuto, oltraggio dal mondo. Non dei pavoni che fanno sempre la ruota nel giardino zoologico dei preti da baraccone per la gioia del documentarista e per arruffianarsi la sazia apostasia di questo mondo che prima si è fatto nemico e poi estraneo a Dio. Lo spirito del mondo, le mode ideologiche, sono un’attrazione irresistibile per Ciotti. Questo intendo dire quando ribatto al suo definirsi “prete di strada” con un “prete da marciapiede”. Badate, non sono così cretino da mendicare in giro querele che a questo punto sarei io stesso a consigliare alla parte “offesa”: non intendo dire che don Ciotti è una puttana o una persona di costumi equivoci (e anzi, da quel punto di vista lì – spero di non sbagliarmi – credo sia stato sempre pulito). Niente di tutto questo. Intendo dire proprio che sta sul marciapiede ad aspettare che passino le carrozze con a bordo le nuove mode ideologiche: andrà con quella che offre di più. “La gloria del mondo ha per compagna la tristezza”, dice l’Ecclesiaste, dunque. Al momento, però, il Nostro ci pare abbastanza su di giri. Lo è da 40 anni.

LA MOSCA SARCOFAGA . Stavo vedendo uno dei brutti film horror anni ’70 di Dario Argento. In uno, un tale, una specie di sbirro, alleva delle grosse mosche sarcofaghe, o meglio: la mosca sarcophaga carnaria. Ora, chi come me s’intende di medicina legale e fenomeni cadaverici, sa che questa strana mosca è affamata di cadaveri, ne è la principale cliente e devastatrice: ci depone sopra le sue larve. Ma soprattutto ha un fiuto infallibile nello scovarli. Ecco perché lo strano sbirro le allevava: liberandole e inseguendole, riusciva a ritrovare nei boschi i corpi degli assassinati. M’è saltato in mente don Ciotti: pure lui appena succede qualche plateale e misterioso fatto di sangue, da Roma in giù, non si sa come questo qui mezz’ora dopo è già sul posto. Naturalmente, subito dopo i fotografi. Più fulmineo delle mosche sarcofaghe. E, in tutto questo macello di Brindisi, non poteva che piombare come mosca sarcofaga sul luogo della tragedia, don Ciotti, con la sua “Carovana” carioca, di post-cattolici, post-comunisti, post-femministi, post-brigatisti, post-figli dei fiori, post-conciliaristi, post-preti, post-italiani, post-tutto. Il carro variopinto degli hobbisti dell’antimafia delle chiacchiere, con i loro slogan a misura unica, unisex e buoni per tutte le stagioni: per protestare indistintamente e con la stessa disinvoltura, a suon di chiacchiere, contro la mafia immaginaria, contro i terroristi, la guerra, la pena di morte, il carcere, il capitalismo, Berlusconi, il fascismo, l’antisemitismo, per la “pace” (da quando non c’è più l’Urss a invadere paesi inermi, almeno… da quei paci-finti che sono), l’acqua, il vino, la pagnotta, la patonza… per tutti, meno pene ai carcerati, più pene ai mafiosi, più pene e basta, più marce e meno messe (e forse, visto il senso della liturgia del Nostro, è pure meglio), più “strada” e meno altare. Ma la cosa che fa più ridere di questi professionisti del carnevale permanente e di questo post-prete, don Ciotti e i suoi fratelli e fratelle, è una in particolare. Che sinistramente schiamazzanti come avvoltoi piombano in tempo reale laddove sentono odor di carne bruciata, non importa se umana o da kebab o da arrosto di fiera della porchetta. È ininfluente. Loro imperterriti ci piombano addosso, la impugnano con gli artigli, la sollevano in aria sventolandola e qualunque cosa sia, foss’anche un gatto morto, a prescindere, si mettono isterici a gracchiare “è mafia!”; e via con gli stessi slogan, le stesse sentenze apocalittiche, le stesse soluzioni ideologiche, le stesse frasi ad effetto (lassativo), gli stessi cartelli appesi al collo usati per qualsiasi altro evento negli anni passati, magari contro Berlusconi: “E adesso uccideteci tutti!”, “La mafia uccide, il silenzio anche”, per tacer dei barattolini Manzoni-style con su scritto “La mafia è merda”.

IL SILENZIO SE NON TI “UCCIDE”, TI EVITA MOLTE FIGURE DI MERDA. Tuttavia, molte volte, il silenzio se non ti “uccide” ti evita molte figure di… merda, giacché siamo in tema. E non è un caso che appena il Ciotti ha saputo che c’era “carne sul fuoco” a Brindisi, non si sa come, in pochi minuti ci è atterrato su, gridando ai quattro venti: “Mafia! È mafia! La mafia uccide! Il silenzio pure! Venite allo scoperto mafiosi!”. Ancora si dovevano spegnere le fiamme, che lui già denunciava a tutti i microfoni “l’omertà” della popolazione brindisina che, appena sveglia e stordita com’era per il botto, non riusciva a capire manco cosa fosse successo. Anche quando già da subito a tutti era evidente che la Sacra Corona non c’entrava una mazza perché non erano cose che rientrassero nel suo stile quelle, né aveva la forza politica ed economica per osare tanto, il Nostro non ha desistito: non avendo da trent’anni altri slogan, passando solo questo il convento, essendo solo quello il suo repertorio circense, lo usa indiscriminatamente ad ogni replica e in ogni situazione: “Mafia purchessia!”. Però siccome il senso del ridicolo, infine, lo ha pure lui, ha annacquato dopo 24 ore il “sola Mafia” (variante del “Sola Scriptura” di Lutero) con “e anche la massoneria”. A quel punto non restava che ridere! Se non altro perché la prassi politicamente corretta e la filantropia pelosa di Ciotti, nel quale ogni residuo di Dio cristiano scompare nel solo umano, anzi, nel solo sociale, disciolto nell’acido della “società civile” insomma, altro non è che la quintessenza, la realizzazione pratica manu sacerdotali delle più viete teorie della più classica massoneria.

CIOTTI GRIDA “E’ MAFIA!”. MA I GIUDICI CHIEDONO AIUTO PROPRIO ALLA MAFIA. La situazione diventa ancora più paradossale se si pensa che la stessa (non sai se più stravagante o imprudente) magistratura pugliese, attraverso il procuratore Cataldo Motta, che – almeno dicono – essere il “massimo esperto di questo fenomeno criminale” (la Sacra Corona Unita), cioè  ha (papale papale) chiesto alla mafietta pugliese di “collaborare” in qualche modo con la giustizia per scovare gli attentatori. Non basta. Mentre il prete con la “carovana” ancora sbraita a destra e manca, “mafia… omertà… c’è la mafia e pure un poco di massoneria”, mentre avviene tutta questa pretesca ridicola sceneggiata, avviene pure un’altra cosa. Vi leggo dal giornale: “Raffaele Brandi, ritenuto uno dei capi più rappresentativi della frangia brindisina della Sacra Corona Unita, ha avvicinato il caposcorta del pm Milto de Nozza e gli ha comunicato non solo che la SCU non c’entra ma che si muove in parallelo alla giustizia. ‘Dite al procuratore che se li prendiamo noi gli attentatori, ce li mangiamo vivi, è questo il messaggio’”. E mò? Che dire? Mentre don Ciotti straparla di “mafie”, pure il capo della Sacra Corona Unita “cerca il colpevole”. E lo va a dire direttamente al capo della scorta del procuratore di Brindisi De Nozza. Oltre a notare che dinanzi ai teledrammi (che non sono mai il dramma vero) tutte le istituzioni dello Stato italiano, mafie comprese, sono unite; oltre a capire che tutti hanno capito che il colpevole deve essere un pazzo isolato che non conta una mazza; oltre tutto questo, viene da domandare una cosa, al caro Milto de Nozza in primis: a Brindisi esiste ancora il reato di associazione mafiosa? Siamo o non siamo qui in presenza di un capomafia reo-confesso? Non è per arrestare questi qui che gli paghiamo la scorta? E allora: perché è a piede libero il capomafia di Brindisi? Dunque, dinanzi a tutto questo, a questi professionisti, a questi acchiappafantasmi dell’antimafia delle chiacchiere, che precipitano ogni tragedia in farsa e in carnevale… ma come fai a no ride’?

SE PER L’INCHIESTA JACINI AL SUD “TUTTO È AFRICA” PER CIOTTI “TUTTO È MAFIA”. Ma don Ciotti non ride. Insiste. Celebra la messa – se così posso chiamarla – a Mesagne, presente il povero padre della vittima. Dal pulpito urla, sbraiti, tempeste di slogan antimafia; sussultano ammutoliti i tabernacoli e le incolpevoli sacre statue, al gracchiare del prete “da strada”, del cappellano degli acchiappafantasmi contro l’immaginaria “omertà” (a indagini in corso) del popolo brindisino. Anche ora che è chiaro non c’entri nulla la mafia, che anzi è oltremodo, oltre la legalità persino, collaborazionista; ora che tutti cominciano a vedere chiaro che di qualche psicopatico deve essersi trattato.

Mentre accade tutto questo ti chiedi cosa centri questo post-prete con Mesagne? E quell’omelia, se così posso chiamarla, col solito bollito misto riscaldato, che c’entra con Mesagne, Brindisi, Melissa? “La malattia da sconfiggere è l’indifferenza” dice il presidente di Libera, nella piazza di Mesagne dove ha fatto tappa la Carovana contro tutte le mafie, Berlusconi compreso, è chiaro. “La forza sta in chi si rialza, e noi ci rialzeremo”. “Il problema della criminalità, della mafia, della massoneria è un problema di tutti ed ecco perché la Carovana continuerà a ‘sgrattare’ le coscienze”. Poi ha invitato tutti a “non avere paura”: “Bisogna evitare che tutto diventi terrore, paura, è necessario reagire”. Mafia? Massoneria? Omertà? Ma cosa crede questo acchiappafantasmi che Mesagne sia El Salvador? Giacché è un torinese, come tutti i torinesi dabbene per quanto “da strada”, crede che da Roma in giù, tutto quello che si incontra, fosse anche un vigile urbano, tutto è mafia. Da vero epigono dell’altro nordico, Stefano Jacini, quello dell’Inchiesta meridionale famigerata e insolente, che andando al Sud era convinto di trovarci l’Africa, e tanto ne era convinto che standoci altro non vedeva che “Africa” davvero, e dopo esserci stato, tornando a Torino, scrisse nell’Inchiesta parlamentare: “E’ Africa! Anzi, no: l’Africa al confronto è fior di civiltà”. Sono invasati da strisciante razzismo tutto torinese e dai più vieti e spocchiosi pregiudizi sebbene spacciati per compassionevoli, e non se ne rendono conto. “Omertà” poi… Se c’è mai luogo dove si fa più chiasso intorno a ‘sta roba è proprio la Puglia! Basti pensare ai casi di Avetrana, dei fratellini di Gravina, della piccola Maria Geusa, solo per citare i più noti. “Omertà”, “indifferenza”, dice: se i brindisini davvero sapessero chi è il colpevole dell’attentato, lo andrebbero a prelevare e lo squarterebbero vivo. Persino la mafietta locale ha garantito farebbe lo stesso. Tutto ‘sto solito casino parolaio, tutte queste carovanate, per una tragedia provocata da nient’altro (a quanto pare) che un matto! Se vai da don Ciotti e gli dici, “sai chi è stato? Uno psicopatico”. Sapete cosa dirà don Ciotti, appena individua una telecamera? “E’ il clima mafioso che genera questa follia!”. È un po’ come i medici ciarlatani degli anni ’30, che per qualsiasi malattia, dalla febbre alla varicella al cancro maligno, prescrivevano sempre e solo una cura: una purghetta di olio di ricino. Così come pure, qualsiasi fossero i sintomi psicosomatici, la malattia che diagnosticavano aveva un solo nome: “esaurimento nervoso”. Così Don Ciotti, qualsiasi cosa accada, ovunque accada, in qualsiasi forma accada, anche un incidente stradale, ha una sola diagnosi: “mafia!”; e una sola cura: “antimafia!”… della chiacchiere. Che permettono di fare pubblicità in ogni caso alla sua florida e ricca creatura: l’associazione Libera.

CIOTTI SI SCUSA: GLI È SCAPPATA UNA PAROLACCIA: HA CITATO GESÙ.  Mi raccontava un mio amico veneto, Federico: “E’ venuto a parlare da noi don Ciotti. Sono andato a sentirlo per curiosità. Ha fatto un sacco di chiacchiere, ha detto un sacco di parole a getto continuo e a ruota libera, cose che poteva dire qualsiasi laico, laicista persino. Ad un certo punto si è bloccato, è sembrato vacillare, incerto e ha detto timidamente: ‘Vi chiedo scusa se mi permetto di citare per una volta una frase di Gesù’”. Lui, prete, si è scusato per essersi fatto scappare una frase di Gesù invece che di Gaetano Salvemini! Sì è scusato per l’eventuale equivoco e confusione che avrebbe potuto ingenerare nella folla di comunisti trinariciuti, arcobalenisti, pacifinti, cattolici adult(erat)i e post-cattolici adult(erin)i, dicendo qualcosa di cristiano, invece che, magari, di sociologia fatta in canonica; se ha citato Cristo, invece che, chessò, il Dalai Lama. La verità è che è un uomo e un prete nato vecchio, è il seminarista sessantottino di sempre, progressista ma non aggiornato: è fermo ad arrugginiti luoghi comuni e sulfurei schematismi ideologici degli anni ’70. Quella poltiglia di “buoni sentimenti” e “sensibilità sociali”, umori viscerali e sociologismi, classisti e al contempo umanitaristi, che, proprio in quegli anni, nella Chiesa si trasmutarono in apostasia, con i preti contestatori; nella politica, in proiettili, con i terroristi: i primi volevano “liberare” la Chiesa e la “coscienza individuale”, i secondi il “popolo” e la “coscienza operaia”. Gli uni demolirono mezza Chiesa, gli altri mezzo Stato. Nel sangue molto spesso. E infatti vedi che in alcune nazioni, i primi si unirono ai secondi: ne nacquero i preti guerriglieri. E chiamarono tutto questo “teologia della liberazione”. Oggi abbiamo Libera. Dice l’amico Francesco da Bari: “Mafioso e omertoso. Per Libera questi termini equivalgono ad eretico e scomunicato, laddove invece legalitario ha preso il posto di santo, e sull’ambone invece che le Scritture trovi il codice penale. Il Padre eterno non è il Giudice, è un semplice presidente di corte d’Assise”. Sì, è vero. Come è vero che nella sua logorrea incontenibile, in questi 40 anni, c’è una sola parola che Ciotti non ha mai usato: “Cristo”. Abbiamo visto: gli è scappata una sola volta e se n’è scusato. Ma è un’altra la parola che non gli è mai “scappata”, che proprio non riesce a pronunciare, gli si blocca in gola: “peccato”! E tutto quello che ne deriva: pentimento, penitenza, conversione. E pur di non pronunciarla mai ha sostituito la parola “peccato” con quella di “reato”, “peccatori” con “mafiosi”, “colpa” con “imputato”, “confessore” con “magistrato”, “penitenza” con “pena”, “comandamenti” con “codice penale”, “legge divina” con “costituzione”, “convertito” con “pentito o collaboratore di giustizia”. Per lui, fermo com’è agli schemi arrugginiti degli anni ’70, non esiste il peccato individuale, ma solo la “colpa sociale”. Per questo, per non dover usare la parola “peccato” si è messo a marciare, ha sostituito le messe con le marce, la Chiesa con Libera, la coscienza cristiana con la coscienza civile (ridotta a farsa pure questa). Ed è così che gli sfugge la vera madre di tutti gli eccessi, l’origine d’ogni male: il Peccato. Che egli ha abolito motu proprio. Come mi scrive un mio amico, Vincenzo, riferendosi sardonico al Nostro: “Ma che confessione… non c’è bisogno: basta una chiacchierata mentre sei in un corteo!”.

DIO, IL GRANDE SCONOSCIUTO D’OCCIDENTE. Proprio adesso ascoltavo le parole del Papa, su Cristo che in Occidente è diventato il “Grande Sconosciuto”. E ho pensato al Ciotti che chiede scusa perché gli è scappato di citare Gesù. Dice Benedetto XVI: “Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede (…). E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso. In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? (…) In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio”.

“HO VISTO PEZZETTI DI CARNE SPARSI”. MA LO HA COLPITO SOLO “UN QUADERNO DI EDUCAZIONE CIVICA”. Due giorni dopo don Ciotti è a Cecina: essendo prete “da strada” batte tutti i marciapiedi della nazione. A parlare di se stesso. Dei suoi “secondo me”. Di fantasmi. Di carovane e associazioni acchiappafantasmi. Di Costituzione. Di tutto, meno che della sola cosa della quale dovrebbe parlare: di Cristo, del peccato, della conversione. Ho spesso informatori volontari, che mi si fanno vivi con notizie fresche che non ho richiesto ma che poi mi tornano sempre utili. Un amico di Cecina, infatti – dove il Ciotti è andato dopo Mesagne a “predicare” le meraviglie del costituzionalismo – mi manda un essenziale ed espressionista quadretto della situazione. Lascio a lui la parola. “Se ti interessa ieri il Ciotti ha raccontato un aneddoto sulla sua visita a Mesagne: ‘Ho chiesto alla scientifica di sorpassare l’area che avevano recintato, mi hanno fatto passare, sono rimasto impressionato dai pezzi di carne sparsi su tutto il piazzale, ma mi sono soffermato su un particolare: un quaderno scritto da una delle ragazze coinvolte nell’attentato, ho sfogliato le pagine ho trovato che avevano fatto una lezione sulla nostra Costituzione (aria commossa), sì, avete capito bene, avevano fatto lezione di educazione civica a scuola. È proprio da qui che il nostro paese deve ripartire‘. Standing ovation.” Chi ha ucciso, non ha violato l’apposito comandamento divino, no: ha violato la Costituzione; chi uccide non è un peccatore, ma un reo; non la dottrina, ma l’educazione civica. L’uomo si salva da sé attraverso le sue leggi e i suoi organigrammi, le sole cose che possano giudicare e salvare gli uomini. Dio è un attore impotente, e anzi, è giudicabile persino attraverso quelle stesse leggi. Se quelle leggi sono contro Dio, non sono sbagliate le leggi, è “sbagliato” o è stato “malinterpretato” Dio stesso. Cosa sta strisciando nelle vene di Ciotti, oltre al peccato di orgoglio, l’archetipo dei peccati, il primordiale, il primo che fu commesso e che ha lambito persino l’arcangelo Lucifero, precipitandolo dai cieli, e Adamo ed Eva, precipitandoli dal paradiso terrestre? Che cos’è a strisciare sibilante nelle sue vene se non il riemergere di antiche eresie, soprattutto gnostiche e pelagiane?

SOSTITUIRE IL DECALOGO CON LA COSTITUZIONE, IL CONFESSORE COL MAGISTRATO. Come avrete notato da voi stessi, non sembra particolarmente interessato ai “pezzetti di carne”: sono un dettaglio secondario ai suoi fini ideologici. Ciò che gli interessa è la Costituzione, il culto di quella carta giuridica che è il totem, il sancta sanctorum, il vitello d’oro dei nuovi pagani di oggi, i laicisti con corollario di post-preti “adulti” sino al punto di essere ormai anche post-cristiani. E qui viene fuori anche tutto il cinismo inconsapevole dell’ideologo. Erano un’occasione quei “pezzetti di carne” per riflettere e far riflettere sul Decalogo, sul peccato, la morte, gli assoluti. Ma no, gl’interessava impugnare il feticcio dell’ideologo, la “Carta”, la nuova Rivelazione: la Costituzione. Ossia una banalissima lezione scolastica di educazione civica in un istituto professionale, fatta alla meno peggio nell’ora prevista, immaginiamo nella totale catalessi degli studenti col pensiero rivolto alla campanella. Ma siccome il Nostro è un ideologo fermo agli anni ’70, non gli interessa la banale e demitizzante realtà dei fatti, il tran-tran quotidiano, le cose viste nella loro reale giusta misura, no: gli interessa la “bella idea”. E così nella sua testa dal capello sempre unto, quel quaderno di svogliati appunti della lezione di educazione civica, diventa una gran cosa, immagina studenti dall’acuto senso civico, novizi ardenti del neo-costituzionalismo pendenti dalle labbra dell’insegnante precario che gli annuncia le verità rivelate e le secrete cose che da quella Carta secernono. Immagina un popolo di giovani eroi, che, Costituzione alla mano, commossi e coraggiosi marciano invitti per tutta la nazione incontro alla Città del Sole, la nuova Gerusalemme della religione civile.

NON IMPORTA CHI È DIO, MA DA CHE PARTE STA”. IL MANCATO LEADER SOCIALISTA. L’amico di Cecina, infatti, aggiunge: “Riassunto della serata: Culto della Costituzione, dello Stato, della democrazia, della legalità (tranne che per la Bossi-Fini) e soprattutto della Scuola (statale, ca va sans dire); dice cose condivisibili (no alla mafia, all’illegalità) e mi parla male di Eminenze e sottolinea che senza lavoro non si è liberi. Parla con un certo carisma e ha ottime doti di recitazione e buona oratoria: sarebbe stato un ottimo leader del Partito Socialista Italiano. Slogan della serata: Non importa sapere chi è Dio ma da che parte sta, cantato da un menestrello napoletano con voce solista di un sacerdote toscano di Libera”. Non importa chi è Dio, ma da che parte sta. Naturalmente, non avendo più nessun connotato, essendo Uno Nessuno Centomila, amorfo e sfigurato come l’hanno fatto diventare questi qui, non può che stare da qualunque parte lo si voglia portare, “trascinato da tutte le parti secondo ogni nuovo vento di dottrina”, dirà il cardinale Ratzinger alle esequie di Wojtyla. Per questo don Ciotti lo sente sempre dalla sua. Il suo dio minore non è altri che il “secondo me”, la cui rivelazione è contenuta nella carta costituzionale, nuovo libro sacro. Egli ne è il cappellano. Non è un caso che l’ultima volta che l’ho incontrato, è stato davanti alla bara del sommo pontefice della religione fatta di carta… costituzionale: Oscar Luigi Scalfaro.

QUEGLI STUDENTI CHE MARCIANO PER MARINARE LA SCUOLA LECITAMENTE: SENZA FANTASIA, SENZA SINCERITÀ.  Vedo il tg e leggo l’Ansa a una settimana dalla tragedia di Brindisi. E noto con fastidio alcune cose. La prima è la canonicissima ennesima “marcia” all’italiana: la liturgia madre, la messa cantata del politicamente corretto di piazza, negli ultimi tempi. Che naturalmente si tiene nella città che ha dato i natali a me e a Melissa: Mesagne. Chi marcia sono gli studenti. E la prima cosa che ti domandi è se non sia (siamo realisti!) più un marinare la scuola e una scampagnata, per giunta illuminata da flash e telecamere. Basta fare un calcolo: una marcia che non significava niente e che pestava acqua nel mortaio, la si tiene un mattino di un giorno scolastico. Eppure potevano farla in un giorno festivo, o meglio ancora nel pomeriggio, quando le scuole son chiuse. E invece no. Quella marcia in cui dei brufoloni berciavano e blateravano di “mafia” senza una logica, un fondamento, e anzi con già pesanti indizi che la discolpavano del tutto, quella marcia lì priva di senso, un senso lo avrebbe avuto se il marciare avesse comportato anche un sacrificio: la mattina andare a scuola, il pomeriggio invece che andare in giro a cazzeggiare, impegnarlo per marciare. Così non è stato: dunque era, a mio avviso – ché studente brufolone pure io son stato, e ben le conosco queste babbiate – , un marinare la scuola. Con l’aggravante dell’ipocrisia. E del cinismo. Ma poi. Bastava guardare i loro slogan per capire che non erano sinceri: la solita roba usata da vent’anni in tutte le salse: “Io non ho paura”, “E adesso uccideteci tutti”, “La mafia è una montagna di merda”, “La mafia uccide, il silenzio pure” e bla bla bla. Slogan senza fantasia, solita frittata parolaia, solita minestra a merenda, pranzo e cena. Da qui t’accorgi che non erano sinceri: dalla mancanza di fantasia (oltre che dall’aver marinato la scuola). E’ quando le cose ti coinvolgono, le senti veramente, che la fantasia si scatena. Ma in questa stanca parata delle vanità? Questo usare a casaccio il solito repertorio ciottesco senza fare uno sforzo d’immaginazione, metterci del proprio, adattarlo al contesto, indica che non sapevano di che stessero parlando, che avvertivano l’artificiosità della situazione. Perché non erano sinceri. Sapevano bene che era tempesta in bicchier d’acqua, simulazione a uso e consumo dei media. Che di altro non si trattava che sindrome da marcite cronica, nella variante mediterranea di chiacchierite da antimafiosite mitomane.

È POLITICAMENTE SCORRETTO DIRE “LA MAFIA NON ESISTE”, ANCHE SE È VERO CHE NON ESISTE. Naturalmente, in questa marcia, c’era pure tutto il resto dell’armamentario giornalistico standard per i casi falsi o presunti di “mafia”. C’era pure in questa occasione un’altra volta don Ciotti a sbraitare nella Mesagne che mi ha visto nascere “contro la mafia”, “l’omertà”, “la gente che ha paura della mafia” e “tace”… e tace soprattutto perché di tutte quelle porcherie sopra elencate non ce n’è manco l’ombra, e quindi che deve dire? C’era pure l’immancabile altro classico della tv italiana, il solito giornalista imbecille e, direbbe Sgarbi, “raccomandato e rottinculo”, che accosta col microfono un povero vecchio che ignaro prende il sole davanti al BarSport a domandagli d’improvviso: “La mafia a Mesagne esiste?”. E quello cade dalle nuvole, ma avvertendo subliminalmente, dinanzi alla tirannia nazista del microfono sciacallo, che è politicamente scorretto dire che la mafia non c’è anche se è vero che non c’è, nell’imbarazzo tace, tanto se dicesse la verità, che la mafia a Mesagne non c’è non solo non sarebbe creduto, ma passerebbe pure per “omertoso”, forse “colluso” e certamente un poco “fascista”. E dalla sera alla mattina un contadino ottantenne che ha lavorato onestamente la terra per una vita, si troverebbe “uomo d’onore”; e infatti, l’altro vecchio, più spigliato, dice giustamente “io non l’ho mai vista”. Risultato: giornalista Rai grida ai quattro venti: “Aveva ragione don Ciotti, ecco la città mafiosa, la gente ha paura della mafia, l’omertà dilaga”. Retorica da antimafia delle chiacchiere. E che, chiacchierando chiacchierando, calunnia. Mesagne non è la prima vittima dei professionisti dell’antimafia delle chiacchiere: le sue vittime, più numerose ormai di quelle della mafia stessa, contano nomi sempre più eccellenti: da Andreotti a Berlusconi. Tutti, naturalmente, assolti con formula piena da tribunali non certo di destra. Mentre quelli che davvero torturarono in vita giudici come Falcone, per poi farselo “amico” appena saltato in aria, quelli non li processa nessuno, anzi, sono fra i massimi notabili dell’antimafia della chiacchiere: parlo per esempio di Leoluca Orlando, o anche del giornale la Repubblica. E infatti scopri che chi ha tentato di aiutare Falcone, con leggi durissime che la mafia l’hanno messa in crisi sino a spingerla a sparargli addosso e a passare allo stragismo terrorista pur di farsele abolire; che chi ha tentato di salvare per amicizia Falcone dall’orda infame, calunniatrice e vigliacca dei suoi colleghi magistrati rossi siciliani, sino a prospettarne la candidatura al Senato per la DC, per strapparlo a quell’ambiente avvelenato di futuri professionisti dell’antimafia delle chiacchiere e dei comizi, furono proprio due personaggi a loro volta perseguitati dai persecutori di Falcone: Andreotti e Calogero Mannino. Guardacaso gli stessi che poi i professionisti dell’antimafia dichiararono “mafiosi” e trascinarono, naturalmente senza una prova, in tribunale. Per sfregio, per odio ideologico. Guardacaso i soli (insieme a Martelli) su cui Falcone potè contare.

LA VERA MAFIA CHE PRETENDE OMERTÀ È QUELLA DEL PROFESSIONISMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. Da oggi, quindi, per bolla pontificia di don Ciotti, sommo pontefice dell’antimafia delle chiacchiere, l’attentato di Brindisi è opera della mafia, e la Mesagne che diede i natali al Mastino, ossia a me, è città di mafia. E non lo sapevo. Per riflesso condizionato, quindi, occhio e croce dovrei essere mafioso pure io. Potrebbe essere. Ma voi ve lo immaginate un Mastino “omertoso”?! E proprio perché non sono né mafioso né omertoso, la dico tutta: l’unica mafia, l’unico atteggiamento mafioso e che pretende omertà qualunque cosa dica o faccia, è proprio il professionismo dell’antimafia delle chiacchiere, con tutte le su “Carovane” donciottesche. Dulcis in fundo, leggo l’Ansa del 29 maggio, attenti alle sottolineature: Marcia della legalità a Mesagne (Brindisi), il paese di Melissa Bassi. ”Melissa – ha detto Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – è viva, anche se fisicamente non c’é più. Stamani al cimitero ho visto che qualcuno ha attaccato due pezzi di carta. C’era scritto: Melissa vive dentro di noi. Noi ci sentiamo un po’ tutti Melissa”. No, non è vero: i morti sono morti, morti per davvero per il mondo, fisicamente e prestissimo anche “dentro” tutti: solo i genitori si porteranno dentro un dolore che appartiene solitario allo scrigno del loro cuore. Tutto il resto sono chiacchiere. Se non sei una grande mistica, una grande leader, una maitre a penser, che ha segnato la storia, le cose stanno così: sei morta davvero. Mi fa schifo l’ipocrisia che dice le cose “che si devono dire” in determinate circostanze anche se non sono vere: l’ipocrisia sui morti, la menzogna invece della preghiera sparsa sui loro resti, sono sacrilegio e blasfemia.

DIO È LUI, DON CIOTTI. E “LIBERA” NE È IL SUO CORPO MISTICO, LA SUA CHIESA. Come vedete, Ciotti è capace di dire di tutto, persino cose tra il pagano e lo gnostico, purché abbastanza sentimentalistico e formato La Vita in Diretta; tutto, compreso che è “viva” e magari “dentro di noi”, anziché ammettere l’unica cosa che, da prete, avrebbe dovuto dire, la più semplice: “E’ morta, è risorta in Cristo, finalmente ha visto il Suo Santo Volto”. Non lo dice perché è fuori moda, perché in fondo non ci crede, perché se ne vergogna, perché in definitiva gli sembra irrilevante ai suoi fini. Soprattutto perché gli interessa il consenso dell’intellighenzia, delle platee, i galloni della cronaca. Gli applausi del mondo. E per ottenerli è necessaria l’apostasia silenziosa: che non consiste più (solo) nella negazione plateale delle verità cattoliche, quanto piuttosto nella rimozione discreta di Dio. Da ogni contesto. Dalla propria lingua, anzitutto. Perché Dio è lui, don Ciotti. E Libera ne è il suo corpo mistico, la sua chiesa. Costruita sulle sabbie mobili delle mode del mondo. Dello spirito del mondo, cioè. Che poi, come detto, è sempre Lucifero. Tra donchisciottismo e donciottismo non vedo la differenza: Don Chisciotte combatte contro tutti i mulini a vento, scambiati per mostri dalle braccia rotanti; don Ciotti pure, credendo però di combattere la mafia. Ho qui davanti a me Il Mercante di Venezia di Shakespeare. Lo sfoglio a caso e leggo, pensando immediatamente a Ciotti e a quelli come lui: “Le forme esteriori possono ingannare, sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa, non maschera il volto del male? Nella religione, quale colpa tanto maledetta che una fronte grave non la benedica e approvi usando un testo sacro, con una bella frase celando l’ignominia? Non c’è vizio elementare che non assuma qualche segno di virtù sulle sue parti esterne. Quanti codardi hanno cuori ingannevoli come gradini di sabbia, eppure portano sul mento la barba di Marte corrucciato e di Ercole, loro che, frugati dentro, hanno fegati bianchi come il latte. L’ornamento così, non è che l’insidiosa riva d’un mare periglioso, il velo sfarzoso che nasconde una bellezza barbarica: in una parola, la falsa verità che i tempi astuti indossano per intrappolare i più saggi”. Non a caso ho sotto gli occhi una frase rivelatrice di don Ciotti, a proposito della causa di beatificazione di Tonino Bello, suo omologo pugliese, con un curriculum simile: “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione”. Non c’è niente da aggiungere.

L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.

Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia, scrive Alessandro Gnocchi su  “Il Giornale". Domani arriva in libreria I Buoni di Luca Rastello. È il primo titolo di narrativa pubblicato da Chiarelettere, editore più noto per le inchieste giornalistiche. La collana «Narrazioni», che accoglierà titoli di Gianluigi Nuzzi (sul Vaticano) e Luigi Bisignani (sul direttore di un quotidiano, forse ispirato a Ferruccio De Bortoli) è in linea con lo spirito battagliero del resto del catalogo. I Buoni non mancherà di fare discutere, perché racconta in modo impietoso il mondo dell'associazionismo, del volontariato e soprattutto dell'antimafia. La vicenda ruota attorno a don Silvano, prete anti-cosche, uomo santo per definizione, (ex) predicatore di strada, paladino degli ultimi. Ma anche manipolatore, parolaio, condiscendente oggetto di idolatria, amico di politici e rockstar. L'antimafia esce, dalle pagine de I buoni, come un sistema non troppo dissimile, nei fini e nel linguaggio, alla mafia stessa. L'associazione di Don Silvano, che amministra i beni sequestrati ai clan, favorisce la «mafia» dei propri amici e utilizza i soldi pubblici per scopi privati. Mentre don Silvano recita omelie in memoria dei caduti sul lavoro, i dipendenti della sua onlus sono privati dei diritti elementari. Legalità e trasparenza valgono solo per gli altri. In casa propria ci si regola invece secondo convenienza. E se i bilanci sono truccati, amen. L'intimidazione, riassunta nella frase omertosa «ci sono cose che non sai», è lo strumento per zittire chiunque osi avanzare una critica. Chi manifesta dubbi, viene liquidato senza cerimonie. È il potere dei più buoni, così come lo cantava Giorgio Gaber, «costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni». Il finale apocalittico però suggerisce che il castigo (divino?) giungerà dalle mani di un criminale (un Cattivo, dunque). Il giornalista e scrittore Luca Rastello, tra le altre cose, ha esperienza di questo mondo, avendo lavorato per il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti in qualità di direttore della rivista Narcomafie. Adriano Sofri, sul Foglio, ha già messo in luce le analogie tra finzione e realtà, tra don Silvano e don Ciotti. I riscontri sono puntuali, dai luoghi fino all'arte oratoria passando per fatti di cronaca. Rastello in un'intervista a Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha spiegato che I Buoni è un romanzo, non un pamphlet, «un'operazione narrativa» che fa «riferimento alla realtà». Don Silvano, dunque, è solo don Silvano: «uso personaggi reali - dice l'autore - come paradigmi di un mondo, di un sistema di manipolazione, di sequestro delle coscienze, non come oggetto di denuncia indirizzato a qualcuno in particolare». Comunque la somiglianza con «i personaggi reali» non passerà inosservata, anzi: scatenerà un uragano che nasconderà i pregi del romanzo. Rastello propone una visione anti-retorica della memoria e della legalità. Ma più interessante è la riflessione sulla nostra dipendenza dai simboli e dalle icone. Don Silvano è un impostore. Come dice Andrea, uno dei protagonisti, «abbiamo bisogno di lui» perché abbiamo bisogno di «convivere col male, fingendo di combatterlo». Don Silvano è l'alibi, la consolazione, l'anestetico, la foglia di fico di una società senza slancio e dalla falsa coscienza.

LE CAROVANE ANTIMAFIA.

«Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi. Siamo arrivati a quaranta miliardi di euro». Lo dice il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso alla Zanzara su Radio 24 del 12 maggio 2012. «Poi su altre cose che avevamo chiesto, norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando». Ma chi voterà come sindaco di Palermo? «Un magistrato - dice Grasso A Radio 24 - non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Al primo turno delle comunali mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato e io le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Poi Grasso critica il pm Antonio Ingroia: «Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Come ha sbagliato ad andare a parlare dal palco di un congresso di partito (comunisti italiani). Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica». Un'intervista, quella al procuratore nazionale antimafia, che alcuni hanno letto come il preludio di un suo impegno diretto in politica. Ma la reazione dei magistrati di sinistra, (come quella di Marco Travaglio che li osanna) che sono poi quelli che detengono le redini della magistratura, o comunque che fanno più rumore, non si fanno attendere. Per Magistratura Democratica sono 'sconcertanti' le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso sulla politica del governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. «Sui sequestri -dice Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica- ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell'ordine e della magistratura. Dobbiamo ricordarci, in proposito, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia. Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune. Inoltre -continua- il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan. Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all'estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell'ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c'è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni. In altri termini -conclude Morosini- la politica antimafia del centrodestra ricorda piuttosto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza». «Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare - ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri - Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato.

Nella solita querelle, però Massimo Giletti nella puntata del 13 maggio 2012 ha reso omaggio a tre grandi figure della storia italiana, riaccendendo in tutti noi la voglia di non dimenticare. Persone come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Carlo Alberto Dalla Chiesa meritano, sempre e comunque, di essere ricordate. Anche se ormai sono passati diversi anni, le rispettive famiglie continuano a combattere per non render vana la morte dei propri cari. Purtroppo, per quanto possano cercare di andare avanti, i figli e le mogli di questi grandi uomini non riescono a cancellare in nessun modo il dolore e la paura di quei giorni. La loro vita è stata segnata indelebilmente perché il contatto diretto con la mafia li ha cambiati; probabilmente, alcuni non guarderanno mai più al futuro con occhi positivi, ma sono convinti del fatto che qualcuno, forse, lo farà al loro posto. Pertanto, è bene che esperienze simili non finiscano nel dimenticatoio perché anche le nuove generazioni hanno bisogno di sapere come agisce e come ha agito in passato la mafia. Ospiti della prima parte di Domenica In – L’Arena sono stati Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’ex ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, l’inviato del Corriere della Sera Felice Cavallaro, il magistrato Roberto Piscitello e il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, in collegamento da Palermo. Durante la puntata sono stati trasmessi vari filmati che ripercorrevano la tragica vicenda di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Certo, molti di quei video sono famosissimi ma, ugualmente, non sono passati indifferenti a nessuno degli ospiti in studio. Ognuno si è sentito in dovere di esprimere la propria opinione e soprattutto di mostrare il forte dissenso nei confronti dell’argomento ‘mafia’. Dal dibattito è emerso che, nonostante le numerose indagini, si sa veramente poco su come andarono ufficialmente i fatti; sembra quasi che si voglia nascondere qualcosa che, purtroppo, potrebbe essere illuminante per molte persone. La stessa Rita Dalla Chiesa, sul punto di scoppiare in lacrime, prima ha ricordato che al funerale non ha accettato le condoglianze e stretto la mano a nessuna autorità, compreso il Presidente Sandro Pertini; poi ha affermato che il giorno del funerale una donna disse a lei ed ai suoi fratelli in procinto di partire dal finestrino della macchina che “non siamo stati noi palermitani ad uccidere tuo padre”; infine ha affermato che, ancora oggi, non ha saputo alcuni particolari e alcuni nomi legati all’uccisione del padre; nonostante siano passati 30 anni non è cambiato nulla e alcuni punti della vicenda restano ancora oscuri. Sarà mica colpa della giustizia italiana e dei giudici che l'amministrano?

23 MAGGIO 1992. È il giorno della morte di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, ma anche degli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. La scorta, come viene sommariamente liquidata nelle cronache, quasi a negare loro un volto, un'identità, una storia. In realtà sono soprattutto questi uomini il simbolo di una guerra che ha già lasciato sul campo oltre mille vittime fra chi ha detto No. Il simbolo di una solitudine di cui lo Stato è stato spesso complice. "Chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange. Io come tutti ho paura. Ma non sono vigliacco, altrimenti me ne sarei già andato". Antonio Montinaro sapeva di rischiare scortando Giovanni Falcone. Il 23 maggio 1992 anche lui è morto a bordo della Fiat Croma che esplose a Capaci. Non ha mai mollato, così come non lo hanno mai fatto tutti quei magistrati, giornalisti e agenti di Polizia che hanno sacrificato la propria vita in nome della lotta alla mafia. Facili bersagli perché lasciati da soli a combattere. Uomini isolati e per bene, come lo erano il segretario del partito comunista italiano della Sicilia Pio La Torre, assassinato il 30 aprile 1982; Carlo Alberto dalla Chiesa, generale dei carabinieri e prefetto ammazzato il 3 settembre 1982; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, giudici saltati in aria il 23 maggio e il 19 luglio del 1992. La storia di queste morti ha cambiato la società degli ultimi 30 anni. E Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica, ha deciso di tornare a Palermo per raccontarle. Le ha racchiuse in un libro (ed. Melampo) e in un film documentario di Paolo Santolini: "Uomini soli". Il viaggio del cronista, che per trent'anni ha raccontato la Sicilia e la sua mafia, parte dal quadrilatero dei cadaveri eccellenti. Da quelle strade della città mattatoio dove, nei primi anni Ottanta, persero la vita Calogero Zucchetto, l'agente della mobile di Palermo che 'cacciava' latitanti, il magistrato antimafia Rocco Chinnici, Piersanti Mattarella, allora presidente della Regione Sicilia. I quotidiani di quei giorni titolavano "Palermo come Beirut". Ma, secondo Bolzoni, era peggio di Beirut. "Ricordo i luoghi, gli odori, le facce. Sono cose che non ho mai dimenticato. Palermo mi ha lasciato delle cicatrici. E non c'è anestesia che lenisca il dolore". Dove c'erano i morti, ora ci sono le lapidi e le croci. Un cimitero a cielo aperto dove i drammi privati sono diventati pubblici. Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano quattro italiani fuori posto. Personaggi veri per un'Italia fatta di trame, di egoismi e di convenienze. Quattro persone che facevano paura al potere. Troppo diversi e soli per avere un'altra sorte. Bolzoni lascia da parte le date, le carte dei tribunali e le sentenze. Racconta questi uomini per bene attraverso le voci degli amici, dei colleghi, dei familiari, e di tutti quelli che hanno lavorato al loro fianco. Restituisce così un'istantanea di quegli anni in un film empatico e mai retorico. E fa rivivere i protagonisti raccontando il dolore di chi era al loro fianco. Il primo uomo solo è Pio La Torre. Il 1 maggio 1982 il segretario del partito comunista italiano della Sicilia non era in Piazza Politeama tra le bandiere rosse, ma dentro una bara. "Era un grande rompicoglioni - ricorda il figlio Franco - la sua ossessione non era la mafia, era il riscatto del popolo siciliano. E Cosa Nostra era l'ostacolo maggiore". Nelle immagini del suo funerale ci sono le lacrime del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e del segretario del Pci Enrico Berlinguer, il dolore della famiglia e del popolo palermitano. Bolzoni era lì tra quei volti stravolti, i brividi e la paura. Era diventato un uomo pericoloso Pio La Torre, racconta il cronista. Si era messo in testa che essere mafioso doveva diventare un reato. "Palermo - diceva - è una città dove si fa politica con la pistola". Non si conosce il motivo preciso per cui fu ucciso. Ma a lui dobbiamo la legge sul reato di associazione mafiosa. Carlo Alberto dalla Chiesa era un generale che non piaceva al potere. "La mafia è cauta - disse in un'intervista a Giorgio Bocca, pubblicata su Repubblica - è lenta, ti misura, ti verifica alla lontana. Si ammazza l'uomo di potere quando si crea questa combinazione fatale: "È diventato potente ma si può uccidere perchè è isolato". Quando ancora i cadaveri del generale e della sua giovane moglie erano in macchina, un cittadino attaccò una cartello che recitava: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Il figlio Nando ricorda l'ultima vacanza trascorsa col padre, era l'estate del 1982 e lui si sentiva un uomo in gabbia. Cercava aiuto ma nessuno più gli rispondeva al telefono. Nella Palermo degli anni Ottanta si combatteva una lotta mafia personalizzata. Francesco la Licata, giornalista del quotidiano L'Ora, piangeva ai funerali delle vittime. "Ci sentivamo parte lesa. Eravamo sulla stessa barricata". Basti pensare che il commissario Cassarà usava la macchina del padre per i pedinamenti. Poi, però, anche Ninni morì il 6 agosto del 1985. "La storia peggiore è quella di Giovanni Falcone. Mi disse che si sentiva seviziato", racconta Nando dalla Chiesa. Un altro uomo lasciato solo. Faceva tremare la mafia e per questo fu ammazzato. Cercava di schivare i tormenti, ma erano i suoi stessi colleghi a guardarlo con sospetto. È stato celebrato come eroe nazionale solo quando è finito nella tomba. Leonardo Guarnotta, presidente del tribunale di Palermo, ex giudice del pool antimafia, torna nel bunker dove lavorava con Falcone e Borsellino. Lo fa dopo 17 anni e si commuove: "Qui è tutto come prima. Che rabbia pensare che Giovanni e Paolo non possono sapere come è cambiata la società dopo la loro morte". Morì 55 giorni dopo l'amico Giovanni Falcone. Paolo Borsellino fu tradito e venduto. L'amica magistrato Alessandra Camassa ricorda di averlo visto piangere. Sapeva di essere diventato un bersaglio e che a Palermo era arrivato l'esplosivo anche per lui. Era il 19 luglio 1992 quando una autobomba esplose in via D'Amelio, sotto casa della madre. Letizia Battaglia, che ha fotografato i morti delle stragi per il quotidiano L'Ora, ricorda i pezzi di carne sparsi dappertutto. "C'era chi piangeva, chi gridava. Mamma mia che cosa abbiamo avuto. Basta Attilio. Basta".

La Torre, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. Quattro uomini soli, uomini di Stato: uccisi dalla mafia e dallo Stato.

Gli omicidi del segretario del Pci siciliano e del generale nell'82; quelli dei due giudici nel '92. Oggi, venti o trenta anni dopo, ci sono ancora molti misteri sulla loro uccisione. Però sappiamo perché li volevano morti. La testimonianza di Attilio Bolzoni su “La Repubblica” in occasione dell’ennesima ricorrenza.

«Quella mattina sono anch'io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un'altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita. Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: "Ninni, cosa sta succedendo?". Mi risponde, l'amico poliziotto: "Siamo cadaveri che camminano". Un fotografo aspetta che loro - Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino - siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent'anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l'altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati. Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell'uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso parlamento dell'isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.

Chi è l'ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell'occupazione delle terre. È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L'agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari - come qualcuno mormora - si dovrebbe esplorare la "pista interna". Indagare dentro il suo partito.

Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni.

Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent'anni fa. Uccidono l'uomo che prima di tutti gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine pubblico ma "questione nazionale", il parlamentare che vuole una legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato. Chiede di strappare i patrimoni ai boss, tutti lo prendono per un visionario. Dicono che è ossessionato da mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di "rompicoglioni". Al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo.

Non fa in tempo a vederlo sbarcare, l'ammazzano prima.

Pio La Torre aveva conosciuto dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui segretario della Camera del lavoro dopo la scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all'altro in commissione parlamentare antimafia, uno deputato e l'altro comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà mai. Destini che s'incrociano in un'isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva il generale. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui. È il cinquantottesimo prefetto di Palermo dall'Unità d'Italia. L'hanno mandato giù "per combattere la mafia". Informa il capo del governo che non avrà riguardi per la "famiglia politica più inquinata del luogo". È la Dc di Salvo Lima e di Giulio Andreotti. Non gli concedono i poteri promessi, solo contro tutti Carlo Alberto dalla Chiesa resisterà per centoventi giorni. Il 3 settembre 1982 tocca anche a lui. E alla sua giovane moglie Emmanuela. Omicidio premeditato, annunciato, dichiarato. Omicidio fortemente voluto per chiudere un conto con un generale diventato troppo ingombrante. Una leggenda per i suoi carabinieri, una minaccia permanente per un'Italia che sopravvive fra patti e ricatti. Dicono che a farlo fuori è stata la Cupola. Come per Pio La Torre. Un alibi perfetto per seppellire e dimenticare un generale fatto a pezzi dallo Stato. Nei giorni precedenti al 3 settembre le sabbie mobili siciliane se lo sono divorato Carlo Alberto dalla Chiesa. Le prime pagine del giornale L'Ora, sono fotocopie con numeri al posto dei titoli: 81...84...87... Gli omicidi a Palermo dall'inizio dell'anno. L'11 agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fine mese l'inchiostro rosso si spande sulla foto dell'ultima vittima. Il titolo che va in stampa dice 100. "L'operazione da noi chiamata Carlo Alberto l'abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa", è la telefonata che arriva dopo una "sparatina" a Villabate. Una rivendicazione così a Palermo non l'hanno fatta mai.

Sembra un proclama terroristico. Una dichiarazione di guerra, in stile militare. Sono a Casteldaccia quando arriva quella telefonata.

Mi arrampico su una stradina che sale fino alla caserma dei carabinieri. Lì c'è già il capitano Tito Baldo Honorati, il comandante del nucleo operativo di Palermo. È davanti a un'utilitaria impolverata, la parte posteriore dell'auto è "abbassata", schiacciata verso l'asfalto. Ormai si riconoscono anche da lontano le macchine con un grosso peso nel bagagliaio. Significa che lì dentro c'è un uomo. Il capitano apre. È un "incaprettato", mani e piedi legati con una corda che gli passa intorno al collo. Quando i muscoli delle gambe cedono, la vittima finisce per strangolarsi. "È un altro regalo per il nostro generale", dice l'ufficiale mentre via radio gli arriva la notizia che è stato ritrovato un cadavere sulla piazza di Trabia. Ed è già morto anche lui - l'agguato a colpi di kalashnikov in via Isidoro Carini, una settimana dopo - Carlo Alberto dalla Chiesa, carabiniere figlio di carabiniere, nato a Saluzzo, provincia di Cuneo, Piemonte.

Dall'altro capo dell'Italia.

Palermo è laboratorio criminale e terra di sperimentazione politica, è porto franco, capitale mondiale del narcotraffico, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Il giudice Falcone indaga sui "delitti politici" siciliani, indaga sulla morte di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa.

Scopre tutto e niente. Sospetti. Trame. Mandanti sempre invisibili.

Palermo è dentro una guerra permanente. Poi, l'atto finale. Nel 1992. Il 23 maggio, vent'anni fa. Alle 17, 56 minuti e 48 secondi gli strumenti dell'Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di monte Erice registrano "un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci". Non è un terremoto. È una carica di cinquecento chili di tritolo che fa saltare in aria Giovanni Falcone. È il magistrato più amato e più odiato del Paese. Da vivo è solo. Da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte. Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata, in mezzo ai codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo italiano che mette veramente paura alla mafia. Prigioniero nella sua Palermo, è l'uomo che cambia Palermo. Porta i boss alla sbarra con il maxi processo. Vengono condannati in massa. Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati e tranelli governativi. Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. È celebrato come eroe nazionale solo quando è nella tomba. Mario Pirani lo descrive come l'Aureliano Buendìa di Cent'anni di solitudine, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte. Giuseppe D'Avanzo ricorda "l'umiliante sottrazione di cadavere" compiuta dopo la strage di Capaci. Chi l'ha violentemente intralciato in vita, lo invoca in morte. Ha cinquantatré anni e cinque giorni quando vede per l'ultima volta la sua Sicilia. Al suo funerale c'è una folla straripante nella basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo. Una pioggia violenta lava la città. Sono quasi le due del pomeriggio, la piazza adesso è deserta.

C'è solo un uomo, inzuppato, che avanza guardando nel vuoto. È Paolo Borsellino, l'amico e l'erede di Giovanni Falcone. Altri due uomini con lo stesso destino.

Nascono alla Kalsa a distanza di pochi mesi uno dall'altro, da ragazzini si rincorrono fra i vicoli, si ritrovano trentacinque anni dopo in un bunker di tribunale. Se ne vanno insieme, nella stessa estate. Cinquantasette giorni di dolore. Per il fratello perso e per uno Stato che tratta. Paolo Borsellino si sente abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell'ombra sta negoziando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Sa che è già arrivato l'esplosivo anche per lui. Si getta nel vuoto il procuratore di Palermo, assassinato da un'autobomba e dal cinismo di un'Italia canaglia che l'ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto. Il 19 luglio del 1992 salta in aria. Come Falcone. L'agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai. Dicono che è stata ancora la Cupola. È sempre e solo la Cupola che ha deciso la sorte di tutti loro. Così ci hanno raccontato. Così ci hanno portato sempre lontano dalla verità. Depistando. Inventandosi falsi pentiti.

Scaricando tutto addosso a Totò Riina e ai suoi corleonesi. Prima usati e poi sacrificati, sepolti per sempre nei bracci speciali. Trent'anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto morti Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. Vent'anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Sappiamo solo che erano quattro italiani che facevano paura al potere.»

In ogni città vi è un gruppo di malavitosi comuni, organizzati o meno, che si dedica alle più svariate attività illegali. I componenti fanno capo a ben distinte famiglie-clan criminali, a cui si aggiungono gli affiliati. Fanno notizia e sono perseguiti solo coloro i quali commettono reati di mediatica utilità o contro la sicurezza pubblica: omicidi, rapine, spaccio di droga e per il sol fatto di associarsi.

In ogni città vi è un sistema di potere non meno criminale, organizzato o meno, fatto da stimati insospettabili, che si dedica illegalmente ai destini istituzionali, politici ed economici della comunità. Questa cupola è composta dalle famiglie più note, blasonate e rispettate, che da sempre ricoprono i posti chiave della società. In loco caste, lobby, mafie e massonerie decidono chi e come deve diventare magistrato, avvocato quotato, parlamentare di rango, ecc.. Spesso sono i figli dei notabili del posto a ricoprire gli incarichi dei padri. Per fare ciò serve una rete di connivenze, di servilismo e di omertà. Per ricoprire certi ruoli non serve la raccomandazione: basta il nome. I reati commessi da costoro sono spesso attinenti l’amministrazione della cosa pubblica o l’economia. Essi intaccano le libertà dei cittadini, per questo sono più gravi e più subdoli, ma sono taciuti ed impuniti, essendo gli stessi autori ad occuparsene.

Molte volte tra clan criminali e le cosiddette buone famiglie vi è commistione negli affari, specialmente quando si tratta di spartirsi e gestire i miliardi di euro in opere pubbliche che piovano dai finanziamenti dello Stato e della Comunità europea.

A livello centrale vi è l'oligarchia degli alti burocrati. Secondo Galli della Loggia: Una invisibile supercasta.

Non è vero che il contrario della democrazia sia necessariamente la dittatura. C’è almeno un altro regime: l’oligarchia. E tra i due regimi possono esserci poi varie forme intermedie. Una di queste è quella esistente da qualche tempo in Italia. Dove ci sono da un lato un Parlamento e un governo democratici, i quali formalmente legiferano e dirigono, ma dall’altro un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali. I frequenti casi scoperti negli ultimi anni e nelle ultime settimane hanno aperto squarci inquietanti su tale realtà.

Non si tratta solo dell’alta burocrazia dei ministeri, cioè dei direttori generali. A questi si è andata aggiungendo negli anni una pletora formata da consiglieri di Stato, alti funzionari della presidenza del Consiglio, giudici delle varie magistrature (comprese quelle contabili), dirigenti e membri delle sempre più numerose Authority, e altri consimili, i quali, insieme ai suddetti direttori generali e annidati perlopiù nei gabinetti dei ministri, costituiscono ormai una sorta di vero e proprio governo ombra. Sempre pronti peraltro, come dimostra proprio il caso del governo attuale, a cercare di fare il salto in quello vero.

È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese). Designati dalla politica con un grado altissimo di arbitrarietà, devono in misura decisiva il proprio incarico a qualche forma di contiguità con il loro designatore, alla disponibilità dimostrata verso le sue esigenze, e infine, o soprattutto, alla condiscendenza, all’intrinsichezza — chiamatela come volete — verso gli ambienti e/o gli interessi implicati nel settore che sono chiamati a gestire. Ma una volta in carriera, l’oligarchia — come si è visto dalle biografie rese note dai giornali — si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.

Sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all’altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che possono diventare autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto d’interessi. E che attraverso doppi e tripli stipendi e prebende varie servono a realizzare redditi più che cospicui, a fruire di benefit e di occasioni, ad avere case, privilegi, vacanze, stili di vita da piccoli nababbi.

Se i politici sono la casta, insomma, l’oligarchia burocratico- funzionariale italiana è molto spesso la super casta. La quale prospera obbedendo scrupolosamente alla prima (tranne il caso eccezionale della Banca d’Italia non si ricorda un alto funzionario che si sia mai opposto ai voleri di un ministro), ma facendo soprattutto gli affari propri.

Chi ha cercato di indagare sul sistema parallelo criminale in Italia, infiltrato in tutti i gangli del potere Legislativo, Giudiziario ed Amministrativo, ha fatto una brutta fine: Falcone e Borsellino uccisi; Cordova e De Magistris allontanati. Io, Antonio Giangrande, cerco di riportare i fatti sottaciuti attinenti una realtà fatta da tante mafie. Non ho paura, mi hanno già ucciso, condannato, affamato. Cerco di parlarne ai posteri, perché i contemporanei mi hanno isolato.

Nella giornata dedicata al ventennale della morte di Giovanni Falcone, non abbiamo solo dovuto assistere a ostentazioni di amicizia da parte di coloro che da sindaci, giornalisti, uomini di partito, furono avversari spietati e calunniatori indefessi di Falcone e Borsellino, ma anche a una sorta di cerimonia incrociata, nella quale le autorità facevano diretto riferimento a Melissa Bassi, uccisa, e alle altre ragazze rimaste coinvolte nell’attentato. Eppure sull'attentato di Brindisi si brancola nel buio...

Nel giorno del ventennale dalla strage di Capaci tutta la sinistra celebra la memoria Giovanni Falcone. E in quei giorni "La Repubblica", quotidiano che alla sinistra è molto vicino, vende come supplemento al giornale "Uomini soli a Palermo". Si tratta di un film e di un libro, "un'opera civile necessaria per ricordare Falcone e Borsellino, troppi soli per avere un altro destino", spiegano promuovendolo. C'è però un elemento che stride. Un tassello fuori posto: nel 1992, il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, proprio pochi mesi prima dell'assassinio di Falcone, scriveva che il magistrato era "un comico del carrozzone televisivo, un guitto". L'articolo è del 9 gennaio 1992, firmato da Sandro Viola. Il titolo: "Falcone, che peccato...". Secondo l'autore, il magistrato fu preso da febbre da presenzialismo televisivo. L'attacco è durissimo. "Da qualche tempo - scriveva Viola - sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s'era guadagnato. Egli è stato preso infatti da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell'impulso irrefrenabile a parlare che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali". E ancora, l'autore si interrogava sul perché "un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista". Quattro mesi dopo, Falcone, sarebbe stato ammazzato sull'autostrada, a Capaci. Secondo Viola, in Falcone "s'avverte l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi". Ed è così, che nel giorno del ventennale della strage di Capaci, si scopre la "rimozione" operata da "La Repubblica". Sandro Viola, ai tempi, non venne toccato e mantenne il suo ruolo di editorialista. Ma oggi, effettuando una semplice ricerca online nell'archivio digitale di "La Repubblica", si scopre che l'articolo in cui veniva attaccato Falcone è stato rimosso, cancellato, è sparito. E' possibile recuperare ogni articolo di Viola, tranne - putacaso - quello del 9 gennaio del 1992. Il commento al vetriolo contro il giudice ammazzato dalla mafia, il commento che lo definiva un "guitto" da tv, un "presenzialista", si è volatilizzato. Ed è stato rimpiazzato dal cofanetto che di Falcone celebra la memoria.

Sinistra e Repubblica davano del "guitto" al giudice Falcone...Adesso i compagni lo osannano come "l'amico Giovanni", ma nel gennaio 1992 il quotidiano di Mauro lo massacrò: "Sempre in tv, incarna i peggiori vizi nazionali". E Leoluca Orlando disse: "Tiene nei cassetti le carte dei delitti eccellenti di mafia". Oggi, per la sinistra tutta, è «l’amico Giovanni». Perché, per dirla con De André, «ora che è morto la patria si gloria di un altro eroe alla memoria». Ma quando l’eroe Falcone era vivo, quando aveva bisogno di sostegno, perché «si muore generalmente perché si è soli», disse lui stesso, profeticamente, nel libro intervista a Marcelle Padovani Cose di Cosa nostra, altro che elogi, altro che osanna, altro che «amico Giovanni». Da Repubblica all’Unità, dal Pci alla Rete del redivivo neo sindaco Idv di Palermo Leoluca Orlando, persino qualche toga rossa di Magistratura democratica, tutto un coro: dalli a Falcone, tutti contro. La colpa, anzi le colpe? Diverse - dall’incriminazione per calunnia del pentito Giuseppe Pellegriti che accusò Salvo Lima, alla scelta di andare a Roma, al fianco dell’allora ministro di Giustizia Claudio Martelli, a dirigere gli Affari penali - riconducibili però a un unico peccato originale: l’essere, Giovanni Falcone, un magistrato tutto d’un pezzo, che non si lasciava influenzare da politica e umori di piazza, e che soprattutto, ai teoremi tanto cari a sinistra, preferiva una regola, così sintetizzata ancora in Cose di Cosa nostra: «Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio». Fare memoria, nell’anniversario della strage di quel maledetto sabato di 20 anni fa, è anche questo. Perché è facile, potenza della tv, ricordare Orlando che accusò Falcone di «tenere le carte nei cassetti» (accusa costata all’«amico Giovanni» di oggi un procedimento davanti al Csm), o il «Giovanni, non mi piaci nel Palazzo» di un altro retino doc dell’epoca, l’avvocato Alfredo Galasso, durante una storica staffetta televisiva antimafia, a un mese dall’uccisione di Libero Grassi, tra Maurizio Costanzo e Michele Santoro, a settembre del 1991. Ma pochi forse ricordano un articolo firmato dal blasonato Sandro Viola pubblicato il 9 gennaio del 1992 da Repubblica e adesso prudentemente rimosso dal sito internet del quotidiano di Ezio Mauro. «Falcone che peccato...», il titolo. Che non rende appieno l’attacco, durissimo, al magistrato che quattro mesi dopo sarebbe stato ammazzato sull’autostrada, a Capaci. «Da qualche tempo – scrive Viola nell’editoriale – sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato. Egli è stato preso infatti da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali». Viola si chiede «come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista». E attacca proprio Cose di cosa nostra, diventato dopo le stragi del ’92 una sorta di testamento morale di Falcone. «Scorrendo il libro-intervista – scrive ancora l’editorialista – s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi». Non che Repubblica non fosse in buona compagnia, quanto a “sinistri” attacchi. Paolo Borsellino, vittima anche lui (57 giorni dopo Capaci, il 19 luglio del ’92) di quell’estate di sangue, diceva che l’«amico Giovanni» (stavolta sì che la familiarità è autentica), aveva cominciato a morire quando il fuoco amico dei colleghi gli aveva sbarrato la strada nel 1988, alla nomina a procuratore capo di Palermo. Fu Magistratura Democratica - tra le toghe di sinistra si distinse Elena Paciotti, poi europarlamentare Pd - a guidare la crociata contro Falcone. E sempre il fuoco amico di sinistra e colleghi di sinistra sbarrò a Falcone, poco prima di morire, la strada alla nomina alla guida della neonata Direzione nazionale antimafia. «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché», tuonarono i compagni sull’Unità. Il tritolo di Capaci, poi, fece il resto. Quanti attacchi, quante amarezze da sinistra per l’«amico Giovanni». Attacchi che non si spengono, neanche dopo 20 anni. Al neo sindaco Leoluca Orlando - fu lui, da sindaco, a sposare nel 1986 Giovanni Falcone e Francesca Morvillo - Maria Falcone, la sorella del magistrato ucciso, ha mandato a dire, oggi: «Dica quattro parole: “Con Falcone ho sbagliato”».

La tragedia di Melissa Bassi dimostra ancora una volta la bassezza della nostra Italietta. Non quella Italia fatta di lavoratori che pagano le tasse e che si tolgono la vita quando non possono più sbarcare il lunario o dare un avvenire ai loro figli, ma quell’Italietta fatta da gente parassita che vive alle spalle della povera gente, finanziata dalle loro tasse. Gentaglia che rappresenta l'Italia in modo vergognoso. A tal proposito disgustato è il resoconto di Umberto Martelli su “Articolo Tre”. Ennesima caduta di stile, per una certa informazione italiana, che ha voluto cavalcare l'onda dell'attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi, pubblicando le immagini della cameretta e della prima comunione di Melissa Bassi, l'unica giovane vittima che ha perso la vita in quell'infame mattinata del 19 maggio 2012. Ormai l'Italia è abituata ad un'informazione di "qualità" "sensibile" alle disgrazie e al dolore delle famiglie. L'ironia è da sottolineare. L'Italia è anche abituata a vedere vere e proprie orde di affamati e bavosi giornalisti pronti a scorgere una lacrima sul viso di un genitore, infilandosi nelle vite private delle famiglie cercando di scattare fotografie struggenti, appostandosi notte e giorno di fronte alle abitazioni di parenti e amici con la speranza di cogliere la disperazione per poi rivenderla al suo affamato quanto cinico pubblico, come se fosse una merce priva di significato, rendendo vano il lavoro di quelle centinaia di giornalisti che del loro mestiere ne hanno fatto una missione e non un infame gioco, alla ricerca della verità e molto spesso della giustizia. Turismo dell'orrore così è stato soprannominato dagli stessi mezzi d'informazione che molto spesso sono gli stessi fautori, gli stessi promotori di questo turismo basso e becero. Di esempi ne possiamo trovare a decine ma senza dover andare a rivangare troppo nel passato possiamo citare ad esempio l'assassinio di Sarah Scazzi dove proprio alcuni tg nazionali e alcuni giornali hanno marciato sull'uccisione di una ragazzina portando davanti al portone della casa di Avetrana centinaia di "stupidi", e scusate il termine, italiani. Oppure il caso Cogne, piccolo paese valdostano che ha visto negli anni successivi al processo Franzoni l'aumentare di vere e proprie processioni da tutta Italia per vedere la villetta dove si consumò il delitto del piccolo Samuele ed infine le fotografie dei "turisti" all'Isola del Giglio di fronte al relitto della Costa Concordia dove perirono 30 persone per la smania di un comandante un po' troppo su di giri. Nessuno vuole imputare ai mezzi d'informazione tutte le colpe per il cinismo e l'ignoranza di molte persone, ma c'è da dire che in qualche caso la colpa è evidente. Per fortuna l'Italia reale è un'altra rispetto a quella virtuale plasmata dall'informazione mainstream, l'Italia reale è quell'Italia che oggi su Twitter e su Facebook ha voluto gridare la propria indignazione a tale informazione postando decine di commenti sui profili web di molte tv e giornali ei media al grido di "vergogna", poi prontamente eliminati dai raffazzonati social media editor della redazione che forse non hanno capito che al web il bavaglio è difficile se non impossibile metterlo.

Ed i magistrati in Puglia? Ne parla Marco Ventura su Panorama. Ed allora Parliamone. Scoppiano tre bombole di gas collegate tra loro dentro un cassonetto dell’immondizia all’ingresso di una scuola di Brindisi e muore Melissa Bassi, 16 anni. Veronica, accanto a lei, lotta tra la vita e la morte, e ci sono altri quattro feriti. Figli nostri, nel mirino. Un orrore inaudito. L’Italia sotto shock. Ci si aspetta da chi indaga serietà, concordia e efficienza. Nulla di più, nulla di meno. Che i magistrati facciano il loro lavoro, che si mettano in silenzio a cercare il colpevole, o i colpevoli. Che s’impegnino con discrezione senza tregua. Assistiamo invece ad uno spettacolo indecente. I titolari dell’inchiesta sembrano impegnati più a litigare tra loro, a lanciare messaggi confusi, a tenere conferenze stampa e a dare interviste televisive (ma dove lo trovano il tempo?). L’impressione è quella del solito protagonismo, delle solite vanterie sulla rapidità degli accertamenti investigativi. Del solito caos, delle solite polemiche, perfino delle solite accuse ai giornalisti (che si limitano a divulgare le notizie fatte trapelare dai palazzi di giustizia). Davvero non sentivamo il bisogno di questa babele di voci in libertà, di alti funzionari dello Stato che aprono bocca e danno fiato uno contro l’altro tra gelosie malcelate, e che neppure di fronte a morti e feriti rinunciano a manifestare il loro incontenibile super Ego. Che si avventurano in ipotesi da loro stessi definite “premature” (ma che combaciano con l’interesse di ciascuno ad appropriarsi dell’inchiesta). L’ennesimo scontro di potere. Parliamone. Parliamo del procuratore capo di Brindisi, Marco Dinapoli, che all’indomani della strage convoca i giornalisti e rivela l’esistenza di immagini buone per l’inchiesta, registrate da una telecamera, “che ci siamo andati a prendere”. E lo dice, scrive l’agenzia di stampa nazionale ANSA, “sottolineando che gli investigatori hanno lavorato a testa bassa per raccogliere tutti gli elementi che vanno raccolti subito, altrimenti sarebbero andati perduti”. Che sarebbe il minimo, per degli investigatori. E aggiunge che in quel video c’è l’identikit dell’attentatore, anche se ancora non ha un nome: un uomo di 50-55 anni, bianco, probabilmente italiano. Esclusa di fatto la pista della mafia o della Sacra Corona Unita, così come quella del terrorismo eversivo, il procuratore capo di Brindisi già delinea il profilo psicologico dell’uomo: “Una persona arrabbiata e in guerra con il mondo, che si sente vittima o nemico di tutti e che utilizza una simile occasione per far esplodere tutta la sua rabbia”. I cronisti capiscono che la cattura è questione di ore. Che in realtà il nome esiste già, il giallo è risolto. Invece, colpo di scena, arriva un magistrato importante almeno quanto il suo collega, il procuratore capo della procura distrettuale antimafia di Lecce Cataldo Motta, che visibilmente contrariato dichiara alle Tv l’esatto opposto: “Non siamo in condizioni di dire che è il gesto di un folle. Non c’è da capire soltanto il movente, ma ancora tutto”. E quasi nega che esista un video. Intanto, però, le immagini del presunto attentatore vengono divulgate. Finiscono su Internet, la stampa le pubblica. Averle diffuse fa parte della strategia investigativa? Non per Motta, anzi: “Pubblicare quel video può aver danneggiato le indagini”. Attenzione: se anche litigano tra loro, i magistrati son sempre pronti a puntare l’indice sui giornalisti. “Pubblicare il video”, dice Motta. Non “divulgare”. La colpa è di quelli che divulgano le notizie (facendo il loro mestiere), non di quelli che le spifferano (contravvenendo al proprio dovere). Tanto, alla fine sono sempre i cronisti a “enfatizzare le diversità di vedute”. Motta incorre pure lui nell’errore del collega, avanzando teorie, “è difficile che abbia agito da solo”. Ma, precisa, “è prematuro dirlo”. Allora perché dirlo? Perché straparlare? Parliamone, invece, noi che non solo possiamo, ma dobbiamo. I genitori di Melissa e degli altri ragazzi meritano indagini più serie, più discrete, un messaggio più coerente e istituzionale da parte di chi dovrebbe cercare la verità e non il palcoscenico. Chi dovrebbe lavorare sulla scena del crimine, non su quella dei media.

Guai a mettersi contro i magistrati, ma non scherzano nemmeno i giornalisti, famosi per la loro permalosità. Ma è ancor di più pericoloso mettersi contro la chiesa, specie quella militante di sinistra sorretta e promossa dalla CGIL.

Già. Ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera” con la sua schiera di sostenitori interessati, fruitori esclusivi dei beni confiscati alla mafia? Quel Don Ciotti e la sua creatura “Libera” osannata dalla stampa e dalla Tv ed a cui sono state dedicate sui servizi tv e sugli articoli di stampa più riferimenti e citazioni che alle Autorità presenti ed alla stessa Melissa.

Da una parte Marino Petrelli su “Panorama” spiega cosa è la Sacra Corona Unita e le sue possibili attinenze all’attentato. Melissa Bassi era nata a Mesagne 16 anni prima. Come Veronica Capodieci, e la sorella Vanessa, ricoverate a Lecce e Brindisi in condizioni gravi la prima, più stabili la seconda. Come le altre studentesse ferite nell’attentato all’istituto professionale “Morvillo Falcone”. Mesagne, città natale anche della Sacra Corona Unita. Da qui, l’allarme degli investigatori che inizialmente avevano pensato ad un collegamento tra l’attentato e la cosca malavitosa e avevano aperto un filone di indagini su quel pullman che portava le ragazze a scuola. Poi, la virata verso altre ipotesi e l’identikit che emergerebbe da un video tenuto ancora segretissimo dalla procura di Brindisi. Oggi il paesone di 27mila abitanti a dieci chilometri da Brindisi cerca di scacciare l’impronta mafiosa che subito i media hanno appiccicato sulle spalle scosse della cittadina, anche a seguito dell’episodio accaduto il 4 maggio con l’attentato alla macchina di Fabio Marini, presidente dell’antiracket locale. Cerca di “rompere questo silenzio senza indugi”, come ha dichiarato Don Ciotti nell’omelia della messa domenicale. È proprio lì che, nel 1981, è nata la Sacra Corona Unita (Scu), che nelle intenzioni di Giuseppe “Pino” Rogoli sarebbe dovuta diventare la quarta “stella” accanto alla mafia siciliana, la camorra napoletana e l’ndragheta calabrese. Sacra, perchè al momento dell’affiliazione il nuovo membro viene “battezzato” o “consacrato”. Corona, poichè nelle processioni si usa il rosario (appunto, una coroncina). Unita, per ricordare la forza di una catena fatta di tanti anelli. Come nel caso della liturgia mafiosa anche i pugliesi hanno la formula del giuramento che varia a seconda del clan. La Scu, al momento della sua massima espansione, era divisa in 47 clan, autonomi nella propria zona ma tenuti a rispettare interessi comuni a tutti i circa 1.600 affiliati. Il primo grado è la “picciotteria”, il successivo il “camorrista”. Seguono sgarristi, santisti, evangelisti, trequartisti, medaglioni e medaglioni con catena della società maggiore. Otto medaglioni con catena compongono la “Societa’ segretissima” che comanda un corpo speciale chiamato la “squadra della morte”. Recenti dati forniti dall’Eurispes dicono che la Scu guadagni 878 milioni di euro l’anno dal traffico di stupefacenti, 775 milioni dalla prostituzione, 516 milioni dal traffico di armi e 351 milioni dall’estorsione e dall’usura. Un giro d’affari di circa 2 miliardi e mezzo di euro. Secondo la Direzione investigativa antimafia, oggi la criminalità organizzata pugliese “si presenta disomogenea, anche in ragione della persistente pluralità di consorterie attive, molto diversificate nell’intrinseca caratura criminale e non correlate da architetture organizzative unificanti”. Con l’operazione “Last Minute” del 28 dicembre 2010, con la quale furono arrestati 18 tra capi e promotori della Scu, si riteneva di aver inflitto un colpo mortale alla criminalità organizzata locale. Lo scorso 9 maggio 2012, gli investigatori hanno portato a segno un altro colpo importante, arrestando, a Mesagne, 16 persone accusate di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, porto illegale di armi da fuoco, danneggiamento aggravato e incendio aggravato. E il 12 maggio 2012 è finita alla stazione Termini di Roma la latitanza di Roberto Nisi, ritenuto uno dei leader di un sodalizio criminale dedito al traffico di droga e alle estorsioni. Colpi duri inferti alla Scu, il cui terrorismo mafioso è stato scacciato in Puglia nell’ultimo decennio. In realtà, a San Pietro Vernotico, nel brindisino, c’era un gruppo chiamato dai media locali “i nipotini di Riina” perché usavano una violenza sempre esagerata, ispirata appunto al boss di Corleone. Gli esponenti di questo gruppo, arrestati in buona parte due anni fa, hanno assunto le pose della strategia corleonese diventando nel tempo sempre più pericolosi. Il pm Cataldo Motta ha dichiarato che “la loro pericolosità è legata principalmente alla capacità d’immagine ma anche a quella aggregazione di tutti quei piccoli malavitosi rimasti in circolazione. Oggi la Sacra Corona Unita non è in difficoltà, ha subito un cambiamento di pelle”. Intanto, un vile attentato ha portato via una ragazza del paese. Chi ha visto parlerà, dicono a Mesagne. Perché sarà meglio per gli assassini fare i conti con la giustizia dello Stato piuttosto che con quella della Sacra Corona Unita. I bambini non si toccano, neppure nel codice d’onore del peggior delinquente. Ma, codici a parte, Melissa non c’è più. E aveva soltanto sedici anni.

Quindi alla domanda: ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera”, la risposta la danno i cittadini di Mesagne attraverso il racconto di Mimmo Mazza sul “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La capitale dell'antimafia sociale (come la definisce il presidente della Carovana antimafia Alessandro Cobianchi) non ci sta. Listata a lutto in attesa dei funerali di Melissa Bassi, in programma oggi pomeriggio alle 16.30 nella chiesa madre alla presenza tra gli altri del presidente del Consiglio Mario Monti e del ministro dell'interno Anna Maria Cancellieri, Mesagne si ribella a chi utilizza l'attentato che è costato la vita alla 15enne studentessa dell'istituto professionale Falcone - Morvillo di Brindisi e ha provocato il ferimento di altre cinque giovani mesagnesi, per rispolverare antichi cliché, utilizzati venti anni fa per descrivere quella che era la capitale della Sacra Corona Unita. «Era» dice e sottolinea il sindaco Franco Scoditti. «Era anni e anni fa. Ora la storia è diversa, ora c'è una Mesagne che reagisce, che lotta e che lavora. Io e i miei cittadini proviamo dolore, sgomento e rabbia. Ma abbiamo anche voglia di cambiare, di dare una risposta ferma e immediata a quello che considero un atto barbarico. Ecco perché se da un lato ho proclamato il lutto cittadino in concomitanza con i funerali di Melissa, invitando i commercianti a rispettare questo momento di dolore collettivo, ho anche disposto che le scuole restino aperte. È giusto che il lutto sia vissuto dagli studenti nell'istituzione che è stata attaccata, che si parli di quello che è accaduto nelle scuole. Ci andremo noi amministratori, ci saranno i rappresentanti delle associazioni e tutti colori i quali sono portatori del messaggio di legalità perché la scuola è il primo presidio di legalità e democrazia». È stata una giornata di passione per Mesagne, e non solo per la calata di giornalisti provenienti da ogni dove (c'era perfino l'inviata del New York Times). Una giornata trascorsa in piazza. La mattina nella villa comunale per la tappa della Carovana della legalità con i discorsi, tra gli altri, del governatore Nichi Vendola e del presidente della Provincia Massimo Ferrarese. La sera in piazza IV Novembre, davanti alla chiesa matrice, nel cuore dell'incantevole centro storico, per la veglia di preghiera per Melissa voluta dal vicario don Pietro De Punzio. «Noi non ci fermeremo» dice Alessandro Cobianchi, coordinatore della Carovana, brindisino di nascita, e lo dice guardando negli occhi i ragazzi che gli sono davanti e che stringono tra le mani uno striscione con il nome di Melissa. «Ma per tutti la vera priorità è abbattere il muro della indifferenza e usiamo la solidarietà come antidoto alla violenza - dice dal palco Nichi Vendola - perché domani deve essere il giorno in cui bisogna pesare con attenzione le parole. Bisogna trovare le parole adeguate perché una generazione elabori questo lutto e riesca a pensare al futuro». Sono in tanti alle 21 del 20 maggio 2012, quasi in cinquecento, sfidando l'umidità e ignorando la finale di Coppa Italia, ad affollare piazza IV novembre. Accanto all'ingresso della chiesa viene esposta una gigantografia di Melissa. Ci sono famiglie intere, ci sono i giovani, gli amici di Melissa ma anche i ragazzi che pur non conoscendo la vittima dell'attentato, hanno voluto con la loro presenza testimoniare solidarietà e voglia di riscatto. «Avete fatto dono a Melissa - dice don Pietro, rompendo il silenzio - della vostra presenza. Facciamo fatica a credere e a sperare. Stiamo vivendo momenti terribili, perché la violenza sembra aver tarpato le ali alla speranza. la nostra città è stata colpita nel cuore nella parte più bella, nella voglia di vivere». Si parte con le parole di Giovanni Falcone: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». Perché perfino la più banale delle rassicurazioni impartite dai genitori - «mi raccomando, dritti a scuola» - ormai non assicura più la salvezza. E si chiude, una serata che Mesagne non dimenticherà perché proprio non si può farlo, con un canto quasi liberatorio, «Resta qui con noi», pensando a Melissa e rivolto al Signore e a chi si chiede dove fosse, sabato mattina, il Signore, mentre una mano criminale azionava l'innesco della bomba che ha ucciso Melissa e ferito le sue amiche. Era lì, tra di loro, ustionato da tanta ferocia.

Ed ancora alla domanda: ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera”, la risposta la danno i cittadini di Mesagne attraverso il racconto di Tonio Tondo sempre sulla Gazzetta del Mezzogiorno che dà voce ai Mesagnesi. «È guerra tra Stato e mafia e le vittime siamo noi». La gente del centro storico non si schiera, anzi non ha timore di scrivere su due improvvisati striscioni quello che pensa. «Qui siamo tutti d’accordo - sostiene Immacolata Doria, 42 anni, madre di una bambina di 11 anni -, la frase l’ho scritta io con il consenso degli altri». «Dia retta a me - aggiunge poi sicura -, la Sacra Corona Unita non c’entra proprio con questa storia di Brindisi, mai gli uomini della Scu hanno colpito le donne o peggio i bambini. I bambini sono sacri». Siamo in via degli Azzolino, la «strada longa» la chiamano i residenti, arredata con gerani e piante sempreverdi. I due striscioni sono collocati in piazzetta dei Giovanomo e all’ingresso della «strada longa». Piazza Orsini Del Balzo è a due passi, con il castello, palazzo Cavaliere e la chiesa di Sant’Anna, simboli del Barocco. In via degli Azzolino abita anche Franco Saponaro, detto Franco il coltivatore diretto, che ha condiviso l’iniziativa. Melissa era conosciuta. La ragazzina frequentava il laboratorio culturale del Comune, dove si ascolta musica e si può cantare, di fronte alla casa di Immacolata. C’è anche una radio libera. La famiglia Bassi vive in via Torre Santa Susanna, non lontano. Di Melissa si ricorda il sorriso. Gli striscioni si sono materializzati subito e con il consenso di tutti. Le parole farebbero pensare a una equidistanza tra Stato e mafia. Sembrano riecheggiare uno slogan politico degli anni Settanta e Ottanta («Nè con lo Stato né con le Brigate Rosse»), degli ambienti massimalisti della sinistra contigui con il terrorismo brigatista. La realtà di Mesagne ha una sua crudezza che va conosciuta e approfondita senza pregiudizi. Una realtà da scandagliare evitando gli schemi ideologici prefabbricati. Immacolata non si schiera con la criminalità e contro lo Stato, non esclude che l’attentato alla scuola Morvillo abbia una matrice malavitosa, ma se fosse così - aggiunge - «significherebbe che la follia assassina e la vigliaccheria hanno ormai vinto su tutto». Da quando la procura di Brindisi ha lanciato l’ipotesi di un «solitario» autore dell’attentato, a Mesagne il partito favorevole a questa tesi è uscito allo scoperto ed è cresciuto in poche ore, proprio tra la gente del centro storico. Ma la città si specchia e cerca di conoscersi attraverso la scuola Morvillo Falcone: la parte socialmente più debole ha sempre guardato a questa scuola come l’immagine della propria inadeguatezza sociale, ma anche come riferimento di un riscatto. Fisicamente la scuola è a Brindisi, ma la sua testa e il suo cuore pulsante sono qui, nel retroterra della provincia. Metà delle 630 alunne è di Mesagne, l’altra di Latiano, Oria e San Vito. Giancarlo Canuto, vice sindaco e professore di religione, ha insegnato all’istituto professionale fino a due anni fa. Conosce la sua storia e si commuove quando il discorso si sposta sulle ragazze. «Tra quei banchi si può conoscere e studiare la società di Mesagne, anzi le due società, quella dei figli delle famiglie più modeste, e però radicate sui principi di onestà e sacrificio, e l’altra, quella grigia, di famiglie anch’esse modeste ma disgregate e a rischio». Massimo Basso, papà di Melissa, lavora con una impresa edile di Taranto. Lavora sodo in questi tempi di paura. «E’ una famiglia che ha fatto enormi sacrifici per Melissa» - dice un operaio che ha lavorato con Massimo. Il papà di Veronica Capodieci, la ragazzina che lotta contro la morte, è un piccolo imprenditore nel campo del movimento terra. «E’ lontanissimo dagli ambienti malavitosi», osserva un giovane di Libera. Tra le ragazze ferite, qualcuna proviene da famiglie con precedenti penali. Le due dimensioni hanno quindi riferimenti anagrafici e culturali precisi: una parte non s’indigna, anzi parteggia, con le famiglie della zona grigia, a volte a rischio criminalità; l’altra, attenta ai temi della legalità. Canuto ricorda gli anni del maxiprocesso a Brindisi con le ragazze divise in due gruppi. Quando arrivavano i cellulari con i detenuti nell’aula del vicino tribunale c’era chi parteggiava per i detenuti, e chi difendeva poliziotti e magistrati. «Mai ci sono state contrapposizioni violente. La violenza stava fuori dalla scuola».

Quindi parlare di mafia significa dare spazio a quella componente politica-sociale che si definisce “antimafia” e serve a fargli propaganda e a far sentire la solita tiritera: «Tutti dobbiamo rompere l'omertà, i silenzi, le complicità. Dobbiamo avere il coraggio delle nostre azioni. Il cuore ci deve dare la forza». Lo ha detto don Luigi Ciotti nell'omelia che ha tenuto durante la celebrazione della messa che si è svolta nella cattedrale di Mesagne il 20 maggio 2012 per ricordare la 16enne Melissa Bassi morta il 19 maggio nell'attentato di Brindisi e tutte le ragazze rimaste ferite. Dopo la celebrazione della messa c'è stata una manifestazione organizzata dalla Carovana nazionale contro le mafie. In apertura un lungo applauso è stato dedicato al papà e alla mamma di Melissa. All'iniziativa hanno partecipano il presidente nazionale della Carovana, Alessandro Cobianchi, don Luigi Ciotti, il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, i sindaci di Mesagne e di Brindisi, Franco Scoditti e Mimmo Consales, e il presidente della Provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese.

Già, la Carovana nazionale contro le mafie, i "buoni" (politici e sostenitori di sinistra, sindacalisti e uomini di chiesa, magistrati, giornalisti) contro i cattivi (tutta la gente comune, specie se di orientamento liberale e moderato). Carovana organizzata da quando nel 1992, a distanza di 57 giorni l’uno dall’altro, morivano uccisi dalla mafia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E nel 2012 i 2.600 ragazzi che si imbarcheranno da Civitavecchia sulle due navi della legalità ribattezzate, per questo anniversario, “Giovanni” e “Paolo”, non erano nemmeno nati. Ma il 23 maggio, insieme ai loro coetanei palermitani, alle istituzioni, le forze di polizia, i magistrati, la società civile, saranno a Palermo per ricordare quel giorno e ribadire, con forza, il loro “No alla mafia”.

Già, basta essere però di una parte politica. Perchè la lotta alla mafia è una lotta di parte e di facciata. Ad accompagnare i ragazzi in partenza da Civitavecchia, tra i quali anche due compagne di classe e altre otto delle stessa scuola di Melissa Bassi, la 16enne uccisa sabato mattina 19 maggio 2012 nell’attentato di Brindisi davanti all’istituto intitolato proprio a Francesca Morvillo, sarà colui che fu il braccio destro di Giovanni Falcone, il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso. Quel Piero Grasso tanto vituperato dai suoi colleghi magistrati. Così come lo fu Giovanni Falcone in vita. Già povero Grasso, ma a difenderlo ci pensa Stefano Zurlo su su “Il Giornale”. Così va il mondo, ci eravamo persi qualcosa e ora è Marco Travaglio a spiegarci la vera storia dell’antimafia militante, dopo averci già proposto negli ultimi quindici anni la vera storia di Cosa nostra. Semplificando, tutti e due i fiumi portano a Silvio Berlusconi. Dunque sul Fatto quotidiano il Travaglio furioso ha messo a posto lo spudorato Grasso che a Radio 24, nel corso del programma La Zanzara, aveva riconosciuto a Berlusconi quel che è di Berlusconi e del suo governo: i meriti, alcuni meriti, nello lotta a cosa nostra. Eresia. Scandalo. Pianto greco. E allora il Travaglio sempre più furioso, invece di interrogarsi sul perché di quelle parole, le ha ricoperte di fango. Fango retrospettivo, fango capace di rovinare una carriera intera, fango che si attacca addosso. Sia chiaro: ci sono magistrati che non godono di una claque perenne, semplicemente perché fanno il loro lavoro, con discrezione. Alla Grasso, per intenderci: non c’è bisogno di strappare loro l’aureola perché nessuno l’ha mai appoggiata sulle loro teste. Altri giudici invece, al solo pronunciare il nome, vengono venerati come i santi. Due pesi e due misure. Pazienza. E allora Travaglio ha fatto di più: ha dipinto Grasso come un verme che striscia alla corte di Silvio e quando più gli serve, nel 2005, nei mesi in cui si deve nominare il nuovo procuratore nazionale, al posto di Piero Luigi Vigna, prossimo alla pensione, e due sono i contendenti: Grasso e Caselli. Due facce complementari della magistratura: Grasso è l’icona della normalità, Caselli è l’icona della magistratura militante. Ci eravamo persi però che Grasso fosse un verme. La sua colpa? Aver sfruttato le trame di Palazzo che, secondo il solito Travaglio, hanno accompagnato la sua elezione. Ecco, per il Fatto ci furono manovre e contromanovre per tenere alla larga da quella stanza Caselli e la compagine berlusconiana fra decreti e contorcimenti, le studiò tutte per affossare Caselli e mandare avanti il rivale. Non che non ci furono pressioni e schieramenti e divisioni, nella politica e nella magistratura, per quella poltrona come per tante altre. Stupisce però che si possa colpire così una persona perbene, fino a prova contraria, e si legga quella sofferta incoronazione come la didascalia di quella frase alla radio. Se non sbagliamo, e non sbagliamo, l’obliquo Grasso è lo stesso magistrato catapultato come giudice a latere al leggendario maxiprocesso, quello imbastito a Palermo contro la bellezza di 475 mafiosi e chiuso, dopo una camera di consiglio lunga come un conclave, con decine di ergastoli. Grasso, sì sempre lui, è lo stesso magistrato cui Giovanni Falcone, sì proprio Falcone, dice: «Vieni, ti presento il maxiprocesso», come il procuratore racconta nel suo freschissimo e a tratti commovente Liberi tutti (Sperling & Kupfer). Grasso, sì ancora lui, è lo stesso magistrato che rischia di saltare in aria quando i picciotti di Cosa nostra lo avvistano insieme a Giovanni Falcone, ancora lui, e a tre giornalisti - Attilio Bolzoni, Felice Cavallaro e Francesco La Licata - in un ristorante di Catania. Peccato che Travaglio ignori questi fastidiosi dettagli e tanti altri. Anzi, no. Uno va divulgato, come ha fatto lo stesso procuratore con Tiziana Panella per Coffee break su La7. L’11 aprile 2006 quando viene catturato un certo Bernardo Provenzano, Grasso, pm fino al midollo, non si perde in proclami e conferenze stampa ma prova, da siciliano a siciliano, a prospettargli una collaborazione con lo Stato. Tanto che l’altro, disorientato, vacilla un istante prima di rispondere: «Sì, ma ciascun nel suo ruolo». Oggi Grasso guarda a quel passato che a Palermo è scritto nelle lapidi e replica: «Se penso alle delegittimazioni che in vita hanno subito Falcone e Borsellino mi sento fortunato». Chapeau.

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli 'attacchini' del comitato Addiopizzo, 'i nipoti di Libero', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

LOTTA ALLA MAFIA: IPOCRISIA E DISINFORMAZIONE, OSSIA LOTTA DI PARTE O DI FACCIATA.

Secondo Filippo Facci su “Libero quotidiano” i soliti quattro scemi attendono la venuta di una nuova normativa anti-corruzione come se il problema stesse tutto lì, in una legge: e non in chi dovrebbe applicarla. Eppure uno come Piercamillo Davigo, che in genere viene citato per bastonare la classe politica, ha già evidenziato dei dati sorprendenti nel suo libro «La corruzione in Italia» scritto a quattro mani con Grazia Mannozzi. L’ex pm di Mani pulite ha spiegato che negli ultimi decenni la maggior parte delle condanne per corruzione sono intervenute a Milano, Torino, Napoli e - molto distanziata - Roma, che pure ha una giurisdizione vastissima; mentre in ben tre corti (Cagliari, Caltanissetta e Reggio Calabria) il dato è inferiore alle dieci condanne. «Stando alla rappresentazione giudiziaria», ha scritto, «la corruzione in alcune regioni d'Italia non esiste e non è mai esistita, e ciò mentre si susseguono, al riguardo, denunce circostanziate e precise».

Questo evidenzia due cose, forse. Una è che indagare dove c'è la criminalità organizzata è senz'altro più difficile. Ma la seconda è che la magistratura, oltreché della soluzione, fa parte del problema, fa parte del Paese, talvolta fa parte addirittura della corruzione. La quale abbonda non tanto dove ci sono le inchieste che la scoprono, come accade in Lombardia e dove pure indagano con le vecchie e care leggi; abbonda dove la pace regna sovrana. Molte competenze sono variate con l’istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958, che ha sottratto al ministro di Grazia e Giustizia, tutti i poteri in relazione al reclutamento, nomina, trasferimento, promozioni, sanzioni disciplinari e dimissioni dei magistrati, tanto ordinari che onorari. Per combattere non contro i mulini a vento come don Chisciotte, ma contro la ‘ndrangheta, i colletti bianchi, la borghesia mafiosa, la zona grigia, l’imprenditoria collusa e corrotta, i servizi segreti deviati, la massoneria. Agostino Cordova, procuratore capo della Repubblica di Palmi ci provò: firmò, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata.

Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni. Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Fioccarono come la neve a Madonna di Campiglio le interrogazioni parlamentari e le interpellanze, luogo comune, e venne… “promosso” alla Procura di Napoli, quarta città d’Italia; scusate se è poco. Promoveatur ut amoveatur (sia promosso affinchè sia rimosso). E dovette mollare barca, vela ed ormeggi. Ma il Gran Maestro venerabile, Giuliano Di Bernardo, lasciò il Grand’Oriente denunciandone le deviazioni. Il gip Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, archiviò tutta la sua indagine per l’assenza di “elementi significativi e concludenti in merito ai reati ipotizzati”. Una pietra tombale su nomi e vicende. Strumentale allontanamento dalla Procura di Palmi, ben documentato in “Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica” di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con la prefazione di Stefano Rodotà e una postfazione di Agostino Cordova, edito da Rizzoli (1994). Tutto bene in Campania, finchè non mise il naso nella tangentopoli napoletana… Finchè non si mise contro il “re di Napoli” Antonio Bassolino, sindaco di sinistra, protetto da giornali di sinistra, politici di sinistra, giudici di sinistra“; finchè non fece quelle famigerate dichiarazioni all’Antimafia sui colleghi della Procura e dell’ufficio Gip …”Andai avanti, non me ne curai molto. Nel 2000, il Csm mi diede atto della “mia notevolissima capacità professionale”. Che avevo condotto “la Procura di Napoli a un’efficienza organizzativa mai raggiunta in passato” e che ero “un magistrato inquirente insensibile a pressioni condizionamenti o attacchi di qualsiasi tipo e genere”. Eppure un anno dopo, partì il trasferimento e fui espulso”. Defenestrato. Silurato. Epurato, in nome della “incompatibilità ambientale”, da quello stesso CSM, che prima lo aveva osannato con un elogio cerchiobottista. Quello stesso CSM, che lo…”promuoverà” Consigliere di Cassazione e lo trasferirà a Roma.

Un altro giudice (come il padre, il nonno ed il bisnonno) Luigi de Magistris, fu accolto in Calabria a Catanzaro, riverito, omaggiato, ringraziato ed idolatrato. Bravo, bravissimo, illuminato, terzo, obiettivo, lungimirante, deciso, fermo e risoluto, campione della legalità ed altra aggettivazione altisonante. Ma quando decise di mettere il naso nelle logge massoniche, nelle cupole mafiose, nei comitati d’affari, (Poseidone, Why Not, Toghe Lucane, SbP), un terremoto giudiziario simile ad una tangentopoli, invischiati: premiers, generali, ministri, segretari nazionali dei partiti, Governatori, avvocati, magistrati, imprenditori, funzionari ecc. fece la fine di Cordova. Anzi peggio, perché fu pure inquisito e rinviato a giudizio. Difeso a spada tratta dal Movimento “E adesso ammazzateci tutti”, galvanizzato da Aldo Pecora. Fecero epoca e cronaca gli scontri fra le Procure di Catanzaro e di Salerno con uno tsunami bis. Trasferito anche lui a Napoli, per incompatibilità ambientale, su richiesta del ministro della Giustizia, in illo tempore, Clemente Mastella; che combinazione! Come pure il procuratore capo della Repubblica di Catanzaro, Mariano Lombardi, trasferito a Messina e rinviato a giudizio, ma non prese mai servizio. Preferì di mettersi in pensione. E poco dopo morì, ma per un male, ribelle ad ogni cura. Aveva 76 anni. Era stato alla guida della procura calabrese per circa 40 anni. Luigi De Magistris, fu eletto dapprima sindaco della città partenopea e poi europarlamentare nientemeno, (secondo candidato più votato d’Italia, dopo Silvio Berlusconi, con 415.646 preferenze); magari fra poco, anche deputato o senatore. Luigi De Magistris, intanto, pure rinviato a giudizio, si è dimesso dalla magistratura. Valle di lacrime anche per un altro giudice in gonnella, pure lui, anzi lei, trasferita, alla procura di Cremona, come giudice ordinario, per incompatibilità ambientale.

Donna di grande coraggio, che assurse alla cronaca con la famosa inchiesta sulle scalate bancarie dell’estate 2005. Unipol, che faceva capo a Consorte e Sacchetti; personaggi vicini all’ex Pci-Pds-Ds, che tentò la scalata a Bnl. Assieme a Fiorani, presidente della Bpi; appoggiato dell’allora governatore di Bankitalia Fazio.Il segretario dei Ds,del tempo, Piero Fassino si lasciò sfuggire la battuta galeotta, “Finalmente abbiamo una banca”, che scatenò l’inchiesta. Ma poi, dopo le palate di fango e tre anni d’inferno, il CSM, si è dovuto rimangiare tutto e restituirle l’onore e le funzioni di Gip a Milano. Giusta decisione e sentenza del TAR e del Consiglio di Stato. Clementina Forleo, che ospite della trasmissione tv ‘Annozero’ affermava: «Quando il re è nudo e si ha il coraggio di denudarlo, dove per re intendo i poteri forti, il potere politico, il potere economico e lo stesso potere giudiziario, il giudice è solo. “Chi tocca i fili muore”» -  alludendo al potere politico: Latorre, D’Alema (che si fece scudo dell’immunità di europarlamentare), Fassino?. Un brutto film… “La Prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, delibera all’unanimità l’apertura della procedura per incompatibilità ai sensi dell’art. 2 della Legge sulle Guarentigie nei confronti della dott.ssa Maria Clementina Forleo, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano. In relazione a situazioni di grave disagio determinatesi nell’ambiente nel quale ella svolge le proprie funzioni giudiziarie e a dichiarazioni pubbliche rese dal magistrato relativamente ad interferenze ed intimidazioni istituzionali subìte, che non hanno trovato riscontro nell’istruttoria svolta”. Il Vicepresidente della Commissione, prof. Letizia Vacca, disse alla stampa … “Le sue dichiarazioni hanno creato preoccupazione negli ambienti giudiziari e sono state lesive dell’immagine dei magistrati di Milano, che si sono sentiti offesi. La situazione appare completamente diversa da come è stata rappresentata da Forleo: non risulta nessun complotto e nessuna intimidazione”. Tutti segnali chiari, al di là di questa o quella storia, che dicono, che oltre un certo livello non si possa indagare. Chi lo fece, giudici coraggiosi, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita. Ma non si sfugge alla Giustizia Divina. Là, non ci sono coperture, nepotismi, raccomandazioni, minacce e pressioni o Logge di Stato che tengano. La società civile? C’è, ma non si vede. Collusa o codarda, subisce e tace.

Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica su “Il Giornale”  affermano che  il verbale al Copasir dell’ex braccio destro di De Magistris tira in ballo toghe e giornalisti per fughe di notizie "letali". Le accuse di Genchi colpiscono anche Annozero e i fratelli Ruotolo. L’audizione segretata al Copasir del super esperto informatico Gioacchino Genchi, a processo per abuso d’ufficio insieme all’ex pm Luigi De Magistris (la storia è quella dei tabulati telefonici di otto parlamentari controllati senza autorizzazione del parlamento) è una bomba. Rivela una vicenda di presunte, diaboliche, commistioni fra magistrati antimafia, protagonisti dello scandalo Telecom e giornalisti autori di scoop che Genchi definisce devastanti, letali, per le indagini sulla ’ndrangheta (strage di Duisburg, omicidio Fortugno, eccetera). L’ex braccio destro del pm De Magistris tira la croce addosso al numero due dell’Antimafia nazionale, Alberto Cisterna, ai pm calabresi Mollace e Macrì, scomoda e coinvolge giornalisti esperti come i fratelli Ruotolo, Guido (La Stampa) e Sandro (Annozero, poi Servizio Pubblico), e Paolo Pollichieni, ex direttore di Calabria Ora. Li mette tutti insieme nel frullatore e poi aziona l’interruttore. La miscela è esplosiva, con accuse da brivido di cui Genchi ripete di prendersi la piena responsabilità. A Genchi viene chiesto conto del perché vennero controllati anche i tabulati del procuratore Piero Grasso. L’esperto informatico parte da lontano, dall’inchiesta Poseidone, dalla teste Merante e dagli articoli che Pollichieni manda in edicola, col risultato che i traffici telefonici del cronista finiscono nel fascicolo. «Dal tabulato di Pollichieni viene fuori una serie di rapporti continui, quasi osmotici, con Cisterna. Con il dottor Mollace, con utenze della Dna, e tra Macrì e Mollace». Normale. «Ma vi è di più: lo scambio di cellulari, almeno quattro o cinque della procura nazionale antimafia con Pollichieni. Per scambio intendo che si sono scambiati le sim, i telefoni o entrambe le cose. È un rapporto telefonico che vi invito ad analizzare perché altamente preoccupante». Alcuni pm della Dda, prosegue Genchi, erano preoccupati dalle fughe di notizie sul pentimento di Novella nel caso Fortugno. Dai tabulati di Pollichieni, aggiunge Genchi, «emerse sostanzialmente questo rapporto continuo (coi magistrati) nelle fasi dinamiche dell’acquisizione della notizia del pentimento». E così anche per le fughe di notizie nelle indagini per la strage di Duisburg «che ha determinato l’interruzione di tutte le intercettazioni su persone di San Luca che si dovevano arrestare, che sono state rese latitanti e che probabilmente sono state uccise per intempestività di un’azione giudiziaria che è stata violentemente e bruscamente interrotta da quella fuga di notizie, di cui il protagonista ancora una volta è Pollichieni». La tecnica delle fughe di notizie, insiste Genchi, avveniva con la pubblicazione di anticipazioni su altri giornali «di chi le aveva recepite perché alcune giornalisti non hanno accettato il regalo, tipo l’immaginetta della santa che pubblica il giorno prima Ruotolo su La Stampa in un asse perfetto che ha collegato i due giornalisti di nome Ruotolo, e vi dirò moltissime cose sull’argomento. (...). In particolare a Ruotolo, che ritengo sia uno dei soggetti principali di questa vicenda, a tutto ciò che ha ruotato intorno all’asse Ruotolo come persona fisica della Stampa e il fratello, e questo anche il perfetto raccordo sincronico dell’articolo “Il Palazzo nelle mani del giudice” con la puntata di “Annozero” che era stata programmata. A questa trasmissione - continua il super consulente - io, il dottor Ingroia e altri amici abbiamo implorato De Magistris di non andare, per non prestarsi a quella che era una strumentalizzazione, anche dei giornalisti, per loro finalità, probabilmente anche nobili (quelle di Ruotolo sicuramente non lo erano, perché intendevano “realizzare”). Vi siete mai chiesti come mai il dottor Genchi non sia andato ad Annozero, nonostante tutte le volte che è stato invitato (solo una settimana dopo, il 5 febbraio 2009, Genchi sarà invece presente nella trasmissione di Michele Santoro)» mentre «non ho paura di andare a Matrix perché conosco l’onestà di Mentana, che so da che parte sta, non ho paura nemmeno dei mafiosi, perché so da che parte stanno. Ho paura di quelli che non sanno da che parte stare, mi spiego?». Genchi non si ferma. «Rutolo (Guido) c’entra perché è in rapporto organico con Pollichieni come fornitore di informazioni». Poi si lascia andare a incomprensibili considerazioni antropologiche: «Un medico mi ha spiegato che i gemelli, pur avendo due corpi e una struttura cerebrale autonoma, nel momento delle sinapsi mobili, ossia quando si realizza la massima evoluzione, hanno bisogno di essere insieme come nel grembo materno». E quando ti aspetti l’affondo finale per alcuni imprecisati «soggiorni in Calabria», Genchi torna sui suoi passi: «Secondo me i Ruotolo sono due persone per bene». Del giudice Mollace, il consulente dice che «ha utilizzato decine di cellulari (60-70, non conosco il numero preciso) ha poi denunciato il furto di uno di questi e se ne è fatti assegnare non so quanti dal Comune di Reggio Calabria». Guido Ruotolo, rintracciato dal Giornale, si dice incredulo. «È un delirio, sono cose insensate. Non voglio commentare. Domani mi tocca leggervi, poi andrò dall’avvocato e cercherò di capire come stanno effettivamente le cose». Pollichieni è più loquace: «È vero, facendo il giornalista ho rapporti con i magistrati e nessun rapporto con la ’ndrangheta. Le mie notizie non hanno rovinato alcuna indagine posto che per l’omicidio Fortugno/pentimento Novella (e lo scoop peraltro fu della Gazzetta del Sud, non mio) sono stati comminati 4 ergastoli, per Duisburg 6. Non sono mai stato imputato di nulla, mai ho ricevuto un avviso di garanzia, mentre lui si ritrova sotto processo. L’ho già citato in giudizio, ogni commento è assolutamente superfluo».

Ed ancora su “il Giornale” i rapporti ravvicinati di un certo tipo tra giornalisti e magistrati. Rapporti pericolosi che s’intersecano con fughe di notizie pilotate, scoop «criminali» e scambi di atti giudiziari, coperti dal segreto e non. Dal verbale bomba del superconsulente Gioacchino Genchi, segretato al Copasir, spuntano i nomi di Ilda Boccassini, del procuratore antimafia Piero Grasso, del suo vice Cisterna, dei pm calabresi Mollace e Macri, dell’ex capo degli ispettori Miller, di tante altre toghe controllate via tabulati. Rivelazioni devastanti quelle dell’esperto informatico Gioacchino Genchi che il 17 aprile 2012 sarà alla sbarra a Roma insieme all’ex pm Luigi De Magistris per rispondere dell’accusa di aver prelevato e utilizzato senza apposita autorizzazione i tabulati telefonici di Prodi, Mastella, Pittelli, Minniti, Pisanu, Gentile, Gozi e pure di Rutelli che quel 30 maggio 2009 guida l’audizione di Genchi in quanto presidente del comitato di controllo sui servizi segreti. Relazioni pericolose tra PM e giornalisti. L’anticipazione del sito Dagospia delle indiscrezioni raccolte dal settimanale Tempi invitano a spulciare nelle 150 pagine di audizione custodite in cassaforte. Nell’affrontare l’imbarazzante capitolo del perché si arrivò a controllare il traffico telefonico dell’ex capo dei Servizi segreti militari, Nicolò Pollari, Genchi si contrappone spesso ai presenti. Giura di non aver mai saputo che quell’utenza corrispondesse al numero uno dell’intelligence nonostante un preciso indizio uscisse, per tempo, dall’agenda elettronica del generale della guardia di finanza, Walter Cretella, perquisito da De Magistris. Gli domandano: «Quando lei ha visionato, come esperto della procura, la rubrica del generale Cretella e ha letto “Gen. Pollari” non le è venuto il dubbio che si trattasse del generale Pollari del Sismi?». Risposta lapidaria: «No». Seguita da altra singolare puntualizzazione: «Ho saputo che il tabulato era il suo solo quando l’hanno scritto i giornali». E nel mentre la discussione prosegue, da un lato, sul perché ci si concentrò tanto sul numero uno di Forte Braschi che nulla c’entrava con Why Not («non ho avuto niente contro Pollari e anzi, sulla base di altre risultanze processuali, ho maturato un sentimento di profonda ammirazione nei suoi confronti anche per le vicende di cui è oggetto») e dall’altro si dibatte di una sua vecchia intervista a Repubblica dove affermava che tutto sommato i tabulati di Pollari erano repliche dei tabulati già acquisiti dalla procura di Milano (il pm Spataro all’epoca lo smentì), Genchi tira in ballo cronisti amici che gli avrebbero passato carte sottobanco: «Mi sono procurato tramite alcuni amici giornalisti di avere i provvedimenti di Milano dai quali risultava il numero di Pollari nell’indagine Abu Omar. Volevo difendermi dagli attacchi...». Lì per lì Genchi non fa i nomi. Ma quando passa a parlare di oscure trame fra indagini di ’ndrangheta, fughe di notizie pilotate e scandalo Telecom, cita Lionello Mancini del Sole 24 ore, amico di Gianni Barbacetto del Fatto. Nell’anticipazione di Dagospia su Tempi si azzarda: «Chi fossero questi “amici giornalisti” non c’è scritto nella relazione del Copasir. Lo si può sospettare solo quando Genchi, nel vortice di un’audizione deragliata al caso Telecom-Tavaroli, riferirà ai commissari di una - a suo dire - misteriosa triangolazione telefonica riguardante un aspetto di quella storia». Nel verbale, riprendendo retroscena collegati a Mancini, il consulente afferma: «Posso anche dirvi chi è stato. Gianni Barbacetto (perché io ho molti amici giornalisti) che ho conosciuto a Palermo molti anni fa, il quale mi disse di essere amico di Ilda Boccassini, con cui sarebbero andati a casa sua». Barbacetto, contattato dal Giornale, cade dalle nuvole: «Così come si legge dal verbale non è chiaro quel che vuole dire Genchi. Io non ho mai preso documenti dalla Boccassini da girare a Genchi al quale, al massimo, posso aver detto di aver conosciuto Lionello Mancini (che a un certo punto si mise a scrivere contro Genchi «e Gioacchino era molto preoccupato») a una festa a casa della Boccassini, dove andai con mia moglie, ma anni e anni prima rispetto ai fatti di cui si parla e in un periodo in cui Ilda era ancora socievole coi giornalisti. Ere geologiche precedenti a questa». E Genchi? «L’ho conosciuto a Palermo, ma più recentemente per scrivere delle note inchieste che seguiva con De Magistris. Ma di Pollari non avevo né carte né numeri. Al massimo posso avergli girato qualche atto giudiziario vecchio, pubblico, in possesso di qualsiasi cronista».

A tal proposito Stefano Zurlo interviene sempre su “Il Giornale”. Qualcuno li considera pubblici ministeri di complemento. Giornalisti che non devono bussare in procura, perché vantano amicizie o liason con i magistrati titolari di delicatissimi fascicoli. Ma la verità è più sfumata: procuratori e opinionisti spesso hanno rapporti alla pari, s’influenzano a vicenda e alimentano un unico circuito mediatico-giudiziario, com’è normale fra persone che si stimano e si frequentano. Caso classico, da manuale, è il legame fra due big del giornalismo e della magistratura: Marco Travaglio e Antonio Ingroia. Travaglio ha firmato la prefazione del saggio di Ingroia «C’era una volta l’intercettazione » e l’ha incensato spiegando che «il libro è uno strumento per capirci qualcosa nella giungla delle leggi vergogna del regime berlusconiano», Ingroia si è presentato al forum di lancio del quotidiano travagliesco il Fatto, oggi imperdibile per la sinistra girotondina e giustizialista. Una cortesia, in sè un episodio quasi banale, che però ha acceso le micce della diffidenza dalle parti del centrodestra, abituato a duellare con Ingroia da sempre, come in un celebre racconto di Conrad. Nessuno, invece, ha notato che fra le leggi di Berlusconi, non importa se sacrosante o della vergogna, non c’è proprio quella sulle intercettazioni, fermata dal fuoco di sbarramento dell’apparato di cui Ingroia e Travaglio sono esponenti di punta. Se n’è andato il Cavaliere, il libro, pur se con il titolo declinato all’imperfetto, è ancora in circolazione. Insomma, la lobby intellettuale esercita un fascino e un potere di seduzione straordinari e che non possono essere misurati a colpi di verbali pubblicati da questa o quella gazzetta. E la premiata coppia Travaglio-Ingroia non è stata ammaccata nemmeno dall’infortunio capitato a uno stretto collaboratore del pm, il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro che andò anche in vacanza insieme ai due. Si è scoperto che l’insospettabile sottufficiale, esempio classico di un certo mimetismo tutto italiano, era la talpa alla Direzione distrettuale antimafia di personaggi poco raccomandabili. Così mafia e antimafia hanno convissuto finché Ciuro è stato condannato a 4 anni e 8 mesi. La solita claque dei benpensanti, a parte i puntuti articoli di Repubblica, ha metabolizzato con disinvoltura il guaio. Ma la stessa benevolenza non sempre è stata accordata a toghe e firme della carta stampata, sfiorate da inchieste su P varie o da voci e sussurri malevoli. In Italia non c’è un clima di tolleranza bipartisan e anzi i giornalisti cosiddetti progressisti si perdonano tutto quel che viene condannato se il peccato arriva dall’altra parte, magari da un cronista d’assalto della fantomatica struttura Delta. Quella che, secondo i maestri della penna rossa, fabbricherebbe complotti su scala industriale per screditare i nemici del berlusconismo. Altra coppia chic, oggetto di infinite illazioni, è quella formata dal pm Henry John Woodcock, quello di innumerevoli inchieste ad alta densità di vip, e da Federica Sciarelli, la bella conduttrice del popolarissimo programma di Rai3 Chi l’ha visto?. C’è una foto, famosa, che immortala i due mentre fanno jogging per le vie di Roma. E un’altra che li riprende in barca, nell’estate del 2009, insieme a Sandro Ruotolo, il baffuto braccio destro di Michele Santoro e fratello del cronista giudiziario della Stampa, Guido. «La mamma dei Ruotolo e la mia erano grandi amiche», ha raccontato Woodcock per spiegare questo intreccio di rapporti. Nel 2009 un esposto anonimo accreditava l’ipotesi che la Sciarelli fosse l’autrice di scoop cuciti nell’ufficio di Wooodcock. Ma l’anonimo ha fatto cilecca, anzi si è rivelato un falso. Nessun cortocircuito e invece lui firma la prefazione al libro di lei "Il mostro innocente". Altro che fughe di notizie. Semmai un salotto che diventa un’icona per la solita opinione pubblica.

Anche Paolo Bracalini sull'argomento "Fughe di notizie impunite" interviene su “Il Giornale”. Ci sono inchieste in cui «un cittadino viene, in modo repentino, processato e condannato dai media, etichettato come un “mostro” e gettato in pasto all’opinione pubblica. Tutto ciò ancor prima della conclusione della istruttoria condotta dagli organi inquirenti e del processo, vero e proprio», che magari si conclude «con l'assoluzione» e quindi con la beffa più tremenda. Una professione di garantismo a firma di Henry John Woodcock, il pm dei vip, nella prefazione al libro (Il mostro innocente) di una giornalista amica con cui è stato più volte paparazzato, Federica Sciarelli, già Telekabul e conduttrice di Chi l'ha visto? su Rai3. «Solo un'amicizia» quella tra Woody e la bella Federica (prediletta di Cossiga e ammiratissima da Tinto Brass), spiegò Woody al cronista di Di Più, settimanale di gossip, curioso delle faccende private di quel magistrato dal cognome esotico, amante del sigaro, del jogging e delle Harley-Davidson. Ecco, forse la Sciarelli è uno dei nomi della PW, la rete (solo amicizia e qualche chiacchiera) di Woodcock, pubblico ministero dalla grande fantasia investigativa, con già tre famosi brevetti all’attivo: il Savoiagate, Vallettopoli e la P4. Ai giornali patinati raccontò che furono altri giornalisti amici ad introdurlo alla Sciarelli, i fratelli Ruotolo. Il primo, Sandro, è lo storico braccio destro di Santoro ad Annozero (che si è occupato spesso delle inchieste di Potenza), l’altro, Guido, è cronista di giudiziaria alla Stampa (che per il quotidiano Fiat segue proprio l’inchiesta sulla P4). Anche loro esponenti della Pw, la rete (per carità, solo di amicizie e chiacchiere) di HJW? «Io e Federica Sciarelli ci siamo conosciuti grazie ad amici comuni, tra i quali i fratelli Sandro e Guido Ruotolo. La mamma dei Ruotolo e mia mamma erano grandi amiche», raccontò Woodcock ai cronisti rosa, per spiegare l’origine della sua amicizia con la conduttrice. Un colpo di fulmine, professionale ed intellettuale, che sbocciò all’epoca dell’inchiesta su Vittorio Emanuele di Savoia, schiaffato in carcere per sette giorni come presunto capo di una cupola malavitosa, poi assolto «perché il fatto non sussiste». La Sciarelli si presentò in redazione, a Chi l’ha visto, coi faldoni dell’inchiesta ed un entusiasmo a fior di pelle: «Aho, ma quant’è fico Woodcock, non paga il biglietto della metropolitana, lui scavarca!» fece davanti ai colleghi, dopo un incontro a Roma col pm. Da lì Chi l’ha visto? si occupò più volte dell’inchiesta su Vittorio Emanuele, che pure non era scomparso, ma ben sorvegliato agli arresti domiciliari. Il 19 giugno 2006 le agenzie rilanciano l’intervista fatta dalla Sciarelli a Chi l’ha visto al gip di Potenza Alberto Iannuzzi, che assicura: «L’inchiesta su Savoia non è una bolla di sapone». Poi la Sciarelli ci torna la puntata successiva, il 26 giugno, con un’intervista al presidente dell’associazione antiusura sulle indagini relative al Casinò di Campione e sul sindaco Salmoiraghi, accusato insieme al principe. Un’amicizia ispiratrice, forse anche troppo secondo Felicia Genovese, pm di Potenza e arcinemica di Woodcook, che produsse una relazione sulle possibili connessioni tra le inchieste della Sciarelli su Rai3, le indagini di Woodcock e quelle di un pm amico, Luigi De Magistris, un altro elemento della PW. La pm racconta tra l’altro un episodio, «nel corridoio davanti alla stanza del dott. Woodcock, quest'ultimo in compagnia del dott. De Magistris. Di fronte al mio sguardo sorpreso, il collega Woodcock si è premurato di rivolgere agli addetti alla Sua Segreteria la richiesta di alcuni atti per il dott. De Magistris, il quale è rimasto in silenzio, limitandosi a rispondere al saluto». E poi che «nelle trasmissioni condotte dalla Sciarelli nei mesi scorsi (...) si ritrova il riferimento al dott. De Magistris come magistrato catanzarese che si occupa di note vicende di cronaca verificatesi in Basilicata...». Una connection solo a parole, chiarì Woodcock: «Mai nel corso della mia frequentazione con la giornalista Sciarelli, ho rivelato notizie sulle mie indagini». Solo di colleganza anche i rapporti con De Magistris. Chi ha seguito quelle inchieste racconta però che «De Magistris si arrabbiava quando lo paragonavano a Woodcock», e che in privato abbia manifestato più d’una perplessità sui talenti investigativi del collega. Un trait d’union tra i due pm è Gioacchino Genchi (che è anche vicino all’Idv di Di Pietro e De Magistris, ospite del congresso nel 2010 a Roma, e ospiti spesso di Santoro e Ruotolo, amici di...), consulente informatico di molte Procure, che inseriamo nella PW per un’intervista ad Antimafiaduemila dove racconta di «una riunione operativa alla quale hanno partecipato Woodcock, un ufficiale di polizia giudiziaria di Woodcock, il dottor De Magistris» e infine un consulente finanziario. Una riunione «che atteneva ad altri ambiti di collegamento investigativo con le indagini di Woodcock sulla massoneria in particolare». Collaboratore di Woodcock in diverse inchieste è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, alias «Capitano Ultimo», capo del Noe (quello che ha perquisito il Giornale per la vicenda Marcegaglia, altra inchiesta Woodcock...). E chi l’ha anche visto De Caprio? La Sciarelli, che l’ha intervistato nel suo programma il 6 novembre 2009. Nella comitiva di amici che si telefonano, si chiedono e scambiano informazioni (solo innocue chiacchiere) compare anche Riaccardo Iacona (collega di Santoro, Ruotolo, amici di...), che sembra particolarmente ansioso di avere notizie in anteprima, anche riservate. E De Magistris lo riferisce in una audizione per una presunta fuga di notizie: «Mi chiede, Iacona, (...) è uscita la notizia e me lo potevi anche dire questo fatto. Ma quella è una notizia riservata, io non posso dire nulla». Tutti membri della PW, la P-Woodocock. Che è tutta un’invenzione, naturalmente. Non una cricca vera come la P4.

Sono da poco passate le 19.15 del 24 settembre 2008 all’ITC Battisti di Fano: nonostante il turno infrasettimanale del campionato di calcio, nonostante sia ora di cena e nonostante il traffico impazzito di questa sana città di provincia, l’aula magna dell’edificio scolastico è gremita in ogni ordine di posti. Il giornalista del Corriere della Sera, Carlo Vulpio, ha raccolto con entusiasmo l’invito dell’Associazione Res Publica Amici di Beppe Grillo e della Libreria Omnia a presentare il suo primo libro, “Roba Nostra”. E’ arrivato in mattinata per curare personalmente gli ultimi dettagli e aspetta insieme a noi l’arrivo dell’altro ospite illustre. Dopo pochi minuti, attorniata da tre poliziotti di scorta, si presenta Clementina Forleo, sul viso un sorriso appena accennato, affaticata da un lungo viaggio. E’ partita da Brindisi, nel primo pomeriggio, con un’autovettura non blindata, le auto di scorta erano già tutte prenotate, nonostante il suo livello di protezione sia così alto da renderne necessario l’uso per gli spostamenti sul territorio italiano. Si perché nonostante lei abbia rifiutato la scorta, lo Stato, quello stesso Stato che attraverso il CSM ha deciso la sua incompatibilità ambientale, togliendole di fatto le note inchieste sulla scalate bancarie per cui sono indagati parlamentari del PD come D’Alema, Fassino e Latorre, quello Stato le ha imposto una protezione, con le stesse modalità tipiche di una cosca mafiosa. Clementina Forleo da tempo, infatti, vive giorno e notte protetta da tre guardie di scorta, da quando cioè, svolgendo il proprio lavoro di brillante magistrato quale è, si è ritrovata in mano le intercettazioni telefoniche tra il senatore Latorre (PD) e l’ex numero uno di Unipol, Giovanni Consorte dalle quali risultò chiaro ai più, tranne che al CSM, e a tutta una pletora di politici, che i due erano non soltanto amici, ma soggetti operanti illecitamente nella scalata di Unipol alla BNL.

Ettore Marini, presidente di Res Publica introduce la serata, e chiede a Vulpio perché quel libro, perché fosse stato necessario un libro e non fosse bastata un’indagine giornalistica. «Certe faccende - replica Vulpio - non si possono scrivere sui giornali, i giornali li leggono molti italiani, e queste sono cose da tenere segrete». «Nei libri – prosegue – si può dire, ad esempio, che il presidente del Senato frequentava Nino Mandalà, mafioso e capomandamento di Villabate ("Tutti gli uomini di Cosa Nostra", di Lirio Abbate e Peter Gomez), ma nei quotidiani tutto ciò è impensabile». Vulpio è un giornalista fortunato perché a suo dire può pubblicare il 60-70% di quello che scrive, sempre dopo aver contrattato con il direttore Mieli ogni singola parola, di ogni singolo articolo.

La Forleo, pur non facendo mai menzione della sua vicenda personale, concorda con Vulpio quando, analizzando la situazione dell’informazione in Italia, la definisce in stato comatoso e completamente asservita ai poteri forti: politici, finanziari e giudiziari. Il magistrato, raccogliendo l’invito dell’ex Presidente Ciampi, seppur rivolto agli organi di informazione piuttosto che ai magistrati, ha sempre tenuto “la schiena dritta”, evitando accuratamente di iscriversi alle numerose correnti interne all’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Correnti che, come un sistema di vasi comunicanti, determinano gli equilibri del potere all’interno sia della magistratura che della politica. Una magistratura completamente da rifondare, secondo Vulpio, che è diventata organica alla politica e operante attivamente, con molti dei suoi più famosi esponenti, anche nella gestione del malaffare.

Roba Nostra”, infatti, è un “j’accuse” nei confronti del malaffare che si è fatto sistema. Non più la volgare e semplice mazzetta, data dall’imprenditore al politico, ai partiti. La nuova frontiera del malaffare ha un’etichetta di garanzia, CE, come quella stampata su tutti i prodotti che oggi circolano nella Comunità Europea. CE stavolta non è però sinonimo di sicurezza e di tutela di un prodotto manufatto e distribuito in Europa, ma il marchio infamante di una truffa ai danni dei cittadini italiani, per miliardi di Euro. Decine di miliardi di euro, scientificamente dirottati da Bruxelles nelle tasche di politici e imprenditori, con l’ausilio di prefetti, magistrati, poliziotti, carabinieri ed avvocati di tre regioni italiane, la Basilicata, la Campania e la Calabria. «“Roba Nostra” è un libro di nomi e di cognomi e luoghi geografici precisi - prosegue Vulpio - Non è assolutamente un trattato di sociologia, ma un’inchiesta di stampo anglosassone, come non se ne vedono più da decenni in Italia». Vulpio accenna alle tre inchieste sulle quali indagava De Magistris, “Why not?”, “Toghe Lucane” e “Poseidone”: «Le prime due – dice – sono state scippate dalle mani dello zelante magistrato; per la terza, visto che non potevano togliergli l’inchiesta, hanno tolto lui dall’inchiesta, chiedendone il trasferimento». Il giornalista quindi si sofferma sulla vicenda dei fidanzatini suicidi di Policoro, una storia parallela saltata fuori all’improvviso durante le indagini sui finanziamenti della Comunità Europea per costruire dei megavillaggi turistici sulla costa jonica lucana.

E’ il tragico il destino di due giovani fidanzati di 21 anni, colpevoli di sapere troppo. Nel marzo del 1988 vengono ritrovati cadaveri nella vasca da bagno: si parla di morte incidentale, dovuta al cattivo funzionamento di uno scaldabagno. Fatto strano, non viene mai eseguita l’autopsia. Otto anni dopo però i due cadaveri vengono riesumati per via di alcune rivelazioni fatte da una supertestimone e si scopre che i due sono stati brutalmente ammazzati. Si scopre poi una lettera di Marirosa in cui lei confessa a Luca di aver partecipato a festini a luci rosse e cocaina, in cui erano presenti noti professionisti tra cui, guarda caso, il pm di Matera Autera, titolare delle indagini dei fidanzatini e denunciato dei genitori delle vittime per non aver autorizzato l’autopsia sui loro cadaveri. Si scoprirà che anche l’avvocato, nonché senatore di AN Emilio Buccico - prima difensore dei genitori dei fidanzatini, poi guarda caso del Pm Autera – ed il segretario provinciale di AN Labriola, partecipavano a questi festini a base di sesso e coca. (Carlo Vulpio, Corriere della Sera 17 marzo 2007, p.25). Nel corso della ricostruzione di questo tragico evento la sala dapprima ammutolisce e poi tra i presenti si levano grida di protesta e di rabbia. Vulpio ricorda agli intervenuti che per questa vicenda è stata richiesta l’archiviazione, mentre Buccico nel 2006 faceva ancora parte della Commissione Parlamentare antimafia.

Vulpio quindi ritorna sulle modalità con cui le tre inchieste furono tolte dalle mani di De Magistris, e non ricorda nella storia d’Italia un atto analogo, nemmeno durante il fascismo. Mastella chiede il trasferimento di De Magistris, ma non quello dei magistrati inquisiti, e tutta la stampa tace su questo aspetto tutt’altro che secondario. Si riscontra cioè l’incompatibilità di un magistrato che onestamente fa il suo mestiere, ma non viene intrapresa nessuna azione disciplinare per quei funzionari dello Stato indagati dallo stesso De Magistris.

La Forleo a questo punto accenna l’unico riferimento alla sua vicenda e ricorda il giorno in cui comparve davanti al CSM e le parole della vicepresidente Letizia Vacca, che la definì un “cattivo magistrato”, dalla personalità psicolabile e fortemente emotiva. E’ inutile dire che i presenti in sala come me hanno apprezzato la forza morale e la estrema lucidità con cui la donna Forleo, il magistrato Forleo ha portato la sua testimonianza non parendoci affatto né emotiva né tantomeno psicolabile.

Pubblico il testo dell'intervista video di Claudio Messora a Clementina Forleo e Carlo Vulpio, pubblicata su You tube il 24 marzo 2009, sul tema dell'informazione. Testo dell'intervista.

Carlo Vulpio: "Le parole sono importanti, e con le parole ci imbrogliano. Un esempio è questo continuo utilizzo della parola legalità, trasformata immediatamente in giustizialismo. Cioè chiunque di noi, chiunque di voi chieda l'applicazione della legge per quel famoso Articolo 3 della Costituzione, perchè ritiene che la legalità è il potere dei senza poteri, per ciò stesso evocherebbe un intervento giustizialistico, un dispiegamento di forze giustizialiste che godono al tintinnar di manette. Ecco il primo imbroglio. Noi che stiamo qui a parlare adesso, siamo dei sovversivi. Se venisse qualcuno di questi tempi in Italia ad osservare un incontro di questo tipo e avesse sentito l'intervento della dottoressa Forleo, dedurrebbe che qui si sta lavorando alla costruzione di un covo di sovversivi, perchè si sta addirittura ponendo il problema della vigenza dell'articolo 3 della Costituzione. Niente di meno! Io l'altro giorno ho letto sul mio quasi ex giornale (Il Corriere della Sera) una filippica contro l'articolo 3 della Costituzione, e piano piano mi andavo convincendo che effettivamente anche io fossi dalla parte dei sovversivi, laddove arrivato al commento dell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, cioè quello che materialmente dovrebbe rimuovere gli ostacoli che si frappongono ad un'uguaglianza effettiva, diceva il commentatore di cui non farò il nome per non fargli pubblicità, che era troppo generico quest'articolo 3 della Costituzione, era troppo ampio, era troppo! E' fondamentale questo passaggio. Si comincia così. Si comincia a gettare il sasso nello stagno. Si comincia con il grande giornale, il grande commentatore magari un tanto al chilo, che propone un articolo di questo tipo, si dice tecnicamente 'detta l'agenda', detta l'agenda politica, del dibattito pubblico, e una volta dettata l'agenda le pecore, il pubblico, l'opinione pubblica che non esiste, è un'invenzione, l'opinione pubblica non c'è, segue. E' proprio internet, è proprio la rete che in qualche maniera ci ha salvati. Ha salvato quelli come noi: giornalisti, magistrati, lavoratori comuni che non avrebbero più potuto far sentire la loro voce, sarebbero entrati definitivamente in un cono d'ombra, se non ci fossero stati i blogger, i blog, il cosiddetto popolo della rete. E grazie alla rete si è formata un'opinione pubblica nuova, con caratteristiche totalmente inedite, che ovviamente hanno allarmato i tradizionali poteri, anche quelli che editano i giornali. Se una nuova opinione pubblica si forma sulla rete, e se la rete ci salva, allora la rete diventa pericolosa. Se la rete non ci fosse stata noi non avremmo potuto parlare adesso, così, a centinaia, migliaia, milioni di persone, e probabilmente le nostre storie sarebbero state storie eccellenti, ma sarebbero deperite in questa loro eccellente solitudine."

Clementina Forleo: "Io credo che se siamo qui, se siamo qui questa sera a parlare di queste cose, che poi sono i temi fondamentali del libro Roba Nostra, è perchè ci sentiamo un poco intrappolati, perchè purtroppo la trappola, senza accorgercene, è scattata sulle regole, sulla democrazia, sulla legalità, sulla giustizia, sull'etica... cioè è scattata su quelli che dovrebbero essere i termometri di una democrazia moderna. E allora dobbiamo cercare di evitare di fare la fine appunto di quel famoso topolino di un altrettanto famosa metafora, il quale appunto preso in una trappola, ai suoi amici intenti a liberarlo diceva che non si lamentava poi della trappola, ma si lamentava della cattiva qualità del formaggio. E allora leggendo i giornali, soprattutto negli ultimi tempi, io ho paura appunto di questo, del fatto che ci stiamo convincendo che tutto sommato stiamo meno male di quanto si può stare. La rete ci salva e ci salverà. Io fino a poco tempo fa avevo una speranza. Avevo la speranza che alcune testate conservassero dei margini di libertà. Purtroppo mi sono resa conto che anche in questo campo sono stata un po' ingenua, e che ultimamente le testate più libere si sono un po' asservite, probabilmente perchè i tempi sono difficili e bisogna assecondare i poteri forti, dove per poteri forti in questo caso intendo i potentati economici e politici che sorreggono le grosse testate. Quindi i blog, internet e la rete, nell'immediato quanto meno (mi auguro che nel medio e lungo termine le cose possano cambiare) sono destinati a sostituire la classica informazione, che è un'informazione deviata, un'informazione deviante, un'informazione che non ci passa le cosiddette notizie."

Carlo Vulpio: "In Italia siamo, per libertà di informazione, agli ultimi posti in tutte le classifiche europee e mondiali. Questo non è un fatto grave in sè, è un fatto grave perchè attraverso l'informazione che è uno snodo strategico, passano mille altre cose, alcune delle quali fondamentali per il destino di un paese. Pensate a come è stata trattata la giustizia."

Clementina Forleo: "Sul caso Salerno - Catanzaro, per esempio, è stata forse volutamente fatta passare l'opinione, attraverso un'informazione non sempre fedelissima, l'idea di questo scontro, di questa guerra tra Salerno e Catanzaro. A mio avviso non si è trattato di uno scontro, perchè uno scontro presuppone due corpi in movimento. In questo caso Salerno aveva legittimamente, come è stato appurato dal Tribunale del Riesame, disposto una perquisizione e un sequestro di atti nei confronti appunto di Catanzaro. Catanzaro non poteva replicare con un contro-sequestro per il semplice motivo che i reati ipotizzati da Catanzaro dovevano essere denunciati all'autorità competente, cioè appunto un'altra autorità, perchè evidentemente i magistrati di Catanzaro non potevano autodifendersi. Quindi non tanto la politica ma la stessa magistratura ha voluto consegnare al potere dei magistrati che stavano facendo onestamente il proprio lavoro e avevano toccato, come aveva toccato poi in fondo Luigi de Magistris, dei nervi scoperti che toccavano anche lo stesso potere giudiziario in Calabria, e che avevano aperto uno squarcio sul terzo potere dello Stato, e che poteva poi far saltare dei nervi anche in altri territori dello Stato."

Carlo Vulpio: "Pensate a come è stata trattata l'economia, pensate a come è stato trattato il lavoro dall'informazione. Un'informazione addomesticata, un'informazione orientata non serve. Per entrare davvero in Europa noi abbiamo bisogno di una informazione a livelli europei. L'Italia ai livelli europei, da questo punto di vista, non è ancora arrivata. Tutto quello che accade nella sfera pubblica è affare nostro. Se noi non ce ne occupiamo, qualcun altro farà in modo di occuparsene al posto nostro."

Ecco il testo integrale della lettera contenuta sul Blog di Carlo Vulpio con cui il giudice Guido Salvini denuncia le riunioni segrete nel Palazzo di giustizia di Milano per far fuori il gip Clementina Forleo. Il Csm ha aperto un procedimento disciplinare sui presunti “congiurati”, Salvini è stato convocato per essere sentito, nessuna procura d’Italia ha aperto alcun procedimento per eventuali reati commessi e tutti i giornali e le tv, sebbene sappiano tutto, non danno la notizia.

“Caro Cosimo e cari colleghi,

anch’io sono contento, anche sul piano umano, per la sentenza del Consiglio di Stato (quella che conferma la pronuncia del Tar del Lazio e annulla la decisione del Consiglio superiore della magistratura di trasferire da Milano a Cremona, per “incompatibilità ambientale”, il gip Clementina Forleo, che quindi ora può tornare a Milano – ). Non conosco a fondo il caso UNIPOL e dintorni ma avevo letto la sentenza redatta dal consigliere Fabio Roia e l’avevo trovata povera sul piano giuridico e riferita a fatti del tutto inconferenti per un giudizio di “incompatibilità ambientale” che per un giudice è quasi la morte civile. Una sentenza di quattro paginette, concepita con la supponenza con cui di frequente il CSM motiva decisioni importanti ritenendo di aver comunque sempre ragione. Aggiungo che sono stato testimone diretto dello sviluppo dell’azione “ambientale” contro la collega (cioè, la Forleo) dato che all’epoca ero anch’io GIP presso il Tribunale di Milano. Ho assistito a scene desolanti quali l’indizione con passa parola di riunioni pomeridiane in alcune stanze per discutere la “strategia” contro la collega, guidate dai maggiorenti dell’ufficio tra cui un paio di colleghi “Verdi” più rancorosi di tutti, come spesso accade, anche se del tutto estranei al caso. Da simili iniziative, che mi ricordavano le “Giornate dell’odio” descritte da George Orwell nel romanzo “1984″, mi sono dissociato.

Non ci si comporta così tra magistrati ed è facile e privo di rischi accerchiare una persona in un ufficio e magari in questo modo anche portarla a sbagliare, visto anche il carattere poco “diplomatico” della vittima. L’incompatibilità ambientale, che si ignora cosa in realtà sia di preciso, e che spesso è semplicemente l’accanimento dell’ “ambiente” contro una singola persona, è quasi sempre una procedura barbara e prettamente inquisitoria. Il suo raggio d’azione, per fortuna, con le modifiche che conosciamo, si è ridotto, ma dovrebbe esserlo ancora di più, sopratutto nella pratica, sino a quasi scomparire come dovrebbe scomparire la prassi, in qualche modo speculare, delle ”pratiche a tutela”.

Un caro saluto a tutti

Guido Salvini (domenica 19 giugno 2011, 23:09)

A PROPOSITO DI ANTIMAFIA MILITANTE.

Quella che emargina e perseguita. Il Dr Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, direttore di “Tele Web Italia” e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie", sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno, non è finanziato, né sostenuto da alcuno, ma addirittura. accusato reiteratamente dai PM di diffamazione a mezzo stampa, senza che sia conseguita mai alcuna condanna. La sua colpa: di non avere peli sulla lingua e sulla penna, di non essere di sinistra e di non santificare i magistrati. Lui vede, sente, parla.

Una volta un tal Leonardo Sciascia scrisse («I professionisti dell'antimafia» da «Il Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987) «... l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. ... chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno».

Che forse lo scrittore siciliano avesse visto lontano?

Falcone e Borsellino: due eroi, ma non per caso. Morirono il 23 maggio e il 19 luglio dello stesso anno, il 1992. Erano amici oltre che colleghi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la loro vita è trascorsa parallela nella Sicilia dello strapotere della mafia: i loro successi e il loro terribile isolamento, il loro senso del dovere e la burocrazia nemica, la fedeltà dei loro uomini e il tradimento, la conoscenza del fenomeno Mafia e l’omertà del popolo e delle Istituzioni, l’amore per la propria terra e il sacrificio della vita. Diceva Giovanni Falcone: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana”. Guardando con gli occhi di oggi a quel periodo nel quale la Mafia vincente dei Corleonesi compì quegli omicidi così eclatanti (con Falcone morirono la moglie e tre agenti dell’auto di scorta, con Borsellino furono trucidati cinque poliziotti), pare di assistere ad un improbabile gangsters movie: bastò l’annuncio dell’incarico prima a Falcone e poi a Borsellino di Responsabile della Superprocura Antimafia ad accelerarne la morte, già decisa da tempo. Falcone e Borsellino sapevano di essere segnati come gli untori ai tempi della peste, sapevano di essere scomodi ed isolati. Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere." Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, Borsellino che sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra ebbe a dire “Mi sento come un morto che cammina”. A distanza di 16 anni nessuno ricorda con quanta ostilità e con quanta miopia vennero giudicate le azioni riformatrici in materia giudiziaria di Falcone, a partire dall’intuizione della costruzione “sovradistrettuale” del Nucleo Investigativo e della Procura Antimafia, già dai tempi della costituzione con il giudice fiorentino Caponnetto del Pool Antimafia e nel suo incarico presso il Ministero della Giustizia. La gran parte della magistratura difese le competenze di ogni ambito territoriale con veemenza, addirittura con uno sciopero, contrappose alla nomina di Falcone quella di un altro giudice, perché chiunque era meglio “del giudice traditore della Costituzione” che voleva i “Tribunali Speciali” anche se contro la Mafia. La politica dell’antimafia militante contrastò Falcone fino ad addebitagli la sottovalutazione, anzi la sottrazione di prove, verso alcuni politici siciliani di nota obbedienza mafiosa. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone si difese davanti al CSM da un esposto presentato da Leoluca Orlando, che parlava di “prove nei cassetti”, ribattendo alle accuse che definì ”un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario” e il clima di sospetto creatosi a Palermo su tutto e su tutti “come l’anticamera del khomeinismo”. Sono gli stessi concetti che espresse Paolo Borsellino: L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale..... Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni….. dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma …tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici…. non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati. Queste frasi Paolo Borsellino andò a dirle agli studenti dell’Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa il 26 gennaio del 1989; non sembra anche questa la scena di una pessima fiction? quello che avrebbe dovuto essere uno dei migliori uomini della Sicilia va a parlare in una lontana scuola tra le Dolomiti della Mafia e dei politici “collusi” ma non condannabili. Fuori dalla Sicilia dei rancori, fuori dal clima del sospetto, lontano dagli omertosi dei palazzi del potere e dai professionisti dell’antimafia: sì Borsellino sapeva di essere un "condannato a morte". Per capire bene cosa è successo allora, occorre declinare quell’espressione oscura allora molto troppo comune: il clima dei veleni, al di là dei fatti penalmente rilevanti, era in sostanza una modalità di intendere la lotta alla mafia, il ruolo della magistratura e della politica. Certo c’erano due mondi contrapposti e ben visibili: quello che combatteva la Mafia e quello che o ne era colluso o ne negava ostinatamente l’esistenza come fenomeno criminale specifico, ma erano anche realtà molto sfaccettate al loro interno. Oggi sembra assurdo, ma gli uomini del mondo dell’Antimafia, non solo hanno poco collaborato, si sono anche apertamente combattuti: una parte della politica insisteva a dare alla Magistratura una funzione anomala di “pulizia” sociale e una parte della magistratura si intestardiva a ritagliarsi uno spazio tutto formale all’interno della comoda “coperta” di vecchie leggi di competenza. Questa è la storia dell’avversato Pool antimafia del Giudice Caponnetto, delle denunce di “inanità” a Falcone, della sua mancata nomina in favore di giudici più anziani, della battaglia anche sindacale che l’Associazione magistrati fece alla legge sulla Procura antimafia, della nomina a Prefetto di Palermo di Carlo Alberto dalla Chiesa con cui la politica tentò di salvarsi coscienza e reputazione lasciandolo senza mezzi e senza appoggi e decretandone di fatto la morte. E se l’omicidio di Falcone e Borsellino e la strage delle scorte mise fine a questa incredibile situazione italiana, consolidando la Procura Antimafia, le speciali competenze della polizia giudiziaria, il carcere “duro” cioè senza contatti esterni per i mafiosi, è ancora diffusa l’idea che la magistratura possa e debba fare quello che la politica non è capace a fare e che l’omertà sia solo paura. E’ bastata qualche eccellente assoluzione per trasformare politici notoriamente ambigui, se non collusi, in vittime dell’oscurantismo fanatico; è bastato un volto rugoso e sofferente per dimenticare le colpe del funzionario dello Stato che tradì Falcone, è bastato che la sorella del giudice Borsellino si candidasse alle elezioni per accusarla di sfruttare il nome di un “morto”, già di un morto perché era bene che rimanesse tale. Sono passati tanti anni, tante vittorie ci sono state contro la Mafia siciliana, e la sensibilità culturale nei confronti della legalità e dell’etica è fortemente cresciuta nella popolazione dell’isola e nelle istituzioni tutte, ma non sarebbe stato possibile senza questi due uomini, senza le cose che hanno fatto, gli incredibili successi conseguiti in quell’epoca e in quel clima; senza la loro stessa testimonianza di vita, e purtroppo di morte. Certo povero è un popolo che ha bisogno di Eroi, ma povero è un popolo che non conosce i suoi eroi. “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” (Paolo Borsellino).

Su questo argomento vi è un intervento su “Il Giornale” di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo : “L’Antimafia militante si dimentica del Pd”. Nella relazione al Parlamento riferimenti solo al Pdl. Omessi quelli al partito di Bersani su camorra e ’ndrangheta. E poi dicono che la magistratura non strizza l’occhio a una certa politica, facendolo nero all’altra parte. È uno strano torcicollo giudiziario quello della Direzione nazionale antimafia: quando c’è da menar fendenti sui rapporti tra clan e centrodestra scrivono nome e cognome dei politici coinvolti (e non ancora condannati). Appena ruotano la testa a sinistra cedono alla privacy, omettendo ogni riferimento al partito di Bersani. Sfogliando le 726 pagine della relazione consegnata al Parlamento la sigla «Pd» non compare mai mentre – sui procedimenti in corso – ripetutamente fa capolino la sigla «Pdl» e, in quattro occasioni, a scanso di equivoci, si legge per esteso «Popolo della libertà». Eppure non è che mancassero occasioni per collegare fatti di mala al Pd, come nel caso delle indagini sull’omicidio di Gino Tommasino, consigliere Pd di Castellammare di Stabia, ammazzato da un killer iscritto al Pd. Si cita senza problemi l’ex sottosegretario alla sbarra Nicola Cosentino nonostante poche righe prima i magistrati antimafia avessero scritto che «non si intende, in questa sede, far riferimento ai vari procedimenti in corso di trattazione». Nemmeno sentono il bisogno di ribadire quel che è noto a tutti, e cioè quanto è scaturito dal delitto del consigliere Pd Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale calabrese, col coinvolgimento, per altri versi, di Domenico Crea «consigliere regionale, votato, secondo l’accusa, dalle maggiori cosche di ’ndrangheta e subentrato in Consiglio dopo l’omicidio di Fortugno, in atto detenuto». A quale coalizione apparteneva Crea? Al centrosinistra, ma i pm non lo scrivono, così come per le indagini sulle cosche in Lombardia si dimenticano a quale partito facesse riferimento il circolo «Falcone&Borsellino» di Paderno Dugnano dove i capi della ’ndrangheta si davano appuntamento. E che dire di Franco La Rupa «consigliere regionale calabrese tra il 2004 ed il 2010», eletto in chissà quale area, «condannato a 5 anni per voto di scambio politico-mafioso». Al contrario si abbonda coi riferimenti Pdl: si parte da Quarto (Na) con il coinvolgimento di (nome e cognome) espressamente centrodestra. Oppure quel consigliere provinciale di Crotone (...) del quale i magistrati riportano oltre al nome addirittura il numero di preferenze. E basandosi sulle sole intercettazioni si stilano già sentenze nominative: «La coalizione che fa capo al presidente (...) si era avvantaggiata dell’appoggio elettorale anche della famiglia Arena di Isola Capo Rizzuto». E via così. Al Sud come in Liguria dove «è emersa l’operatività di un sodalizio che ha condizionato l’esito delle elezioni regionali del 2010 in favore dei candidati del Pdl (...)». Vengono riportate altre inchieste che riguardano entrambi gli schieramenti, ma la specifica doc colpisce esclusivamente il Pdl. Il caso più emblematico lo denuncia il membro Pdl Antimafia Amedeo Laboccetta. Che in un’interpellanza a più firme racconta di un boss, intercettato in cella, che parla di votare il candidato dell’Idv. Un fatto da approfondire, ma nessuno s’è preoccupato di farlo. Al contrario il sindaco del Pdl regolarmente eletto rischia la poltrona per alcuni esposti anonimi. Accade a Gragnano, nel Napoletano, dove la commissione d’accesso prefettizia richiesta dal sindaco Pdl, Annarita Patriarca, incredibilmente arriva a chiedere lo scioglimento del Comune sulla base di cattiva pubblicità e pregiudizi. Tornando al boss, la spiata nel carcere di Sulmona arriva a poche ore dal ballottaggio del 2009 tra la Patriarca e il rivale Michele Mascolo. Il boss Fabio Di Martino parla col padre, il capoclan Leonardo detto ’o lione: «Mo’ che con Michele vinciamo il ballottaggio...!» facendo intendere – secondo Laboccetta - che alle urne la «famiglia» opterà per il candidato anti-Pdl. Al ballottaggio s’imporrà la Patriarca, che ora si vuol far passare per quello che non è. Laboccetta chiede trasparenza nei controlli al Comune e invita i pm a darsi una svegliata, anche perché indagando su alcuni delinquenti di Gragnano è emerso che la camorra si sarebbe mossa per truccare le ultime primarie a Secondigliano. Il partito era il Pd, non il Pdl. Par-ti-to de-mo-cra-ti-co (tante volte i pm antimafia leggessero male).

Su queste basi nacque “MANI PULITE”.

Ruberie, complotti, casualità: Filippo Facci su “Libero Quotidiano” racconta Mani Pulite.

Dall'amnistia che salvò il Pci al nuovo codice di procedura penale del 1989: ecco tutto quello che ha favorito la nascita di Tangentopoli. Tutto parte e riporta lì, sempre a Mani Pulite, genesi di una seconda Repubblica mai nata e già vecchia: è il nostro Prima e Dopo Cristo, è l’incubatrice di un presente politico eternamente incerto tra ieri e domani. Agli spauracchi genere «non è cambiato niente» si è progressivamente sostituita una consapevolezza terrificante: è cambiato tutto, nel senso che la politica di allora oggi appare superiore anche perché diversi erano i curricula, le professionalità, le investiture dal basso: roba che oggi ha ceduto il passo alla nomina di uno bravo ogni venti amici e parenti e servi. Avevi i voti o non li avevi: non c’erano carfagne e non c’era merito di guerra che potesse bastare. Nostalgia? Per niente. Nulla giustifica come il finanziamento illegale della politica, un tempo fisiologico e necessario, fosse degenerato a Milano come nel resto del Paese. Nella capitale morale ogni appalto doveva sovvenzionare la politica in quote prestabilite (tot alla Dc, tot al Psi, tot al Pci eccetera, secondo il consenso acquisito) e le imprese a loro volta potevano prestabilire i vincitori delle gare in barba al libero mercato, formando così un «cartello» che escludeva altra concorrenza e falsava i costi. Maggioranze e opposizioni conducevano un gioco delle parti che dietro le quinte diveniva complicità e spartizione degli affari: a Milano accadeva che per determinati appalti ci fosse un cassiere unico che poi ridistribuiva agli altri partiti, Pci compreso. Sistema oliato - Il sistema era talmente oliato da rendere praticamente impossibile comprendere chi, tra imprese e partiti, avesse il coltello dalla parte del manico. Gli imprenditori si definiranno come ricattati dai politici, i politici come assediati da imprenditori ansiosi di offrire: in concreto «era un sistema», come disse Bettino Craxi, o quantomeno una «dazione ambientale», come la descrisse Di Pietro: ispirato, in realtà, da un altro magistrato che si chiamava Antonio Lombardi. Era un sistema malato di elefantiasi e degenerato negli effetti pratici ed economici: più costose e durature erano le opere e più grande era la torta da spartire, il mercato era sfalsato e così pure la selezione delle offerte migliori e più convenienti. Tutto questo, naturalmente, in linea di massima: fioccavano le eccezioni e le isole felici, mentre le degenerazioni e un senso del limite si tenevano la mano in un Paese che in qualche modo tirava avanti. Grazie al debito pubblico? I numeri, ormai, hanno smentito anche questo. Dal 1946 al 1992, la Prima Repubblica ha accumulato un debito pubblico pari a circa 6-700 miliardi di euro: il restante - ossia i 1300 miliardi di euro che hanno portato il debito pubblico italiano alle cifre odierne - lo ha fatto la Seconda Repubblica dei vari governi Berlusconi, Amato, Ciampi, D’Alema e Prodi; la Prima Repubblica accumulava una media giornaliera di 47,5 milioni di euro di debito al giorno, la Seconda è arrivata a oltre 200 milioni di euro al giorno, quasi quintuplicando la cifra. Oscar Giannino, un collega quantomeno rigoroso, ha raffrontato i governi di centrodestra e centrosinistra sulla base dei dati della Banca d’Italia: il record di debito pubblico sono stati i 330 milioni al giorno del primo governo Berlusconi, che nell’ultimo governo è sceso a 207 milioni. Perfetto, ma perché Mani pulite nacque proprio allora? Qui in genere si scontrano versioni improbabili e micro - la favoletta del magistrato onesto che smaschera i corrotti - e altre non meno improbabili e complottarde e legate a scenari internazionali. Tra Montenero di Bisaccia e Washington, non manca chi sostenga che l’inchiesta avrebbe potuto nascere in ogni momento dal Dopoguerra in poi, anche se è vero che alla fine degli anni Novanta certe disinvolture avevano superato ogni limite e così pure la tolleranza di una popolazione in progressiva crisi economica. Noi voliamo basso. Gli scenari - È inutile ricostruire e contestualizzare tutti gli scenari che indubbiamente, più che dare origine all’inchiesta, da un certo punto poi non ne impedirono la nascita come in passato sarebbe probabilmente accaduto, anzi, come probabilmente avvenne. Si possono tuttavia menzionare pochi accadimenti chiave che prepararono il terreno.

- Uno, nell’aprile 1990, fu l’amnistia che contemplava vari reati compiuti sino al 24 ottobre 1989, e tra questi il finanziamento illecito ai partiti. La demarcazione si rivelerà essenziale per giustificare l’impunità di alcune parti politiche e soprattutto per depenalizzare ogni finanziamento illecito versato al Pci dall’Unione Sovietica. Dall’ottobre 1989 al marzo 1992 non passarono che una trentina di mesi: l’intero sconvolgimento del sistema politico italiano è stato realizzato in quel periodo.

- Dirompente, nel tardo 1989, fu poi l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale Vassalli-Pisapia. Esso si proponeva, nelle intenzioni, pari dignità giuridica tra accusa e difesa, custodia cautelare come extrema ratio, segretezza delle indagini, pubblicità del processo e, soprattutto, prova che doveva formarsi rigorosamente in aula. Il totale stravolgimento delle velleità del nuovo Codice, con la complicità della classe politica e il palese dolo della magistratura, sarà una chiave di volta della prima e fondamentale parte di Mani pulite. "Troppo garantista" - Molti magistrati nei primi anni Novanta lanciavano grida d’allarme contro un nuovo Codice che paventavano come troppo garantista. Il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, definì le nuove norme addirittura «ipergarantiste» e lo stesso facevano i cronisti. Il professor Giandomenico Pisapia, presidente della commissione per la riforma del codice di procedura penale, intervistato dallo scrivente nel 1992, la mise così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». L’allora vicepresidente del Csm Giovanni Galloni, sempre nel 1992, aggiunse: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Sembra fantascienza.

- Il referendum sulla preferenza unica proposto da Mario Segni simboleggiò poi come anche Bettino Craxi, che invitò bonariamente gli elettori a disertare le urne, non avesse polso di quanto andava montando. Alle urne si recò il 65 per cento degli italiani e il referendum passò con il 95,6 per cento di sì. Il voto celava null’altro che una forte insofferenza contro i partiti.
- Altre date rilevanti, a Mani pulite iniziata, saranno il 5 ottobre 1992 e il successivo 29 ottobre, quando la lira cioè scese al minimo storico e fu ratificato anche in Italia il Trattato di Maastricht sull’unione monetaria. Qualsiasi peculiarità italiana, di lì in poi, avrebbe dovuto allinearsi a parametri ormai imprescindibili: anche da questo, il 10 luglio 1992, nascerà una manovra finanziaria da 30.000 miliardi di lire con cui il governo di Giuliano Amato tenterà un primo risanamento del disavanzo pubblico. Nello stesso periodo verrà avviata la privatizzazione di Iri, Eni, Enel e Ina: una strada obbligata e però gravida di conseguenze sociali e occupazionali che contribuiranno a riscaldare il clima. Castello di carte - L’Italia, all’inizio del 1992, era un castello di carte che aspettava solo un refolo di vento. Crisi varie, inflazione, la Fiat che annunciava prepensionamenti, carabinieri ammazzati dalla camorra, urla contro i politici durante i funerali, l’antipolitica che strepitava dai televisori: senza contare che il capo dello Stato, Francesco Cossiga, il 2 febbraio avrebbe sciolto le Camere. E Milano, da sempre laboratorio anticipatore di ogni brezza o tempesta destinata a spirare nel paese, era una polveriera rimasta incustodita. E Di Pietro? Di Pietro era un magistrato di non buonissima fama. Non aveva rapporti neanche coi giornalisti, o non erano buoni: lo sfotticchiavano per la pronuncia o addirittura fingevano un refuso e scrivevano «Antonio Di Dietro». I giovani cronisti lo chiamavano «il troglodita». Che avesse in mente tutto fuorché Mani pulite l’ha raccontato in più occasioni Elio Veltri, che l’incontrò nei primi giorni di febbraio: il magistrato gli disse che presto avrebbe abbandonato i reati contro la pubblica amministrazione e si sarebbe dedicato alle estorsioni; aveva archiviato il caso di un’intera famiglia di Parma scomparsa nel nulla e «Chi l’ha visto?» ci aveva montato una puntata intera. A lui era piaciuto, la tv lo faceva già impazzire. Ammetterà anche Francesco Saverio Borrelli: «Non immaginavo che dall’arresto di Chiesa potesse nascere quello che è nato, ma credo che non l’immaginasse nessuno. Non l’immaginava certamente Di Pietro».

Così furono nascoste le prove nell’inchiesta sul pool di Milano. Nel ’96 la procura di Brescia ordinò per tre volte alla Digos di recuperare i tabulati dei cellulari dei pm di Mani pulite. Ma sui telefonini di Di Pietro e compagni non fu mai fatto nessun controllo, di Giancarlo Lehner  su “Il Giornale”. L’articolo tre della Costituzione riguarda tutti i cittadini italiani, salvo i magistrati di Milano. La mia non è l’opinione di parte di un berlusconiano, perché, in qualche modo, di questo privilegio sono rimasto vittima: avvenne nel corso di uno dei procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa intentati contro di me proprio dai magistrati del pool di Mani Pulite. Al fine di difendermi io stesso e i miei avvocati avevamo fotocopiato gli atti dell’inchiesta che la procura di Brescia aveva condotto sulla fuga di notizie che il 21 novembre del 1994 permise al Corriere della Sera di ricevere dalla procura di Milano, in tempo reale e in copia cartacea, due delle tre pagine dell’invito a comparire dei magistrati milanesi a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, all’epoca alla guida del suo primo governo, si trovava a Napoli per partecipare da «padrone di casa» a un convegno internazionale sulla criminalità organizzata. Fotocopiando dunque il faldone «Buccini - Di Feo» (dal nome dei giornalisti del Corriere che grazie alla fuga di notizie misero a segno lo scoop, Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo) mi era capitato tra le mani un fascicolo vuoto. Il frontespizio recitava: «Tabulati utenze cellulari magistrati milanesi». Il pm bresciano che indagava sulla fuga di notizie aveva insomma ordinato alla polizia giudiziaria di raccogliere i tabulati dei cellulari dei pm del pool per verificare date, orari, periodicità delle eventuali telefonate intercorse tra le toghe milanesi ed i cronisti del Corsera. Ma, nei faldoni dell’inchiesta, questi dati non c’erano: la polizia giudiziaria aveva, dunque, disatteso l’ordine del magistrato. Senza, peraltro, esserne chiamata mai a rispondere. Il 6 ottobre 2000 il mio avvocato, Pietro Federico, pone la questione in tribunale, dicendo: «Su nostra istanza la Procura della Repubblica di Brescia, ha scritto al dottor Mariconda (dirigente della Digos alla questura di Brescia) chiedendo chiarimenti sulla mancanza di questi atti». Il dottor Mariconda, il 29 giugno 2000, aveva risposto: «In riferimento alla delega del 13 marzo 1996, a firma del dottor Salamone e dottor Bonfigli (i pm che indagavano sulla fuga di notizie), l’ufficio aveva rappresentato al pubblico ministero l’oggettiva difficoltà ad acquisire presso la Procura di Milano le utenze dei cellulari dei magistrati di quel capoluogo, in particolare il dottor Borrelli, D’Ambrosio, Colombo, Greco, Davigo e Di Pietro. Con ulteriore delega del 13 giugno 1996 il dottor Bonfigli richiedeva l’acquisizione presso il Comune di Milano dell’elenco delle utenze cellulari assegnate dal Comune alla Procura di Milano nel periodo settembre-dicembre 1994. L’ufficio, con nota del 9 ottobre 1996, forniva l’elenco delle utenze fornite dal Comune senza poter indicare a quali magistrati fossero assegnate. In data 11 novembre 1996, il dottor Bonfigli conferiva all’ufficio ulteriore delega per verificare se dalle utenze in uso ad alcuni giornalisti erano state effettuate o ricevute chiamate presso utenze in uso ai magistrati della Procura di Milano. Alla delega veniva allegata una nota dell’allora procuratore di Milano, dottor Borrelli, con l’elenco dei magistrati e delle utenze a loro assegnate. È doveroso precisare - aveva dichiarato l’uomo della Digos - che l’ufficio ha esaminato esclusivamente i tabulati relativi ai giornalisti segnalati, mentre nessuna attività di riscontro è stata svolta riguardo ai tabulati delle utenze dei magistrati». L’avvocato Federico prima a Cles, quindi in appello a Trento e, di nuovo, nella reiterazione dell’appello a Bolzano, chiese che fosse ascoltato il dirigente Digos Mariconda perché rispondesse alla seguente domanda: «È vero che mai nessun controllo venne da lei effettuato sulle utenze in entrata, in uscita, in partenza dai cellulari dei magistrati del pool di Milano querelanti, e comunque implicati e interessati ai procedimenti oggetto di causa, pur essendo stato disposto un accertamento dal dottor Bonfigli di Brescia?». Ma Mariconda non si degnò mai di venire in processo, nessuno lo costrinse a testimoniare e, alla fine il tribunale, specificamente quello di Bolzano, ritenne irrilevante ai fini dell’accertamento della verità la presenza del Mariconda. Io, naturalmente, fui condannato. *Deputato Pdl.

Ecco l'alfabeto di Mani pulite tra pigiamini e Tonino Zanza, di Luca Fazzo su “Il Giornale”.

A come Armani All’inizio di Mani Pulite, nel 1992, i cronisti giudiziari scrivono un po’ quel che gli pare, anche perché i loro capi non capiscono bene cosa sta accadendo. La prima volta che i cronisti vengono invitati alla cautela è quando il pool indaga per corruzione Giorgio Armani e gli altri stilisti del made in Italy. «Ragazzi andateci piano che questi ci danno un sacco di pubblicità».

B come Borrelli Di tutto il pool Mani Pulite, il procuratore Borrelli è l'unico al quale i cronisti danno del Lei. Non fa mai niente per caso (tranne, a volte, indossare un incredibile principe di galles a quadri rossi e verdi). L’unica volta che esce davvero dai gangheri è quando il ministro della giustizia Alfredo Biondi dichiara a Repubblica che da ragazzo il padre lo ammoniva, «Studia studia figlio mio, che altrimenti ti tocca fare il magistrato». Borrelli si infuria e esce in corridoio gridando «Trovatemi Buccini!». Arriva Goffredo Buccini, cronista del Corriere, la penna preferita dal procuratore. E Borrelli gli fa una lunga intervista in cui dà a Biondi dell’ubriacone.

C come Cinghialone È Paolo Brosio (che fingeva di essere uno sfigato ma in realtà era un cronista con i fiocchi) la mattina del 15 dicembre 1992 a dare per primo la notizia: «Hanno sparato al Cinghialone». Nel gergo, vuol dire che è partito il primo avviso di garanzia per Craxi. Sette anni dopo il procuratore Gerardo D’Ambrosio cercherà invano di convincere il resto del pool a consentire a Craxi, gravato da condanne a trent’anni di carcere, di tornare in Italia a curarsi senza passare per San Vittore. Craxi morirà due mesi dopo, latitante ad Hammamet.

D come Disgraziatamente «Disgraziatamente sono il tesoriere del Pds perché avrei preferito restare un modesto dirigente di partito»: così, seduto su una panca di pietra davanti alla sala stampa del Tribunale, si confida con i giornalisti Marcello Stefanini. L’avviso di garanzia al dirigente della Quercia spacca il pool. Di lì a poco Stefanini muore.

E come Ecolibri La pista che porta il pool Mani Pulite a indagare sui finanziamenti dalla Germania Est al Pci-Pds passa per una semisconosciuta casa editrice di nome Ecolibri, presieduta dalla sorella di Achille Occhetto, il segretario della svolta. L’inchiesta finisce con una rogatoria in Germania, condotta dal pm Ielo con folto codazzo di cronisti al seguito. La rogatoria non approda praticamente a nulla, a Berlino in compenso Paolo Brosio «cucca».

F come Frigorifero È il nome in codice di Vincenzo Pancrazi, comandante del nucleo operativo dei carabinieri, così detto per il suo carattere non tanto espansivo. La mattina presto Pancrazi convoca i giornalisti e dirama il bollettino degli arrestati della notte precedente. Molti di loro saranno già a casa la sera stessa, dopo avere confessato le proprie colpe e tirato in ballo amici e nemici, destinati a finire nel bollettino degli arrestati del giorno dopo.

G come Greco Domenica 19 giugno 1999, in una Procura deserta, Silvio Berlusconi incontra i pm Paolo Ielo e Francesco Greco. L’incontro dovrebbe servire a svelenire i rapporti tra il Cavaliere e il pool Mani Pulite, e lì per lì sembra che tutto vada bene. «È stata una svolta - spiega il procuratore, Gerardo D’Ambrosio - perché dopo anni di contrapposizioni Berlusconi ha riconosciuto il nostro ruolo. Noi abbiamo dato la garanzia che la Fininvest sarà trattata come qualunque altro indagato». È noto come è andata a finire.

I come Intercettazioni Durante tutta Mani Pulite non è mai stata fatta neanche una intercettazione telefonica.

L come Lacrime Un pomeriggio qualunque del 1993, due cronisti chiacchierano con Di Pietro nella sua stanza. Senza motivo apparente, Di Pietro si mette a piangere. I cronisti se ne vanno increduli, «sarà stanco, avrà problemi a casa». In realtà, è già partita la controinchiesta di Brescia che porterà Di Pietro alle dimissioni dalla magistratura.

M come Moroni Sergio Moroni, deputato socialista, finisce nelle cronache di Mani Pulite un giorno dell’estate del 1992, quando viene raggiunto da un avviso di garanzia. Moroni chiama un cronista per precisare la sua posizione: lo fa con garbo, quasi con timidezza. Il cronista a stento lo sta ad ascoltare: è uno dei tanti. Il 2 settembre, nella sua casa, Moroni si spara col fucile da caccia. Lascia una lettera al presidente della Camera, Giorgio Napolitano: «Ho commesso un errore accettando il sistema», scrive. «Ma non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica».

N come Notte La differenza tra Mani Pulite e le altre inchieste è che buona parte del lavoro si fa di notte. Di giorno gli arrestati confessano, di notte Di Pietro manda le nuove richieste di arresto al giudice che gliele firma. Quando i cronisti arrivano in Procura, di solito trovano Di Pietro in ciabatte e con la barba da fare.

O come Oscar Il 16 giugno 1994 il cassiere democristiano Severino Citaristi, recordman degli avvisi di garanzia, riceve l’ennesimo ordine di cattura. Ai domiciliari gli arriva la telefonata di consolazione del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Gli chiedono i cronisti: non è strano che il capo dello Stato esprima solidarietà a un arrestato? «Io credo, anzi sono sicuro, che Scalfaro mi abbia chiamato come amico, visto che siamo amici da vent’anni».

P come Pigiamino Nel gergo dei cronisti di Mani Pulite, è l’intervista collettiva ai futuri arrestati. Quando si capisce che ai polsi di qualcuno stanno per scattare le manette, si va a trovarlo in ufficio e gli si fanno un po’ di domande. Il malcapitato non capisce il motivo di tanto interesse fino alla mattina dopo, quando arrivano i carabinieri a portarlo via.

Q come Questura L’inchiesta più importante della storia della Prima Repubblica viene condotta dai carabinieri. La polizia, come si può immaginare, rosica. Dalla questura vengono rivolte accorate richieste alla Procura perché anche la Squadra Mobile sia coinvolta in qualche modo nell’indagine. Ma non c’è niente da fare, alla polizia vengono lasciate solo le briciole.

R come Roccia Uno Negli anni di Mani Pulite ascoltare in redazione le radio dei carabinieri è ancora un peccato veniale. Quando le radio dicono: «Un plico per Roccia Uno» vuol dire che i carabinieri hanno arrestato qualcuno e lo stanno portando a San Vittore. Per i cronisti diventa un’abitudine bivaccare nell’androne del carcere milanese, chiacchierando con le guardie.

S come Sisde Cosa hanno fatto i servizi segreti durante Mani Pulite? Hanno dato una mano? Hanno remato contro? Non si è mai saputo. Nell’archivio di Craxi verranno però trovati appunti dei «servizi» su Di Pietro, con le stesse accuse che porteranno all’incriminazione del pm.

T come Tortura «Siamo a un passo dalla tortura», dicono il 5 agosto 1992 i difensori di Salvatore Ligresti. Gherardo Colombo ai cronisti: «Vedete un po’ voi, siete sempre davanti alla porta, sentireste qualcosa...». Tra le presunte vittime degli interrogatori, il manager Bruno Binasco, che lavora per un socio di Ligresti: che non rimane molto traumatizzato, visto che vent’anni dopo riemergerà nell’inchiesta sulle tangenti a Filippo Penati dei Ds.

U come Uccidiamo Nel 1993 il pool comincia a indagare sulla Guardia di finanza. È il troncone che porterà al primo avviso di garanzia a Berlusconi. Sui giornali cominciano a circolare i primi articoli sul giro delle mazzette all’interno delle fiamme gialle milanesi. Un colonnello, che diventerà poi generale, incontra due cronisti davanti all’ascensore di servizio della Procura. «Voi siete nostri nemici - gli dice - e noi siamo soldati. Quindi i nostri nemici li rispettiamo e li uccidiamo». Stupore.

V come Verbali Chi passa i verbali ai giornalisti? Praticamente tutti, perché Borrelli ha spiegato pubblicamente che quando vengono allegati a un’ordine di cattura non sono più segreti. Così si è creato un allegro clima da figurine Panini, in cui le carte dell’inchiesta vengono scambiate alla luce del sole. Un occhio di riguardo viene dato solo ai settimanali, Espresso e Panorama, che altrimenti il venerdì non saprebbero cosa scrivere.

W come Walter La vulgata popolare vuole che l’unico imputato di Mani Pulite finito a espiare la pena sia stato Sergio Cusani. Non è vero: anche Walter Armanini, ex assessore socialista del Comune di Milano, quando la pena divenne definitiva dovette presentarsi in carcere. Essendo un bon vivant, scelse quello di Orvieto, una antica rocca ristrutturata. In carcere riceveva i cronisti (con i quali si metteva a piangere, «sono l’unico fesso che ha pagato») ma anche le lettere d’amore della sua fidanzata, la bella attrice Demetra Hampton. In carcere si ammala di tumore, viene scarcerato e muore.

Z come Zanza «Zanza» o anche «Zanzone» è il nome in codice che i cronisti di Mani Pulite affibbiano a Di Pietro: nel gergo della malavita milanese «Zanza» sta per truffatore. E Di Pietro se lo conquista per la sua abitudine, quando i cronisti lo assillano, di toglierseli di torno rifilando loro «soffiate» che quasi sempre si rivelano dei depistaggi. Ma i cronisti, tranne qualcuno, lo adorano ugualmente.