Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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LEGOPOLI
LA LEGA DA LEGARE
Di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA LEGA CHE VINCE CON IL SUD.
QUANTO E’ DURATA LA LEGA NORD?
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
QUELLI CHE SON SECESSIONISTI...
QUELLI CHE SON INDIPENDENTISTI...
LA SECESSIONE IDEOLOGICA.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.
IL SUD TARTASSATO.
QUELLI CHE SON RAZZISTI…EVASORI E LADRI.
MAFIA, PALAZZI E POTERE.
MILANO: DA CAPITALE MORALE A CAPITALE DEL CAZO.
IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.
ALTRO CHE ROMA LADRONA.
PADANIA LADRONA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA……
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA. PARE UNA BARZELLETTA.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
LEGHISTI: RAZZISTI ED OMOSESSUALI.
PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.
QUANTI GALLI NELLA LEGA?
LA GARA ALL'INTOLLERANZA. LA LEGA INTOLLERANTE SE LE CERCA E GLI INTOLLERANTI SINISTRI AGGREDISCONO.
IN LEGA TUTTI SI LEGALIZZANO.
LA LEGA SUL LASTRICO PER LADROCINIO?
BESTIARIO NAZIONALE.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
SETTENTRIONALI E/O LEGHISTI SE LI CONOSCI BENE …LI EVITI.
INAFFIDABILI. LEGA CONTRO LEGA. PACTA SUNT SERVANDA. NON IN CASA LEGA.
LEGA. SONO SOLO AFFARI LORO……
PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?
C’ERA UNA VOLTA LA MAFIA AL SUD E LE TANGENTI AL NORD. OGGI C’E’ LA MAFIA DEL NORD.
LEGA NORD: I MOSTRI SON SEMPRE GLI ALTRI.
MI RICORDO MUTANDE VERDI............
LEGA MASSONA.
LA POLITICA E GLI ANIMALI.
LA POLITICA ED IL RAZZISMO. DIVERSI SI', MA NON MIGLIORI.
RAZZISMO E NORD ITALIA. BORGHEZIO E CALDEROLI. LA LEGA NORD PADANIA E L’ITALIA SETTENTRIONALE.
LEGA NORD: LA GARA A CHI E' PIU' RAZZISTA.
RAZZISMO TRA ITALIANI DEL NORD E DEL SUD.
LEGA PERMALOSA.
PARLIAMO DELLA LEGA NORD PADANIA: RAZZISTA? LADRONA? TRAFFICONA? MAFIOSA?
PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!
CHI DI SPADA FERISCE, DI SPADA PERISCE.
CARROCIOPOLI.
RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.
LE GRANE GIUDIZIARIE DELLA LEGA. CANDIDATI AL PARLAMENTO.
SCANDALO LEGA NORD: LA REAZIONE DEI LEGHISTI.
I SOLDI CHE HAN RUBATO, SONO SOLDI ITALIANI E VANNO RESTITUITI.
ROMA LADRONA? NO. MILANO LADRONA!
LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI?
LE “CAZZATE” DI BOSSI.
IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI.
PREGHIERA PER LA PADANIA LIBERA.
INNO DELLA LEGA LOMBARDA.
IL RAZZISTA CHE NON TI ASPETTI, CON I NATALI INDEGNI.
SUD? NO GRAZIE! LA LOMBARDIA DEGLI ONESTI…CHI? MA MI FACCIA IL PIACERE!!!!!!!
STUPIDARIO DELLA LEGA.
SCANDALO LEGA AL SENATO.
CHI C’ERA DIETRO A BELSITO?
EMILIA, CRAVATTE VERDI E FONDI NERI.
QUEL FANNULLONE CHIAMATO BOSSI.
E LA COSCA STA NELLA VILLA A SCHIERA.
I PROBLEMI DI CASTELLI, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA.
I PROBLEMI DI MARONI, MINISTRO DELL’INTERNO.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
E il Senatùr disse: «Andiamo con Silvio, ha soldi e donne… ». Era il 1994 e il Senatùr Bossi aveva già conquistato mezzo Nord. Silvio Berlusconi capì che senza di lui non avrebbe vinto, scrive Paolo Delgado il 23 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Cene, caminetti, vertici. E poi alleanze, rotture, guerre all’ultimo sangue, ricomposizioni: da 25 anni nulla condiziona la politica italiana quanto i travagliati rapporti Arcore e Pontida, tra Forza Italia e la Lega, tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi prima, Matteo Salvini adesso. «Quello deve solo sborsare e portarci la gnocca, che a Canale 5 ce n’ha tanta», così si esprimevano graziosamente i soldati di Bossi una venticinquina d’anni fa. Il Cavaliere non era ancora entrato in politica. Esitava, si fingeva indeciso per moltiplicare l’effettaccio della discesa in campo. Ma il suo arrivo era nell’aria e la Lega doveva farci i conti. La battutaccia in questione, una delle tante, era di pochi minuti successiva al discorso con cui Umberto Bossi aveva aperto le porte al dialogo con Arcore. Non era scontato in partenza. All’epoca la Lega, col vento in poppa al Nord, un partitone che in pochissimi anni aveva conquistato da solo oltre il 50% dei voti a Milano, si ammantava di nuovismo e inneggiava a Di Pietro. Bossi però aveva capito subito che liberarsi del Cavaliere non sarebbe stato facile. Riunì l’assembleona e spiegò che in una prima fase sarebbe stato necessario allearsi con una parte dei vecchi e decrepiti poteri. Solo che Berlusconi non portò solo ‘ soldi e gnocca’ ma anche una macchina da guerra costruita dalla struttura Publitalia e vinse le elezioni alleato sì con il Carroccio, ma derubricato a comprimario. Generoso offrì ministeri a spiovere, ma il bastone del comando se lo tenne stretto. Che al capo leghista la situazione andasse stretta si capì subito, anche se molti dei suoi, invece, si accomodarono papali. Il 25 aprile di quell’anno di grazia 1994 una oceanica manifestazione convocata dal Manifesto spazzò sotto il diluvio le strade di Milano. Qualche leghista la criticò sprezzante: il Senatùr, come si chiamava allora, lo bacchettò di brutto: «Quando il popolo si muove bisogna sempre ascoltarlo». Andò oltre, fece addirittura capolino, per qualche nanosecondo, ai margini del corteo, in serata. Nulla di strano: «Noi siamo gli eredi della lotta antifascista». Il disagio s’impennò d’estate. Berlusconi tentò la carta del cosiddetto «decreto salvaladri». Né la Lega né Alleanza Nazionale potevano accettarlo. S’impose una ritirata che lasciò il trionfatore di pochi mesi prima trasformato in anatra zoppa. In estate Bossi si presentò a villa Certosa, ospite del Cavaliere che quanto a forme non sfigura al confronto di un piccolo borghese ottocentesco, in tenuta rapper- coatta: canottiera rigorosamente a coste. Un segnale che valeva cento discorsi politici. Quel che ossessionava il leghista era proprio la rapidità con cui i suoi barbari si stavano abituando alla greppia di re Silvio. Per la fine di dicembre il governo era caduto e Bossi era il nemico numero uno di "Berluskaiser", o "Berluskaz" o comunque gli passasse per la mente di bollare l’ex alleato. Quella della Lega era stata una scommessa arrischiata. Se si fosse votato subito dopo la crisi, il Carroccio sarebbe stato travolto. Anche grazie alla proverbiale cedevolezza di Berlusconi invece si votò dopo un anno e mezzo, e Bossi vinse la scommessa. La Lega superò nelle elezioni del 1996 il 10%, massimo storico sino al 2018. Per due anni Berlusconi e l’allora suo più stretto alleato Gianfranco Fini avevano ripetuto che con Bossi non avrebbero mai più avuto nulla a che fare. «Nemmeno un caffè», giurava tassativo Fini. Quel risultato cambiò tutto. Nell’Italia bipolarista di vent’anni fa, il Polo di destra non poteva permettersi di lasciare senza collare il 10% dei voti e la Lega aveva dimostrato di essere impermeabile alle sirene del ‘ voto utile’. Bisogna cambiare strada e Berlusconi si attrezzò a farlo nei cinque anni successivi, quelli dell’opposizione e della «traversata del deserto». Per la Lega la situazione non era più rosea: poteva costringere la destra alla sconfitta, ma nulla di più. Bossi tentò la carta del secessionismo, furono gli anni delle ampolle e del dio Po: alle elezioni amministrative del 1999, terreno favorevole per il Carroccio, i consensi dimezzarono rispetto a tre anni prima. Il nuovo matrimonio con il partito azzurro, non più "Polo" ma "Casa" delle libertà nasceva, esattamente come il primo, sulla base dell’interesse reciproco. Eppure le cose andarono in direzione opposta. Berlusconi aveva mangiato la foglia e non intendeva ripetere l’errore del ‘ 94. Stavolta la Lega fu vezzeggiata e corteggiata, a spese di una An che si riteneva giustamente costretta a restare fedele volente o nolente. L’ascesa al ministero dell’Economia di un forzista molto vicino al Carroccio come Giulio Tremonti, rinsaldò l’intesa. Nel 2004 Bossi colpito da ictus rischiò la vita e perse per sempre il controllo sul linguaggio. Berlusconi, che è notoriamente generoso, si fece in quattro per salvarlo senza badare a spese. Si creò un rapporto personale, fondato anche sulla gratitudine di Bossi, che non sarebbe venuto meno fino al 2011. I caminetti di Berlusconi, Bossi e Tremonti sono stati in quegli anni la vera tolda di comando dei governi di centrodestra. Dalla guerra che dal 2011 ha lacerato il Carroccio è uscita fuori una Lega tutta diversa, tanto da non adoperare mai la parola un tempo magica di ‘ federalismo’. Tra Salvini e un Berlusconi invecchiato non ci sono certo i rapporti che guerre e riappacificazioni avevano cementato tra il Cavaliere e Bossi. L’uomo chiave della Lega moderata, il leader che era stato contrario alla rottura rischiando l’espulsione già nel 1994, Roberto Maroni, è fuori gioco così come l’ex onnipotente ministro dell’Economia che era la vera cerniera tra i due partiti e tra i due leader. Con Salvini la relazione è tornata a fondarsi in equa misura sull’interesse e sulla reciproca diffidenza. Però quell’asse continua a orientare la politica italiana.
Nord e magia, scrive Sebastiano Caputo il 2 luglio 2018 su "Il Giornale". Cambiano le geometrie della politica italiana ma il raduno di Pontida sembra rimanere nell’immaginario leghista il punto di congiunzione tra passato e futuro, identità culturale e innovazione estetica, ideologia e orizzonti ideali. Forse solo un massimo esperto di folklore e religioni del Mezzogiorno d’Italia come Ernesto de Martino potrebbe spiegare l’evoluzione di questa kermesse che per la prima volta della sua storia, nel linguaggio come nella partecipazione, è riuscita a riunire persone provenienti sia dal Centro che dal Sud Italia – le due macroregioni che Gianfranco Miglio rinominò “Etruria” e “Mediterranea” – al punto che l’intervento senza complessi di Nello Musumeci, Presidente della Regione Sicilia, ha strappato gli applausi persino dagli irriducibili che indossavano ancora i fazzoletti verdi di bossiana memoria. Non mancano i riti insieme a quel cerimoniale che guida questo incontro lontano anni luce dai soliti aperitivi elettorali stracittadini. C’è una dimensione mistica su quel pratone in provincia di Bergamo. A cominciare dall’albero della vita in ricordo di Gianluca Buonanno che ha sostituito la divinizzazione dell’ampolla del Dio Po. E ancora Alberto da Giussano, figura ricorrente, e con lui la simbologia che va dal carroccio fino agli elmi e le corna. L’uomo meridionale, per sua natura, ne è attratto, scoprendo così che anche a Nord, in fondo, l’Italia, vive ancora di superstizioni, culti, misteri, incantesimi. E’ l’elemento magico, soprannaturale, che subentra di forza di fronte all’indigenza, la precarietà dell’esistenza, il pericolo, che attanaglia un’intera penisola, senza distinzioni territoriali. Matteo Salvini a Pontida sembra un caudillo sudamericano, trascinato da una folla che si rispecchia nel capo carismatico, espressione di una nuova sintesi geografica impensabile fino a qualche anno fa. Perché alla base del suo successo c’è il compimento di un vero e proprio capolavoro politico. Quando diventò segretario, la Lega era un partito in via d’estinzione, poi col passare dei mesi e degli anni, Salvini è riuscito a cambiare linguaggio (“Prima gli italiani” anziché “prima il Nord”), estetica (il blu anziché il verde), obiettivi (la nazione anziché la secessione), superando la dicotomia destra-sinistra e aprendo le porte della Padania a tutti gli italiani. La transizione sovranista, dettata da un sentimento popolare diffuso e allo stesso tempo da un fiuto politico sorprendente, ha ribaltato gli schemi tradizionali della politica e integrato ad un progetto ideologico più ampio candidati indipendenti appartenenti ad una classe intellettuale priva di punti di riferimento. Così oggi, dopo aver messo all’angolo Silvio Berlusconi, Matteo Salvini si ritrova al governo con un Movimento 5 Stelle molto più pragmatico e organizzato, che non ha paura di condurre battaglie impopolari, nel nome dell’interesse nazionale. Mario Sechi su List, riporta un passaggio necessario del libro L’anno dei barbari di Giampaolo Pansa” in cui Franco Zeffirelli racconta le sue impressioni su Pontida nel lontano 1993. “La Lega mi interessa molto. Questi uomini, i nostri contemporanei che l’hanno espressa, mi piacciono. E gente pesantemente calunniata. Hanno detto di loro cose incredibili, che non hanno alcun fondamento. Qui non c’è nessuna traccia di fascismo e di razzismo […] Mi pare una franchezza di linguaggio che era ora di adottare. Qui la gente parla come mangia, per fortuna! L’Italia non è omogenea, né etnicamente né culturalmente. Dunque le idee della Lega si possono applicare ovunque!”. “Il Maestro Zeffirelli” come lo chiamava Sechi, allora giovane inviato, aveva centrato il punto essenziale del fenomeno leghista in un Paese che per tradizione ha sempre disprezzato l’autorità ed è rimasta sempre fedele alle sue specificità territoriali, culturali, linguistiche. Un Paese, anti-unitario per vocazione, federalista per temperamento, anarchico per definizione, che a Pontida, epicentro della secessione, ha ritrovato un compromesso geografico storico.
Senti chi parla….
Reddito di cittadinanza, Briatore: «Una follia, al Sud la gente non ha voglia di lavorare», scrive Sabato 29 Settembre 2018 "Il Mattino". Al Sud la gente già non ha voglia di lavorare, dare anche un reddito di cittadinanza sarebbe una follia. Parola di Flavio Briatore. «Se adesso danno pure un reddito di cittadinanza, questa mi sembra una follia vera. Per me è una follia perché paghi la gente che sta sul divano. Sul divano ci sono già gratis, poi addirittura li paghi. Prenderanno il divano a due piazze. Investimenti in Meridione? Ci sono difficoltà enormi. E la gente non ha voglia. Chi aveva voglia è andato fuori dal Sud», ha detto l'imprenditore ed ex manager della Formula 1. «Quando abbiamo avuto la possibilità di avviare un’attività a Otranto, nel nostro gruppo c’erano diversi pugliesi. Abbiamo dato la possibilità di tornare, ma nessuno ha voluto. Rimane chi non si sbatte molto per trovare un lavoro, se adesso danno anche il reddito di cittadinanza è finita», sostiene ancora Briatore che tuttavia ha fiducia nel nuovo governo. «Mi sembra ci sia molto entusiasmo - afferma Briatore -. Mi sono simpatici sia Salvini che il grillino, lasciamoli fare. Faccio il tifo per loro, certo. Come dovrebbero fare tutti. Su immigrazione e fisco sto con Salvini. Ha ragione quando dice che i clandestini bisogna bloccarli prima che arrivino. Bisogna bloccare i barconi, ormai sappiamo da dove partono. Investire e creare posti di lavoro lì. La flat tax è da fare subito, immediatamente, subitissimo. Se premia i ricchi va bene perché vuol dire che se uno risparmia con la flat tax, investe più nell’azienda, crea più posti di lavoro».
Flavio Briatore indagato per corruzione: tangenti al fisco per riavere lo yacht, scrive Martedì 25 Settembre 2018 Il Quotidiano di Puglia. Guai per Flavio Briatore. L'imprenditore è indagato in una vicenda di corruzione per la quale il suo commercialista, A.drea P.rolini, è finito agli arresti domiciliari insieme all'ex direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate di Genova Walter Pardini. La guardia di finanza ha eseguito le misure questa mattina. L'accusa è di corruzione. Per la stessa vicenda è anche indagato Flavio Briatore. Secondo l'accusa, il professionista avrebbe corrotto il funzionario pubblico, per tentare di «ammorbidire» la posizione di Briatore per la maxi-evasione fiscale legata al suo yacht, il Force Blue.
A Briatore sono gli uomini del sud a non piacergli, ma le donne…Oltre alla ex moglie Elisabetta Gregoraci… Caterina Balivo e Flavio Briatore, l’indiscrezione sul passato spiazza il pubblico, scrive il 31 maggio 2018 La Voce di Napoli. Momenti di imbarazzo si sono vissuti durante una puntata di Detto Fatto quando Giovanni Ciacci, capo-tutor del programma, ha parlato di un ex flirt della conduttrice napoletana con un vero e proprio play boy a cui però Caterina avrebbe dato un due di picche. Indiscrezione che ha imbarazzato non poco la Balivo che ha cominciato a sorridere. Ciacci improvvisamente ha detto: “Caterina è l’unica ad aver detto ‘No’ a un famoso playboy…“. Le parole sono state dette durante la rubrica di Gio Gio, finestra del programma che si occupa di Ballando con le Stelle. Si stava parlando proprio di uomini affascinanti quando Ciacci ha detto: “Per essere playboy devi essere molto ricco e quello che ha corteggiato Caterina lo è veramente”. Parole a cui la conduttrice ha controbattuto ironicamente, dicendo: “Ora però è vecchiarello”. Ciacci ha anche detto che questa persona sarebbe stata con Naomi Campbell, non ha però rivelato il nome. Per il pubblico, però si tratterebbe di Flavio Briatore, il gossip è scoppiato spiazzando il pubblico, non ci resta che aspettare altre rivelazioni.
Boom di meridionali al raduno Lega, Bossi: “Vabbè, ci sono gli Africa…”, scrive Saverio Nappo su Internapoli il 3 luglio 2018. Nel weekend appena trascorso, si è tenuto il raduno leghista a Pontida. Luogo sacro per il sentimento e l’orgoglio leghista, si tiene ogni anno a due passi dalla sorgente del fiume Po. Gli enormi spazi, i prati e le vie concessi dal Comune di Pontida vengono invasi dai seguaci del partito che fu di Umberto Bossi e che ora è guidato da Matteo Salvini. Proprio grazie all’illuminante visione politica di Salvini, intelligente nell’intercettare il diffuso malcontento che caratterizza il Paese reale, la Lega Nord ha raggiunto livelli di consenso popolare che mai aveva conosciuto sotto la guida chiusa e dichiaratamente separatista di Umberto Bossi. Il neo Ministro dell’Interno nonché Vice Premier – assieme a Di Maio del M5s -, per sbaragliare la concorrenza politica dei suoi alleati, in primi, e dei suoi competitor, poi, ha puntato sull’apertura all’elettorato del Sud Italia. Elettorato da sempre agli antipodi degli ideali, se così possiamo definirli, della Lega Nord.
A Bossi, i meridionali al raduno proprio non piacciono. Una mossa, quella del team-Salvini, che è risultata vincente. La voglia di cambiamento, la speranza per un cambiamento di rotta e il ritorno dell’intolleranza hanno reso cieco l’elettorato meridionale. Che si è lasciato convincere. E che ha votato Lega Nord, in massa. La storia della nuova generazione leghista, non più razzista e anti meridionalista, francamente, ha convinto solo l’elettorato medio, in evidente difficoltà di comprensione della verità vera. Il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio. Ecco, quindi, che ciò che era chiaro a molti, è diventato cristallino a tutti. Grazie ad Umberto Bossi, non a caso. Durante il raduno di Pontida, il collega del Corriere del Mezzogiorno ha intervistato il Senatùr, chiedendogli un parere sul boom di neo leghisti meridionali arrivati al raduno. Bossi non ci ha pensato minimamente a seguire l’esempio del suo successore. Non ha indorato alcuna pillola e ci è andato giù pesante, schietto e sincero. «Eh, come no, se ci porti anche gli Africa… ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi». Poi, ancora. «Guardi, ho visto un sacco di gente interessata solo ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria Sanità». Chissà cosa ne pensano i fan della Lega che poi sono rientrati al di sotto del Garigliano.
Bossi shock contro Salvini: «Pienone di meridionali a Pontida? Vogliono farsi mantenere...», scrive Martedì 3 Luglio 2018 "Il Mattino". Al raduno di Pontida in molti hanno notato una novità, impensabile fino a qualche anno fa: c'erano tantissimi meridionali. Un particolare strano, se si pensa che la Lega dalla sua nascita professava la secessione del Nord Italia lasciando fuori i meridionali. Quest'anno però Matteo Salvini, che si è professato di 'allargare' il consenso del Carroccio in tutta Italia, ha fatto il pienone. All'ex leader Umberto Bossi però non è andata giù. Intervistato dal Corriere della Sera, il Senatùr ha usato parole forti: «E come no. Se ci porti lì anche l'Africa... Ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi», ha detto Bossi, che a Pontida non ci è andato. Aveva mal di schiena, «non stavo tanto bene», si giustifica. C'erano autobus che portavano militanti anche dal Sud. «Guardi - replica Bossi - ho visto solo un sacco di gente interessata ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non c'è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria sanità. Cosa si vuole, che si continui a caricarla addosso alle regioni settentrionali?». Quando gli fanno notare che la Lega ora è accreditata al 30%, mentre con lui al massimo aveva preso il 10%, risponde: «Non credo molto ai sondaggi, la gente vota nelle urne. E comunque, se tutti i giorni fai una promessa e sollevi polveroni qualcuno finisci per tirarlo dalla tua parte. Ma i cittadini mica sono stupidi. Oggi ti votano, domani ti voltano le spalle se non mantieni tutte le promesse che hai elargito». Anche la federazione europea lanciata da Salvini non gli va giù: «Ma non si va da nessuna parte, non scherziamo. Come potete pensare che francesi o tedeschi si facciano mettere il cappello in testa da noi italiani? Su dai, guardiamo in casa nostra e rispondiamo alla nostra gente. Quella del Nord, eh...».
Diede del “terrone” a Napolitano: la Procura di Brescia ordina la carcerazione per Bossi, subito sospesa. Il fondatore della Lega Nord deve scontare un anno e quindici giorni. E i guai giudiziari non sono ancora terminati, scrive Emilio Randacio il 26/09/2018 su "La Stampa". La condanna definitiva per vilipendio all’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, gli ha fatto saltare ogni beneficio. Per il fondatore della Lega, Umberto Bossi,il rischio di scontare parte delle condanne fin qui inanellate è una ipotesi più che concreta. Il 12 settembre la Cassazione aveva confermato l’anno e 15 giorni per gli insulti al Quirinale. La colpa, riconosciuta, di Bossi è quella di avere del «terrone» a Napolitano durante un comizio. La procura generale di Brescia ha sommato tutte le condanne del senatur - dagli 8 mesi per i finanziamenti illeciti di Carlo Sama - e ha disposto la carcerazione visto che i benefici sono ampliamenti sforati. Provvedimento immediatamente sospeso - Bossi e vicino agli 80 anni-, per permettere al parlamentare leghista di chiedere misure alternative al carcere. Compreso il differimento della pena per i problemi di salute che, da oltre 10 anni, attanagliano l’ex segretario di via Bellerio. Anche se i grattacapi con la giustizia, non sono ancora finiti, visto che tra Milano e Genova si attendono i processi d’appello per le malversazione dei fondi pubblici gestiti dal Carroccio.
Umberto Bossi chiamò Napolitano "terùn"? Massacrato dai giudici: ai servizi sociali, scrive il 27 Settembre 2018 Tommaso Montesano su "Libero Quotidiano". Albino, provincia di Bergamo, 29 dicembre 2011. Umberto Bossi, leader della Lega, partecipa alla seconda edizione della festa provinciale del Carroccio. Nel corso del comizio, quello che fino a poche settimane prima era stato il ministro delle Riforme dell’ultimo governo Berlusconi, appena sostituito con l’esecutivo tecnico di Mario Monti, si scaglia contro Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Il linguaggio è quello tipico delle manifestazioni politiche. Il tono di Bossi, com’era nella natura del Senatùr, è concitato, travolgente. Solo che il fondatore della Lega, per l’occasione, aggiunge qualcosa: l’espressione «terùn» - terrone - e il gesto delle corna con la mano destra all’indirizzo del Capo dello Stato, napoletano di nascita. Otto anni dopo, quell’intemerata polemica è costata a Bossi, dopo l’apertura del procedimento penale per vilipendio al presidente della Repubblica, prima la condanna in via definitiva a un anno e quindici giorni di reclusione (lo scorso 12 settembre); poi, ieri, un ordine di carcerazione. Avete capito bene: Bossi deve andare in carcere per aver dato del «terrone» a Napolitano. Solo la contestuale emissione, da parte del sostituto procuratore generale di Brescia Gian Paolo Volpe, di un decreto di sospensione della pena ha salvato l’attuale senatore della Lega dalla prigione. Un atto, quello dei magistrati, che adesso consente a Bossi di chiedere, entro trenta giorni, di accedere a una delle misure alternative di detenzione: l’affidamento in prova ai servizi sociali (come fece Silvio Berlusconi dopo la condanna per i diritti tv Mediaset); la detenzione domiciliare; la semilibertà; la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva e l’affidamento in prova. Se il fondatore del Carroccio non opterà per nessuna delle pene alternative, la procura generale di Brescia si attiverà per far scontare a Bossi il periodo di reclusione. Il reato di vilipendio è disciplinato dall’articolo 278 del Codice penale e prevede la pena della reclusione, che oscilla da uno a cinque anni di carcere. In primo grado, il 22 settembre 2015, il tribunale di Bergamo aveva inflitto a Bossi un anno e sei mesi di reclusione. In appello, l’11 gennaio 2017, la condanna era stata confermata, seppure con una lieve riduzione della pena (dodici mesi). Pochi giorni fa, il procedimento ha terminato il suo corso con la pronuncia della prima sezione penale della corte di Cassazione. Non paga, la Suprema corte ha condannato Bossi anche a pagare 2mila euro alla Cassa delle ammende. Ieri è arrivato il sigillo delle toghe bresciane, con la firma dell’ordine di carcerazione (poi sospeso). A nulla sono valse, in tutti questi anni, le tesi della difesa, secondo cui le parole di Bossi si sarebbero dovute far rientrare nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali. Nel comizio incriminato, il Senatùr contestò Napolitano con queste parole: «Abbiamo subìto anche il presidente della Repubblica, che è venuto a riempirci di Tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord. Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn». Quindi il gesto delle corna. Apriti, cielo: alle parole di Bossi seguirono polemiche a tutto spiano, decine di querele e l’esposto che diede vita all’iter giudiziario. Con l’ipotesi di un «attacco sovversivo contro l’Unità d’Italia e i suoi organi costituzionali». A colpi di «terùn».
Regione Lombardia, caso Maroni, condanna a un anno: «Gli incarichi alle collaboratrici? Un suo interesse». Il Tribunale ha motivato la sentenza sull’ex governatore della Lombardia nel processo per i contratti di Maria Grazia Paturzo e Mara Carluccio, scrive Luigi Ferrarella il 18 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Sarebbe stato un problema sistemare in Regione Lombardia le due amiche della cui collaborazione (già sperimentata al ministero dell’Interno) l’allora presidente leghista della Regione Roberto Maroni non voleva privarsi: sia per l’ipoteca della Corte dei Conti che avrebbe posto «un profilo di danno erariale», sia per la «difficile gestione anche mediatica delle ripercussioni» sul tema «costi della politica, oggetto di interesse del partito di Maroni». È così che il Tribunale di Milano — nel motivare la condanna in primo grado a un anno (pena sospesa) per turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, e l’assoluzione dall’induzione indebita — inquadra i contratti temporanei a Mara Carluccio in Eupolis (ente di ricerca sotto controllo regionale) e a Maria Grazia Paturzo in Expo. Nel primo caso «Maroni, personalmente (ne è stata acquisita prova diretta) e per il tramite di Giacomo Ciriello» (suo capo staff, 1 anno di pena), «incaricò» il leghista segretario generale del Pirellone, Andrea Gibelli (oggi n.1 di Ferrovie Nord Milano, 10 mesi e 20 giorni di pena), «di segnalare al direttore generale di Eupolis, Alberto Bugnoli», otto mesi patteggiati), il nome di Mara Carluccio (sei mesi di pena). E «l’agire di Brugnoli», che «ricevette da Gibelli il curriculum di Carluccio ben prima dell’avviamento della selezione» sfociata in un incarico su misura da 29 mila euro, fu «rivolto all’esclusivo scopo di compiacere» l’«interesse personale di Maroni» e «non già per soddisfare una esigenza della PA». Nel secondo caso (cioè il viaggio a Tokyo di Paturzo, poi annullato, di cui Maroni nel maggio 2014 cercava di accollare le spese all’Expo di Beppe Sala), il Tribunale riporta due pagine di sms e intercettazioni per dare «la prova diretta della» invece sempre negata «esistenza di una relazione non solo professionale», foriera perciò di atti alla Procura, per ipotesi di false dichiarazioni, a carico di Paturzo e delle testi Isabella Votino (portavoce di Maroni) e Cristina Rossello (avvocato e parlamentare di Forza Italia). Ma negli sms e telefonate che il pm Eugenio Fusco qualificava come «pressioni» di Maroni su Cristian Malangone (il braccio destro di Sala già assolto definitivamente) i giudici Guadagnino-Amicone-Vanore ravvisano invece non «la perentorietà» di una pressione illecita, ma «la riproposizione di una richiesta più sbrigativa delle precedenti».
"Maroni salvo dal carcere solo perché si è dimesso". Le motivazioni della condanna, scrive Luca Fazzo, Martedì 18/09/2018, su "Il Giornale". E adesso forse si capisce qualcosa di più sui motivi per cui Roberto Maroni, tra lo stupore generale, l'8 gennaio scorso annunciò che non si sarebbe ricandidato alla carica di governatore della Lombardia. In quei giorni l'ex ministro degli Interni era sotto processo a Milano per i favori che avrebbe fatto a due donne del suo staff ma sembrava che la conseguenza peggiore in caso di condanna potesse essere la sua incandidabilità. Ora però arrivano le motivazioni della sentenza che ha messo fine a quel processo, dimezzando i capi d'imputazione e condannando Maroni solo per la accusa più lieve. E in questa sentenza si legge che a Maroni, condannato a un anno, viene concessa la sospensione condizionale solo perché intanto ha scelto di lasciare la carica. E quindi si può prevedere che non farà altri reati. Se l'italiano (benché giuridico) ha ancora un senso, vuol dire che se il governatore lombardo fosse rimasto al suo posto, avrebbe rischiato di finire ai domiciliari o in affidamento ai servizi sociali. Contro la concessione della condizionale pesava la «presenza di un precedente penale specifico», un'altra condanna di cui ieri, peraltro, i legali di Maroni negano l'esistenza. L'aspra conclusione cui approdano i giudici fa un certo effetto anche perché arriva al termine di novanta pagine dedicate in larga parte a riabilitare l'ex governatore, riconoscendone l'innocenza dall'accusa più grave che gli era stata mossa dal pm Eugenio Fusco: concussione per induzione, per avere costretto i vertici di Expo a imbarcare con lui in una missione a Tokyo la sua collaboratrice Maria Grazia Paturzo, che la sentenza definisce legata da Maroni «da una relazione non solo professionale». Qualunque fosse il sentimento che legava i due, per i giudici la presenza della Paturzo nella missione «aveva una sua giustificazione formale», visto il suo incarico; e soprattutto Maroni non fece nulla di illecito per imporla. Per l'accusa, la prova regina era un sms che un collaboratore di Maroni manda ai vertici di Expo: «Il Pres ci tiene», una sorta di ultimatum. Invece per i giudici nel messaggio «non sono ravvisabili né la perentorietà né il carattere ultimativo», «il contenuto del messaggio appare qualificabile più come una riproposizione della richiesta». E «le considerazioni del pm appaiono, più che fondate su effettivi dati sostanziali, una forzata interpretazione del dato letterale».
Maroni pubblicherà a novembre un libro “sulle vittime della giustizia mediatica”. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora su Il Foglio spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione, scrive di Tomaso Bassani su "Varesenews.it" il 21 settembre 2018. Nella nuova vita di Roberto Maroni, ex ministro, ex governatore della Lombardia ed ex segretario della Lega Nord oggi, formalmente, solo consigliere comunale varesino, c’è anche spazio per la scrittura. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione. Lo ha raccontato Maroni stesso nella sua rubrica pubblicata su Il Foglio dove toglie il velo sul libro al quale sta lavorando e che uscirà a novembre. Si tratta di una pubblicazione su quelli che l’ex governatore definisce “le vittime dei casi di giustizia mediatica”. “Tanti processi, tanto risalto mediatico, pochissime condanne – scrive Maroni -. Un principio di civiltà giuridica consacrato dalla Costituzione. Peccato che in questa Italia succeda l’esatto contrario. La sentenza di condanna mediatica arriva subito, talvolta precede persino l’informazione all’interessato di essere sottoposto a indagine. E poi recuperare è quasi impossibile”.
Per denunciare tutto questo Roberto Maroni sta scrivendo il suo libro: “manca il coraggio di parlar chiaro, io lo farò in un libro che uscirà a novembre”.
Lega, Tribunale di Milano dispone sequestro di 1,9 milioni a carico dell’avvocato Matteo Brigandì. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 settembre 2018. Il Tribunale di Milano ha disposto un sequestro preventivo ai fini della confisca da quasi 1,9 milioni di euro a carico dell’avvocato Matteo Brigandì, storico legale in passato della Lega e dell’ex leader Umberto Bossi, a processo per patrocinio infedele e autoriciclaggio perché, secondo l’accusa, “quale avvocato della Lega (è parte civile, ndr)” rendendosi “infedele ai suoi doveri professionali” avrebbe omesso “di denunciare il proprio conflitto di interessi” in relazione a un decreto ingiuntivo da lui richiesto per avere appunto quasi 1,9 milioni di compensi per la sua attività. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia. Per questo la Procura ha attivato una rogatoria per arrivare a bloccare quei soldi. Il processo, intanto, è stato aggiornato all’8 novembre. A Brigandì, che è stato anche parlamentare della Lega, viene contestato, infatti, anche l’autoriciclaggio perché avrebbe prima investito quei soldi “sottoscrivendo” una polizza vita e poi dopo un “disinvestimento trasferiva – scrive il pm nell’imputazione – la somma di 1,67 milioni” su un conto di una banca in Tunisia. Oggi il processo è stato aggiornato a novembre, perché il giudice Formentin passerà ad altro ufficio e, dunque, il dibattimento, di fatto non ancora iniziato, verrà celebrato da un altro giudice della decima sezione penale. Nel processo la Lega, rappresentata in aula dal legale Lorenzo Bertacco, è parte civile contro Brigandì per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Oggi avrebbero dovuto presentarsi in aula i primi testimoni dell’accusa, tra cui anche l’ex governatore lombardo Roberto Maroni, ma c’è stato il rinvio per il cambio del giudice. Con un nuovo giudice, tra l’altro, la Procura potrebbe anche richiedere di nuovo l’esame in aula di alcuni testi, tagliati dalle liste nella scorsa udienza, tra cui anche il leader della Lega Matteo Salvini perché, aveva spiegato il pm, in passato aveva firmato un atto di transazione con cui il Carroccio rinunciava ad ogni pretesa nei confronti di Brigandì. Poi, però, già in udienza preliminare, la Lega è entrata come parte civile per chiedere i danni allo storico legale di Bossi. Nel frattempo, è arrivato il provvedimento di sequestro preventivo, anche se il ‘congelamento’ di gran parte dei soldi passerà per l’esito della rogatoria attivata in Tunisia.
25 anni di insulti leghisti. Che il Sud non dimentica. Da Salvini a Borghezio e Bossi. La svolta nazionalista della Lega non cancella 25 anni di offese e insulti contro il Sud. Ecco i peggiori, scrive Mauro Orrico il 10 febbraio 2018 su "Face Magazine". Una delle ultime campagne elettorali di Matteo Salvini, quella delle recenti elezioni amministrative, è stata tra le più costose che la “casta” ricordi: oltre 8 mila agenti hanno scortato il leader leghista nelle sue tappe in giro per lo Stivale. Agenti – hanno accusato Pd e M5S – sottratti al controllo delle nostre città per difendere il Capitano – così lo chiamano i suoi seguaci – dalle decine di contestazioni che lo hanno accolto, soprattutto al sud. I motivi? Non solo le posizioni della Lega su migranti e sicurezza. Ma anni di insulti, allusioni, offese leghiste contro i meridionali. Recentemente Matteo Salvini ha chiesto scusa per i suoi attacchi, togliendo perfino la parola Nord dal “marchio” Lega. Una svolta che, più di un cambiamento culturale, ha il sapore di una metamorfosi di facciata, finalizzata ad espandere il consenso oltre i confini padani. La conversione leghista non trova però riscontri nell’attività parlamentare. Ilfattoquotidiano.it ha monitorato le proposte di legge del Carroccio depositate in Parlamento dall’inizio dell’ultima legislatura. Tra tutti i testi, sono pochissimi quelli rivolti al Sud. Tra questi, uno riguarda il tema immigrazione a Lampedusa e Linosa. E poco altro. Resta una storia fatta di insulti, allusioni, volgarità gratuite e vecchi pregiudizi che buona parte del Sud non dimentica, nonostante la netta crescita di consensi per Matteo Salvini in tutto il paese.
25 ANNI DI INSULTI CONTRO IL SUD. ECCO I PEGGIORI
2009. Festa di Pontida. Matteo Salvini intona il coro: “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. In seguito ha precisato: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, dallo stile di vita e dalla mentalità del Nord. Non abbiamo nessuna cosa in comune. Siamo lontani anni luce”.
2011. In merito al terremoto a L’Aquila, l’europarlamentare Mario Borghezio dichiara: “Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. Il comportamento di molte zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate”.
Agosto 2012. Matteo Salvini su Facebook: “Una sciura siciliana grida e dice “vogliamo l’indipendenza, stiamo stanchi degli attacchi del Nord”. Evvaiiiiiiii”
Settembre 2012. Vito Comencini, segretario di sezione e vice coordinatore provinciale dei Giovani padani, su Radio Padania, dice: «Carta igienica al Sud, che devono ancora capire a cosa serve».
Novembre 2012. Donatella Galli, consigliera leghista della provincia di Monza e Brianza, invoca l’aiuto dei vulcani per pulire il sud: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”
La seguente dichiarazione, inizialmente attribuita a Matteo Salvini, è invece di Luca Salvetti, dei Giovani Padani di Mantova ed è stata pronunciata nel corso del Congresso dei Giovani Padani del 2013: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”. Se oggi Salvini si dichiara acerrimo nemico dell’euro, poco tempo fa non la pensava nello stesso modo. E il Sud, a suo dire, l’euro non lo meritava.
2014. Riguardo ad una possibile riforma della Scuola, il solito Matteo Salvini dichiara: “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”.
Dicembre 2014. Il leader del Carroccio scrive su facebook: “Chi scappa non merita di stare qui, lo considero un fannullone. E non è un caso che siano AFRICANI o MERIDIONALI ad andarsene, gente senza cultura del lavoro”. Questo post è tuttavia stato segnalato dal sito Bufale.net come un fake. I 99 Posse che hanno condiviso il post affermano il contrario.
Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso: “E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe”.
E, ancora, un’altra storica “perla” salviniana: “Carrozze metro solo per milanesi”.
NON SOLO SUD: LE PEGGIORI SPARATE LEGHISTE. Ma non solo i meridionali sono stati al centro di anni di insulti leghisti. Anche i migranti, le ex ministre, gli omosessuali, i disabili e tutte le minoranze. E perfino i terremotati dell’Emilia. Ecco alcuni dei più raccapriccianti.
“Terremoto nel nord italia… Ci scusiamo per i disagi ma la Padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)…” (Stefano Venturi, segretario della Lega di Rovato, Brescia, sul terremoto in Emilia nel 2012)
“Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna”. (Dolores Valandro, consigliere leghista di quartiere a Padova)
“Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucil”. (Giancarlo Gentilini, ex sindaco di Treviso, alla Festa della Lega nel 2008)
“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù”. (Mario Borghezio su Radio24, nel 2012)
“Crediamo sia giunto il momento di prevedere sul treno degli appositi vagoni per extracomunitari, e delle carrozze riservate ai poveri italiani”. (Erminio Boso e Sergio Divina, consiglieri provinciali di Trento)
“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni”. (Roberto Calderoli, novembre 2010)
“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga”. (Renzo Bossi, ex consigliere regionale della Lombardia)
“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati”. (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)
“Meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni”. (Umberto Bossi, ex ministro delle Riforme per il Federalismo).
Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:
- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.
«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».
- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?
«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».
- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?
«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».
-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?
«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause, o per il gratuito patrocinio); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».
-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?
«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.
Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:
Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);
Durante le prove (copiature e dettature);
Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);
Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).
Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».
- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?
«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».
- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.
«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato. Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».
Lega, da Bossi a Salvini il nemico è sempre il diverso. L'attuale leader della Lega è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, mutuandone i paradigmi. Così il terrone di ieri è diventato l'immigrato clandestino di oggi, scrive Andrea Pietrobelli il 3 luglio 2018 su "Lettera 43". Viva el leon che magna el teron. Per anni in Veneto, ma non solo, questo è stato uno dei motti che i militanti della Lega intonavano quando si affrontavano temi che riguardavano il Meridione. La gente del Sud - i «terroni» - era descritta come il male del Nord principalmente per tre motivi: l'immigrazione, l'assistenzialismo e la criminalità. Il Mezzogiorno, nella narrazione nordista, non solo era la cancrena della nazione, non solo rubava il lavoro con una massa di persone che occupavano posti che spettavano ai polentoni, ma sprecava anche tutte le risorse che le Regioni settentrionali stanziavano all'odiato Stato centrale per aiutare sostentamento e sviluppo di quella disgraziata parte d'Italia.
IL MEZZOGIORNO PROSECUZIONE DELL'AFRICA. Per i leghisti di allora il 'terrone', oltre che rubare il lavoro, era anche tendenzialmente fancazzista e geneticamente portato alla disonestà e alla mafia. Così il Sud diventava, nelle parole della prima Lega, la prosecuzione dell'Africa e dei suoi abitanti. Più che italiani, erano più simili a marocchini, tunisini, egiziani: non solo per situazione economica e tessuto sociale, anche per questioni di sangue. Tutta propaganda con cui Umberto Bossi ha costruito il suo consenso: dal mito della Padania alla retorica anti-italiana, con tanto di Mondiale di calcio giocato in un campionato a parte, dalla secessione fino all'inseguimento di un federalismo che non ha ancora visto concretamente la luce nonostante anni di governo a trazione Fi-Lega.
L'ULTIMO RUGGITO DI BOSSI. Non stupisce, quindi, che Bossi, nell'intervista al Corriere della Sera del 3 luglio, abbia risfoderato l'antica retorica della 'sua' Lega Nord in chiave anti Salvini, capofila di un neo-nazionalsovranismo (che in realtà di nuovo ha veramente poco) che ha sacrificato l'istanza secessionista sull'altare dell'orgoglio italico. Parlando della sua Pontida "invasa" dai meridionali, il Senatùr non è andato per il sottile: «Ho visto solo un sacco di gente interessata a essere mantenuta». E sul successo dell'edizione "populista" ha commentato sarcastico: «Se ci porti lì anche l'Africa...». C'è una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud bossiani con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire. Ma sono così diversi Bossi e Salvini? Sì e no. L'attuale leader della Lega, che è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, ha lavorato negli ultimi anni, a suon di felpe e territorialismi, per creare un leghismo nazionale. Su questo, rispetto al suo maestro, la sterzata è stata netta e, a vedere i risultati, vincente. C'è però una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire.
POPULISMI DI OGGI, CAMICIE VERDI DI IERI. Per il Capitano e i suoi discepoli, i migranti «non fanno nulla dalla mattina alla sera», sono mantenuti, aumentano la criminalità. Esattamente come un campano o un calabrese che negli Anni 90 si trovava a vivere al Nord, per cercare fortuna o perché spinto dalla fame. Una retorica che qualcuno ha definito dell'egoismo, che strizza l'occhio alla xenofobia e che sembra far breccia nel cuore dei populisti di oggi esattamente come nelle Camicie verdi di ieri.
C'È SEMPRE UNO PIÙ A NORD. Sia Salvini sia Bossi, partendo da problemi reali che andrebbero affrontati seriamente, evocano uno straniero più debole e che sta più a Sud come nemico del popolo, come ragione delle disgrazie del "popolo" e pronto a rovinarci ancora di più la vita. Esattamente come, per gli Stati del Nord Europa, Germania in primis, l'Italia è un peso morto, un Paese corrotto, criminale e assistenzialista, che tendenzialmente non vuole pagare i suoi debiti (non a caso lo Spiegel ci ha definiti «scrocconi») e che gestisce le risorse europee sprecandole. Quindi attento Salvini: parafrasando Pietro Nenni, c'è sempre uno più a Nord che ti epura.
CI VUOLE LA BBC PER RIPESCARE UN GRANDE ANEDDOTO SU SALVINI - L'EX MOGLIE PUGLIESE, FABRIZIA: ''AL MATRIMONIO SI È SPOGLIATO, HA INDOSSATO LA CAMICIA VERDE LEGHISTA MENTRE I SUOI AMICI INTONAVANO CORI ANTIMERIDIONALI, CON I MIEI 200 PARENTI CHE FISCHIAVANO, ULULAVANO 'BUUUU''' - LEI ALLE NOZZE ERA INCINTA, SI SEPARARONO POCO DOPO. TRE ANNI FA DISSE: 'CON QUESTA TIZIA (LA ISOARDI) NON E' UNA STORIA VERA. LA SUA ANIMA GEMELLA E'...'
Da repubblica.it l'8 agosto 2018. Un lungo ritratto di Matteo Salvini, tra pubblico e privato, sotto il titolo: "Può l'Italia fidarsi di quest'uomo?". La Bbc riserva al ministro dell'Interno un articolo del corrispondente James Reynolds che ha un attacco un po' di maniera sull'immagine del leader leghista che a differenza degli altri politici italiani in completo e camicia solo raramente indossa la cravatta ma quasi sempre slacciata. Un Salvini che - mentre parla con i giornalisti durante la campagna elettorale del 4 marzo - fuma e controlla il telefono (ndr, in realtà negli ultimi mesi Salvini ha provato più volte a smettere di fumare"). Si racconta il suo exploit elettorale imprevisto, la coalizione con i 5Stelle, la scelta da parte della coalizione di uno "sconosciuto professore di diritto" come premier sostanzialmente "privo di potere", insomma un percorso che ha portato il leader leghista a diventare l'uomo forte dell'esecutivo italiano. La ricostruzione del passato di Salvini sconfina un po' nel folclore: gli esordi come "secessionista di estrema sinistra", con la "spilletta di Che Guevara" nei comunisti Padani. La mancata stretta di mano al presidente Ciampi, quando era in Consiglio comunale a Milano ("Lei non mi rappresenta"), i cori contro i napoletani e al tempo stesso il matrimonio con una pugliese, Fabrizia Ieluzzi (la coppia ha divorziato nel 2010), che racconta: "Al taglio della torta, ha indossato la maglietta verde e insieme ai suoi amici ha cominciato a cantare cori antimeridionali, con tutti i miei parenti che hanno cominciato a fischiare". Ma l'articolo della Bbc individua alcune chiavi del successo di Salvini: l'aver deciso, a un certo punto, la trasformazione del partito da secessionista a nazionalista e l'aver individuato due nemici: l'Europa e i migranti. L'avversario principale non era più dunque lo Stato italiano: nel mirino entravano Unione europea e immigrazione. In pratica, la chiave del successo per la Bbc è nel suo profilo da camaleonte in grado di adattare il messaggio politico al mutare delle situazioni. Ma anche le sue caratteristiche umane, la capacità di presentarsi come il "ragazzo della porta accanto" - con la passione per calcio e donne - rispetto ai politici italiani per motivi diversi percepiti come distanti, irraggiungibili. E di alternare attacchi feroci ai migranti - dipinti in campagna elettorale come "ladri e criminali" - a selfie e battute. Un ritratto forse più concentrato sulle origini di Salvini che sull'attuale svolta a destra del ministro dell'Interno. Che comunque non tralascia l'evocazione di Mussolini. "Il linguaggio diretto di Salvini ricorda ad alcuni italiani quello di Mussolini negli anni Venti e Trenta, quando gli insulti furono seguiti dalla persecuzione delle minoranze" e dalle leggi razziali, scrive James Reynolds. L'articolo si conclude con una riflessione sull'internazionale sovranista - i legami con Marine Le Pen, ma anche con Trump e Putin - e con una previsione a tinte forti: che il futuro dell'Unione europea possa giocarsi proprio nella competizione tra Matteo Salvini e il presidente francese Emmannuel Macron.
L'aneddoto del Buuu al matrimonio raccontato da Fabrizia Ielluzzi a Sara Faillaci su''VANITY FAIR'' nel 2015. «Quando arrivi in alto, devi tenere gli occhi aperti perché c’è sempre qualcuno che ti liscia il pelo, o che sta con te perché vuole ottenere qualcosa. Teo è un po' ingenuo da questo punto di vista, ci sta che qualcosa ci sia stato con questa tizia (Elisa Isoardi, ndr), non ne ho idea, ma di certo non è una storia». Di Matteo «Teo» Salvini, Fabrizia Ieluzzi è stata l'unica moglie. Si sono sposati trentenni nel 2003, quando lei – già incinta di Federico, primogenito del leader leghista – era una giornalista radiofonica in carriera con la passione per la politica, simpatizzante per Forza Italia, e lui un semplice consigliere comunale milanese. Il matrimonio è durato a malapena due anni, seguito subito dopo dalla lunga relazione tra Salvini e la sua compagna storica Giulia Martinelli, madre della secondogenita Mirta. Rapporto, quest’ultimo, che sarebbe stato messo in crisi proprio dal flirt con la conduttrice Rai. Ma Fabrizia Ieluzzi, che in tutti questi anni non ha mai rilasciato interviste, spiega a Vanity Fair che secondo lei quella con la Isoardi è una storia senza futuro. «Da ex moglie, quindi vale doppio, posso testimoniare che Matteo e Giulia sono due anime gemelle, le metà della stessa mela», dice l'ex Signora Salvini. «Lei è una militante della Lega, sono cresciuti insieme; anzi, posso dire che lui l'amava da quando erano pistolini, c'era anche prima di me. Lei è nel suo cuore, non la levi nemmeno con lo scalpello. Ti pare che bastano due tette che camminano per riuscirci? Io sono pronta a scommettere che torneranno insieme. Una cosa del genere, nell'economia di una vita insieme, si supera». Nell'intervista che Vanity Fair pubblica nel prossimo numero, Fabrizia Ieluzzi racconta tutto della loro storia. L'improbabile colpo di fulmine – lui nordista, lei pugliese –, i romanticissimi sms del corteggiamento di Salvini, la cerimonia di nozze dove lo sposo improvvisa uno striptease (testimoniato dalle foto che Vanity Fair ha ottenuto in esclusiva) per indossare una camicia verde mentre i giovani padani intonano il coro «Secessione» e i parenti meridionali della sposa rispondono a suon di «Buuu!», l'affetto della nonna di lei che lo rimpinza e gli parla in un dialetto per lui incomprensibile. E poi le inevitabili incomprensioni, la separazione, la nuova vita professionale di lei, la serena famiglia allargata costruita con Giulia Martinelli e i due figli, i difetti di Salvini come compagno e i suoi pregi come padre, il suo carisma politico e la sua incapacità di farsi consigliare. E la volta che il piccolo Federico è andato a un concerto di Fedez, «nemico» di papà.
CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.
Accuse di razzismo e xenofobia alla Lega Nord. Da Anarcopedia. Le accuse di razzismo e xenofobia alla Lega Nord accompagnano la storia della Lega Nord fin dagli esordi sulla scena politica italiana.
Le prime accuse di razzismo anti-meridionale. Fino al 1990 la Lega Nord ha ricevuto principalmente accuse di razzismo anti-meridionale. Una dichiarazione precisa in questo senso fu rilasciata da Gianfranco Fini, all'epoca segretario dell'MSI, dopo le elezioni amministrative del 1988. Solo dopo si parla di razzismo contro l'immigrato extracomunitario, anche se ancora il 27 novembre 2003 Bossi sosteneva che nel Nord c'è una maggioranza etnica, quella del Centro-Sud, messa insieme dal centralismo romano, che ha occupato tutti i posti chiave dello Stato, anche da noi al Nord. Siamo colonizzati». Alla fine del 1990 Mario Pirani, in un editoriale su la Repubblica, si interrogava sulle ragioni del successo della novità leghista sostenendo che il «razzismo, di cui il movimento è accusato e che spiegherebbe anche, secondo una critica facile quanto scontata, il successo incontrato, attribuibile ai demagogici slogan anti-terroni e anti-vu' cumprà. Ora, non che questi slogan non siano diffusi con disinibita improntitudine e non corrispondano a reattività emotive determinate dall'afflusso crescente di immigrati di ogni provenienza, ma, pur tuttavia, non ci sembra questa la radice prima di un così ampio consenso. Se mai ne costituisce il collante che salda gli umori popolari immediati alle paure e alle insofferenze più articolate dei ceti d'impresa. Un po' come il combattentismo degli anni 20 in rapporto al fascismo».
Le prime accuse di razzismo xenofobo (1992-1993). Al suo vero debutto in Parlamento nel 1992, la Lega Nord fu accostata da Marcelle Padovani sul settimanale francese di sinistra Le Nouvel Observateur, in un numero dedicato alle estreme destre europee, alla demagogia di Jean Marie Le Pen, all'estremismo nero di Jörg Haider, al secessionismo del Vlaams Blok, alla xenofobia di Franz Schoenhuber, al populismo di Gerhard Frey. Nell'articolo si affermava «la Lega rifiuta ogni assimilazione ai neofascisti, gioca su temi regionalisti venati di xenofobia». Negli stessi giorni il socialista Rino Formica sostenne che la Lega è uguale al fascismo. Bisogna dire alto e forte che il professor Miglio propone tesi fasciste e rispolvera studi che gli furono commissionati dal signor Cefis negli anni Settanta.» Nel 1993 in Razzismi. Un vocabolario di Laura Balbo e Luigi Manconi, alla voce «leghismo» si afferma, fra l'altro, che «l'ostilità contro gli immigrati extracomunitari (così come l'ostilità contro gli immigrati meridionali fino al 1990) costituisce un tratto qualificante dell'identità della Lega e del suo discorso pubblico; il rifiuto della diversità è elemento costitutivo della subcultura leghista».
Il discorso di Bossi al III Congresso federale (1997). In occasione del III Congresso federale, il 15 febbraio 1997, Umberto Bossi si scaglia contro l'Italia che «tratta i popoli della Padania come colonie interne da sfruttare economicamente e da assoggettare etnicamente, magari spingendovi le masse di immigrati extracomunitari che dovrebbero secondo le analisi degli illuminati di Santa Romana Chiesa raggiungere i 13 milioni di individui in pochi decenni. Evidentemente per Roma e per gli Italiani il più grave problema della Padania è che ci sono troppi Padani. La razza pura ed eletta dei romanofili pensa di poter dirigere dall'alto le terre incognite padane ridotte a colonie penali celtiche-congolesi nel nome sacro ed eterno di Roma». Tali affermazioni saranno commentate dall'allora cardinale Joseph Ratzinger come «cose che fanno male. Questa ideologia di una razza pura che non deve essere inquinata da altre è una malattia del cuore. La razza pura non esiste. La convivenza di diverse provenienze umane è ricchezza culturale. Questa idea di una razza che si deve difendere mi fa pensare troppo al passato».
L'opuscolo degli Enti Locali Padani Federali (1998). Nel dicembre 1998 viene pubblicato e divulgato dal movimento l'opuscolo degli Enti Locali Padani Federali a cura di Giorgio Mussa - allora funzionario del dipartimento esteri del Carroccio -, Padania, Identità e Società Multirazziale. Secondo alcuni le idee in esso espresse, che ricalcherebbero i 70 punti antimmigrazione del Vlaams Blok, diverranno la prova di quanto la Lega Nord sia un partito xenofobo e razzista. Allo stesso opuscolo si richiamerà la storica Marcella Filippa, già autrice nel 1998 per la Società Editrice Internazionale di Torino del volume Dis-crimini. Profili dell'intolleranza e del razzismo, quando sarà udita nel 2004 come consulente del Pubblico Ministero dal Tribunale di Verona nel processo, già citato nei rapporti dell'ECRI, che giudicherà colpevoli di incitamento allodio razziale sei esponenti locali della Lega Nord.
Il comizio di Bossi a Crema (1999). In discorsi pubblici contro la globalizzazione come quello di Bossi a Crema del 20 febbraio 1999, secondo Pietro Citati vi si «avvertono gli echi di un libro, Mein Kampf di Adolf Hitler». In quell'occasione Bossi invitava i cittadini a firmare per l'abrogazione della legge Turco-Napolitano avvertendo che «il progetto mondialista americano è chiaro: vogliono importare in Europa 20 milioni di extracomunitari, vogliono distruggere l'idea stessa di Europa garantendo i propri interessi attraverso l'economia mondialista dei banchieri ebrei e attraverso la società multirazziale. Ma noi non lo consentiremo. (...) Il disegno dei 20 potenti americani non passerà, anche se usano armi potenti come droga e televisione».
Il dibattito in UE (2000-2001). Il 21 settembre 2000 viene approvata la proposta di risoluzione del Parlamento europeo sulla posizione dell'Unione Europea nella Conferenza mondiale contro il razzismo del 2001. Per l'occasione l'eurogruppo dei Verdi europei aveva presentato un emendamento che stilava un elenco delle forze politiche razziste e xenofobe europee, includendo la Lega Nord. L'emendamento sarà respinto con 394 voti contro, 85 a favore, 12 astenuti su suggerimento del relatore della proposta di risoluzione la quale si rammaricò che fosse «stata scelta questa occasione per indicare taluni paesi e partiti attribuendo loro un ruolo particolarmente negativo. (...). Scegliere alcuni paesi, escludendone altri, implica che non è stata effettuata una valutazione complessiva della questione». Alla fine del febbraio 2001 nuove accuse di fascismo alla Lega arrivano dal ministro degli Esteri belga Louis Michel, per il quale «Bossi è un fascista». Bossi reagì liquidando Michel come «un nazista, un nazista rosso... Uno di quelli della sinistra che ha capito che sta perdendo tutto e passa agli insulti». Nel 2002 uno speciale di Corriere.it su estrema destra e xenofobia in Europa affermava che «Bossi e altri principali esponenti leghisti hanno espresso posizioni xenofobe, omofobe e talvolta razziste (come ha sottolineato anche il secondo rapporto della Commissione europea contro l'intolleranza e il razzismo, mai smentito dal governo italiano). La Lega Nord non può comunque essere considerata un partito di estrema destra, non avendo mai assunto posizioni antisemite e nemmeno neofasciste. L'unico tratto comune con i partiti dell'estrema destra europea, a parte la xenofobia, è l'avversione all'attuale politica di integrazione dell'Unione europea».
I rapporti dell'ECRI (2002-2006). La Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza (ECRI), organo di esperti indipendenti del Consiglio d'Europa, in due rapporti consecutivi sulla situazione italiana, nel 2002 e nel 2006, ha denunciato come «gli esponenti della Lega Nord hanno fatto un uso particolarmente intenso della propaganda razzista e xenofoba, quantunque si debba notare che anche dei membri di altri partiti hanno usato un linguaggio politico xenofobo od in altra maniera intollerante». Quattro anni dopo l'ECRI ha notato «con rammarico che, da allora, alcuni membri della Lega Nord hanno intensificato l'uso di discorsi razzisti e xenofobi in ambito politico. Pur rilevando che si sono espressi in tal senso soprattutto dei rappresentanti eletti locali di questo partito, anche certi importanti leader politici a livello nazionale hanno rilasciato dichiarazioni razziste e xenofobe. Tali discorsi hanno continuato a prendere di mira essenzialmente gli immigrati extracomunitari, ma anche altri membri di gruppi minoritari, ad esempio i Rom e i Sinti». Di seguito si ricorda «che nel dicembre del 2004, Il tribunale di prima istanza di Verona ha giudicato colpevoli di incitamento all'odio razziale sei esponenti locali della Lega Nord, in relazione a una campagna organizzata per cacciare un gruppo di Sinti da un campo temporaneo sul territorio locale. Le sei persone furono condannate a sei mesi di prigione, e al pagamento di 45.000 Euro per danni morali, con divieto di partecipare a qualsiasi attività di propaganda elettorale per tre anni e di presentarsi alle elezioni nazionali e locali».
L'opposizione leghista al mandato d'arresto europeo per razzismo e xenofobia (2001). Alla fine del 2001 la Lega, tramite il suo ministro della Giustizia Roberto Castelli, è stata in prima fila per impedire all'Unione Europea di adottare un mandato di cattura europeo (volto a sostituire nel tempo le estradizioni all'interno della UE) meno estensivo. Parlando da Radio Padania Libera l'8 dicembre 2001 Castelli spiegherà che «tra i trentadue reati proposti (che l'Italia vuole ridurre a sei, ndr) c'è quello di razzismo e xenofobia: chi decide a livello europeo chi è razzista e chi no? Chi garantisce, ad esempio, i cittadini che scenderanno in piazza domani?». E il giorno dopo alla manifestazione leghista No immigrati, sanatoria, terrorismo a Milano Castelli avverte i suoi compagni di partito che «se non mi fossi opposto al mandato di cattura europeo, avremmo corso il rischio di avere un vero e proprio reato di opinione su razzismo e xenofobia. Tutti voi avreste rischiato di essere arrestati da un qualsiasi magistrato europeo di sinistra, e vi assicuro che ce ne sono molti, solo perchè siete qui a manifestare contro l'immigrazione clandestina». Poche ore dopo il governo italiano ritira ogni pretesa, con grande disappunto della Lega. La decisione quadro in Italia è stata attuata con la Legge 22 aprile 2005 n. 69.
L'opposizione leghista alle tesi europee sul reato di razzismo e xenofobia (2002-2008). Il 25 aprile 2002 Castelli dichiara la sua contrarietà alla dichiarazione approvata all'unanimità dal Consiglio dei ministri dell'Unione Europea contro il razzismo e la xenofobia. Castelli contesta che quella dichiarazione ponga anche la necessità di «armonizzare le legislazioni nazionali contro il razzismo e la xenofobia» sulla base della proposta quadro presentata dalla Commissione il 29 novembre 2001 ove «per "razzismo e xenofobia" si intende il convincimento che la razza, il colore, la discendenza, la religione o i convincimenti, l'origine nazionale ed etnica siano fattori determinanti per nutrire avversione nei confronti di singoli individui o di gruppi». Così, secondo il ministro leghista, si «rischia di sconfinare in una limitazione della libertà di pensiero. Per esempio, il reato fa riferimento anche al convincimento che un individuo si ritenga superiore a un altro. Io mi chiedo: come può un magistrato entrare nel convincimento personale di un individuo? Il punto è che stiamo viaggiando su una linea di confine molto delicata: un conto è essere razzista, e noi condanniamo il razzismo e la xenofobia, un conto è esprimere liberamente le proprie opinioni e fare lotta politica». Ma per la Commissione europea «il convincimento in sè non è considerato reato: sono solo le azioni criminose motivate da questo convincimento che vengono punite, e per le quali la motivazione razzista è considerata un'aggravante». Sempre in nome della «libertà di opinione», nel marzo 2003 Castelli porrà il veto dell'Italia al Consiglio dei ministri della Giustizia della UE sull'approvazione della decisione-quadro sul razzismo e la xenofobia. Ancora il 2 giugno 2005 Castelli torna a porre il veto motivandolo stavolta per il «rinvio a giudizio di Oriana Fallaci per xenofobia» avvenuto una settimana prima, e perchè «il Parlamento italiano intende riprendere in mano i reati d'opinione». Come in effetti accadrà con la promulgazione della Legge 24 febbraio 2006, n. 85 che ha alleggerito notevolmente anche le pene contro l'odio razziale o etnico. L'UE arriverà a un accordo su razzismo e xenofobia solo nel novembre 2008.
Il caso Salvini (2009). Nel 2009 la Lega subirà nuove accuse di razzismo per i comportamenti di Matteo Salvini, deputato e capogruppo leghista in Consiglio comunale a Milano, prima (7 maggio) a causa della sua proposta (che lui stesso definisce provocatoria) di «pensare a posti, o vagoni, riservati ai milanesi» o alla «possibilità di riservare le prime due vetture di ogni convoglio alle donne che non possono sentirsi sicure per l'invadenza e la maleducazioni di molti extracomunitari», e poi il (7 luglio) quando è ripreso in un video pubblicato da Repubblica Tv mentre con altri leghisti intona cori contro i napoletani alla festa di Pontida del 13 giugno precedente. In entrambi i casi anche gli alleati spesso prenderanno le distanze.
La condanna di Gentilini, Tosi e altri (2009). Il 14 settembre 2008 dal palco della Festa dei popoli padani, il vicesindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, inveisce contro gli immigrati con modi e tesi giudicate razziste prima dal quotidiano CEI Avvenire, poi da Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa e infine dal Tribunale di Venezia che nell'ottobre 2009 condannerà Gentilini a 4.000 euro di multa e alla sospensione per tre anni dai pubblici comizi per istigazione al razzismo. Analogo provvedimento prenderà in quei giorni la Cassazione contro il sindaco leghista Flavio Tosi per i già citati episodi razzisti del 2001.
Il dibattito in ambiente accademico. Nel 2001 Anna Cento Bull e Mark Gilbert in The Lega Nord and the Northern Question in Italian Politics (Basingstoke, Palgrave) analizzando la Lega hanno sostenuto che fino al 1995 «è sostanzialmente corretto identificare la Lega con una subcultura politica contrassegnata da forti accenti populistici», ma dal 1996, cioè «dalla fondazione della Padania, in ogni caso, questa distinzione è venuta meno e oggi la Lega dovrebbe essere considerata parte della famiglia di estrema destra dei partiti politici» per via della sua maggiore ostilità al multiculturalismo, all'integrazione europea e alla globalizzazione (p. 106). A tal proposito Duncan McDonnell ha commentato che pur apprezzando «lo sguardo obiettivo e imparziale con cui Cento Bull e Gilbert esaminano l'argomento» ha sostenuto in modo più conciliante che «ormai si dovrebbe capire che le affermazioni della Lega non dovrebbero sempre essere prese alla lettera: le posizioni del partito, per quanto discutibili e a volte espresse grossolanamente, spesso mirano a provocare il dibattito pubblico e politico, attirando l'attenzione su questioni che sono fonte di inquietudine nelle roccaforti leghiste (e non solo)».
La difesa della Lega Nord. La Lega Nord ha sempre respinto le accuse di razzismo e xenofobia definendole come «pretesti» per «demonizzare e isolare la Lega». E il 12 aprile 1996 Bossi riteneva che «il razzismo non è quello che dicono gli altri per farci passare da razzisti. Razzismo è un'altra cosa, è il controllo dell'economia dei popoli da parte di una etnia, è il controllo dell'economia degli altri». Più in là, sempre Bossi il 23 dicembre 1996 dichiarava: «Io non parlo di valore etnico, chiunque, da qualunque parte venga, può partecipare alla nascita della nazione padana. Tutti quelli che vivono in Padania, siano essi bianchi o neri o gialli, da qualsiasi parte vengano, nel '97 devono trovare la forza per fare la Padania». Al momento della pubblicazione del rapporto ECRI del 2002, Bossi aveva difeso sè e la Lega affermando che «La Lega non è razzista e non è xenofoba. Noi siamo democratici. (...) Io sono tranquillo, queste accuse le respingo al mittente. Razzista e xenofoba è la sinistra. Noi siamo in regola, non siamo Le Pen. (...) Noi siamo il contrario di Le Pen e chi ci accosta a un farabutto. Altro che razzisti e xenofobi». Dal giugno 2009 la Lega Nord vanta nel Comune di Viggiù il primo sindaco nero italiano, Sandra Maria detta Sandy Cane, per la quale «la Lega non è affatto razzista chiede solo che sia messo un freno all'illegalità perchè ci sono troppi clandestini».
Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona? Scrive il 25 dicembre 2015 Giulio Cavalli. (Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano). Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova. Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996. L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimo blitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura. Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro. E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.
FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD (1988-2013)
1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57
TOTALE 179.961.382,78
Lega Ladrona, per non dimenticare, scrive Claudio Rossi su "L'Uomo Qualunque". Umberto Bossi e i suoi figli Renzo e Riccardo devono rispondere all’accusa di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici (ottenuti con rimborsi elettorali) che sarebbero stati usati per pagare le spese personali più varie, di tutto e di più, ben elencato qui sotto. Una somma che gli imputati si sarebbero accaparrati insieme all’ex tesoriere dalle casse leghiste, a scopo personale, detto da Uomo Qualunque per farsi i cazzi loro. Lo ha disposto il gip di Milano Carlo Ottone De Marchi nell’ottobre scorso. Niente udienza preliminare e iter accelerato, quindi, per un processo diviso in tre “filoni”. Due di questi resteranno a Milano (compreso quello sul presunto riciclaggio contestato all’ex tesoriere Francesco Belsito, ndr), mentre un’altra parte è stata trasferita a Genova per competenza territoriale. Ovvero, quella relativa alla truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato, per circa 40 milioni di euro. Da quanto si è saputo, Riccardo Bossi, figlio di primo letto di Umberto, punta a patteggiare la pena. Ecco come spendeva i nostri soldi la Lega Nord, per non dimenticare:
– RENZO BOSSI: 145.524,88 EURO
MULTE: 7.821 EURO. Nel solo 2011, tra Bergamo, Brescia e Piacenza, a bordo di vetture diverse (Alfa 159, Audi A5, Volvo S80), prende multe per quasi ottomila euro.
LAUREA A TIRANA: 71.131 EURO. La storia è nota. Di là dell’Adriatico, il figlio del Senatùr, acquistò il titolo di studio.
– RICCARDO BOSSI: 157.933,13 EURO
MULTE: 2.110 EURO. Ne prende circa quattro al mese a bordo di una Bmw X5. Per la maggior parte a Milano.
LEASING MERCEDES ML: 21.350 EURO. È tra i soldi spesi dalla Lega nel 2011.
LEASING CLIO: 6.974 EURO. Anche per questa seconda vettura paga il Carroccio.
LAUREA: 3.413 EURO. È il costo dell’Università dell’Insubria.
ABBONAMENTO SKY: 454 EURO. Pacchetti Sky per la Lega.
EX MOGLIE MARUSKA: 8.050 EURO. Anche l’ex moglie di Riccardo riceve bonifici da via Bellerio.
VETERINARIO: 439 EURO. A tanto ammonta la parcella presentata alla Lega.
– UMBERTO BOSSI: 208.565 EURO
VESTIARIO: 26.786 EURO. Cravatte, camicie e completi del presidente passano sui conti della Lega. Ci sono anche scarpe da ginnastica, pigiama e calzettoni.
GIOIELLI: 220 EURO. È il conto dal gioielliere.
DENTISTA: 1.500 EURO. La Lega come la mutua.
CLINICA PRIVATA 9.901,62. Il Carroccio prende a carico anche le cure in una clinica privata per Sirio, figlio minore del Senatùr.
– FRANCESCO BELSITO: 2.400.000 EURO
ARMI: 2.375 EURO. Il Tesoriere spende in armeria.
UNIVERSITÀ: 5.436. È un po’ una passione, quella dell’istruzione, per la Lega del 2001.
BORSA DI VUITTON: 960 EURO. Non doveva nemmeno essere un modello costosissimo.
CESTO DI FIORI: 290 EURO. Anche il conto del fioraio tra gli scontrini pagati con il finanziamento pubblico dei partiti.
P.S. Ora la Lega queste cose non le fa più, vero Salvini?
Da Garavaglia a Rizzi, la Lega lascia a casa le scope, oggi il nemico è la magistratura, scrive Andrea Carugati, Giornalista, su "L'huffingtonpost.it" il 16/02/2016. Sono passati quattro anni da quella serata alla Fiera di Bergamo, quando Bobo Maroni guidò la rivolta delle scope contro gli scandali che avevano travolto il cerchio magico di Umberto Bossi e i suoi figli. Una serata all'insegna della rottamazione giudiziaria, con il vecchio Senatur sul palco a chiedere scusa per il Trota, e i "barbari sognanti" di Maroni in platea a gridare cori da stadio contro Rosy Mauro, la vestale del cerchio, che subì una sorta di rogo medievale come una "strega". Una strega "terrona", visti i suoi natali pugliesi. "Rosy pu....a l'hai fatto per la grana", gridavano. Maroni dal palco fu categorico: "Se non si dimette lei, la dimetterà la Lega". "Dobbiamo fare pulizia, chi sbaglia paga". In quella notte di rottamazione ante litteram, con gli scandali e i diamanti che sembravano travolgere il Carroccio, c'era anche l'allora sindaco di Besozzo Fabio Rizzi, senatore maroniano, uno dei protagonisti della faida varesina che vide di colpo su barricate opposte sindaci, quadri, dirigenti e militanti leghisti fino a quel momento uniti contro "Roma ladrona". Tra i barbari che lavoravano per mettere Bobo sul trono di Umberto c'erano Matteo Salvini, Flavio Tosi, l'attuale assessore lombardo Gianni Fava, l'attuale presidente del Copasir Giacomo Stucchi e molti parlamentari. La parola d'ordine era salvare la Lega nel segno della moralità. Fare pulizia. Dopo quattro anni la carriera politica della Mauro è finita. Un ricordo i bei tempi da numero due del Senato, con l'amico bodyguard e aspirante cantante Pier Moscagiuro, agente di polizia dirottato a palazzo Madama, e autore del brano "Kooly Noody", divenuto in quelle settimane una sorta di "inno" dei maroniani contro la vecchia guardia. "Mi sono francamente rotto di Cerchi magici e Kooly Noody", scriveva Maroni su Facebook per dare la carica ai suoi. Dopo quattro anni, però, ironie della storia, Rosy Mauro è uscita pulita dalle inchieste che pure l'hanno riguardata. Nel 2014 l'archiviazione per l'inchiesta in cui era coinvolta insieme all'ex tesoriere Belsito, espulso come lei nel 2012 a furor di popolo. Nello stesso anno archiviazione anche in riferimento alle spese sostenute quando era consigliere regionale in Lombardia. Belsito, Bossi e i figli Renzo e Riccardo, invece, sono ancora sotto processo a Milano con l'accusa di appropriazione indebita di circa 500mila euro di rimborsi elettorali della Lega. E ora che la breve stagione di Maroni alla guida del Carroccio si è conclusa da un pezzo, agli arresti è finito uno dei barbari sognanti, Fabio Rizzi, presidente della commissione Sanità al Pirellone e tra i principali artefici della riforma sanitaria lombarda. L'accusa parla di una presunta tangente di 50mila euro e altri benefit a lui e a un suo stretto collaboratore per aver favorito una società che si occupa di ambulatori odontoiatrici. Due giorni fa, Matteo Salvini, altro beneficiario della rottamazione giudiziaria contro i bossiani, ha tuonato contro la magistratura italiana, definita "una schifezza", in riferimento al rinvio a giudizio del suo fedelissimo Edoardo Rixi (che è anche il vicesegretario della Lega) nell'inchiesta sulla rimborsopoli del consiglio regionale ligure. Frasi che sono costate un'indagine a carico di Salvini, indagato dalla procura di Torino per "vilipendio dell'ordine giudiziario". La squadra di Maroni al Pirellone era già stata colpita ad ottobre 2015 dall'arresto del vicepresidente Mario Mantovani (Forza Italia), poi trasferito ai domiciliari, accusato di corruzione e altri reati. A fine gennaio 2016, il pm Giovanni Polizzi ha chiesto il rinvio a giudizio per Mantovani e, nell'ambito dello stesso filone d'inchiesta, anche per il potente e autorevole assessore al Bilancio della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, per il quale l'ipotesi di reato è turbativa d'asta. Leghista, molto legato al governatore, Garavaglia è stato difeso a spada tratta da Salvini. "La sua colpa sarebbe di aver aiutato una associazione di volontariato del suo territorio, che trasporta malati e dializzati", ha scritto Salvini sul suo profilo Facebook: "Avrebbe quindi truccato un appalto, poi vinto da altri! Se aiutare (senza peraltro riuscirci) una associazione di volontariato è un reato, mi auto-denuncio anch'io: arrestatemi!". Le scope, in casa leghista, sembrano un lontano ricordo. Spazzati via Belsito, la Mauro e i figli di Bossi, l'epoca del "giustizialismo padano" sembra finita. Ora il nemico è la magistratura. Come negli anni Novanta, quando Bossi tuonava contro i pm, e avvertiva che "dalle nostri parti i proiettili costano solo 300 lire...".
Lega Nord: la politica "idiota". Intervista a Lynda Dematteo del 19 Aprile 2012 su “L’Inkiesta”. Non passa giorno in cui i giornali e le televisioni non amplifichino l’ultima dichiarazione di Bossi, l’ultimo suo grugnito sulla Roma Ladrona, l’ultimo suo avvertimento. Il problema è che lo prendono sul serio. Il problema è che prendono la Lega Nord sul serio, con le proposte razziste, con le affermazioni razziste che contraddistinguono i suoi esponenti. La difesa poi della Padania, resta un capitolo a parte. Questa terra celtica da difendere, come ai tempi di Asterix e Obelix, dai romani di Caio Giulio Cesare. Tutti questi intenti, poi - come si è visto ultimamente - sono miseramente caduti uno dopo l'altro, schiacciati dalle inchieste giudiziarie che hanno travolto mezzo establishment del Carroccio. Oggi però tralasciamo l'attualità e le polemiche che continuano a riempire le prime pagine dei giornali, ed andiamo ad analizzare il fenomeno Lega Nord, dal punto di vista culturale, sociale, cercando di capire come è riuscito ad incidere sulla vita politica italiana. Per farlo, abbiamo contattato tramite mail Lynda Dematteo, antropologa francese, autrice de L’idiota in politica. Questo è ciò che ci ha raccontato.
Come nasce l'idea del suo libro?
<<L’idea de L’idiota in politica, scaturisce dal lavoro etnografico. Quando ho cominciato ad indagare nella provincia di Bergamo, mi sono resa conto che i bergamaschi (non leghisti) chiamavano 'idioti' i seguaci della Lega Nord. Intanto, questo partito di 'idioti' che veniva deriso un pò da tutti per i suoi aspetti 'folkloristici' era al potere nella provincia senza che nessuno si preoccupasse realmente dei danni che poteva fare nelle istituzioni. I leghisti stessi hanno avuto l’intelligenza di giocare con questa immagine di bravi 'idioti' della politica per distinguersi dai politici di professione che disgustavano la gente, dopo le rivelazioni del Pool Mani Pulite. Credo che una tale situazione sia stata resa possibile dalla delusione e dal progressivo distacco dalla politica della maggioranza dei bergamaschi, più interessati al lavoro e al guadagno che ad altre considerazioni collettive>>.
Come nasce la Lega Nord? In quale contesto socio-economico?
<<L’ideologia leghista venne elaborata negli anni ’50 in ambiti democristiani quando Umberto Bossi era troppo giovane per preoccuparsi di politica. All’inizio si trattava di ottenere la messa in pratica degli articoli relativi all’autonomia delle comunità già contenuti nella Costituzione Italiana. Dopo diversi tentativi falliti, il leader varesotto riuscirà nel 1992 a coalizzare i piccoli movimenti autonomisti del Nord Italia e porterà avanti le rivendicazioni federaliste del Nord. Questo salto di qualità fu reso possibile dal sostegno finanziario delle piccole e medie imprese che, in quegli anni, hanno identificato la Lega Nord come il soggetto politico in grado di sostenere la loro attività e di difendere i loro interessi localistici. In quegli anni, molti imprenditori si sono impegnati in prima persona raggiungendo i ranghi leghisti>>.
Dopo la loro entrata nella scena politica, nel '92/'94, quali cambiamenti hanno portato nella società italiana in termini di linguaggio politico?
<<Da questo punto di vista, il leghismo fu una vera rivoluzione. Umberto Bossi ha polverizzato il politichese della vecchia classe politica con le sue provocazioni e le sue violenze di linguaggio. Ha creato un lessico tutto suo, pieno di metafore inattese, a volte umoristiche, che associava cucina politica e volgarità popolana. Le sue performances pubbliche hanno fatto scalpore e sedotto un elettorato stanco dei discorsi dei politici. È lui ad avere segnato il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, aprendo la strada al berlusconismo, anticipando addirittura il porno-pop di questi ultimi anni>>.
Cosa rappresenta, per la Lega Nord, la Padania e come sono riusciti a far passare il messaggio di una difesa di questo 'pseudo-territorio'? Si può inventare, come diceva anche Hobsbawm, la tradizione?
<<La tradizione è sempre un’invenzione. Questa invenzione può attecchire come il kilt scozzese oppure fare un flop. Nel caso leghista, non ha attecchito, perché c’era un vizio originale nell’elaborazione simbolica: come possono i leghisti inventare una nuova tradizione nazionale padana accontentandosi di rovesciare i miti italiani? Ai nazionalisti bretoni non verrebbe in mente di riprendere dei miti repubblicani francesi per spostarne il senso. È un modo piuttosto strano di operare, non trova? Credo che alla fine i leghisti ottengano un risultato opposto a quello che auspicano. La loro Padania avrà rinforzato al contrario il sentimento nazionale italiano>>.
Ho notato, rileggendo gli atti costitutivi del 1989, che si fa più volte menzione di un'ideale etnonazionalista, di un'unione di popoli e movimenti del Nord e di una spiccata lotta al fondamentalismo islamico. Sembrano più ideali medioevali che di un partito politico. Sbaglio?
<<Mi sorprende che la lotta al fondamentalismo islamico sia già presente nei testi della Lega Lombarda. In quegli anni era prevalente il discorso antimeridionalista. L’etno-federalismo, invece, è da sempre stato l’obiettivo politico della Lega Nord. Il leghismo si inserisce in un filone specifico dell’estrema destra europea che trova corrispondenze in altri partiti come il Vlaams Belang fiammingo, la FPO austriaca o il Partito del Popolo danese. La Lega Nord concepisce l’Europa come un insieme di popoli regionali diversi tra di loro per storia, lingua, tradizioni e antiche ascendenze. Questi gruppi, ai quali non corrispondono necessariamente i confini nazionali esistenti, vengono essenzializzati come se fossero sempre esistiti sotto la stessa maschera nel passare dei secoli. Questo può sembrare totalmente retrogrado rispetto ai modelli politici vigenti, ma non deve essere sottovalutato, perché la globalizzazione scardina i confini stabiliti e favorisce l’emergere di nuovi etno-nazionalismi>>.
Stona ancora di più, e denota quanto possano essere strumentali le loro battaglie, questa lotta al centralismo dello Stato e a 'Roma ladrona' quando poi nelle amministrazioni locali, già dagli anni '90, si comportano come gli stessi partiti che criticano. Non le sembra un controsenso? Un'ideale che hanno trasmesso al loro elettorato ma che è palesemente paradossale?
<<Credo che i leghisti si sono fatti propugnatori di una 'doppia morale' italiota. A parole difendono le virtù pubbliche, ma in realtà fanno i loro interessi. Direi che i loro discorsi sulla purezza padana hanno avuto una funzione auto-assolvente. Qui si tocca la dimensione profondamente carnevalesca del movimento leghista. Penso che la Lega finirà per essere scardinata dalle sue contraddizioni>>.
Umberto Bossi è volutamente o involutamente un' "idiota in politica"?
<<Direi che facendo l’idiota, Umberto Bossi, oltrepassa i suoi limiti reali. È riuscito a fare della sua idiozia iniziale una vera forza politica. In questo, sta il suo genio>>. MATTEO MARINI per Wilditaly.net
Lega Nord a Pontida, Bossi: "Obiettivo resta secessione Padania". Il senatur ha rispolverato la vecchia parola d'ordine ma non ha suscitato gli applausi corali, scrive il 18 settembre 2016 “Il Giorno”. Pontida, 18 settembre 2016 - "La Lega è stata fatta per la libertà del nord dall'oppressione del centralismo italiano, non per altri motivi". Lo ha ricordato Umberto Bossi dal palco di Pontida, affermando che la Lega "non potrà mai essere un partito nazionale". L'obiettivo quindi deve rimanere la "secessione" della Padania. Il presidente-fondatore della Lega ha ricevuto un'accoglienza affettuosa, ma le sue parole sulla Padania non hanno suscitato l'applauso corale del pratone. In molti però hanno inneggiato alla Padania e alla secessione, rispondendo all'appello del vecchio capo. "Io ho ascoltato in questi tempi con molta attenzione la Lega - ha detto tra l'altro Bossi -. La Lega è in un momento di grande confusione, è stata né carne né pesce, ma la Padania resta nel cuore e nella testa". Bossi ha osservato che "troppo spesso si sente parlare di uscire dall'euro, ma i fatti dicono che l'Italia si porta via 100 miliardi di euro e l'Europa due: chi è dunque il nemico? State attenti a tirare le conclusioni così». Bossi, senza fare nomi, si è infine rivolto ai leghisti radunati a Pontida nel ventennale della dichiarazione di indipendenza della Padania affermando che "a volte i dirigenti devono essere richiamati dai veri proprietari, i militanti". "Se qualcuno pensa che il futuro della Lega sia quello di un piccolo partito servo di qualcun altro, di Berlusconi o di Forza Italia, ha sbagliato". Lo ha detto Matteo Salvini dal palco di Pontida, rispondendo indirettamente all'intervento di Umberto Bossi. "Voglio cambiare il paese ma come voglio io, voglio accordi scritti con il sangue", ha aggiunto. "L'Italia di oggi è un'Italia di cui ci si vergogna perché dà 300 euro agli invalidi e 1000 euro alle cooperative che garantiscono gli immigrati". Lo ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini, rispondendo a un cronista che gli ha chiesto se il messaggio di uno degli striscioni che sono comparsi questa mattina sul 'sacro prato' di Pontida, che recita "Italia di m… secessione", sia ancora attuale. "L'Italia o sta insieme riconoscendo le diversità, come Miglio ha insegnato, oppure il Paese di oggi è un Paese di cui vergognarsi", ha aggiunto Salvini. Poi, ancora: "Noi cambieremo la Costituzione" e ha proposto un "presidente della Repubblica eletto dai cittadini, che abbia potere di governare e di scegliere i ministri". Questa riforma, ha aggiunto Salvini, sarebbe in senso federale con "una sola camera con il proporzionale, i referendum sui trattati internazionali, il vincolo di mandato e i giudici eletti dal popolo". Questa riforma costituzionale, federalista e presidenzialista, è stata indicata da Salvini come una discriminante per nuove alleanze in vista delle elezioni politiche, insieme alla posizione critica verso l'Ue. Nell'elenco delle proposte c'è l'eliminazione del vincolo di mandato per i parlamentari, ma anche un forte intervento sull'ordinamento giudiziario. "Vogliamo giudici eletti dal popolo - ha detto il segretario della Lega - se i magistrati fanno bene vengono rieletti, altrimenti vanno a casa. Cancelliamo anche l'obbligatorietà dell'azione penale. E dico ai magistrati: uscite dalla logica delle correnti, non fatevi giudicare da chi va a lavorare poche ore alla settimana e ha sentenze già scritte. Su la testa, magistrati liberi". Per la Pontida del ventennale dalla 'dichiarazione di indipendenza' pronunciata a Venezia da Umberto Bossi, Roberto Calderoli ha portato sul palco una torta di compleanno con venti candeline, "visto che non ci ha pensato nessuno". Il vicepresidente del Senato ha detto "tanti auguri Padania" suscitando un coro "secessione, secessione" dalla folla sul prato. "Siccome dicono che ci siamo dimenticati della Padania - ha aggiunto Calderoli -, rispondo che nell'articolo 1 dello statuto della Lega, che ho scritto io, c'è l'indipendenza della Padania. E fintanto che ci sono io quell'articolo rimane. La Padania non può negarla nessuno. La secessione dobbiamo farla domani mattina dall'Europa e dall'euro, poi vedremo il resto". «Lombardia e Veneto sono le due regioni più avanzate e tartassate da Roma ladrona»: Roberto Maroni ha rispolverato dal palco di Pontida un antico slogan della Lega per sostenere, accanto a Luca Zaia, che c'è «una grande azione comune del lombardo-veneto, perché la nostra missione è di difendere i nostri cittadini, i nostri territori e il nord». «Quale è il nostro programma? Ascoltare il popolo - ha aggiunto poco dopo Zaia -. Oggi esistono due correnti di pensiero. Quella centralista di Renzi e il suo referendum, poi c'è la nostra che dice se c'è un posto di lavoro vicino a casa deve andare prima alla nostra gente». Maroni e Zaia sono saliti sul palco prima dell'intervento finale di Matteo Salvini, attorniati da consiglieri e assessori regionali di Lombardia e Veneto.
Pontida, Salvini attacca Forza Italia: "Mai più schiavi di Berlusconi". Il leader del Carroccio: "Se volete Alfano o Verdini cercatevi un altro". Riferendosi alla convention di Parisi: "Congressi mummificati". Poi attacca Bergoglio: "Chi apre la chiesa all'imam non mi piace", scrive Matteo Pucciarelli il 18 settembre 2016 su "La Repubblica". "Se qualcuno pensa che il futuro della Lega sia ancora quello di un partitino servo di qualcun altro, di Berlusconi o di Forza Italia, ha sbagliato a capire. Noi non saremo più schiavi di nessuno. Noi accordi al ribasso non ne faremo con nessuno". Matteo Salvini mette i paletti per il futuro del centrodestra nel suo intervento conclusivo a Pontida. Dove si raduna una Lega Nord una e trina: quella delle origini di Umberto Bossi che non vuole abbandonare il sogno secessionista; quella dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, populista ma moderata e pragmatica; infine quella nazionalista e antisistema di Salvini. La tre giorni del Carroccio, a vent'anni esatti dalla dichiarazione di indipendenza della Padania (che poi si chiuse con un nulla di fatto, a parte il gesto simbolico), conferma il lento mutamento in corso all'interno del partito. Il segretario federale deve ricordare la necessità di restare uniti "come un corpo solo", perché poco prima di lui il Senatùr era stato durissimo nei confronti del nuovo corso. Poi ci sono anche le magliette pro Ratzinger dei Giovani Padani e critiche nei confronti di Papa Bergoglio, con la scritta 'Il mio Papa è Benedetto": "Lui aveva le idee chiare sull'Islam - spiega Salvini - chi fa entrare l'imam in chiesa non mi piace". Bossi critico quindi, ma anche Roberto Calderoli, arrivato sul palco con torta e venti candeline. Appunto l'anniversario della Padania. "L'articolo 1 l'ho scritto io e finché sarò in vita rimane com'è", spiega il vicepresidente del Senato, con riferimento al primo capoverso dello Statuto leghista che cita l'indipendenza della Padania come obiettivo fondativo. Per Bossi il primo nemico rimane Roma: "Siamo nati per la libertà del Nord, la Lega non sarà mai un partito nazionale". Parole che hanno un peso perché, seppur acciaccato, il fondatore rimane una voce rispettata e amata dalla base. La Lega di mezzo è quella degli amministratori, e in mezzo alla contesa preferisce mettersi da parte. Zaia e Maroni salgono sul palco con consiglieri e assessori: "Il programma del centrodestra è ascoltare il popolo", dice generico il presidente veneto. Salvini ammette di non aver dormito la notte per preparare l'intervento. "Come gli allenatori del giorno dopo, anche qui ci sono dei segretari federali che hanno la bacchetta magica. Il potere centralista è stato forte, ma possiamo dire che anche noi ci siamo complicati la vita e fatti male da soli?", è la prima risposta a Bossi. Poi: "Se qualcuno pensa di far tornare la Lega un partito del 4 per cento servo di altri non mi interessa, di eleggere venti parlamentari non me ne faccio un cazzo. Se ti chiami Scajola - prosegue Salvini - se stai con Alfano, Fini e Verdini non stai con me. Se voi volete fare patti con questa gente, scegliete un altro segretario federale". La proposta di Stefano Parisi resta inascoltata dal leader della Lega che ieri aveva definito "mummie" gli esponenti politici ospiti della convention dell'ex candidato sindaco di Milano. "Non vogliamo recuperare qualcuno che è solo a caccia di poltrone". Contro l'Europa e contro l'euro, unificando nella battaglia tutto il territorio nazionale: il piano di Salvini non cambia. Che allo stesso tempo chiama anche gli elettori dei Cinque Stelle: "L'onestà va di moda anche qui e lo stesso dovrà essere per i nostri alleati". Oltre alla proposta da presentare al prossimo congresso di mettere il limite di due mandati per gli eletti. La divisione tra destra e sinistra non esiste più - continua Salvini - ma è tra globalisti e sovranisti. Ci scappa anche un elogio a Enrico Berlinguer ("Lui stava con gli operai in fabbrica, non con le banche come la sinistra di oggi") accolto con gli applausi dai militanti, anche se non troppo convinti. Dopo, le proposte per il futuro: il presidente della Repubblica eletto dai cittadini, una sola camera eletta con sistema proporzionale, il vincolo di mandato per i parlamentari, l'Italia suddivisa in tre macro-aree, magistrati anche loro "eletti dal popolo". Quanto a Forza Italia, infine: "Deve scegliere se stare con noi o con la Merkel in Europa. O con noi sempre, oppure mai". Ma è un monito che Salvini ha lanciato decine di volte nei suoi quasi tre anni da leader della Lega. Finora senza mai vere conseguenze.
La Lega feroce sola contro tutti, scrive Ilvo Diamanti il 19 settembre 2016 su "La Repubblica". Vent'anni dopo la marcia lungo il fiume "sacro", trent'anni dopo il primo "raduno" a Pontida, la Lega di Salvini cerca di presidiare ancora il Po. Anche se oggi si tratta di un riferimento simbolico. Non è più il muro del Nord. Semmai, una barriera contro il Mondo. E anzitutto contro l'Europa. Salvini, d'altronde, si rivolge all'Italia e agli italiani. La sua, è la Lega dei tempi feroci, che evoca i muri. Per difendersi dalla burocrazia europea, dalla finanza globale. Dall'invasione dei migranti, che risalgono dall'Africa. E, spesso, finiscono il loro viaggio in fondo al mare. La Lega di Salvini è la Ligue Nationale, evocata da Salvini a Pontida, richiamandosi a Marine Le Pen. (Oltre che a Putin. Anch'egli baluardo anti-europeo.) Il rischio di questa Lega è di "perdere" il legame con il territorio. Riducendolo a un sentimento. Come ha rammentato Umberto Bossi, riapparso, accanto a Salvini, dopo le tensioni dell'ultimo periodo. Per riaffermare il suo sostegno al segretario. In nome dell'unità del movimento. E per ribadire che "la Padania vive nel cuore e nella testa della gente". A Pontida Salvini ha cambiato registro e strategia. Immagine e linguaggio. Perché oggi la politica è anzitutto immagine e linguaggio. Salvini, d'altronde, si muove bene in questo territorio mediale. In TV e sui giornali, compresi i rotocalchi di gossip, lui c'è ogni giorno. È un professionista della comunicazione. Fa ascolti. E sa come sottolineare i cambi d'epoca e di strategia (politica). Così è impossibile che i suoi interventi degli ultimi giorni, da ultrà politico, gli siano sfuggiti. Perché io penso che il leader della Lega non lasci nulla al caso. E la manifestazione che si è svolta ieri a Pontida è, per questo, significativa. Perché "segna" l'avvio di una Lega diversa, anche se coerente con le sue radici. La Lega proposta da Salvini a Pontida è la "Lega dei tempi feroci". Una Lega feroce, nel linguaggio e nell'immagine. Una Lega Nazionale, ma anti-nazionale, per progetto e identità. Come evidenziano, anzitutto, i "nemici" dichiarati "dal" leader. Prima e durante la manifestazione di Pontida. Per questo ha commentato la scomparsa del presidente Carlo Azeglio Ciampi con parole "impietose". Prive della pìetas che, perfino in "guerra", si riserva ai nemici. "Un traditore", l'ha definito Salvini. In modo meditato e consapevole. Perché si attendeva e si attende esattamente le reazioni sollevate. Cioè, sdegno e, per chi come me ha conosciuto il Presidente, disagio. Per le parole pronunciate, ma anche per chi le ha pronunciate. Per Salvini, più che per il suo bersaglio. Tuttavia, si tratta di parole pesate - proprio perché pesanti. Pesantissime. Salvini ha ben chiaro chi fosse Ciampi. Il Presidente che ha sfidato il clima popolare antipolitico, diffuso negli anni dopo Tangentopoli. Ricordo bene quando, nel 1999, venne in Veneto e tutti pensavano che sarebbe stato travolto dalla contestazione. Mentre, al contrario, riscosse grandi consensi popolari. A Vicenza, Treviso. Nel cuore del Nordest padano. A conferma che la rivendicazione di indipendenza significava domanda di autonomia, non secessione. Salvini, dunque, attacca Ciampi perché era ed è il simbolo di uno Stato che suscita rispetto. Rappresentato dal Tricolore e dalla Festa della Repubblica. Simboli ed eventi rilanciati da Ciampi, dopo essere stati quasi dimenticati. Anche per questo Ciampi è la figura istituzionale che ha riscosso il maggior grado di fiducia presso gli italiani, negli ultimi vent'anni. L'80%, nel 2005. L'anno precedente alla scadenza del suo mandato. Nessun'altra figura pubblica, negli ultimi vent'anni, ne ha eguagliato i consensi. Ad eccezione, di recente, di Papa Francesco. Anch'egli, non per caso (di nuovo) marchiato da Salvini con un pollice verso: "Non mi piace". Perché il leader leghista preferiva Papa Ratzinger. Benedetto XVI. Anche se mi riesce difficile immaginare che Salvini conosca davvero il pensiero e la riflessione dell'allievo di Romano Guardini. Tuttavia, il messaggio del leader della Lega è chiaro. Esplicito. Apertamente in contrasto con i principali riferimenti della fiducia nello Stato repubblicano e nell'apertura solidale agli altri. La Lega di Salvini, invece, cerca consenso fra le pieghe della sfiducia e dell'insoddisfazione. Delle paure e della paura. Dei muri. In modo aperto ed estremo. Perfino estremista. Salvini intende marciare da solo contro tutti. Contro Renzi, ma soprattutto contro Grillo. Che gli sta sottraendo i voti del ri-sentimento popolare. Antipolitico. Per questo "lotta" contro Roma, Bruxelles e l'Europa. Ma anche contro Milano. Amministrata da Sala. Cioè, da Renzi. Milano, la città di Parisi. Leader di un Centrodestra "normale". Troppo normale. Troppo simile e compatibile rispetto a Sala. Perché vent'anni dopo la marcia lungo il Po, il problema e l'obiettivo della Lega resta lo stesso. Anche se ridefinito. Perché Salvini ha nazionalizzato la Lega per "padanizzare" l'Italia. Ma, per questo, ha bisogno di alleati. Da solo non ce la può fare. Impossibile governare il Paese senza l'appoggio di Forza Italia. E, soprattutto, di Berlusconi. Perché Stefano Parisi è il clone di Beppe Sala. Tutto meno che un'alternativa a Renzi. Per "forzare" gli equilibri politici in Italia e, prima, dentro Forza Italia, Salvini cerca, dunque, di conquistare la leadership del Centrodestra post-berlusconiano. Senza "mediazioni" e mediatori. Per "non diventare schiavo di Berlusconi", come ha sostenuto apertamente a Pontida. Mira, così, a spostare il Centrodestra e la Destra più a destra. Non solo nel Nord, ma in Italia. Una svolta possibile, ma rischiosa. Perché Marine Le Pen, ha fatto diventare il Front National primo partito in Francia cercando di interpretare un populismo dal volto "più" normale. Meno aggressivo, comunque, rispetto al Fn di Jean Marie. Con il quale ha rotto ogni rapporto. Ma la Lega di Salvini rammenta, piuttosto, il Fn di Jean Marie. Per linguaggio e immagine: evoca gli ultrà. Rischia di spingere la Lega in curva. Nord.
Lega, la marcia del Po 20 anni dopo: il partito anti-Stato ora nazionalizza le paure. Nel ‘96 il primo rito dell’ampolla e il rischio secessione. Poi, da Bossi a Salvini, a tutta forza contro Ue e migranti, scrive Ilvo Diamanti il 16 settembre 2016 su "La Repubblica". Sono passati vent'anni da quando, proprio in questi giorni, il popolo della Lega discese lungo il Po, al seguito di Umberto Bossi. Il leader e padre della Lega, al Monviso, riempì un'ampolla d'acqua di sorgente. Fino ad arrivare a Venezia. Un rito, ripetuto ancora, per segnare i confini padani. Da allora, pare trascorso un secolo. E anche più. Tanto che se ne sono dimenticati tutti. Perfino i leghisti. Eppure, vent'anni fa, quella marcia apparve una sfida eversiva. Alle istituzioni e all'identità nazionale. Vent'anni fa. Tutti gli occhi e gli occhi di tutti erano puntati sul Po. Presentato, dalla Lega, come un muro. Tra due Nazioni distanti. La Padania e l'Italia. La Padania opposta all'Italia. Due società che esprimevano valori e modelli alternativi. Il Nord padano contro Roma ladrona. La società produttiva contro lo Stato assistenziale e il Sud assistito. La marcia padana veniva dopo oltre dieci anni di leghismo. Dal 1983, quando la Liga Veneta aveva fatto la sua comparsa, appariscente, nel Nordest. In particolare, nel Veneto Centrale. A Vicenza, Padova, Treviso, Verona. La Lega delle Leghe: si allargò presto ovunque, nel Nord. In Lombardia e in Piemonte. Soprattutto nelle aree del lavoro autonomo. Così, nel 1993, a Milano, alle prime comunali con elezione diretta del sindaco, la Lega riuscì a imporre il proprio candidato, Formentini. E il "suo" Nord divenne Nazione. La Padania, dove cresceva l'insoddisfazione fiscale e l'insofferenza verso lo Stato assistenziale e il Sud assistito... Alle elezioni politiche dell'aprile 1996, agitando la bandiera dell'indipendenza, la Lega ottenne oltre il 10% dei voti validi. Quasi quattro milioni. Il 23% nel Nord "padano". Ma oltre il 25% in Lombardia e quasi il 30% in Veneto. La Lega, allora marciava da sola contro tutti. Ma soprattutto contro il Polo di Centrodestra. La coalizione costruita da Silvio Berlusconi, intorno a Forza Italia, nel 1994 aveva vinto le elezioni. Sulle macerie dei partiti della Prima Repubblica, aggregò la Lega e i post-fascisti di Alleanza Nazionale. Ma governò pochi mesi. Troppe differenze e troppe ambizioni divergenti, allora. Di partito e personali. Fra Berlusconi, Fini e lo stesso Bossi: chi poteva comandare sugli altri? Così, la Lega riprese la strada dell'indipendenza. Non solo dall'Italia, ma anche dal Polo e, ovviamente, dai partiti nazionali di sinistra. Insomma: da tutti. Alle elezioni politiche del 1996, dunque, la Lega padana e indipendentista corse da sola. Sconfisse il Centrodestra, nel Nord. E, di conseguenza, in Italia, favorì la vittoria dell'Ulivo, guidato da Romano Prodi. Così, per ri-affermare la missione politica e sociale leghista, Bossi decise di mobilitare la protesta dei ceti produttivi del Nord contro lo Stato Centrale. Contro Roma. E si mise in marcia. Non su Roma, ma lungo il Po. La marcia sul Po: nell'estate di vent'anni fa monopolizzò l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica. Riprodusse e amplificò tensioni e paure. Perché si trattava di tensioni e paure reali. La "frattura" tra società, politica e istituzioni era forte, allora. Come il distacco fra i ceti produttivi del Nord e il sistema politico romano. Mentre l'identità nazionale, in vista dell'avvio del sistema monetario europeo, appariva incerta. Tanto da rendere realista la questione, evocata da Gian Enrico Rusconi: cosa può avvenire "se cessiamo di essere una nazione? ". Il sostegno alla secessione fra i cittadini, però, era limitato. Canalizzava, piuttosto, altre domande: il federalismo, l'autonomia fiscale, l'efficienza della macchina pubblica. E intercettava l'insoddisfazione verso i partiti, vecchi e nuovi. Tuttavia, la debolezza delle istituzioni e del sistema politico, dopo la dissoluzione della prima Repubblica, era tale da far temere che le crepe aperte dalla Lega potessero produrre fratture profonde. Facendo diventare la Padania ben altro che una provocazione folclorica. Da ciò la preoccupazione, diffusa. Fino al 15 settembre 1996. Quando a Venezia, destinazione della marcia, arrivarono qualche decina di migliaia di militanti. Mentre lungo il Po marciavano non più di 100 -150 mila persone. Meno di quanto avrebbe potuto attirare una festa popolare di fine estate. Allora finì la "grande paura". Della secessione. Della fine della nazione. Ma non è finita la Lega. Che, però, vent'anni dopo, è cambiata profondamente. Anche se, dal punto di vista geo-politico, conserva il profilo tradizionale. Infatti, nel Nord: governa le Regioni del Lombardo-Veneto. Fino ad alcuni anni fa: anche il Piemonte. In ambito nazionale, ha conosciuto una lunga esperienza di governo, insieme al centrodestra. Accanto a Berlusconi. Ma, nel frattempo, ha cambiato strategia e identità. La secessione ha, progressivamente, lasciato il posto all'in-dipendenza, cioè, all'autonomia. Perché la secessione non la vuole quasi nessuno, neppure fra gli elettori della Lega. Ma tutti vogliono più federalismo. Vent'anni dopo. La Lega non è più il "partito di Bossi". Ma resta un "partito personale". La Lega di Salvini. Che ha trasformato profondamente l'identità leghista. Da partito secessionista a partito di protesta. Agita la politica dell'anti-politica. Intercetta e amplifica l'inquietudine del mondo che ci assedia. La Lega di Salvini: imprenditore politico della paura. Anzitutto: degli immigrati. E poi: portabandiera dell'euro-scetticismo. Interlocutore e alleato di Marine Le Pen, leader del Front National. Così oggi Salvini guida la Ligue Nationale. Nella quale (sondaggio Demos, sett. 2016) prevalgono gli elettori di Destra (36%) e di Centro-destra (26%). Un partito anti-partito. Alternativo a tutti i partiti. Per questo, il suo maggiore avversario, il soggetto politico che più degli altri ne condiziona l'espansione, è il Non-partito per (auto) definizione. Il M5s. La Lega, invece, condivide lo spazio politico con Forza Italia e Berlusconi. Che Salvini tratta da concorrenti. Anche per questo, però, è messo in discussione dai precedenti "capi" della Lega. Bossi e Maroni. Che continuano a considerare Berlusconi un alleato. Obbligato, se non privilegiato. Vedremo domenica, a Pontida, le reazioni del "popolo leghista" a queste scelte. A queste tensioni interne. Politiche e personali. Vent'anni dopo, coerente con la nuova identità, la Ligue Nationale ha cambiato geografia. Si è nazionalizzata. Secondo i sondaggi più recenti, oggi avrebbe superato il 10%, in Italia. E il 15% nel Nord (il 25% nel Nord Est). E sarebbe intorno al 9-11% al Centro, e al 6-7% nel Sud e nelle Isole. Perché la paura non ha confini. E non ha bisogno di marce per venire coltivata. Al contrario. La "Lega degli uomini spaventati" dissemina il Paese di confini. Fra noi e gli altri.
Bossi contro Salvini: “Al Sud vogliono solo soldi da rubare al Nord”, scrive Emanuela Mastrocinque il 21 giugno 2015 su “Vesuvio Live”. Come recita un vecchio detto popolare “tutti i nodi vengono al pettine” basta solo saper aspettare! In questo caso bastava invece aspettare il congresso leghista tenutosi ieri a Milano, tra aspettative nazionaliste e vecchie idee antimeridionali, per vedere emergere il pensiero forse più genuino e reale che animava (e probabilmente anima ancora) la Lega Nord. Come ribadito in un articolo de il FattoQuotidiano più che uno scontro generazionale, a sentir parlare vecchi e nuovi esponenti del Carroccio, sembra assistere ad un vero e proprio scontro politico: perché quel Salvini pronto ad “arraffare” voti un po’ ovunque compreso al Sud, sembra non piacere a nessuno, soprattutto alle vecchie leve leghiste come Bossi che, dalle nuove aspirazioni nazionaliste, sembra prendere ampiamente le distanze. Umberto Bossi, l’uomo del “ce l’ho duro” e del dito medio sempre in vista, torna a parlare del Sud e dei meridionali adottando il solito tono sprezzante e discriminatorio. Una cosa del tutto normale a metà degli anni ’90 quando il motto separatista era praticamente all’ordine del giorno, cosa che oggi, grazie al sentimento populista abbracciato dai nuovi leghisti (sempre meno separatisti e più nazionalisti) sembra essersi dimenticata, così come si sono dimenticati gli insulti che i dirigenti della Lega hanno riservato per anni ai “parassiti” del Sud. Ma bastava attendere, appunto, la giusta occasione per veder emergere nuovamente dal partito il cui motto è sempre stato “Prima il Nord” i veri sentimenti che lo hanno animato. “Sono venuto qui per vedere che partito sta venendo fuori” ha detto l’ex storico segretario ai giornalisti“Se esce un partito nazionale, Salvini resta da solo a farlo” affermando poi che i meridionali i voti “non glieli danno, perché quelli vogliono i soldi e non vogliono cambiare il Paese” aggiungendo che (i meridionali) “hanno sempre compartecipato con Roma nei banchetti con i soldi rubati al Nord”. A queste dichiarazioni Salvini risponde:” “Io ho imparato tutto e devo tutto a chi mi ha preceduto, ma se c’è qualcosa di diverso rispetto al passato sono i voti e i voti contano in politica”. E forse proprio in questa risposta si annida il vero senso di questa nuova virata nazionalista che sembra preoccuparsi anche dei pescatori della Sicilia o dei disoccupati Campani: i voti! Perché rinunciare a quella seppur esigua manciata di voti provenienti dal Sud? Che importa se noi siamo ancora quelli del passato, ciò che conta è farci votare anche da chi, fino a ieri, abbiamo definito parassita e ladrone!
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive Francesco Pipitone su "Vesuvio Live” il 9 dicembre 2014. In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Pino Daniele: “C’è il razzismo verso i meridionali. Lo vivo e l’ho vissuto”, scrive Francesco Pipitone su “Vesuvio Live” il 12 gennaio 2015. È il 1979 e in un’intervista a cura della Rai si parla del blues napoletano, il cui simbolo più conosciuto era diventato Pino Daniele. Il blues è la musica del dolore, della ribellione, del disagio sociale: “Il blues è la ribellione a questi continui soprusi da parte della gente che ora i “negri”, odia la gente di colore, e possiamo dire che c’è una relazione una relazione tra i “negri” e noi. C’è ancora questo, diciamo, razzismo nei confronti dei meridionali. C’è perché lo vivo, l’ho vissuto, e sono convinto che c’è”. Pino Daniele, dunque, afferma esplicitamente di essere stato vittima di razzismo, ma d’altra parte era sufficiente ascoltare bene una delle sue canzoni più famose per accorgersene, ‘O Scarrafone: “io son stato marocchino, me l’han detto da bambino”. Con la parola “marocchino”, al Nord Italia, si indicano i meridionali, i terroni, in senso dispregiativo. Il marocchino è nero, è uno scarafaggio, viene dall’Africa: quante volte ci hanno chiamati “africani”? Quante volte ci hanno detto “Benvenuti in Italia”? Ovviamente essere etichettati quali marocchini o africani non è insulto, tuttavia il fatto che i termini siano usati in quel modo è la dimostrazione di quanto l’Italia sia una nazione ignorante e razzista. Pino Daniele, circa la città di Napoli, dichiara di amarla e odiarla allo stesso tempo, però a quel punto nel video vi è uno stacco che fa saltare tutta la parte in cui spiega il rapporto di amore-odio e le sue motivazioni. Possiamo ascoltare, invece, perché Napule è na carta sporca: “È una carta sporca perché è sporca e non ci sta niente (da fare, ndr). Ma è sporca non perché noi siamo sporchi, questa è la verità. Ti ripeto, è il discorso di strutture che non vanno, certe cose non vanno e bisogna cambiarle”. Il giornalista poi chiede a quali napoletani faccia comodo la Napoli oleografica, ossia quella irreale, stereotipata, fatta sì di pizza, Sole e mandolino, ma pure di chiasso, furberia, pigrizia: [Fa comodo] “a quelli che ci mangiano su questa cosa. Il napoletano che si fa gioco di questa città, della sua gente, delle sue cose per me non è napoletano”. L’intervista sembra proprio una risposta a quanti oggi, con la morte del cantante, affermano che era andato via da Napoli perché l’aveva ripudiata, ne aveva preso le distanze. Qui si può vedere invece come egli conosca bene la città e i suoi concittadini, come sappia discernere il bene e il male, il quale consiste “nel strutture che non vanno bene”, ossia nel modo di gestirla, nel potere. Non a caso parla di blues e ribellione, di Masaniello, anche se fa un errore associandolo alla cosiddetta Rivoluzione Partenopea del 1799: Masaniello, infatti, fu protagonista della rivoluzione del 1647, mentre nel 1799, al contrario, i francesi profanarono la sua tomba all’interno della Chiesa del Carmine a Piazza Mercato, gettando via le sue ossa, come racconta la lapide commemorativa che si trova nella stessa chiesa. Pino Daniele aveva affermato recentemente di essere tornato, negli ultimi tempi, a scrivere una musica simile a quella dei primi tempi. Egli portava con sé tutto il bagaglio della musica napoletana e a esso attingeva per esprimere la sua arte, continuava a cantare in Napoletano, il Napoletano era la lingua che parlava abitualmente, come riportato da Jovanotti pochi giorni fa, nel momento in cui quest’ultimo ha ricordato l’amico appena scomparso. A Courmayeur ha cantato in napoletano, ha cantato ‘O Scarrafone, introducendo il pezzo con “speriamo che non ci siano più scarrafoni”: cosa poteva intendere se non l’auspicio che il razzismo verso i terroni non esistesse più? L’ultimo tour, Nero a Metà, lo aveva condotto con la band degli anni ’80, quella del grande successo, quella degli amici napoletano tra i quali troviamo Tullio De Piscopo e il nero napoletano, James Senese. Era un ritorno al passato, una riscoperta di se stesso, la riconciliazione con la propria Terra: Pino Daniele era (ancora) napoletano, era ancora un uomo del Sud, che si mettano l’anima in pace.
Pino Daniele e la Lega Nord di Matteo Salvini, la tristezza delle polemiche nel giorno della morte. Dichiarazioni, rettifiche e smentite: i sostenitori della Lega Nord fanno discutere anche nel giorno della morte di Pino Daniele, scrive il 6 gennaio 2015 Claudia Gagliardi. “Questa Lega è una vergogna, noi crediamo alla cicogna e corriamo da mammà” cantava Pino Daniele nel 1991: il brano è il calebre ‘O Scarrafone, pietra miliare del repertorio del bluesman napoletano, che all’epoca fa molto rumore per quella frase riferita al partito di Umberto Bossi. Quando la Lega Nord secessionista e antimeridionale vive il suo periodo d’oro, Pino Daniele non si nasconde e si fa portavoce dello sdegno dei suoi conterranei, così come farà negli anni successivi, quando definirà “una schifezza” lo show di Bossi a Napoli che intona Maruzzella (frasi per cui ha risarcito la bellezza di 500mila euro all’ex leader del Carroccio). Con la sua morte improvvisa, in una giornata di messaggi di cordoglio giunti da tutto il mondo, non sono mancate nuove polemiche intorno al rapporto controverso tra Pino Daniele e la Lega. Se l’ex segretario e musicista per diletto Roberto Maroni aveva commentato “sgomento” il lutto, il nuovo, rampante leader del partito Matteo Salvini si è detto dispiaciuto della morte di Pino Daniele, “perchè era un grande artista e avrebbe potuto fare molto altro ancora”, aggiungendo: “Non voglio però dire ipocrisie. Mi spiace perché era un grande artista ma ascolto altra musica”.
Razzismo, ignoranza, interessi personali: ecco la vera Lega Nord, scrive il 25 novembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". Il video che potete guardare è una piccola raccolta delle perle di alcuni esponenti di spicco della Lega Nord: abbiamo Salvini fannullone e razzista, Umberto Bossi che associa Berlusconi a Cosa Nostra per poi allearsi con lui e governare per anni, l’ignoranza e la violenza di Calderoli, Borghezio e Gentilini. Una Lega Nord razzista e incompetente, ma furba, che facendo leva sugli istinti più bassi della popolazione ha saputo occupare i posti più alti della politica che non ha mai cambiato, anzi, dimostrando di essere perfettamente italiana: non ha mai fatto qualcosa di importante per la “Padania” né per l’Italia, bensì soltanto per le proprie tasche. Se adesso, dopo il processo scandaloso per truffa aggravata ai danni dello Stato, la famiglia Bossi si è data all’agricoltura e quindi al più nobile dei mestieri, quello che permette il sostentamento alimentare, non altrettanto fanno gli altri: Maroni è ancora il presidente della Regione Lombardia nonostante le magnacce dell’Expo di Milano, e Salvini sta recuperando consensi facendo anche affidamento su quei meridionali indifferenti al quarto di secolo di insulti e fango che i leghisti gli hanno buttato addosso: tuttavia si sapeva già, la gente peggiore è quella che si schiera contro la propria Terra, come il sindaco di Salerno che accoglie con soddisfazione ed onore il segretario del partito del Nord. Più di 150 anni dopo il principio dell’operazione di colonizzazione psicologica, oltre che economica, del Mezzogiorno, il bilancio è pesante e triste: l’orgoglio della gente del Sud viene fuori solo davanti a una bella cartolina se si è fortunati, mentre si continua a ignorare la storia e la cultura plurimillenaria della Terra dove si è nati. Il complesso di inferiorità è bene affermato nell’animo e nelle convinzioni delle persone, tant’è vero che molti si sono sentiti onorati e gratificati quando Matteo Salvini è giunto dal civilissimo Nord a chiedere i loro voti, si sono sentiti in dovere di dimostrare di essere diversi da quei terroni malavitosi e nullafacenti e dagli immigrati, non rendendosi conto di essere soltanto dei numeri utili al mantenimento delle poltrone e alla permanenza dello stato di colonia interna del Sud. I peggiori sono questi qua, non a caso Dante fa masticare a Lucifero tre traditori: Giuda, Bruto, Cassio.
L’Italia di Matteo Salvini: egoista e rabbiosa. E pericolosa, scrive il 13/08/2015 Marco Esposito su “Giornalettismo”. Nel Partito Democratico, storicamente, uno dei passatempi più frequentati è il litigio. Dal 2007, anno in cui il Pd è nato, ad oggi sotto questo punto di vista poco è cambiato. Nel 2007 era Walter Veltroni ad essere sotto attacco concentrico della sinistra del partito. Un attacco teso a “consumarlo”, a logorarlo, giorno dopo giorno. Per l’allora ala dalemiana del PD, anche se i democratici dopo le elezioni perse nel 2008 erano all’opposizione, il vero obiettivo da abbattere era il segretario, non Silvio Berlusconi. Più o meno gli stessi che attaccano oggi Renzi, accusandolo di voler fare le riforme con Verdini, all’epoca, piuttosto che attaccare Berlusconi e il suo governo, avevano come unico riflesso culturale quello di bombardare la ditta per riprendersi il partito. Cosa che avvenne, prima con le dimissioni di Veltroni a febbraio del 2009, e poi con la vittoria di Bersani alle successive primarie. Anche oggi, lo schema si ripete. Quella parte del Pd che fa le barricate contro il Pd stesso, cercando di mettere in ogni modo il bastone tra le ruote del proprio segretario e premier, sembra piuttosto disinteressata a quello che accade nel resto della politica italiana. Ossessionati da Berlusconi (e da Renzi) costoro sembrano ignorare il pericolo che la crescita della Lega Nord e di una destra radicale comporta per il nostro paese. Nell’escalation del vilipendio leghista ora sono entrate anche la Chiesa e Papa Francesco. Oggetto del contendere, ovviamente, l’accoglienza agli immigrati. Nulla di sorprendente se si considera che questo è il vero cavallo di battaglia di Matteo Salvini, sul quale ha costruito la rimonta della Lega nei sondaggi in questo ultimo anno. Una crescita evidente, impetuosa, e anche inattesa nelle dimensioni. Ma cosa sta costruendo Matteo Salvini? Il leader della lega, messa da parte la retorica antimeridionale dell’era di Umberto Bossi, punta tutto sulla paura del diverso, mettendo nel proprio mirino soprattutto gli immigrati. Non una novità nella storia della Lega, ma questa volta si è fatto un passo “avanti”, anche rispetto ai tempi dei Governi Berlusconi-Bossi. Salvini non attacca solo l’arrivo degli immigrati clandestini, il segretario della Lega Nord è contro l’accoglienza tout court. Salvini attua una strategia pericolosa e cinica. Si appella a quella che potremmo definire l’Italia egoista. Composta da chi, dopo anni di crisi economica, vede nell’immigrato colui che gli porta via la casa, un ipotetico sussidio di disoccupazione, il lavoro. Ma tra questi cittadini attratti dal flauto magico salviniano c’è anche chi è semplicemente razzista. Salvini, con l’aiuto di Casapound, come abbiamo potuto vedere a Roma, sia a Tor Sapienza sia a Casal di San Nicola, sta creando una saldatura potenzialmente esplosiva tra lega nord ed estrema destra. Una saldatura che – sondaggi alla mano – rischia già oggi di proiettarsi al 20% delle intenzioni di voto. Un’espansione senza precedenti. Salvini, davanti all’assalto verso il centro del Pd Renziano, che alle Europee ha conquistato un pezzo di elettorato una volta vicino al centrodestra Berlusconiano, ha spostato sempre più a destra l’asse della Lega e della sua alleanza, riuscendo ad aggiungere allo zoccolo duro leghista le fasce di cittadinanza più conservatrice e reazionaria del nostro paese. Se Berlusconi e la sua coalizione di governo strizzavano l’occhio a chi non amava pagare le tasse, lasciando intendere che le regole erano spesso più un problema che il presupposto necessario in ogni organizzazione civile, Matteo Salvini e questa nuova destra di regole neanche vogliono sentir parlare. E’ l’Italia che vuole fare quello che dice lei, come dice lei a prescindere dalle regole stesse. Se le regole non lo permettono, non vanno cambiate, ci si passa sopra con la “ruspa”. E’ il leader politico che ha azzerato i concetti, tagliandoli con l’accetta, semplificando al massimo ogni complessità, ogni problema. Il problema dei Rom? Ruspa. Lo sbarco degli immigrati dalla Libia? A casa loro. Dove sistemare i rifugiati politici? Prima gli italiani. Salvini ha messo in piedi un’abile operazione di comunicazione politica: ha preso un problema molto sentito dagli italiani, e ci ha messo una bandierina, agitando una soluzione – il “tutti gli immigrati a casa loro” – che lui per primo sa essere inattuabile. Lo sa lui e lo sa ancora meglio il presidente della Regione Lombari da Roberto Maroni che, da uomo di stato, sa bene come questo problema, con il quale dal Viminale anche lui ha dovuto fare i conti, sia irrisolvibile. Nessuna regola, per quanto ferrea, potrà mai porre un argine invalicabile alla disperazione delle migliaia di persone che scappano dalla guerra. Ma per il leader della Lega, questo è un problema secondario, che almeno nell’immediato poco gli importa. Il suo obiettivo è continuare a drenare consensi da quell’Italia disillusa, impaurita e che la crisi ha reso più debole e più indifesa. Ma, attenzione, anche più incattivita e aggressiva. A questo pezzo di Italia, pronta ad abbracciare – lei sì – un uomo forte –, Salvini offre una ricetta semplice e irrealizzabile. Una ricetta che poggia su due pilastri: no all’Europa (dei banchieri, dell’Euro, della Merkel e della Germania) e agli immigrati. Il leader del carroccio offre un passaggio verso il passato, verso un’impossibile Italia senza rifugiati e senza euro. Un’Italia che soddisfa sia i nostalgici, sia gli egoisti che non vogliono guardare al di là del proprio confine, sia chi non ce la fa e preferisce trovare nel “negro” che serve ai tavoli, la causa dei suoi problemi. Ecco, il crescere dei consensi di questa saldatura tra destra estrema e lega, ci sembra possa mettere in difficoltà la nostra democrazia molto più del Senato delle regioni. Alla “narrazione” di Salvini, e alla sua Italia che, lo confessiamo, ci fa un po’ paura, è necessario contrapporre un’idea di paese, si fiducioso e non rabbioso, ma anche regole certe per un’accoglienza dignitosa, onesta e che non scarichi i problemi che questo comporta sulle fasce più deboli delle nostre città, come avvenuto in passato.
Benzinaio di Varese denuncia Riccardo Bossi: «Non paga benzina». Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri di Varese. Il primogenito del Senatur già condannato per lo scandalo sui fondi di partito, scrive "Il Corriere della Sera” il 28 giugno 2016. Un benzinaio di Buguggiate (Varese) ha denunciato ai carabinieri Riccardo Bossi, sostenendo che il primogenito di Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord, non avrebbe pagato carburante per un valore di 1.300 euro. Sono in corso accertamenti dei carabinieri sulla vicenda. Secondo il racconto del titolare della stazione di servizio, tra ottobre 2015 e lo scorso febbraio Riccardo Bossi più volte si sarebbe recato da lui per fare il pieno, promettendo che sarebbe passato a saldare il conto in un secondo momento, offrendo come garanzia la notorietà della sua famiglia. Non avendo ricevuto il denaro, il benzinaio nei giorni scorsi ha deciso di presentarsi dai carabinieri e sporgere denuncia per truffa. Riccardo Bossi, in passato, è già stato denunciato da commercianti per episodi analoghi. Rischia di finire a processo a Varese per aver acquistato, secondo l’accusa, gioielli e anche pneumatici per le sue auto senza pagare il conto (il 15 novembre comparirà davanti al gup). Il primogenito del fondatore del Carroccio, inoltre, lo scorso 16 ottobre era stato rinviato a giudizio a Busto Arsizio (Varese) sempre con l’accusa di truffa. Anche in questo caso è accusato di aver comprato gioielli e un orologio di lusso in un negozio senza saldare un conto di quasi 27 mila euro, nonostante i continui solleciti e le promesse di pagamento. Lo scorso 14 marzo, infine, è stato condannato a Milano a un anno e otto mesi di carcere per appropriazione indebita aggravata nel processo con rito abbreviato con al centro le presunte spese personali con i fondi del Carroccio.
“Passerò a pagare”, benzinaio denuncia Riccardo Bossi, scrive, mercoledì 29 giugno 2016, “Diretta News”. Nuovi guai per Riccardo Bossi, figlio primogenito del fondatore della Lega Nord, che è stato accusato da un benzinaio di Buguggiate, nel varesotto, di non aver pagato carburante per un valore di 1.300 euro. Sono in corso accertamenti sul racconto del rivenditore, il quale sostiene che per mesi Riccardo Bossi si sarebbe recato da lui per fare il pieno, promettendo che sarebbe passato a saldare il conto, ma non l’avrebbe mai fatto poi. Così il benzinaio ha sporto denuncia ai carabinieri per truffa. Non è la prima volta che il figlio del Senatùr si trova coinvolto in vicende simili: Riccardo Bossi è stato infatti rinviato a giudizio dopo la denuncia del titolare di una catena di gioiellerie che lo accusa di non aver pagato un orologio e alcuni preziosi acquistati in uno dei suoi negozi a Varese. Secondo l’accusa, il conto da pagare sarebbe di alcune decine di migliaia di euro. Aveva spiegato Bruno Ceccuzzi, titolare della gioielleria Dino Ceccuzzi, con negozi a Busto Arsizio, Como e Varese, che Bossi jr. – già sotto accusa per truffa e appropriazione indebita insieme al padre e al fratello Renzo – “ha acquistato orologio e gioielli dopo Natale e glieli abbiamo consegnati sulla fiducia, anche se non è un nostro cliente abituale, convinti che un personaggio così noto li avrebbe pagati in tempi brevi”. Il gioielliere aveva aggiunto che “è trascorso del tempo e i soldi non sono arrivati”.
Lega corrotta, sanità infetta. Tangenti, società occulte, appalti pilotati, consulenze d’oro: ecco i verbali dei leghisti lombardi arrestati per corruzione, che imbarazzano anche il governatore Roberto Maroni, scrive Paolo Biondani il 30 giugno 2016 su "L'Espresso". Roberto Maroni e, sullo sfondo, Fabio Rizzi «La fattura che mi mostrate è quella pagata dall’imprenditrice Canegrati per supportare la mia campagna elettorale... perché mi ha individuato come un paladino dell’odontoiatria». E' il passaggio cruciale di un lungo interrogatorio di Fabio Rizzi, già senatore leghista e poi braccio destro di Roberto Maroni in Regione Lombardia: con quelle parole il politico, arrestato nel febbraio scorso per corruzione e altri reati, ha ammesso di aver ricevuto una tangente di 20 mila euro dall'imprenditrice Maria Paola Canegrati, la regina lombarda dell'odontoiatria. Soldi utilizzati per pagare «i gadget elettorali con il logo della Lega Nord per le regionali del 2013». A rivelarlo è L'Espresso, che nel numero in edicola da venerdì 1 luglio e già online su Espresso+ pubblica i verbali degli interrogatori in carcere, finora inediti, di tutti i principali imputati nell'inchiesta della procura di Monza sulla corruzione nella sanità lombarda. Il politico varesotto e il capo del suo staff, Mario Longo, hanno anche ammesso che erano «soci occulti» dell’imprenditrice Canegrati, in due aziende sanitarie chiamate Spectre e Sytcenter, cioè i veri titolari delle azioni intestate sulla carta alle loro conviventi. Oltre agli utili, scrive sempre il settimanale, i due esponenti leghisti hanno così incassato anche consulenze di comodo, sempre dietro lo schermo delle compagne: almeno 63 mila euro per Rizzi, altri 147 mila per Longo. La Procura di Monza ha contestato a Longo e Rizzi anche altre presunte tangenti. Nei verbali dell'imprenditrice Canegrati, inoltre, compaiono i nomi di vari direttori e funzionari delle strutture sanitarie lombarde, accusati di aver intascato soldi e regali in cambio di appalti o per omettere i controlli. Dopo questi interrogatori, scrive ancora l'Espresso, tutti gli imputati principali hanno chiesto il patteggiamento. Maria Paola Canegrati ha fatto istanza per una condanna a quattro anni e due mesi, con risarcimento immediato di 300 mila euro; Rizzi, dopo essersi dimesso, ha concordato una pena di due anni e mezzo rimborsando 71.500 euro; Longo ne restituirà altri 182 mila con una condanna a due anni e otto mesi. Ma il conto finale dei danni lo farà la Corte dei conti, che ha già chiesto agli indagati altri quattro milioni. Roberto Maroni non è coinvolto nell’inchiesta di Monza, ma i verbali dei leghisti arrestati contengono passaggi imbarazzanti anche per il governatore lombardo. Rizzi, in particolare, ha ammesso di aver raccomandato Longo e un altro amico leghista per farli assumere nella società regionale Eupolis. «Gli incarichi in Eupolis sono stati dati a Longo e Caronno – ha dichiarato Rizzi, incalzato dalle intercettazioni dei carabinieri – grazie al fatto che io li ho segnalati a Gibelli, che a sua volta ha interceduto con Eupolis». Il governatore Maroni è imputato a Milano, in un diverso processo, di aver fatto assumere proprio a Eupolis una protetta, Mara Carluccio, attraverso lo stesso Andrea Gibelli, allora segretario generale della Regione. Un’eventuale condanna obbligherebbe Maroni a dimettersi in forza delle legge Severino.
Le ruberie della Lega nella sanità lombarda. Chiusa l’inchiesta sugli scandali negli ospedali della regione. Ecco le ammissioni dei fedelissimi che imbarazzano Maroni, non indagato ma sotto assedio, che mettono in luce un vero e proprio sistema criminale, scrive Paolo Biondiani il 29 giugno 2016 su "L'Espresso". Lega corrotta, sanità infetta. La Procura di Monza ha chiuso in appena quattro mesi l’inchiesta sulle ruberie padane negli ospedali della Lombardia. Mentre Roberto Maroni rimane aggrappato alla poltrona di governatore di una regione che non è mai stata così rossa, con dodici città su dodici passate dal centrodestra al centrosinistra, compresa la natia Varese dove la Lega fu fondata, i suoi fedelissimi abbandonano la politica e si arrendono alla giustizia. Tra gli arrestati nella retata per corruzione del 16 febbraio scorso, ora l’unico slogan è limitare i danni: tutti i principali imputati hanno chiesto il patteggiamento. A cominciare dal medico-politico varesotto Fabio Rizzi, che prima di entrare in carcere era il braccio destro di Maroni: il regista di una riforma della sanità che lo stesso governatore ha dovuto controriformare di corsa, dopo l’ennesimo scandalo. Che questa volta non si può liquidare con la storiella delle presunte mele marce in un mercato sano: le nuove accuse dei pm brianzoli e le ammissioni degli stessi indagati (finora inedite) fotografano il fallimento del cosiddetto modello di sanità lombarda. Al di là dei reati specifici, di per sé gravi, l’esito dell’inchiesta dimostra che la decantata alleanza pubblico-privato, inventata dai big ciellini nell’era Formigoni e riciclata dalla Lega, è una favola che illude i malati, imbavaglia i medici, impoverisce la sanità di tutti e arricchisce le aziende di pochi. Sono le sei di pomeriggio del 4 marzo 2016 quando Fabio Rizzi, 50 anni, ex anestesista, già senatore e poi consigliere regionale della Lega, firma la capitolazione dopo una giornata d’interrogatorio: «La fattura che mi mostrate è quella pagata dall’imprenditrice Canegrati per supportare la mia campagna elettorale... perché mi ha individuato come un paladino dell’odontoiatria». Maria Paola Canegrati è la grande corruttrice: una manager di ferro che in pochi anni è diventata la regina lombarda dell’odontoiatria. Con quella tangente di 20 mila euro è lei che ha pagato sottobanco «i gadget elettorali del 2013 con il logo della Lega Nord». Quindi il pm Manuela Massenz chiede al politico se veniva dalla stessa imprenditrice anche il pacco di banconote sequestratogli dai carabinieri quando lo hanno arrestato. Rizzi risponde così: «Il capo del mio staff, Mario Longo, mi ha dato 20 mila euro in contanti, diecimila alla volta: sono i soldi che avete trovato in cassaforte, tranne cinquemila euro che ho speso. Ma io non gli ho chiesto da dove provenissero... Ero totalmente inconsapevole che la Canegrati versasse soldi a Longo, in parte oggettivamente arrivati a me». Questa tesi del politico comprato a sua insaputa non convince nessun giudice di Monza, anche per un problema ben documentato: Rizzi e Longo risultano addirittura soci occulti dell’imprenditrice Canegrati, in due aziende sanitarie chiamate Spectre e Sytcenter, con quote intestate alle loro conviventi. E così, oltre agli utili, dal 2013 al 2015 hanno intascato pure consulenze di comodo, sempre dietro lo schermo delle compagne: «almeno 63 mila euro» per Rizzi, altri 147 mila per Longo. Visti gli atti, l’ex capo della commissione sanità non nega di aver preso anche quei soldi. Però sostiene che, in cambio, non avrebbe usato il suo potere pubblico per favorire la manager che lo pagava: «Fu Longo a propormi di entrare in società con la Canegrati... Ma erano progetti privati. Da portare avanti solo nelle cliniche italiane o all’estero». Insomma, soldi sì, ma senza vere corruzioni né conflitti d’interessi. Il problema è che il leghista arrestato non conosce le ammissioni degli altri, anch’esse parziali, ma diverse. Il primo a metterlo in crisi è proprio il suo segretario politico Mario Longo, 51 anni, ex odontoiatra, già socio di Rizzi nella Lorimed (altra impresa privata, che ha nel nome le iniziali dei due leghisti). L’otto marzo l’uomo che si autodefinisce «il factotum di Rizzi» mette a verbale un bel pasticcio di conflitti tra ruoli pubblici, aziende private e conviventi-prestanome. «Io e la Canegrati eravamo già soci nella Sytcenter», dichiara Longo: «Nel 2013 o 2014 l’ho incontrata all’ospedale pubblico Icp, dove io lavoravo per la Lega e lei aveva già cinque centri odontoiatrici. In quel momento avevo gravi difficoltà economiche. Quindi convenimmo che la mia convivente collaborasse con la Canegrati... Pur essendo socio di fatto, ho ritenuto inopportuno figurare in quelle società commerciali, visto il mio ruolo politico in Regione». Longo aggiunge che «probabilmente» anche Rizzi ha intestato la sua quota alla convivente «perché riteneva inopportuno politicamente figurare nella società». I verbali dei leghisti mostrano che i proclami per la chiusura delle frontiere valgono per gli esseri umani, ma non per i soldi: Rizzi ammette di avere una società-cassaforte in Lussemburgo, mentre Longo giustifica con «consulenze per progetti in Cina» altri 50 mila euro, sborsati dalla solita Canegrati grazie a due fatture false emesse da un loro complice, Stefano Lorusso, arrestato a Miami. A demolire l’alibi cinese è però la stessa Canegrati, il 21 aprile: «Ho sempre detto a Longo che il suo progetto in Cina non mi interessava... Lui mi mandò una lettera di Rizzi che lo incaricava di essere portavoce della Regione Lombardia per la sanità all’estero... Gli dissi chiaramente che consideravo quei viaggi una perdita di tempo». Il vero motivo dei pagamenti, per l’imprenditrice, è ovvio: «Ho finanziato la campagna elettorale di Rizzi, su richiesta di Longo, perché uno dei punti del suo programma era promuovere l’odontoiatria». Semplice impiegata fino a dieci anni fa, Canegrati ha creato dal nulla, con vari appoggi politici, prima nel Pdl e poi nel Carroccio, il primo gruppo odontoiatrico lombardo: una dozzina di società che ha in parte venduto nel 2015 per 13,5 milioni, premurandosi di girare altri 50 mila euro ai due leghisti «grazie ai cui favori aveva potuto incrementato il valore delle sue aziende». Tutti questi incroci pericolosi di tante mezze confessioni hanno convinto perfino l’avvocato berlusconiano Michele Saponara, difensore di Rizzi, a trattare la resa. E alla fine Maria Paola Canegrati ha chiesto di patteggiare una condanna a quattro anni e due mesi, con risarcimento immediato di 300 mila euro; Rizzi, dopo essersi dimesso, ha concordato due anni e mezzo rimborsando 71.500 euro; Longo ne restituirà altri 182 mila per farsi infliggere due anni e otto mesi. E il conto finale dei danni lo farà la Corte dei conti, che ha già chiesto agli indagati altri quattro milioni. Maroni non è coinvolto nell’inchiesta, ma è politicamente assediato dalle rivelazioni sull’«associazione per delinquere» creata dai suoi luogotenenti con decine di corruzioni, appalti truccati, soldi e regali ai direttori leghisti degli ospedali, poltrone d’oro per amici e parenti. Per fermare lo scandalo, il governatore ha creato un’autorità lombarda anti-corruzione. Ma qui non si tratta di tangenti isolate: l’inchiesta investe il cuore del sistema che caratterizza la Lombardia. Da vent’anni i politici di Cl, Forza Italia e Lega raccontano ai cittadini che “il modello pubblico-privato” rende tutti felici: i pazienti trovano le cliniche private dentro gli ospedali, a prezzi controllati; le aziende si arricchiscono con questi “service”; e le strutture pubbliche partecipano agli utili. Ora l’inchiesta di Monza ha messo a nudo il trucco: la spesa pubblica ha un limite. L’imprenditrice Canegrati non può curare i denti a troppi poveri, altrimenti fallisce; quindi deve tagliare le cure, gonfiare le liste d’attesa pubbliche e dirottare i pazienti nel privato a pagamento, come dimostrano le intercettazioni. Ma il peggio è che con questo sistema l’ospedale diventa complice perfino delle truffe: se il pubblico è un socio che si divide gli utili, non ha nessun interesse a controllare il privato. Come prova la nuova accusa sui rimborsi gonfiati: i medici eseguono un impianto chirurgico, ma Canegrati se ne fa rimborsare due, in centinaia di casi. E quando arriva un controllo, i funzionari pubblici non solo preavvisano, ma aiutano i privati a falsificare le carte. Un reato che la manager confessa così: «Confermo che quei tre funzionari ci hanno aiutato a sistemare le cartelle per il controllo: ovviamente l’interesse a far vedere tutto a posto era sia nostro sia dell’ospedale pubblico».
Inchiesta sulla sanità lombarda, l'ombra della massoneria. Nelle pagine delle intercettazioni dell'inchiesta che ha travolto la sanità lombarda spunta l'interesse per la massoneria: "Una volta entrato, se non si fanno errori, ci sono buoni contatti con alcune istituzioni", scrive "L'Espresso" il 25 febbraio 2016. Figli, parenti e amici massoni. C’è anche questo nelle centinaia di pagine di intercettazioni dell’inchiesta sulla sanità lombarda. Mario Longo, il braccio destro del consigliere Fabio Rizzi, si dà un gran da fare per smistare favori ed usa la Regione Lombardia come un ufficio di collocamento. Mentre il suo amico Roberto Caronno, medico di fede leghista, pensa di iscriversi alla massoneria per «migliorare i contatti dell’intero gruppo» e usarli come trampolino per business futuri. Enzo Brusini è il direttore generale dell’ospedale San Paolo di Milano: viene intercettato mentre cerca di piazzare la figlia e chiede aiuto a Longo. Brusini (non indagato) è considerato molto vicino al segretario Matteo Salvini e per anni ha finanziato il Carroccio con un contributo volontario. Gli investigatori prendono nota delle continue lamentele per il suo mancato trasferimento dal San Paolo: «Sono in ansia perché so che qui c’è una barca che tra un po’ affonda, sai che la tengo in piedi con gli spilli, tutti i giorni», racconta al telefono. Siamo nella primavera del 2014 e il manager pubblico è più interessato alla sua vita privata che alle sorti dell’ospedale: chiede aiuto a Longo per trovare un posto alla ragazza. Lei lavora in un museo ma non si trova bene. E subito il leghista promette di «inserirla in Regione». Arriva un “affiancamento senza stipendio” nel settore moda e turismo, ma il braccio destro di Rizzi fa capire che a breve potrebbe ottenere incarichi più delicati. Brusini si affretta a precisare che la «figlia è onesta ed è una tomba assoluta». A quanto pare l’omertà fa curriculum. Gli sforzi però riprendono quando l’incarico regionale finisce. Questa volta Longo accenna a un possibile impiego della ragazza nel gruppo Techint dei Rocca (coinvolto anche nel progetto di ospedale in Brasile sponsorizzato dalla Regione) e spiega che l’eventuale assunzione «sarebbe un buon colpo dato che consentirebbe di avere occhi e orecchie nella più grande azienda medicale italiana». Addirittura. Il gruppo capeggiato da Rizzi punta anche agli affari oltre frontiera. Progetti in campo umanitario, come l’ospedale in Brasile, che aprirebbero spazi commerciali per le imprese italiane in cerca di nuovi business. Rizzi ne parla proprio con il medico Roberto Caronno, primario di chirurgia vascolare all’ospedale Sant’Anna. E quest’ultimo gli rivela che sta pensando di entrare nella massoneria. Il braccio destro di Maroni però non vuole iscriversi. Meglio di no, spiega, visto il suo ruolo pubblico in commissione sanità. Caronno però sembra entusiasta. Racconta all’amico di aver fatto una «chiacchierata con quei massoni e ci sono buoni contatti all’estero. Una volta entrato, se non si fanno errori, ci sono buoni contatti con alcune istituzioni. Cercano persone di elevato rango sociale, specialmente ricche, in modo da costituire delle lobby». Alla fine Rizzi dà via libera al medico aspirante massone, perché «avere dentro uno del gruppo è comunque meglio che non avere nessuno».
Sanità, gli affari segreti della cricca lumbard. Società offshore, affari all’estero, traffici internazionali. Le indagini sulla sanità della procura di Monza scoperchiano una holding del malaffare. Targata Lega. E gestita da un amico di Maroni, scrivono Paolo Biondiani, Vittorio Malagutti e Michele Sasso su "L'Espresso". Holding a Panama, società in Lussemburgo, conti a Montecarlo, progetti a Dubai, traffici assortiti tra Cina, Russia, Brasile e Romania. Eccola, la multinazionale lumbard. Una multinazionale del malaffare. E il capo era lui, Fabio Rizzi, leghista della prima ora, amico e stretto collaboratore di Roberto Maroni, il presidente della Regione Lombardia. Questo, in estrema sintesi, è quanto raccontano migliaia di pagine agli atti dell’inchiesta della procura di Monza che il 16 febbraio ha scoperchiato quella che appare come una gigantesca ruberia ai danni della sanità pubblica. L’indagine che ha portato in carcere Rizzi ruota intorno all’incredibile carriera di Paola Canegrati, l’imprenditrice brianzola partita dal nulla che nell’arco di una quindicina d’anni è riuscita a metter le mani sul business delle cure odontoiatriche in Lombardia. Un business finanziato con i soldi della Regione grazie agli appalti che “Lady Dentiera”, anche lei arrestata, vinceva a raffica in molti ospedali. Il consigliere regionale leghista Fabio Rizzi, arrestato nell'indagine sulla sanità pubblica in Lombardia, racconta il progetto sponsorizzato dalla Regione di cooperazione umanitaria con il Brasile. Secondo quanto emerge dall'indagine della procura di Monza, Rizzi e i suoi collaboratori avevano cercato di sfruttare la copertura istituzionale per guadagnare in proprio grazie ai rapporti con le autorità brasiliane e alcune imprese italiane, tra cui il gruppo Techint. Il segreto del successo, secondo le accuse, erano le tangenti. Denaro e favori vari, anche l’assunzione di parenti e amici, che Canegrati elargiva ai direttori di Asl e ospedali. In cima alla lista dei beneficiati c’era Rizzi, che l’amico Maroni aveva piazzato alla presidenza della commissione Sanità della Regione, postazione chiave per influenzare il flusso miliardario dei finanziamenti alle strutture pubbliche. Insieme a Rizzi, 49 anni, varesotto di Besozzo, è finito in carcere anche il suo inseparabile amico, confidente, collaboratore Mario Longo, che dagli atti dell’inchiesta appare coinvolto in mille trame affaristiche, dal Sudamerica fino in Cina. La giostra milionaria girava da anni. Alla grande. Canegrati, a capo di un gruppo con oltre 50 milioni di ricavi, aveva appena messo a segno il colpo della vita. Anzi due: l’acquisto del suo principale concorrente in Lombardia, la Egm di Luca Rottoli, e poi l’alleanza con il fondo d’investimento internazionale Argos Soditic, sede a Parigi e attività in tutta Europa. In sostanza, il nuovo socio metteva i soldi e la signora restava al comando almeno fino al 2017, quando aveva un’opzione per vendere tutto e passare alla cassa. Nel frattempo, però, Lady Dentiera, 54 anni, continuava a correre come sempre e studiava l’espansione in Veneto, Piemonte, Toscana, Liguria, fino in Svizzera, dove aveva già aperto una filiale e progettava di prendere la residenza. «Altro giro, altro regalo», sbotta a un certo punto l’imprenditrice (intercettata dai carabinieri) quando capisce che Rizzi sta per bussare a quattrini. L’amico di Maroni non era il tipo che passava inosservato. A Varese e dintorni era facile vederlo scorrazzare con un gigantesco fuoristrada Hummer di colore giallo. In affari però il presidente della commissione Sanità si muoveva sottotraccia, tra prestanome, la sua compagna Lorena Lidia Pagani e schermi societari. Dagli atti d’indagine emerge che Rizzi e i suoi sodali si erano organizzati come un comitato d’affari, con tanto di holding in Lussemburgo. Ed è proprio il politico leghista, ascoltato tramite una cimice piazzata sulla sua auto, a spiegare alla convivente gli equilibri azionari in quella che appare come la cassaforte della cricca. A libro soci troviamo Longo con la sua compagna Silvia Bonfiglio (30 per cento in totale). Rizzi, proprietario di una quota del 25 per cento, aveva aperto le porte anche a convivente e segretaria (10 per cento ciascuna), mentre il resto del capitale se lo dividevano altri due fedelissimi: Donato Castiglioni (10 per cento), anche lui arrestato, e il medico Roberto Caronno con il 15 per cento. Per fare chiarezza bisognerà attendere i risultati delle rogatorie internazionali. Certo è, però, che i protagonisti della vicenda vengono più volte intercettati al telefono mentre discutono di complicate architetture societarie nei paradisi fiscali. A far da sponda c’era spesso Stefano Lorusso, affarista con base a Miami. «Tu mi devi dire quando mi porti a Panama a parlare col panamense», gli dice Longo che ha fretta di creare una nuova società nel Paese centroamericano, noto e impenetrabile centro offshore. «Io e te abbiamo il controllo di tutta la baracca», dice Longo in un’altra occasione riferendosi alla holding panamense Insideout, di cui, secondo l’intercettazione, Rizzi avrebbe avuto non più di un terzo del capitale. Da Panama si arriva in Costa Azzurra. Lorusso dice di aver creato a Montecarlo una società per gestire il marchio della sua azienda, la “More Than Lux” di Miami (immobiliare, affitto di aerei e auto di lusso). Un’attività che l’imprenditore era pronto a condividere con i due leghisti. L’ultima tappa era Dubai, dove Lorusso, intercettato, dice di voler trasferire i soldi di Montecarlo. Nella loro frenetica rincorsa al denaro, ai danèe, direbbe il varesotto Rizzi, la cricca leghista pensava in grande. I loro progetti, a volte un po’ sgangherati, spaziano da Pechino fino all’altra sponda dell’Oceano Atlantico. Nel febbraio del 2015, Longo telefona a Lorusso dicendo che hanno la necessità di «esportare dal Brasile in Cina 100 tonnellate al mese di zucchero bianco già raffinato». Dagli atti d’indagine non si capisce se questo affare sia mai andato in porto. È invece naufragata un’altra operazione a cui il gruppo di sodali lumbard aveva lavorato a lungo. L’obiettivo sembrava nobile: la costruzione di un ospedale pediatrico, sul modello del milanese Buzzi, nello stato brasiliano del Goiás. Il progetto viene presentato in pompa magna già nel 2013, con tanto di sponsorizzazione della Regione presieduta da Maroni. «Un’eccellenza lombarda al servizio dei bambini brasiliani», si vantava Rizzi. Solo che, dietro le quinte, il gruppo dei suoi soci si muoveva, d’accordo con lui, per farsi gli affari propri. Longo e gli altri puntavano a incassare ricche commissioni per mettere in contatto alcune imprese italiane con i governanti del Goiás. Non solo per il progetto dell’ospedale, ma anche .per altri futuri lavori. Per raggiungere lo scopo avevano agganciato Alexandre Baldy, vicepresidente della Regione autonoma brasiliana, che nel novembre 2014 si reca in visita al Buzzi, a Milano, per promuovere l’iniziativa. A febbraio 2015 il cerchio sembra vicino a chiudersi. Una delegazione italiana guidata da Longo si incontra in Brasile con le autorità. Del gruppo fanno parte i rappresentanti di tre aziende impegnate nel settore sanitario: la Techint dei Rocca, Servizi Italia e Giglio Santa Lucia. L’affare però non va in porto, perché i brasiliani si mettono di traverso. Al telefono Longo si lamenta con Lorusso perché il governatore del Goiás, Marconi Perillo, chiede 50 mila dollari per sbloccare l’operazione. «Una richiesta che appare fin troppo chiaramente come una tangente», si legge nell’informativa dei Carabinieri. Ma c’erano anche altre preoccupazioni. «Bisogna trovare una soluzione per non fare figure di merda», dice Longo intercettato. Perché, spiega, «ci sono documenti ufficiali, c’è Maroni (…) e questi dicono “scusa e i trentamila che abbiamo messo sul tavolo per mandarvi lì”». Queste parole fanno supporre che la Regione avesse finanziato almeno in parte la missione in Brasile. Per questo e altri affari Rizzi e soci incrociano la rotta di Alessandro Albano, un consulente in camicia verde, visto che fino al 2014 era consigliere provinciale a Torino per la Lega Nord. Albano (non indagato) appare coinvolto in molti progetti. Lavora per la Servizi Italia e vanta entrature politiche in diverse regioni del Nord Italia. Frequenta il sindaco di Verona, Flavio Tosi. Dagli atti risulta che Albano si informa con un interlocutore sui costi e i tempi per creare una società in Bulgaria. Ma anche la Russia interessa Rizzi, il quale vorrebbe spedire a Mosca il suo collaboratore Longo. Quest’ultimo però se ne lamenta al telefono: «Quando torniamo come glielo spieghiamo alla magistratura che ci andiamo con l’embargo?». Rizzi e i suoi sodali, scrivono i pm, «usavano il potere politico come strumento per accumulare ricchezze». Un’immagine in particolare racconta questo intreccio malato. Proprio mentre parte l’inchiesta, al terzo piano del Pirellone, sede del Parlamento lombardo, sulla porta di una stanza compare una targa con i nomi di Longo e Caronno, primario di chirurgia vascolare all’ospedale Sant’Anna di Como. Entrambi infatti sono inseriti nello staff di Rizzi, presidente della commissione Sanità. Caronno, più volte citato nelle intercettazioni, è a libro paga (36 mila euro annui) di Eupolis, l’ente regionale per la ricerca e la formazione già finito al centro di un’altra indagine. Quella sull’assegnazione di un contratto da 29.500 euro cucito su misura per Mara Carluccio, ex collaboratrice del governatore Maroni. Il medico, varesino di origini, è un leghista militante partecipa in prima fila ai congressi, e soprattutto è uno degli undici dell’auto-nominato “gruppo strategico Lega Nord Sanità”. Che sia strategico lo si capisce scorrendo l’elenco dei nomi: tutti con pedigree di fedeltà «maronita», tutti di Varese e dintorni e con incarichi di vertice negli ospedali pubblici: ecco l’ex assessore alla famiglia Maria Cristina Cantù, amica personale di Bobo, come Giovanni Daverio in arte Johnny e Giuseppe Rossi detto Gegè. Daverio da due anni ha un incarico da direttore generale in Regione. Rossi è invece alla testa del polo ospedaliero di Lodi, dopo aver guidato Lecco. Le intercettazioni svelano che a un certo punto l’attivissima Canegrati mette un piede anche negli ambienti militari. Negli atti d’indagine compare il nome del generale Angelo Giustini, cardiologo e responsabile sanitario della Guardia di Finanza, oggi a riposo. Un contatto importante per l’imprenditrice, che punta agli ambulatori delle Fiamme Gialle. Nel novembre 2014 il generale Giustini e il suo aiutante vengono ospitati a spese della Canegrati: notte in hotel e cena per «intrecciare relazioni per prepararsi al futuro», spiega lo stesso Giustini, che si prepara ad andare in pensione. Un anno dopo i due si ritrovano ancora. L’occasione è il premio Sciacca nell’Aula Magna della Pontificia Università Urbaniana della città del Vaticano. Canegrati riceve un premio speciale della giuria e a consegnarlo è proprio il generale Giustini. Nel network lumbard compare anche un generale in pensione dei Carabinieri, tale Alberto Bellotti, che, annotano gli investigatori, incontra Canegrati per sondare “eventuali prospettive di collaborazione”. Una curiosità: Bellotti risulta collaboratore della Regione per il progetto del numero d’emergenza 112 e allo stesso tempo rappresentante per l’Italia di Genesis International Health System, un gruppo israeliano con la casa madre a Giv’at Shmuel. Rizzi è un leghista innamorato della Sardegna. Trascorre le vacanze sull’Isola Rossa, in provincia di Olbia-Tempio Pausania, dove ha fondato nel 2009 la prima sezione della Lega Nord Sardinia. Sarà per questo che il politico lumbard ha sposato la causa dei pescatori spingendo per la candidatura del suo «fraterno amico» Mauro Morlè (con lui esce in barca) alle Europee del 2014. Dalle urne arrivano 3.300 voti e così l’instancabile Rizzi si mette in pista per far avere al suo protetto un tesserino da lobbista proprio a Bruxelles. Decine di mail e telefonate alla pattuglia di barbari sognanti all’Unione europea: chiede a Mario Borghezio un incarico di consulente per «andare e venire quando vuole gratis con vitto e alloggio assicurato». Affare fatto. Dopo mille manovre l’agognato tesserino finalmente arriva. Il leghista pescatore sbarca a Bruxelles. A spese nostre, perché all’Europarlamento i lobbisti sono pagati con denaro pubblico. Ha collaborato Janaina Cesar.
Sanità lombarda: 20 anni di scandali giudiziari. L'arresto di Rizzi è soltanto l'ultimo capitolo. Da Poggiolini a Poggi Longostrevi fino a Mantovani: i casi di appalti pilotati, corruzione e malaffare in Regione, scrive di Francesca Buonfiglioli il 16 Febbraio 2016 su “Lettera 43”. Appena il tempo di spiegare la portata della riforma - o, meglio, «evoluzione» come la preferisce definire Roberto Maroni - del Sistema socio-sanitario lombardo, «perché 'riforma'», spiegava il governatore il 18 gennaio 2016, «evoca qualcosa che non funziona, mentre il Sistema socio-sanitario in Lombardia è una eccellenza» - che ecco piombare sul Pirellone un nuovo scandalo. Tra i 21 arresti spiccati il 16 febbraio nell'ambito dell'operazione Smile su presunte irregolarità in appalti odontoiatrici presso aziende ospedaliere lombarde c'è pure Fabio Rizzi, presidente della Commissione Sanità e Politiche sociali del Consiglio regionale nonché braccio destro di Bobo e padre di quell'«evoluzione» della Sanità più volte decantata dal governatore. L'accusa nei confronti del leghista è pesante: associazione per delinquere. L'indagine della procura di Monza è però solo l'ultimo capitolo del libro nero della Sanità lombarda. Che va dall'arresto di Duilio Poggiolini, il Re Mida della Sanità o il boss della malasanità, e arriva fino alle manette scattate ai polsi di Mario Mantovani, console berlusconiano, ras della sanità regionale ed ex vice presidente lombardo. In mezzo ci sono mazzette, truffe, vacanze e viaggi sospetti, turbative d'asta. Ma anche emoderivati infetti e cliniche degli orrori.
1993: Tangentopoli scoperchia gli affari di Poggiolini. Nella bufera milanese di Tangentopoli finì nel 1993 Duilio Poggiolini, presidente della Commissione per i farmaci dell'allora Comunità economica europea e iscritto alla P2. Secondo il pool di Di Pietro, Poggiolini era a libro paga delle case farmaceutiche per fare inserire i farmaci nei prontuari manipolandone i prezzi. A riscuotere le mazzette delle multinazionali era la moglie Pierr di Maria, anch'essa arrestata e morta nel 2007. Quando venne catturato latitante sotto falso nome in una clinica di Losanna, gli inquirenti trovarono su un conto svizzero intestato alla consorte 15 miliardi di vecchie lire. Nulla in confronto al cosiddetto 'tesoro Poggiolini': lingotti d'oro, gioielli, quadri, monete antiche, rubli e banconote nascoste perfino nei puff e nei materassi della sua abitazione all'Eur. Il boss della malasanità è poi tuttora sotto processo nell'ambito dell'inchiesta napoletana sul plasma infetto fornito dal Gruppo Marcucci. Secondo l'associazione politrasfusi, tra il 1985 e il 2008 le vittime di trasfusioni sono state 2.605. Ironia della sorte, l'ottobre 2015 l'87enne Poggiolini è stato trovato in una casa di riposo abusiva alle porte di Roma, tra anziani maltrattati, ammassati e confezioni di sedativi.
1997: Poggi Longostrevi e lo scandalo delle prescrizioni d'oro. Per un Re Mida della Sanità nazionale, ce n'era uno di quella lombarda: Giuseppe Poggi Longostrevi, medico e proprietario di una rete di cliniche private nel Milanese. Nel 1997 un'inchiesta mise con le spalle al muro centinaia di medici di famiglia che prescrivevano scintigrafie presso le strutture convenzionate di proprietà di Longostrevi dietro compenso (dalle 50 alle 100 mila lire) più il 15% del valore degli esami di laboratorio e regali da parte del manager. Secondo l'accusa, molti esami non vennero nemmeno effettuati. In compenso fioccavano i rimborsi da parte della Regione. La Corte dei conti stimò i danni causati all'erario in 60 miliardi. Ma c'è di più: Poggi Longostrevi tra il '96 e il '97 aveva pagato una mazzetta da 72 milioni di lire a Giancarlo Abelli, allora presidente della Commissione Sanità in Regione Lombardia. «Una consulenza», spiegò Abelli, già braccio sanitario di Roberto Formigoni. «Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione», confessò invece Longostrevi, che dopo nove mesi agli arresti si tolse la vita con una overdose di barbiturci. «Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto... Alcuni sono stati costretti alle dimissioni solo per un sospetto, altri sono stati premiati con la nomina ad assessore». Ciò che accadde ad Abelli che dopo lo scandalo delle ricette ottenne la poltrona alla Sanità. Alla fine se la cavò con un processo per false fatture. Ma visto che non si dimostrò la volontà di evadere le tasse, fu assolto dall'accusa di frode fiscale, continuando la sua carriera al Pirellone al fianco del Celeste e poi come fedelissimo di Silvio Berlusconi a Roma. È scomparso il 26 gennaio 2016.
2011: Daccò e l'impero del Celeste. In piena era formigoniana la sanità regionale è stata sconvolta da un altro scandalo: il crac della Fondazione San Raffaele, centro d'eccellenza di Don Verzé. Nel mirino nel novembre 2011 è finito Pierangelo Daccò, uomo vicino a Comunione e liberazione, accusato di distrarre milioni dall'ospedale: avrebbe ricevuto denaro in contante dal vice di Verzé, Mario Cal, poi finito suicida. Tra l'altro fu lui a gestire l'acquisto del nuovo aereo privato del prete-manager, intascandosi una consulenza da un milione di euro. Affare che provocò 10 milioni di buco nel bilancio dell'ente. Il nome di Daccò però è legato anche all'inchiesta sui fondi neri del Pirellone alla clinica Maugeri in cui è accusato di aver distratto circa 70 milioni di euro sotto forma di consulenze e finti appalti. Vicenda che vede imputato anche l'amico ed ex governatore lombardo Formigoni con cui il faccendiere condivideva feste, cene, vacanze e viaggi. Che, secondo l'accusa, in realtà erano benefit per ottenere favori dalla Regione. Il Celeste è stato così rinviato a processo per associazione a delinquere e corruzione assieme, tra gli altri, all'ex assessore regionale alla Sanità Antonio Simone e allo stesso Daccò. Nel 2012 Formigoni si difese parlando di quelle vacanze in Sardegna come «scambi tra persone amiche» e «viaggi di gruppo in cui alla fine si conguagliano le spese», negando di aver mai ricevuto «regalie». Ferie a tre che la moglie di Simone Carla Vites - accusata di riciclaggio - aveva invece definito «weekend “romantici” a cui mio marito non mi portava. Daccò trascinava in vacanza gente che aveva fatto voto di castità, povertà e obbedienza, facendoli ballare come bambini deficienti».
2015: bufera sul ras della Sanità lombarda Mantovani. I guai della Sanità lombarda dall'impero del Celeste passano alla gestione di Roberto Maroni, colui che brandendo una ramazza aveva promesso di disinfestare la Lega dagli scandali bossiani. Eppure il Barbaro sognante si è dovuto arrendere alla realtà dei fatti. A ottobre del 2015 è infatti finito in manette il suo vice ed ex assessore alla Sanità, il forzista Mario Mantovani con l'accusa di corruzione e concussione per appalti nella sanità, compresa una gara sul trasporto dei dializzati. In carcere sono finiti pure il collaboratore del berlusconiano, Giacomo di Capua, capo di gabinetto dell'assessorato e mente dei manifesti «Via le Br dalla procura», e Angelo Bianchi, ingegnere del provveditorato alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria, già rinviato a giudizio per presunti appalti truccati in Valtellina. Tra i 12 indagati compare anche il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e vicinissimo a Maroni. Avrebbe agito per turbare la gara «per l'affidamento del servizio di soggetti nefropatici sottoposti al trattamento dialitico». Mantovani - signore di Arconate di cui è stato sindaco per quasi 15 anni, badante di Mamma Rosa, la madre di Berlusconi, che ha assistito fino all'ultimo e organizzatore dei pullman di anziani in occasione delle manifestazioni di Silvio - è un altro dei ras della Sanità lombarda: alla sua famiglia fanno capo la società Immobiliare Vigevanese che realizza residenze socio assistenziali e la Fondazione Mantovani che gestisce alcune di queste strutture. Come slogan ha: «Il valore della vita, il calore della famiglia, la forza della solidarietà».
2016: Rizzi, Longo e il legame tra imprenditoria e politica. E ora con l'arresto di Rizzi, medico anestesista e rianimatore, segretario provinciale del Carroccio di Varese dal 2006 al 2008, e dal 2008 al 2013 senatore, Bobo deve fare fronte a un nuovo terremoto. L'indagine, coordinata dalla procura di Monza, ha ricostruito l'operato di un gruppo imprenditoriale accusato di aver corrotto funzionari delle gare di appalto pubbliche lombarde, bandite da diverse aziende ospedaliere per la gestione esterna di servizi odontoiatrici, riuscendo ad aggiudicarsele. Le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, alla corruzione e alla turbativa d'asta per i servizi odontoiatrici esternalizzati in Lombardia. Con Rizzi è finito in carcere l'imprenditore Mario Valentino Longo, componente dello staff del consigliere. I due sarebbero stati pagati dal gruppo imprenditoriale al centro dell'inchiesta con il finanziamento della campagna elettorale di Rizzi per le elezioni regionali del 2013. E successivamente con versamenti tra cui una tangente di 50 mila euro e una serie di finte consulenze, per 5 mila euro al mese, fatturate dalla moglie di Longo. Al centro dell'inchiesta c'è l'imprenditrice Maria Paola Canegrati, considerata il «vertice» del sistema corruttivo. Secondo gli inquirenti, le società a lei riferibili tra cui la Elledent e la Service Dent (del gruppo Odontoquality con sede ad Arcore-Monza), in 10 anni avrebbero preso il monopolio dei servizi odontoiatrici appaltati in esterno dagli ospedali lombardi. Rizzi e Longo avrebbero favorito l'imprenditrice in gare di appalto bandite dalle Aziende Ospedaliere Istituti Clinici di Perfezionamento (del 2015, da 45 milioni di euro) e Ospedale di Circolo di Busto Arsizio (del 2014, da 10 milioni di euro). Gare che secondo l'accusa erano puramente formali. Canegrati stessa, dal 2013, avrebbe tessuto una rete di azione a livello amministrativo con funzionari pubblici corrotti, i quali erano a libro paga del suo gruppo imprenditoriale. Si parla di un giro di affari di 400 milioni di euro.
2007: non solo tangenti, anche i morti della clinica Santa Rita. Ma la malasanità lombarda non è solo fatta di mazzette, benefit e appalti truccati. È fatta anche di morti. Nel 2007 un'operazione della Guardia di finanza e della procura di Milano hanno portato alla luce gli orrori della clinica Santa Rita di Milano dove venivano effettuate operazioni chirurgiche senza che fossero necessarie solo per incassare i rimborsi della Regione. Il primario di chirurgia toracica Pier Paolo Brega Massone è stato condannato all'ergastolo anche in Appello con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti e 45 casi di lesioni.
Lega: da secessione a nazionalismo, scrive Elia Rosati Domenica 05 giugno 2016. L’articolo è tratto dalla serie Viaggio nell’estrema destra europea, un progetto dell’Anpi – Associazione nazionale partigiani d’Italia, curato dal ricercatore storico e collaboratore dell’Università Statale di Milano Elia Rosati. Breve storia della Lega Nord (LN). Dal secessionismo comunitarista al nazionalismo identitario.
“Roma Ladrona!” (1987-1995). Nata nel 1989 come confederazione elettorale di alcuni movimenti regionalisti del Nord Italia e capitanata da un gruppo dirigente con al vertice Umberto Bossi, senatore dal 1987 per la formazione localista Lega Lombarda e segretario del Carroccio fino al 2012. Inizialmente la LN chiedeva una radicale riorganizzazione della Nazione in senso federale, maggiore autonomia fiscale per le amministrazioni regionali e provinciali del Nord, un drastico taglio delle tasse e la fine di una politica di investimento dello Stato che privilegiasse le regioni del Meridione a discapito di quelle settentrionali. La proposta politica della Lega prese rapidamente piede nelle zone pedemontane (principalmente del lombardo-veneto), deluse dalla politica democristiana e protagoniste di un vorticoso sviluppo economico, caratterizzato da medio-piccole imprese a conduzione familiare, che rese il Nord-Est uno dei territori più ricchi d’Europa. La politica leghista fu da subito caratterizzata da un populismo volgare e provocatorio, che dipingeva la classe politica come corrotta ed il Sud del Paese come popolato da parassiti che vivevano solo dell’assistenzialismo statale, finanziato, secondo i leghisti, dalla tasse delle regioni settentrionali. Un certo razzismo verso i migranti era già fortemente diffuso nella base leghista, anche se il Carroccio nei primi anni ’90 concentrava i suoi anatemi contro gli italiani meridionali, chiedendo che venissero allontanati dalla pubblica amministrazione nelle regioni del Nord, perché incompetenti e lavativi. Nelle elezioni amministrative del Maggio 1990 raccolse il 4% a livello nazionale, diventando però il secondo partito in Lombardia con il 18,9%; successivamente sull’onda del sentimento di indignazione per l’inchiesta di Tangentopoli, nelle elezioni nazionali del 1992, pur avendo il suo elettorato esclusivamente nel Nord-Italia, ottenne l’8,6% con 3.400.000 voti (quarto partito) e nel 1993 conquistò a sorpresa il Comune di Milano (uno dei consiglieri comunali sarà il giovanissimo Matteo Salvini). Dopo questi exploit, Bossi strinse nel 1994 un accordo elettorale con Forza Italia (FI), la neo-formazione politica dell’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi, vincendo le elezioni (le prime con un sistema di voto maggioritario), partecipando per la prima volta al governo con cinque ministri e ottenendo anche la presidenza della Camera per Irene Pivetti. Tuttavia il primo esecutivo Berlusconi non durò a lungo: fu proprio la Lega Nord nel 1995 a ritirare il suo appoggio parlamentare in disaccordo sulla riforma delle pensioni, aprendo la strada al governo di Lamberto Dini, un gabinetto sostenuto dalle opposizioni di centro-sinistra e dal partito di Bossi.
Soli contro tutti, per una Padania libera e sovrana (1996-2001). Nelle successive elezioni del 1996, la Lega Nord si presentò da sola, raccogliendo il 10% e quasi 3.800.000 voti, ma fu anche il momento in cui il Carroccio ristrutturò la sua identità diventando una forza poltica etnoregionalista molto più radicale. Cominciò quindi il progetto di “Indipendenza della Padania”: la secessione dall’Italia delle regioni del Nord che sarebbero andate a formare, nella mente di Bossi, una macro-regione sovrana e autonoma; tutta la forza organizzativa e propagandistica del partito (una struttura militante ben radicata nel territorio) venne dirottata nel costruire questa nuova identità nazionale. Venne creato un simbolo, una bandiera e la Lega si dotò anche di un quotidiano (“La Padania”, appunto) e di una emittente radiofonica (“Radio Padania Libera”), dando vita anche ad un simbolico “parlamento padano” a Mantova ed organizzando periodiche kermesse sul fiume Po e a Venezia, per celebrare la lotta indipendentista “dei popoli padani”. Parallelamente la Lega Nord radicalizzò le sue posizioni ideologiche sull’immigrazione, avvicinandosi molto anche al tradizionalismo cattolico e strinse alleanze europee con analoghe formazioni liberiste e xenofobe come il FPÖ austriaco di Jorg Haider o i neonazisti fiamminghi del Vlaams Blok. Quello che era stato un partito localista di protesta fiscale con forti venature razziste, virava decisamente verso destra diventando una forza identitaria, comunitarista e xenofoba, che cominciò ad essere un interlocutore anche per il mondo neofascista italiano.
Silvio e Umberto di nuovo insieme (2001-2006). Nel 2001, dopo un rinnovato accordo con Forza Italia ed Alleanza Nazionale (più alcune formazioni cattoliche), Bossi ed i suoi tornarono nuovamente al governo con Berlusconi: il risultato elettorale fu scarso (3,4% e 1.500.000 voti), ma il Carroccio ottenne il Ministero delle Riforme, della Giustizia e del Lavoro. Durante questa seconda esperienza alla guida del Paese (2001-2006) la Lega Nord si distinse per una intransigente attività di governo che portò all’approvazione, in particolare, di una dura legge sull’immigrazione (la “Bossi-Fini”), della riorganizzazione del sistema penale (riforma Castelli) e di una mini-riforma costituzionale (la “Devolution”) che avrebbe dovuto attribuire alla regioni molti poteri dello Stato centrale e creare un Senato Federale, ma che venne bocciata dal Referendum del 2006. In generale la LN fu interna a tutta l’azione di governo del centro-destra, appoggiandone, quando non radicalizzandone, ogni iniziativa legislativa (in primis la riforma elettorale Calderoli, detta il “Porcellum”) e mantenendo un notevole potere contrattuale in materia economica (spesso in polemica con lo statalismo di Alleanza Nazionale) anche grazie al forte legame con Giulio Tremonti, il super-ministro per l’economia di Berlusconi. Dal congresso del 2002 inoltre il partito di Bossi completò la sua mutazione, adottando ufficialmente la linea della “difesa della razza padana” contro “la società multirazziale” e accogliendo tra le sua fila esponenti o tematiche appartenenti alla destra radicale, mentre l’associazionismo vicino ai “Giovani Padani” cominciò a tingersi di nero. In questa fase emerse nettamente la figura dell’eurodeputato piemontese Mario Borghezio, un ex-neofascista, leghista della prima ora, che divenne il citofono del Carroccio col mondo del radicalismo di destra. Un terreno di convergenza era rappresentato dallo stop alla immigrazione: la LN si fece interprete di una politica securitaria, propagandata in modo martellante, che dipingeva l’immigrato o il rom solo come un potenziale criminale. La Lega invitò i cittadini a controllare le strade e utilizzò il servizio d’ordine del partito (“la Guardia Nazionale Padana”) per organizzare delle ronde serali “contro il degrado”; l’incontro con i fascisti nacque, dunque, nella politica di strada più che nei cortei o nei congressi. Inoltre i numerosi amministratori leghisti in Lombardia e Veneto continuarono ossessivamente a varare regolamenti comunali discriminanti verso i migranti, i diritti dei gay e le forme di socialità giovanili, presentandosi come “sindaci sceriffo”. Nel Marzo 2004 Umberto Bossi venne ricoverato in ospedale per un ictus, ma nonostante la lunga convalescenza mantenne la leadership del partito, potendo contare su di un gruppo dirigente lombardo (soprattutto varesotto-bergamasco) coeso e a lui molto fedele, in primis i ministri Maroni, Castelli e Calderoli.
“Affezionati alla cadrega” (2006-2011). Dopo una breve parentesi all’opposizione (durante il secondo esecutivo Prodi, 2006-2008), il Carroccio ritornò al governo nel 2008 sempre in coalizione con Forza Italia ed Alleanza Nazionale (dal 2009 unitisi nel “Popolo delle Libertà”), ottenendo l’8,3% (3.020.000 preferenze) e risultati incoraggianti anche nel centro-Italia, uscendo per la prima volta dal suo tradizionale bacino elettorale territoriale. Il consenso parlamentare del nuovo Governo Berlusconi (in cui la Lega ebbe tre ministeri, tra cui l’Interno) risultò molto ampio, anche se l’azione legislativa risultò poco incisiva, se si esclude la contestatissima Riforma dell’Università (“Legge Gelmini”), molti interventi sulla Giustizia (“Lodo Alfano”, “Scudo Fiscale”) a vantaggio del Premier e alcune manovre finanziarie, composte quasi esclusivamente da tagli alla spesa pubblica. Questa avanzata nelle regioni del centro, tradizionalmente di sinistra, continuò anche nelle Europee del 2009, quando la Lega Nord ottenne il 10,2%, dopo una campagna elettorale molto polemica contro la UE specie sul tema delle migrazioni, raccogliendo l’11% in Emilia-Romagna, il 5,4% nelle Marche, il 4,3% in Toscana ed il 3,6% in Umbria. Mentre nelle Regionali del 2010 la Lega ottenne (in coalizione con il centro-destra) la Presidenza del Veneto (LN: 35,1%) per Luca Zaia e del Piemonte (LN: 16,7%) per Roberto Cota. Nel frattempo anche in Italia cominciava a farsi sentire la crisi economica ed il partito di Bossi si trovò tra due fuochi: l’ostentato ottimismo governativo di Berlusconi e Tremonti e le paure dei suoi ceti sociali di riferimento, sempre più preoccupati dalla difficile congiuntura economica; tutto questo mentre Gianfranco Fini con la scissione di Futuro e Libertà indebolì ancora di più l’esecutivo. Mentre nelle elezioni amministrative della primavera 2011 lo schieramento di centrodestra cominciò ad incassare alcune sonore sconfitte (in particolare a Milano), all’interno del Carroccio iniziò lo scontro tra Bossi, i suoi collaboratori più stretti (il “cerchio magico”) e Roberto Maroni (numero due del partito e ministro dell’Interno): in discussione c’erano appunto il futuro dell’alleanza con Berlusconi ed i rapporti di forza interni alla coalizione. Durante tutto questo per effetto delle turbolenze economiche e degli scandali, il Premier rassegnava le dimissioni, aprendo la strada al Governo tecnico di Mario Monti; la Lega Nord frastornata dalla precipitosa caduta dello storico alleato tornava all’opposizione.
Bossi addio (2011-2013). Umberto Bossi, l’onnipotente segretario del partito dal 1989, cominciò ad essere considerato troppo legato e compromesso con Berlusconi e le fronde interne acquistarono notevole forza; quando poi il leader del Carroccio venne indagato (aprile 2012) per aver sottratto indebitamente soldi alla Lega a vantaggio della sua famiglia e del “cerchio magico”, la caduta fu inevitabile. Si riaccese un atavico scontro, presente nella LN fin dalla sua formazione, tra la componente veneta (da sempre costretta in seconda fila) guidata dal governatore Zaia e dal sindaco veronese Flavio Tosi e quella lombarda (ex-bossiana) capitanata da Roberto Maroni e dall’eurodeputato milanese Matteo Salvini. Il mondo leghista si trovò in subbuglio e nelle amministrative del giugno 2012 il risultato fu scarso, anche in storiche roccaforti come Como e Monza. In un clima di emergenza, il nuovo segretario divenne Maroni che provò ad imprimere una svolta al partito, rottamando la vecchia dirigenza bossiana e tornando alla carica con lo slogan “Prima il Nord!”, rivendicando un welfare su base regionale, lo stop dell’immigrazione e una drastica riduzione delle tasse per le regioni settentrionali. Nonostante questo ritorno alle tematiche classiche della Lega Nord, la decisione fu di restare alleati di Berlusconi nelle Politiche del 2013: il Carroccio precipitò al 4% con 1.400.000 voti, dimezzando il suo consenso, pagando una forte emorragia di consensi verso il Movimento 5 Stelle; la restaurazione maroniana non era bastata. Tuttavia Maroni, strumentalmente, usò l’accordo con il centrodestra per venire candidato, sempre nel Febbraio 2013, come governatore in Lombardia, riuscendo ad essere eletto, nonostante la LN avesse perso 400.000 voti (12,9% rispetto al 26,2% del 2010) nella sua regione natale. Il Carroccio, arroccatosi come all’inizio della sua storia nel lombardo-veneto e ridotto al minimo, provò a guardare avanti organizzando per il congresso federale del Dicembre 2013 delle elezioni primarie, per motivare la base; dopo il ritiro del venetista Tosi e con Maroni e Zaia impegnati nei governi regionali, lo scontro fu tra il vecchio Umberto Bossi ed il quarantenne Salvini: quest’ultimo venne eletto segretario con l’82% dei voti. Finiva per sempre un’era. Mentre negli stessi giorni del 2014 Matteo Renzi scalava la vetta del PD e disarcionava il governo di Enrico Letta, “l’altro Matteo” (Salvini), messo da parte definitivamente Umberto Bossi, avviava spedito il suo progetto di rifondazione leghista e di conquista della leadership del centrodestra.
L’Era Salvini: il “fascioleghismo” e la “politica della Ruspa” (2014-2016). Salvini decise subito di rompere alcuni tabù storici e di invertire la rotta rispetto all’arroccamento macro-regionalista di Maroni, approfittando dell’appannamento della figura di Silvio Berlusconi e della diaspora interna a Forza Italia con l’uscita del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (Autunno 2013). La nuova Lega, per la prima volta, trovava campo libero e poteva candidarsi a guidare l’intero centrodestra, ovviamente imprimendo ad esso una svolta radicale soprattutto sui temi della crisi, dell’Euro e dell’immigrazione. Il quarantenne Salvini, in previsione delle Europee 2014, cominciò a parlare apertamente di “welfare per soli italiani” e di “uscita dall’Euro” per risollevare l’occupazione e l’intera economia del Paese, secondo lui strozzata dalle tasse, dal peso dell’Ue e, neanche a dirlo, dai costi dei programmi di accoglienza per immigrati. Tutto questo in sinergia con altri partiti europei, in primis il Front National di Marine Le Pen, l’FPÖ austriaco di Christian Strache ed il PVV olandese di Geert Wilders. Gli sforzi del neosegretario furono premiati, alle elezioni infatti la LN prese il 6,15% (1.690.000 voti), riconfermando a Strasburgo Salvini e altri cinque deputati, tra cui Mario Borghezio che, candidato a sorpresa nella circoscrizione del centro-Italia, riuscì a farsi eleggere, non nascondendo di aver ricevuto parte dei suoi voti dalla galassia neofascista, in primis Casa Pound. Salvini, ospite fisso in tutti i talkshow televisivi, passò all’attacco proponendo un referendum contro la Legge Fornero, scioperi fiscali contro le tasse, campagne xenofobe, l’eliminazione di tutti campi rom (la cosiddetta “politica della ruspa”), pieno sostegno alle forze dell’ordine ma anche il diritto all’autodifesa armata dei cittadini. In breve la notorietà del segretario del Carroccio crebbe notevolmente e vennero create liste di appoggio (“Noi con Salvini”) in tutto il centro-sud, in aggiunta ad una alleanza formale con i “Fascisti del Terzo Millennio” di Casa Pound, rappresentati dalla lista “Sovranità”. La LN rivoluzionò la sua comunicazione inondando la rete, Facebook, Twitter e Instagram di messaggi contro la politica economica di Renzi, le scelte economiche dell’UE e gli immigrati; il vecchio quotidiano “La Padania” e l’emittente “Radio Padania Libera” vennero sbrigativamente chiuse, mentre Salvini era onnipresente nelle televisioni nazionali e sui rotocalchi. Non mancarono inoltre le adunate di piazza come a Milano (Ottobre 2014), Roma (Marzo 2015) e Bologna (Ottobre 2015) a cui parteciparono in quanto alleati, con tanto di intervento dal palco, sia Fratelli d’Italia che Casa Pound. Salvini, girando in lungo ed in largo per l’Italia, ha incentrato la sua campagna su un welfare per soli italiani, la difesa dell’agricoltura nazionale, della piccola impresa manifatturiera e la militarizzazione delle periferie, continuando a dipingere ossessivamente la criminalità come un effetto dell’immigrazione. Nelle Regionali 2015 il Carroccio avanzò ancora, costruendo coalizioni oltrechè con Giorgia Meloni anche con l’indebolito Berlusconi, ottenendo trionfalmente la riconferma a Governatore del Veneto per Luca Zaia, contribuendo alla vittoria del forzista Toti in Liguria e diventando il secondo partito nella rossa Toscana (16,6%), il terzo in Umbria (14%) e nelle Marche (13%); il tutto doppiando i voti di Forza Italia. Il Carroccio marciava compatto dietro al suo leader, nonostante l’opposizione venetista di Flavio Tosi (poi cacciato dal partito) ed il freddo sostegno dei “due governatori”, Zaia e Maroni, un po’ insofferenti nei confronti di un segretario così ingombrante. Ma nonostante i brillanti risultati del nuovo corso salviniano, la base del partito ha metabolizzato a fatica questa “svolta nazionale”, non riuscendo mai ad abbandonare completamente le liturgie ed il punto di vista “padano”. Sicuramente la Lega Nord, avendo incentrato tutta la sua comunicazione politica sulla figura del dinamico e popolarissimo segretario, detiene oggi saldamente le redini della discussione pubblica su questioni chiave come la tassazione ed i flussi migratori, rappresentando una vera e propria nemesi per l’ostentato ottimismo di Matteo Renzi e del suo PD. Va detto però che, nonostante il rapporto con Berlusconi sia sempre più deteriorato (vedi le Comunali 2016 a Roma), la Lega Nord oggi risulta bloccata tra il 15% ed il 18%: un risultato che la obbliga ancora a dover convivere con Forza Italia ed a cercare nuove alleanze (in aggiunta a Fratelli d’Italia e Casa Pound) in attesa di conquistare la candidatura a Premier e poter sfidare realisticamente Matteo Renzi.
Quando tutti si leghistizzano. Muore il leghista Buonanno. E i centri sociali lo insultano. Scrive Antonio Angeli su "Il Tempo" il 5 giugno 2016. Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di...Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di Petrolini, a sedici anni si iscrisse al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante dove militò per anni, per confluire negli anni Duemila nella Lega Nord. Al coro addolorato di amici e politici sconcertati dalla morte improvvisa, si sono aggiunti attacchi e insulti via web da parte degli immancabili cialtroni. Gianluca Buonanno, europarlamentare e sindaco di Borgosesia (Novara), ha perso la vita ieri pomeriggio, in auto sulla Pedemontana a Gorla Maggiore (Varese). Il leder del Carroccio, Matteo Salvini, lo ha salutato così: «Non ho parole. Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, concreta, onesta, generosa, sempre fra la sua gente da Sindaco e parlamentare. Un pensiero ai suoi famigliari e alla gente della sua valle. Un impegno: non molleremo mai, anche per Te. Ciao Gianluca, mancherai». Cordoglio da tutti i principali esponenti leghisti a cominciare da Calderoli. Il premier Renzi ha telefonato a Salvini esprimendo il suo dolore. Politici di tutti gli schieramenti, da Giorgia Meloni a Toti di Forza Italia, ma anche dal MoVimento 5 Stelle alla presidente della Camera Boldrini hanno espresso il loro cordoglio. Buonanno cantò senza troppi complimenti la sua contrarietà a omosessuali e rom, una volta, in Parlamento, portò provocatoriamente un finocchio. Ieri, dopo la sua scomparsa il web è impazzito: un tal Marco scrive: «L’Italia è quel posto in cui dei morti se ne deve sempre parlare bene, anche se in vita sono stati degli emeriti imbecilli #Buonanno». E ancora: «Signor Bossi, è morto Buonanno! Grazie, anche a voi». Da Pirata 21: «È morto Gianluca #Buonanno della Lega. Mi dispiace era proprio una brava... vabbè mi dispiace». E molti altri che definire di cattivo gusto è un complimento: «Lega Nord: è morto #Buonanno in un incidente stradale. Molti di voi lo ricorderanno per avergli augurato un incidente stradale». «È morto #Buonanno, in cielo uno appena arrivato voleva uno sparring partner». «Ad Alì serviva un sacco da boxe che gli ispirasse violenza... e così #Buonanno». «È morto #Buonanno. Il proprietario dell’altra auto ora invoca la legittima difesa». Da Luca Maccioni: «Tutti felici per la morte di #Buonanno. Che ci crediate o no, ne è felice pure la famiglia che ora si becca un bel vitalizio». Una doppia imbecillità: nel 2011 Buonanno ha formalmente rinunciato al vitalizio.
Morto Gianluca Buonanno: la festa della vergogna dei "cretini" di Twitter. Diversi utenti su Twitter dopo la notizia della morte hanno "festeggiato" a colpi di tweet ignobili: il rispetto non c'è nemmeno davanti alla morte, scrive Claudio Torre, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale". Una morte improvvisa. Gianluca Buonanno è morto in un incidente stradale tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Due auto si sono scontrate, forse complice anche il maltempo: uno scontro terribile che ha causato la morte di Buonanno, deceduto praticamente sul colpo nonostante i tentativi di soccorso da parte dell’équipe dell’automedica del 118. Subito dopo la notizia della morte il mondo politico si è stretto alla famiglia e soprattutto alla moglie che anche lei a bordo dell'auto e attualmente ricoverata con ferite ha visto il marito che li moriva accanto. Un dramma che ga colpito la Lega Nord e tutto il mondo politico. Ma sui social network chi non condivideva le idee di Buonanno si lascia andare ad uno sciacalaggio vergognoso. Soprattutto diversi twittaroli hanno fatto "festa" subito dopo la notizia. Gli insulti non si fermano nemmeno davanti alla morte. "Per cosa verrà ricordato un uomo di merda come Buonanno?", scrive un utente su Twitter. Qualcuno aggiunge: "R.i.p. Buonanno" aggiungendo alla scritta anche una foto con i botti d'artificio. A questo si aggiunge la creazione dell'hashtag "buonanno" in senso di festa usando il cognome del povero europarlamentare della Lega Nord. C'è chi prova a dire che "non si fa festa su chi muore", ma qualcuno che appartiene a quella parte feroce popolo di Twitter risponde così: "Quindi bisognerebbe portare rispetto a #buonanno?ma rispetto de che?". E ancora: "Muore un razzista, ignorante e ignobile "uomo". Di che dispiacersi?". Ma la realtà della bassezza e della pochezza di alcuni commenti è riassunta in questo tweet che critica aspramente questa festa ignobile a colpi di cinguettii: "Le reazioni alla morte di #buonanno dimostrano che la madre degli imbecilli non fa in tempo ad essere incinta ma sforna pargoli dopo pargoli".
Il Tg1 ignora Buonanno: morte cancellata dai titoli. Nell'apertura del Tg1 non è stato dedicato nemmeno un titolo alla morte dell'europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, scrive Giuseppe De Lorenzo, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale". Nessun titolo per la morte di Gianluca Buonanno. Il Tg1 ha ignorato la tragica scomparsa dell'europarlamentare leghista. C'è tutto, nei lanci del telegiornale della prima rete Rai. Ci sono le affluenze al voto, la tragedia degli immigrati nel mare della Libia, l'offensiva contro l'Isis in Iraq, la musica, il reddito di cittadinanza, il motomondiale e anche la morte di Muhammad Alì. Ma non Buonanno. Eppure la notizia della morte del sindaco della Lega Nord è stata battuta dalle agenzie di stampa alle 18.43. E i quotidiani locali avevano dato l'annuncio ancora prima. Come è possibile che nella redazione del telegiornale di Rai1 non abbiano trovato il tempo di confezionare, se non un servizio, almeno un titolo di due righe sulla tragica scomparsa dell'esponente del Carroccio? Che per quanto possa essere "poco apprezzato", ha comunque un certo peso politico. La mancanza del Tg1 non è passata inosservata alla rete. Che appena finiti i titoli del telegiornale hanno iniziato a bombardare il profilo Twitter del Tg1. "Che scandalo - scrive Serenella - è morto l'europarlamentare della Lega, di incidente stradale e il tg1 non dice niente". "Mentana sempre avanti - ribatte Luca - Buonanno subito dopo le elezioni. Il tg1 manco considerato nei titoli, in compenso ancora Muhammad Alì". Di tweet in tweet, l'indignazione corre sul web. "È vergognoso che il tg1 non parli della morte del leghista", aggiunge Antonio. Alcuni avanzano anche l'accusa di pilotaggio da parte del governo, che avrebbe "imposto al tg1 di coprire la notizia su Buonanno per non dare spazio alla Lega". Complice anche il maltempo, il leghista ha perso il controllo dell'auto e ha colpito un'auto sulla Pedemontana, tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Il leghista è morto sul colpo. Ferita anche la moglie dell'europarlamentare, poi trasportata all'ospedale di Busto Arsizio. Le sue condizioni sono gravi. Nell'incidente sono state ferite anche altre tre persone.
"L'ultima provocazione di Buonanno": il commovente ricordo di chi lo conosceva bene, scrive di Matteo Pandini il 6 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Pensavamo non potesse lasciarci senza parole, Gianluca Buonanno da Borgosesia, sindaco ed europarlamentare della Lega, famoso per provocazioni e battutacce ma amatissimo nella sua Valsesia, Vercelli, e non solo. Eppure, ieri, ci ha spiazzato. Nel tardo pomeriggio. Quando è morto a 50 anni in un incidente stradale sulla Pedemontana lombarda all’altezza di Gorla Maggiore, Varese. È andato a sbattere contro un’auto, ferma per un guasto. Lascia due figli piccoli. La moglie, che era con lui, è ricoverata in ospedale a Busto Arsizio in codice rosso. Altre tre persone sono rimaste ferite. Di solito, sentivi il nome Buonanno e immaginavi subito qualche sceneggiata, una dichiarazione scorretta, uno dei tanti show che l’avevano fatto diventare un personaggio. Sapeva indignare, a turno, tutto l’arco costituzionale. Ma dietro le quinte, anche molti dei suoi critici lo trovavano simpatico. A Roma, Laura Boldrini aveva cercato inutilmente di contenerlo. A Bruxelles, Martin Schulz aveva intimato al personale di marcarlo stretto dopo che aveva indossato una maschera di Angela Merkel e aveva esibito rotoli di carta igienica. Per dribblare i divieti, il leghista si era presentato vestito e truccato da Hitler, con tanto di capelli impomatati e baffetti: era il suo modo di provocare i fan della Cancelliera. «Mica possono obbligarmi a non pettinarmi…» ridacchiò. Schulz decise di multarlo. Poi varò una norma, ribattezzata anti-Buonanno, per impedire cartelli e magliette in Aula. Insuperabile - Perfino nel Carroccio molti non reggevano le sue trovate. Anche perché riusciva ad alzare sempre l’asticella. Alla Camera, portò un enorme forcone (finto) per pungolare la maggioranza. Cosa poteva fare di più? Be’, utilizzò le bolle di sapone soffiandole nell’emiciclo. Eccolo con le manette, sventolate per criticare lo svuota-carceri. Una volta, spuntò improvvisamente davanti allo scranno della presidente Boldrini. Cacciando un urlo. Lei trasalì. Lui rise di gusto. Quindi si superò sventolando un pesce, per l’esattezza una spigola, che la terza carica gli fece sequestrare dai commessi. «Dove è finita la mia spigola?» domandò il giorno dopo. Si era perfino dipinto la faccia di nero, per denunciare il governo «che discrimina gli italiani». Davanti alle telecamere, Buonanno realizzò un video in cui si spogliava, boxer esclusi: «Renzi ci lascia in mutande!» urlava dandosi manate sulle chiappe. Poi, in un’intervista su Sky, mostrò una pistola per parlare di legittima difesa. Matteo Salvini, in privato, gli chiese di smorzare i toni. Lui rilanciò: bonus di 200 euro per chi vuole una rivoltella per difendersi. La carriera politica da amministratore ruspante, Buonanno la comincia nella destra. Figlio di padre artigiano e nonno pugliese che faceva l’attore girovago (era spalla di Ettore Petrolini), l’effervescente Gianluca prende la tessera dell’Msi a 16 anni, per poi passare ad An che rappresenta anche nel consiglio provinciale di Vercelli. Fa il sindaco di Serravalle Sesia per due mandati, al timone di una lista civica, e quando scatta l’ineleggibilità scende in campo alle Politiche del 2001 con una formazione che porta il suo nome. Incassa più del 22%. Un successone. Poco dopo, passa alla Lega. Nel 2002 viene eletto sindaco di Varallo. Un drago: riconfermato nel 2007. La fama - Si guadagna la ribalta nazionale: decide di battezzare alcune rotonde e strade a personaggi famosi ancora in vita e trasmissioni tv, ma soprattutto piazza delle sagome di cartone con la divisa da vigile (e la sua foto al posto della faccia) sul ciglio della strada. Obiettivo: far rallentare le macchine, senza tartassarle con gli autovelox. All’imbocco della sua Valsesia, fa piazzare cartelli con scritte anche in arabo per vietare veli e burqa vari, oltre ai vu cumprà. Quindi annuncia di voler distribuire profilattici agli extracomunitari, per aiutarli a «non fare figli che poi non riescono a mantenere». Promette premi ai concittadini sovrappeso che dimagriscono, pensa di regalare galline ai residenti in difficoltà, ipotizza di recintare con filo spinato il suo Comune, sostiene che il grana padano «è la prova che la Padania esiste». Per incrementare la produttività dei dipendenti del municipio, fa spostare la macchinetta del caffè dal corridoio al suo ufficio. Tra il 2008 e il 2014 fa il deputato. Record di presenze. Nel 2010 diventa consigliere in Piemonte. Nel 2014, eccolo sindaco di Borgosesia. Uno dei suoi fiori all’occhiello è il festival dell’Alpàa di Varallo: grazie ad alcuni sponsor, richiama artisti di fama per concerti gratuiti. In piazza. Nell’elenco di chi fa capolino nella sua roccaforte, negli anni, spuntano pure Fedez e J-Ax. Buonanno punta Bruxelles nel 2014: becca quasi 27mila voti, tra i leghisti fa meglio solo Salvini. A Bruxelles non cambia registro. Esempi. Per «dare la sveglia» suona la tromba alla fine di un intervento in Aula. Poi, si presenta in divisa militare. E col burqa. Diventa un protagonista di alcune trasmissioni, a partire dalla Zanzara di Radio 24. Ne dice di cotte e di crude. Il conduttore, Giuseppe Cruciani, sghignazza. L’altro giornalista, David Parenzo, impersonificazione del politicamente corretto, s’indigna. Memorabili corpo a corpo. Parenzo: «Vai al circo!!». Buonanno: «Pidocchio!! Comunista!!». Pure sui gay, Buonanno non si tira indietro. A un dibattito mostra un finocchio. E quando un omosessuale lo incrocia e gli dice di smetterla, lui va a Radio 24 per cospargersi il capo di cenere: «Scusami, non lo faccio più-più-più» detta con vocina esageratamente effemminata (sì, certo, voleva sfottere). Propone chip per controllare i profughi, suggerisce di espropriarli dei cellulari, dopo gli attentati a Bruxelles acquista paginate di giornali belgi per arrivare a Molenbeek: «Lotterò per difendere i valori cristiani». Quando scoppiano le bombe nell’aeroporto di Zaventem, lui le schiva per un improvviso impegno in Municipio. Spiega l’episodio a Canale 5 e si commuove. Proprio in tv, su La7, attacca i rom e li definisce «feccia della società». Buonanno ha dato dei piangina ai napoletani e accusato Garibaldi «di aver unito l’Italia ma diviso l’Africa». Ha fatto inferocire chiunque. Da Gad Lerner, a cui ha dato del tirchio, fino alla comunità ebraica per non parlare di Cécile Kyenge e Sel, il partito di Vendola ribattezzato «Sodomia e libertà». Ha accusato gli islamici di essere «bestie» per le morti durante il pellegrinaggio alla Mecca: «Dai, non si può morire così». In piazza, godeva nell’andare in bocca ai contestatori. L’aveva fatto anche a Bologna, pochi mesi fa, beccandosi gli urlacci di qualche leghista. Ieri, sui social, è esondata la fogna di chi festeggia per la sua morte. Ma da Renzi a Fi fino al Pd, al M5S e ad Alfano, sono piovute le condoglianze. Anche della Boldrini, della Kyenge, di Fassina, di Schulz, della Le Pen, della Meloni, di Maroni e Zaia. Un elenco sterminato. Scioccato Salvini: «Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, onesta». Addolorati, tra gli altri, Barbara d’Urso e Parenzo. Disperato Cota, che da leader della Lega piemontese l’aveva lanciato. Buonanno chiamava spesso Libero: «Hai visto cos’ho fatto?». E ridacchiava. Gianluca, non avremmo mai pensato di avere tue notizie e restare senza parole. Ci sbagliavamo.
Tarallucci e Toghe". Il Csm sentenzia che alla Procura di Milano (dove il plenum ha appena nominato nuovo capo l' altro ex vice di Bruti Liberati, Francesco Greco) l'ex procuratore aggiunto Alfredo Robledo non può più fare il pm, però a Torino può di nuovo fare il pm e persino tornare a fare il vicecapo della Procura: è il singolare esito del giudizio disciplinare a carico di Robledo non per lo scontro di lavoro con Bruti, ma per i contestati rapporti con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello, nelle intercettazioni 2012 di Reggio Calabria su Aiello, scrive di Luigi Ferrarella l’1 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un anno e mezzo fa in via cautelare d' urgenza gli stessi 5 giudici Csm di ieri avevano tolto le funzioni di pm a Robledo e l'avevano trasferito come giudice di Tribunale a Torino. Dove invece ora decidono che vada sì punito (oltre che con la perdita di 6 mesi di anzianità) con il trasferimento stabile, ma come procuratore aggiunto: quasi che nel 2015 il procedimento disciplinare fosse davvero stato impropriamente usato per risolvere (spostandolo da Milano) quel contrasto con Bruti che il Csm non ha mai voluto risolvere alla radice del nodo della gerarchizzazione delle Procure. In attesa delle motivazioni del relatore Luca Palamara, dal dispositivo (contro il quale il difensore di Robledo, Antonio Patrono, ricorrerà in Cassazione) si comprende che il Csm, dopo aver assolto Robledo da 2 delle 4 imputazioni (aver dato ad Aiello copia di una consulenza segreta, ed essere stato scorretto con suoi pm), lo ha condannato per i 2 capi d'accusa sulla «contiguità» con l'avvocato dei leghisti indagati per truffa dei rimborsi in Regione. Un «rapporto privilegiato improntato allo scambio di favori», nel quale il Csm (da intercettazioni di Aiello con altre persone) contestava a Robledo di aver «indebitamente veicolato informazioni coperte da segreto», quali la futura messa sotto indagine pre-elezioni anche di altri partiti, l'esistenza di gravi intercettazioni contro il Pdl e di una gola profonda contro la Lega: tutto in cambio dell'«interesse personale del pm ad acquisire tramite l'avvocato copia di atti di natura riservata e non ostensibili a terzi», circa l'immunità che l'ex sindaco Gabriele Albertini chiedeva al Parlamento europeo in una causa fatta da Robledo. Patto salutato il 29 gennaio 2013 da due dei pochi sms tra il legale («Uomo di parola! Poi grande magistrato») e il pm («Caro avvocato, promissio boni viri est obligatio»). Nelle udienze Csm (sul sito di Radio Radicale) è però riemerso che nell' indagine di Robledo non esistevano né intercettazioni, né gole profonde; che molti legali di altri indagati a metà dicembre 2012 avevano avuto da Robledo le stesse assicurazioni date ad Aiello, e cioè parità di trattamento tempistico senza distinzione di partiti per evitare turbolenze sotto elezioni; e che Robledo ebbe da Aiello un pubblico ordine del giorno della commissione giuridica dell' Europarlamento, e lo stesso atto che Albertini aveva già notificato a Robledo nella causa civile al Tribunale di Brescia.
Robledo incompatibile a Torino. Lo scivolone del Csm nel verdetto. La sezione disciplinare lo nomina pm nella città dove era giudice. Ma la legge non lo consente, c’è incompatibilità tra le due funzioni, scrive Luigi Ferrarella il 6 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato che stia esercitando le funzioni di giudice in un tribunale può passare a esercitare le funzioni di pm nella Procura della medesima sede? Certo che no: per le norme sull’ordinamento giudiziario ormai da molti anni non è piu possibile, c’è incompatibilità tra le due funzioni, nella stessa sede il giudice non può diventare pm, e viceversa. Eppure è l’errore commesso proprio dal Consiglio superiore della magistratura (Csm) una settimana fa quando, decidendo nel processo disciplinare di merito di condannare alla perdita di 6 mesi di anzianità l’ex procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo per i suoi contestati rapporti con l’avvocato della Lega Domenico Aiello, ne ha disposto il trasferimento alla Procura di Torino con le stesse funzioni di vicecapo dei pm: dimenticando che il futuro pm torinese Robledo già da un anno sta esercitando proprio nel tribunale di Torino le funzioni di giudice alle quali nel febbraio 2015 il Csm lo aveva obbligato allorché lo aveva rimosso d’urgenza da Milano nella fase cautelare dell’azione disciplinare. Trasferimento che di fatto aveva risolto lo scontro con il procuratore Bruti Liberati, di cui Robledo nel 2014 aveva denunciato al Csm l’asserita violazione dei criteri di lavoro della Procura. Poiché non si è mai creata una situazione analoga, è difficile prevederne le conseguenze o le toppe che il Csm potrà mettervi. Tanto più che le motivazioni di questo errato dispositivo di sentenza — ormai votato martedì scorso dalla camera di consiglio (dopo oltre 3 ore) e letto in udienza — devono ancora essere scritte dai giudici disciplinari Leone-San Giorgio-Palamara-Clivio-Pontecorvo: gli stessi che nel 2015 nel giudizio cautelare avevano già trasferito d’urgenza Robledo da Milano e che, richiesti perciò dal difensore Antonio Patrono di astenersi per opportunità nella causa di merito, hanno invece ritenuto di restare in forza della giurisprudenza sulla specificità della giustizia disciplinare. Al netto di tesi e antitesi sulle 4 imputazioni (due concluse con assoluzione, due sfociate in condanna su presupposti di fatto che la difesa lamenta travisati), il pasticcio finale nel verdetto è l’ultima peculiarità di un procedimento disciplinare già singolare per come ad esempio era maturata nella prima udienza in aprile l’audizione dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini. I procuratori generali di Cassazione, Gaeta e Viola, avevano infatti chiesto al collegio di acquisire una lettera inviata da Albertini dopo che questi (i pg ipotizzavano in qualità di «parte offesa» dalle condotte disciplinari contestate a Robledo) era stato ammesso dal presidente Csm Giovanni Legnini ad accedere agli atti. I giudici disciplinari, sorpresi, avevano ordinato l’espunzione della lettera dagli atti del disciplinare, escludendo che Albertini potesse esserne ritenuto «parte offesa»: a posteriori si è peraltro saputo che Legnini aveva autorizzato l’accesso di Albertini agli atti non come «parte offesa» nel giudizio disciplinare su Robledo, ma come parte «interessata» in cause bresciane penali e civili con Robledo (anche se ad esempio proprio il gip di Brescia aveva risposto no all’analoga richiesta di Albertini di accesso alle intercettazioni dell’archiviazione penale di Robledo). I pg avevano allora proposto al Csm l’audizione di Albertini; la difesa aveva obiettato che Albertini non era inserito nella lista testi dell’accusa, i cui tempi erano scaduti da tempo; ma i giudici disciplinari si erano richiamati ai propri poteri di convocare chiunque ritenessero utile per l’istruttoria. E così Albertini, uscito dalla porta come lettera, era rientrato dalla finestra come audizione al Csm: non esattamente neutra, posto che di Albertini la Procura di Brescia mesi fa aveva chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio (il processo finirà dopo l’estate) con l’accusa di aver in precedenza calunniato proprio Robledo.
La scopa di Maroni s’è rotta: l’abbuffata di Lega ladrona, scrive Gianni Barbacetto su "Il Fatto Quotidiano". Slogan Il leader del Carroccio Salvini parla di attacco dei giudici. Ma la storia del partito è piena di ruberie, inchieste e processi. Quiz: chi ha detto “La sanità lombarda è eccellenza, quello dei giudici è un attacco politico”? E ancora: “L’intervento dei giudici è un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia”? No, non è Roberto Formigoni. La prima frase è del suo successore al vertice della Regione Lombardia, Roberto Maroni. La seconda è del leader della Lega, Matteo Salvini. Nervi tesi nel Carroccio, dopo gli arresti di Mario Mantovani e soci per l’inchiesta del pm Giovanni Polizzi che ha tra gli indagati anche Massimo Garavaglia, leghista doc e assessore regionale all’economia. Maroni si è preso il partito di Umberto Bossi esibendo nei comizi le scope che dovevano fare pulizia nella Lega. Ma oggi deve ricominciare tutto da capo. Garavaglia è accusato di aver affiancato Mantovani nel far azzerare la gara da 11 milioni per il trasporto dializzati: i due si erano “attivati”, scrive il giudice, per “favorire e compiacere le realtà associative operanti nei territori dai quali entrambi i politici attingono consensi”. Così tornano in scena i fantasmi (o i sorci?) verdi del passato. Il primo è quell’Alessandro Patelli che Bossi definì “il pirla”, nel 1993, per aver intascato in nero, per il partito, 200 milioni di lire donati dalla famiglia Ferruzzi: briciole del tangentone Enimont spartito tra tutti i partiti italiani. Vent’anni dopo, un altro tesoriere della Lega, Francesco Belsito,è arrestato per truffa, appropriazione indebita e riciclaggio. Aveva aperto conti a Cipro e fatto fantasiosi investimenti in diamanti in Tanzania. Non un bel vedere, per il popolo leghista che si era unito al grido di “Roma ladrona”. Anche perché quei soldini finivano a finanziare vizi e vizietti della famiglia Bossi, a pagare una laurea (in Albania) per il Trota, a finanziare la scuola (Bosina) della moglie. Un trauma. Bossi si dimette. Negli stessi mesi era scoppiato lo scandalo delle spese allegre dei consiglieri regionali. E se ne erano viste delle belle. Renzo Bossi detto “il Trota” con i fondi regionali (ben 15 mila euro) aveva comprato videogiochi, sigarette, lattine di Red Bull, gomme da masticare, mojito, campari, negroni, patatine, barrette ipocaloriche, sigarette, un i-Phone. Stefano Galli, capo gruppo della Lega in Lombardia, aveva chiesto 62 mila euro di rimborsi, tra cui 6.180 per il pranzo di nozze (103 coperti) della figlia Verdiana, festeggiata il 16 giugno 2010 al Ristorante Toscano di Robbiate, sulle rive dell’Adda. Alessandro Marelli a spese del gruppo del Carroccio frequentava pizzerie napoletane (O Vesuvio, Il golfo di Napoli…), ma si faceva rimborsare anche le spese in macelleria, i fuochi d’artificio di Capodanno e qualche distrazione: drink a ore piccolissime in locali notturni come il Colibrì, lo Cherry Dance, il Pub the Party. E che dire di Roberto Cota, governatore del Piemonte? Decade a causa delle firme false raccolte da una lista che lo appoggiava. Ma inciampa nelle mutande verdi: nell’ottobre 2014 va a processo per peculato, per le aver speso malissimo soldi pubblici. Ha già dovuto restituire 32 mila euro. E il suo ex assessore Massimo Giordano proprio ieri è stato rinviato a giudizio per corruzione e concussione, per via di scambi di favori con imprenditori, quand’era sindaco a Novara e poi assessore regionale allo sviluppo. Belsito era estroso, ma in genere i leghisti con gli investimenti non ci azzeccano. Ci avevano provato con un villaggio turistico in Croazia, 2.300 appartamenti, un valore di 2 miliardi di lire. Un disastro. Bancarotta, con conseguente condanna per l’ex deputato Enrico Cavaliere. Coinvolto nella vicenda anche il tesoriere della Lega–un altro – quel Maurizio Balocchi che poi nel 2010 muore ed esce di scena. Ma lo shock finanziario più drammatico si chiama Credieuronord: era la banca della Lega, ma è durata poco. Un crac completo, con centinaia di militanti leghisti che in assemblea piangono i loro risparmi, affidati ai banchieri per caso con il fazzoletto verde e persi per sempre. Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 15/10/2015.
Tribunale Milano: «Dopo la malattia, Bossi e i suoi mantenuti dalla Lega». Le spese per l’affitto, per il canone della tv a pagamento, per il veterinario, e pure le rate dell’università: coi soldi del Carroccio, che arrivavano dai rimborsi elettorali, ci viveva tutta la famiglia Bossi. Lo rivelano le motivazioni della sentenza, scrive Valentina Santarpia il 6 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Non solo Bossi, ma anche sua moglie e i suoi figli, venivano mantenuti dalla Lega dopo l’ictus del fondatore, che lo aveva reso parzialmente inabile. È quanto emerge dalle intercettazioni tra l’ex tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito e l’ex segretaria di via Bellerio Nadia Dagrada, riportate nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 14 marzo, il giudice dell’ottava sezione penale di Milano, Vincenzina Greco, ha condannato con rito abbreviato Riccardo Bossi, primogenito del Senatur, a un anno e otto mesi per appropriazione indebita aggravata. Il processo - il primo arrivato a sentenza dopo lo scoppio dello scandalo sui fondi del partito, emerso nel 2012 - vedeva al centro le presunte spese personali con i soldi nelle casse del Carroccio e, in particolare, con i contributi pubblici derivanti dai rimborsi elettorali. Per il giudice «l’impianto probatorio» a carico di Riccardo Bossi, imputato per spese con i fondi della Lega per circa 158mila euro, «è ponderoso e granitico». E tra gli elementi che hanno portato alla condanna del figlio dell’ex segretario del Carroccio, il magistrato in una quarantina di pagine di motivazioni richiama proprio le intercettazioni tra Belsito e Dagrada, finite agli atti dell’inchiesta milanese coordinata all’epoca dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Paolo Filippini e Roberto Pellicano. «L’impressione è che con questa sentenza si sia voluto coinvolgere, a tavolino, il figlio nel reato al massimo commesso dal padre. Il padre - ha chiarito il legale - autorizzò un suo collaboratore a dare quei soldi al figlio, figlio che non sapeva nulla del fatto che quei soldi derivassero, secondo l’ipotesi d’accusa, da finanziamento pubblico», replica il legale di Riccardo Bossi, l’avvocato Francesco Maiello. Il giudice, condannando Riccardo Bossi a un anno e 8 mesi, con la sospensione condizionale della pena e il riconoscimento delle attenuanti generiche, è andato oltre la richiesta di 1 anno del pm Filippini. Il figlio di Umberto Bossi era imputato per una serie di spese con soldi pubblici che avrebbe usato, tra il 2009 e il 2011, per pagare «debiti personali», «noleggi auto», le rate dell’università dell’Insubria, l’affitto di casa, il «mantenimento dell’ex moglie», l’abbonamento alla pay-tv, «luce e gas» e anche il «veterinario per il cane». Per il giudice, tra l’altro, Riccardo Bossi nel suo interrogatorio in aula «è incorso in una palese contraddizione»: dopo «aver sostenuto la sua convinzione che le elargizioni di denaro provenissero dai conti correnti del padre» ha «di fatto, ammesso (...) la sua piena consapevolezza che le somme di cui beneficiava erano prelevate dalle casse del Movimento, sostenendo che compensava tali esborsi non percependo gli emolumenti ai quali aveva diritto». Non solo: nelle motivazioni, il magistrato richiama alcune dichiarazioni di Belsito, il quale ha raccontato a verbale che il precedente tesoriere «Balocchi e Umberto Bossi stabilirono di dare all’imputato un vitalizio di circa tremila euro, sotto forma di rimborso spese in relazione a un contratto che non è stato registrato». E sempre Belsito «ha precisato che decine di persone percepivano compensi dalla Lega in conformità a tipologie di contratti di tal fatta, pur non rivestendo alcun ruolo e non svolgendo alcuna prestazione». Nessuna «attività concreta in favore della Lega faceva Riccardo Bossi - scrive il giudice - come tanti altri familiari di Umberto, ai quali Belsito era tenuto a versare un rimborso forfettario delle spese». Belsito, spiega ancora il giudice, «intendeva utilizzare» la ormai famosa cartella chiamata The Family «come arma di ricatto con Umberto Bossi per scongiurare la sue destituzione» da tesoriere. Belsito, Umberto Bossi e l’altro figlio Renzo, detto il Trota, sono anche loro imputati per appropriazione indebita ma con rito ordinario e il processo è ancora in corso a Milano. La parte principale dell’inchiesta che nel 2012 ha travolto il Senatur e la sua famiglia è stata trasferita, invece, tempo fa a Genova dove è in corso il processo per la presunta truffa ai danni dello Stato sui rimborsi elettorali che vede imputati di nuovo Umberto Bossi, Belsito e tre ex revisori del partito.
Milano, fondi Lega: «Bossi prese i soldi e fu addirittura istigatore». Le motivazioni del Tribunale di Milano per la condanna dell’ex leader del Carroccio a 2 anni e 3 mesi. «Appropriazione di denaro per coprire spese di esclusivo interesse personale e della famiglia», scrive il 5 gennaio 2018 "Il Corriere della Sera". Umberto Bossi è stato «consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro» della Lega, ma proveniente «dalle casse dello Stato», «per coprire spese di esclusivo interesse personale» suo e della sua «famiglia». Condotte portate avanti «nell’ambito di un movimento» cresciuto «raccogliendo consensi» come opposizione «al malcostume dei partiti tradizionali». Lo scrive il Tribunale di Milano nelle motivazioni della condanna a 2 anni e 3 mesi per l’ex leader del Carroccio. Lo scorso 10 luglio, il giudice dell’ottava sezione penale Maria Luisa Balzarotti ha condannato il Senatur, ma anche il figlio Renzo Bossi a un anno e mezzo (l’altro figlio Riccardo era già stato condannato in abbreviato), tutti accusati di aver usato fondi del partito a fini personali, assieme all’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, a cui sono stati inflitti 2 anni e 6 mesi. Nelle motivazioni, da poco depositate, della sentenza sul cosiddetto caso `The Family´ (dal nome della cartelletta trovata nella disponibilità di Belsito) il giudice spiega che «non si può ignorare il disvalore delle condotte» contestate ai tre imputati «poste in essere con riferimento alle elargizioni provenienti dalle casse dello Stato», tanto che il fondatore della Lega è stato anche già condannato a 2 anni e 2 mesi a Genova, sempre assieme all’ex tesoriere (4 anni e dieci mesi), nel processo `parallelo´ sulla presunta maxi truffa al Parlamento sui rimborsi elettorali. Il giudice, inoltre, evidenzia il «disvalore» delle condotte perché portate avanti «nell’ambito di un movimento nato, ormai decenni orsono, e successivamente cresciuto raccogliendo consensi da chi vedeva in esso un soggetto politico in forte opposizione al malcostume dei partiti tradizionali». Stando alle indagini dell’allora procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Paolo Filippini e Roberto Pellicano, tra il 2009 e il 2011, Belsito si sarebbe appropriato di circa 2,4 milioni di euro e l’ex leader del Carroccio avrebbe speso con i fondi del partito oltre 208mila euro. Mentre a Renzo Bossi erano stati addebitati più di 145mila euro, tra cui migliaia di euro in multe, 48mila euro per comprare un’auto e 77mila euro per l’ormai famosa «laurea albanese». Il giudice parla di «completezza e coerenza» delle prove raccolte di fronte alle quali «ben poca strada riesce a fare la tesi difensiva» di «un Umberto Bossi dedito in maniera esclusiva e totalizzante alle questioni politiche e, per converso, per nulla interessato alle vicende economiche della Lega». In ballo c’era, infatti, la «erogazione di fondi nell’interesse dei più stretti congiunti» del Senatur, «erogazione autorizzata dal segretario federale e risalente alla gestione del precedente tesoriere» Maurizio Balocchi. Ciò di cui «Umberto Bossi non si rendeva conto, secondo i discorsi tra Belsito, Dagrada e Cantamessa (ex segretarie del leader, ndr) era solamente l’ammontare di tali spese».
Le motivazioni della condanna: "Bossi consapevole di appropriazione di denaro pubblico". I giudici che hanno condannato il senatur a due anni e tre mesi sostengono che il fondatore della Lega fosse al corrente dell'uso da parte della sua famiglia di denaro preso dalle casse del partito. Renzo e Riccardo Bossi, i figli, sono stati condannati a pene minori, scrive Franco Vanni il 05 gennaio 2018 su "La Repubblica". Il fondatore della Lega, Umberto Bossi, è stato "consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro" del partito, ma proveniente "dalle casse dello Stato", "per coprire spese di esclusivo interesse personale" suo e della sua "famiglia". Condotte portate avanti "nell'ambito di un movimento" cresciuto "raccogliendo consensi" come opposizione "al malcostume dei partiti tradizionali". Lo scrive il Tribunale di Milano nelle motivazioni della condanna a 2 anni e 3 mesi per l'ex leader del Carroccio, decisa lo scorso 10 luglio dai giudici dell'Ottava sezione penale. Con Umberto Bossi furono condannati il figlio Renzo, a un anno e sei mesi, e l'ex tesoriere del partito, Francesco Belsito, a 2 anni e 6 mesi. Per tutti, il reato è appropriazione indebita. I giudici hanno ritenuto che i tre (insieme a Riccardo Bossi, altro figlio di Uberto, giudicato separatamente con rito abbreviato) abbiano speso per fini privati i fondi destinati al partito. La decisione del giudice Maria Luisa Balzarotti è arrivata al termine del processo denominato "The Family", così ribattezzato per il nome scritto sulla cartella di documenti sequestrata allora a Belsito in cui comparivano quelle che sono state giudicate spese private della famiglia Bossi pagate però con i soldi del Carroccio arrivati anche dai rimborsi elettorali. La tesi della procura è che per Bossi "sostenere i costi della sua famiglia" con il patrimonio della Lega è stato "un modo di agire consolidato e concordato". Nelle carte della motivazione si elencano le spese private sostenute dagli imputati per centinaia di migliaia di euro: multe, cartelle esattoriali, cene al ristorante, trattamenti di bellezza, casse di vino.
Milano, processo 'The Family': Riccardo Bossi si difende. "Io chiedevo i soldi a papà". In aula ha sostenuto di non aver mai saputo che "pagava la Lega". L'avvocato: "Riceveva 3.200 euro al mese per sponsorizzare il Carroccio all'estero durante i rally", scrive il 14 dicembre 2015 "La Repubblica". "A mia insaputa pagava la Lega". E' in sintesi quello che avrebbe sostenuto, rispondendo alle domande del pm Paolo Filippini, Riccardo Bossi il figlio del fondatore del Carroccio, interrogato al processo in abbreviato (e quindi a porte chiuse) in cui figura come unico imputato per appropriazione indebita per le presunte spese personali con i fondi del partito. "Come tutti i figli chiedevo a papà - è la sua spiegazione - e papà mi diceva di parlare con i suoi segretari. Poi mi arrivavano i soldi". Quanto all'emolumento mensile di 3.200 euro ricevuto dal partito, il primogenito del Senatur, che all'epoca dei fatti aveva più di 30 anni, ha detto di aver "perso" il contratto e di essere stato pagato in contanti. Ha poi riconosciuto di aver ricevuto soldi non solo nel 2011, ma anche nel 2010 e 2009. Il difensore di Bossi jr, che depositerà al Tribunale una memoria, ha spiegato che il suo cliente, "non ha mai chiesto i soldi all'ex tesoriere" del Carroccio, Francesco Belsito, ma ad altri collaboratori del padre al quale "non si rivolgeva direttamente perchè con lui aveva rapporti difficili o era sempre impegnato". Soldi, ha ripetuto l'avvocato, "di cui non sapeva la provenienza". "Lui non c'entra con il partito" dal quale però, ha proseguito l'avvocato, "riceveva un emolumento di 3.200 euro al mese per sponsorizzare la Lega all'estero durante le gare automobilistiche". Al primogenito dell'ex leader della Lega sono state contestate spese personali attorno ai 158mila euro, denaro usato - sostiene l'accusa - per pagare anche 'il mantenimento dell'ex moglie', l'abbonamento della pay-tv, luce e gas e anche il veterinario per il cane. L'avvocato Maiello ha spiegato al pm Paolo Filippini che il suo cliente "non può rispondere di queste somme" e poi che "ci sono addebiti per 20/25 mila euro relativi alle macchine che proprio non lo riguardano". E per dimostrare questa tesi, l'imputato ha depositato una serie di documenti che "riguardano le sue fonti di reddito". Precisa l'avvocato: "Il mio assistito è indipendente da quando ha 22 anni: per una sola vola nella sua vita, nel 2011, ha avuto bisogno del padre, per il resto se l'è sempre cavata da solo". "Per quell'anno non aveva disponibilità finanziarie - spiega l'avvocato Maiello - in quanto è venuta meno una sponsorizzazione consistente. Così ha pensato di rivolgersi alla segretaria del padre, Loredana Pizzi", la cui richiesta di citazione come teste della difesa "non è stata accolta dal giudice". Belsito "l'avrà visto sì e no una decina di volte - ha aggiunto il difensore - e non conosceva gli addetti ai lavori della Lega. Lui era un semplice militante e nulla di più", anche se "ha ricevuto un emolumento mensile di circa 3.200 euro per sponsorizzare" il Carroccio durante i rally all'estero. Ora Riccardo Bossi - è l'unica cosa che ha detto prima dell'interrogatorio - lavora per un'azienda estera che tratta petrolio.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
LA LEGA CHE VINCE CON IL SUD.
Elezioni, il boom di Matteo Salvini sporcato dai sospetti. Successo del leader leghista che ha trasformato il Carroccio in forza nazionale. Per riuscirci ha dovuto sfondare al Sud imbarcando riciclati di ogni tipo e candidati con parentele scomode. Pronti a entrare in Parlamento. Intanto dal quartiere di Scampia a Napoli giungono le prime segnalazioni di clan interessati al voto padano, scrive Giovanni Tizian il 5 marzo 2018 su "L'Espresso". È il giorno di Matteo Salvini. “Il Capitano” che ha conquistato il centrodestra. E poco importa in questa giornata di giubilo leghista se incombe già un'ombra decisamente inquietante. Ombre che si allungano dal Sud, proprio il territorio dove Salvini ha scommesso di più in questa campagna elettorale. Si tratta della denuncia di un rappresentante di lista di Potere al Popolo presente al seggio della scuola Levi-Alpi del quartiere Scampia di Napoli. Rione che non ha bisogno di molte presentazioni, roccaforte di clan spietati e potenti. Ebbene proprio qui, durante la giornata elettorale alcuni sgherri della camorra avrebbero fatto mercanzia di voti. L'esponente del partito di sinistra ha segnalato la vicenda alla digos di Napoli. Nella sua denuncia ha spiegato nei dettagli quanto accaduto e la leader Viola Carofalo lo conferma all'Espresso: «Il nostro rappresentante ha assistito a una vera e propria compravendita fin alla mattina, ma è continuata anche dopo. Lui ha segnalato il fatto alle autorità competenti presenti al seggio ed è stato minacciato da questi personaggi con atteggiamento camorristico. Purtroppo non ci stupiamo, sono dinamiche che si ripetono ad ogni elezione». Stupore no. Ma i fatti riportati dal rappresentante della lista sono gravi. E meritano di essere approfonditi. Anche perché proprio nelle zone da cui proviene la segnalazione la Lega sfiora il 3 per cento al Senato. Un successo se confrontato allo 0,15 del 2013 nel comune di Napoli. Intanto Matteo Salvini si gode il successo. L'exploit elettorale è certamente frutto di voto nordico, ma le percentuali al Sud che queste prime ore di scrutini ci restituiscono sono decisamente notevoli per un partito che fino all'altro ieri era d'origine padana al 100 per cento. Con la Lega primo partito, la coalizione con Silvio Berlusconi vira decisamente a destra. Anche perché se si aggiungono i voti raccolti da Giorgia Meloni, Lega e Fratelli d'Italia insieme sfondano quota 20 per cento. Tra sovranismo, toni razzisti, antieuropeismo, la coppia Salvini-Meloni è una forza paragonabile al Front National di Marine Le Pen. Tanto che proprio Le Pen è stata una delle prime a congratularsi con l'amico Matteo, l'ex padano doc. La ricetta di Matteo Salvini ha funzionato. Togliere dal simbolo il “Nord” e trasformare il Carroccio in un partito nazionale sta dando i primi frutti. Non solo. Si rafforza anche in territori in cui il Pd era abituato a raccogliere consensi bulgari, vedi Emilia Romagna. Salvini ha costruito una Lega nazionale. Ha archiviato il periodo degli scandali e dei processi creando nuove alleanze strategiche sotto Roma. Lo ha fatto imbarcando nel partito politici navigati del Sud. Ha pescato al centro, tra gli autonomisti siciliani, e a destra in Calabria e Campania. Elezione quasi certa, per esempio, per Angelo Attaguile, candidato al Senato con la Lega, Attaguile è stato esponente di punta della Dc, poi del Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, presidente dell’istituto case popolari e del Catania calcio, assolto dalla corte d’appello di Messina per una tentata concussione. Con l'ex governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, sono compaesani, entrambi del paesone di Grammichele, feudo elettorale del primo e ancor prima del padre di Angelo Attaguile, Gioacchino, che dell’ex governatore è stato padrino politico. L’esponente della Lega di Sicilia si porta dietro una gloriosa eredità politica: il babbo è stato tre volte senatore Dc, sottosegretario alle Finanze nei governi Rumor e Colombo, infine ministro della Marina Mercantile. Angelo ha dato il massimo per non tradire la storia politica di famiglia. Da ragazzo è stato presidente dei giovani democristiani, nel 2005 Giuseppe Pizza lo nomina suo vice nella nuova Dc. Poi milita con gli autonomisti e nel 2013 viene eletto alla Camera grazie a un posto sicuro in quota Lombardo nelle fila del Pdl, due settimane dopo migra nel gruppo Lega Nord-Autonomie. Alcuni giorni fa, quasi alla vigilia del voto, Attaguile si è lasciato andare a una battuta: «Se vince il centrodestra potrei fare il ministro». Di padre in figlio. Insomma, un leghista scudocrociato. Altro seggio quasi sicuro per Alessandro Pagano, da San Cataldo, provincia di Caltanissetta. Berlusconiano della prima ora, assiduo pellegrino a Medjugori, fedele ultratradizionalista della congrega Alleanza cattolica. Il primo incarico di rilievo è del ‘96, assessore alla Sanità nel governo regionale del chiacchierato Giuseppe Provenzano. Quattro anni più tardi si alternerà tra Finanza e Beni Culturali nella prima giunta Cuffaro. Nel 2013 da deputato Pdl transita con Angelino Alfano nel Nuovo centro destra, da cui divorzia per giurare amore eterno alla Lega-Noi con Salvini. E da quel momento per i nisseni Pagano diventa “Il Padano”. Più dura l'elezione per Filippo Drago, anche se non impossibile. Il sindaco di Aci Castello l’ha seguito. Udc, Noi Sud, Pdl, Mpa, e infine candidato numero due per la Lega in uno dei collegi plurinominale del Catanese. Suo padre, Nino Drago è stato otto volte sottosegretario oltreché sindaco di Catania. Un fuoriclasse del consenso, andreottiano, all’epoca di Salvo Lima. Uscito indenne da un’inchiesta. Come il suo erede, Filippo, assolto per la voragine di bilancio lasciata nelle casse del comune di Catania dalla giunta Scapagnini. «Nun semu tutti i stissi». Non siamo tutti gli stessi, slogan che nel 2008 ha reso celebre il rampollo di Nino. Pure in Calabria, la Lega, rischia di elegere parlamentari. Per esempio Domenico Furgiuele, candidato al primo posto al proporzionale. Su di lui, uomo della destra sociale, pesa una parentela ingombrante: il suocero è sotto i riflettori dell'Antimafia, che gli ha sequestrato i beni. Non solo. Lo stesso Furgiuele è finito, non da indagato, in un'informativa della polizia relativa a un caso di omicidio del 2012: i killer hanno dormito gratis nell'hotel del suocero di Furgiuele, a pagare le stanze sarebbe stato proprio il leghista calabrese. In Campania tra chi probabilmente verrà eletta con la Lega c'è Pina Castiello di Afragola. Inizia in Alleanza nazionale, poi passa al Pdl, casa politica in cui ha stretto un solido rapporto sia con Nicola Cosentino che con la famiglia Cesaro, due saghe politiche inquinate dai clan. A Napoli seggio quasi certo per Gianluca Cantalamessa. Napoletano e candidato alla Camera nel collegio uninominale Campania 11. Le simulazioni danno la sua elezione pressoché certa. La Lega è stata per lui un approdo, ma casa sua resta la destra sociale. E finchè suo padre era ancora in vita guai a parlare di autonomia e secessione. Antonio, il papà, era un nostalgico del Duce, della patria indivisibile. Antonio Cantalamessa, infatti, è stato tra i più importanti esponenti dell’Msi. E forse oggi si troverebbe anche lui a sposare il sovranismo padano di Matteo Salvini, detto “il Capitano”. Tuttavia anche su Cantalamessa junior incombe un'ombra del passato: da imprenditore è stato socio, fino al 2004 in un'azienda in cui tra i consiglieri compariva Valerio Scoppa. Il fratello di Scoppa ha sposato la figlia del boss Angelo Nuvoletta, morto nel 2013, mentre stava scontando l’ergastolo per l’omicidio del cronista del Mattino Giancarlo Siani.
Salvini, l’allievo di Bossi che ha liquidato il bossismo. Il nuovo corso di Matteo Salvini: erede di Umberto Bossi se non nel progetto politico certamente nel modo di proporsi e intendere la politica, scrive Paolo Delgado l'1 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Su 58 senatori leghisti uno solo, la settimana scorsa, ha disobbedito all’ordine di votare per Anna Maria Bernini affondando così il candidato di Berlusconi, Paolo Romani. È lo stesso senatore che, mentre tutti si spellavano le mani per la mossa vincente di Matteo Salvini, lo bersagliava per aver messo a rischio le giunte della Lombardia e del Veneto: «Se saltavano lo impiccavano come il suo amico Mussolini». Trattasi di Umberto Bossi, fondatore e per decenni capo assoluto della Lega. Che a Bossi l’erede proprio non vada giù è noto, e il poco cordiale sentimento è più che ricambiato. Per inserire il Senatur in lista, unico sopravvissuto in Parlamento della vecchia guardia, c’è voluta l’intercessione di Berlusconi, un tempo arcinemico poi legato a Bossi da sincero affetto. Salvini non voleva saperne. La Lega del 2018 in effetti ha ben poco a che vedere con quella nata nel 1989 dall’unificazione di sei liste locali tra le quali la Lega lombarda fondata tra il 1982 e il 1984 da Bossi. A Salvini la Padania va stretta, la secessione deve sembrargli una barzelletta di dubbio gusto, la parola ‘ federalismo’, che Bossi riusciva a ripetere 150 volte al minuto, non gli è scappata di bocca una volta in campagna elettorale. Senza contare le nostalgie antifasciste che spinsero Bossi a presentarsi addirittura alla grande manifestazione milanese contro il primo governo Berlusconi, nel 1994, rivendicando per il suo Carroccio «l’eredità della antifascista e partigiana». Il successore, al contrario, ha prudentemente resistito a ogni tentativo di costringerlo a pronunciarsi in materia, prima delle elezioni. Alle orecchie di Bossi il progetto di una ‘ Lega Italia’ deve suonare come il più stridente tra gli ossimori. Non c’è percentuale, ai suoi occhi, che valga il sacrificio della sola ragion d’essere della Lega per come la aveva voluta e costruita lui: la difesa degli interessi della Padania. Per Salvini, temi del generale sono archeologia politica. Eppure i due sono molto più simili di quanto possa apparire. Matteo Salvini è in tutto e per tutto erede di Umberto Bossi, se non nel progetto certo nel modo di proporsi e di intendere la politica. Del resto hanno una storia si- mile, con le dovute differenze generazionali. Bossi era approdato alla politica simpatizzando per il movimento rivoluzionario dei primi anni ‘ 70 e prima di approdare al federalismo era passato per il Pci, con tanto di tessera in tasca. Salvini, vent’anni dopo, aveva annusato l’aria bazzicando cenri sociali e anche dopo essere approdato nella Lega aveva continuato a considerarsi, ‘ comunista padano’, area interna al Carroccio di cui era leader. Finiti entrambi a destra, il primo senza mai ammetterlo, il secondo senza andare troppo per il sottile, hanno tuttavia entrambi mantenuto uno sguardo privilegiato sulla base sociale che un tempo era tradizionalmente di sinistra. La celebre battuta di Massimo D’Alema, che nel 1995 definì la Lega ‘ una costola della sinisastra’, è a tutt’oggi universalmente derisa ma assolutamente a torto. L’allora segretario di un Pds che non aveva perso del tutto di vista le radici Pci non parlava a sproposito. Era del tutto consapevole della matrice operaia, e spesso Fiom, di una parte sostanziosa del voto leghista. Sapeva che quei voti, più che da localismo sciovinista, erano dettati dalla speranza di trovare una nuova rappresentanza d’interessi. Salvini fa la stessa colotta Se il voto che premia M5S è in larghissima misura voto d’opinione quello leghista, soprattutto nella sua terra d’origine al nord, è invece difesa di interessi specifici e spesso popolari. Lo sapeva benissimo il Bossi dei primi anni ‘ 90, quando ridicolizzava la componente leghista che faceva capo alla ex Liga veneta di Rocchetta: «Quello pensa davvero che la gente voti Lega per la lingua o i costumi veneti. Mica si rende conto che gli elettori leghisti spesso sono meridionali immigrati che difendono i loro interessi». Lucia Annunziata, sull’Huffington Post, ha sintetizzato perfettamente il modus operandi di Salvini: «Predicare al “fuori” della politica riversando poi il peso di questo voto d’opinione sul “dentro” del circuito politico» . Si può discutere sul fatto che il voto leghista sia o no solo d’opinione, non sul gioco “dentro- fuori” rispetto al palazzo che è invece colto con precisione. Era lo stesso gioco in cui era maestro Bossi: tribunizio e molto più estremo di Salvini sui plachi, pragmatico e accorto nelle aule parlamentari. Persino l’accoppiata tra Salvini il Ruggente e Giorgetti il Riflessivo, ricorda il gioco di coppia nel quale eccellevano Bossi e il molto più calmo Bobo Maroni ai bei tempi. A prima vista sembra impossibile sostenere che la Lega non è cambiata. Ma forse è proprio così: o più precisamente si è adeguata ai tempi, ha cambiato tutto senza modificare, in fondo, il dna impresso a suo tempo proprio dall’ormai isolato e tramontato Umberto Bossi.
Trasformisti, fascisti, impresentabili e ras delle clientele: ecco le liste al Sud di Matteo Salvini. La rete del consenso nel meridione si fonda su figure spesso note e di lungo corso. Con non poche ombre. Ecco regione per regione i casi più interessanti, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 13 febbraio 2018 su "L'Espresso". «Se hanno preferito gli uomini di Lombardo e Cuffaro lasciando fuori noi mi hanno fatto un favore...». Così parlò Matteo Salvini, detto il Capitano, all’indomani della presentazione del governo siciliano di Nello Musumeci. Il neo governatore ha lasciato ai margini della giunta il deputato di Salvini. Il leader della Lega si aspettava quantomeno un assessorato per celebrare il risultato storico ottenuto in Sicilia che ha consacrato la vocazione nazionale del partito di Salvini. Tuttavia, il capo del Carroccio - nella sua stizzita analisi - omette di rivelare il profilo del primo leghista della storia a palazzo dei Normanni: è un riciclato e per di più indagato per appropriazione indebita. Si chiama Tony Rizzotto, 65 anni, chioma folta e improbabile, fan di Mimmo Cavallo autore della hit anni ‘80 “Siamo meridionali” e dipendente pubblico del comune. Si è fatto le ossa con l’ex governatore Totò Cuffaro condannato per favoreggiamento alla mafia. Il salto di qualità, però, avviene da deputato all’Ars col Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, il successore di Cuffaro anch’egli finito nei guai ma per voto di scambio. Il Carroccio nazional-popolare è una salsa fatta in casa, come nelle migliori tradizioni meridionali, mistura di democristiani, estrema destra e figure equivoche. Fascioleghismocrociato, una truppa organizzata da Matteo Salvini per conquistare un pezzo d’Italia che fino a ieri era a lui pressocché sconosciuto. Da Andreotti ad Almirante, ipotetico pantheon ideale. Il regista del casting della classe dirigente della Lega del Sud è Raffaele Volpi, scelto da Salvini. La selezioni sembra aver seguito tre rigide regole: godere di uno spiccato carisma clientelare, possedere uno spirito politico camaleontico, essere il referente di un blocco elettorale tramandato di padre in figlio, a prescindere dalla sigla del partito.
Quel palazzo nel centro di Roma. Un palazzo signorile al centro di Roma. In uno dei quartieri dell’upper class della Capitale. In via Federico Cesi, a due passi dal Lungotevere, c’è l’incarnazione dello sposalizio tra democristiani e leghisti. Qui al secondo piano si trova la sede ufficiale di “Noi con Salvini”. Almeno questo dicono gli atti ufficiali. «In realtà da quattro mesi, si sono traferiti per le regionali siciliane», precisa il portiere dello stabile. Una sede fantasma, quindi? Un documento svela l’arcano. Gli appartamenti al secondo piano sono divisi tra la famiglia Attaguile. E la sezione si trova proprio in quello di proprietà di Angelo Attaguile. Segretario nazionale di Noi con Salvini, coordinatore del movimento in Sicilia, e candidato al Senato con la Lega, Attaguile è stato esponente di punta della Dc, poi del Movimento per l’autonomia di Raffele Lombardo, presidente dell’istituto case popolari e del Catania calcio, assolto dalla corte d’appello di Messina per una tentata concussione. Con Lombardo sono compaesani, entrambi del paesone di Grammichele, feudo elettorale del primo e ancor prima del padre di Angelo Attaguile, Gioacchino, che dell’ex governatore è stato padrino politico. Eh sì, l’esponente della Lega di Sicilia si porta dietro una gloriosa eredità politica: il babbo è stato tre volte senatore Dc, sottosegretario alle Finanze nei governi Rumor e Colombo, infine ministro della Marina Mercantile. Angelo ha dato il massimo per non tradire la storia politica di famiglia. Da ragazzo è stato presidente dei giovani democristiani, nel 2005 Giuseppe Pizza lo nomina suo vice nella nuova Dc. Poi milita con gli autonomisti e nel 2013 viene eletto alla Camera grazie a un posto sicuro in quota Lombardo nelle fila del Pdl, due settimane dopo migra nel gruppo Lega Nord-Autonomie. Un sostegno indispensabile che ha permesso all’aggregazione parlamentare di avere il numero necessario per sopravvivere. Lunga vita ad Attaguile, dunque, che due anni dopo verrà incoronato segretario nazionale di Noi con Salvini, embrione del Carroccio nazionale. Il movimento entra così all’interno di Montecitorio e alla sigla Lega Nord-Autonomie si aggiunge Noi con Salvini, che da allora ha iniziato a usufruire della quota dei rimborsi ai gruppi: quasi 1,8 milioni negli ultimi due anni, a cui si è aggiunto un contributo liberale di 500mila euro dal gruppo Lega Nord Padania, in auge nella legislatura precedente dei governi Berlusconi e Monti. Che sia questione anche di affari la liason con gli autonomisti siciliani è evidente dal sostegno economico ricevuto da questi ultimi negli anni passati: circa un 1,4 milioni fino al 2010. Sebbene Attaguile sia un recente acquisto di Salvini, con i leghisti c’è sempre stata un’intesa. Lo scopriamo tornando in via Cesi. Tra il ‘93 e il ‘99 la proprietà dello stesso appartamento era suddivisa tra Attaguile e Michele Baldassi di Udine, leghista, manager in aziende pubbliche in quota Carroccio e sposato con Federica Seganti, pezzo grosso del partito friulano, ex assessora regionale, alla cui campagna elettorale è cresciuto un giovanissimo Massimiliano Fedriga, astro nascente della Lega versione Salvini. Un leghista e un democristiano a Roma. Negli anni in cui si raccoglievano le macerie della prima Repubblica, con il partito di Bossi che si scagliava contro le clientele della Dc e i tangentari di Mani pulite, per non parlare dei meridionali. Tuttavia Baldassi per pochi mesi nel periodo di comproprietà ha ottenuto anche un incarico nell’Ast, la società del trasporto pubblico della Regione Sicilia. Uscito Baldassi dalla proprietà, mai Attaguile avrebbe immaginato che 16 anni più tardi in quel di via Cesi avrebbe riabbracciato altri leghisti.
Il Drago e Il Padano. Attaguile non è il solo, con un papà potente Dc, a salire sul Carroccio di Salvini. Filippo Drago sindaco di Aci Castello l’ha seguito. Udc, Noi Sud, Pdl, Mpa, e infine candidato numero due per la Lega in uno dei collegi plurinominale del Catanese. Suo padre, Nino Drago è stato otto volte sottosegretario oltreché sindaco di Catania. Un fuoriclasse del consenso, andreottiano, all’epoca di Salvo Lima. Uscito indenne da un’inchiesta. Come il suo erede, Filippo, assolto per la voragine di bilancio lasciata nelle casse del comune di Catania dalla giunta Scapagnini. «Nun semu tutti i stissi». Non siamo tutti gli stessi, slogan che nel 2008 ha reso celebre il rampollo di Nino. Nel club dei Salvini boys della Trinacria si è iscritto anche Alessandro Pagano da San Cataldo, provincia di Caltanissetta. Berlusconiano della prima ora, assiduo pellegrino a Medjugori, fedele ultratradizionalista della congrega Alleanza cattolica. Il primo incarico di rilievo è del ‘96, assessore alla Sanità nel governo regionale del chiacchierato Giuseppe Provenzano. Quattro anni più tardi si alternerà tra Finanza e Beni Culturali nella prima giunta Cuffaro. Nel 2013 da deputato Pdl transita con Angelino Alfano nel Nuovo centro destra, da cui divorzia per giurare amore eterno alla Lega-Noi con Salvini. E da quel momento per i nisseni Pagano diventa “Il Padano”. Lo ha seguito il cugino, dipendente del centro di accoglienza per migranti. Chi è rimasto fuori, ma lo sosterrà, sono il cognato, Raimondo Torregrossa, in passato sindaco di San Cataldo, e la cognata Angela Maria Torregrossa, amministratrice della rinomata clinica Regina Pacis, convenzionata con la Regione. Torregrossa fa il suo ingresso nella struttura sanitaria di San Cataldo nel periodo in cui Pagano guidava la Sanità. Il cognato, invece, è stato primo cittadino di San Cataldo quando lui era deputato all’assemblea regionale. Poi, quando Pagano va Montecitorio, Torregrossa va a palazzo dei Normanni. I maligni hanno definito questa alternanza sancataldese “Operazione Montante”, perché voluta da Antonello Montante, l’imprenditore, cavaliere del lavoro, fino a un anno fa capo degli industriali sicialiani e sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. Montante come Pagano è di San Cataldo, fino al 2009 i rapporti erano ottimi. Poi tra i due è sceso il gelo.
Ombre nere sullo Stretto. Superato lo Stretto, da Reggio Calabria in su, i Salvini boys non hanno nulla a che spartire con la tradizione democristiana. Qui prevale il nero degli eredi politici del Movimento sociale. Giuseppe Scopelliti, per esempio, sosterrà Salvini con il suo nuovo Movimento nazionale per la sovranità fondato insieme a Gianni Alemanno, sotto processo per finanziamento illecito in un filone scaturito da Mafia Capitale. Scopelliti non si candiderà, per non creare imbarazzo al Capitano. Ha una condanna in appello a cinque anni per abuso e falso per la vicenda del dissesto milionario del municipio che governava. E poi è in attesa di capire l’evoluzione di un’inchiesta dell’antimafia sul livelo occulto della ‘ndrangheta, in cui è indagato. Ma l’ex governatore e già sindaco di Reggio lavorerà dietro le quinte, metterà, cioè, a disposizione il suo blocco elettorale mobile che fa gola a molti. A Salvini quei voti sicuri fanno comodo. Dal canto suo Scopelliti non rinuncia certo a piazzare sue pedine nelle liste. Una su tutte: Tilde Minasi, fedelissima fin dalla prima giunta comunale. Dalla destra sociale proviene anche il segretario sezione calabrese della Lega-Noi con Salvini. Si chiama Domenico Furgiuele, un passato nella Destra di Storace, e, ora, candidato alla Camera. Di mestiere fa il geometra, a tempo perso lavora nella tv locale di famiglia. Le sue passioni, il calcio e la storia. Quando era un ultras del Sambiase ha collezionato un Daspo, che la Questura affibbia solo ai tifosi più agitati. Sulla storia recente ha le sue idee. Ritiene, per esempio, il neofascista Stefano Delle Chiaie, fondatore della fuorilegge Avanguardia nazionale, «più una vittima che un carnefice». E su questo sarà in sintonia con Scopelliti, visto che Delle Chiaie - un legame fraterno con la frangia più torbida della Calabria - è stato protagonista del fronte nero nei moti di Reggio negli anni Settanta. Una delle prime apparizioni di Matteo Salvini in Calabria è del 2015, quando insieme a Furgiuele hanno organizzato una conferenza stampa all’Aerhotel Phelipe, di proprietà della famiglia dell’imprenditore Salvatore Mazzei, suocero di Furgiuele. Il parente del candidato di Salvini a Lamezia ha i beni sotto sequestro dall’antimafia. Lui rigetta ogni accusa, sostiene di essere una vittima, forte anche di un assoluzione da un processo per concorso esterno. Di certo, però, Mazzei è sfortunato nella scelta dei partner: un suo vecchio socio, imprenditore delle sale bingo, è stato pizzicato di recente dalla guardia di finanza di Lamezia per una presunta bancarotta fraudolenta. Dettagli per Furgiuele, fiero di aver portato la Calabria a Pontida, incluso il gazebo con l’insegna della regione. Così tra un “Va, pensiero”, vichinghi in delirio e mutande verdi, ha ormai quasi cancellato dalla memoria quel passaggio di un informativa della polizia in cui viene tirato in ballo per aver offerto alle persone sbagliate due stanze dell’hotel di famiglia, lo stesso in cui Salvini è stato ospite tre anni fa. I detective che indagavano su un caso di omicidio del 2012, infatti, scoprono che i sicari dopo la spedizione hanno alloggiato nel quattro stelle senza pagare alcunché. «Erano ospiti del signor Domenico Furgiuele, genero del signor Mazzei, proprietario dell’Hotel», si legge nel documento. L’episodio non ha avuto alcun rilievo penale, Furgiuele non poteva immaginare che quelli fossero gli autori del grave delitto. Si era fidato di un amico, a sua insaputa coinvolto con quella gentaglia. Una storiaccia, insomma, da dimenticare. Furgiuele, ora, è concentrato sulla campagna elettorale. Nella sede leghista di Lamezia campeggia un celebre motto di Codreanu: «Per noi non esiste sconfitta o capitolazione...». Il fascista rumeno, per i camerati d’Europa semplicemente “Il Capitano”.
Lo chiamavano ‘o Criminale. Tra Napoli e Caserta nessuna nostalgia del passato. Si vive alla giornata, elezione dopo elezione. E qui il Capitano Salvini ha ben altri pensieri. Primo fra tutti l’ingombrante presenza di Vincenzo Nespoli nella composizione delle liste della Lega in Campania. Nespoli è stato tre volte deputato, sindaco della sua città, Afragola, e condannato in secondo grado a cinque anni per bancarotta fraudolenta. Seppur nell’ombra, come Scopelliti in Calabria, anche lui offre la merce migliore che ha disposizione, i voti. Sporchi, volendo dar credito a un pentito di camorra nuovo di zecca: «È amico intimo della famiglia Moccia... quando è stato al potere al Comune, là erano tutti schiavi... è un SS, lo chiamano o’ Criminale». Nespoli, quindi, meglio che resti dietro le quinte, in attesa. Palco libero per la front woman di Salvini in Campania, Pina Castiello, anche lei di Afragola e legata a Nespoli da militanza comune e da solida amicizia. Inizia in Alleanza nazionale, poi passa al Pdl, casa politica in cui ha stretto un solido rapporto sia con Nicola Cosentino che con la famiglia Cesaro, due saghe politiche inquinate dai clan. La copertina dell'Espresso in edicola dal 11/2Ma di Afragola è anche un altro candidato pro Salvini. Ciro Salzano, imprenditore, patron dell’Aias, l’associazione per la cura dei disabili. Non c’è che dire, tornata elettorale fortunata per Afragola. Con l’Aias del neoleghista Salzano ha collaborato il medico no vax radicale Massimo Montinari, sospeso per sei mesi dall’Ordine dei Medici. Non è nota la posizione di Salzano sui vaccini, mentre quella di Salvini sì: «Con noi al governo via l’obbligo». Chissà, magari è stata questa la molla che ha spinto Salzano a correre con il Capitano.
Salvini alle pendici del Vesuvio. Alla fine, quindi, quel “Napoli colera”, urlato a squarciagola, era solo una goliardata da tifoso. Il presente è un selfie con il fuoriclasse azzurro Lorenzo Insigne. Insomma, i tempi sono ormai maturi per issare lo stemma di Alberto da Giussano nella capitale del Regno delle due Sicilie. Il segretario regionale campano è Gianluca Cantalamessa. Napoletano e candidato alla Camera nel collegio uninominale Campania 11. Le simulazioni danno la sua elezione pressoché certa. La Lega è stata per lui un approdo, ma casa sua resta la destra sociale. E finchè suo padre era ancora in vita guai a parlare di autonomia e secessione. Antonio, il papà, era un nostalgico del Duce, della patria indivisibile. Antonio Cantalamessa, infatti, è stato tra i più importanti esponenti dell’Msi. Il figlio l’ha seguito come meglio ha potuto, per esempio organizzando incontri nel ricordo di Almirante. Il giorno del funerale del papà dichiarò: «Grazie a mio padre ho capito cosa significa essere un uomo, che cos’è la destra, che cosa sono i valori». Su questo nessun dubbio. Il 28 aprile 2003 Cantalamessa senior aveva partecipato a una messa in onore di Mussolini e dei caduti della repubblica sociale italiana. Cinque anni più tardi viene nominato presidente di Equitalia Polis, l’agenzia di riscossione che il capo del Carroccio promette di abolire. Il figlio si è limitato a fare l’imprenditore, in ambito assicurativo e immobiliare. In passato anche nel settore farmaceutico. Socio, per esempio, fino al 2004 della New.Fa.Dem di Giugliano. Ai tempi in cui Cantalamessa era azionista, tra i consiglieri c’era Valerio Scoppa. Famiglia importante la sua, papà radiologo di fama, zio generale dei carabinieri in pensione legato alla curia, il fratello sposato con la figlia del boss Angelo Nuvoletta, morto nel 2013, mentre stava scontando l’ergasotlo per l’omicidio del cronista del Mattino Giancarlo Siani. Storie passate. Oggi Cantalamessa è un Salvini Boy, impegnato a contrastare l’invasione straniera.
Matteo Salvini su Facebook con l'amica del boss. Attivista della Lega, vicina all'esponente di una famiglia ai vertici della 'ndrangheta e a rappresentanti lombardi del partito, prima delle ultime elezioni si è fatta fotografare con il futuro ministro dell'Interno, scrive Fabrizio Gatti l1 giugno 2018 su "L'Espresso". Lei, con i capelli biondi a caschetto, si chiama Marta Prato. È un’attivista della Lega. E nel suo piccolo ha contribuito al successo del partito: eccola in fotografia, durante l’ultima campagna elettorale, accanto a Matteo Salvini, allora segretario federale e oggi ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio. L’altro nella foto è l’amico di entrambe, Giacinto Mariani, che in provincia di Monza e Brianza è l’ambasciatore del leader leghista. Ma sempre lei, la signora Prato, è ugualmente molto amica di Umberto Cristello, esponente di una famiglia ai vertici della ‘ndrangheta al Nord. Uno che, come ha scritto la Direzione distrettuale antimafia di Milano, faceva arrivare bancalate di cocaina: eccoli insieme a una festa all’aperto, Umberto e la bionda attivista sorridenti con il bicchiere di birra in mano, oppure nella discoteca di cui è comproprietario Mariani, o seduti al ristorante, con il boss calabrese cresciuto in Lombardia che si nasconde dietro a un calice di vino.
Il senatore Salvini, eletto il 4 marzo proprio in Calabria e da oggi capo del Viminale, è sicuramente all’oscuro delle frequentazioni della sua volontaria brianzola. Ma queste foto rivelano cosa si nasconde, in mezzo a milioni di sostenitori, sotto la base elettorale della Lega: proprio nel momento in cui Salvini ha unito sia il voto di protesta da Nord a Sud, sia i militanti di estrema destra sparsi per l’Italia. Le immagini le trovate sulla pagina Facebook di Marta Prato, finora accessibile a tutti. Basta cliccare l’album fotografico e sulla stessa schermata vedrete: lo scatto con Salvini, lei di nuovo con Cristello, poi abbracciata all’amico Mariani, a cena con l’europarlamentare Angelo Ciocca e il deputato Paolo Grimoldi, segretario nazionale della Lega Lombarda. E ancora Marta Prato con il cartello blu “Salvini premier”. Oppure accanto all’allora presidente della Regione, Roberto Maroni, o bene in vista con l’attuale vicepresidente lombardo, Fabrizio Sala di Forza Italia, immortalati il 5 febbraio, un mese prima del voto regionale. Ed eccola perfino con Ilaria Cerqua che ancora non è sindaco, ma solo la candidata di destra alle prossime amministrative del 10 giugno a Seregno: la cittadina di mobilieri vicina a Monza è il collegio elettorale brianzolo che il 4 marzo ha dato quasi il 30 per cento alla Lega e il 49 per cento alla sua coalizione. Marta Prato fotografa con il telefonino. E pubblica tutto su Facebook. La mania dei selfie ci rivela così una Lega a due facce: Salvini, neo ministro dell’Interno, che all’anniversario della strage di Capaci scrive «la mafia mi fa schifo e se avrò l’onore di andare al governo, la combatterò con ogni sforzo e con ogni mezzo» e, contemporaneamente, il suo ambasciatore abbracciato all’amica di un esponente della famiglia Cristello.
A Seregno Giacinto Mariani, 53 anni, è stato due volte sindaco e poi vicesindaco. Fino allo scandalo di cinque mesi fa. Lo scorso autunno la giunta si è dovuta dimettere in blocco perché con Mariani, l’allora sindaco Edoardo Mazza e altri amministratori sono finiti sotto inchiesta per presunti favori a un costruttore calabrese, Antonino Lugarà, che nel frattempo è stato intercettato in Brianza mentre chiede altri favori al nipote del boss della ‘ndrangheta, Giuseppe Morabito, il famoso Peppe Tiradrittu. La fotografia con Matteo Salvini risale all’inizio della campagna elettorale. La sera del 5 settembre 2017 il leader è in Brianza a diffondere il suo slogan: «Salvini premier». E Marta Prato lo incontra con Mariani, che in quei giorni, gli ultimi prima della retata della Procura di Monza, è ancora vicesindaco. Seguendo il diario delle immagini, il 26 agosto l’amica di Mariani passa la serata con Umberto Cristello, 51 anni, già condannato due volte, originario della provincia di Vibo Valentia, ma da tempo residente con tutta la famiglia patriarcale tra Seregno e Mariano Comense, nel cuore della Brianza.
Il primo settembre la signora e l’esponente della famiglia ai vertici della ‘ndrangheta si rivedono e festeggiano la fine dell’estate al Molto Club di Carate Brianza, discoteca di cui è comproprietario proprio l’ambasciatore di Salvini. Il 4 settembre, Giacinto Mariani e l’amica di Cristello accompagnano alla festa della Lega a Seregno l’allora presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni. Il 5 arriva Salvini. La sera del 6 settembre Prato, Mariani e il segretario nazionale della Lega Lombarda, il deputato Paolo Grimoldi, partecipano insieme alla campagna per il sì al referendum sull’autonomia regionale. Il 24 settembre lei pubblica un’altra foto di Cristello. Gli amici politici si rivedranno, tranne Salvini, alla cena del primo dicembre in un ristorante, sempre a Seregno: ecco Mariani, ormai indagato, l’onorevole Grimoldi, rieletto il 4 marzo, l’europarlamentare Ciocca. E l’immancabile Marta Prato.
Il 22 dicembre l’amica sente il bisogno di pubblicare una nuova immagine di lei con Umberto Cristello. Questa volta sono al ristorante Dorsia di Seregno, altro locale i cui proprietari sono soci di Mariani nella discoteca Molto Club. Si avvicina domenica 4 marzo e il segretario-onorevole-candidato Grimoldi chiude la sua campagna elettorale al Noir, nightclub della zona di cui sono titolari altri soci di Mariani nella sua discoteca. Il luogo, però, non è famoso per questo: ma perché in passato offriva champagne e serate gratis ai boss della ‘ndrangheta, poi arrestati nell’operazione Infinito. Il partito del ministro dell'Interno non ha trovato di meglio per incontrare i suoi elettori a 36 ore dall'apertura dei seggi. Oltre a Salvini, anche Grimoldi, Sala, Ciocca, Mariani e Cerqua, fino a prova contraria, sono ignari delle frequentazioni dell’attivista. Ma il sottofondo politico qualche domanda la impone. Umberto Cristello, interpellato anche sulle pendenze giudiziarie per una condanna in primo grado per associazione mafiosa, risponde così: «Non sono affari suoi». Marta Prato: «Non devo rendere conto a nessuno. Quindi, cortesemente, ti chiedo di pensare alla tua vita e non alla mia». Giacinto Mariani: «La diffido formalmente dal proseguire questo atteggiamento fortemente provocatorio nei miei confronti».
Umberto Cristello e la sua famiglia riempiono decine di pagine nelle operazioni Infinito, Ulisse, Tenacia e Quadrifoglio. «I Cristello», racconta il collaboratore Antonino Belnome rivelando il ruolo di Umberto, «erano i numeri uno della zona. All’epoca io ho visto portare bancalate di cocaina». Ci sono poi le indagini concluse con l'arresto di Paolo De Luca, 48 anni, accusato di essere il riferimento in Lombardia del clan Mancuso di Limbadi, presunto capo della cosca di Seregno schierata proprio contro i Cristello. Secondo gli accertamenti De Luca, con il fratello Giuseppe, in Brianza avrebbe il monopolio della sicurezza sui locali: sarebbero loro a proteggere bar e discoteche come il Noir. Ma Umberto Cristello fa paura. Il 29 giugno 2016 l'amico di Marta Prato esce dal carcere in libertà vigilata. E il pubblico ministero Paolo Storari, della Direzione distrettuale antimafia di Milano, trascrive questa breve conversazione intercettata ai telefoni: «Umberto è uscito, lo sai? Non ti devi fidare mai tutto di lui. Che dei Cristello è il più pericoloso». Aggiungono i magistrati della Dda di Milano: «Cristello Umberto ha due precedenti penali per reati tipici di chi opera in contesti mafiosi, ovvero: una condanna per detenzione e porto di una pistola con il relativo munizionamento e una successiva condanna a dieci anni di reclusione... relativa a un’attività continuata di spaccio». La sua amica Marta Prato nel frattempo conferma il suo sostegno a Salvini. Lunedì 28 maggio, dopo il momentaneo stop al governo Lega-5 Stelle, ha postato su Facebook il monologo del leader contro il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E se il segretario della Lega è ora ministro dell'Interno, bisogna riconoscere il ruolo della base: l'amica del boss, l'ambasciatore e tutti gli altri non hanno mai smesso di avere fiducia in lui.
L'attivista di Matteo Salvini e la 'ndrangheta: «In Brianza tutti i politici sono amici del boss». La leghista replica all'inchiesta dell'Espresso. E rivela la presunta infiltrazione nella politica di Seregno, la città vicino a Monza dove domenica 10 giugno si torna a votare per il Comune. Un caso imbarazzante per il neo ministro dell'Interno, scrive Fabrizio Gatti il 4 giugno 2018 su "L'Espresso". Marta Prato, l'attivista della Lega molto amica dei rappresentanti in Brianza del ministro dell'Interno Matteo Salvini, risponde con una rivelazione clamorosa all'inchiesta dell'Espresso. E conferma ciò che, secondo lei, in provincia di Monza è ormai consuetudine: la lunga “amicizia trasversale” tra politici e Umberto Cristello, esponente di una famiglia ai vertici della 'ndrangheta al Nord. Durante la campagna elettorale per il voto del 4 marzo, la leghista aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook le sue foto con Salvini; con l'amico e ambasciatore locale del leader, Giacinto Mariani; con il deputato Paolo Grimoldi. E, negli stessi giorni, lei con Cristello: eccoli insieme a una festa all'aperto, in discoteca e al ristorante. «I Cristello», racconta il collaboratore Antonino Belnome ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, «erano i numeri uno della zona. All’epoca io ho visto portare bancalate di cocaina».
Marta Prato, fino alle dimissioni della giunta di Seregno per le indagini sui presunti favori a un costruttore in contatto con altri boss della 'ndrangheta, ha anche rappresentato la maggioranza Lega-Forza Italia in Comune come segretaria della Consulta cultura. Proprio domenica 10 giugno si torna a votare. «Ripubblico una delle 17 fotografie pubblicate sull'Espresso, quella che ritengo più significativa», scrive l'attivista nella lettera di replica inviata al sito locale Seregno.tv e linkata anche sulla sua pagina Facebook: «Nella foto vengono oscurati tre volti... L'ultimo sulla destra è un candidato alle prossime elezioni comunali del 10 giugno 2018, lista “Noi per Seregno”. Anche lui, come me, al fianco di “Umberto Cristello, dell'omonima famiglia ai vertici della 'ndrangheta al Nord, nella discoteca Molto Club di Carate Brianza, di cui è comproprietario l'ambasciatore di Salvini, Giacinto Mariani” (come ha scritto L'Espresso)».
«L'occasione nella quale è stata scattata la foto risale al 31 agosto 2017 durante una serata di chiusura estate», continua Marta Prato: «A tale serata presenziarono innumerevoli persone, essendo normale apertura del locale Molto di Carate Brianza. Tra le innumerevoli persone, la presenza di personaggi pubblici della realtà seregnese è da considerarsi trasversale. Così come trasversale è l'amicizia che lega me e Umberto fin dai tempi dell'adolescenza e che lega, appunto trasversalmente, Umberto a numerosi personaggi pubblici di Seregno. Tutto ciò, cioè l'amicizia, non può essere legata a qualsivoglia forza politica e/o malavita e cosche mafiose. Se tutto ciò che è stato scritto fosse un attacco personale, non capisco il male che posso avere fatto per provocare simili infamie. Altresì se fosse un attacco a fini politici, vista la vicinanza con le elezioni comunali, credo sia giusto espandere il concetto di amicizia a tutti i rappresentanti politici».
Il 23 maggio scorso il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, sulla sua pagina Facebook ha pubblicato la sua foto davanti al monumento che ricorda la strage di Capaci, l'attentato nel quale furono uccisi il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro: «A 26 anni dalla strage di Capaci, un pensiero e una preghiera per i nostri Martiri», ha scritto quel giorno Salvini sopra la sua fotografia: «La mafia mi fa schifo e se avrò l’onore di andare al governo, la combatterò con ogni sforzo e con ogni mezzo». Le misure di prevenzione contro i contatti tra pubblica amministrazione, politica e criminalità organizzata, sono di competenza del ministero dell'Interno. Ecco, ora che è al governo, se proprio vuole mantenere la promessa, il ministro Salvini può cominciare dagli amici e dai suoi rappresentanti che hanno fatto campagna elettorale per lui e lo hanno eletto in Brianza.
I rapporti della Lega con uomini vicini alla 'ndrangheta. «È finita la pacchia per i mafiosi», ripete Salvini. Ma i documenti ottenuti da L'Espresso dimostrano che il responsabile del Carroccio a Rosarno, dove il ministro ha registrato un risultato record alle ultime elezioni, è stato per anni in società con uomini legati alle cosche, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 6 luglio 2018 "L'Espresso". Reggio Calabria, Rosarno, Lamezia Terme. Centrotrenta chilometri lungo i quali si snodano i legami pericolosi tra la Lega di Matteo Salvini e la 'ndrangheta. Dopo le recenti dichiarazioni di del ministro dell'Interno contro i mafiosi («È finita la pacchia in Italia», ha detto domenica scorsa a Pontida promettendo «una guerra che combatteremo con tutte le armi che la democrazia ci mette a disposizione») L'Espresso pubblica un'inchiesta giornalistica, in edicola da domenica 8 luglio, sui leghisti calabresi che hanno garantito al ministro di farsi eleggere senatore e al suo partito di sfondare il muro della doppia cifra a Rosarno, il paese in provincia di Reggio Calabria feudo di potenti famiglie di 'ndrangheta e simbolo dello sfruttamento dei braccianti africani nei campi. Qui, alle elezioni del 4 marzo scorso, la Lega sovranista ha infatti raccolto il 13 per cento dei consensi. Cinque anni fa l'asticella si era fermata allo 0,25. Un exploit possibile grazie al responsabile della sezione locale leghista, Vincenzo Gioffrè. Candidato non eletto alla Camera, Gioffrè è stato uno degli organizzatori della festa-comizio post elettorale con Salvini ospite d'onore nel liceo del paese. Il responsabile del partito di Rosarno custodisce però un segreto che L'Espresso, attraverso documenti inediti, è in grado di svelare. Per oltre dieci anni ha avuto rapporti d'affari con uomini sospettati di essere contigui ai clan locali. Gioffrè, classe '81, a soli 19 anni ha infatti fondato una cooperativa agricola con un personaggio legato clan Pesce, marchio doc della 'ndrangheta, con ramificazioni nel Nord Italia e in Europa, e leader nel narcotraffico internazionale. Secondo alcuni atti giudiziari, il partner d'affari di Gioffrè è stato tra gli armieri della cosca. Nel 2012 fu peraltro indagato dalla procura antimafia di Reggio Calabria per favoreggiamento della 'ndrina rosarnese, tuttavia quel filone non ha avuto finora uno sbocco processuale. Ma questo non è l'unico legame pericoloso del capo dei leghisti di Rosarno. Gioffrè risulta infatti tra i fondatori di una seconda azienda, un consorzio di produttori agricoli. Tra gli azionisti, indicano i documenti societari, ci sono due uomini che l'antimafia collega direttamente alla famiglia Bellocco, alleata del clan Pesce. Insomma, amicizie borderline per la spalla del ministro dell'Interno in terra di 'ndrangheta. Dove il problema principale, sostengono i salvinisti di Calabria, sono gli immigrati. Gioffrè ha aderito alla Lega nel 2016 dopo aver lasciato Fratelli d'Italia. Il primo a dargli il benvenuto ufficiale è stato Domenico Furgiuele, responsabile regionale del partito e, dal 4 marzo, deputato della Repubblica. Su Furgiuele pesa una parentela ingombrante. Come già raccontato dal nostro giornale, il suocero è infatti in carcere per estorsione aggravata dal metodo mafioso e ha i beni sotto sequestro su richiesta dell'antimafia: per i giudici di primo grado, l'uomo è contiguo alle cosche di Lamezia. Ora L'Espresso ha scoperto che nel congelamento del patrimonio societario e immobiliare è finita anche la moglie del deputato calabrese. A lei il tribunale ha sequestrato un immobile e una società.
Quanto guadagna (veramente) Matteo Salvini? Stipendio e pensione del leader della Lega, scrive Alessandro Cipolla il 22 Maggio 2018 su "Money". Quanto guadagna Matteo Salvini? Facciamo i conti in tasca al leader della Lega, in procinto ora di diventare ministro del governo con i 5 Stelle. Quanto guadagna Matteo Salvini? Questa è la domanda che si pongono molti italiani anche in virtù della annunciata stretta ai costi della politica annunciata dal governo Lega-Movimento 5 Stelle. Quello degli stipendi dei politici nostrani è un tema che da sempre indispettisce l’opinione pubblica. Spesso si è discusso di un taglio a stipendi e vitalizi dei parlamentari, ma nonostante le buone intenzioni poco si è fatto di concreto a riguardo. Andiamo allora a fare i conti i tasca a Matteo Salvini che, abbandonata l’ipotesi di essere lui il premier, sarà sicuramente nella squadra di governo di questo in qualche modo storico esecutivo giallo-verde. Per quantificare quanto guadagna Matteo Salvini attualmente bisogna dividere le varie voci di introito. Come segretario della Lega, nel bilancio del partito non è specificato quale sia e se ci sia un compenso. Come consigliere comunale di Milano invece, il gettone di presenza è una cifra molto bassa, oltre il fatto che il leader del carroccio è considerato tra i più assenteisti dell’assemblea. Fino allo scorso marzo (si è dimesso subito dopo le politiche) Matteo Salvini era un europarlamentare eletto nelle elezioni del 2014. Vediamo allora il leader del carroccio quanto ha incassato in questi quattro anni passati a Bruxelles.
Lo stipendio lordo di ogni europarlamentare è di circa 8.000 euro al mese, pari a 6.200 euro netti. Per ogni giorno di presenza poi, Bruxelles elargisce un gettone pari a 304 euro. Ci sono poi diverse voci riguardanti i rimborsi spesa. Per ogni europarlamentare infatti è previsto anche un’indennità per le spese generali pari a 4.300 euro al mese. Ci sono poi i rimborsi per le spese di viaggio e l’indennità di viaggio annuale che è stimata nella cifra di 4.200 euro. In totale quindi, Matteo Salvini guadagna mensilmente come europarlamentare una cifra che può oscillare tra i 16.000 e i 19.000 euro, a seconda naturalmente di quante volte il politico si è recato a Bruxelles.
Oltre questo, ogni europarlamentare ha diritto ad un’indennità di fine mandato, a patto che non si ricoprano altre cariche, oltre che di una pensione al compimento dei 63 anni calcolata in base a quante legislature sono state svolte. Matteo Salvini nella sua attività politica ha svolto tre legislature come europarlamentare, quindi al compimento dei 63 anni al momento avrà diritto ad una pensione di 2.748 euro al mese.
Adesso che invece è stato eletto senatore, Salvini percepirà un’indennità mensile lorda di 11.555 euro. Al netto la cifra è di 5.304,89 euro, più una diaria di 3.500 euro cui si aggiungono un rimborso per le spese di mandato pari a 4.180 euro e 1.650 euro al mese come rimborsi forfettari fra telefoni e trasporti. Facendo un rapido calcolo e senza considerare le eventuali indennità di funzione i componenti del Senato guadagnano ogni mese 14.634,89 eurocontro i 13.971,35 euro percepiti dai deputati. Nonostante sia stato già in precedenza deputato, non ha comunque maturato gli anni necessari per ottenere anche una pensione come parlamentare italiano visto al seggio di Roma ha preferito quello di Bruxelles.
Salvini: "Mai avuto soldi da Mosca", scrive il 3 giugno 2018 "Rai News". "Non ho mai ricevuto una lira, un euro o un rublo dalla Russia, ritengo Putin uno degli uomini di stato migliori e mi vergogno del fatto che in Italia venga invitato a parlare uno speculatore senza scrupoli come Soros". Lo ha detto il ministro dell'Interno e leader della Lega Matteo Salvini in replica alle parole di George Soros.
Lega, caccia alla sede fantasma: pacchi, raccomandate (e pizze) respinti da mesi. Entra solo l’ufficiale giudiziario. In Via delle Stelline 1, Milano c'è la sede della nuova Lega di Salvini, costituita dopo che le procure si sono messe alla ricerca dei fondi di quella vecchia. La portinaia respinge la posta, le consegne vanno a vuoto. Solo l'ufficiale giudiziario raggiunge lo studio del commercialista dove il partito che esprime mezzo governo e il ministro degli Interni ha trovato riparo. Allo stesso indirizzo spuntano società schermate, scrivono L. Franco e T. Mackinson il 5 luglio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “La Lega qui? Mai sentito, no che non c’è”. In via Privata delle Stelline 1 a Milano cadono tutti dalle nuvole. Eppure lì c’è la sede le gale del partito di Salvini. E’ scritto nello statuto, è riportato nella Gazzetta Ufficiale. Lì è domiciliato il segretario. È vero, solo che nessuno lo sa. Non lo sa la portinaia che da 33 anni lucida le scale dello stesso palazzo a mattoni rossi: “Vi garantisco che qui non c’è, viene un sacco di gente a chiedere. Arriva della posta, ma ho ordine di rimandare tutto indietro. Non so perché diano questo indirizzo”. Neppure il postino lo sa, le raccomandate degli iscritti tornano indietro: “Destinatario sconosciuto”. I condomini neanche lo sospettano. Il partito che esprime metà del governo, a partire dal ministro degli Interni e vicepremier, alberga in zona De Angeli con molta discrezione, anche troppa. Proviamo allora a consegnare una pizza, a mo’ di pretesto per fare domande a chiunque viva o lavori nell’edificio: nulla di nulla. Alla fine, dopo molti tentativi andati a vuoto, è toccato scomodare l’ufficiale giudiziario chiedendo al tribunale di notificare alla Lega in via delle Stelline una intimazione a ritirare la posta. Stavolta la consegna va a buon fine, impresa in cui per sei mesi hanno fallito aspiranti tesserati, comuni cittadini e improvvisati garzoni di pizzeria. Non senza stupore, però: “Prima d’ora non avevo mai consegnato lì un atto per la Lega”, confida il responsabile per la zona dell’ufficio notifiche del Tribunale di Milano. Perché gli atti, ragiona, corrono sempre e solo otto chilometri più a Nord, nella storica sede di via Bellerio. Apprende così che la vecchia Lega, quella con il Nord e secessionista, è stata messa in soffitta. Sei mesi fa è stata creata la Lega per Salvini Premier. Sotto questo simbolo sono stati eletti i parlamentari a marzo e qui sono stati dirottati il 2 per mille e le nuove entrate, mettendole al sicuro dalla pretese della giustizia. La Procura di Genova dà ancora la caccia ai 48 milioni frutto della truffa allo Stato per cui un anno fa sono stati condannati in primo grado Umberto Bossi e Francesco Belsito. Sinora né ha trovati solo 3 e per questo ha chiesto di sequestrare ogni fondo riferibile al partito oggi guidato dal ministro dell’interno Matteo Salvini. “Sequestrate ovunque siano i soldi della Lega”, ha confermato la Cassazione. Solo che nel frattempo qualcuno l’ha clonata in via delle Stelline, dove non c’è quasi nulla, dove non si può consegnare una raccomandata. Giusto l’amministratore del condominio, alla fine, si fa sfiorare dal dubbio: “C’è uno studio di commercialisti, provate a chiedere a loro”. Si tratta dello studio Scillieri-Zito. Antonio Zito dice di saperne poco o nulla: “E’ una domiciliazione e basta, qui non c’è proprio nulla. Della Lega ho scoperto per caso, ma non conosco i clienti del collega perché non siamo soci, dividiamo solo gli spazi”. Il collega è Michele Scillieri. Ma non sono bastati due giorni di telefonate alla segretaria per parlare con lui.
I misteri di via delle Stelline e la società schermata. Eppure le domande sono tante, a iniziare da una: perché in via delle Stelline 1? I pm di Genova sospettano che i fondi delle vecchia Lega siano stati nascosti in Lussemburgo. Inchieste giornalistiche accreditano uno spostamento del baricentro finanziario della nuova Lega (di Salvini) da Milano a Bergamo. L’Espresso, in particolare, ha raccontato come proprio una holding del Granducato sia dietro sette società con sede legale allo stesso indirizzo di due commercialisti di Bergamo, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Insieme al tesoriere del partito Giulio Centemero hanno creato l’associazione “Più voci”, destinataria di un contributo da 250mila euro del costruttore romano Luca Parnasi, arrestato nell’inchiesta sullo stadio della Roma. Manzoni e Di Rubba sono anche direttore amministrativo del gruppo leghista alla Camera e revisore di quello al Senato. Insomma sono i commercialisti scelti da Salvini, insieme al tesoriere Centemero, per gestire i conti del Carroccio. Ma non sono i soli, visto che ora è saltato fuori pure lo studio di commercialisti di via delle Stelline 1. Dalle ricerche de ilfattoquotidiano.it emerge che, oltre alla Lega, ha sede a questo indirizzo anche la società Taaac srl, i cui proprietari sono nascosti dietro una fiduciaria con in pancia il 100% delle quote e il cui atto costitutivo è stato firmato nemmeno un anno fa nello studio di Alberto Maria Ciambella. E chi è? Proprio il notaio che ha registrato gli atti costitutivi delle società bergamasche e i rogiti con cui – secondo il settimanale – la Lega avrebbe disseminato il suo ricco patrimonio tra le varie sezioni regionali. A schermare la proprietà di Taaac è la San Giorgio Fiduciaria srl di Giorgio Balduzzi, un nome che si ritrova anche dietro alcune delle società bergamasche citate da L’Espresso. Amministratore unico è Vanessa Servalli, titolare di un bar a Clusone (Bergamo) che, oltre a Taaac, amministra anche un’altra società, la “Non solo auto”, che appartiene a Manzoni e Di Rubba, vale a dire i famosi fondatori di “Più Voci”. Se gli incroci non sono già abbastanza, Servalli è anche moglie del cugino di Di Rubba. Tutte coincidenze o ci sono legami tra Taaac e Carroccio? Sul punto Balduzzi è evasivo: “Non lo so, non rientra nelle mie conoscenze”, risponde, pur sapendo chi sono i proprietari di Taaac che hanno scelto la sua fiduciaria per restare anonimi. “Non c’è nessun legame”, sostiene il leghista Centemero. Ma i tentativi di avere anche la versione di Servalli vanno a vuoto, visto che due giorni di telefonate al bar non sono sufficienti per riuscire a parlare con lei. Resta così un mistero. Cosa ci faccia la società amministrata da una barista di Clusone e con soci senza volto in via delle Stelline 1. Allo stesso indirizzo della sede della nuova Lega.
Lo sconcerto dei militanti, impossibile capire a cosa si tesseri un leghista che paga la quota. "Scrivi, nessuno risponde". Salvini cambia statuto e sede legale, che non è più via Bellerio dove bussano i magistrati. Ma qualcosa non va: nella nuova le raccomandate dei potenziali iscritti tornano indietro, mentre le mail per il tesseramento si moltiplicano, tanto che alla fine uno crede di tesserarsi al partito che fu di Bossi, mentre si iscrive a quello di Salvini. Il secondo partito più potente d'Italia poggia oggi su un coacervo di sigle, indirizzi, articolazioni. Eccole, scrive Giuseppe Pietrobelli il 5 luglio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Provate a scrivere alla Lega Nord, o meglio alla “Lega per Salvini premier” chiedendo di aderire al movimento e di ricevere le coordinate di pagamento. Inviate una lettera all’indirizzo indicato all’articolo 4 dello statuto approvato sei mesi fa, che non corrisponde alla storica via Bellerio, ma a un anonimo condominio nel quartiere De Angeli, in via Privata delle Stelline 1 a Milano. La raccomandata con ricevuta di ritorno non sarà recapitata perchè l’utente è sconosciuto. E quindi tutto tornerà al mittente, con l’indirizzo barrato e la specificazione del postino di aver lasciato un avviso. Incredibile, ma vero. Possibile che il partito del neo ministro dell’Interno sia un contenitore vuoto? O per lo meno un luogo dove la corrispondenza non può arrivare? Eppure per un movimento politico il luogo della sede, anche amministrativa, è importante. Non a caso deve essere indicato negli atti costitutivi, titolo necessario per ottenere i finanziamenti in base alla legge 149 del 2013 che abolì il finanziamento pubblico, per reintrodurlo sotto forma di benefici, e impose norme di trasparenza nella gestione dei partiti e nel controllo dei loro bilanci. E’ difficile pensare che le scatole cinesi delle sigle e degli indirizzi, che di solito accompagnano le società di comodo, si debbano estendere anche a quello che è uno dei due partiti più potenti d’Italia. Eppure è così, la Lega di Salvini è in buona parte una clonazione della Lega Nord per l’indipendenza della Padania creata e voluta da Umberto Bossi. Ma la mutazione genetica del Carroccio ha portato a un coacervo di sigle, che riflettono il passaggio dal sogno della Padania al più concreto partito nazionalista italico, in realtà una entità giuridica diversa dalla Lega Nord, rendendo perlopiù impossibile capire a che cosa si tesseri un leghista che paga la quota. Forse anche per evitare che siano pignorati beni e denaro, visto che i magistrati di Genova aspettano dalla Lega Nord la restituzione di 48 milioni di euro per le malefatte dell’epoca in cui il segretario era Bossi e il cassiere era Pasquale Belsito. Ad accorgersi delle lettere che non possono essere recapitate è stato un vecchio leghista del Nord Est, piuttosto arrabbiato nel vedere la nomenklatura bossiana messa in un angolo. Come testimoniano le foto delle buste tornate al mittente, a tre mesi dal deposito dello Statuto “non ho trovato sul territorio di Bolzano e provincia una articolazione territoriale regionale o provinciale che rilasci la tessera riferita al nuovo partito e da non confondere con un partito simile di nome ma giuridicamente differente, ovvero la vecchia Lega Nord per l’indipendenza della Padania”. Chiede poi a quanto ammonti la quota da versare per l’iscrizione al partito di Salvini. Era il 21 marzo quando ha spedito la raccomandata, non ha più ricevuto risposta se non il tagliando della notifica a vuoto in via Privata delle Stelline 1, sede legale della nuova Lega, dove neppure una pizza va in porto e la portinaia rispedisce la posta al mittente. Vediamo allora da dove nasce questa strana storia. Il 14 dicembre 2017 la Gazzetta Ufficiale pubblica lo statuto del Movimento politico “Lega per Salvini premier”. E’ il preludio alla campagna per le politiche di marzo. La nuova Lega è senza confini territoriali, visto che le “articolazioni” (articolo 2) comprendono regioni appartenenti a quella che un tempo veniva chiamata la Terronia: Lazio Campania Puglia Basilicata e Calabria. All’articolo 4 ecco il nuovo indirizzo. La parola Lega compare, ma mai abbinata a quella del Nord. Salvini ha archiviato la Padania e indica quale finalità “la pacifica trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato federale attraverso metodi democratici ed elettorali”. Tanto per scacciare le antiche ombre delle inchieste veronesi del procuratore Guido Papalia su “camicie verdi” e secessionismo come attentato all’integrità dello Stato. La struttura imponente della Lega per Salvini prevede congresso federale, consiglio federale, segretario federale… Ma per entrare nel consiglio servono almeno cinque anni consecutivi di militanza come soci ordinari, eventualità che potrebbe verificarsi solo a partire dalla fine del 2022. Che la sede non sia un accessorio lo dimostra l’articolo 13: il segretario federale “elegge domicilio legale presso la sede di cui all’articolo 4 dello Statuto”. Quindi in via Privata delle Stelline 1, dove però la corrispondenza non può essere recapitata. La Lega per Salvini è un fatto di sostanza, visto che raccoglie (articolo 34) i parlamentari eletti (124 deputati e 58 senatori) e riuniti in gruppo con quel nome nuovo (e non più quello della Lega Nord), che contribuiscono alle spese. Gli amanti delle scadenze congressuali non abbiano fretta. Perché nelle “disposizioni transitorie” è previsto che “a far data dalla costituzione della Lega per Salvini premier i soci fondatori compongono il Congresso federale e agiscono, altresì, in qualità di consiglio federale sino al successivo Congresso federale elettivo, che dovrà essere svolto entro 12 mesi dall’approvazione del presente statuto”. Per il dibattito c’è tempo. E Salvini ha anche la facoltà di cambiare la sede del suo partito, mentre la magistratura aspetta di entrare in possesso dei 48 milioni di euro delle truffe addebitate alla Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, che a questo punto è un’entità separata dalla Lega per Salvini premier, anche se la sede operativa resta in via Bellerio. Cosa deve fare un fan del ministro dell’Interno che voglia iscriversi alla Lega (o Lega Nord…) se non può utilizzare le poste? Semplice, andare in rete e digitare Salvini premier, che a questo punto dovrebbe cambiare la ragione sociale in “Lega per Salvini ministro dell’Interno”, se non vuole fare la figura di chi è stato anestetizzato nelle sue velleità dai grillini diventati compagni di strada. Clic. Da uno dei molti siti compaiono il faccione barbuto del segretario e il suo dito che indica il dovere. “Sei un leghista vero! Aspetto anche te. Lega da Nord a Sud con Salvini premier”. Ed ecco il primo dei molti indirizzi a cui rivolgersi: tesseramentolega@gmail.com. Il problema è che uno crede di iscriversi al partito che fu di Bossi, mentre si iscrive a quello di Salvini e non ci capisce più niente. Cliccate su wwwleganord.org ed entrerete nella homepage del Carroccio. La parola “Nord” appare ancora nell’intestazione, ma già depotenziata. Perché è tutto un tripudio di “Lega – Salvini premier” che costituisce il nuovo brand nazional-populista. Con un trionfante culto della personalità. Nella sola home-page di un giorno qualsiasi, con qualche finestra che si apre sulle news, la sola fotografia del segretario (in realtà “il capitano”) compare 45 volte. Neanche Berlusconi, neanche Mao Tse-Tung. Ed ecco per un attimo il nome di Bossi alla presidenza degli organi federali. Ma il sito è ondivago, fuorviante e sicuramente smemorato. Perché mostra inizialmente lo statuto della vecchia Lega Nord approvato nel 2015 (quello in cui sono ancora citati i “padri fondatori della Padania” che fecero lo storico annuncio a Venezia il 15 settembre 1996). Ma la storia del movimento è inspiegabilmente aggiornata solo al 2010. Poi il nulla. E quando si aprono le finestre del tesseramento il balletto vecchio-nuovo viene mascherato astutamente con una citazione contraddittoria – “Sostieni la grande battaglia federalista per la Libertà della Padania!” e una varietà frastornante di indirizzi. Le informazioni sono in tesseramento.federale@leganord.org. Gli indirizzi delle sedi locali cui rivolgersi sono in www.leganord.org. Ma a Treviso, per fare un esempio, la segreteria locale risponde via mail chiedendo dove risiede chi vuole tesserarsi, poi, avuta la risposta, nessuno si fa più vivo. E chi voglia farlo in rete deve andare sul sito www.tesseramentonline.leganord.org. Qui i residenti nelle 13 storiche Nazioni bossiane possono tesserarsi a “Lega Nord – Salvini premier” dove il Nord compare ancora. Cambiano gli indirizzi ma per Antonio Da Re, segretario regionale della Liga Veneta, non cambia nulla: “Chi si iscrive alla Liga Veneta si iscrive alla Lega Nord, il Movimento per Salvini premier è fatto per intercettare le adesioni del centro-sud dell’Italia”. Gli altri si devono rivolgere a tesseramento.legapersalvinipremier.it, che è la sigla del partito che ha sede nel condominio dove la corrispondenza non può essere recapitata. Per il semplice fatto che il destinatario è sconosciuto. Fossimo il ministro dell’Interno, manderemmo qualcuno a dare un’occhiata.
Nord e magia, scrive Sebastiano Caputo il 2 luglio 2018 su "Il Giornale". Cambiano le geometrie della politica italiana ma il raduno di Pontida sembra rimanere nell’immaginario leghista il punto di congiunzione tra passato e futuro, identità culturale e innovazione estetica, ideologia e orizzonti ideali. Forse solo un massimo esperto di folklore e religioni del Mezzogiorno d’Italia come Ernesto de Martino potrebbe spiegare l’evoluzione di questa kermesse che per la prima volta della sua storia, nel linguaggio come nella partecipazione, è riuscita a riunire persone provenienti sia dal Centro che dal Sud Italia – le due macroregioni che Gianfranco Miglio rinominò “Etruria” e “Mediterranea” – al punto che l’intervento senza complessi di Nello Musumeci, Presidente della Regione Sicilia, ha strappato gli applausi persino dagli irriducibili che indossavano ancora i fazzoletti verdi di bossiana memoria. Non mancano i riti insieme a quel cerimoniale che guida questo incontro lontano anni luce dai soliti aperitivi elettorali stracittadini. C’è una dimensione mistica su quel pratone in provincia di Bergamo. A cominciare dall’albero della vita in ricordo di Gianluca Buonanno che ha sostituito la divinizzazione dell’ampolla del Dio Po. E ancora Alberto da Giussano, figura ricorrente, e con lui la simbologia che va dal carroccio fino agli elmi e le corna. L’uomo meridionale, per sua natura, ne è attratto, scoprendo così che anche a Nord, in fondo, l’Italia, vive ancora di superstizioni, culti, misteri, incantesimi. E’ l’elemento magico, soprannaturale, che subentra di forza di fronte all’indigenza, la precarietà dell’esistenza, il pericolo, che attanaglia un’intera penisola, senza distinzioni territoriali. Matteo Salvini a Pontida sembra un caudillo sudamericano, trascinato da una folla che si rispecchia nel capo carismatico, espressione di una nuova sintesi geografica impensabile fino a qualche anno fa. Perché alla base del suo successo c’è il compimento di un vero e proprio capolavoro politico. Quando diventò segretario, la Lega era un partito in via d’estinzione, poi col passare dei mesi e degli anni, Salvini è riuscito a cambiare linguaggio (“Prima gli italiani” anziché “prima il Nord”), estetica (il blu anziché il verde), obiettivi (la nazione anziché la secessione), superando la dicotomia destra-sinistra e aprendo le porte della Padania a tutti gli italiani. La transizione sovranista, dettata da un sentimento popolare diffuso e allo stesso tempo da un fiuto politico sorprendente, ha ribaltato gli schemi tradizionali della politica e integrato ad un progetto ideologico più ampio candidati indipendenti appartenenti ad una classe intellettuale priva di punti di riferimento. Così oggi, dopo aver messo all’angolo Silvio Berlusconi, Matteo Salvini si ritrova al governo con un Movimento 5 Stelle molto più pragmatico e organizzato, che non ha paura di condurre battaglie impopolari, nel nome dell’interesse nazionale. Mario Sechi su List, riporta un passaggio necessario del libro L’anno dei barbari di Giampaolo Pansa” in cui Franco Zeffirelli racconta le sue impressioni su Pontida nel lontano 1993. “La Lega mi interessa molto. Questi uomini, i nostri contemporanei che l’hanno espressa, mi piacciono. E gente pesantemente calunniata. Hanno detto di loro cose incredibili, che non hanno alcun fondamento. Qui non c’è nessuna traccia di fascismo e di razzismo […] Mi pare una franchezza di linguaggio che era ora di adottare. Qui la gente parla come mangia, per fortuna! L’Italia non è omogenea, né etnicamente né culturalmente. Dunque le idee della Lega si possono applicare ovunque!”. “Il Maestro Zeffirelli” come lo chiamava Sechi, allora giovane inviato, aveva centrato il punto essenziale del fenomeno leghista in un Paese che per tradizione ha sempre disprezzato l’autorità ed è rimasta sempre fedele alle sue specificità territoriali, culturali, linguistiche. Un Paese, anti-unitario per vocazione, federalista per temperamento, anarchico per definizione, che a Pontida, epicentro della secessione, ha ritrovato un compromesso geografico storico.
Senti chi parla….
Boom di meridionali al raduno Lega, Bossi: “Vabbè, ci sono gli Africa…”, scrive Saverio Nappo su Internapoli il 3 luglio 2018. Nel weekend appena trascorso, si è tenuto il raduno leghista a Pontida. Luogo sacro per il sentimento e l’orgoglio leghista, si tiene ogni anno a due passi dalla sorgente del fiume Po. Gli enormi spazi, i prati e le vie concessi dal Comune di Pontida vengono invasi dai seguaci del partito che fu di Umberto Bossi e che ora è guidato da Matteo Salvini. Proprio grazie all’illuminante visione politica di Salvini, intelligente nell’intercettare il diffuso malcontento che caratterizza il Paese reale, la Lega Nord ha raggiunto livelli di consenso popolare che mai aveva conosciuto sotto la guida chiusa e dichiaratamente separatista di Umberto Bossi. Il neo Ministro dell’Interno nonché Vice Premier – assieme a Di Maio del M5s -, per sbaragliare la concorrenza politica dei suoi alleati, in primi, e dei suoi competitor, poi, ha puntato sull’apertura all’elettorato del Sud Italia. Elettorato da sempre agli antipodi degli ideali, se così possiamo definirli, della Lega Nord.
A Bossi, i meridionali al raduno proprio non piacciono. Una mossa, quella del team-Salvini, che è risultata vincente. La voglia di cambiamento, la speranza per un cambiamento di rotta e il ritorno dell’intolleranza hanno reso cieco l’elettorato meridionale. Che si è lasciato convincere. E che ha votato Lega Nord, in massa. La storia della nuova generazione leghista, non più razzista e anti meridionalista, francamente, ha convinto solo l’elettorato medio, in evidente difficoltà di comprensione della verità vera. Il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio. Ecco, quindi, che ciò che era chiaro a molti, è diventato cristallino a tutti. Grazie ad Umberto Bossi, non a caso. Durante il raduno di Pontida, il collega del Corriere del Mezzogiorno ha intervistato il Senatùr, chiedendogli un parere sul boom di neo leghisti meridionali arrivati al raduno. Bossi non ci ha pensato minimamente a seguire l’esempio del suo successore. Non ha indorato alcuna pillola e ci è andato giù pesante, schietto e sincero. «Eh, come no, se ci porti anche gli Africa… ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi». Poi, ancora. «Guardi, ho visto un sacco di gente interessata solo ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria Sanità». Chissà cosa ne pensano i fan della Lega che poi sono rientrati al di sotto del Garigliano.
Bossi shock contro Salvini: «Pienone di meridionali a Pontida? Vogliono farsi mantenere...», scrive Martedì 3 Luglio 2018 "Il Mattino". Al raduno di Pontida in molti hanno notato una novità, impensabile fino a qualche anno fa: c'erano tantissimi meridionali. Un particolare strano, se si pensa che la Lega dalla sua nascita professava la secessione del Nord Italia lasciando fuori i meridionali. Quest'anno però Matteo Salvini, che si è professato di 'allargare' il consenso del Carroccio in tutta Italia, ha fatto il pienone. All'ex leader Umberto Bossi però non è andata giù. Intervistato dal Corriere della Sera, il Senatùr ha usato parole forti: «E come no. Se ci porti lì anche l'Africa... Ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi», ha detto Bossi, che a Pontida non ci è andato. Aveva mal di schiena, «non stavo tanto bene», si giustifica. C'erano autobus che portavano militanti anche dal Sud. «Guardi - replica Bossi - ho visto solo un sacco di gente interessata ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non c'è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria sanità. Cosa si vuole, che si continui a caricarla addosso alle regioni settentrionali?». Quando gli fanno notare che la Lega ora è accreditata al 30%, mentre con lui al massimo aveva preso il 10%, risponde: «Non credo molto ai sondaggi, la gente vota nelle urne. E comunque, se tutti i giorni fai una promessa e sollevi polveroni qualcuno finisci per tirarlo dalla tua parte. Ma i cittadini mica sono stupidi. Oggi ti votano, domani ti voltano le spalle se non mantieni tutte le promesse che hai elargito». Anche la federazione europea lanciata da Salvini non gli va giù: «Ma non si va da nessuna parte, non scherziamo. Come potete pensare che francesi o tedeschi si facciano mettere il cappello in testa da noi italiani? Su dai, guardiamo in casa nostra e rispondiamo alla nostra gente. Quella del Nord, eh...».
IL GIUSTIZIALISMO CHE VERRÀ, scrive Giuseppe Sambataro il 14 giugno 2018 su The Vision. Il governo Lega-5Stelle è finalmente realtà, e con esso quel brivido lungo la schiena ogni volta che viene nominato il Ministro dell’Interno Matteo Salvini. A poche ore dalla conferma dell’esecutivo, il leader leghista ha promesso che renderà lo slogan “A casa loro” una delle sue priorità. “Sogno un Paese con qualche tassa in meno e molta sicurezza in più,” ha aggiunto il neo-ministro, “basta sconti di pena per assassini, pedofili e stupratori. Uno che mette le mani addosso a un bambino o a una donna non deve più uscire di galera.” In questo intervento vengono ribadite, se mai ce ne fosse bisogno, le intenzioni del nuovo governo in tema di sicurezza e giustizia, già messe nero su bianco nell’ormai iconico “Contratto per il Governo del Cambiamento”. Una frase in particolare, nelle cinque pagine del capitolo dedicato alla giustizia, sembra riassumere al meglio la visione grilloleghista: “È opportuno ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi.” Tra le modifiche proposte, da una parte pene più alte, più carcere (anche per i minori), tempi di prescrizione più lunghi e più legittima difesa; dall’altra, meno depenalizzazioni, meno garanzie per gli indagati, meno possibilità di accedere ai riti alternativi e di scontare parte della pena fuori dalle mura carcerarie. In generale si registra una netta inversione rispetto alla riforma penitenziaria quasi approvata al termine della scorsa legislatura, che cercava di ridurre al minimo la risposta punitiva in favore di misure di reinserimento sociale più in linea con il dettato costituzionale. Non si è fatta attendere la reazione degli avvocati penalisti, che hanno definito la proposta, in ordine di bontà, una risposta “puramente demagogica”, l’espressione di una “cultura contraria alla visione liberal-democratica che ispira i moderni ordinamenti” e una “supercazzola forcaiola”. Marco Travaglio – tifoso grillino della prima ora nonché uno dei più grandi equivoci degli elettori di sinistra durante il ventennio berlusconiano – ha accolto con entusiasmo il contratto giallo-verde, che “non ha paura di parlare di più carcere e più carceri, meno prescrizioni, pene più severe e più certe […] meno garanzie per chi commette i reati e più garanzie per chi li denuncia e li subisce. I puristi […] del sesso degli angeli e del giudiziariamente corretto storcono il naso con argomenti triti e ritriti […] Dei loro slogan i cittadini si infischiano: se vedranno qualche delinquente a spasso in meno, qualche irregolare espulso in più […] saranno felici e grati al governo (e noi con loro).” Considerato il peso che i due partiti firmatari hanno sempre dato a questi temi, e visti i risultati delle scorse elezioni, sembra purtroppo che Travaglio abbia ragione. L’idea di giustizia che emerge dal “Contratto” è infatti un ibrido dei leitmotiven delle due forze politiche, che sul tema sembrano essere riuscite particolarmente bene a trasformare in programma di governo il consenso populista di cui hanno sempre goduto. C’è innanzitutto l’idea di sicurezza della nuova Lega salviniana, costruita attorno ai concetti di ordine pubblico e di difesa dal nemico, poco cambia se è un immigrato che scavalca il confine o un ladro che scavalca il muretto di casa. Chi sbaglia paga, meglio se finisce in carcere e meglio ancora se ci rimane. A tutto questo si aggiunge il dogma grillino dell’onestà, alla luce del quale il disonesto è un criminale da mettere alla gogna con rabbia tangentopolesca. Non è un caso che Danilo Toninelli, concentratissimo capogruppo dei cinquestelle al Senato e ora ministro delle Infrastrutture, abbia promesso di rendere l’Italia uno “Stato etico”. Voluto o meno, il riferimento al modello teorico dei regimi totalitari, in cui ciò che è immorale è anche illegale, non fa ben sperare. Il fascino di questo mix di securitarismo e giustizialismo si spiega in buona parte con il bisogno degli elettori – banale ma quantomai diffuso in questo periodo di forte instabilità – di essere rassicurati. Impoveriti, incazzati, quotidianamente bombardati dalla retorica dell’invasione e da quella della casta, i cittadini proiettano le loro incertezze economiche su un sentimento di insicurezza sociale e rabbia indiscriminata contro il Palazzo, sfogando le loro frustrazioni nella richiesta di forche e manette. I dati però fanno emergere un’altra realtà. Dal 2014 a oggi si assiste infatti a un calo costante di reati, con percentuali impressionanti per quanto riguarda i crimini che più colpiscono l’opinione pubblica: -25,3 % di omicidi, -20,4% di furti e -23,4% di rapine. Aumenta la sicurezza oggettiva, ma evidentemente non quella percepita. Come risulta da un sondaggio realizzato prima delle scorse elezioni, il 70% degli italiani dice di sentirsi insicuro. Candidandosi alla guida del paese, Lega e M5S hanno preferito seguire gli umori dei cittadini piuttosto che prendere atto della realtà. È emblematico in questo senso il paragrafo del “Contratto” sulla legittima difesa: nonostante le aggressioni alla proprietà privata diminuiscano, alcuni casi assumono rilievo mediatico a livello nazionale, tanto basta per incentivare i cittadini ad armarsi. Già oggi la difesa da un’aggressione ingiusta è considerata legale quando necessaria e proporzionale. Presumere che lo sia sempre equivale però a dare licenza di uccidere al minimo sentore di pericolo. La parte sul carcere poi sembra il copia-incolla dei commenti incattiviti sotto le notizie di cronaca nera su Facebook. Anche in questo caso vengono ignorate, più o meno consapevolmente, alcune acquisizioni scientifiche ben consolidate. E non solo perché allargare l’utilizzo della pena detentiva contrasta con il principio penale per cui la si dovrebbe invece limitare il più possibile, ma sopratutto perché, numeri alla mano, il carcere è inutile. Lo dimostrano i tassi di recidiva: il 68% di chi sconta la pena dietro le sbarre torna infatti a delinquere. Non servono grandi studi per capire perché. Tra le mura di un istituto di pena ci sono buone probabilità di entrare in contatto con subculture criminali da cui sarà quasi impossibile emanciparsi una volta fuori. Il sovraffollamento patologico e le precarie condizioni delle infrastrutture — problematiche già più volte condannate anche a livello europeo — non fanno che aggravare la situazione. È proprio alla luce di queste considerazioni che la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 ha introdotto le cosiddette misure alternative, che consentono al condannato di scontare tutta o parte della pena fuori dal carcere attenendosi agli obblighi stabiliti dal giudice. La percentuale di recidiva, per chi ne beneficia, si ferma circa al 19%. In spregio a queste evidenze empiriche, nell’architettura grilloleghista il carcere è una colonna portante, un edificio con molte entrate ma con le uscite sbarrate. In generale, la tesi per cui se si aumentano le pene diminuiscono i reati non regge, come dimostra quanto accaduto con il reato di omicidio stradale. Introdotto dal governo Renzi, ha ottenuto risultati a dir poco deludenti nonostante le sanzioni stratosferiche previste. Questa stessa visione semplicistica si ritrova nel “Contratto” di Lega e 5Stelle, dove l’unica risposta possibile è quella repressiva, anche quando finisce col danneggiare l’intera collettività. Il discorso è valido anche per le altre proposte, tutte tese a ridurre le garanzie di chi deve difendersi da una pubblica accusa, nonostante il fatto che per il nostro sistema un indagato sia innocente fino a prova contraria. L’allungamento della prescrizione e le limitazioni alla possibilità di accedere ai riti alternativi, che accorciano i tempi processuali, possono avere come unico e logico risultato quello di appesantire ulteriormente una giustizia penale già costretta ad arrangiarsi come può. Sarà questa la forma dell’ingiustizia del futuro, al continuo inseguimento delle paure dei cittadini, a prescindere dall’efficacia delle misure che si propone di introdurre. Concetti come “giustizia” e “sicurezza” diventeranno vuoti simulacri, strumenti al servizio della sola volontà di punire. Niente di nuovo, del resto. Fino al XVIII secolo la pena veniva espiata sotto gli sguardi eccitati del popolo, che accorreva nelle piazze per assistere estasiato ai pubblici supplizi. Certo, oggi nessuno viene più decapitato, lapidato o smembrato vivo, ma la sete di vendetta collettiva rimane la stessa. Che il futuro ci riservi un Far West di giustizieri dal grilletto facile, piuttosto che pattuglie dell’onestà pronte ad ammanettare chi non timbra il biglietto in tram, poco cambia. Avremo comunque rinunciato ad analizzare la criminalità come un fenomeno sociale, preferendo rinchiudere in gabbia chi commette un reato piuttosto che investire in sistemi di recupero davvero efficaci. Di certo, la sicurezza non aumenterà e la giustizia non sarà più efficiente. “È il populismo penale, dolcezza,” e non importa che sia contrario a tutte le conoscenze che si hanno in materia, non importa che il risultato ottenibile sia l’esatto opposto di quello sperato, basta che tranquillizzi, almeno per un po’.
Riciclati, parenti, amici e partiti su misura, così Salvini ha modificato geneticamente la Lega Nord, scrive Giovanni Drogo l'11 dicembre 2018 NextQuotidiano. Lega Nord per l’indipendenza della Padania, Lega, Lega per Salvini Premier, Noi con Salvini; quanti sono i nomi che in questi ultimi anni ha assunto il partito fondato da Umberto Bossi? Quando c’era il Senatùr e la Lega se la prendeva con Roma ladrona e i terroni a Nord di lega (o liga) ce n’erano più d’una: erano i vari movimenti “nazionali”, le anime regionali del partito federale e federalista per eccellenza. Con l’avvento di Matteo Salvini e l’avventura al Sud il partito ha abbandonato la vocazione nordista per abbracciare quello che è il suo nuovo slogan: Prima gli Italiani.
Quante Leghe ci sono attorno a Salvini. Il problema però è che di Lega non ce n’è una sola. Come ha rivelato il Fatto Quotidiano a luglio esistono sia la Lega che la Lega per Salvini premier (quest’ultimo nato nel 2017). Anche la sede del partito non è più quella storica di via Bellerio ma quella – non meglio identificata – in via Privata delle Stelline 1 dove la nuova Lega ha la sede legale. Della Lega il segretario è Matteo Salvini, della Lega per Salvini premier invece non si sa chi sia, perché non il segretario da statuto andrebbe eletto con un congresso. Che però non è mai stato celebrato. Il vicepremier risulta essere così “solo” il proprietario del simbolo. Ma c’è di più, come ha rivelato ieri il servizio di Claudia Di Pasquale per Report chi si tessera in Nord Italia si iscrive alla Lega (la vecchia Lega Nord) che ancora ha al primo punto dello statuto il raggiungimento dell’indipendenza della Padania. Chi invece si iscrive al Sud lo fa al nuovo partito, la Lega per Salvini Premier che invece ha come obiettivo la trasformazione dell’Italia in uno stato federale.
Quarantanove milioni di Lega sotto i mari. Ma perché la Lega ha creato questo strano sistema di partiti doppione? Il motivo non è solo quello di riuscire a sfondare al Sud facendo dimenticare l’odio dei polentoni per i terroni. Secondo Report tutto nasce dalla vicenda che ha visto coinvolto Umberto Bossi, attuale presidente federale della Lega, e l’ex tesoriere Belsito. È la storia dei 49 milioni della Lega Nord per cui la procura di Genova ha chiesto il sequestro e dei quali Salvini ha annunciato di procedere con una restituzione a rate. Creando un nuovo partito sarebbe più difficile per la procura sequestrarne i conti della Lega per Salvini Premier per quanto “legato” alla vecchia Lega.
I bilanci della Lega mostrano che negli anni sono usciti 30 milioni di euro alla voce “oneri diversi di gestione”. C’è poi il sistema su cui sta indagando la Procura di Bergamo, si tratta di 250.000 euro donati dal costruttore romano Parnasi all’associazione Più Voci di cui è presidente proprio il tesoriere della Lega Giulio Centemero. Soldi che sono finiti a “Il Populista”, considerato l’house organ del partito e che è di proprietà – attraverso un’altra società – della Pontida Fin, l’immobiliare della Lega. Secondo quanto dichiarato a Report da Centemero Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio era a conoscenza di quello che “stavamo facendo” (con l’associazione Più Voci e le donazioni di Parnasi).
Come la Lega sta “svuotando” Forza Italia al Sud. Ma se la Lega di Salvini, quella del prima gli italiani, è maggiormente radicata al Sud (tant’è che Salvini è stato eletto in Calabria) chi sono i “nuovi” leghisti? Report ha inviduato il caso di Domenico Furgiuele, ex Alleanza Nazionale ora coordinatore della “Lega per Salvini premier” in Calabria, suocero di Salvatore Mazzei finto in carcere per cumulo di pena e ritenuto il “tramite tra l’imprenditoria e l’organizzazione mafiosa”. A Mazzei è stato sequestrato un patrimonio di 200 milioni di euro. Tra i beni sequestrati anche un immobile – di proprietà di una delle figlie di Mazzei, la moglie del deputato leghista – dove risultava avere domicilio proprio l’onorevole Furgiuele. Furgiuele sostiene di avere come l’unica colpa quella di essersi innamorato di una ragazza che poi è diventata sua moglie. Eppure risultava essere socio della Terina Costruzioni, una società che ha sede in una cava sequestrata di proprietà di Mazzei. Ma non è l’unico leghista del Sud finito nel mirino dell’inchiesta di Report. I leghisti del Sud provengono da altri partiti, molti sono ex Forza Italia che si sono “riciclati” grazie a Salvini. Tra questi l’ex consigliere comunale e provinciale di Reggio Calabria Michele Marcianò, ora nella Lega, che nel 2006 venne intercettato, ma non indagato, mentre conversava di a casa del boss Cosimo Alvaro dell’omonima cosca di Sinopoli. In Puglia tra i leghisti ex FI e “fittiani” c’è il senatore leghista Roberto Marti finito nell’indaginesui voti elettorali ottenuti in cambio di case popolari. Secondo i Pm nel 2015 Marti avrebbe partecipato insieme ad altri amministratori, al tentativo poi fallito di far assegnare un’abitazione già confiscata alla mafia al fratello di un boss. In Campania l’assessore leghista all’Igiene di Afragola Camillo Giacco – nipote dell’ex sindaco Vincenzo Nespoli – è indagato e rinviato a giudizio assieme allo zio. Curiosamente il senatore leghista Gianluca Cantalamessa (ex AN), segretario regionale per Lega Salvini Premier in Campania non era a conoscenza del fatto che Giacco fosse indagato. Cantalamessa non sapeva nemmeno della parentela tra Damiano Genovese, ex consigliere della Lega ad Avellino e Amedeo Genovese (suo padre). Genovese senior, attualmente all’ergastolo, è ritenuto il capo dell’omonimo clan. Rispetto alle vicende del padre Genovese ha dichiarato che «sono fatti di mio padre di vent’anni fa, e in questi anni niente, vita normale, vita serena». Cantalamessa ha detto che non l’avrebbero candidato «se avessimo saputo di una parentela» ma che Genovese si è dissociato. Ma non è così perché Genovese ha detto «per noi non era niente vero, diciamo non è mai esistito niente, cioè ci sono i pentiti e basta». In Sicilia va forte invece Noi Con Salvini il partito personale del Capitano che è sbarcato sull’isola nel 2015 e ha imbarcato un discreto numero di riciclati. Qui la vicenda diventa farsa, con la storia incredibile di Salvino Caputo, dirigente di Noi con Salvini arrestato con l’accusa di voto di scambio. Non potendo candidare Salvino NCS ha puntato tutto sul fratello Mario presentato in lista con il nome Di Caputo Mario, detto Salvino. A completare il quadro dei leghisti siciliani sotto indagine c’è anche Antonino “Tony” Rizzotto. Rizzotto è stato il primo “leghista” eletto all’Assemblea regionale siciliana e subito dopo “scoprì” di essere indagato per appropriazione indebita aggravata ai danni di un istituto di formazione di cui era Presidente. Non c’è che dire al Sud Salvini si sta dando davvero da fare, al punto che dopo le regionali del 2017 il partito è stato Commissariato e dal Nord è arrivato Stefano Candiani.
Riccardo Marchetti, l'enfant prodige della Lega che non riconosce neanche i fake su Facebook. Responsabile dei giovani del Centro-Sud del Carroccio, è molto vicino a Matteo Salvini. Ma fino a oggi è riuscito a farsi conoscere soprattutto per la gaffe sui social network, scrive Elena Testi il 05 dicembre 2018 su "L'Espresso". Capelli rasati, barba incolta alla Matteo Salvini in un gesto di piena emulazione venerante. Una carriera politica fulminea. Viene descritto, da chi lo ha incontrato all’inizio del suo cammino, come un giovane un po' arrogante, senza tanti scrupoli, e con un infantilismo latente. Riccardo Augusto Marchetti, classe 1987, è uno degli enfant prodige della Lega, nonostante i suoi 31 anni. Nominato da pochissimi giorni responsabile dei giovani del Centro-Sud del partito. Tra una scivolata e un post sui social network, questo liquidatore assicurativo, entrato in Parlamento dopo aver vinto nella circoscrizione Umbria 2 (Foligno - Alto Tevere), si sta facendo notare. Ha promesso dall’Umbria “oltre 300 persone (e il numero é destinato a salire ancora)” per la manifestazione della Lega fissata il prossimo 8 dicembre in Piazza del Popolo. Stessa cifra, neanche a farlo apposta, degli umbri partiti nel lontano 2013, quando Silvio Berlusconi fece il suo ultimo grande show, proprio in piazza del Popolo. Viene da chiedersi se non siano sempre gli stessi 300. Riccardo Augusto Marchetti, eletto consigliere comunale a Città di Castello nel 2016, è stato scelto da Matteo Salvini in persona per la scalata verso Montecitorio. Il giovane rampante, consapevole del ruolo istituzionale che andava a ricoprire, per un po' di tempo ha scelto come immagine di copertina Facebook: "L'Italia è una Repubblica fondata sul calcetto". Rispettoso anche dei basilari principi democratici, tanto che, quando, nelle zone colpite dal terremoto, ha prevalso il Pd alle amministrative, Riccardo Augusto Marchetti, in una spinta di senso auto-critico, ha scritto: "Il Pd vince nelle zone terremotate, si vede che amano il campeggio". Gentile e pronto sempre al dialogo, soprattutto con gli avversari politici: “I compagni non meritano un cazzo – scrive su Facebook -, neanche le buone maniere. Con loro botte da orbi, sempre e comunque”. Un giovane dal curriculum vitae rassicurante, dove alla voce competenze si legge: “Ottimo utilizzo della pistola con tiro al bersaglio anche mobili” e “conoscenza avanzata di armi d’assalto con corsi specifici svolti presso poligoni da tiro”. E infine “tiro a volo con arma liscia, tiro al bersaglio con armi a corda”. Un cv che lo ha sicuramente aiutato a depositare una proposta di legge, insieme ad altri colleghi di partito, “finalizzata a restituire il giusto e corretto equilibrio in materia di rilascio delle licenze di portare armi. Si registra, difatti, negli ultimi anni, un’applicazione delle norme che prescrivono i criteri per il rilascio delle licenze di portare armi che sta, irrazionalmente, rendendo questo diritto sempre meno accessibile”. C’è chi negli ultimi giorni lo ha visto aggirarsi per i corridoi di Montecitorio con un lieve rossore sul viso, tutta colpa di quel post condiviso sulla sua bacheca. L’onorevole Marchetti, laureato in Scienze dell’Investigazione a Narni, ha pubblicato con entusiasmo un post del falso account di Paolo Savona: "Raramente ho visto riassumere la situazione politica internazionale – ha scritto - in maniera tanto chiara e sincera in così pochi caratteri!!! Come sempre, immenso ministro Savona!!". Insulti e sberleffi. Quando la parlamentare del Pd Anna Ascani, oltretutto concittadina (sono entrambi di Città di Castello), si è permessa di fargli notare che quello non era il vero ministro per gli affari europei, è subito scoppiata una guerra sui social network. Il giovane leghista ha infine rimosso il post, ma ha sferrato l’attacco contro la nemica giurata: “Anna Ascani è la parlamentare più brava di tutti”. Accompagnato da un “ohhh scusate!!! Non mi ero accorto che fosse un fake”. Non è nuovo però a frasi a effetto criticate dall’opposizione, come quando scoppiò la polemica in consiglio comunale, sempre a Città di Castello. La lite si innescò dopo che Marchetti chiese per il “cittadino europeo islamico”, un’“espulsione di massa” e la “messa al bando della religione islamica”. Quando gli fecero notare che il suo ruolo istituzionale non gli permetteva l’uso di toni tanto accesi, rispose che “si trattava della sua bacheca personale” e che proprio per questo di un giudizio da “libero cittadino”. Insomma il nuovo enfant prodige della Lega emula perfettamente le orme del leader e non solo in fatto di barba. A quanto pare.
Lega, a Bergamo nuova inchiesta sui conti: indagato il tesoriere Centemero. Salvini: "Niente da cercare". La procura indaga sui 250mila euro versati dall'imprenditore Parnasi a una associazione legata al Carroccio. L'ipotesi: finanziamento illecito per aggirare la confisca dei 49 milioni di rimborsi, scrive La Repubblica" il 10 dicembre 2018. La procura di Bergamo ha aperto un filone di inchiesta sui conti della Lega: l'ipotesi sarebbe quella di finanziamento illecito ai partiti e nel fascicolo sarebbe indagato il tesoriere del “nuovo” Carroccio di Matteo Salvini, Giulio Centemero. La vicenda è quella dei presunti finanziamenti illeciti ai partiti da parte dell'imprenditore Luca parnasi, che avrebbe finanziato con 250mila euro l'associazione 'Più voci', con sede a Bergamo e riconducibile appunto alla Lega. Per i magistrati quei soldi rappresenterebbero un sistema per 'mettere al riparo' da possibili sequestri - dopo la sentenza della Corte d'Appello di Genova sui 49 milioni di euro confiscati alla Lega per la truffa dei rimborsi pubblici - qualsiasi altra somma arrivi dai privati al Carroccio. In mattinata il blitz della Finanza nella sede dei commercialisti del partito dove è registrata l’associazione 'Più voci'. Le Fiamme Gialle hanno acquisito documenti negli studi di due commercialisti di fiducia della Lega a Bergamo, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. "Ognuno faccia il suo lavoro. Non c'è nulla da trovare né da cercare. Spero facciano in fretta": così il segretario della Lega e ministro dell'Interno Matteo Salvini ha commentato l'inchiesta, all'arrivo nella sede di Assolombarda a Milano. L'indagine - come scrive “La Stampa” sarebbe alle battute iniziali: da Roma sono stati trasmessi gli atti che riguardano l'inchiesta sullo stadio della Roma per la quale era finito in carcere l'imprenditore Parnasi. I magistrati di Bergamo stanno quindi cercando di ricostruire i flussi di denaro in entrata e in uscita dall'associazione “Più voci” e da altre società collegate, che hanno sede sempre a Bergamo e allo stesso indirizzo, come la Mc srl, a cui fa capo la testata online 'Il populista', molto attiva nella diffusione della propaganda leghista.
Matteo Salvini, indiscrezione terrificante: "Nuova indagine sulla Lega, conti correnti al setaccio", scrive il 16 Dicembre 2018 Libero Quotidiano". La magistratura punta ancora i fari sulla Lega di Matteo Salvini. Dopo Genova, questa volta è la Procura di Bergamo, scrive Repubblica, ad aprire un nuovo filone di indagine sul Carroccio: la Finanza vuole vederci chiaro sui dipendenti in nero e sta passando al setaccio i conti correnti di decine di impiegati del partito. L'indiscrezione del quotidiano diretto da Mario Calabresi su questa inchiesta tenuta finora "nel massimo riserbo" rischia di abbattersi come una tempesta sul traballante patto tra Lega e M5s, visto che già l'indagine sul tesoriere leghista Centemero ha provocato la reazione scomposta dei grillini. Sullo sfondo di una partita così delicata come quella della manovra, in cui ciascuno dei due alleati tenta di guadagnare il massimo in termini di misure-bandiera e successo mediatico, difficile che Luigi Di Maio e compagni manettari (solo coi polsi degli altri, però) si lascino scappare l'occasione nei prossimi giorni di una bella polemica giustizialista.
Lega, ora la Finanza indaga sui dipendenti pagati in nero. Nuovo filone di indagine a Bergamo. Al setaccio i conti correnti di decine di impiegati, scrive il 15 dicembre 2018 Paolo Berizzi su "La Repubblica". Dipendenti pagati in nero. Alla faccia del contratto di lavoro, dei contributi, delle tasse, della trasparenza. Dipendenti non di un'azienda privata, ma di un partito - oggi al governo - che riceveva rimborsi elettorali e dunque soldi pubblici. C'è un nuovo filone di indagine sui conti della Lega: è un lavoro scrupoloso che la Guardia di Finanza sta portando avanti nel massimo riserbo in Lombardia. A partire proprio da quelle province roccaforti storiche del Carroccio:...
L’indagine sul lavoro nero nella Lega, scrive NeXt quotidiano il 16 dicembre 2018. C’è un nuovo filone d’indagine sulla Lega in Lombardia: la Guardia di Finanza sta lavorando sulle province storiche del Carroccio, Bergamo e Brescia, e Repubblica fa sapere oggi che sotto la lente ci sono i rapporti di lavoro che legano qualche decina di dipendenti al partito.
L’indagine sul lavoro nero nella Lega. Secondo le prime indagini sarebbero stati pagati in modo irregolare: e questo è il terzo “scandalo” politico sul lavoro nero che investe l’establishment italiano dopo le accuse al padre di Luigi Di Maio e a quello di Matteo Renzi. La Lega sta sommando indagini su indagini, visto che ci sono anche accertamenti sui 49 milioni di euro spariti e quelli sui finanziamenti alla Fondazione Più Voci in cui è indagato il tesoriere Giulio Centemero, oltre alle schermature lussemburghesi per movimentare i soldi.
Paolo Berizzi su Repubblica racconta la storia da cui è partita l’indagine: C’è un matrimonio. Lei è una dipendente di una sezione del Carroccio. Per tutelarla (in questa vicenda sarebbe parte lesa), la chiameremo Daria. Lui è un impiegato di Brescia. I due si sposano e quel sobrio banchetto nuziale che passerebbe altrimenti inosservato diventa invece uno spunto per i detective delle Fiamme gialle. Daria – da quanto emerso – per anni sarebbe stata pagata “off record”. Senza busta paga. E come lei altre decine di dipendenti leghisti. Una prassi che – stando ai primi accertamenti – sarebbe continuata e la cui anomalia adesso va a incastrarsi nel più complesso garbuglio dei soldi volatilizzati. Tre sono le procure al lavoro sulle finanze della Lega: Genova, Roma e Bergamo. La lente dei pm sta ingrandendo ad ampio spettro: si va dalla “rotta” percorsa da decine di milioni di rimborsi elettorali (l’ex tesoriere leghista Stefano Stefani sarà sentito dai magistrati genovesi: è lui che nel 2013 apre il primo conto in Sparkasse dove vanno i 10 milioni trasferiti dalle casse del Carroccio) alle donazioni del costruttore Luca Parnasi ad un’associazione (“Più voci”) legata al partito e costituita dal tesoriere (indagato) Giulio Centemero e da due amici commercialisti bergamaschi.
Il matrimonio leghista e l’indagine. Le ispezioni bancarie hanno riguardato anche alcuni dirigenti e deputati della Lega. Ma perché pagare in nero i lavoratori? Al di là dell’ovvio (risparmio su tasse e contributi) viene automatico ipotizzare altri motivi: non gravare sulle spese di bilancio o destinare i soldi “stralciati” ad altre voci, quegli “oneri diversi di gestione” avvolti da una nebulosa. La presunta “cresta” su cui sta lavorando la Finanza riguarderebbe una quarantina di dipendenti. Sull’organico dal 2015 si è abbattuta la spending review leghista: da allora molti sono in cassa integrazione in deroga, in vigore tuttora. E sono scesi da 80 a 29.
Legacadabra e i soldi sono spariti: il nuovo numero in edicola da domenica 16 dicembre. L'Espresso, in edicola da domenica 16 dicembre, nel servizio di copertina dal titolo "Legacadabra" ricostruisce le piste calde delle tre inchieste giudiziarie attualmente in corso sulla Lega: quella della procura di Genova, che indaga per riciclaggio, e quelle dei magistrati di Bergamo e Roma, concentrati invece sul finanziamento illecito. Tutte hanno al centro i conti del partito del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, disegnato da Makkox nel panni di un abile presitigiatore. Ma sul nuovo numero anche l'inchiesta sui crac di Condotte e le consulenze renziane del colosso e l'intervista a Gilles De Kerchove, numero uno dell'antiterrorismo europeo dopo l'attentato di Strasburgo.
Esclusivo: riciclaggio 49 milioni, perquisizioni in casa Lega. Blitz della finanza a Bergamo nella sede dei commercialisti del partito dove è registrata l’associazione Più voci finanziata dal costruttore Luca Parnasi, scrive Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 10 dicembre 2018 su "L'Espresso". Non c'è pace per la Lega di Matteo Salvini. Dopo la notizia dell'indagine sul finanziamento illecito in corso a Bergamo pubblicata dalla Stampa, c'è un'altra tegola che potrebbe provocare molta preoccupazione al ministro dell'Interno. Secondo quanto risulta all'Espresso, infatti, sono in corso una serie di perquisizioni a Bergamo presso lo studio di due commercialisti di fiducia del partito. La richiesta è partita dalla procura di Genova, che ha il fascicolo più scottante, quello sull'ipotesi di riciclaggio di parte dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali. Quasi 50 milioni oggetto di sequestro dopo la condanna in appello di Umberto Bossi e Francesco Belsito, l'ex tesoriere del Carroccio, colpevoli di truffa ai danni dello Stato. L'operazione in corso coordinata dai pm liguri è stata condivisa con la procura di Bergamo, che invece indaga sul finanziamento illecito all'associazione culturale leghista. Usata, è l'ipotesi, come schermo per incamerare donazioni senza farle passare dai conti del partito, finiti nel radar dei giudici per il sequestro milionario. Le perquisizioni di oggi si inseriscono proprio nello sviluppo di quest'ultima inchiesta coordinata dai magistrati e dalla guarda di finanza di Genova. Questa mattina gli investigatori hanno così suonato al civico 24 di via Angelo Maj, a Bergamo, per sequestrare i documenti della Dea Consulting, lo studio dei commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Si tratta di due professionisti di fiducia del partito, con incarichi in società della Lega e ruoli di controllo nei gruppi parlamentari del Carroccio. Insieme all'attuale tesoriere Centemero, Di Rubba e Manzoni hanno fondato nel 2015 l'associazione Più Voci, proprio quella al centro dell'ipotesi di finanziamento illecito secondo due procure, Bergamo e Roma. Nella Capitale il tesoriere è indagato per i soldi ricevuti dalla Più Voci tra il 2015 e il 2016 dal costruttore Luca Parnasi (250 mila euro) e da Esselunga (40 mila euro). Una vicenda giudiziaria nata dalla nostra inchiesta giornalistica dell'aprile 2018.L'associazione ha sede in via Angelo Maj, registrata presso lo studio Dea Consulting oggi intestato interamente a Di Rubba (poco dopo la nostra inchiesta Manzoni gli ha ceduto tutte le quote). È qui che i finanzieri sono giunti per acquisire materiale che possa aiutarli nel prosieguo dell'indagine sul riciclaggio. Dallo stesso studio si dipana il reticolo societario che porta in Lussemburgo via Svizzera: sette aziende italiane controllate da una holding del Granducato, la Ivad Sarl, che fa capo a una fiduciaria. Insomma, impossibile conoscere il proprietario delle sette aziende italiane domiciliate presso lo studio dei commercialisti della lega. E forse la guardia di finanza con il blitz di oggi sta cercando di capire proprio questo. L'attenzione degli investigatori genovesi, da quanto trapela, si sta concentrando oltreché su via Angelo Maj anche su Angelo Lazzari, il manager bergamasco di stanza in Lussemburgo. Proprio l'uomo che anni fa ha fondato la Ivad, la cui quota di controllo è stata in seguito trasferita alla Prima fiduciaria Spa e dunque schermata. Tutte notizie che L'Espresso aveva pubblicato in due servizi di copertina usciti tra aprile e giugno 2018. Fatti che evidentemente hanno attirato l'attenzione dei magistrati di Roma, Bergamo e Genova.
Esclusivo: ecco le reti segrete della truffa dei 49 milioni della Lega. Le associazioni per ottenere finanziamenti. E quelle per nascondere i soldi. Sullo sfondo l'ipotesi di riciclaggio in Lussemburgo, con un'azienda amministrata dal tesoriere del partito Centemero, scelto da Salvini. Ecco su cosa indagano i magistrati. L'inchiesta sulle piste calde in edicola domenica, scrive Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 14 dicembre 2018 su "L'Espresso". Un network di associazioni per ottenere finanziamenti illeciti. Un altro giro di sigle per nascondere i 49 milioni della truffa ai danni dello Stato. In più, una serie di società anonime sospettate di aver avuto un ruolo nel riciclaggio, tra cui una amministrata proprio dall'attuale tesoriere leghista Giulio Centemero. Ecco tutte le piste setacciate dalla magistratura. L'Espresso, in edicola da domenica 16 dicembre, nel servizio di copertina dal titolo “Legacadabra” ricostruisce le piste calde delle tre inchieste giudiziarie attualmente in corso sulla Lega: quella della procura di Genova, che indaga per riciclaggio, e quelle dei magistrati di Bergamo e Roma, concentrati invece sul finanziamento illecito. Tutte hanno al centro i conti del partito del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, e provano a dare una risposta a due domande. L'Espresso, in edicola da domenica 16 dicembre, nel servizio di copertina dal titolo "Legacadabra" ricostruisce le piste calde delle tre inchieste giudiziarie attualmente in corso sulla Lega: quella della procura di Genova, che indaga per riciclaggio, e quelle dei magistrati di Bergamo e Roma, concentrati invece sul finanziamento illecito. Tutte hanno al centro i conti del partito del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, disegnato da Makkox nel panni di un abile prestigiatore. Ma sul nuovo numero anche l'inchiesta sui crac di Condotte e le consulenze renziane del colosso e l'intervista a Gilles De Kerchove, numero uno dell'antiterrorismo europeo dopo l'attentato di Strasburgo.
Come riesce a finanziarsi la Lega visto che ha i conti correnti sotto sequestro? E dove sono finiti i 49 milioni? I dubbi sulla fine del tesoro padano nascono dai bilanci stessi del partito. Tra la fine del 2011 e il 2017 la Lega ha infatti speso 32 milioni di euro. I rendiconti ufficiali si limitano a dire che buona parte di questi soldi sono stati usati per “contributi ad associazioni” e “oneri diversi di gestione”. Né Maroni né Salvini hanno mai spiegato i dettagli di quelle operazioni. E soprattutto non hanno mai reso pubblici i nomi di queste organizzazioni che hanno beneficiato dei denari padani. Ora gli investigatori della guardia di finanza del capoluogo ligure coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto e dal sostituto Paola Calleri stanno cercando di risolvere l’enigma. Dall'altro lato ci sono invece le associazioni create sul modello di fondazioni politiche. Usate per incamerare finanziamenti da privati. Una di queste è l'associazione Più Voci, la cui esistenza è stata scoperta dall'Espresso molti mesi prima che diventasse di dominio pubblico con l'arresto del costruttore romano Luca Parnasi. Il quale, come avevamo rivelato nell'aprile 2018, era nella lista dei finanziatori dell'associazione leghista insieme alla catena di supermercati Esselunga. Dalla rivelazione dell'Espresso è nata la seconda indagine nella Capitale con l'ipotesi di finanziamento illecito, che vede indagati sia l'attuale tesoriere leghista Centemero che il suo omologo del partito democratico, Francesco Bonifazi, dato che pure la fondazione legata al Pd ha ricevuto una donazione di Parnasi. Stesso reato ipotizzato nel fascicolo aperto dai pm di Bergamo, dove ha sede la Più Voci. Secondo quanto risulta all’Espresso, nel capoluogo orobico sono stati ascoltati alcuni testimoni. Oltre alla Più voci c'è poi almeno un'altra associazione finita nel mirino dei magistrati. Un'organizzazione operativa in Liguria, anche in questo caso usata per raccogliere donazioni anonime da girare poi al partito. Un altro fronte caldissimo delle indagini giudiziarie è il Lussemburgo. La settimana scorsa sono state eseguite delle perquisizioni nello studio di commercialisti di Bergamo, in via Angelo Maj 24 (stesso indirizzo della Più voci), di cui avevamo scritto nel giugno scorso nel servizio di copertina dal titolo “L'Europa offshore che piace a Salvini”. A questo indirizzo hanno sede sette imprese controllate da una anonima holding lussemburghese. Sono tutte registrate presso lo studio del commercialista Alberto Di Rubba, che insieme al collega Andrea Manzoni gestisce i conti dei gruppi parlamentari della Lega. Il sospetto della procura di Genova e del nucleo di polizia tributaria della finanza del capoluogo ligure è che attraverso questa rete di aziende sia stato commesso il delitto di riciclaggio di parte dei 49 milioni, quelli incassati con la truffa sui rimborsi firmata Bossi e Belsito. C'è però un dettaglio rilevante: una delle imprese bergamasche finite nel mirino dei pm è amministrata dal tesoriere del partito, Centemero, scelto proprio da Salvini. Un'altra è gestita invece da Manzoni, professionista di fiducia di Centemero e direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera.
Così la Lega ha fatto sparire 49 milioni di euro. Un network di associazioni per nascondere i soldi. Un altro giro di sigle per ottenere finanziamenti al riparo dalla giustizia. Anche con Salvini segretario. Ecco su cosa indaga la magistratura, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 20 dicembre 2018 su "L'Espresso". Una rete di associazioni us a ta per svuotare i conti della Lega. Una rete di associazioni usata per finanziare la Lega senza passare dai conti ufficiali. Sembra un gioco di prestigio, ma è proprio questa l’ipotesi sui cui lavorano i magistrati della procura di Genova, da mesi impegnati a rintracciare i 49 milioni di euro frutto della truffa ai danni dello Stato architettata da Umberto Bossi e Francesco Belsito. Soldi che escono, soldi che rientrano. Tutto finalizzato a far sparire il tesoro padano e a farlo riapparire sotto altre spoglie, ripulito e pronto per essere utilizzato. Riciclaggio, insomma: questo è il reato su cui indagano i magistrati genovesi. Ma anche finanziamento illecito, un’ipotesi su cui si sono messi a lavorare contemporaneamente le procure di Roma e Bergamo. E poi Milano, che ha ricevuto gli “atti relativi” senza tuttavia aprire un vero fascicolo d’indagine. Per non perdere l’orientamento in questo vorticoso giro di denaro, società straniere, associazioni e schermi fiduciari vale la pena di partire da via Angelo Maj 24, a Bergamo. È da questa palazzina residenziale color verde acqua che L’Espresso aveva iniziato, sei mesi fa, la caccia ai soldi pubblici del Carroccio. «Fate inchieste su cose vere, non perdete il vostro tempo», ci aveva risposto Matteo Salvini, intanto diventato vice premier e ministro dell’Interno. Il palazzone a sei piani di Bergamo Bassa è però diventato nel frattempo interessante anche per diversi magistrati italiani. Qui ha sede infatti lo studio Dea Consulting, fino a pochi mesi fa di proprietà di due commercialisti bergamaschi poco noti: Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Dopo la pubblicazione del primo articolo del nostro settimanale su di loro, Manzoni ha ceduto tutte le sue quote a Di Rubba. Ma questo è un dettaglio. Ciò che conta è che sono stati Manzoni e Di Rubba, insieme al collega e tesoriere leghista Giulio Centemero, a creare l’associazione Più Voci, domiciliata proprio in via Angelo Maj 24 e scoperta il primo aprile scorso nell’inchiesta di copertina dal titolo “I conti segreti di Salvini”. La Più Voci, avevamo scritto, tra il 2015 e il 2016 ha ricevuto parecchie donazioni. Oltre 300 mila euro in tutto, di cui 250 mila dal costruttore romano Luca Parnasi e 40 mila da Esselunga. Che c’è di strano? Di strano c’è che subito dopo l’associazione Più Voci ha girato quei soldi a due società: Radio Padania e Mc Srl, controllata direttamente dal partito e editrice del quotidiano online Il Populista. Perché Parnasi e Esselunga hanno deciso di sponsorizzare la sconosciuta associazione leghista? E come mai quest’ultima ha girato i denari ricevuti a delle società collegate al Carroccio? Il sospetto era che si trattasse di un finanziamento occulto. Un escamotage utile teoricamente a entrambe le parti: agli imprenditori, per non dover dichiarare ufficialmente il loro sostegno alla Lega; alla Lega, per non vedersi sequestrare quei soldi vista l’inchiesta in corso per truffa. L’unica a rispondere in qualche modo alle nostre domande era stata Esselunga. “Contributo volontario 2016”, recitava la causale del bonifico. Davanti alla richiesta di commento, Esselunga non ha spiegato perché ha scelto di dare soldi all’associazione leghista invece che donarli direttamente al partito. Si è limitata a farci sapere che quella cifra «è stata destinata a Radio Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti pubblicitari su oltre 70 radio». Ma allora perché non versare il loro contributo direttamente a Radio Padania? La risposta di Esselunga non è quindi stata esaustiva, ma per lo meno la catena di supermercati ha fatto seguito alle nostre richieste di commento. L’altro donatore, Parnasi, aveva invece deciso di non rispondere proprio. Il motivo lo abbiamo scoperto qualche mese dopo, quando il costruttore è finito in carcere con l’accusa di corruzione al termine di un’inchiesta giudiziaria sul nuovo stadio della Roma, quello che le sue aziende avrebbero dovuto realizzare. È la stessa indagine che ha portato all’arresto del presidente dell’Acea Luca Lanzalone, indagato insieme ad altri esponenti del Movimento 5 Stelle, del Partito Democratico e di Forza Italia. Le carte dell’inchiesta - condotta dalla procura di Roma - raccontano bene perché Parnasi avesse scelto il silenzio di fronte alle nostre domande. Aveva preferito non parlare perché quel finanziamento doveva rimanere segreto. Intercettato a parlare con i suoi collaboratori, l’immobiliarista mostra infatti una certa agitazione dopo aver ricevuto la nostra chiamata. Tramite il suo commercialista contatta Andrea Manzoni. «Ragionando sulle possibili conseguenze dell’articolo», scrivono i magistrati nell’ordinanza, «Parnasi e il suo commercialista ipotizzano di creare una falsa documentazione contabile, retrodatata, per giustificare l’erogazione». Il motivo lo ha spiegato lo stesso Parnasi in un’altra intercettazione. Lui ha finanziato Più voci per la campagna elettorale delle comunali di Milano, quando la Lega sosteneva Stefano Parisi a sindaco di Milano. Altro che contributo alla libertà di informazione, come ha sempre sostenuto Centemero. E non era l’unica donazione in programma. Alle domande dei pm di Roma uno dei più stretti collaboratori dell’imprenditore ha raccontato che, dopo la Più voci erano previste altre due elargizioni a Radio Padania, «cento più cento». Ufficialmente per la pubblicità. Tuttavia, quando il collaboratore è andato da Parnasi a chiedere in quale fasce orarie preferiva collocare la pubblicità, la risposta è stata chiara: era solo un modo per finanziare la Lega, nessuna pubblicità effettiva. Tre mesi dopo le intercettazioni Parnasi verrà arrestato su ordine della procura di Roma. E tra i magistrati capitolini e quelli di Genova, che già da tempo stavano indagando sul possibile riciclaggio del tesoro leghista, inizierà una collaborazione, un filone investigativo che unisce i 49 milioni scomparsi agli oltre 300 mila incassati tramite l’associazione Più Voci, i soldi vecchi e quelli nuovi. Nel frattempo la procura di Roma ha messo sotto inchiesta Centemero per finanziamento illecito proprio per la vicenda della Più voci. Questa opacità nella gestione dei finanziamenti privati avrebbe dovuto far scattare la denuncia dell’opposizione, ma il Pd sul tema può dir poco: anche la fondazione Eyu del tesoriere renziano Francesco Bonifazi era stata foraggiata dal costruttore. E infatti Bonifazi è indagato con Centemero. Avversari in Parlamento, uniti dalla necessità di fare cassa. Il finanziamento illecito della Più voci e quindi della Lega è lo stesso reato ipotizzato dalla procura di Bergamo, che ha un fascicolo ancora contro ignoti. Da quanto risulta all’Espresso, in questo filone bergamasco sono stati sentiti dai magistrati come persone informate dei fatti i rappresentanti di Esselunga. La risposta ha chiamato in causa il fondatore, Bernardo Caprotti, nel frattempo deceduto. Fu sua la decisione di donare 40 mila euro alla Più Voci, hanno spiegato ai magistrati i dirigenti della catena di supermercati. Ma la Più voci non sarebbe stato l’unico strumento usato dalla Lega per incamerare finanziamenti privati al riparo da occhi indiscreti. Gli investigatori stanno analizzando diverse altre associazioni. Tra queste ce n’è una di recente costituzione, la Now con sede a Genova. La sigla non ha nemmeno un sito internet. Le uniche notizie pubbliche che la riguardano arrivano dalla pagina Facebook di Giovanni Toti, il governatore della Liguria sostenuto dall’alleanza Forza Italia-Lega. Nell’ottobre del 2017 Toti scriveva: «Alla presentazione dell’associazione Now con Matteo Salvini, Edoardo Rixi e Marco Bucci». Insomma, dai nomi presenti sembrerebbe una scatola utilizzata per sostenere l’alleanza della giunta nella regione. Di certo Now nel maggio scorso ha versato 67mila euro alla Lega Nord Liguria. Non si conoscono, tuttavia, i nomi dei benefattori dell’associazione, che non è tenuta a dichiararli pubblicamente. Una segretezza che, come nel caso della Più voci, non può non far sorgere sospetti.
I sospetti di via Angelo Maj. Per capire, invece, dove nasce l’attuale ipotesi del riciclaggio è necessario tornare in via Angelo Maj. Qui infatti non ha sede solo la Più voci ma una lunga lista di società i cui proprietari sono schermati da una complessa architettura di scatole cinesi, che porta in Lussemburgo. Al centro dell’indagine della procura di Genova c’è proprio questa ragnatela. Stessi personaggi, stesse holding e società che avevamo svelato nel servizio di copertina “L’Europa (offshore) che piace a Salvini”, anche in quel caso suscitando l’ilarità del vicepremier. I fatti degli ultimi giorni dimostrano, però, che la nostra pista è stata seguita anche dai magistrati. La conferma arriva dal decreto di perquisizione con cui il nucleo di polizia tributaria di Genova ha bussato alla porta dello studio di via Angelo Maj. L’ipotesi dei pm: una parte dei 49 milioni frutto della truffa avrebbero fatto rotta verso il Granducato per poi rientrare in Italia sparpagliati in mille rivoli. Per questo i finanzieri hanno setacciato anche le abitazioni di Manzoni e di Di Rubba oltreché il casale a Bergamo Alta di Angelo Lazzari. Proprio Lazzari è l’uomo su cui la procura di Genova ha puntato il suo faro ultimamente. Bergamasco di Sarnico, 50 anni, si presenta sul web come ingegnere ed ex promotore finanziario, prima in Mediolanum e poi in Unicredit, oggi manager con base in Lussemburgo e attività in Italia e Regno Unito. Di Lazzari avevamo scritto per la prima volta sei mesi fa, raccontando gli affari di alcune società domiciliate presso lo studio dei commercialisti leghisti. Piccole imprese, con capitale sociale di 10 mila euro l’una, tutte fondate tra il 2014 e il 2016. Dopo la presa del potere di Salvini e la nomina di Centemero a tesoriere del partito. I nomi dicono poco: Growth and Challenge, B Design, Biotetto, Areapergolesi, Alchimia, Sasso, Ma.Se. Alcune di queste sono dirette proprio dai commercialisti della Lega. Amministratore della Growth and Challenge è ad esempio Centemero, mentre Manzoni lo è di Areapergolesi. Ma il dato rilevante, cristallizzato nel decreto di perquisizione, è che entrambe sono nell’elenco delle Srl sospettate dai detective della finanza del riciclaggio. Ruoli, quelli di Centemero e di Manzoni che rischiano di mettere in serio imbarazzo il governo, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli alleati a 5 stelle, che iniziano a perdere la pazienza di fronte alle continue grane giudiziarie del partito del ministro dell’Interno. Tornando agli incastri societari, sappiamo per certo che la proprietà delle sette aziende di via Angelo Maj è della Seven Fiduciaria di Bergamo. E qui inizia il giro d’Europa. La Seven Fiduciaria è infatti a sua volta controllata da un’altra impresa bergamasca, la Sevenbit. Il cui presidente del consiglio d’amministrazione è Lazzari. La Sevenbit, anch’essa fondata nel 2015, conta una trentina di piccoli azionisti, tra cui lo stesso Lazzari e la nipote di Berlusconi, Alessia. La maggioranza delle quote, il 90 per cento, è però in mano alla Ivad Sarl, sede in Rue Antoine Jans 10, Lussemburgo, fondata nel 2008 dallo stesso Lazzari. Impossibile conoscere l’origine dei capitali attraverso cui l’azienda è cresciuta a dismisura, arrivando già un anno dopo la fondazione a un attivo di 1,6 milioni di euro, in gran parte investimenti finanziari. E impossibile è anche conoscere l’identità dei proprietari attuali di Ivad. Dal dicembre del 2015 la holding lussemburghese ha infatti un nuovo titolare ufficiale, e anche questa volta è italiano. Si chiama Prima Fiduciaria ed è specializzata nella creazione di trust, cioè fondazioni anonime. Tra gli azionisti della Prima Fiduciaria troviamo un’altra lussemburghese, la Arc advisory company, anch’essa al centro delle perquisizioni della Guardia di finanza della settimana scorsa. La Arc ci riporta dritti al punto di partenza, visto che è stata fondata nel 2006 proprio dal bergamasco Lazzari. Anche in questo caso è però impossibile tracciare l’origine dei capitali: il socio di controllo della Arc advisory company è infatti la Ligustrum, una società immobiliare svizzera, con base a Lugano, le cui azioni sono intestate al portatore. Perché tutta questa riservatezza dietro a sette piccole imprese della bergamasca registrate nell’ufficio dei due commercialisti di fiducia della Lega? Ci sono legami tra queste società e il partito? Sei mesi fa, alle domande de L’Espresso, sia Centemero che i colleghi Di Rubba e Manzoni avevano risposto allo stesso modo. Non fornendo informazioni sui beneficiari ultimi della Seven Fiduciaria, ma assicurando che le sette aziende in questione non hanno legami né diretti né indiretti con la Lega. La stessa versione ci è stata fornita da Diego Occari, commercialista veronese che presiede la Prima Fiduciaria, lo schermo usato dal proprietario della società lussemburghese: «Il nostro cliente che detiene le quote di Ivad Sarl è un soggetto istituzionale di primo piano e totalmente estraneo alla politica».
La Lega delle associazioni. Come hanno fatto a uscire i soldi dai conti del Carroccio? Dove sono finiti i 49 milioni? Di certo tra la fine del 2011 e il 2017 la Lega ha speso quasi 40 milioni di euro, dilapidando in soli sei anni 32 milioni di euro tra liquidità e investimenti finanziari. Non è colpa del costo del lavoro visto che i dipendenti nello stesso periodo sono passati da 80 a 7 e di conseguenza la spesa complessiva. I rendiconti ufficiali si limitano a dire che buona parte di questi soldi sono spesi per “contributi ad associazioni” e “oneri diversi di gestione”. Solo tra il 2012 e il 2015 sono evaporati così oltre 31 milioni, di cui un quarto ad associazioni non meglio specificate. Né Maroni né Salvini hanno mai spiegato i dettagli di quelle operazioni. E soprattutto non hanno mai reso pubblici i nomi di queste organizzazioni che hanno beneficiato dei denari padani. Ora gli investigatori del capoluogo ligure coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto stanno cercando di risolvere l’enigma. Credono che attorno alla Lega orbiti una galassia di associazioni e società ufficialmente slegate dal partito ma in realtà contigue. La loro funzione: fare da sponda con il Carroccio per svuotare le casse del partito ed evitare così il sequestro dei soldi. Un’ipotesi investigativa che non sarà facile dimostrare. Si tratta di centinaia di migliaia di operazioni bancarie sotto osservazione della finanza. Il periodo va dal 2012 a oggi. Una selva di transazioni, versamenti, bonifici, nella quale è difficile districarsi. Ogni movimentazione può nascondere un dettaglio utile. Per esempio i pagamenti ai fornitori amici. Un altro modo, al pari delle associazioni, per far fuoriuscire denaro con una formale fattura. Ipotesi di chi indaga, e non più solo inchieste giornalistiche, che hanno già avuto un effetto concreto: creare la prima frattura visibile nel governo gialloverde.
"La Lega restituisca i 49 milioni". Ora che Salvini non ha più scuse i 5S che diranno? Condannati anche in Appello Bossi e Belsito. I giudici ritengono provata la truffa ai danni dello Stato. Per questo vanno resi i rimborsi ottenuti nel periodo incriminato. E la questione non è più solo giudiziaria ma rischia di creare imbarazzo con gli alleati di governo, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine su "L'Espresso" il 26 novembre 2018. La Corte d'appello di Genova ha condannato Umberto Bossi ad 1 anno e 10 mesi, mentre per Francesco Belsito condanna a 3 anni e 9 mesi nell'ambito del processo per la maxi truffa ai danni dello Stato da 49 milioni. Per i tre revisori contabili: Stefano Aldovisi 4 mesi, Antinio Turci 8 mesi, Diego Sanavio 8 mesi. E poi la parte del verdetto più attesa: i giudici d'appello hanno confermato la la confisca dei 49 milioni di euro, la somma cioè dei rimborsi elettorali incassati irregolarmente dalla Lega. Una sentenza che creerà qualche imbarazzo agli alleati di governo della Lega. Di Maio e i grillini non potranno più fare finta di niente. E non potranno più dire è roba del passato. Dopo la doppia conferma in Cassazione, dunque, sulla legittimità del sequestro della cifra milionaria, arriva la sentenza nel merito della vicenda. Un secondo grado che conferma in pieno quanto stabilito dal tribunale di Genova più di un anno fa. Si andrà avanti, perciò, con la raetizzazione della somma da restituire allo Stato. Circa 600 mila euro al mese che la procura preleverà dai conti del Carroccio. Certo, Umberto Bossi e Francesco Belsito potranno ricorrere ancora alla suprema corte. Ma intanto è Matteo Salvini che dovrà rendere conto sul piano politico di questa decisione. Così come Roberto Maroni, anche lui beneficiario di parte dei rimborsi ottenuti con i bilanci irregolari presentati da Belsito. Prima Maroni e poi Salvini da segretari hanno percepito le due tranche di rimborsi elettorali del biennio incriminato. Sul sito dell'Espresso avevamo pubblicato i documenti che smentivano quanto ha sempre sostenuto il ministro dell'Interno: «Non ho mai visto un euro di quella somma». Eppure le carte in nostro possesso raccontano una storia diversa. E cioè che quando Matteo Salvini è alla guida della Lega ha percepito quasi un milione di euro dei rimborsi ottenuti con la rendicontazione sballata dell'ex tesoriere Francesco Belsito. Insomma, la questione non si può ridurre a una vecchia storia del passato. Perché riguarda, eccome, il presente del partito. «Se qualcuno ha sottratto ai fondi della Lega, 500 mila euro o 800 mila, come fai a contestarmi un finanziamento di 49 milioni, basato sul numero di voti presi?». La tesi leghista non ha retto davanti ai giudici. Ma riassume bene la posizione della Lega sulla vicenda dei quasi 50 milioni messi sotto sequestro dalla magistratura. Le stesse argomentazioni sono state ripetute dal tesoriere Giulio Centemero e dal vice premier Salvini. Da qui l’ipotesi «ci attaccano perché diamo fastidio» e le accuse ai magistrati di aver confezionato «una sentenza politica». In realtà le cose sono molto più semplici. Per capirle basta leggere la sentenza di condanna per truffa ai danni dello Stato comminata in primo grado dal tribunale di Genova lo scorso luglio contro Bossi e Belsito. E la memoria di 60 pagine depositata dall’avvocatura dello Stato in difesa di Camera e Senato, costituitesi parti civili nel processo per truffa. Per questo motivo la coppia Bossi-Belsito è stata ritenuta colpevole anche in appello. I giudici hanno stabilito di confiscare i rimborsi elettorali percepiti negli anni 2008-2009-2010 poiché i bilanci presentati dal partito in quei tre anni erano stati falsificati. «La liquidazione», si legge infatti nella sentenza, «è subordinata all’accertamento della regolarità del rendiconto». Lo prevede la legge, la numero 2 del 1997. L’erogazione dei rimborsi era vincolata alla presentazione di un bilancio regolare. Il problema è che in quei tre anni, come dimostrato al processo, i conti del Carroccio erano stati truccati. Attraverso «artifici e raggiri», si legge nella sentenza, sono state «riportate nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa ed in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico». Proprio in relazione a quest’ultima frase, quella sulle spese estranee alla Lega, i giudici spiegano che «si è proceduto separatamente nei confronti di Francesco Belsito, Umberto Bossi e Renzo Bossi». Questo è il punto su cui si rischia di fare confusione, per lo meno stando alle dichiarazioni di Calderoli. Perché il fatto che Bossi e colleghi abbiano speso soldi per fini personali - le lauree in Albania, ad esempio - non coincide con la truffa nei confronti dello Stato. Quella si chiama appropriazione indebita, reato per il quale il vecchio leader, l’allora tesoriere Belsito e il “Trota” sono stati condannati dal tribunale di Milano. In altre parole, i soldi che Salvini si dice disposto a mettere di tasca propria non hanno nulla a che fare con i 49 milioni messi sotto sequestro. Quelli, hanno deciso i giudici, la Lega li deve restituire perché percepiti illegalmente. Spiegato ciò, tuttavia, restano ancora parecchie ombre sul dopo Bossi e Belsito. Per esempio, che fine hanno fatto i milioni di euro pubblici frutto della truffa sui rimborsi elettorali firmata da Umberto Bossi? Che ruolo ha l’associazione “Più voci”? E perché il partito ha investito in prodotti finanziari (obbligazioni societarie e derivati) vietati per un partito politico?
Sono le domande da cui siamo partiti in questi mesi per ricostruire i flussi finanziari della galassia leghista post Bossi e Maroni, per capire dove sono finiti quasi 50 milioni messi sotto sequestro dai magistrati (che però ne hanno trovati solo 3) dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Belsito. Matteo Salvini non perde occasione per sottolineare come le casse della Lega siano vuote. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali del partito. E allora come sopravvive la Lega? Come paga le sue campagne elettorali? Interrogativi che vanno oltre la sentenza sulla truffa, che travalicano la mera questione giudiziaria e diventano questione politica. Chissà la conferma in appello scuoterà gli alleati di governo di Matteo Salvini, o se continueranno a ritenere la vicenda come un'eredità del passato bossiano. Chissà se inizieranno a porsi anche loro delle domande sulle menzogne del ministro e del suo tesoriere Giulio Centemero, indagato a Roma per sospetto finanziamento illecito all'associazione Più voci da parte del costruttore Luca Parnasi. Una storia, quella della Più voci e del suo donatore segreto, che L'Espresso ha rivelato in esclusiva, ad aprile. E sulla quale molte cose non tornano.
L'eredità (tradita) del saggio Miglio, scrive Giordano Bruno Guerri, Sabato 01/12/2018, su "Il Giornale". In vista dell'omaggio reso ieri a Gianfranco Miglio al Pirellone, ho pubblicato un cinguettio: «Oggi Miglio avrebbe 100 anni, ma se fosse vivo mi sentirei più tranquillo». Qualcuno mi chiede perché. Io invece mi chiedo perché, avendolo avuto a portata di mano tanti anni fa, non andai a cercarlo. Frequentavo l'Università (...) (...) Cattolica di Milano, la stessa dove lui è stato preside della facoltà di Scienze politiche per trent'anni, dal 1959 al 1989. Sarebbe bastato bazzicare una sua lezione per conoscerlo, parlargli, imparare. Ma c'era tanto altro da fare, lo studio, il lavoro, le ragazze e altre allegrie. I miei erano altri studi, è vero, ma mi avevano colpito i suoi su Economia e società di Max Weber, un saggio che non conoscevo e che - per la verità - pochi conoscevano. Anche i suoi studi per la Fisa (Fondazione italiana per la storia amministrativa), fondata da lui, erano eccezionali: il progetto, ambiziosissimo sotto quel nome noioso, voleva ricostruire l'evoluzione storica dello Stato moderno, dal Medioevo in poi. E anche gli «Acta Italica», una collana della Fisa, promettevano risultati notevoli: studiava l'amministrazione degli Stati italiani preunitari. Qualcosa bolliva nella grande pentola di Miglio, insomma. Ma quasi tutti ce ne accorgemmo soltanto quando diventò l'«ideologo» della Lega Nord di Umberto Bossi, ai primi successi. Furono in molti, allora, a cercare un suo saggio del 1969, fondamentale, su Le contraddizioni dello stato unitario. Vi aveva scritto, fra l'altro, che fu un clamoroso errore costringere tutte le regioni annesse a adottare le norme piemontesi. Invece Cavour, al momento dell'annessione della Lombardia, aveva voluto che la regione mantenesse una parte delle norme austriache. È quello che la Regione Lombardia sta cercando di ottenere oggi, dopo il referendum sull'autonomia. Costringere tutta l'Italia, d'improvviso, a adottare leggi e norme che andavano bene (se andavano bene) in Piemonte, fu come «far indossare a un gigante il vestito di un nano», scrisse: me ne sarei ricordato, sempre rimpiangendo di non averne parlato con lui, quando nel 2011 pubblicai Il sangue del Sud - Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio. Quella decisione sciagurata dei successori di Cavour fu appunto una delle cause della guerra civile che venne chiamata «lotta al brigantaggio». Miglio lanciò poi, negli anni Ottanta, idee sulle quali si dibatte ancora oggi, ma che allora nessuno prese in considerazione: l'elezione diretta del capo del governo insieme a quella della Camera, maggiori poteri al primo ministro, fine del bicameralismo perfetto, Senato delle regioni. Con un'altra sua anticipazione degli anni Ottanta, al crollo del Muro, intuì che - con l'aumentato benessere dovuto all'economia di mercato e alla tecnologia - il cittadino avrebbe avuto sempre meno fiducia nell'apparato statale e nella sua lenta, complessa burocrazia: e che sarebbero nate nuove forme di aggregazione politica, capaci di mettere in crisi i partiti. E infatti esplode il successo di Bossi e della Lega, figli inconsapevoli di Miglio, che aveva teorizzato già negli anni Quaranta un'Italia fatta di tre grandi regioni federate, sul modello svizzero. Divenuti adolescenti, Bossi e la Lega rigettarono il padre, dopo averlo fatto diventare senatore. Normale: loro volevano conquistare il potere, da politici, lui voleva costruire lo Stato ideale, da studioso. Litigarono fino al pubblico scambio di insulti, anticipatori anche in quello. Il suo sorriso ironico e grintoso, il suo parlare direttissimo spiazzavano: «Un partito non è molto diverso da una cosca mafiosa, anche se è fatto di santi, perché implica, a un certo punto, un rapporto di omertà». I partiti, gli intellettuali, i giornali, lo temevano come un cane rabbioso, e si capisce: metteva in piazza qualcosa che era nell'aria, ma che si preferiva far finta di non vedere. Trovai irritante che si attaccasse in un simile modo un pensatore, anche se faceva politica e, insieme a Claudia Rocchini, pensammo di tirare uno scherzo a Cuore, il più accanito denigratore di Miglio. Fabbricammo una notizia falsa (un appunto autografo che Claudia girò a Michele Serra, dicendogli che l'aveva trovato sotto il letto di Miglio, malato in ospedale). Era la dichiarazione d'indipendenza della Padania e Cuore la pubblicò clamorosamente in tutta la prima pagina, a fine ottobre 1993. Peccato per Cuore che lo stesso mattino ci fosse in edicola il Giornale con - sempre in prima pagina - la notizia che lo scherzo era riuscito: in realtà quel testo era di Lenin. Miglio avrebbe voluto costituire un laboratorio politico, composto da studiosi che elaborassero regole completamente nuove per la convivenza civile. C'era, in Italia, negli stessi anni Novanta, un'altra studiosa che voleva la stessa cosa e che pubblicò Per una rivoluzione italiana. Ida Magli cercò di seminare le sue idee con i potenti, da Berlusconi in giù. Ci riuscì con Bossi e Miglio, ma non ne venne fuori nulla. Lei, così rivoluzionaria da essere sbalzata fuori dall'università, non si accontentava di voler riformare le istituzioni, voleva cambiare la società, il mondo di vivere, di imparare, di insegnare. Diceva dell'Europa, a metà degli anni Novanta, ciò che gran parte degli italiani avrebbero cominciato a dire quindici e vent'anni dopo, inascoltata se non sbeffeggiata. Un'altra Cassandra. Tutti e due non potevano che essere scansati dalla politica. Adesso mi chiedono, da Twitter, perché sarei più tranquillo se Miglio fosse ancora vivo. Perché, a voi una maggiore presenza in politica dell'intelligenza, della sapienza, della capacità di guardare oltre, non tranquillizzerebbe?
«I Pm come in Turchia» Salvini furioso per la Diciotti e i 49 milioni. Carabinieri al Viminale, ira del ministro: “Io sono stato eletto, i giudici no”, scrive Simona Musco l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «È arrivata al Ministero una busta chiusa dal Tribunale di Palermo. Chissà per cosa sarò indagato oggi. Che dite, la apriamo insieme?». Matteo Salvini annuncia in diretta Facebook di essere iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona aggravato. La Procura di Palermo ha trasmesso gli atti al Tribunale dei ministri chiedendo ai magistrati di svolgere le indagini preliminari nei confronti del titolare del Viminale, modificando i reati contestati. «Sono indagato», conferma il leader della Lega. «Dovrebbe essere il famoso sequestro di persona aggravato dal fatto che io sia un pubblico ufficiale, aggravato dal fatto che a bordo ci fossero dei minori e per il fatto che è andato avanti per più giorni. Dovrebbero essere 15 anni», dice Salvini, nello stesso giorno in cui le forze dell’ordine avevano “dato la caccia” ai migranti della Diciotti fuggiti da Rocca di Papa. «Qui c’è un organo dello Stato che indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato è stato eletto da voi».
LE DICHIARAZIONI. «Mi è arrivata al Ministero una busta chiusa dal Tribunale di Palermo. Chissà per cosa sarò indagato oggi. Che dite, la apriamo insieme?». Con queste parole il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, annuncia ufficialmente, in diretta Facebook, di essere iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona aggravato. La Procura di Palermo ha trasmesso gli atti al Tribunale dei ministri chiedendo ai magistrati di svolgere le indagini preliminari nei confronti del titolare del Viminale, modificando i reati contestati. «Sono indagato», conferma il leader della Lega. «Dovrebbe essere il famoso sequestro di persona aggravato dal fatto che io sia un pubblico ufficiale, aggravato dal fatto che a bordo ci fossero dei minori e per il fatto che è andato avanti per più giorni. Dovrebbero essere 15 anni», dice Salvini, dichiarandosi disponibile ad andare «a piedi a Palermo anche domani a spiegare cosa ho fatto, perchè l’ho fatto e perchè lo rifarei. Io avrei privato della libertà questi migranti che sono scomparsi, che non vogliono farsi identificare», presegue il capo del Carroccio. «Ci sarà sicuramente qualcuno, Boldrini, Renzi, Boschi, Saviano, Chef Rubio, che staranno festeggiando. La maggior parte degli italiani invece non festeggia», è convinto. Ma il problema, per il vice premier, è che «qui c’è un organo dello Stato che indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato è stato eletto da voi», spiega in diretta. «A questo ministro avete chiesto di controllare i confini, contrastare gli sbarchi clandestini. Non sono preoccupato nè terrorizzato. continuerò a fare oggi, domani e in futuro. Non mi toglie il sonno; ecco, lo appendo qua, una medaglietta». Salvini, già imbufalito dalla sentenza del Riesame di Genova che conferma il sequestro dei fondi del suo partito – unico precedente «in Turchia», ironizza – vuole sfruttare politicamente la situazione. «Non mollo di un millimetro, non si molla di un millimetro, se gli italiani mi chiedono di andare avanti, io vado avanti. E se domani dovesse arrivare un’altra nave, non sbarcano. In questo ufficio si sta facendo quello che altri in 5 anni non hanno fatto», dice. «Grazie al procuratore di Palermo, di Agrigento e di Genova, rispetto il vostro lavoro, fate bene e in fretta. Un bacione e buon venerdì sera a tutti».
LE REAZIONI. Si smarca il vicepremier Luigi Di Maio, presagendo il conflitto che potrebbe attanagliare i 5 Stelle che sul fronte della giustizia sono sempre stati sensibili: “Non si possono sostenere le accuse ai magistrati”. Corre ai ripari anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Il ministro dell’Interno può ritenere che un magistrato sbagli ma rievocare toghe di destra e di sinistra è fuori dal tempo. Non credo che Salvini abbia nostalgia di quando la Lega governava con Berlusconi. Chi sta scrivendo il cambiamento non può pensare di far ritornare l’Italia nella Seconda Repubblica”. Immediata la replica anche dell’Anm: “Le dichiarazioni di oggi del ministro dell’Interno, intervenute dopo la notifica degli atti da parte della Procura di Palermo in merito alla vicenda della nave Diciotti, rappresentano un chiaro stravolgimento dei principi costituzionali, che assegnano alla magistratura il compito e il dovere di svolgere indagini ed accertamenti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è titolare di cariche elettive o istituzionali”. Il vicepresidente del Csm Legnini: “Giudici legittimati dalla Costituzione, non dal voto”. Pd all’attacco, Renzi: “Leader Lega farnetica, da lui idee aberranti”.
Salvini indagato per sequestro di persona Lui: "Sui migranti non mollo". Il ministro accusato di sequestro di persona aggravato per la vicenda Diciotti: atti trasmessi al tribunale dei ministri, scrive Chiara Sarra, Venerdì 7/09/2018 su "Il Giornale". Dopo quello di Agrigento, pure il pm di Palermo ha deciso di indagare Matteo Salvini per la vicenda della Diciotti, a cui fino al 25 agosto fu impedito di attraccare al porto di Catania e far sbarcare i migranti recuperati nel Mediterraneo. Il reato contestato al ministro dell'Interno è quello di sequestro di persona aggravato. Reato che - recita la comunicazione arrivata al vicepremier - è stato "commesso nel territorio siciliano fino al 25 agosto 2018, in pregiudizio di numerosi soggetti stranieri". Gli atti sono quindi stati trasmessi al tribunale dei Ministri, l'unico organo che ha la competenza di indagare su un membro del governo. Salvini ha voluto aprire l'atto trasmesso dal tribunale di Palermo in diretta Facebook, rispondendo immediatamente alle accuse rivoltegli dalla magistratura. "Vado a memoria, ma credo che saranno almeno 15 anni di galera come pena massima di galera, a cui bisogna aggiungere le aggravanti", ha detto Salvini parlando a chi lo seguiva sui social, "Un organo dello Stato ne indaga un altro. Con la differenza che io sono stato eletto da voi cittadini, miei complici. Altri non sono eletti da nessuno e non rispondono a nessuno". Po si è rivolto ai magistrati: "Interrogatemi domani, vengo a piedi domani, vi spiego perchè lo rifarei", ha aggiunto Salvini, "Non ho tempo da passare con gli avvocati. Non mi toglie il sonno, questo foglio lo appendo nel mio ufficio: medaglietta. Venitemi a trovare a san Vittore con le arance, ma io non mollo di un millimetro finchè gli italiani mi chiedono di andare avanti. E se domani dovesse arrivare un'altra nave carica di clandestini in Italia non sbarca. Dopo la Diciotti non è arrivata nemmeno una nave".
Secondo fonti del Viminale, il ministro vuole farsi difendere dall'Avvocatura dello Stato.
Gian Carlo Caselli: «Difendo Patronaggio: è in corso una crociata antigiudiziaria». Intervista all’ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli, che analizza la polemica che si sta consumando intorno all’inchiesta sulla nave Diciotti. Intervista di Giulia Merlo del 29 Agosto 2018 su "Il Dubbio". «Sì, è ancora in atto una crociata antigiudiziaria senza eguali». Ne è convinto Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e uno dei principali protagonisti della lotta al terrorismo degli anni Settanta e alla mafia degli anni Novanta. L’analisi parte dall’inchiesta agrigentina sulla nave Diciotti, che ha riaperto la ferita del conflitto tra magistratura e politica, eppure Caselli non se ne stupisce: «La storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati che adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno».
L’iniziativa del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che ha indagato il ministro Matteo Salvini per la gestione del caso della nave Diciotti, ha diviso le opinioni sia della classe politica che della magistratura. Lei ha condiviso la scelta del pm?
«Premetto che mi sono sempre astenuto dal prendere posizioni specifiche su inchieste in corso. Pertanto, anche in questo caso mi limiterò a considerazioni generali e astratte. Punto di partenza è che la Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia pluralista, basata sul primato dei diritti eguali per tutti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. E’ vero che a questa concezione di democrazia una “robusta” corrente di pensiero vorrebbe sostituirne un’altra: basata sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento) e non più sul primato dei diritti. Ma il perimetro rimane sempre quello della Costituzione vigente. Quindi se “la sovranità appartiene al popolo” - il che significa che in democrazia chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto- dovere di operare le scelte politiche che vuole – è chiaro anche che ogni potere democratico incontra dei limiti prestabiliti, che la nostra Costituzione fissa fin dal suo primo articolo, là dove stabilisce che la sovranità si “esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”».
E questo come si traduce nel caso di specie? Per il ministro Salvini è stato ipotizzato il reato di sequestro di persona.
«Uno dei limiti di cui dicevo è scolpito nell’articolo 13 della Carta, che proclama “la libertà personale è inviolabile”, nel senso che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Dunque, il primo interrogativo che ci si deve porre – tenendo conto anche delle regole che la comunità internazionale ed i singoli stati si sono date, a partire dalla Convenzione di Amburgo del 1979 – è se vi sia stata o meno lesione del principio dell’inviolabilità della libertà personale ( con le eventuali conseguenze sul piano processual- penale) nella fattispecie della nave Diciotti, col suo “carico” di persone bloccate a bordo per giorni e giorni per disposizione del ministro degli interni. In altre parole, si tratta di stabilire se il caso in esame appartiene alla sfera della dignità e dei diritti di tutti, una sfera non decidibile, cioè sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi ( una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia».
Lei ritiene sia così?
«Senza entrare nel merito, che sarà verificato nelle successive fasi di giudizio, le rispondo che nel nostro ordinamento l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio e la legge uguale per tutti: per cui definire infondata l’iniziativa della procura agrigentina sarebbe quanto meno azzardato».
L’iniziativa del procuratore Patronaggio ha avuto enorme risalto mediatico e le immagini di lui che sale sulla Diciotti hanno colpito molto. Ritiene si possa parlare di spettacolarizzazione di quest’iniziativa giudiziaria?
«Il procuratore di Agrigento, ispezionando la nave, ha compiuto un atto necessario ed utile per valutare in presa diretta la situazione sulla quale eventualmente intervenire. Se fosse rimasto chiuso nel suo ufficio mentre la tempesta imperversava avrebbe dimostrato insensibilità. Invece, conoscere per meglio giudicare è la strada giusta per i magistrati non burocrati che si ispirano, oltre che al rispetto delle regole, anche all’etica della responsabilità. Certo è che in questo modo ci si espone e si può diventare protagonisti senza protagonismo. Semplicemente facendo il proprio dovere».
La procura di Agrigento, tuttavia, è stata oggetto di attacchi dopo l’iniziativa. È il prezzo da pagare, oggi, per ogni pm che indaga su vicende al centro del dibattito pubblico?
«Con “Tangentopoli” e “Mafiopoli” si è registrata la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai “potenti”. Costoro non potevano rimanere indifferenti. E difatti hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ed ecco lo scatenarsi, ormai da oltre 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali».
C’è chi parla, all’inverso, anche di crociata “antipolitica” da parte della magistratura.
«Ma è un paradosso. Se un magistrato si occupa di un politico, ricorrendo gli estremi in fatto e in diritto di un’accusa di corruzione o collusione con la mafia, subito scatta il riflesso pavloviano secondo cui a fare politica sarebbe il magistrato. Ma c’è di peggio. Non soltanto in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici, spesso indicati “tout court” come avversari politici. Questo invece è proprio ciò cui si è assistito nel nostro Paese, con un crescendo impressionante: un diluvio quotidiano di insulti e calunnie volgari, da osteria, ma ossessivamente riproposti fino a trapanare i cervelli. E si sa che a forza di ripeterle anche le fandonie più clamorose finiscono per sembrare vere. Contemporaneamente, ha preso a dilagare l’idea, terribilmente italiana, di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé. Infine, si è verificata l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata. Fino al punto, che si è verificato proprio nel caso di cui stiamo parlando, che un importante esponente politico del Carroccio abruzzese ha minacciato i magistrati con parole vergognose: «Se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa… occhio». Si è tornati alle intimidazioni squadristiche».
Volendo fare l’avvocato del diavolo, verrebbe da dire che la magistratura come categoria ha avuto reazioni diverse all’iniziativa di Patronaggio. L’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio, ha scritto che "L’idea che le Procure possano intervenire nella scelte migratorie è non solo bizzarra, ma irrazionale ed ingestibile".
«La magistratura, per quanto mi risulta, si è schierata compattamente a difesa dell’indipendenza dei magistrati di Agrigento. Questo e non altro, insieme alla tutela dei diritti di tutti attraverso il doveroso controllo di legalità, è il fulcro del problema».
Allargando lo spettro, ritiene che questa sia stata la proverbiale goccia che ha fatto di nuovo traboccare il vaso, infiammando di nuovo lo scontro tra magistratura e politica?
«Una delle maggiori anomalie italiane degli ultimi 25 anni è stata il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro, la difesa non tanto “nel” quanto piuttosto “dal” processo, con una sorta di impropria riedizione del cosiddetto «processo di rottura» da parte di pezzi di Stato – e mi riferisco a inquisiti “eccellenti” o comunque soggetti forti mentre in passato a praticarlo erano sue antitesi, vale a dire opposizioni radicali, fino alle “Brigate rosse”. Dunque, la storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati “scomodi”, perché adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno e con “troppa” indipendenza. Questo malvezzo si è articolato anche a colpi di leggi ad personam, lodi assortiti, commissioni bicamerali e sistematici dinieghi di autorizzazioni a procedere. Con sullo sfondo una “inefficienza efficiente”, vale a dire l’irredimibile agonia di un sistema giustizia che per certi versi appare funzionale alla tutela di coloro che non vogliono mai pagare dazio».
Una patologia di sistema, in cui lei non distingue tra governi di destra e sinistra?
«Io credo si sia disegnato un vero e proprio circolo vizioso che ha coinvolto trasversalmente le forze politiche, alcune più attive e altre meno, ma in ogni caso tutte interessate a limare le unghie della magistratura. Un circolo vizioso che si dovrebbe spezzare nell’interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale».
Tornando all’oggi e dunque al nuovo governo, l’Anm ha chiamato in causa il Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Secondo lei avrebbe dovuto intervenire in modo più forte in difesa della magistratura?
«Alla fine il ministro della Giustizia qualcosa ha detto, sia pure con un certo ritardo e attestandosi sul minimo sindacale».
Il ministro Salvini, invece, ha parlato di necessità di una riforma della giustizia. È strumentale farlo in concomitanza di un’inchiesta a suo carico?
«Mi preoccupa che abbia parlato dell’inchiesta di Agrigento come di un possibile “boomerang”. Se voleva dire – ma spero non volesse farlo – che ne deriverà una riforma della giustizia, mi limito ad osservare che le riforme “ab irato” sono sempre le peggiori».
La giustizia già è o potrebbe diventare il banco di prova di questo governo?
«Sono 58 le cartelle del “contratto per il governo” grillo- leghista. Una dozzina, quasi il 20%, riguardano la “giustizia rapida ed efficiente” e altri temi a vario titolo connessi, come la corruzione, i reati ambientali, l’ordinamento penitenziario, la sicurezza nelle sue molteplici declinazioni eccetera. In generale si tratta di linee guida piuttosto generiche e talora persino ambigue o fumose. Soltanto ove e quando fossero tradotte in specifici e articolati progetti concreti sarà possibile valutarne la portata effettiva, le implicazioni e gli effetti. Qualcosa di chiaro, però, c’è».
Che cosa?
«Trovo che sia precisa e ben articolata la linea di intervento in tema di corruzione, con una sequenza di misure forti: l’inasprimento delle sanzioni; l’esclusione dei riti alternativi; la previsione del cosiddetto Daspo e dell’agente sotto copertura; la valutazione dell’agente provocatore; la tutela del Whistleblower e l’ampliamento della possibilità di intercettazioni. Nel complesso si tratta di un pacchetto idoneo a conseguire l’obiettivo fondamentale in materia: rendere la corruzione sempre meno appetibile e non – come oggi – decisamente conveniente in base al calcolo costi/ benefici».
C’è altro che la convince?
«Paradossalmente, la cosa più positiva del “contratto” è un’omissione. Vale a dire che non parla di separazione delle carriere fra pm e magistrati giudicanti, uno dei cavalli di battaglia di Berlusconi & company».
Eppure il dibattito è ancora aperto, per lo meno in ambito giuridico.
«Checché se ne dica, è dimostrato che il risultato ineludibile e verificabile di tale separazione – ovunque nel mondo – è la dipendenza del pm dal potere esecutivo, che influisce sull’azione penale con ordini o direttive vincolanti. Un grave pericolo per l’indipendenza della magistratura italiana scolpita nella Costituzione come premessa all’effettiva uguaglianza dei cittadini, anche perché nel nostro paese le “tentazioni” di certa politica, corrotta o collusa col malaffare, sono sempre dietro l’angolo. Non tenerne conto sarebbe – per gli onesti – un’astrazione masochistica. Ovviamente, va ricordato che la separazione delle carriere è cosa ben diversa da quella delle funzioni, ormai una realtà acquisita dal nostro ordinamento».
Aquarius e migranti, l'ex magistrato Carlo Nordio dà ragione a Salvini. L'ex magistrato Carlo Nordio dà ragione a Matteo Salvini sul caso Aquarius e sulla politica migratoria. E il ministro dell'Interno lo cita al Senato, scrive Giovedì 14 giugno 2018 Affari italiani. Un importante nome della giustizia italiana dà ragione a Matteo Salvini sulla vicenda Aquarius. Stiamo parlando dell'ex magistrato Carlo Nordio, uno che di legge se ne intende insomma. Lo ha fatto in un articolo pubblicato su il Messaggero dal titolo "Diritto e diritti/ La lezione che nessuno può dare al nostro Paese". Una presa di posizione molto importante che ha portato lo stesso ministro dell'Interno a citare l'articolo durante l'informativa in Senato sul caso Aquarius: "Ringrazio l’ex procuratore di Venezia Carlo Nordio" ha detto Salvini, "che ha scritto un articolo che mi ha confortato". Ma che cosa dice Nordio? "Il diritto internazionale, come tutto il diritto, non è una scienza esatta, e su ogni questione esistono opinioni diverse, e addirittura opposte", scrive l'ex pm di Venezia. "L’ultimo esempio lo abbiamo avuto poche settimane fa, quando illustri costituzionalisti, anche appartenenti alla stessa area culturale, si sono divisi sulla legittimità del veto posto dal Presidente Mattarella alla nomina del professor Paolo Savona. Nel diritto internazionale, tuttavia, esistono alcuni punti fermi, che risalgono ai tempi di Ugo Grozio, cioè alle prime teorizzazioni di questa disciplina. Sono i seguenti: 1) pacta sunt servanda; 2) rebus sic stantibus; 3) bona fides". In merito al diritto internazionale sui migranti, Nordio scrive: "I trattati sono molti, e ambigui. (...) Tutti comunque concordano nell’imporre l’obbligo, in caso di soccorso in mare, di trasferire i naufraghi in un porto sicuro. Quello di Dublino ha un oggetto diverso: prevede i doveri dello Stato di prima accoglienza. Ma restiamo al salvataggio dei naufraghi. La nave olandese (o tedesca, non si è capito) ha tratto in salvo i migranti al largo delle coste libiche: i porti più sicuri e (vicini) erano in Tunisia e a Malta, paesi pacifici che garantiscono il rispetto dei diritti umani. Perché allora portarli in Italia? Perché, si dice, l’Italia avrebbe coordinato le operazioni di salvataggio. Ma questo non è previsto dalla legge del mare, che parla, appunto, solo del porto più sicuro". "Ammettiamo, per assurdo, che questo nostro obbligo esista", prosegue Nordio. "Orbene, la disciplina dei naufraghi si applica a coloro che, in circostanze occasionali e impreviste si trovano in pericolo d vita. Ora è indubbio che i poveretti soccorsi in questi giorni versassero in pericolo. Alcuni, temiamo, saranno anche annegati. Ma è possibile affermare che queste navi tedesche battenti bandiere olandesi ( o viceversa), che incrociano a poche miglia dalla Libia e spesso sono in contatto con gli scafisti, è possibile, dicevo, sostenere che raccolgano “naufraghi”, o non piuttosto disgraziati cacciati in quella carrette secondo programmi elaborati da organizzazioni criminali? Ed è possibile che gli Stati di partenza, e anche quelli di bandiera delle navi, siano davvero ignari di questo traffico sciagurato? E allora da che parte sta la buona fede, che dovrebbe presiedere all’interpretazione e all’esecuzione dei trattati?". Nordio passa poi all'aspetto politico: "Il presidente Macron non ha nessun titolo per impartire lezioni di morale. Le vergogne di Calais e di Ventimiglia, dove i francesi hanno tenuto ammassati migliaia di migranti, fanno il paio con la macroscopica violazione della nostra sovranità con l’arrogante sconfinamento dei “gendarmes” a Bardonecchia. Ma la Francia non è l’unica. I primi a chiudere le frontiere sono stati i “progressisti” Stati baltici, la Svezia e la Danimarca. Poi la Gran Bretagna ha chiuso Dover, quindi tutta l’Europa dell’est ha sbarrato i confini, e l’Austria ha minacciato i carri armati al Brennero. L’Italia, ormai è quasi banale dirlo, è stata lasciata a sbrigarsela da sé". Dunque, conclude Nordio, "il nostro nuovo governo si sta comportando con coerenza e dignità. I migranti raccolti dall’Aquarius sono, e sarebbero stati comunque, assistiti: il ministro Salvini aveva anche proposto lo sbarco delle donne incinte e dei bambini. E’ comprensibile che l’Europa si rammarichi di aver perso il nostro universale centro di raccolta che la esonerava da tanti impegni umani e finanziari, ma deve farsene una ragione. E in effetti qualcosa si sta muovendo. Dopo una politica di remissività passiva, occasionalmente corretta dal ministro Minniti, alzare un po’ la voce non fa male". Insomma, la linea di Salvini promossa a pieni voti.
Ma il razzismo peggiore è quello dei buonisti, scrive Karen Rubin, Sabato 08/09/2018, su "Il Giornale". Esistono due forme di razzismo: manifesto, vecchio stile, carico di sentimenti ostili che impediscono qualsiasi forma di contatto con il migrante, e latente, più sottile, che si esprime in forme socialmente accettabili. Gli episodi di razzismo, dell'uno e dell'altro tipo, scaturiscono da un'ipotesi naïf per cui tunisini, ghanesi, siriani e nigeriani, a prescindere dalla loro singolarità e dallo status, di migranti o di rifugiati sarebbero tutti uguali: criminali alla ricerca di ricchezze facili o vittime miserabili in fuga dalla guerra e dalla povertà. Stereotipi che creano un pregiudizio da ambo le parti, avvalorato da una politica che oggettivizza il migrante come strumento per creare una contrapposizione ideologica tra presunti comunisti schierati con i deboli, e supposti fascisti odiatori dello straniero, categorie che non esistono più. Nel razzismo manifesto il migrante va rispedito al mittente, anche se il luogo da cui fugge è stato raso al suolo e imperversano guerre intestine. In quello latente il razzista dichiara solo quello che andrebbe fatto, accogliere tutti in nome dell'umanità e dell'uguaglianza tra i popoli e mai quello che realisticamente è possibile fare. L'intolleranza palese nasce quando chi accoglie ritiene insufficienti le risorse economiche e culturali finanche per se stesso, e alla luce di questa competizione ritiene legittimo difendere l'interesse del suo gruppo sociale. Il buonista convinto di combattere il razzismo lo alimenta, negando l'esistenza dei «buoni» da accogliere e dei «cattivi» da rispedire al mittente salva i secondi penalizzando e discriminando i primi. A livello conscio è egualitario ma inconsciamente è razzista perché nasconde un pregiudizio che trasforma ogni africano in un bisognoso del suo aiuto perché da solo, nel suo Paese mai progredirà. L'immigrato senza distinzioni d'identità sociale, culturale e nazionale, deve fuggire da casa sua e ritrovarsi in una baracca a Rosarno dove troverà un'accoglienza fatta di clandestinità, assenza di un lavoro dignitoso e di una casa in cui dormire perché anche l'Italia peggiore è migliore del Paese da cui proviene. In nome di questo pregiudizio all'immigrato e alle minoranze è perdonata l'illegalità. Lasciare che i rom trasformino i loro campi in zone franche dove tutto è possibile e nessuno può entrare non è egualitario, è razzista. Si autorizzano ghetti dove lo zingaro non ha doveri ma neanche pari diritti di sicurezza, e i ghetti generano razzismo. Il razzista latente è solidale al punto da non tollerare una giusta politica di regolamentazione dell'immigrazione, volta ad interrompere un traffico di esseri umani che frutta alle mafie mondiali 150 miliardi di dollari l'anno, di cui neanche uno andrà ai paesi africani che così perdono la loro forza lavoro e la loro gioventù e con loro la possibilità di un futuro.
Caso Salvini indagato: quando l’ipocrisia trapassa le nuvole e sfonda la cupola del cielo, scrive Enzo Sanna martedì 28 agosto 2018 su Agora Vox. Ci siamo arrivati! Il punto di non ritorno sembra essere stato raggiunto. Superfluo riassumere la nota vicenda della richiesta di messa sotto accusa di Salvini per i reati di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. La faccenda è arcinota. Chi ipotizzava (ed evocava) epocali cambiamenti a opera del governo grillino-leghista è servito. Chi già sapeva della truffa mediatica, o anche chi solo l’aveva intuita, oggi si può concedere un attimo d’ilarità, tanto amara, d’accordo, ma pur sempre accompagnata da una sonora risata liberatoria. Chi ha assistito al comizio di Salvini (andate a rivederlo in TV) a distanza di pochi minuti da quando gli è giunta notizia dell’operato della Magistratura nei suoi confronti, avrà colto in pieno il patema d’animo dell’uomo il quale, a caldo, forse non ancora istruito in merito dai suoi “consigliori”, sparava dal palco le solite trite e ritrite stupidaggini, ma ansimante, stordito, impaurito. E sì! Il “condottiero” se la stava facendo addosso. Altro che uomo forte, difensore degli italiani e dell’italianità, sfidante la magistratura; costui è apparso infine per ciò che è in realtà: un pallone gonfiato, un bulletto che cerca (e purtroppo trova) schiere di bulletti in giro per l’elettorato, gli stessi che gonfiarono di consensi prima Berlusconi, poi Renzi, poi Grillo e lui, Salvini. Vale per costoro, Berlusconi, Renzi, Salvini e Grillo (lasciamo al posto che meritano le mezze cartucce del M5S) ciò che potremmo definire il “paradosso del dirigibile”. Ai loro tempi, i dirigibili furono ammirati, invidiati, osannati, perfino venerati, sino a che una scintilla li trasformò un giorno in un inferno di fuoco, al pari dei loro inventori e realizzatori nazisti. Definire Salvini (o Grillo, o Renzi, o Berlusconi) un dirigibile può apparire esagerato. Però, fatte le dovute proporzioni, considerare l’attuale Matteo, al pari del suo omonimo predecessore e del mentore di entrambi, di nome Silvio, un palloncino gonfiato pronto a esplodere alla prima spina di rovo che incrocia il suo svolazzare, rende bene l’idea. Il paradosso è destinato a divenire paradigma? Passato il primo istante di confusione mentale procurata dalla paura, Salvini, di certo imboccato dal suo staff, si atteggia ora a vittima, avendo metabolizzato nel frattempo la assoluta certezza di trovarsi nella classica botte di ferro. Lui, povera vittima, fa parte degli impunibili, grazie ai suoi scudieri, alla sponda in Parlamento dei reduci berlusconiani e degli autodefinitisi Fratelli d’Italia, nonché (ve ne stupite?) dei grillini; per essere sintetici, dell’intero schieramento parafascista. I grillini mostrano finalmente al Paese il loro vero volto, quello degli imbroglioni; gli altri il volto che hanno sempre avuto. Martina, segretario del PD, accusa i grillini di servilismo nei confronti di Salvini, ma sbaglia; è qualcosa di molto peggio, è collusione. Toc toc… Provate a bussare alle porte del grillini “duri e puri”, quei forcaioli che si dicevano pronti a rivoltare la società in nome di una giustizia che in un tempo non troppo lontano somigliava tanto al giustizialismo. Dove sono finiti? Costoro, l’inconsistente Di Maio in testa, plaudono Salvini, gli assicurano salda l’immunità parlamentare, al pari degli altri fascistoidi in Parlamento, dai Fratelli d’Italia ai reduci berlusconiani in una sorta di “brodo primordiale” andato a male, del quale i putridi effluvi iniziano a permeare la società intera. Salvini godrà dell’immunità, dunque continuerà a fare e a disfare non solo su faccende riguardanti il Ministero al quale è stato nominato, ma scantonando ben oltre, dato che il presunto Presidente del Consiglio, tale Conte Giuseppe, latita, ben felice di dormire sonni tranquilli, tanto per lui non c’è problema. L’indimenticabile Fortebraccio, il corsivista dell’Unità quando il giornale era ancora di sinistra, avrebbe descritto così il Presidente Giuseppe Conte all’atto di apparire nella sala del Consiglio dei Ministri: “La porta si aprì. Non entrò nessuno. Era il Presidente Conte.” L’ultima “stellare” ipocrisia sulla vicenda si consuma nella dichiarazione di Salvini di rinuncia all’immunità parlamentare, ben sapendo che il cosiddetto “Tribunale dei Ministri” se ne può infischiare (?) dei suoi propositi falsamente dichiarati, della serie, prendiamo ancora per i fondelli gli italiani, tanto sono assuefatti alla vasellina. A tanto siamo ridotti! L’ipocrisia grillo-leghista ha raggiunto livelli “celesti” che neppure i ciechi mentali potranno ignorare di aver visto. A tal punto non è fuori tema rivolgerci la seguente domanda: in questo contesto, che fine ha fatto la sinistra, quella vera? Chissà! Ci dovremo affidare alla trasmissione RAI “Chi l’ha visto”, oppure qualcuno individuerà una sponda sulla quale approdare iniziando a mettere a dimora le semenze di una nuova cultura progressista, solidaristica, umanistica e socialista?
Salvini e la Lega sono nel mirino, scrive Marco Bertoncini. Italia Oggi, numero 212, pag.4 dell'8 settembre 2018. Sul piano giudiziario la partita giocata sui 49 milioni da sottrarre alla Lega non è ancora chiusa, tanto c'è chi ritiene che la Cassazione potrebbe trovare valide le tesi sostenute dai legali del movimento. Del resto, la pensano così non pochi giuristi, laddove Il Foglio, quasi fotocopia del Fatto, s'intestardisce nell'annichilire la posizione del Carroccio perfino sotto l'aspetto di stretto diritto. Sul piano mediatico passa la bufala che l'importo milionario sia stato truffato dai leghisti sottraendolo alle casse dello Stato. Ciò non giova all'immagine della Lega, perché una larga maggioranza d'italiani è giustizialista, anche fra gli elettori di Matteo Salvini. Sul piano governativo, i grillini, che in altre circostanze si sarebbero scatenati in nome del più forcaiolo giacobinismo, abbozzano. Non possono far altro se non ripetere l'assunto del rispetto per la magistratura, stante pure la propensione pentastellata per i più colpevolisti fra i magistrati (del tipo: è indagato, è colpevole, è un morto civile). Sul piano storico, assistiamo a un nuovo episodio della guerra fra magistrati e politici che ha trovato il culmine nella lotta a Silvio Berlusconi. Non c'è bisogno di parlare di complotti, di azioni guidate, di coordinamento tra poteri forti. È sufficiente che singoli magistrati, procuratori ma non solo, usino i propri poteri per schiacciare quelli che considerano avversari, sovente gettando le fondamenta per una successiva e lucrativa carriera politica. Lo strumento di cui si possono servire è il più confacente: il diritto. Nulla oggi è più stiracchiabile di una legge, sovente interpretabile ad libitum per l'oscurità che la caratterizza (la condanna della Lega ne è un esempio).
«Gli italiani sono con me». Salvini sfida il Riesame. Confermato il ricorso: sequestrati i fondi del Carroccio, scrive Rocco Vazzana l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Temete l’ira dei giusti». Inizia così il post con cui Matteo Salvini commenta le notizie che arrivano da Genova, dove il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso della Procura, autorizzando il sequestro dei fondi della Lega. Gli inquirenti cercano 49 milioni di euro milioni di euro di rimborsi elettorali non dovuti per cui sono stati condannati in primo grado l’ex segretario Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. Il sequestro preventivo ha «il fine di ristabilire l’equilibrio economico alterato dalla condotta illecita», scrivono i giudici del Riesame, convinti che il partito di Salvini abbia tratto un indiscutibile vantaggio patrimoniale dalle somme confluite nelle sue casse. Ma il ministro dell’Interno non gradisce affatto il responso che di fatto congela l’attività politica della Lega. «Lavoro per la sicurezza degli Italiani e mi indagano per sequestro di persona (30 anni di carcere), lavoro per cambiare l’Italia e l’Europa e mi bloccano tutti i conti correnti, per presunti errori di dieci anni fa», scrive sui social. «Se qualcuno pensa di fermarmi o spaventarmi ha capito male, io non mollo e lavoro con ancora più voglia. Sorridente e incazzato». I toni prudenti di qualche giorno fa hanno lasciato il posto a un attacco duro nei confronti della magistratura. «Se vogliono toglierci tutto facciano pure, gli italiani sono con noi», ammonisce il vice premie. «Spero che la procura di Genova impegni il suo tempo sul disastro dell’autostrada». Anche se Salvini si dichiara assolutamente «tranquillo», la notizia imbarazza comunque la maggioranza di governo. Il Movimento 5 Stelle, da sempre paladino della legalità senza se e senza ma, si sente in dovere di scagionare l’alleato di governo tra i mugugni dell’ala dura e pura del partito. «I fatti riguardano il periodo antecedente alla gestione della Lega da parte di Matteo Salvini», dice il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, assicurando tutti sulla tenuta del governo. La sentenza «fornisce ai magistrati tutti gli strumenti per reperire i fondi. Come ho sempre detto in questo momento i fatti di cui viene accusata Lega risalgono ai tempi di Bossi. Le sentenze si rispettano e si va avanti», dice il capo grillino, in sintonia con quanto dichiarato poco prima dal presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che poco prima aveva preso atto di come «diventa difficile svolgere l’attività politica nel momento in cui non c’è la possibilità di avere risorse finanziarie». Ma se il governo fa quadrato attorno al segretario del Carroccio, per le opposizioni di sinistra il sequestro dei conti diventa il pretesto per attaccare a testa bassa la maggioranza. «Ufficiale: la Lega Ladrona ha fatto sparire 49milioni», twitta Matteo Renzi. «Salvini dice: “Mi spiace, non li ho più, ma tanto gli italiani sono con noi”. Ma come? Qui si parla di sentenza, non di sondaggi. Un Ministro non rispetta una sentenza? E i cinque stelle? Tutti zitti per tenersi la poltrona?». Poco dopo tocca a Maria Elena Boschi rilanciare: «Mi hanno massacrata due anni per un incontro con un dirigente di banca. Per un incontro! Se invece rubassi 49 milioni e mi rifiutassi di restituirli, cosa mi farebbero? Lega Ladrona», scive sui social l’ex ministra. E per il coordinatore di Mdp, Roberto Speranza, «nessuno può sentirsi al di sopra della legge per le funzioni che ricopre o il consenso che ha». Con la Lega si schiera invece apertamente tutto il vecchio centro destra. La capogruppo dei deputati azzurri, Mariastella Gelmini, esprime piena «solidarietà agli amici ed alleati del Carroccio», dice. «Trovo ingiusto che un movimento politico paghi un conto così salato a causa di comportamenti personali di ex dirigenti. Una comunità non può rispondere di colpe dei singoli. Non si può sequestrare un partito». Anche Giorgia Meloni si schiera senza indugi: «Non sarà una sentenza ingiusta a fermare l’azione politica di un partito», dice la leader di Fd’I.
Le toghe rosse all'attacco: "Da Salvini parole eversive e intimidatorie". Magistratura Democratica contro Salvini: "Da lui parole eversive e intimidatorie". L'Anm: "Stravolge principi costituzionali", scrive Chiara Sarra, Venerdì 07/09/2018, su "Il Giornale". "Le parole di Salvini sono eversive e intimidatorie". L'affondo arriva da Magistratura Democratica, l'associazione dei magistrati di sinistra, che punta il dito contro il vicepremier dopo la sentenza del Riesame che ha confermato il sequestro di 49 milioni di euro alla Lega. "Non siamo di fronte alla valutazione critica di provvedimenti e di iniziative giudiziarie che in uno stato di diritto è legittima ed essenziale, ma ad affermazioni inaccettabili, che evidenziano toni e contenuti intimidatori", attaccano Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, "L'accusa alla magistratura di intervenire per scopi politici e di agire per ribaltare le scelte compiute democraticamente dagli elettori ha una portata eversiva, e realizza una grave interferenza rispetto all'esercizio delle prerogative che alla giurisdizione spettano a tutela dei diritti e della legalità". Ieri, dopo la pronuncia della sentenza, Matteo Salvini aveva evocato "l'ira dei giusti", ricordato ai magistrati che pur svuotando le casse della Lega sarebbero rimasti gli elettori: "Lavoro per la sicurezza degli Italiani e mi indagano per sequestro di persona (30 anni di carcere), lavoro per cambiare l’Italia e l’Europa e mi bloccano tutti i conti correnti, per presunti errori di dieci anni fa", aveva detto il leader del Carroccio e ministro dell'Interno, "Se qualcuno pensa di fermarmi o spaventarmi ha capito male, io non mollo e lavoro ancora più duro. Sorridente e incazzato". Segretaria e presidente di Magistratura Democratica sostengono invece che "contrapporre l'accertamento giudiziario alla volontà espressa dal consenso elettorale significa riproporre una visione falsamente democratica del potere come immunità dal controllo di legalità, svolto da un'autorità giudiziaria indipendente". "La magistratura è consapevole e attenta ai limiti delle sue funzioni e non si interessa di chi esercita la funzione di indirizzo politico", dicono, "Come in passato, temiamo la pretesa di esercitarla al di fuori dei vincoli che pone la Costituzione a tutela dell'eguaglianza di tutti di fronte alla legge e dell'indipendenza della magistratura". A rincarare la dose - dopo che Salvini ha aperto la lettera della procura di Palermo che ha trasmesso gli atti al tribunale dei Ministri - ci pensa l'Associazione nazionale dei magistrati (Anm) che parla di "un chiaro stravolgimento dei principi costituzionali, che assegnano alla magistratura il compito e il dovere di svolgere indagini ed accertamenti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è titolare di cariche elettive o istituzionali". "È completamente errato sostenere che i magistrati non possono svolgere indagini nei confronti di chi è stato eletto", dicono dall'Anm, "Così come appare fuori luogo sostenere che taluni magistrati svolgono le proprie indagini anche sulla base di orientamenti politici. In questa vicenda, come in ogni altra, la magistratura tutta agisce sulla base delle prerogative conferite dalla Costituzione e dalle leggi, prerogative che tutti, anche i membri del governo, devono tutelare e rispettare".
Conte: "Se non fossi il premier difenderei la Lega per sequestro dei fondi". Giuseppe Conte sta con Matteo Salvini: "Capisco il suo scoramento, immaginate un leader di un partito che da oggi in poi non può più disporre di un euro per poter svolgere attività politica", scrive Giovanna Stella, Venerdì 7/09/2018, su "Il Giornale". E mentre Luigi Di Maio si mette di traverso a Matteo Salvini criticandolo per l'attacco alla magistratura in merito al caso della nave Diciotti, Giuseppe Conte scende - in parte - in campo per il vice premier leghista. Il premier lo ha fatto durante l'evento La Piazza a Ceglie Messapica. Dopo aver affrontato diversi temi, dall'Ue all'immigrazione, Giuseppe Conte fa una riflessione anche sul sequestro dei fondi della Lega e sull'attacco di Matteo Salvini ai magistrati. "Immaginate un leader di un partito che da oggi in poi non può più disporre di un euro per poter svolgere attività politica - ha detto -. Non ha senso banalizzare il problema. Capisco lo scoramento di Salvini". E proprio dopo il suo "capisco", scende in campo per il leader della Lega: "Se non avessi fatto il premier mi sarei offerto per difendere la Lega, sarebbe stato stimolante. E non lo dico per offendere i legali che se ne occupano". Poche parole, ma che sicuramente faranno piacere a Salvini.
Fondi Lega, Bonafede: "Salvini non ci faccia tornare alla Seconda Repubblica". Alfonso Bonafede commenta così le parole che Matteo Salvini ha espresso dopo la decisione del Riesame di Genova, scrive Giovanna Stella, Venerdì 7/09/2018 su "Il Giornale". Dopo l'ok per il sequestro dei fondi alla Lega, Alfonso Bonafede condanna chiaramente il comportamento di Matteo Salvini. "Io non commento mai i singoli casi. In generale devo dire che un ministro può ritenere che un magistrato stia sbagliando nei suoi confronti, ci mancherebbe, però rievocare politicizzazioni, pensare che un magistrato sbaglia perché è una toga di destra o di sinistra significa andare fuori dal tempo", ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervenendo al programma Zapping quando gli viene domandato delle critiche del vice premier leghista sulla decisione del Riesame di Genova. E ancora: "Io non credo sinceramente che Salvini abbia nostalgia di quando la Lega governava con Berlusconi e siccome sta scrivendo insieme a noi il cambiamento del Paese non può pensare di far tornare l'Italia alla seconda Repubblica". Ma dopo queste prime dichiarazioni neanche troppo leggere, Bonafede cerca di alleggerire i toni contro Matteo Salvini e butta tutto sulla grande generalizzazione: "Ma è un concetto generale, ripeto, non riguarda il singolo caso". E intanto il primo attacco contro il ministro dell'Interno c'è stato. È evidente.
Alessandro Sallusti a Matteo Salvini: "Condanna folla, ma come puoi appoggiare il giustizialismo M5s?", scrive il 7 Settembre 2018 Libero Quotidiano". "Che giustizia è quella che non si pone il problema, applicando le leggi, dell’esistenza in vita di un partito che rappresenta milioni e milioni di cittadini, cioè della democrazia?". Apre così Allessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, l'editoriale di venerdì 7 settembre, un commento sulla sentenza del Riesame che ha condannato la Lega a pagare oltre 49 milioni di euro per la questione dei rimborsi fiscali. "Non c’è dubbio che, se la vecchia dirigenza del partito (i fatti contestati risalgono alla gestione Bossi-Belsito) ha sbagliato o, peggio, truffato, debba pagare. Ma che c'entrano il presente e il futuro?". Insomma, la critica di Sallusti alla condanna è netta. Il direttore, però, mette poi nel mirino l'alleanza gialloverde, quel governo Lega-M5s che guarda con sospetto per la componente grillina. Sallusti coglie l'occasione della sentenza per chiedere alla Lega "come possa appoggiare le manie giustizionaliste dei colleghi Cinquestelle" e approvare - ciò che è accaduto poche ore fa con il ddl anticorruzione - "un decreto che sembra scritto da Robespierre e che consegna ancora di più la vita degli imprenditori (e della politica) nelle mani, non necessariamente pulite, dei magistrati". Tra i riferimenti del giornalista, il Daspo per i tangentisti, per il quale d'ora in poi chi è condannato in via definitiva per corruzione non può più stipulare accordi con la Pubblica amministrazione. Chiaro il messaggio di Sallusti: come può un partito (la Lega) che ad oggi appare perseguitato dalla magistratura collaborare con un Movimento giustizialista?
Follia dei giudici: sequestrata la Lega. Confermata la sentenza che azzera i conti del Carroccio. L'ira di Salvini, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 07/09/2018, su "Il Giornale". Franklin Foer, autorevole giornalista americano autore tra l'altro del libro controcorrente I nuovi poteri forti (fresco di stampa da noi per i tipi Longanesi, lettura consigliata) sostiene che «l'Italia è un Paese in cui i meccanismi di potere non sono mai chiari, in cui le regole esistono ma non vengono mai applicate in modo convincente». Una sintesi perfetta che anche ieri ha trovato conferma nella sentenza della magistratura che, bloccando i suoi conti da qui all'eternità, ha di fatto sequestrato la Lega, primo partito nei sondaggi più recenti. Non c'è dubbio che, se la vecchia dirigenza del partito (i fatti contestati risalgono alla gestione Bossi-Belsito) ha sbagliato o, peggio, truffato, debba pagare. Ma che c'entrano il presente e il futuro, che giustizia è quella che non si pone il problema, applicando le leggi, dell'esistenza in vita di un partito che rappresenta milioni e milioni di cittadini, cioè della democrazia? Come ha intuito Foer osservando l'Italia dall'altra parte dell'oceano, da noi «i meccanismi non sono mai chiari». E tra i tanti, quelli della magistratura sono particolarmente oscuri. Successe con Mani Pulite all'inizio degli anni Novanta, quando un meccanismo perverso azzerò tutti i partiti meno che il Pci. È successo lungo tutti gli anni Duemila con un accanimento giudiziario senza precedenti contro l'imprenditore Silvio Berlusconi, che aveva provato con successo a scardinare l'assetto politico immaginato dagli ex comunisti e anche da larga parte della magistratura politicizzata. Da un lato tutto questo, come abbiamo già avuto modo di scrivere, è acqua al mulino della propaganda di Matteo Salvini. Ma dall'altro è la prova che l'Italia è una repubblica che continua a non «fondarsi sul lavoro», ma sul «lavoro dei magistrati», categoria non meno inquinata da corrotti, partigiani e cretini di qualsiasi altra. Per questo ci sfugge come possa la Lega appoggiare le manie giustizialiste dei colleghi di governo Cinquestelle e approvare, cosa fatta ieri, l'ennesimo decreto anticorruzione che sembra scritto da Robespierre e che consegna ancora di più la vita degli imprenditori (e della politica) nelle mani, non necessariamente pulite, dei magistrati. Per questo non capiamo come possa Salvini andare a braccetto con chi Grillo e Di Maio, fino a prima del 4 marzo, sosteneva che il ladro era proprio lui. No, anche in questa innaturale alleanza, alla pari della sentenza di ieri, non c'è proprio nulla di chiaro, né di convincente.
Garantismo: se è a ore non va. Editoriale di Piero Sansonetti dell'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Ha ragione Matteo Salvini, credo, a protestare per l’eccesso di attenzione della magistratura nei suoi confronti e nei confronti del suo partito. (Non ha ragione però a paragonare l’Italia alla Turchia: lì ci sono centinaia di prigionieri politici, non scherziamo). Ha ragione perché la decisione di paralizzare economicamente la Lega con il blocco di tutti i finanziamenti passati, presenti e futuri (per recuperare i 49 milioni che i magistrati ritengono siano stati percepiti irregolarmente, anni fa, dalla Lega di Bossi) sembra proprio una prepotenza, e un atto – deliberato o meno – di invasione nel campo della battaglia politica. E’ evidente che mettere il “bloccasterzo” al partito che oggi è di gran lunga il più popolare e il più forte politicamente nell’agone politico, è un atto che molto difficilmente può avere una interpretazione puramente “tecnica”. La ricaduta politica è evidentissima e bisogna ragionare sulle sue cause e sui suoi effetti. Prima diciamo che è ancora più clamorosa la decisione di scagliarsi contro il capo della Lega, accusandolo di reati da vero e proprio gangster (come sequestro di persona aggravato: roba da anonima sarda) per la vicenda, anche quella assolutamente politica, della Nave Diciotti e del blocco degli immigrati che ospitava. Personalmente ho considerato una iniziativa politica gravissima e sconsiderata quella di Salvini sulla Diciotti (usare 150 esseri umani come “ostaggi politici” per le trattative con l’Europa o, peggio ancora, come utili strumenti per guadagnare consensi elettorali). Ma se ogni volta che si apre un conflitto serio sui temi della politica dovesse scattare l’incriminazione giudiziaria di uno o di tutti e due i contendenti, questo paese sarebbe trasformato in una bolgia, in un inferno. Mi ricordo di quando, tanti tanti anni fa, consideravo sbagliata e prepotente l’iniziativa di Bettino Craxi – capo del governo e segretario del Psi – di tagliare la scala mobile ( che era un meccanismo di rivalutazione automatica degli stipendi), e mi ricordo di come su quel tema si accese uno scontro asperrimo, che portò ad una rottura profondissima nei rapporti politici a sinistra: provo a immaginarmi cosa sarebbe successo, allora, se qualche magistrato un po’ alla Patronaggio avesse deciso di mandare a Palazzo Chigi un avviso di garanzia per appropriazione indebita di salari… Non successe, per fortuna, perché l’Italia, in quegli anni, era un paese dove ancora il rapporto tra potere giudiziario e potere politico era un rapporto paritario ed equilibrato ( qualche anno dopo, invece, la magistratura partì all’attacco e Craxi fu davvero raggiunto da avvisi di garanzia in grado di annientarlo e di radere al suolo il suo partito). Credo che non ci siano dubbi sulla mia assoluta solidarietà con Salvini (dal quale dissento politicamente più o meno al 100 per cento…) per l’aggressione giudiziaria che sta subendo. Poi però sono costretto a fare alcune domande. Mi limito a quelle indispensabili. Anzi, a due sole, evitando la litania delle dieci domande. Come mai quando la magistratura napoletana (anche sulla base di documentazioni risultate poi false, e giungendo fino al punto da intercettare del tutto illegalmente dei colloqui tra avvocati ed assistiti) tentò di mettere in mezzo il segretario del Pd, parlo di Renzi, la Lega non scattò in sua difesa? Eppure era abbastanza chiaro che si trattava di un’iniziativa pretestuosa, appoggiata da una forte campagna di stampa, che oltretutto produsse dei danni irreparabili al partito democratico. Come mai, mentre lui denuncia l’eccesso di potere della magistratura, il suo partito ( cioè i suoi ministri) votano un disegno di legge ( quello anti- corruzione) che aumenta a dismisura il potere della magistratura, che rende legittime pratiche di dubbia compatibilità con la Costituzione, che introduce la daspo a vita, l’agente provocatore o qualcosa del genere, la confisca dei beni anche senza condanna, la sterilizzazione della prescrizione, l’esagerazione della già molto esagerata legislazione sui pentiti, eccetera eccetera? Mi sembrano difficili da spiegare queste contraddizioni. Così come mi sembra un po’ difficile spiegare come si concili il garantismo, giusto e rigoroso, per i reati che riguardano la Lega, e molti atteggiamenti della Lega (“buttate la chiave, buttate la chiave! ”) per tutte le situazioni di illegalità che invece riguardano i poveracci, e soprattutto gli immigrati e i rom. Il mio non è un ragionamento moralistico, o ideologico. Né tanto meno vendicativo. Semplicemente sono profondamente convinto che il garantismo sia un elemento essenziale di una possibile modernità liberale, e la rinuncia al garantismo sia una vera e propria promessa di autoritarismo. Il garantismo esiste solo se e quando si riesce a renderlo assoluto. Per gli amici e per i nemici. Per i vicini e per i lontani. Per gli italiani e per gli stranieri. Un garantismo a “scartamento ridotto” non è garantismo, anzi, è prepotenza. Poi nella battaglia politica ciascuno fa ciò che vuole e sostiene le idee che gli pare. Senza dover chiedere placet o timbri ai «titolari dell’etica». Non esistono i titolari dell’etica. Ma perché non esistano davvero è necessario affermare il garantismo (ciò, con una parola più semplice ed essenziale: il Diritto), come pilastro ineliminabile della democrazia. E convincersi che il garantismo non è una cosa che può essere sospesa, che può funzionare a intermittenza, ad ore. Capisco che è molto difficile fare questo in alleanza coi 5 Stelle. Però, allora, se si preferisce la via legalista, bisogna rinunciare alle proteste contro la magistratura. Naturalmente il discorso può anche essere rovesciato: il Pd, o almeno il Pd renziano che giustamente difese il suo segretario quando era finito sotto il tiro dei Pm, perché ora dà del ladro a Salvini? Possibile che, almeno in questo campo, l’unico coerente sia il vecchio e vituperato cavalier Berlusconi?
La Lega garantista alla carta. Editoriale di Piero Sansonetti del 6 luglio 2018 su "Il Dubbio". L’origine del moderno giustizialismo italiano sta in quel cappio che fu sventolato in Parlamento da un deputato della Lega. Era il 16 marzo del 1993 (giusto il quindicesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro, il “colosso” della prima repubblica) e l’on. Luca Leone Orsenigo si alzò in piedi è mostrò all’aula una corda legata col nodo scorsoio. Voleva impiccare i politici corrotti. Cioè, quelli accusati dai magistrati di Milano. Giorgio Napolitano, che era presidente della Camera, perse le staffe: «La smetta con queste buffonate», gridò tre volte. E’ vero che si dice che il padre della Lega, e cioè Umberto Bossi, chiamò il giovane Orsenigo e gli fece, in privato, una lavata di capo. Però l’immagine resta quella. Da allora il giustizialismo dilaga. Ha avuto successo soprattutto a sinistra e nella destra non forzista, ed è molto complicato immaginare la Lega come un partito garantista. Del resto, appena l’altroieri Matteo Salvini ha messo online un auto-video nel quale grida forsennatamente: «arrestando, arrestando, arrestando». Ripete per sette volte questo gerundio. E invita i giudici ad essere severi e a condannare. Si riferisce alla mafia, ai mafiosi. Ma voi sapete che spesso – sempre più spesso – finiscono in prigione per mafia persone che non c’entrano niente, e che aspettano anni per essere assolte. Quando un politico nel giro di un paio di minuti grida per sette volte la parola “arrestando”, ve lo dico per esperienza, è molto improbabile che sia un garantista. Perciò ha fatto un certo effetto la denuncia di Matteo Salvini contro la magistratura che ha ordinato il sequestro di tutti i possibili beni della Lega Nord finchè non si trovano almeno 49 milioni che sarebbero il malloppo che la Lega avrebbe sottratto allo Stato. I giudici, in questo modo, hanno deciso di bloccare qualunque attività economica della Lega. Non mi voglio pronunciare sul merito giudiziario della vicenda. Certo che quando la magistratura prende un provvedimento che rischia di paralizzare l’attività di un partito politico (protetta dall’articolo 49 della Costituzione) specialmente se questo partito è il principale partito di governo, legittimamente spinto al governo da un voto popolare, beh, viene da pensare che quello della magistratura sia un intervento politico. E che rischi di avere conseguenze che contrastano con il normale svolgimento democratico della lotta politica. Non è la prima volta che succede. Silvio Berlusconi è stato il bersaglio preferito della magistratura in questo quarto di secolo. Una volta è stato cacciato dal governo, una volta dal Senato, una volta gli sono stati levati 250 milioni e sono stati consegnati al suo principale avversario in politica e in economia, una volta è stato condannato alla detenzione e poi ai servizi sociali, una volta è stato tenuto fuori dalla campagna elettorale con risultati molto negativi per il suo partito. Ma Berlusconi non è l’unica vittima. Anche Prodi è stato scalzato dal governo dalla magistratura. E il numero di esponenti politici, sindaci, presidenti di Regione, parlamentari, ministri, rasi al suolo dalla magistratura, è altissimo. Qualcuno di loro mentre scrivo sta in prigione e paga con la propria esistenza la subordinazione della politica alla magistratura. Poi c’è Renzi, mai inquisito, ma abbattuto da una specie di congiura tra alcuni magistrati e alcuni giornali che si sono inventati una campagna di demolizione della sua figura, fondata su carte false. Quindi penso che Salvini abbia le sue ottime ragioni per protestare. E per parlare di decisioni politiche della magistratura. Il problema – come ha sottolineato anche Augusto Minzolini sul “Giornale” – è che Salvini è alleato al governo con il partito che più di tutti gli altri ha sempre sostenuto quella parte della magistratura a cui piace intervenire in politica. E che questa alleanza non sembra del tutto casuale. Si possono chiedere riforme che pongano un freno allo strapotere di settori della magistratura, ma per farlo bisogna decidere che è lo Stato di diritto il pilastro e il cuore della democrazia. E che lo Stato di diritto va rafforzato e non indebolito. Ecco, non si rafforza, per esempio, lo Stato di diritto annunciando che l’Italia è pronta a ridurre il diritto d’asilo, cancellando così l’articolo 10 della Costituzione. Non si rafforza lo stato di diritto riducendo i diritti umani. Né proibendo i soccorsi in mare. Né invocando arresti, arresti, arresti. Né proponendo libertà di sparare ai ladri. Tutto qui. Solidarietà alla Lega vittima. Ma sapendo che in gran parte è vittima di se stessa.
Salvini garantista slalomista, l’Alberto Tomba della destra, scrive il 24 marzo 2015 su "Il Fatto Quotidiano" Luisella Costamagna, Giornalista e autrice. Caro Matteo “Doppio Slalom” Salvini, Certo ne ha dovuta mangiare di cassoeula per diventare, da “nullafacente” negli studi Mediaset, segretario della Lega. E portarla addirittura al 15% nei sondaggi (occhio però, sono solo sondaggi). Coerente nell’opposizione al governo Renzi, e prima ai governi Letta e Monti, nelle battaglie contro l’Europa-Forcolandia e l’immigrazione (sia pure, oggi, con maggiori cedimenti alla destra neofascista), non sembra esserlo altrettanto nelle prese di posizione su moralità e giustizia. Su questi temi, deve ammettere, riesce a fare slalom sorprendenti, degni di Alberto Tomba. Oggi che Renzi difende i suoi sottosegretari indagati, lei giustamente tuona: “È garantista coi suoi amici ed è inflessibile con chi non sta nella sua cerchia”; così come giustamente era intervenuto contro il decreto del governo sulla non punibilità dei reati più lievi: “Niente galera per chi commette furto, danneggiamento, truffa – scrisse su Facebook – con la sinistra al potere l’Italia diventa il paradiso dei delinquenti”. Peccato però che poi, tra il dire e il fare, lei e la Lega abbiate messo di mezzo un mare più vasto di quello che vorreste sbarrare ai migranti. La sua Lega Nord ha appeso molto presto al chiodo il cappio dei tempi di Mani Pulite: è stata l’alleato più fedele di Berlusconi, e pur avendo i ministeri strategici (per Berlusconi) della Giustizia e dell’Interno, ha votato tutte – dico tutte – le leggi ad personam. Alla faccia della legge uguale per tutti. Poi, per non essere da meno, anche voi siete stati travolti dagli scandali: Belsito, Bossi, il Trota, soldi pubblici finiti (pare) in diamanti, investimenti in Tanzania e lauree farlocche. Certo, le colpe dei padri non possono ricadere sui figli neanche in politica, quindi si aspetta: cosa farà Salvini, il nuovo segretario tutto d’un pezzo che rivolta la Lega come un calzino? Chiede la galera per i ladri d’appartamento, ma non si costituisce parte civile contro quelli che hanno rubato in casa sua (e nostra). Non solo: a proposito dell’“essere garantisti solo con gli amici”, la Lega si schiera contro la decadenza di Berlusconi e, nell’ultimo anno, si astiene sulla riduzione delle pene per il voto di scambio politico-mafioso e sull’autoriciclaggio, e dice no all’ordine del giorno del M5S sulla sospensione dei vitalizi per i parlamentari in carcere (tipo “l’amico” Marcello Dell’Utri), nonché all’uso delle intercettazioni per il senatore Ncd Azzollini (indagato per una presunta maxi-frode da 150 milioni di euro) e per l’ex senatore Pd Papania (sotto inchiesta per voto di scambio e corruzione). Alla faccia della tolleranza zero contro il malaffare. Per arrivare alla sua recente richiesta di dimissioni del ministro Lupi, che “tiene famiglia”. Ma pure lei non è certo un agnello, visto che ha piazzato la sua ex compagna in Regione Lombardia. Caro Salvini, non è che anche per lei valgono due pesi e due misure: evoca “manette di ghisa” per poveri cristi e immigrati, e “tenuità del fatto” per gli amici potenti? Da uomo del Nord, forse, potrà dare lezioni di sci a Renzi, ma non di questione morale. Su questa, temo, il vostro è uno slalom parallelo. Un cordiale saluto. Il Fatto Quotidiano, 24 Marzo 2015
Quando Grillo urlava: Matteo bugiardo e ladro, scrive Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 7/09/2018, su "Il Giornale". Le bugie hanno le gambe corte, in compenso la rete ha una memoria lunghissima. In questi giorni tumultuosi per il Carroccio, i Cinque Stelle fanno i pesci in barile. Abbozzano frasi che dicono tutto e niente. Nicchiano. Parlano d'altro. Sono in imbarazzo. E c'è da capirli: come fa il movimento più giustizialista in circolazione a diventare improvvisamente garantista con il proprio alleato di governo? Quando scoppiò il caso Belsito, il governo gialloverde era fantapolitica difficilmente ipotizzabile e, cercando in rete, si scopre che i Cinque Stelle non trattarono il Carroccio con le stesse cautele di oggi. «Padania ladrona (...) ( ...) la Tanzania non perdona» è il sobrio titolo di un articolo pubblicato da Grillo sul suo blog nel gennaio del 2012, poco dopo lo scoppio dello scandalo. «Chissà perché proprio la Tanzania? I leghisti gli immigrati non li vogliono, ma fanno emigrare i soldi dei rimborsi elettorali. Cosa può fare un partito come la Lega con milioni di euro di finanziamenti pubblici? Investirli in Btp per aiutare il Paese a risollevarsi dal debito pubblico di cui è diretta responsabile o, piuttosto, in fondi esteri? La seconda». Grillo nel 2012 aveva già emesso la sua sentenza, senza appello. Ma il bubbone dell'affaire dei fondi africani non è mai andato giù al comico genovese. Lo scorso ottobre, siglato l'accordo elettorale del centrodestra, Grillo tornava all'attacco: «Matteo Salvini è un traditore politico. Oggi ha perso definitivamente qualsiasi tipo di credibilità. La sua Lega Nord, dopo gli scandali degli investimenti in Tanzania e dei diamanti comprati da Belsito con i soldi pubblici, era arrivata al 3%. Per risollevarsi Salvini in questi mesi ha fatto un lavoro sporco: ha copiato i temi del Movimento ed ha iniziato una finta campagna elettorale contro il sistema dei partiti. Ma è tutto un bluff. Urlavano Roma ladrona e, oltre a non tagliarsi mai lo stipendio, si sono intascati 180 milioni di euro di finanziamento pubblico ai partiti (di cui 48 milioni utilizzati in maniera illecita)». Il 10 dicembre 2014, in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati, andava oltre e puntava il dito contro il leader padano: «Quei soldi rubati sono andati anche a maglioncino nella notte (il nome in quel periodo affibbiato dal comico a Salvini)». Ma lo scambio di gentilezze tra 5 Stelle e Salvini è infinito, vi proponiamo un piccolo florilegio di qualifiche appioppate al leader leghista nel corso degli anni: ladro, razzista, impresentabile, piccolo uomo, ignorante fondamentalista, totalmente inaffidabile. E poi tutti gli hashtag ad hoc: #SALVINIBUGIARDO, #SALVINIBALLISTA, #SALVINIPROEURO, #SALVINISENZAPROFUGHINONCISASTARE. E, adesso, coerentemente, sono al governo insieme. E Grillo tace.
Il vizio del giustizialismo per gli avversari. Tutti gli attacchi di un forcaiolo doc. Da Berlusconi e Lupi, l'ex comico ha sempre chiesto processi, manette e gogna, scrive Fabrizio Boschi, Mercoledì 04/01/2017, su "Il Giornale". Indulgente con i suoi. Forcaiolo con gli altri. Il garantismo grillino, ripiego al quale, negli ultimi tempi, si sono aggrappati i discepoli della setta M5s, adatto a giustificare le infrazioni e le tante incompetenze commesse dai loro sindaci e parlamentari, è bello che finito. Si è tornati nella vecchia e cara fase forcaiola e giustizialista che più si addice al Karma cinquestelle. Nel 2012 l'attuale governatore della Lombardia, Roberto Maroni, appartenente a quella Lega Nord che mostrò un cappio in Parlamento, etichettò quella di Grillo come «una forma di lotta politica violenta e forcaiola». Forse aveva ragione. Da allora Beppe non smise più di chiedere dimissioni, galera e manette per i suoi avversari, anche se solo indagati. Giulia Grillo, altra esaltata, nel 2013 si scagliava contro Silvio Berlusconi: «È inaccettabile che un condannato per via definitiva continui a condizionare le sorti economiche del nostro Paese solo al fine di evitare l'esecuzione di una sentenza di condanna». Il garantismo è svanito da quando anche loro hanno scoperto che rispettare le regole nelle città che governano non è facile. Fa più comodo invocare la forca. Il vizietto dei grillini è sempre stato lo stesso: forcaioli con gli altri e garantisti con se stessi. L'ex ministro Maurizio Lupi fu crocifisso dai Cinque Stelle senza essere indagato, per lo scandalo del Rolex ottenuto in regalo da una persona coinvolta nell'inchiesta sulle tangenti per le grandi opere. I grillini lo attaccarono violentemente in aula, chiedendone le dimissioni. E le ottennero. Dimissioni che invocarono anche per il ministro Angelino Alfano, quando saltò fuori la storia del fratello assunto in una società delle Poste, e per la ex ministra Maria Elena Boschi per lo scandalo di Banca Etruria che coinvolge il babbo. In questi due casi senza ottenere successo però. La colla che usano per le loro poltrone è Super Attak. Nel settembre 2015, Beppe Grillo dall'alto del suo blog sognava «un Paese autoritario, illiberale e forcaiolo», «un partito unico, al 96%, senza opposizione dove ogni idea diversa è considerata inutile e dannosa». Nel mondo a cinquestelle il primo grado di giudizio sarà definitivo. «Abbiamo abolito la prescrizione», delirava. Luigi Di Maio l'intransigente, sempre nel 2015, rincarava la dose: «Non sono a favore della presunzione d'innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare». E questo vale per tutti tranne che per loro. I casi del doppiopesismo grillino si sprecano. Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto, finita nell'inchiesta sui condizionamenti della camorra alle elezioni, venne difesa a spada tratta. Quando a finire nel registro degli indagati per bancarotta fraudolenta fu il primo cittadino di Livorno, Filippo Nogarin, i pentastellati si spellarono le mani. Lo stesso per la fiducia accordata a Virginia Raggi combina-guai. «Onestà! Onestà!». Come scrive Spinoza: «Grillo propone sul blog una giuria popolare per valutare le bufale. Le migliori finiranno dritte in homepage».
"Sbagliato sequestrare i soldi della Lega. Vanno cercati solo i frutti del reato". Parla l'ex pm di Venezia, Carlo Nordio: "È giusto provare a recuperare le risorse usate da Belsito nei suoi 'magheggi' ma non lo è toccare le donazioni arrivate nel partito negli anni successivi. La Cassazione è stata ambigua", scrive Stefano Zurlo, Sabato 08/09/2018 su "Il Giornale". È la solita, eterna illusione del giustizialismo italiano: nuove leggi e pene più alte per combattere il mostro della corruzione. Carlo Nordio allarga le braccia: «Il disegno di legge anticorrotti farà cilecca, anche se il governo lo sta presentando come la panacea di tutti i mali».
Cominciamo con i soldi della Lega: sequestro sacrosanto?
«Il punto chiave è la pertinenza e io ho moltissimi dubbi sul modo in cui l'hanno interpretata».
Tradotto?
«Io posso pure andare avanti con i sequestri, anche anni dopo, anche per equivalente come affermano i tecnici, purché io stia seguendo i soldi o i beni frutto di quel reato».
È quel che sostiene la procura di Genova.
«Un attimo, la pertinenza non può essere data solo dal destinatario, ovvero la Lega che, fra l'altro, è cambiata e ha un altro segretario. Troppo poco».
Ma allora che cosa caratterizza la pertinenza?
«Un conto sono i soldi frutto della truffa consumata a suo tempo, altra cosa sono, a mio parere, le donazioni degli imprenditori, dei politici, del 2 per mille che arrivano oggi. Queste non sono il frutto di quel reato. Che c' entrano tali somme con i magheggi dell'era Belsito? Io non vedo alcun nesso, alcuna continuità. Oltretutto, in questo modo si suscita sconcerto nell'opinione pubblica che crede nella democrazia e nel suo funzionamento. Un minimo di cautela sul punto non guasterebbe».
Ma la Cassazione non ha ispirato la scelta del tribunale del riesame di Genova?
«La Cassazione ha scritto un verdetto ambiguo, sfuggente che non chiarisce bene il punto. Oggi, purtroppo il diritto è volatile, siamo in un'epoca in cui i giuristi possono dire tutto e il contrario di tutto. Ma resta, secondo me, il problema: gli oboli di oggi non dovrebbero essere aggrediti dalla magistratura sulla base dei comportamenti di ieri».
E qui si torna all'anticorruzione. Dov'è l'errore?
«Minacciare sfracelli serve a poco o niente. È già successo con altri interventi legislativi varati negli anni scorsi fra squilli di tromba e puntualmente rivelatisi inutili, o peggio, controproducenti. È vent'anni che lo ripeto, nel frattempo sono anche andato in pensione e ho lasciato la procura di Venezia, ma non cambia mai niente».
Nemmeno questa volta?
«Ci vogliono meno leggi, meno norme, poche regole chiare e precise. Invece siamo ai fuochi d' artificio. Ai proclami mirabolanti».
Il pezzo forte del disegno di legge è il daspo per i corrotti. Sbagliato?
«No, inutile».
Per Di Maio rappresenta una svolta nella lotta al malaffare.
«Se il daspo mette fuori gioco un manager, l'azienda può sostituirlo in corsa e continuare tranquillamente a fare i propri affari».
E se invece colpisce l'azienda che ha violato la legge?
«Esiste già un'arma, a suo tempo venduta come risolutiva: la legge 231».
Ovvero?
«La responsabilità amministrativa delle aziende. Purtroppo la 231 ha funzionato poco e male. Il daspo ne è la brutta copia».
L'agente infiltrato?
«Inapplicabile. Si può infiltrare qualcuno in un'organizzazione criminale, in una rete formata da molti malfattori, non fra due persone, un corruttore e un corrotto».
Non sarà che lei è troppo pessimista?
«No, sono realista. Affastellano soluzioni, in un eterno cantiere, che non risolvono niente. E poi, mi lasci dire, il corrotto non va spaventato, ma disarmato. Invece il sindaco furbetto ha a disposizione un ventaglio strepitoso di leggi e può scegliere quale applicare, in base ai propri interessi, in un contesto confuso e contraddittorio, in cui c'è grande spazio per le peggiori manovre. Altro che nuovi strumenti, la foresta andrebbe disboscata, invece si piantano sempre nuovi alberi, si introducono nuovi reati, si alzano le pene e si coltiva l'idea ingenua che questo serva per fermare le mani rapaci degli amministratori e degli imprenditori senza scrupoli. Ci rivedremo alla prossima riforma mancata».
Lega. Le sentenze si rispettano, scrive il 6 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". Legittimo condividere chi si chiede, in quale altro Paese europeo (e non solo) sarebbe stato possibile per un partito appropriarsi di oltre 38milioni di euro senza subire alcuna conseguenza? Ed inoltre in quale altro Paese civile e democratico il ministro degli Interni, nonchè vice presidente del Consiglio dei Ministri può sfacciatamente dichiarare che “il consenso popolare vale più di una sentenza della magistratura”? Per capire, però, come si è arrivati a questa sentenza, occorre fare un lungo passo indietro e seguire le date a partire dalla data di inizio di tutta la vicenda: il 23 gennaio 2012. Quel giorno un militante della Lega si presentava in Procura a Milano con un esposto contenente una serie di articoli di stampa in cui si parla di investimenti anomali fatti dal Carroccio in diamanti in Tanzania e conti offshore a Cipro. È lo scandalo che travolge Bossi (il quale il 5 aprile di quello stesso anno deve dimettersi dalla guida del partito da lui fondato) e la sua famiglia: soldi pubblici entrati nelle casse del partito come rimborsi elettorali e usciti senza giustificativi in quanto usati in spese personali per “the family” come riportava la scritta sulla cartelletta sequestrata dalla Guardia di Finanza negli uffici della Lega alla Camera dei Deputati. La cartellina con tutte le spese pazze della famiglia Bossi. Nella cartellina erano riportate e trascritte una serie di spese contabilizzate: 10mila euro per l’operazione di rinoplastica del figlio di Bossi, Sirio, le multe pagate con soldi pubblici all’altro figlio Renzo, soprannominato “il Trota”, e le spese per la ristrutturazione della casa di Gemonio acquistata dalla moglie di Umberto Bossi. Alcune pagine della cartellina sono dedicate all’Università albanese Kriistal di Tirana, dove Renzo “il trota” aveva ottenuto il diploma di primo livello in “Gestione aziendale”. Tutto questo materiale investigativo aveva consentito ai magistrati di ottenere la condanna e il sequestro dei fondi custoditi sui conti della Lega. Il 4 settembre 2017 la Procura “otteneva– si legge nei documenti – dal Tribunale l’emissione di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta nei confronti della Lega” di una somma pari a 48 milioni 969mila 617 euro. Lo scorso 3 luglio, con la propria sentenza n. 29923 la 2a sezione (Presidente Cammino, Relatore Verga) della Suprema Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Genova rinviando, per un nuovo esame nei confronti della Lega Nord, al medesimo Tribunale – Sezione per il riesame e gli appelli relativi alle misure cautelari reali, ma andiamo a spiegarvi meglio nel dettaglio, documenti alla mano cosa è successo. Con sentenza in data 24.7.2017 il Tribunale di Genova condannava gli imputati BOSSI Umberto, BELSITO Francesco, ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego e TURCI Antonio per violazione dell’art. 640 bis c.p. e, ai sensi del combinato disposto degli artt. 640 quater e 322 ter c.p., disponeva, in accoglimento della richiesta del P.M., la confisca diretta a carico della “Lega Nord” della somma di C 48.696.617,00, somma corrispondente al profitto – da tale ente percepito – dai reati per i quali vi era stata condanna. Conseguentemente, il pubblico ministero chiedeva ed otteneva dal Tribunale l’emissione di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta nei confronti della Lega Nord dell’ingente somma di denaro. Il Tribunale di Genova, in data 19 settembre 2017, precisava tuttavia che le somme da sottoporre a sequestro erano quelle depositate sui conti correnti bancari e/o libretti di risparmio e/o depositi bancari intestati o comunque riferibili alla Lega Nord, nonché altri beni fungibili nella disponibilità della stessa non oltre l’importo oggetto di confisca e non quelle depositande che sarebbero affluite in un momento successivo alla notifica ed esecuzione del provvedimento. Il pubblico ministero procedente chiedeva allora al Tribunale di Genova di estendere l’esecuzione del sequestro preventivo anche alle somme depositate sui conti correnti bancari e/o libretti di risparmio e/o depositi bancari intestati o comunque riferibili alla Lega Nord dopo la notifica del decreto di sequestro ma, in data 20 ottobre 2017, ma il Tribunale di Genova respingeva tale richiesta sostenendo che ai fini della confisca diretta, anche quando il profitto è costituito da denaro, è comunque necessario stabilire un nesso di pertinenzialità tra i reati e le somme da apprendere e che tale nesso è interrotto dalla intervenuta esecuzione del sequestro. Il sostituto procuratore della repubblica di Genova, appellava detta pronuncia avanti il Tribunale del Riesame che respingeva il gravame ritenendo non condivisibile la scelta di proseguire nella richiesta di sequestro in forma diretta nonostante l’esito infruttuoso dell’esecuzione sia perché ciò avrebbe comportato una estensione del sequestro cautelare a tempo indeterminato, sia in quanto era la stessa legge a consentire il sequestro di valore, una volta tentata infruttuosamente la via del sequestro diretto. Contro questa decisione ricorreva per Cassazione il Procuratore della Repubblica di Genova. La Cassazione ha ritenuto il ricorso della Procura di Genova assolutamente fondato ricordando, anzitutto, che secondo le Sezioni Unite “ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. Un., n. 10561 del 30/01/2014, nonché Sez. Un., n. 31617 del 26/06/2015, ). D’altronde, sempre le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affermato che «proprio la natura fungibile del bene – che si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche del percipiente ed è tale da perdere, per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza, qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica – rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; ciò che rileva è che le disponibilità monetarie in questo caso dell’ente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo“. Gli ermellini della Suprema Corte, proseguivano osservando che “l‘impossibilità di reperimento e sequestro dei profitti illeciti, che condiziona l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo in funzione della confisca per equivalente, non deve necessariamente essere assoluta e definitiva, ma può riguardare anche un’impossibilità transitoria o reversibile, purché esistente nel momento in cui viene richiesta e disposta la misura cautelare reale finalizzata alla confisca per valore”. E concludevano osservando che “la richiesta avanzata in corso di esecuzione dal Pubblico Ministero di estendere l’originario provvedimento cautelare anche alle somme affluite in un momento successivo alla data di esecuzione del decreto di sequestro, nei limiti del quantum del provvedimento ablatorio originario, non comporta novazione, stante l’irrilevanza della fonte del sequestro perché l’oggetto della misura cautelare è sempre quella del decreto originario, che tra l’altro non è stata oggetto di contestazione, e cioè l’esistenza di disponibilità monetarie della percipiente Lega Nord che si sono accresciute del profitto del reato, legittimando così la confisca diretta del relativo importo, ovunque e presso chiunque custodito e quindi anche di quello pervenuto sui conti e/o depositi in data successiva all’esecuzione del provvedimento genetico“. C’era molto attesa quindi per la decisione odierna del Tribunale del Riesame di Genova, dopo la decisione della Corte di Cassazione hanno accolto il ricorso della Procura del capoluogo ligure, dando via libera al sequestro dei fondi della Lega al fine di recuperare i 49 milioni di euro di rimborsi elettorali. Ma Matteo Salvini ancora una volta, ritenendosi immune attacca e afferma: “Gli italiani sono con noi”. Come faccia ad affermarlo, onestamente non è dato capirlo. I difensori della Lega potrebbero ora impugnare la decisione e ricorrere ancora in Cassazione, ma dopo l’ultima decisione della Suprema Corte sarebbe pressochè impossibile vedersi dare ragione. Se questa sentenza rappresenterà la fine della Lega, come aveva detto nei giorni scorsi il sottosegretario alla presidenza del consiglio on. Giorgetti, non è dato saperlo. Ma un concetto è certo: le sentenze vanno rispettate anche quando riguardano un partito di governo. Ed oggi che il Tribunale del Riesame di Genova ha condiviso la sentenza della Cassazione stabilendo che la Lega ha truffato lo Stato, (e i quindi i cittadini italiani) utilizzando ben 49 milioni di euro, di denaro pubblico, per usi personali, per la Lega si apre un vero problema. Scrivono i giudici del Riesame nelle motivazioni con cui hanno dato il via libera ai sequestri dei soldi presenti e futuri nelle casse della Lega: “Non solo non esiste alcuna norma che stabilisca ipotesi di immunità per i reati commessi dai dirigenti dei partiti politici, ma anzi – scrivono ancora i giudici del Tribunale del Riesame genovese – esiste una precisa disposizione di legge che impone la confisca addirittura come obbligatoria nel caso in esame”. Dopo il semaforo verde al sequestro dei fondi della Lega espresso oggi dal tribunale del Riesame dopo che la Cassazione aveva accolto la richiesta della Procura di poter sequestrare somme al Carroccio oltre a quelle già prelevate, scatta l’iter per attuare il sequestro. La Procura dovrà quindi rivolgersi al tribunale per avere il provvedimento con il quale procedere effettivamente al prelievo. I soldi verranno poi “congelati” nel Fug, il Fondo Unico della Giustizia, in attesa che la sentenza di condanna di Bossi e Belsito diventi definitiva, ma come farà la Lega a sopravvivere senza fondi? La somma nasce dall’appropriazione di rimborsi elettorali non dovuti dal 2008 al 2010, periodo in cui Salvini non era un estraneo alla Lega, in quanto era stato eletto parlamentare alla Camera dei deputati nella circoscrizione Lombardia 1.alle elezioni politiche del 2008, successivamente il 7 giugno 2009 venne eletto al Parlamento europeo, con 70 000 preferenze, ed il mese successivo si dimise da parlamentare italiano, scegliendo il seggio parlamentare europeo ben più remunerativo. Proprio a seguito di queste condanne, circa 3 milioni di fondi della Lega Nord erano stati da subito sequestrati in via preventiva, ma mancano ancora 45 milioni di euro all’appello. A seguito della scomparsa di questi ingenti fondi pubblici la decisione del Tribunale del Riesame che ha disposto, “il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta anche delle somme di denaro che sono state depositate sui conti correnti e depositi bancari intestati o comunque riferibili alla Lega Nord successivamente alla data di notifica ed esecuzione del decreto di sequestro preventivo emesso dal tribunale di Genova in data 4 settembre 2017, fino a concorrenza dell’importo di 48.969.617 euro”. Spiegato per chi non “mastica” giurisprudenza, gli ufficiali giudiziari devono sequestrare tutti i beni, anche quelli futuri, del partito, ovunque vengano reperiti. Dal contenuto della sentenza, viene spiegato infatti come la procura potrà procedere al sequestro, quindi l’iter giudiziario è molto chiaro e non basterà (come si prevedeva in un primo momento) cambiare il nome della Lega per cancellare le proprie responsabilità penali e civili. Attualmente dai bilanci pubblici nelle casse della Lega sono rimasti 5 milioni di euro. Legittimo quindi chiedersi: ma che fine hanno fatto tutti gli altri soldi (e non sono pochi!) che ad oggi mancano in cassa? Il leader della Lega, Matteo Salvini non ha mai saputo dare risposte convincenti a dei legittimi interrogativi che sarebbe il momento di sciogliere. Quali? Questi: come sono stati spesi i soldi? Perché sono stati spesi e non restituiti all’erario, visto che dagli atti del processo di Genova emerge e risulta documentalmente che quella somma si trovava nelle casse della Lega quando Umberto Bossi fu sostituito da Roberto Maroni e successivamente da Matteo Salvini? E soprattutto come mai il “Capitano” Salvini in qualità di segretario nazionale non si è costituito parte civile nel processo che è stato fatto contro la precedente dirigenza della Lega? Il leader della Lega continua a manifestare un’arrogante ingiustificata tranquillità unita a rabbia a stizza e la sua reazione sui social per aizzare i suoi fedelissimi, non lascia equivoci: la “botta” del Tribunale di Genova è arrivata a destinazione forte e chiara. Salvini oggi commentando la sentenza del Riesame ha dichiarato: “E’ una vicenda del passato, sono tranquillo, gli avvocati faranno le loro scelte: se vogliono toglierci tutto facciano pure, gli italiani sono con noi”. Quali italiani? Legittimo condividere chi si chiede, in quale altro Paese europeo (e non solo) sarebbe stato possibile per un partito appropriarsi di oltre 38milioni di euro senza subire alcuna conseguenza? Ed inoltre in quale altro Paese civile e democratico il ministro degli Interni, nonchè vice presidente del Consiglio dei Ministri può sfacciatamente dichiarare che “il consenso popolare vale più di una sentenza della magistratura”? Oltre ad aspettarci come cittadini e contribuenti delle risposte dalla Lega, siam ancora in attesa anche di una qualsiasi dichiarazione da parte del M5S alleati di governo. Per ora dal Movimento 5 Stelle stride un imbarazzante silenzio. Un silenzio “complice”. Imbarazzante ancora una volta il vicepremier Luigi Di Maio che a chi oggi gli chiedeva se la questione imbarazzi il M5Srisponde “no, i fatti riguardano il periodo antecedente alla gestione Salvini della Lega”. Alla domanda se la sentenza avrà ricadute sulla vita del governo, ha risposto “Da parte nostra no. Sappiamo benissimo che c’è una sentenza, le sentenze si rispettano e si va avanti”. Molto più saggio il premier Conte, che ha commentato “Ne prendo atto ma non commento, da avvocato lo avrei fatto. E prendo atto che ora per un partito politico sarà difficile svolgere attività politica”, ha detto Conte. Rispondendo a chi gli chiede se ci saranno ripercussioni sul governo dopo la sentenza, il premier ha detto: “Direi di no” allineandosi alla posizione del M5S. Qualcuno gentilmente si sforzi di spiegare a Luigi Di Maio che a volte prima di parlare è il caso di documentarsi. Le sue limitati conoscenze e competenze giuridiche come ben noto non glielo consentono. E’ la politica…tristezza. Altro che il Governo del cambiamento!
Sentenza Lega, la giustizia non è uguale per tutti: per i reati di Lusi paga il tesoriere, scrive il 7 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". In Italia la giustizia non è uguale per tutti. Basta confrontare la vicenda del sequestro dei fondi della Lega con il caso giudiziario di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, a cui, lo scorso dicembre, la Cassazione ha confermato sette anni di reclusione per aver sottratto 25 milioni di euro dalla casse dell'ex partito di Francesco Rutelli. Lusi fu indagato nel 2012 dalla Procura di Roma per appropriazione indebita di somme di denaro relative a rimborsi elettorali. Ma perché si chiede il Tempo, i soldi finiti nelle tasche di Belsito, Bossi & C. devono essere sborsati dalla Lega, mentre quelli di Lusi dovrà restituirli lui, di proprio pugno? La domanda è quantomeno legittima.
Sì della Cassazione al sequestro dei conti della Lega Nord. La decisione legata alla condanna di Umberto Bossi e Francesco Belsito per la maxi-truffa sui rimborsi elettorali, i Pm genovesi chiedono di bloccare fino a 49 milioni di euro di fondi, scrive Marco Lignana il 13 aprile 2018 su "la Repubblica". La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Procura di Genova, che ha chiesto di poter sequestrare i soldi che arriveranno in futuro sui conti della Lega Nord. Quei soldi che il partito, secondo i magistrati genovesi, deve restituire dopo la condanna di Umberto Bossi e Francesco Belsito per la maxi truffa sui rimborsi elettorali dal 2008 al 2010. I giudici della seconda sezione penale della Suprema Corte, hanno annullato con rinvio al tribunale del Riesame di Genova l'ordinanza con la quale i giudici genovesi avevano fermato il sequestro. Bisognerà però attendere le motivazioni, di norma depositate entro un mese, per capire come la Cassazione ha indicato al Riesame di rivalutare il caso. La Cassazione ha rigettato anche il ricorso di Bossi contro il sequestro disposto nei suoi confronti, così come ha rigettato quelli sui sequestri presentati dai tre ex revisori dei conti condannati con la sentenza dello scorso luglio. Mentre ha accolto, disponendo pure in questo caso il rinvio al Riesame, quello depositato dalla Lega Nord Toscana. La questione su cui si è dovuta pronunciare la Suprema Corte riguarda appunto la richiesta, da parte dei pm genovesi, di continuare a sequestrare tutti i fondi che in futuro dovessero arrivare nelle casse del Carroccio, fino al raggiungimento di circa 49 milioni. Somma finita sui conti della Lega senza che il partito, secondo i giudici, ne avesse diritto perché frutto di una truffa a Camera e Senato. Una vicenda nata dopo la sentenza dello scorso luglio che ha portato alle condanne di Bossi a 2 anni e due mesi e dell’ex tesoriere Belsito a 4 anni e dieci mesi, oltre a quelle di altri cinque imputati: i tre ex revisori contabili del partito Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi (rispettivamente condannati a due anni e otto mesi, due anni e otto mesi e un anno e nove mesi) e i due imprenditori Paolo Scala e Stefano Bonet (cinque anni ciascuno). Il tribunale aveva stabilito la confisca di quasi 49 milioni dai conti della Lega, ma la Procura aveva trovato quasi due milioni sui conti del Carroccio e aveva chiesto più volte di poter sequestrare anche le somme che in futuro sarebbero entrate nelle casse del partito. I giudici del Riesame avevano negato tale possibilità spiegando che il denaro andava cercato nei conti e tra gli immobili delle persone fisiche, in primis il Senatur e poi tutti gli altri. Ma i giudici avevano deciso che a Bossi può essere prelevato solo il quinto del vitalizio da parlamentare europeo. Nel frattempo, uno degli ex revisori contabili, Stefano Aldovisi, ha presentato un esposto in Procura e il procuratore aggiunto Francesco Pinto e il sostituto Paola Calleri ha aperto una inchiesta per riciclaggio. Gli accertamenti, per questo filone di indagine, riguardano il possibile reimpiego occulto dei “rimborsi truffa” ottenuti da Bossi e Belsito, secondo l’ipotesi accusatoria travasati attraverso conti e banche diverse, al fine di metterli al riparo da possibili sequestri. In altre parole, nell’opinione dei pm, quei fondi sono stati incamerati, riutilizzati e forse messi al sicuro dai sequestri consapevolmente dalla Lega durante le gestione di Umberto Maroni e quella, attuale, di Matteo Salvini. Un arco temporale in cui il partito, che all’inizio si era costituito parte civile contro il suo fondatore, aveva rinunciato a ogni pretesa.
Cassazione: "Ecco perché bisogna sequestrare i conti alla Lega ovunque siano". Le motivazioni della sentenza della suprema corte contro il partito del vicepremier Matteo Salvini, che dice: "E' un processo politico", scrive il 3 luglio 2018 "La Repubblica". "Ovunque venga rinvenuta" qualsiasi somma di denaro riferibile alla Lega Nord - su conti bancari, libretti, depositi - deve essere sequestrata fino a raggiungere 49 milioni di euro. È quanto scritto nelle motivazioni della sentenza di Cassazione che accoglie il ricorso del pm di Genova contro la Lega. Al partito di Matteo Salvini sono stati bloccati fino a oggi 1 milione e mezzo di euro. I 49 milioni di cui si parla sono quelli che la Lega ha sottratto durante la gestione Bossi-Belsito secondo una sentenza che ha condannato il fondatore e l'ex tesoriere del Carroccio rispettivamente a 2 anni e mezzo e 4 anni e 10 mesi per truffa ai danni dello Stato sui rimborsi elettorali. "49 milioni non ci sono. Posso fare una colletta - ha detto in serata Matteo Salvini a In onda - E' un processo politico su fatti di più dieci anni fa su soldi che non ho mai visto. Posso portare i soldi datici dai pensionati a Pontida per comprare magliette, cappellini e patatine fritte". Secondo la Cassazione, però, la Guardia di Finanza può procedere al blocco dei conti della Lega in forza del decreto di sequestro, emesso lo scorso 4 settembre dal pm di Genova. Non serve quindi un nuovo provvedimento per eventuali somme trovate su conti in momenti successivi al decreto. L'avvocato del Carroccio, Giovanni Ponti, sostiene invece che le uniche somme sequestrabili sono quelle trovate sui conti "al momento dell'esecuzione del sequestro" con "conseguente inammissibilità delle richieste del pm di procedere anche al sequestro delle somme depositande". La tesi della difesa della Lega è che il pm potrebbe chiedere la confisca "anche delle somme future" solo durante il processo di appello. Ma la Cassazione ha obiettato che i soldi sui conti potrebbero non essere stati trovati al momento del decreto "per una impossibilità transitoria o reversibile" e il pm non deve dare conto di tutte le attività di indagine svolte "altrimenti la funzione cautelare del sequestro potrebbe essere facilmente elusa durante il tempo occorrente per il loro compimento". La reazione del partito è stata per ora affidata a Giulio Centemero, deputato e amministratore del partito: "Siamo stupiti di apprendere dalle agenzie, prima ancora che dalla Cassazione, le motivazioni della sentenza per cui dovrebbe proseguire il sequestro relativo a 48 milioni di euro di rimborsi elettorali. Forse l'efficacia dell'azione di governo della Lega dà fastidio a qualcuno, ma non ci fermeranno certo così". E poi fonti della Lega fanno sapere che sono pronte decine di querele nei confronti di chi parla di "soldi rubati dalla Lega".
Ecco perché la Lega deve restituire i 49 milioni. Lo dicono i giudici. Una memoria dell’avvocatura di Stato e la sentenza di Genova spiegano il motivo per cui i soldi dei rimborsi vanno sequestrati, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 19 luglio 2018 su "L'Espresso". Se qualcuno ha sottratto ai fondi della Lega, 500 mila euro o 800 mila, come fai a contestarmi un finanziamento di 49 milioni, basato sul numero di voti presi?». La tesi esposta lunedì scorso sul Corriere della Sera da Roberto Calderoli, uno dei pochi esponenti storici rimasti al vertice del partito anche adesso che comanda Matteo Salvini, riassume bene la posizione della Lega sulla vicenda dei quasi 50 milioni messi sotto sequestro dalla magistratura. Le stesse argomentazioni sono state ripetute dal tesoriere Giulio Centemero e dal vice premier Salvini. Da qui l’ipotesi «ci attaccano perché diamo fastidio» e le accuse ai magistrati di aver confezionato «una sentenza politica». In realtà le cose sono molto più semplici. Per capirle basta leggere la sentenza di condanna per truffa ai danni dello Stato comminata in primo grado dal tribunale di Genova lo scorso luglio contro Bossi e Belsito. E la memoria di 60 pagine depositata dall’avvocatura dello Stato in difesa di Camera e Senato, costituitesi parti civili nel processo per truffa. La coppia Bossi-Belsito spera nel processo d’Appello. Il 12 luglio è stato il giorno della requisitoria della procura generale, che rappresenta l’accusa in secondo grado. Difficile che si arrivi a sentenza entro la fine di luglio. Più probabile che i giudici decidano a settembre. Di sicuro a sostenere la tesi dei pm c’è di nuovo l’avvocatura dello Stato. Che, nella memoria depositata nel giudizio di primo grado, spiega i motivi per cui la Lega non avrebbe dovuto ottenere i rimborsi, e quindi la ragione della richiesta di sequestro dei 49 milioni. I giudici hanno stabilito di confiscare i rimborsi elettorali percepiti negli anni 2008-2009-2010 poiché i bilanci presentati dal partito in quei tre anni erano stati falsificati. «La liquidazione», si legge infatti nella sentenza, «è subordinata all’accertamento della regolarità del rendiconto». Lo prevede la legge, la numero 2 del 1997. Insomma l’erogazione dei rimborsi era vincolata alla presentazione di un bilancio regolare. Il problema è che in quei tre anni, come dimostrato al processo, i conti del Carroccio erano stati truccati. Attraverso «artifici e raggiri», si legge nella sentenza, sono state «riportate nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa ed in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico». Proprio in relazione a quest’ultima frase, quella sulle spese estranee alla Lega, i giudici spiegano che «si è proceduto separatamente nei confronti di Francesco Belsito, Umberto Bossi e Renzo Bossi». Questo è il punto su cui si rischia di fare confusione, per lo meno stando alle dichiarazioni di Calderoli. Perché il fatto che Bossi e colleghi abbiano speso soldi per fini personali - le lauree in Albania, ad esempio - non coincide con la truffa nei confronti dello Stato. Quella si chiama appropriazione indebita, reato per il quale il vecchio leader, l’allora tesoriere Belsito e il “Trota” sono stati condannati dal tribunale di Milano. In altre parole, i soldi che Salvini si dice disposto a mettere di tasca propria non hanno nulla a che fare con i 49 milioni messi sotto sequestro. Quelli, hanno deciso i giudici, la Lega li deve restituire perché percepiti illegalmente. La linea della difesa leghista è molto semplice e si basa su una anomalia del meccanismo: i rimborsi elettorali erano legati al numero di voti presi dal partito, quindi la rendicontazione delle spese era una pura formalità. La sentenza dei giudici di Genova e la memoria dell’avvocatura dello Stato fanno valere una tesi diversa. Come abbiamo detto, la legge del ’97 regolava i rimborsi vincolandoli alla presentazione di regolare bilancio. La successiva modifica del ’99, spiegano i giudici, «attribuiva un rimborso in relazione alle spese elettorali sostenute per le campagne per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, del Parlamento europeo e dei Consigli Regionali». A un patto, però: che i bilanci non presentassero irregolarità, pena la sospensione dell’erogazione. Ecco perché i giudici, sostenuti in questo dai legali di Camera e Senato, sottolineano il fatto che i conti del Carroccio presentavano «false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute». E non si è trattato di spiccioli: nella sentenza si legge che nei tre anni analizzati «mancavano pezze giustificative per i due terzi delle spese del Movimento». Vale a dire circa 46 milioni di euro usciti dalle casse della Lega senza motivo. Per queste ragioni i giudici hanno deciso di sequestrare tutto il rimborso ottenuto dal Carroccio per quegli anni e non solo, come vorrebbe Salvini, il malloppo utilizzato da Bossi e Belsito per scopi privati. Come mai lo stesso trattamento non è stato riservato alla Margherita? La domanda è stata proposta più volte in questi giorni su giornali e social network. Perché Luigi Lusi, ex tesoriere del partito guidato da Francesco Rutelli, è stato protagonista di vicende molto simili a quelle di Bossi e Belsito, avvenute peraltro negli stessi anni e raccontate da L’Espresso con diverse copertine esclusive. In sostanza Lusi si era intascato parecchi milioni di euro frutto dei rimborsi elettorali, eppure i giudici non hanno sequestrato i soldi al partito. Il motivo sta tutto in una formuletta giuridica: costituzione di parte civile. Mentre la Margherita aveva infatti chiesto i danni a Lusi, ottenendo come conseguenza la restituzione del tesoro, la Lega di Salvini ha scelto di non farlo con Bossi e Belsito. «Sarebbe uno spreco di tempo e soldi», spiegò all’epoca il ministro dell’Interno. Che non aveva fatto bene i calcoli: la maledizione della truffa è ricaduta infatti anche sull’attuale partito, il quale non solo non otterrà alcun risarcimento ma dovrà restituire il maltolto. Una punizione aggravata dalle valutazioni dell’avvocatura dello Stato. Nella conclusione della memoria, i legali che rappresentano Camera e Senato definiscono «inqualificabile e scellerato» il comportamento dei protagonisti della truffa, soprattutto perché nel frattempo l’Italia viveva «un buio periodo», scrivono gli avvocati dello Stato, «nel quale i vertici del Paese sono stati costretti ad emanare disposizioni di rigido contenimento della spesa pubblica, tra le quali il blocco della contrattazione e l’aumento dell’età pensionabile con la riforma Fornero e via dicendo. Si rimane pertanto sbalorditi nel sapere che negli stessi anni venivano distribuiti migliaia di euro in nero a dipendenti della Lega tramite le “buste Buffetti”». L’atto d’accusa dei legali di Camera e Senato mette in relazione l’allegra gestione dei soldi pubblici da parte dei partiti, nel caso specifico della Lega, con il ricorso a drastiche politiche di austerity, come la legge Fornero. Quasi un contrappasso per Matteo Salvini, che sull’abolizione della riforma ha eretto un pezzo del suo successo elettorale.
Sentenza sui fondi al partito, la Lega chiede un incontro a Mattarella: "Messi fuorilegge come in Turchia". Durissima offensiva del Carroccio: "Vogliono mettere fuori gioco per via giudiziaria il primo partito italiano". Csm: toni inaccettabili. Di Maio: lo scandalo riguarda Bossi. Il capo della procura di Genova: "È come dire che un chirurgo compie un intervento perché il paziente è di un partito o di un altro". L'Anm: i magistrati non attaccano la democrazia, scrivono Tiziana Testa e Concetto Vecchio il 4 luglio 2018 su "La Repubblica". Matteo Salvini aveva parlato di una sentenza politica. Oggi la Lega va oltre e fa sapere di voler chiedere un incontro al capo dello Stato Sergio Mattarella, appena ritornerà dalla visita in Lituania. Le dichiarazioni dei vertici del Carroccio sono durissime: "Si tratta di un gravissimo attacco alla democrazia per mettere fuori gioco per via giudiziaria il primo partito italiano. Un'azione che non ha precedenti in Italia e in Europa". Il caso è quello della sentenza sui 49 milioni che la Lega deve restituire allo Stato: soldi frutto di una truffa, secondo quanto stabilito dal tribunale di Genova dopo la condanna di Umberto Bossi e dell'ex tesoriere Belsito. Ieri la Cassazione ha fatto conoscere le motivazioni per cui quei soldi vanno cercati ovunque e sequestrati. Da via Bellerio si parla addirittura di "attacco alla Costituzione, perché si nega il diritto a milioni di italiani di essere rappresentati". Nel corso della giornata lo scontro si è trasformato in uno scontro con il Csm. La Lega ha evocato addirittura la Turchia. E' scesa in campo l'Anm che ha specificato che i giudici non attaccano la democrazia. Un crescendo che ricorda gli attacchi di Berlusconi alla magistratura negli anni di governo del centrodestra. Nessuno al Csm risponde alle critiche della Lega alla sentenza della Cassazione sui fondi del partito, ma a Palazzo dei Marescialli si è tenuto un confronto al termine del plenum, durante il quale, a quanto si apprende, è stata espressa "seria preoccupazione" per parole e toni che vengono ritenuti "non accettabili". La reazione della Lega, in serata, non si è fatta attendere, ed è stata durissima: "Solo in Turchia un partito democratico, votato da milioni di persone è stato messo fuorilegge dalla magistratura", riferiscono ambienti vicini a Salvini. "Sarebbe ora che non ci fossero più correnti di sinistra né di nessun genere fra i magistrati, che dovrebbero essere imparziali": hanno specificato i capigruppo leghisti Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari e il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. Dal Quirinale non trapela nessun tipo di commento circa la richiesta di un incontro. In ambienti parlamentari però, si osserva che mai in passato i presidenti della Repubblica abbiano interferito con decisioni della magistratura. "Evidentemente le sentenze vanno rispettate in qualunque Paese democratico del mondo. Si possono criticare le sentenze ma non attaccare i giudici, perché questo è contrario al principio di separazione dei poteri", ha spiegato il segretario nazionale dell'Anm, Alcide Maritati. "Va ribadito con forza che i magistrati non adottano provvedimenti che costituiscono attacco alla democrazia o alla Costituzione, nè perseguono fini politici, ma emettono sentenze in nome del popolo italiano, seguendo regole e principi di diritto di cui danno conto nelle motivazioni", ha spiegato il presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Francesco Minisci. "L'Anm rigetta ogni tentativo di delegittimare la giurisdizione e di offuscare l'imparzialità dei magistrati, principio costituzionale a difesa del quale continuerà sempre a svolgere la propria azione, auspicando che chiunque eserciti funzioni pubbliche abbia a cuore gli stessi fondamentali principi". E' intervenuto anche il capo politico dei Cinquestelle. "La vicenda dei fondi non mi crea alcun imbarazzo", ha spiegato Luigi Di Maio, commentando la vicenda da Casal di Principe. "Riguarda Bossi e il suo cerchio magico. In ogni caso è una sentenza e va rispettata". Dal Pd arriva un altolà sul coinvolgimento del Colle nel caso. "Se fossero confermate le pressioni della Lega per chiedere un incontro nientemeno che al presidente Mattarella sulla sentenza della Cassazione, saremmo di fronte a un caso grave e senza precedenti di invasione delle competenze costituzionali: che c'entra tirare in ballo il presidente della Repubblica con una sentenza giudiziaria, peraltro del massimo organo della nostra giurisdizione?", dice Michele Anzaldi, deputato Pd, che aggiunge: "Abbiamo già assistito all'assalto di Di Maio e del Movimento 5 stelle contro il Colle durante i giorni della formazione del Governo, il Quirinale deve essere tenuto al riparo da questioni che nulla hanno a che vedere con le sue prerogative. E infine: "È opportuno che sia il vicepremier e leader della Lega Salvini, sia il presidente del Consiglio Conte smentiscano un'intenzione del genere". In mattinata Salvini aveva provato a circoscrivere la portata dell'attacco: "C'è qualche giudice che fa politica ma non c'è un disegno generale", aveva detto. Poi la scelta di puntare tutto sul piano politico lanciando l'allarme per la democrazia. Alla Lega intanto risponde la procura di Genova: "Dire che è un processo politico è come dire che un chirurgo quando opera compie un intervento politico su un paziente perché è di un partito o di un altro. Stiamo lavorando solo su profili tecnici", dice il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi. "La nostra procura ha seguito la vicenda perché in quel momento i soldi della Lega si trovavano ad essere a Genova e per competenza territoriale Milano ha inviato gli atti ai nostri uffici", ricorda Cozzi. E aggiunge: "Ci sono stati altri procedimenti avviati dai nostri uffici che hanno riguardato esponenti di partiti diversi, basti pensare all'alluvione (processo in cui è stata condannata l'ex sindaco di centrosinistra Marta Vincenzi, ndr)". Per tutta la giornata dal Pd sono arrivati duri attacchi al Carroccio e ai suoi alleati. Prima l'ex premier, Matteo Renzi: "Stiamo aspettando che il ministro Salvini venga a raccontare che fine hanno fatto i soldi della Lega. Nel frattempo che è impegnato a chiudere i porti bisognerebbe che aprisse il portafoglio perché quei soldi non sono della Lega sono dei cittadini". Il segretario reggente, Maurizio Martina, chiama in causa anche i Cinquestelle: "C'è un assordante silenzio grillino in queste ore sui 50 milioni di euro pubblici che la Lega deve restituire agli italiani. Dove sono i tromboni della morale a cinquestelle? Sono in silenzio perché per loro il potere è più forte della verità ora". Su Facebook anche lo scrittore Roberto Saviano torna all'attacco sul caso dei fondi leghisti: Un ministro che querela uno scrittore per aver manifestato liberamente il suo pensiero è un altro passo verso la Russia di Putin. Spero vivamente che Salvini mi quereli sul serio, non vedo l’ora di trovarmi con lui davanti a un giudice: avrebbe l’obbligo di dire la verità, per lui un’esperienza nuova. Quanto ai 50 milioni rubati dalla Lega, invece di manipolare l’ingenuità dei suoi elettori, il Ministro della Mala Vita Salvini potrebbe sfruttare qualche linea di credito già aperta con lo zar Vladimir. Un giorno non lontano gli italiani capiranno chi è il vero “traditore della patria”.
Fondi, scontro tra Lega e Csm "Messi fuorilegge come in Turchia". Il Carroccio chiede un incontro con Mattarella dopo il verdetto sul sequestro dei conti. Per le toghe "toni inaccettabili", scrive Franco Grilli, Mercoledì 04/07/2018, su "Il Giornale". È scontro aperto ormai tra la Lega e i magistrati dopo l'ok da parte della Cassazione per il blocco dei conti del Carroccio. Matteo Salvini già nel corso del suo intervento a In Onda ieri sera aveva parlato di una "sentenza politica". "Questa è una sentenza politica, cercano di metterci fuori legge e non ci stanno riuscendo. Possono sequestrarmi quello che vogliono". Parole dure quelle del titolare del Viminale a cui sono seguite anche le richieste da parte del Carroccio di poter incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in tempi rapidi per discutere del sequestro dei fondi del partito. Dopo questa mossa del Carroccio è arrivata la replica del Csm che si dice allarmato per la richiesta della Lega di voler coinvolgere il Colle in questo caso giudiziario. Fonti di Palazzo dei Marescialli criticano le accuse della Lega che parla di "attacco alla democrazia". E sempre dal Csm sarebbe emersa "forte preoccupazione" per i toni ritenuti "inaccettabili". A stretto giro è arrivata anche la controreplica proprio della Lega che mantiene la sua posizione e fa un paragone tra quanto accade in Turchia e quanto sa accadendo in Italia: "Solo in Turchia, nei tempi moderni, un partito democratico e votato da milioni di persone è stato messo fuorilegge attraverso la magistratura", avrebbero fatto sapere fonti del Carroccio in risposta al Csm. Intanto i capigruppo della Lega, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari hanno lanciato un messaggio chiaro: "Sarebbe ora che non ci fossero più "correnti di sinistra" né di nessun genere fra i magistrati, che dovrebbero essere imparziali". Pronta la risposta dell'Associazione Nazinale Magistrati: "Va ribadito con forza che i magistrati non adottano provvedimenti che costituiscono attacco alla democrazia o alla Costituzione, nè perseguono fini politici, ma emettono sentenze in nome del popolo italiano, seguendo regole e principi di diritto di cui danno conto nelle motivazioni. L’Anm rigetta ogni tentativo di delegittimare la giurisdizione e di offuscare l’imparzialità dei magistrati, principio costituzionale a difesa del quale continuerà sempre a svolgere la propria azione, auspicando che chiunque eserciti funzioni pubbliche abbia a cuore gli stessi fondamentali principio". Sul caso, interpellato dai giornalisti, è intervenuto anche il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio: "È una sentenza che non mi crea imbarazzo, lo scandalo riguarda Bossi e il suo cerchio magico e non la Lega di Salvini. In ogni caso è una sentenza e va rispettata. Ricordo che con la Lega abbiamo stipulato un contratto di Governo che prevede di fare insieme norme anticorruzione". Insomma lo scontro tra il Carroccio e le toghe prosegue ed è destinato a durare ancora a lungo. Di fatto la vicenda riguarda i rimborsi elettorali che la Lega Nord ha incassato nel biennio 2008-2010. I fondi che ammonterebbero a 49 milioni, secondo l'accusa sarebbero stati utilizzati per spese che non avrebbero legami con l'attività politica. Per questi fatti è arrivata la condanna circa un anno fa per Bossi e l'ex tesoriere Belsito per truffa ai danni dello Stato. Proprio dopo la sentenza i giudici avevano disposto la confisca di 49 milioni di euro.
Salvini e i magistrati. Uno strappo e troppe amnesie. Il ministro dell’Interno attacca. Tacciono invece il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, scrive L. Ferrarella il 4 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". «È una sentenza politica, siamo l’unico partito europeo che si vuole mettere fuori legge per sentenza giudiziaria»: peggiorare le parole del ministro Salvini sulla Cassazione era già arduo, ma c’è riuscita la Lega immaginando ieri l’inimmaginabile, e cioè di poter salire al Quirinale e usare il capo dello Stato quasi come irrituale grado d’appello contro una sentenza sgradita. La reazione di Matteo Salvini all’ammissibilità in Cassazione del sequestro dei 49 milioni di finanziamento pubblico alla Lega Nord, provento della truffa allo Stato costata in primo grado la condanna a Bossi e all’ex tesoriere Belsito, pareva già un record di analfabetismo istituzionale: lo strappo non «solo» di un segretario di partito, ma addirittura di un ministro dell’Interno che — alla faccia del «governo del cambiamento», e facendo impallidire persino il Berlusconi d’annata — proclama che i giudici della Corte suprema italiana non sono imparziali ma, mossi da pregiudizio personale, abusano della propria funzione per perseguire finalità politiche tecnicamente eversive quali quella (attribuita loro da Salvini) di «mettere fuori legge per sentenza» un partito votato da milioni di cittadini. Solo la narcosi imperante può far sorvolare sul fatto che Salvini minacci «querele a chi mi tira in ballo», ma non si faccia scrupoli ad attribuire ai giudici della Cassazione la commissione di un reato; o che scarichi su «chi c’era prima di me 10 anni fa» nella Lega, ma intanto a Milano non sporga contro «chi c’era 10 anni fa» la querela indispensabile a non fare estinguere in Appello un’altra condanna di Bossi e Belsito per aver usato soldi del partito a fini privati. Ma è forse più impellente domandare al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dirigente di quel Movimento 5 Stelle che da sempre dichiara di fondarsi sulla «legalità», se iscriva le parole di Salvini in quei «principi di autonomia, imparzialità e terzietà della magistratura» che il Guardasigilli pochi giorni fa prometteva al Csm di voler consolidare. E poiché tace pure la presidenza del Consiglio, titolare dell’interesse dei cittadini a contare su giudici imparziali (e perciò parte civile nei processi a toghe imputate d’aver svenduto la propria funzione), anche Giuseppe Conte alimenta un dubbio: sui giudici italiani il premier “avvocato degli italiani” la pensa come il suo ministro dell’Interno?
Soldi Lega, il vero motivo dell'accordo sui 49 milioni (in comode rate). Al partito di Salvini è stato concesso dalla Procura di restituire 100mila euro ogni due mesi. Con la decisione di versare autonomamente quanto dovuto allo Stato, il vicepremier dovrebbe evitare intrusioni investigative nei conti del partito ma soprattutto in quelli delle associazioni e fondazioni legate al suo cerchio magico, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 18 settembre 2018 su "L'Espresso". Alla fine l'accordo è arrivato: 48,9 milioni di euro da restituire ai cittadini italiani in comode rate e senza interessi. Una soluzione che rivela una crepa nell’impalcatura difensiva della Lega di Matteo Salvini. Un po’ come è accaduto con la costituzione di parte civile contro Umberto Bossi, ritirata all’ultimo momento. Il senso di questa retromarcia ha il sapore della sconfitta politica per il vicepremier: nonostante le accuse più volte rivolte ai magistrati, dimostra la volontà di chiudere al più presto una vicenda di cui si sta parlando troppo, e che rischia di produrre altre conseguenze negative per lui e i suoi colleghi. Il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, la presenta come una richiesta dei legali del Carroccio. Di sicuro alla Lega è stato concesso di restituire i 49 milioni di euro frutto della truffa sui rimborsi in rate da 100mila euro da versare ogni due mesi. In pratica, lo Stato impiegherà 81 anni per recuperare il suo credito. Un affare? La procura pensa così di ottenere l’intero tesoro senza dover investire tempo e risorse per andarlo a cercare. La Lega è evidentemente convinta di aver chiuso così la vicenda dei rimborsi elettorali del periodo 2008-2010 percepiti illecitamente, parte dei quali utilizzati anche dall’attuale ministro dell’Interno. Con la decisione di versare autonomamente quanto dovuto allo Stato, il Carroccio e il suo segretario dovrebbero evitare intrusioni investigative nei conti non solo del partito ma soprattutto in quelli delle associazioni e fondazioni legate al cerchio magico del ministro dell'Interno. Proprio quelle che raccontiamo in questa inchiesta. Il senso dell’accordo è dunque semplice: non saranno più i magistrati a dover andare a caccia dei denari riconducibili alla Lega, come imponeva la sentenza della Cassazione sul sequestro, ma sarà la Lega stessa a mettere il denaro a disposizione della procura senza dover spiegare per filo e per segno da dove arrivano quei soldi. Tutto questo sempre che in appello la sentenza di condanna per truffa non venga ribaltata: scenario che permetterebbe a Salvini di non dover restituire più nemmeno un euro allo Stato. Se vogliono toglierci tutto, lo possono fare. Noi abbiamo gli italiani con noi, facciano quello che credono». Le parole pronunciate da Matteo Salvini lo scorso 6 settembre, poco dopo la sentenza del tribunale del Riesame sui fondi della Lega, farebbero pensare ad un partito disposto a farsi sequestrare tutto, talmente forte del consenso popolare da non doversi nemmeno opporre alla confisca. Come dire: la sentenza è ingiusta, ma noi non abbiamo paura, toglieteci pure tutti i soldi tanto continueremo ad avere l’appoggio della gente. Su quest’ultimo punto Salvini potrebbe anche avere ragione, ma sull’aspetto finanziario mente. Perché i soldi, quelli che il ministro dell’Interno invita a sequestrare fino all’ultimo centesimo, non ci sono più. Da quando è iniziata l’indagine sulla truffa, il denaro è infatti gradualmente sparito. E così, nonostante la decisione del riesame autorizzi la procura di Genova a mettere le mani non solo sui conti del partito ma anche su quelli riconducibili ad esso, sarà ora molto difficile per lo Stato recuperare i 48,9 milioni di euro. Fino a poco tempo fa la Lega poteva in realtà disporre di parecchia liquidità. Quella donatale dai piccoli sostenitori e dai suoi parlamentari, come ama ricordare il suo leader. Ma anche quella versata dalle aziende. Ed è qui che emergono alcune sorprese. Perché nella lista ricostruita dall’Espresso compaiono nomi di grosse società italiane e di una multinazionale. Rappresentanti delle cosiddette élite, le stesse che Salvini non perde occasione di contrapporre al popolo. Di più. Tra i finanziatori cercati dalla Lega c’è anche un manager indagato dall’antimafia, un’impresa implicata in un processo sullo smaltimento di rifiuti e un grande gruppo alimentare interessato a ottenere un permesso urbanistico in un comune governato dal Carroccio. Fare la radiografia delle finanze leghiste non è semplice. Ci sono i conti del partito e quelli delle società controllate, ma esiste anche una galassia di associazioni, fondazioni e onlus poco note. Sigle ufficialmente non legate al Carroccio, ma che ora gli investigatori potrebbero far ricadere sotto la categoria delle realtà «riconducibili». Ognuna di esse ha infatti almeno un conto corrente che il partito potrebbe aver usato per finanziarsi. E che dunque, almeno teoricamente, potrebbe essere analizzato dagli investigatori per cercare di restituire ai cittadini italiani quei quasi 49 milioni di euro rubati. Qualche esempio? C’è l’associazione “a/simmetrie”, la “Scuola di formazione politica” ideata da Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture e ideologo della flat tax. La fondazione federalista “Per l’Europa dei Popoli” dell’eurodeputato Mario Borghezio. Scorrendo l’elenco riassunto nel grafico alla pagina precedente balza all’occhio la Lega per Salvini Premier. Una new company creata l’anno scorso con l’obiettivo ufficiale di sancire l’esistenza di una nuova Lega, non più secessionista ma nazionalista, non più anti-meridionali ma anti-stranieri. O forse, insinuano i maligni, un semplice tentativo di blindare le nuove entrate dai sequestri della magistratura. Fatto sta che la nuova Lega ha avuto di sicuro in pancia almeno gli euro raccolti quest’anno grazie alle donazioni del 2 per mille. Dove sono finiti? Chissà. Risposta valida anche per i denari ricevuti da un’altra creatura dotata di conto autonomo: Noi con Salvini, creata nel 2015 e morta nel giro di un paio d’anni. Di certo uno dei canali usati dal vicepremier per incamerare finanziamenti senza farli passare dai conti ufficiali della Lega è stata l’Associazione Più Voci. Fondata nel 2015 a Bergamo da tre uomini del partito - Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, che rivestono ruoli amministrativi, e Giulio Centemero, tesoriere e deputato - l’associazione è finita sotto l’occhio degli investigatori dopo che L’Espresso, nell’aprile di quest’anno, ne ha rivelato l’esistenza raccontando come nel giro di un anno abbia ricevuto parecchi soldi. Donazioni di imprese private: 250 mila versati dal costruttore romano Luca Parnasi, arrestato poco dopo per corruzione, e 40 mila euro bonificati da Esselunga. Di sicuro il conto della Più voci è nel mirino della guardia di finanza perché ritenuto riconducibile al partito. Del resto il fondatore è il tesoriere della Lega, e alcune somme entrate nelle casse dell’associazione sono finite poco dopo a società e cooperative del Carroccio. Ci sono per esempio i bonifici effettuati a favore della Mc, impresa che edita il giornale online Il Populista ed è controllata direttamente dalla Fin Group, di proprietà della Lega Nord. E quelli indirizzati all’iban di Radio Padania, la storica emittente di via Bellerio. Resta un solo quesito irrisolto. Chi sono gli altri finanziatori dell’associazione? Il dubbio nasce dalle intercettazioni a carico di Parnasi. In uno dei dialoghi captati dai carabinieri di Roma, l’imprenditore sostiene che almeno dieci imprese abbiano finanziato la Più voci. Quindi, detto di Esselunga e della società Pentapigna di Parnasi, ne mancano in teoria otto all’appello. Interpellato sulla questione, Centemero non ha fornito i nomi ma ha detto che «tra il 2015 e il 2018 ci sono stati erogati contributi per 328.400 mila euro». Insomma, ci sono almeno altri 40 mila euro donati alla Più Voci da imprenditori tenuti segreti in nome della privacy. Non proprio una prova di trasparenza per il governo del cambiamento. E neppure di legalità: sopra i 5 mila euro i finanziamenti ai partiti vanno dichiarati al parlamento, e quindi ai cittadini. Parnasi ha detto, intercettato, che i suoi 250 mila euro servivano per la campagna elettorale di Parisi. Non dunque per la libertà d’informazione, come ha assicurato Centemero rispondendo alla nostra richiesta di chiarimenti. Quindi, se Parnasi dice il vero, quei soldi dovevano essere dichiarati. Per finanziarsi la Lega ha usato anche dei modi molto semplici: ha organizzato delle cene con le aziende. Eventi molto simili a quelli messi in piedi quattro anni fa da Matteo Renzi, che per questo era stato attaccato duramente da chi oggi è al potere. Il leader del Pd ingrassa con le cene da mille euro mentre mette a dieta gli italiani, aveva commentato Salvini. Mentre Beppe Grillo riassumeva così il senso di quelle iniziative: «L’elettore tipo del Pd è ormai un broker, un finanziere o un ex della banda della Magliana». Va detto che la legge non vieta a un partito di organizzare cene di finanziamento: basta appunto dichiarare al Parlamento qualsiasi donazione superiore ai 5 mila euro. Il problema, come per il caso precedente, è la trasparenza promessa dall’attuale governo. E la presenza di alcuni nomi che sembrano contraddire certi mantra cari a Salvini, tipo quello della Lega rappresentante del «popolo contro le élite», delle «piccole imprese contro le multinazionali». Già, perché alla cena in questione, avvenuta il 19 ottobre del 2015 alla Fonderia napoleonica di Milano, un’ antica fabbrica usata oggi anche per feste private, nell’elegante quartiere dell’Isola, fra i tanti invitati a finanziare il partito c’era per esempio Luigi Patimo, responsabile per l’Italia del colosso iberico Acciona, gruppo composto da un centinaio di società presenti in 65 nazioni del mondo e attive nei più svariati settori, dalle costruzioni ai trasporti, dalla logistica fino alla concessioni stradali. Senza dimenticare i servizi idrici, la cosiddetta gestione privata dell’acqua contro cui gli alleati a 5 Stelle combattono da anni, tanto da aver inserito la ripubblicizzazione nel contratto di governo firmato da Salvini. Ma non è solo questo a colpire, quando si analizza il profilo di Patimo. Il manager della multinazionale spagnola è infatti anche indagato per corruzione dall’antimafia di Reggio Calabria insieme a Marcello Cammera, responsabile dei lavori pubblici nel municipio dello Stretto, imputato per concorso esterno alla ’ndrangheta nel processo Gotha. Una storia giudiziaria intricata, nella Calabria in cui alle ultime elezioni il partito di Salvini ha collezionato un risultato che nessun padano avrebbe mai immaginato. Va detto che la notizia dell’indagine a carico di Patimo è emersa sui giornali nel 2016, dunque dopo la cena nel centro di Milano. E che, ad ogni modo, essere indagato non significa aver commesso un reato. La questione è politica. Anche perché, nonostante i sospetti dell’antimafia, Patimo continua a essere socio in un’azienda, la Profilo Srl, di un importante esponente leghista del governo: Armando Siri. Quanto ha versato il manager della multinazionale nelle casse della Lega? Perché? Chi erano gli altri manager e imprenditori presenti a quella cena? Quanto ha raccolto in totale il partito? Come sono stati usati quei soldi? Abbiamo inviato queste domande a Patimo, a Siri e alla responsabile dell’ufficio stampa della Lega, Iva Garibaldi. Ma nessuno ci ha risposto. I documenti in possesso dell’Espresso si fermano a qualche giorno prima della cena. Frammenti di un evento che pare aver coinvolto decine di imprese, ma di molte delle quali non abbiamo dati sufficienti per citarle. Tra gli invitati possiamo menzionare con sicurezza, oltre a Patimo, altri tre rappresentanti aziendali. C’è Dante Bussatori del Gruppo Elios, impresa piacentina che si occupa di bonifiche ambientali, attualmente sotto processo a Novara per una vicenda di finti smaltimenti. «Sono stato invitato a decine di questi eventi, ma per principio non partecipo mai a queste inutili cene», taglia corto il manager di Elios. Nella lista di invitati c’è anche Daniele D’Alfonso della Ecol Service di Milano, attiva nello stesso settore. D’Alfonso non ha risposto alle nostre domande, mentre lo ha fatto Gabriele Gazzano della Editel, impresa edile della provincia di Cuneo, confermando di aver ricevuto l’invito ma di non aver poi partecipato né finanziato il partito. Le carte raccontano che le donazioni dovevano finire su un conto corrente aperto dalla Lega presso Banca Prossima, istituto di credito del gruppo Intesa Sanpaolo, sequestrato di recente dai magistrati con soli 6 mila euro a disposizione. Dove sono finiti gli altri denari raccolti? Su quel conto non sono affluite solo le donazioni offerte a quella cena dalle imprese, ma anche altri fondi leghisti: lo rivela un documento compilato dalla Uif, l’autorità italiana che si occupa di antiriciclaggio. Il 16 gennaio del 2017 il partito, già allora guidato da Salvini e amministrato da Centemero, sposta infatti 145 mila euro dal conto Unicredit a quello aperto presso Banca Prossima. Niente di strano, se non fosse che in quel periodo sulla stampa erano usciti degli articoli che davano notizia dell’indagine per riciclaggio avviata dalla procura di Genova. Riciclaggio che - è tuttora l’ipotesi degli inquirenti - la Lega avrebbe compiuto facendo perdere traccia dei soldi frutto di reato (la truffa ai danni dello Stato, la stessa per cui deve restituire i quasi 50 milioni), spostandoli all’estero e facendone infine rientrare una parte in patria. Tutto questo per evitare il sequestro, sospettano gli investigatori. Dei 48,9 milioni che in teoria dovrebbero rendere allo Stato, al momento la guardia di finanza è riuscita a sequestrarne poco più di 3. Le confische hanno riguardato i conti nazionali e quelli regionali del partito. La Lega Nord ha però anche le sezioni provinciali e cittadine, e questi conti pare che non siano ancora stati toccati. Analizzandoli con cura gli inquirenti potrebbero fare qualche scoperta interessante. È il caso della Lega Mantovana, che lo scorso 4 luglio - secondo una fonte interna al partito - ha beneficiato di un bonifico molto particolare: 10 mila euro provenienti dalla Lega nazionale, a cui erano stati versati poco prima da una delle più grandi aziende della zona, la Pata. Sarebbe stato proprio il gruppo del patron Remo Gobbi a chiedere che quei soldi finissero alla sezione mantovana. Perché questo strano giro di denaro? E come mai Pata ha voluto che i soldi andassero alla sede locale del partito? Secondo la fonte, a cui abbiamo garantito l’anonimato per evitargli ritorsioni da parte dei colleghi, il motivo è duplice: da una parte renderne più complicato il sequestro, visto che si tratta appunto di una sezione locale non ancora toccata dalle confische, dall’altra incentivare i dirigenti locali a concedere un permesso a cui l’azienda delle patatine fritte tiene molto. Pata ha infatti annunciato pubblicamente qualche mese fa di voler ampliare il proprio stabilimento di Castiglione delle Stiviere, Comune governato proprio dalla Lega e feudo elettorale del neodeputato Andrea Dara, che della cittadina è vice sindaco e assessore all’Ambiente. Un investimento da 10 milioni di euro, che porterà la società a occupare altri 35 mila quadrati. Condizione necessaria: l’approvazione, da parte del Comune, del cambio di destinazione d’uso del terreno da agricolo a industriale. Un’accusa pesante, insomma, fatta peraltro in modo anonimo. Per questo abbiamo chiesto un commento sulla vicenda sia alla Pata che ad Antonio Carra, segretario provinciale della Lega a Mantova. Domande rimaste senza risposta.
Soldi della Lega: pm in Lussemburgo. Tre mesi fa l'inchiesta dell'Espresso sui fondi offshore. La procura di Genova a caccia dei soldi delle truffa ai danni dello Stato. Ipotesi di reato è il riciclaggio. Una parte del denaro sarebbe finita nel Granducato e poi fatta rientrare in Italia. E domenica in edicola tutti i trucchi usati dal Carroccio per sparpagliare il tesoro padano, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 13 settembre 2018 su "L'Espresso". I magistrati di Genova in Lussemburgo. Alla ricerca dei soldi della Lega. I pm della procura ligure si sono recati nel Granducato in seguito a una rogatoria per cercare di tracciare i flussi di denaro riconducibili al partito guidato da Matteo Salvini. Il blitz, condotto dalla Guardia di finanza, nasce in seguito all'inchiesta per riciclaggio al momento a carico di ignoti. L'ipotesi della procura è che una parte dei quasi 50 milioni frutto della truffa ai danni dello Stato sia stata portata nella piazza offshore e poi fatta rientrare in Italia attraverso società di comodo. Tutto questo, sostengono gli inquirenti, per evitare il sequestro disposto dalla sentenza di primo grado oltre un anno fa e confermata pochi giorni fa dal tribunale del riesame. La pista del Lussemburgo era stata scoperta tre mesi fa dall'Espresso, in un'inchiesta giornalistica dal titolo “L'Europa offshore che piace a Salvini”. In quell'articolo basato su documenti e bilanci societari avevamo raccontato i rapporti tra la Lega e il paradiso fiscale europeo. Eravamo partiti da via Angelo Maj 24, a Bergamo, dove c'è un piccolo studio contabile di proprietà di Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Due professionisti come tanti, se non fosse per la loro ascesa, a partire dal 2014, all'interno dell'amministrazione del partito di Salvini. Alla coppia, poco nota alle cronache, si aggiunge un terzo uomo, più conosciuto: Giulio Centemero, il tesoriere ufficiale del partito, voluto dal leader che ha portato la Lega al governo. Centemero, eletto alla Camera alle ultime elezioni, è l'uomo incaricato di gestire i conti dopo gli scandali della truffa sui rimborsi elettorali durante la gestione di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Di Rubba, Manzoni e Centemero: i cassieri di Matteo, insomma. Tutti nati nel 1979, tutti laureati in economia e commercio all’università di Bergamo, dove si sono conosciuti nei primi anni 2000. Un trio al cui vertice c'è proprio il neodeputato e tesoriere. Gestiscono decine di società con base in via Angelo Maj, nuovo quartier generale delle finanze leghiste, sette delle quali controllate - attraverso delle fiduciarie italiane tra i cui soci c'è anche un'anonima impresa svizzera - da una holding lussemburghese che fa capo a un'altra fiduciaria. Impossibile dunque, vista la sofisticata schermatura finanziaria, sapere chi sono i reali proprietari delle società registrate presso lo studio di Di Rubba e Manzoni. E impossibile è anche conoscere l'origine dei capitali attraverso cui sono state costituite. L'unica certezza è che seguendo il flusso di denaro si arriva nel Granducato, uno dei principali paradisi fiscali europei. Ed è in questa catena di anonime società che si inserisce un manager della Pharus Management, una delle società lussemburghesi che gli inquirenti ritengono al centro del riciclaggio leghista. Ma non c’è solo la pista del Granducato.
Le "comode rate" in 76 anni tra mugugni e ironia. Rispolverata la protesta di Salvini del 2005 contro la Lazio per il debito dilazionato a Lotito, scrive Sabrina Cottone, Giovedì 20/09/2018, su "Il Giornale". Centrodestra a parte, non molti hanno gradito la rateizzazione fino al 2095 concessa dalla procura di Genova alla Lega per estinguere il suo contenzioso da 49 milioni di euro con lo Stato. In tanti, più o meno giustizialisti, si aspettavano un trattamento più duro di quello accordato dall'intesa: e cioè 600mila euro l'anno per 76 anni per scontare l'accusa di truffa ai danni dello Stato sui rimborsi elettorali 2008- 2010. Difende a spada tratta la Lega Mariastella Gelmini, capogruppo dei deputati azzurri alla Camera: «L'accordo è positivo perché scrive la parola fine a una storia che ha rischiato di incrinare le dinamiche democratiche del Paese». In controluce, oltre all'attacco a Matteo Renzi per la scelta di «schierarsi con i peggiori giustizialisti», si sente il sospiro di sollievo per la fine degli scontri con la magistratura. Le critiche suonano più rumorose. Mentre il deputato pd Michele Anzaldi si chiede se «la Corte dei Conti non ha nulla da dire» ed Emanuele Fiano accusa i 5Stelle di «silenzio ipocrita su furto e rate», a commentare l'intesa in tranches tra Lega e Procura di Genova, riemerge dal silenzio l'ex pm ed ex ministro Antonio Di Pietro, protagonista della stagione delle inchieste di Mani Pulite. La rateizzazione «la posso giustificare, ma io non lo avrei mai fatto, perché la legge è uguale per tutti». Da esperto del tema, certo non da campione di garantismo nei confronti dei politici, eccolo annotare: «Non regge giuridicamente e formalmente, ma sul piano dell'opportunità prendo atto della necessità del magistrato di non apparire come contro chi sta al governo e ha un consenso elettorale, e quindi gli darei un'attenuante generica». Sarcasmo figlio della lunga frequentazione delle aule di giustizia. Alle facili ironie politiche sulle «comode rate» si aggiunge un inatteso attacco in arrivo dai campi da calcio. Correva il lontano anno 2005 quando il trentaduenne Matteo Salvini scese in piazza per protestare contro la dilazione nel pagamento dei debiti della Lazio concessa a Claudio Lotito nel momento in cui acquistò la società. E oggi il presidente biancoceleste si toglie qualche sassolino dalle scarpe. «C'è differenza tra me e la Lega di Salvini» dice a Repubblica Lotito, non a digiuno dei meccanismi perché più volte sotto indagine. Ecco ciò che distinguerebbe il segretario della Lega dal patron della Lazio: «Io pago il debito fatto da altri e ogni anno verso 6 milioni al fisco. Salvini all'epoca protestava? Questo è un problema suo. Io l'ho fatto per salvare la Lazio». In realtà la vicenda giudiziaria è tutt'altro che chiusa e non solo per i parlamentari della Lega che, come ha confermato Salvini, «cacceranno fuori ogni mese il cash, pagando per eventuali reati commessi dieci anni fa da chi c'era prima di me». È attesa per il 20 novembre la sentenza della Corte d'Appello di Genova nei confronti di Francesco Belsito, Umberto Bossi e tre ex revisori contabili del partito.
Fondi Lega, quando Salvini protestava contro il pagamento a rate del debito della Lazio. Il leader del Carroccio, nel marzo del 2005, guidava la rivolta contro il trattamento riservato alla società di Lotito, che ottenne di spalmare il debito in 23 anni: "Al piccolo imprenditore i debiti fiscali non li toglie nessuno'', diceva, scrive Tiziana Testa il 19 settembre 2018 su "La Repubblica". Corsi e ricorsi. Un debito dilazionato in comode rate. Non parliamo di quello della Lega, dopo la sentenza sulla truffa dei rimborsi elettorali dal 2008 al 2010. Ma di un debito più antico e ancora più robusto. Quello della società sportiva Lazio che nel 2005 ottenne, in virtù dell'applicazione di una legge del 2002, la dilazione in 23 anni del debito da oltre 140 milioni accumulato con il fisco (un trattamento in fondo ben più severo rispetto agli 80 anni per ripagare 49 milioni di euro concessi al Carroccio). Solo che a quei tempi Matteo Salvini, allora europarlamentare della Lega Nord, era dall'altra parte della barricata. Letteralmente. E guidava la protesta davanti alla sede della Lega calcio, in via Rosellini. Ecco cosa raccontava l'agenzia Ansa quel giorno: Al grido di ''Lazio fallita, Padania salvata'', l'europarlamentare leghista Matteo Salvini ha spiegato che ''i cittadini del Nord sono contrari a qualsiasi ipotesi di decreto spalmadebiti per le società di calcio, e anche a quelle norme che hanno consentito alla Lazio di Lotito di dilazionare i suoi debiti con il fisco''. "Le norme fiscali che prevedono sconti o dilazioni nei confronti del fisco - ha spiegato Salvini - vanno cancellate. Cancellate per tutti a prescindere dal calcio. Al piccolo imprenditore - ha aggiunto Salvini - i debiti fiscali non li toglie nessuno''. La delegazione dei militanti leghisti, una decina di persone, ha esposto davanti al portone della Lega un lungo striscione con la scritta: ''Il calcio paghi tutti i suoi debiti, nessuno sconto ai signori del pallone''. Questo nel 2005. Tredici anni prima delle attuali disavventure del Carroccio nelle aule giudiziarie. Il primo a ricordare il caso è Alessio Pascucci, sindaco di Cerveteri e coordinatore nazionale di Italia in Comune, lo schieramento di sindaci di cui fa parte anche Federico Pizzarotti. "Il segretario della Lega tira un sospiro di sollievo per l'accordo raggiunto con la procura di Genova che sequestrerà centomila euro a bimestre per ottant'anni ma, come spesso gli capita, dimentica gli attacchi pesanti sferrati alla Lazio e al presidente Claudio Lotito quando, nel lontano 2005 questi sottoscrisse con l'Agenzia delle Entrate la dilazione del debito della società di calcio". Il debito della Lazio era il triplo di quello della Lega e l'accordo raggiunto col Fisco prevedeva rate corpose da saldare in 23 anni. La soluzione raggiunta dalla Lega prevede invece una dilazione in 80 anni. "Come a dire - chiosa Pascucci - che il vero motto di Salvini è prima i leghisti, poi gli italiani".
Lega, indagine su 100 conti in 40 banche: così la Procura cerca i milioni «scomparsi», scrive Andrea Pasqualetto Su "Il Corriere della Sera" l'8 luglio 2018. Al vaglio della Procura di Genova i rapporti bancari nel mondo del Carroccio. Conti correnti, libretti di risparmio, depositi, rapporti bancari di ogni genere. Gli uomini del Nucleo di polizia economica di Genova stanno cercando di districarsi nel complesso mondo finanziario della Lega, centrale e periferica. Un’indagine che al momento ha fissato l’ordine di grandezza del sistema: una quarantina di istituti di credito nei quali sono stati aperti quasi cento conti di varia natura. I numeri danno l’idea del lavoro che sta affrontando la procura, dove è stato aperto un fascicolo per riciclaggio del quale si sta occupando la Finanza. Non ci sono indagati, ha detto il procuratore capo Francesco Cozzi, che nei giorni scorsi aveva precisato come questi movimenti di denaro «possano essere anche leciti, si tratta di verificarlo». Il fascicolo è stato aperto sulla base della denuncia di un ex revisore dei conti della Lega, Stefano Aldovisi, condannato il 24 luglio 2017 al processo per i cosiddetti «rimborsi truffa» che ha visto sul banco degli imputati anche il vecchio leader del Carroccio Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. Alla sentenza aveva fatto seguito, il 4 settembre, un sequestro preventivo di 49 milioni di euro, considerato dai giudici il prezzo della truffa che si sarebbe consumata fra il 2008 e il 2010. Ma gli investigatori nelle casse della Lega di milioni ne hanno trovati solo 3. «Al 31 dicembre del 2011 nel bilancio del movimento politico c’era un attivo di 47.791.649 euro, dei quali 20,3 in titoli e 12,8 milioni di liquidità», ha scritto Aldovisi nel suo esposto chiedendo alla procura di indagare sui flussi di denaro che nei sei anni successivi hanno portato a prosciugare le casse del Carroccio. L’ex revisore ha suggerito al pm un servizio del settimanale L’Espresso nel quale si parla 19,8 milioni di euro trasferiti dai conti di due banche di riferimento del partito, la filiale Unicredit di Vicenza e la sede milanese della Banca Aletti, «per essere messi in sicurezza». La segnalazione di Aldovisi non è disinteressata naturalmente. L’uomo dei conti della Lega del Senatùr sta infatti tentando di recuperare i 40 mila euro che gli sono stati sequestrati il 30 novembre scorso come conseguenza della condanna. In sostanza, Aldovisi sostiene che il denaro esiste, basta cercarlo, e l’indagine sul riciclaggio punta a questo. E incrocia inevitabilmente lo strascico del processo per i rimborsi pubblici, rispetto al quale la procura potrebbe dover presto recuperare quei 49 milioni, forte della sentenza della Cassazione che ha affermato il principio dei sequestri sulle entrate future del partito e dell’ «ovunque si trovi il denaro e presso chiunque». Principi che devono però essere prima recepiti dal tribunale del Riesame e poi diventare esecutivi. Senza aspettare quella data, la Guardia di finanza va a caccia del denaro nell’ambito dell’inchiesta sul riciclaggio. Imbattendosi in un labirinto di bonifici, prelievi, giroconti, da una banca all’altra, dal centro alle periferie. È spuntata la bolzanina Sparkasse dell’epoca Maroni, la Popolare di Vicenza e molte altre banche: una quarantina appunto. Sono state avviate rogatorie con l’estero e si cerca di capire il legame economico fra la vecchia Lega e la «Lega per Salvini premier», che è un soggetto autonomo. «Però attenzione — hanno avvertito prudentemente in procura — non è detto che i movimenti siano illegali».
La sentenza sulla Lega? Eccessiva, dice Nordio, ma anche una lezione a Salvini. Perché il cammino verso il congelamento di quarantanove milioni si annuncia impervio, scrive Annalisa Chirico il 6 Luglio 2018 su "Il Foglio". Il punto decisivo è il “rapporto pertinenziale” menzionato a pagina sette della sentenza della seconda sezione penale della Cassazione, presieduta dal giudice Matilde Cammino, che ha accolto il ricorso del pm di Genova contro la Lega del vicepremier Matteo Salvini. Secondo la Suprema Corte, qualsiasi somma di denaro riferibile al partito – su conti bancari, libretti, depositi – deve essere sequestrata, “ovunque venga rinvenuta”. Atteso che, ad oggi, sono stati sequestrati circa un milione e mezzo di euro, il cammino verso la cifra di quarantanove milioni si annuncia impervio. “Ho letto le motivazioni – dice al Foglio Carlo Nordio, già procuratore aggiunto di Venezia, ora in pensione – Il giudice di merito cui si rinvia la decisione non potrà che applicare un principio sacrosanto, fissato dalla stessa Cassazione: le somme sequestrabili devono avere un nesso pertinenziale con il prodotto o il profitto del reato. La Guardia di finanza deve reperire denari o beni equivalenti riferibili alla Lega, inclusi quelli eventualmente trasferiti all’estero, purché siano pertinenti con il reato. Possono essere aggredite esclusivamente le acquisizioni realizzate fino al momento del reato, non quelle attuali o future. E’ inconcepibile che, se oggi io dono un obolo alla Lega, questo sia sequestrato per un reato con cui non ha alcun nesso”. Eppure, a dispetto del riferimento a pagina sette, la Procura di Genova intende bloccare tutte le somme, incluse quelle “depositande”, al punto che Salvini e il suo uomo-macchina, Giancarlo Giorgetti, hanno costituito associazioni d’area al fine di assicurarsi le risorse minime per proseguire l’attività politica. “Obiettivamente, e senza incolpare alcun magistrato, constato che dopo venticinque anni siamo ancora lì: le sentenze giudiziarie – una volta quelle penali, adesso quelle civili – condizionano il funzionamento della nostra democrazia. La creazione di enti paralleli mi sembra una conseguenza inevitabile. Se si ammette che anche le prossime acquisizioni pecuniarie siano oggetto del sequestro, diventa inevitabile cambiare la ragione sociale del donatario. L’abc del diritto impone che i beni futuri non possano essere toccati: se passa il principio opposto, è barbarie giuridica. Qui non c’è una Lega debitrice e un creditore che pretende di riscuotere quanto gli spetta. Il contendere riguarda una somma che, secondo una sentenza, è stata oggetto di truffa e appropriazione indebita. La Lega deve restituire il maltolto, e i denari aggredibili sono quelli pertinenti con il reato, non successivi a esso”. Il leader del Carroccio si è rivolto al capo dello stato Sergio Mattarella denunciando un “gravissimo attacco alla democrazia per mettere fuori gioco, per via giudiziaria, il primo partito italiano”. Secondo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, invece, è sbagliato evocare “scenari da Seconda Repubblica”. “A mio giudizio, Salvini ha ragione – prosegue Nordio – Il sequestro di una cifra così ingente comporta la compromissione dell’attività politica. Significa impedire a un partito di governo di sopravvivere. Le sentenze vanno rispettate, dura lex sed lex, ma non ho mai visto un provvedimento di sequestro così congegnato. E’ pacifico che il giudice di merito applicherà il principio di pertinenzialità. Il fatto stesso però che su questo punto sorgano interpretazioni incerte e ambigue evidenzia una grave mancanza di chiarezza nella decisione degli ermellini”. Il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi ha respinto le accuse di processo politico: “Stiamo lavorando solo su aspetti tecnici”, ha detto. “Ogni magistrato difende i provvedimenti che firma. Ma, come ha chiarito l’Anm, le sentenze sono criticabili, con urbanità e senza aggressione. Questa è, senza dubbio, una sentenza criticabile”. Qualcuno ha stabilito un paragone con la Margherita di Luigi Lusi. In quel caso però i giudici non hanno ritenuto correo il partito, costituitosi parte civile nel processo. Salvini non ha fatto altrettanto per la Lega. “Sono scelte politiche e personali che esulano dal mio giudizio. Sul piano tecnico, non sarebbe cambiato nulla, forse avrebbe dato un segno di discontinuità”. La Lega ha sottoscritto un contratto di governo con il M5s che rafforza lo strapotere giudiziario. Questa vicenda susciterà un ravvedimento? “Non saprei – conclude Nordio – Io, da garantista, sono preoccupato da alcune scelte antigarantiste incluse in quel programma. Né mi convincono le proposte annunciate dal guardasigilli. Confidiamo nel buon senso”.
Carroccio da vittima a imputato Ecco le stranezze dell'inchiesta. I 49 milioni che la Cassazione vuole sequestrare sono solo presunti. Il dietrofront: non può esserci confisca immediata, scrive Luca Fazzo, Giovedì 05/07/2018 su "Il Giornale". Nell'euforia del momento, ieri molti giornali annunciavano che i quattrini della Lega sarebbero stati «immediatamente sequestrati», dovunque si trovassero e qualunque fosse la loro provenienza, grazie alla sentenza della Cassazione. Ovviamente non poteva essere così, come qualunque studente di giurisprudenza avrebbe potuto spiegare. E infatti la Procura di Genova si ritrova costretta a diramare una precisazione spiegando che non è affatto così: e che tutto resta fermo fino a quando non si esprimerà nuovamente il tribunale del Riesame, cui la Cassazione ha rispedito la palla. Certo, nella nuova decisione i giudici dovranno tenere conto di quanto stabilito dalla Suprema Corte: ma i margini per un dissenso motivato sembrano esserci ancora. Ciò premesso, quello che sembra aprirsi è uno scenario assolutamente inedito, mai percorso neanche ai tempi di Tangentopoli: un partito che vede il suo intero patrimonio presente e futuro messo sotto sequestro, in seguito a un processo in cui figurava non come imputato ma come vittima. Proprio questa è la prima anomalia che salta agli occhi: il processo genovese a Umberto Bossi e Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega, altro non è che una costola dell'indagine nata a Milano, ed approdata in parte nel capoluogo ligure per competenza territoriale. Prima che il processo si spezzettasse, la Lega aveva chiesto e ottenuto di costituirsi in giudizio contro Belsito e i suoi coimputati. Significa che anche pm e giudici consideravano il Carroccio la parte offesa della vicenda dei bilanci falsi. La costituzione venne poi revocata nel novembre 2014 da Matteo Salvini, per ragioni mai del tutto spiegate. Il processo approda a Genova, e qui la Procura ribalta l'impostazione, e punta alla cassaforte della Lega, chiedendo il sequestro (oltre che degli stipendi e dei vitalizi di Umberto Bossi) anche dei fondi del partito. E qui arriva la seconda stranezza. Nel processo non si afferma (neanche nei teoremi d'accusa) che la Lega avrebbe fatto sparire 49 milioni di fondi pubblici. Il capo di imputazione dice che Belsito falsificò i bilanci del partito, occultando le sue operazioni finanziarie. A quanto ammontasse il falso non si sa. Ma la Procura ne deduce che l'intero ammontare dei contributi pubblici arrivati alla Lega in quegli anni fosse stato percepito indebitamente, essendo stato ottenuto grazie a bilanci falsi. Sono questi i 49 milioni di cui la sentenza che condanna Bossi e Belsito confisca. Di fatto, sui conti della Lega ne sono stati trovati poco meno di due milioni. Ora la Cassazione però va assai più in là, stabilendo che sarebbe giusto continuare a sequestrate le somme «ovunque si trovino». Non dice, a ben leggere, che la provenienza sia irrilevante, anzi chiede che sia «accertato il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale tra il danaro oggetto del provvedimento di sequestro e il reato del quale costituisce il profitto illecito». Potrebbero continuare a restare fuori dalle grinfie donazioni, contributi di parlamentari, sottoscrizioni, che non hanno nulla a che fare col finanziamento pubblico e quindi non possono essere considerati corpo del reato. Ma intanto il botto mediatico e politico della decisione della Cassazione è forte. Anche perché l'Espresso tira fuori dei documenti che dimostrerebbero che anche Matteo Salvini, approdato alla guida del Carroccio, impiegò i fondi pubblici illecitamente incassati.
I 49 milioni perduti della Lega - Videostoria dei rimborsi scomparsi di Marco Lignana e Giulia Santerini del 4 luglio 2018 su "RepubblicaTV". Dallo scandalo che nel 2012 travolse il fondatore Umberto Bossi e il tesoriere della allora 'Lega Nord' Francesco Belsito, alla condanna del 2017 dei due per truffa ai danni dello Stato per aver sottratto per fini personali o di partito i rimborsi elettorali ricevuti tra il 2008-2010. Al 3 luglio 2018, quando la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della procura di Genova per estendere il blocco dei fondi alla Lega anche al denaro che arriverà in futuro nelle casse del partito, fino a raggiungere la cifra di 49 milioni di euro. Il segretario del Carroccio Matteo Salvini assicura: "Non c'è un euro di quei rimborsi nelle nostre casse", "E' stato speso tutto in dieci anni". Ma un documento pubblicato da Repubblica prova che Salvini ha ricevuto nel 2014 oltre 800mila euro di rimborsi elettorali regionali del 2010.
La storia dei soldi della Lega, dall’inizio. Scrive il Post il 4 luglio 2018. Cosa ha deciso la Cassazione, come ci si è arrivati e cosa dicono invece Matteo Salvini e gli avvocati del suo partito. La principale notizia sulle prime pagine dei giornali di oggi è la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla procura di Genova che chiede di estendere il blocco dei fondi della Lega anche al denaro che arriverà in futuro al partito. Nelle sue motivazioni, la Cassazione ha stabilito quindi che ogni somma di denaro riferibile alla Lega, il partito guidato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, può essere sequestrata “ovunque venga rinvenuta” d’ora in poi: su conti bancari, libretti o depositi. È una storia che comincia da lontano, e che riguarda il più grave scandalo che abbia coinvolto la Lega. Nel luglio del 2017 infatti il tribunale di Genova aveva condannatoper truffa ai danni dello Stato il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, e l’ex tesoriere del partito, Francesco Belsito, oltre a tre dipendenti del partito e due imprenditori. Il procedimento riguardava i rimborsi elettorali ricevuti dalla Lega – che allora si chiamava Lega Nord – tra il 2008 e il 2010, che erano stati utilizzati invece per spese personali. Lo scandalo era nato nei primi mesi del 2012, quando Belsito venne indagato per la sua gestione dei rimborsi elettorali ricevuti dal partito, trasferiti in alcuni casi all’estero dove erano stati investiti in varie attività, tra cui l’acquisto di diamanti. La vicenda aveva portato alle dimissioni di Bossi dalla carica di segretario e alla sua condanna a 2 anni e 6 mesi. L’allora tesoriere del partito, Francesco Belsito, era stato condannato a 4 anni e 10 mesi. Sempre nel 2017 e nell’ambito del processo per truffa, il tribunale di Genova aveva deciso di procedere alla confisca al partito di circa 49 milioni di euro (48 milioni e 969 mila e 617 euro, per la precisione), a titolo di risarcimento per i rimborsi ingiustamente utilizzati: quale «somma corrispondente al profitto, da tale ente percepito, dai reati per i quali vi era stata condanna». Il 4 settembre del 2017 la procura di Genova aveva chiesto e ottenuto con un decreto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca della somma, ma nei conti correnti della Lega erano stati trovati solo circa 2 milioni di euro. Non era chiaro se il decreto dovesse riguardare solo i fondi che già si trovavano sui conti al momento del provvedimento di sequestro (come sostengono gli avvocati della Lega) o anche le somme depositate successivamente. La procura aveva richiesto di estendere l’esecuzione del sequestro anche alle somme che sarebbero arrivate da lì in poi alla Lega fino al raggiungimento della somma stabilita, cioè circa 49 milioni, ma il tribunale del Riesame aveva respinto la richiesta. I pubblici ministeri di Genova avevano allora presentato un ricorso in Cassazione che, lo scorso 12 aprile, si era pronunciata: solo ieri, però, sono state depositate le motivazioni. La Cassazione ha accolto il ricorso e ha annullato con rinvio al Riesame l’ordinanza con la quale, in base al decreto già emesso in settembre, era stato fermato il sequestro delle somme future. Il Riesame dovrà ora emettere un nuovo provvedimento tenendo però in considerazione le indicazioni e le motivazioni della Cassazione, che sono vincolanti. Nelle motivazioni della sentenza di Cassazione si legge che «la fungibilità del denaro e la sua stessa funzione di mezzo di pagamento non impongono che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite», ma «la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque venga rinvenuta, una volta accertato, come nel caso in esame, il rapporto pertinenziale quale relazione diretta, attuale e strumentale, fra il danaro oggetto del provvedimento di sequestro ed il reato del quale costituisce il profitto illecito». Il senso della sentenza della Cassazione è dunque che quella somma deve essere recuperata dallo Stato, poiché ingiustamente utilizzata dalla Lega: se al momento del decreto del 4 settembre i soldi sui conti della Lega non c’erano, quella cifra sarà messa insieme con i nuovi soldi che entreranno. Nel frattempo, sempre a Genova è stata aperta un’indagine per riciclaggio a carico d’ignoti sui soldi spariti, o almeno su una parte: l’ipotesi della procura è che la Lega – non è chiaro quando ma durante le gestioni successive a Bossi, quindi quelle di Roberto Maroni e Matteo Salvini – abbia cercato di nascondere parte dei propri soldi per evitare che venissero sequestrati, trasferendoli in Lussemburgo per poi farli rientrare in Italia. A segnalare alle autorità antiriciclaggio italiane queste manovre finanziarie è stato lo stesso Lussemburgo, che ha considerato sospetto il rientro in Italia della somma. Secondo la procura, la banca dalla quale i soldi sono stati trasferiti e poi rimpatriati sarebbe la Sparkasse, la Cassa di Risparmio di Bolzano. Poche ore dopo il deposito delle motivazioni della Cassazione, ospite a In Onda, programma su La7, Matteo Salvini ha detto che quei 49 milioni di euro «non ci sono: posso fare una colletta, ma è un processo politico che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto». E ancora: «Se ci sono fatti di dieci anni fa, si pensi a quelli che c’erano dieci anni fa; i milioni di italiani che col 2 per mille danno un contributo al nostro partito non c’entrano. Siamo sereni». Alcune inchieste giornalistiche avrebbero però scoperto che sia Salvini che Maroni avrebbero utilizzato una parte dei 49 milioni di euro frutto della truffa tra il 2011 e il 2014. Le parole di Salvini sulla «colletta», sostiene oggi Repubblica, «non sono distanti dai ragionamenti in corso in via Bellerio. Siccome tutti gli eletti, dai parlamentari ai consiglieri regionali, da sempre versano una quota della propria indennità al partito, un’idea è far finanziare le iniziative della Lega direttamente dagli eletti. (…) Senza dimenticare il nuovo soggetto politico, la “Lega per Salvini premier”, il cui statuto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Formalmente un partito diverso dalla Lega. Sul quale, sperano i vertici del Carroccio, la procura genovese potrebbe non avventarsi».
Soldi della Lega, ecco i documenti che incastrano Matteo Salvini. Una lettera di diffida. Un file del Senato. E i rendiconti interni al partito. Pubblichiamo le carte che smentiscono la versione del ministro sullo scandalo che fa tremare il Carroccio, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 04 luglio 2018 su "L'Espresso". «È un processo politico, che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto». Matteo Salvini si è difeso così dall'accusa di aver beneficiato dei quasi 50 milioni di euro frutto della truffa firmata Bossi e Belsito. La tesi del ministro è quindi semplice: tutta colpa del vecchio leader, io non c'entro niente. I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano invece che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. Il nostro giornale lo aveva già scritto in una lunga inchiesta nell'ottobre 2017. Qui sotto riprendiamo alcuni stralci di quell'articolo e pubblichiamo i documenti che dimostrano quanto da noi ricostruito già dieci mesi fa. Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega. A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’ex governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie. Da questo momento in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro in nome della Lega. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Lo dimostrano i mastrini, i registri contabili del partito che L'Espresso è riuscito a ottenere. Perché allora il segretario della Lega continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E come poteva non sapere che erano frutto di truffa? Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010. Due giorni dopo l’ultimo prelievo, Salvini riceve persino una lettera (inviata anche al tesoriere Giulio Centemero) dall'allora avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.
Matteo Salvini e la diatriba con L'Espresso. L'Espresso attacca il leader leghista con raro tempismo, scrive Giuseppe Vatinno, Lunedì 2 aprile 2018 su "Affari Italiani". Il settimanale L’Espresso ha pubblicato ieri -con singolare tempismo- una inchiesta, “I conti segreti di Salvini”, in cui si dice che il leader del Carroccio avrebbe gestito illegalmente dei soldi in strumenti finanziari (obbligazioni bancarie europee) non permessi da una legge del 2012. Il tutto nasce da una denuncia di Stefano Aldovisi, uno dei revisori ai tempi di Bossi - Belsito. Oltre a questa gestione illegale L’Espresso afferma che ci sia di mezzo una Onlus di area leghista, Più Voci legata alla “sparizione” di una somma di 48 milioni di euro su cui indaga la Procura di Genova. “è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Salvini nell’ottobre del 2015, nel pieno del processo per truffa contro Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. Non ha un sito web, né sembra attiva nel dibattito pubblico. Di certo, però, su quel conto corrente hanno lasciato traccia lauti bonifici. Chi ha finanziato la sconosciuta Più voci?” Salvini ha risposto alla inchiesta dell’Espresso “con un sorriso e una querela”, come ha detto lo stesso leader leghista. Al di là della vicenda che ora si trasferirà nelle aule dei tribunali è interessante notare l’iperattività di Repubblica e L’Espresso, che da qualche tempo stanno scaldando i motori attaccando il centrodestra per cercare di vendere qualche copia in più. Nel frattempo, la nuova vocazione del gruppo, pare essere quella della teologia papale che si concludono spesso con clamorose smentite dello stesso Pontefice, assai perplesso delle elucubrazioni dottrinarie del fondatore Eugenio Scalfari su La Repubblica.
Sovranisti? Sì, ma con la cassa in Svizzera. Dal fratello di Dettori, uomo chiave del Movimento5 Stelle a palazzo Chigi, fino al giornalista pro-Putin: la rete di interessi che coinvolge Lega e 5 Stelle, scrive Vittorio Malagutti il 6 luglio 2018 su "L'Espresso". La Lega delle leghe predicata da Matteo Salvini è molto più di un sogno proiettato in un futuro indefinito. La macchina dell'internazionale sovranista sta scaldando i motori da mesi. Un'inchiesta dell'Espresso che sarà pubblicata nel numero in edicola domenica 8 luglio ricostruisce una trama di contatti e iniziative che coinvolge Cinque Stelle e Lega. Si parte da Silenzi e falsità, sito di news che appoggia il governo di Giuseppe Conte. A tirare le fila dell'iniziativa è Marcello Dettori, 28 anni, esperto di social media con una parentela importante. Suo fratello Pietro, classe 1986, è uno dei quattro soci di Rousseau, la piattaforma digitale su cui gira il mondo a Cinque Stelle. Tra i clienti, tre in tutto, segnalati nel sito personale di Dettori junior, compare anche una società di Lugano: la MediaTi holding. A questa sigla fa capo il più importante gruppo editoriale della Svizzera italiana, proprietario del Corriere del Ticino, il quotidiano più diffuso della zona, cui si aggiungono televisione e radio. Che cosa c'entra il consulente a Cinque Stelle con questi media che battono bandiera elvetica? C'è una persona che fa da anello di congiunzione tra due mondi in apparenza distanti. Si chiama Marcello Foa ed è l'amministratore delegato della Società editrice del Corriere del Ticino, che l'anno scorso ha assorbito MediaTi holding.
Foa non è solo un manager. Come giornalista e blogger lo troviamo in prima linea nella battaglia sovranista e i suoi commenti compaiono spesso sul sito Silenzi e Falsità. Il numero uno del Corriere del Ticino non ha mai nascosto il suo sostegno a Salvini, con cui c'è un rapporto di conoscenza e reciproca stima. Il 14 giugno scorso, l'ultimo libro di Foa (Gli stregoni della notizia, atto secondo) è stato presentato a Milano e il capo della Lega, annunciato come “special guest”, si è materializzato con un video intervento. L'incontro pubblico è stato organizzato, secondo quanto recita la locandina, dall'Associazione Più Voci, la stessa che, come rivelato da L'Espresso, ha ricevuto un contributo non dichiarato di 250 mila euro dal costruttore Luca Parnasi , arrestato tre settimane fa. L'8 marzo Foa è stato uno dei pochi ammessi all'incontro tra Salvini e Steve Bannon, l'ideologo della destra populista americana ed ex consigliere di Donald Trump. Il giornalista-manager è in ottimi rapporti anche con il miliardario svizzero Tito Tettamanti, il fondatore del gruppo Fidinam, specializzato nella consulenza fiscale internazionale con la creazione, tra l'altro, di strutture offshore. Due giorni prima del rendez vous con Salvini, Tettamanti è andato a pranzo a Lugano con Bannon. Facile immaginare che il frontman del trumpismo abbia cercato di coinvolgere nella sua rete anche il fondatore di Fidinam, appassionato di politica, da sempre su posizioni conservatrici e ultraliberiste. I soldi del miliardario svizzero farebbero molto comodo all'internazionale del populismo. Perché il denaro non conosce confini. Neppure per i sovranisti.
Che dite: querelo l’Espresso o mi limito a una risata?, scrive il 7 luglio 2018 Marcello Foa su "Il Giornale". Ieri sera il settimanale L’Espresso ha pubblicato sul proprio sito l’anticipazione di un articolo che uscirà domani, in cui, tenetevi forte, si sostiene che la cassa della Lega sarebbe in Svizzera e si lascia intendere che il sottoscritto avrebbe avuto un ruolo chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. Un lettore mi ha detto: devi querelare. Non so, deciderà il mio avvocato ma l’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola. Il collega che l’ha firmato, tale Vittorio Malagutti, ovviamente non mi ha interpellato in fase di stesura, violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta, e questo la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole. Se lo avesse fatto, gli avrei detto, che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della RSI (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del Corriere della Sera. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati. E al solo pensiero che si possa fare un’inchiesta con questi criteri a me scappa davvero da ridere.
Panama, paradiso leghista. I fiduciari dei cassieri del Carroccio non hanno aspettato la flat tax. Le casseforti sono già state spostate nelle isole a imposte quasi zero: dal Centroamerica a Malta, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 27 giugno 2018 su "L'Espresso". In attesa della mitica flat tax, i fiduciari dei cassieri della Lega si sono portati avanti. Hanno aperto società-cassaforte all’estero, nei più rinomati paradisi fiscali, dove le tasse sono bassissime o inesistenti: da Panama, il centro finanziario più chiacchierato del mondo, a Malta, l’isola delle offshore con la targa europea, la stessa nazione che ora è al centro delle disfide marittime scatenate dal ministro Matteo Salvini sulle navi dei migranti. Angelo Lazzari è un manager bergamasco con una rete di società in Lussemburgo, che ha consolidati legami d’affari con i cassieri della Lega. Intrecci societari, rivelati da un’inchiesta di Giovanni Tizian e Stefano Vergine, che collegano il suo gruppo finanziario con lo studio professionale dei nuovi custodi dei fondi pubblici incassati dai gruppi parlamentari della Lega, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, e con il tesoriere ufficiale del partito, Giulio Centemero, in carica dal 2014. Una squadra di commercialisti bergamaschi arruolati da Salvini per gestire i conti del Carroccio dopo l’arresto dell’ex tesoriere Francesco Belsito, la condanna in primo grado di Umberto Bossi e figli, il sequestro giudiziario dei 48 milioni dello scandalo, di cui però la magistratura ha potuto bloccarne solo un paio: gli altri sono scomparsi, tanto che la Procura di Genova ha aperto un’inchiesta per riciclaggio che punta proprio sul Lussemburgo.
Lazzari gestisce fondi d’investimento italiani e lussemburghesi ed è anche il fondatore di una rete di fiduciarie collegate allo studio dei commercialisti della Lega. Le fiduciarie sono società-schermo che servono a nascondere, legalmente, gli azionisti che vogliono restare anonimi. In Europa, Italia compresa, i trattati contro il riciclaggio di denaro sporco impongono anche alle fiduciarie di identificare e registrare i clienti: i nomi dei titolari restano riservati, ma il segreto deve cadere di fronte a un’indagine della magistratura. I nuovi Panama Papers ora collegano Lazzari a una società esotica, finora sconosciuta, che è totalmente anonima. Si chiama Jontown, è nata a Panama il 31 gennaio 2006 e ha sempre avuto proprietari misteriosi: tutte le azioni, fino al giugno 2010, erano «al portatore». Significa che il padrone della società-cassaforte non è registrato da nessuna parte: il proprietario è chi ha in mano un certificato azionario, cioè un pezzo di carta. In Italia le azioni al portatore sono vietate da un quarto di secolo: la legge è cambiata dopo le storiche istruttorie di Falcone e Borsellino sui tesori mafiosi riciclati in conti esteri intestati a società anonime. In molti paradisi offshore, invece, i titoli al portatore restano tuttora leciti. I documenti interni mostrano che neppure lo studio Mossack Fonseca, la premiata fabbrica di offshore travolta dai Panama Papers, ha mai conosciuto i nomi degli azionisti. Della Jontown si sa soltanto che ha un capitale sociale di diecimila dollari ed era nata per raccogliere finanziamenti anonimi da investire in attività non precisate. Il ruolo di Lazzari viene svelato da una serie di documenti interni archiviati a Panama tra giugno e luglio 2010. Il segreto s’incrina perché la Jontown progetta un aumento di capitale. Quindi i direttori-fiduciari non bastano più: bisogna organizzare a Panama City un’assemblea degli azionisti. Che si fanno rappresentare proprio da Angelo Lazzari. Negli stessi giorni le azioni al portatore vengono sostituite con nuovi certificati di proprietà, intestati però non a persone identificate, ma a un fondo d’investimento lussemburghese: Iris Fund Sicav Fis. Una cassaforte con la targa europea creata sempre da Lazzari per raccogliere finanziamenti da reinvestire. Poi l’aumento di capitale salta, ma i soldi sembrano arrivare comunque, anche in Europa: nell’aprile 2011 i fiduciari panamensi deliberano l’apertura di un conto nella banca Abn Amro in Lussemburgo. Gli affari continuano fino al 28 maggio 2012, quando la Jontown viene resa “inattiva”: l’attività è sospesa, ma potrebbe ripartire. La cassaforte panamense viene chiusa e cancellata dai registri solo il 15 luglio 2014. A gestire i rapporti con Mossack Fonseca è fin dall’inizio una società lussemburghese, Global Trust Advisors, che è anche uno degli azionisti (minori) delle fiduciarie italiane fondate da Lazzari e collegate ai commercialisti della Lega. L’unica persona identificata come rappresentante dei misteriosi azionisti della Jontown, in tutta la sua esistenza, è il manager bergamasco. L’Espresso ha offerto a Lazzari l’opportunità di chiarire il suo ruolo e ha ottenuto questa risposta, attraverso un portavoce: «Jontown era una società di scopo di proprietà di un fondo d’investimento di diritto lussemburghese, chiuso nel 2010, che svolgeva principalmente attività di trading in valute. La società è stata creata a Panama perché il fondo si avvaleva di un broker americano. Il fondo era autorizzato a operare dalle competenti autorità di vigilanza lussemburghesi. La società è stata disattivata e poi cancellata a seguito della chiusura del fondo». Sui nomi dei proprietari, Lazzari si limita a dire che «le azioni erano di proprietà del suddetto fondo». Mentre Global Trust e Mossack Fonseca erano solo «studi professionali che si sono occupati delle gestione burocratica e amministrativa della società». Alla domanda se la Jontown di Panama sia stata dichiarata alle autorità italiane e in particolare al fisco, Lazzari ha risposto che «la società era un veicolo di un fondo d’investimento lussemburghese, soggetto quindi alla normativa e alle autorità lussemburghesi».
Lo sbarco a Malta con il banchiere. Giorgio Balduzzi è un altro commercialista bergamasco collegato ai cassieri della Lega. Tra il 2014 e il 2016, in particolare, ha rappresentato la fiduciaria Seven (quella fondata da Lazzari) nella costituzione di alcune società italiane registrate nello stesso studio dei commercialisti di Salvini: in altre parole, ha garantito l’anonimato, legalmente, ad alcuni clienti dei suoi colleghi leghisti. Ed è sua sorella, Laura Balduzzi, che nel settembre 2013 ha ceduto quello studio di Bergamo agli attuali cassieri del Carroccio. Ora le nuove carte del consorzio giornalistico Icij mostrano che Balduzzi è anche uno dei due soci fondatori di una società di Malta, ammessa a beneficiare del cosiddetto regime offshore: tasse bassissime su oltre il 90 per cento dei profitti prodotti all’estero (Italia compresa). Anche questa è una cassaforte finanziaria, con un capitale nominale di 1.200 euro, denominata Wic Asset Management Ltd. Oltre che azionista, Balduzzi ne è stato amministratore fino al 14 novembre 2014, quando ha venduto il suo 50 per cento a un banchiere d’affari maltese, Alain Mangion. Balduzzi controlla tuttora una serie di società italiane con lo stesso nome, il gruppo Wic, che gestiscono fondi d’investimento e ditte collegate che offrono intestazioni fiduciarie, consulenze fiscali e recupero crediti. A Malta è sbarcato insieme a un altro commercialista lombardo, Andrea Lupini, con studio a Busto Arsizio, che risulta tuttora socio di Mangion. Il banchiere è l’amministratore delegato della Credinvest di Malta, una banca d’affari specializzata nel finanziare grandi opere anche all’estero, realizzate da imprese private ma con garanzie statali, «di valore superiore a un miliardo di euro», come precisa nel suo sito. La Credinvest è attiva soprattutto in Russia e nei paesi dell’Est. Il banchiere diventato socio dei lombardi ha forti legami con il potere politico: fu anche nominato, tra l’altro, ambasciatore di Malta in Romania. Una carica abbandonata nel 2008, quando il giornale romeno Cotidianul rivelò che la sua Credinvest, mentre lui faceva il diplomatico pubblico, aveva ottenuto ricche consulenze dal governo di Bucarest per un piano di autostrade da oltre un miliardo. Intervistato dal Times di Malta, Mangion si difese spiegando di non aver «mai utilizzato le strutture dell’ambasciata» per favorire la sua banca privata, ma poi si è dimesso. Mentre la sua Credinvest, dal 2013, ha stretto «un nuovo accordo con il governo romeno», sempre sui maxi-progetti stradali. L’Espresso ha interpellato anche Balduzzi, che ha risposto di persona: «Dal 2010 al 2015 ho investito molto tempo nel ricercare di capitalizzare società che investissero in piccole imprese italiane. Non riuscendoci in Italia, abbiamo provato all’estero, a Malta, Lussemburgo, America, ma senza alcun risultato. Le piccole imprese italiane purtroppo non piacciono né alle nostre banche né agli investitori esteri». Quindi la società di Malta serviva a raccogliere fondi da investire in Italia? «Esatto». E chi vi ha presentato a Mangion? «Il dottor Lupini considerava la presenza su Malta fondamentale per intercettare capitali e riteneva che il banchiere avrebbe potuto raccoglierli. Abbiamo speso soldi, fatto incontri, ma senza risultati. Quindi ho ceduto le mie quote, su suggerimento di Lupini, al suo contatto Mangion». La società estera è stata dichiarata al fisco italiano? Balduzzi, che è commercialista, risponde così: «La quota è stata acquistata e rivenduta nello stesso anno, senza alcuna plusvalenza». Lo stratega dello sbarco a Malta, insomma, è Lupini, che racconta com’è finita: «La società sostanzialmente ha smesso di operare. Avevamo contattato Mangion perché ha legami con investitori ricchissimi, soprattutto russi, ma poi ho preferito ritirarmi per problemi di natura legale». Quali? Lupini pesa le parole: «Mi occupo di fiscalità internazionale e ho sempre rispettato tutte le norme. Malta però non è l’Italia. E con Mangion non ci risultava sempre chiara l’origine dei fondi di alcuni investitori. Quindi ho voluto evitare ogni ipotetico rischio». Oggi la Credinvest di Mangion pubblicizza anche un’altra attività di rilievo politico: dal 2015 è diventata «un agente accreditato dal governo di Malta» nel programma che concede la cittadinanza ai ricchi investitori stranieri. Gli extracomunitari poveri, in Europa, ci arrivano con i barconi da clandestini, affamati, disperati e rifiutati. I miliardari invece ci entrano con i soldi e un passaporto europeo da vip: basta pagare la parcella agli amici degli amici di Salvini.
L’inchiesta Panama Papers non ipotizza reati o accuse di evasione: riguarda le società offshore, che non pagano tasse legalmente.
Panama Papers 2, da Messi a lady Kazakistan i vip del mondo con i soldi nei paradisi fiscali. La nuova inchiesta del consorzio Icij, di cui fa parte l’Espresso, svela i tesori dei ricchi e potenti che non pagano le tasse. Dal campione del Barcellona, già condannato per frode fiscale ai falsi documenti che imbarazzano la famiglia del presidente argentino Macri. E domenica 24 giugno sul numero in edicola tutti i nomi italiani, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 20 giugno 2018 su "L'Espresso". L’asso del calcio Lionel Messi. Il presidente argentino Mauricio Macri. La figlia del presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev. Sono alcuni dei tanti nomi eccellenti che compaiono nei nuovi Panama Papers: un milione e 200 mila documenti riservati, usciti dagli archivi dello studio panamense Mossack Fonseca nei mesi successivi alla prima, colossale fuga di notizie (11,5 milioni di file) che nell'aprile 2016 svelò i segreti finanziari di imprenditori ricchissimi, stelle dello spettacolo, politici corrotti, dittatori africani, oligarchi russi, ministri europei, evasori americani, narcotrafficanti sudamericani e tesorieri della mafia italiana. Anche questa massa di carte recentissime sulle società offshore provengono dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung”, che le ha condivise con l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij). Alla nuova inchiesta internazionale hanno lavorato più di cento giornalisti di tutto il mondo e per l'Italia, in esclusiva, L'Espresso.
Il funambolo del calcio e delle offshore. Per il campione argentino Messi, punta di diamante della nazionale e del Barcellona, non è la prima volta. Già nel 2016 il suo nome era comparso nei Panama Papers. Ma ora il problema è più grave. Al centro dei suoi interessi esteri, due anni fa, era emersa una società offshore di Panama, chiamata Mega Star Enterprise Inc., controllata da lui stesso e da suo padre Jorge. Interpellato dal consorzio Icij, Messi aveva però minimizzato, dichiarando che quella offshore era «del tutto inattiva». Ora i nuovi documenti mostrano cosa è successo negli uffici di Mossack Fonseca tra l'aprile 2016 e la fine del 2017, cioè dopo la pubblicazione dei Panama Papers. Tra tante carte allarmatissime spunta una comunicazione interna tra due professionisti delle offshore, del maggio 2016, che mette in dubbio la versione di Messi: «L'ufficio dell'Uruguay mi dice che il cliente sta usando la società». In altre parole, la Mega Star non era «inattiva». È una nota messa nero su bianco dal dipendente di Mossack Fonseca che segue il caso. Nella centrale delle offshore scatta l'allarme: c'è il rischio di finire sotto inchiesta. Due mesi dopo, in luglio, lo studio di Panama non esita a scaricare l'illustre cliente rassegnando le dimissioni dal ruolo di agente della Mega Star. E poi comincia a preparare un rapporto speciale, chiamato in gergo Sar (Suspicious activity report): una denuncia di attività finanziarie sospette, simile alle nostre segnalazioni anti-riciclaggio, inviata alle autorità di Panama per prendere le distanze dalla Megastar. Il documento finale è datato 22 febbraio 2017. Nei mesi precedenti lo studio di Panama, in un clima di panico, ha compilato centinaia di moduli Sar nel tentativo di mettere le carte in regola. Ma ormai è troppo tardi: Ramon Fonseca e Juergen Mossack, i due fondatori dello studio, vengono arrestati per la colossale Tangentopoli del Brasile, come presunti custodi delle offshore utilizzate per nascondere i profitti delle maxi-corruzioni carioca. Le manette a Panama scattano il 10 febbraio. Dodici giorni dopo, parte la segnalazione su Messi. Il calciatore argentino e suo padre sono già stati condannati, nel luglio 2016, per un'altra frode fiscale, non collegata ai Panama Papers: 21 mesi con la condizionale e multa da 2 milioni di euro. Contattato da El Confidencial, partner spagnolo di Icij, Messi si difende. E attraverso un avvocato fa sapere che lui e il padre non hanno commesso nessuna irregolarità; che la loro situazione fiscale è stata regolarizzata; e che la Mega Star è una vecchia storia, faceva parte di uno schema societario ormai superato e non gestisce più alcuna attività.
I misteri del presidente argentino. Il coinvolgimento nei Panama Papers dell’attuale presidente argentino Mauricio Macri sembra un giallo alla Hitchcock, dove tutti i protagonisti recitano parti pericolose. Il primo tempo va in scena nel 2016, quando l'inchiesta giornalistica internazionale rivela che Macri, suo padre Francisco e il fratello Mariano hanno gestito una società-cassaforte in un rinomato paradiso fiscale: sono stati amministratori (directors) della offshore Fleg Trading Ltd, registrata alle Bahamas nel 1998 e sciolta undici anni dopo, nel gennaio 2009. I cronisti argentini scoprono che Mauricio Macri, politico e imprenditore, allora sindaco di Buenos Aires, non aveva inserito, nella sua dichiarazione dei redditi, alcun collegamento con la Fleg Trading. A quel punto il suo portavoce precisa che Mauricio Macri non era azionista di quella società, non aveva alcuna partecipazione nel capitale e negli utili. Quella offshore rientrava negli interessi della sua famiglia in Brasile e lui personalmente, a differenza di altri parenti strettissimi, ne era stato soltanto un amministratore occasionale.
Mauricio Macri. Ora i nuovi Panama Papers mostrano la seconda parte della storia, finora rimasta segreta. Tra settembre e ottobre 2016, quando ormai da un anno Macri è diventato presidente dell’Argentina, alcuni dipendenti di Mossack Fonseca, della sede centrale di Panama e della filiale dell’Uruguay, discutono un piano per retrodatare alcune carte. L’idea è di far credere che lo studio professionale avesse rispettato le norme anti-riciclaggio, che impongono di identificare fin dall'inizio i beneficiari di tutte le offshore. Le carte retrodatate dovrebbero servire proprio ad anticipare l'identificazione della famiglia Macri come titolare della offshore. Anche se in realtà la Fleg Trading era rimasta per anni una società totalmente anonima, perfino a Panama. Ma non c'è solo questo. I nuovi documenti rivelano che nell'aprile 2016, dopo i primi articoli sui Panama Papers, un giudice civile argentino aveva inviato, per via diplomatica, una richiesta alle Bahamas, cercando di chiarire proprio il problema della proprità della offshore: qual è il ruolo di Mauricio Macri nella Fleg Trading? Da notare che era stato lo stesso Macri, nei primi giorni dello stesso mese, a dare l’avvio all’azione civile, parallela a un’indagine penale allora in corso, per potersi difendere nei tribunali sostenendo di non possedere azioni di quella imbarazzante offshore di famiglia. Negli stessi giorni i professionisti di Mossack Fonseca elaborano una loro strategia: non possiamo documentare su chi sia il beneficiario finale della Fleg Trading? Allora diamoci da fare per recuperare in qualsiasi modo il documento mancante. E così chiedono a Santiago Lessich Torresel, un importante consulente fiscale uruguyano collegato alla Fleg e alla famiglia Macri, che qualcuno, in quei giorni del 2016, produca una nota scritta a mano, ma con una data falsa, risalente ad alcuni anni prima. Tutti gli avvocati della famiglia Macri però si rifiutano: il progetto è ad «alto rischio», il falso «verrebbe facilmente individuato da un esperto calligrafo», non si può «giocare d’azzardo» con i documenti, «perché c’è di mezzo il presidente dell’Argentina e la sua famiglia». Alla fine i professionisti trovano un accordo. Dall’Uruguay parte una lettera destinata a Mossack Fonseca, datata 4 ottobre 2016: «Informo che la Fleg Trading è stata acquistata presso il vostro studio su richiesta di Francisco (Franco) Macri». Quindi l'unico titolare della società offshore risulta essere non il presidente, ma suo padre. Lo studio Mossack Fonseca si lamenta della soluzione, dice che quella lettera non è «ideale», ma la utilizza comunque per chiudere il caso del beneficiario misterioso. Otto giorni dopo, il 12 ottobre, la lettera viene trasmessa al magistrato argentino. Che a quel punto sentenzia: Mauricio Macri «non era partner o azionista, nè ha ricevuto dividendi o altri profitti» dalla Fleg Trading. Il giallo argentino però non è ancora finito. Dai nuovi documenti spunta anche un’altra offshore, chiamata BF Corporation, posseduta da Mariano e Gianfranco Macri, fratelli del presidente, con il 50 per cento ciascuno. Ancora una volta, Mossack Fonseca non ha identificato e registrato i beneficiari. Lo studio di Panama scopre che anche quella offshore fa capo alla famiglia Macri soltanto nell’aprile 2016: scoppiato lo scandalo dei Panama Papers, le autorità antiriciclaggio della Germania segnalano all’Argentina una serie di movimenti sospetti in un conto bancario di una filiale tedesca della Ubs. Quei soldi fanno capo a Gianfranco Macri, che in seguito sistemerà la sua posizione con le autorità fiscali di Buoens Aires. Contattato dal quotidiano argentino La Nacion, che fa parte del consorzio Icij, un portavoce della Socma, la società-capogruppo delle aziende della famiglia Macri, ha dichiarato che il padre del presidente ha già spiegato di essere l'unico proprietario della Fleg Trading. Il portavoce ha anche aggiunto di non avere informazioni, né commenti da fare, sulle discussioni tra Mossack Fonseca e l’esperto tributario dell’Uruguay, cioè sul giallo della retrodatazione dei documenti.
Overdose di offshore per Mossack Fonseca. Sono così numerose, le società anonime costituite o gestite da Mossack Fonseca, che spesso neppure i capi dello studio sanno di custodirle nei propri archivi. Un problema che riguarda anche offshore di alto lignaggio. Lo studio si accorge soltanto nel luglio 2017 di avere nei propri registri una società panamense che appartiene agli eredi del celeberrimo gioielliere francese Pierre Cartier. Quella società offshore, secondo i documenti, custodisce un vero tesoro: foreste in Canada, conti bancari svizzeri. Interpellati dai giornalisti del quotidiano le Monde, partner di ICIJ, gli ertedi Cartier non hanno risposto. Silenzio anche dal Kazakistan, lo stato dell'Asia centrale dominato da decenni dal presidente a vita Nursultan Nazarbayev. Sua figlia, Dariga Nazarbayeva, ex vice premier, oggi guida da parlamentare la commissione del Senato per le relazioni internazionali. Ed è considerata il più probabile successore del padre. I nuovi Panama Papers la indicano come unica azionista di una società delle British Virgin Islands, che controlla fabbriche di zucchero in Kazakistan, attraverso a una serie di società intermedie analizzate dai giornalisti di Occrp, partner del consorzio Icij. Anche la senatrice Nazarbayeva ha declinato l’invito a fornire precisazioni e chiarimenti.
Nursultan Nazarbayev. In altri casi, lo studio Mossack Fonseca scopre il nome del beneficiario solo quando viene citata a giudizio dalle vittime delle sue offshore. Un esempio arriva da Israele e riguarda la società anonima Mallett Ford Inc. Dietro la quale, tramite un trust, si nascondeva Israel Perry, un avvocato israeliano morto nel 2015, dopo essere stato processato e condannato per una maxi-frode finanziaria ai danni di moltissimi suoi connazionali, tra cui spicca un gruppo di sopravvissuti all’olocausto. Di quel caso di criminalità finanziaria si è parlato in tutto il mondo. Ma lo studio Mossack Fonseca, stando ai documenti interni, ha scoperto che quella offshore apparteneva a Perry solo quando si è visto chiedere i danni per la Mallett.
I tesori esteri del vip d'Italia. L'Espresso pubblicherà la nuova inchiesta Panama Papers, con i nomi e i casi più rilevanti per il nostro paese, nel numero in edicola da domenica 24 giugno. Gli articoli riguardano tesori offshore di valore imponente, da 1,5 fino a 10 miliardi di dollari americani, e una serie di società cassaforte collegate a partiti politici italiani. All'inchiesta giornalistica internazionale hanno collaborato, per le notizie contenute in questo articolo, Marcos Garcia Rey, Miranda Patrucic, Mariel Fitz Patrick, Sandra Crucianelli, Emilia Delfino, Hugo Alconada Mon, Ivan Ruiz e Maja Jastreblansky, Ryan Chittum e Will Fitzgibbon.
Panama Papers 2, è panico a Panama City: «Arrestate i giornalisti». I nuovi documenti fotografano le reazioni allo scandalo tra 2016 e 2017: denunce contro i cronisti, professionisti infuriati, politici e sceicchi che cercano i soldi. E le autorità fiscali hanno già incassato più di un miliardo, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 21 giugno 2018 su "L'Espresso". La sede di Mossack e Fonseca a Panama «Il cliente? È scomparso. L'ho cercato ovunque ma non c'è più». «La situazione è imbarazzante. Ridicola». «Sembriamo dei dilettanti, alle prese con operazioni finanziarie alla Topolino». Era successo di tutto all'indomani della pubblicazione dei Panama Papers, il mega scandalo finanziario esploso il 3 aprile del 2016, frutto di una inchiesta giornalistica che è valsa un premio Pulitzer ai 380 cronisti dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij). E’ il network che ha raccontato gli affari – dagli anni '70 al 2015 – dello studio legale panamense Mossack Fonseca, fornitore di società offshore in numerosi paradisi fiscali a disposizione dei ricchi e potenti di tutto il mondo. Ora una seconda fuga di documenti svela nuovi tesori segreti di personalità della politica, economia, sport e spettacolo, con una nuova puntata dei Panama Papers, e rivela anche il panico e il caos che ha segnato la fine dello studio Mossack Fonseca. Le nuove carte includono documenti interni, email, copie dei passaporti dei beneficiari e atti dei procedimenti penali avviati in vari stati: una massa di materiale inedito, che va dall'inizio del 2016 alla fine del 2017. Le nuove informazioni sono state ottenute dallo stesso giornale tedesco che aveva ricevuto i primi documenti, Süddeutsche Zeitung, che li ha condivisi con il consorzio Icij e i suoi partner, fra cui l'Espresso in esclusiva per l'Italia. Il nostro settimanale pubblicherà nel numero in edicola da domenica 24 giugno i nuovi nomi degli italiani con i soldi nei paradisi fiscali.
La nuova inchiesta giornalistica internazionale fotografa gli effetti dei Panama papers nel riservatissimo mondo delle offshore. Nel 2016, già prima della pubblicazione degli articoli su 107 testate internazionali, le email e i telefoni dello studio Mossack Fonseca vengono presi d'assalto. A scrivere e chiamare sono soprattutto le società che hanno fatto da tramite (avvocati, consulenti, commercialisti), ma anche qualche titolare delle offshore (beneficial owner), che chiede conto e spiegazione delle domande rivolte dai giornalisti su quelle società-cassaforte fino ad allora segretissime. Addio riservatezza. E lo studio che fa? Prova a salvare il salvabile, organizzando una reazione, come si scopre grazie al milione e 200 mila nuovi documenti ora disponibili. Così i dipendenti di Mossack Fonseca (Mossfon) si mettono di buona lena a rispondere alle centinaia di email inviate a un apposito indirizzo email aperto per fronteggiare il disastro: CrisisCommitte@mossfon. Non solo, all'improvviso l'attività quotidiana dei dipendenti di Mossack Fonseca cambia: la priorità non è più creare società di comodo nei paradisi fiscali, bensì ricercare furiosamente l'identità dei beneficiari. Già, perché per anni lo studio ha sorvolato sulle regole internazionali che impongono di specificare e verificare l'identità dei propri clienti, per evitare che, dietro all'anonimato, possano celarsi criminali, truffatori, mafiosi o politici corrotti. Dunque, nei mesi successivi alla bufera mediatica dei Panama Papers, i dipendenti di Mossack Fonseca cercano di riempire i tanti vuoti nei registri delle società. E così inviano messaggi a raffica agli indirizzi di posta elettronica di banchieri, contabili e avvocati, cioè ai professionisti e intermediari che avevano richiesto l'assistenza di Mossack Fonseca per costituire le offshore per conto dei propri facoltosi clienti, che invece avrebbero voluto restare anonimi. Alcuni di quegli stessi intermediari rispondono picche: «Il cliente? Scomparso». Altri si indignano: «Sembrate dei dilettanti». «Tutto questo è ridicolo», scrive ad esempio Eliezer Panell, un avvocato della Florida, esasperato dal pressing di mail quotidiane inviate da Mossack Fonseca, nel tentativo di ottenere i documenti per identificare i titolari di due società. Due mesi dopo lo scandalo, Mossack Fonseca si arrende di fronte all'evidenza del gigantesco deficit di informazioni nei propri registri: una email interna conferma che restano ignoti i proprietari di oltre il 70 per cento di 28.500 società delle Isole Vergini britanniche, così come il 75 per cento delle 10.500 offshore di Panama, mentre alle Seychelles l'anonimato è quasi totale.
«Arrestate i giornalisti». Non conoscere l'identità dei reali beneficiari delle società di comodo registrate nei paradisi fiscali, significa rischiare un'infinità di guai legali sia per Mossack Fonseca, sia per i clienti finali, che rischiano il blocco delle offshore e quindi dei capitali che custodiscono. Così, il giorno dopo la scoperta della fuga di notizie, i capi di Mossack Fonseca entrano nel panico. Al punto da richiedere al procuratore generale di Panama di avviare un'indagine, fermare e «interrogare urgentemente» i giornalisti, provenienti da Francia, Danimarca, Australia, Stati Uniti e Germania, che in quei giorni s'aggirano nella capitale per preparare gli articoli poi pubblicati nell'aprile 2016. «Ai giornalisti non deve essere permesso di lasciare Panama o l'Hilton Hotel dove alloggiano, finché non rivelano come hanno ottenuto i documenti da Mossack Fonseca», tuona l'avvocato dello studio, senza successo. I tentativi di fermare i cronisti si susseguono in tutti i paesi del mondo. Ad esempio Nicole Didi, una consulente svizzera, scrive una email di fuoco ai professionisti di Panama: «Questo giornalista francese vuole pubblicare un articolo sul quotidiano Le Monde che per me non è accettabile!». Pronta, ma inutile, la risposta del coordinatore del servizio clienti di Mossack Fonseca, Jorge Cerrud: «Parlerò con il nostro dipartimento pubbliche relazioni per vedere come possiamo aiutarla».
Politici, sceicchi e star in allarme. In questo clima di caos, per la prima volta, anche i ricchi piangono. Alcune personalità di altissimo profilo sono costrette a precipitarsi da Mossack Fonseca per rivendicare la paternità del proprio conto offshore. I segretari del presidente ucraino Petro Poroshenko, in particolare, spediscono allo studio legale una bolletta dell'elettricità per dimostrare la sua residenza e l'identità personale, dopo che le autorità antiriciclaggio delle Isole Vergini britanniche avevano richiesto a lui stesso la conferma della proprietà della sua offshore. Poroshenko ha poi confermato pubblicamente la titolarità della offshore, spiegando però che era legata alla sua attività di imprenditore e non c'entra con il suo ruolo politico. Nei giorni dello scandalo, sono molti i potenti che devono scomodarsi. Perfino il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, si attiva per spedire a Panama la copia del proprio passaporto e i documenti dei familiari. Tra la corrispondenza archiviata dallo studio ci sono anche 17 email della star hollywoodiana Jackie Chan, cliente di Mossack Fonseca, che fornisce in tutta fretta la copia del proprio passaporto e una dichiarazione di American Express, nel tentativo di mantenere attive le sue società offshore per la produzione e distribuzione di film. In formato esentasse.
E il fisco incassa oltre un miliardo. Poi ci sono le reazioni giudiziarie. Nel febbraio 2017 il procuratore generale di Panama, Kenia Porcell, dichiara ufficialmente che una serie di società offshore targate Mossack Fonseca sono state utilizzate per pagare o incassare mazzette in tutta l'America Latina, in connessione con lo scandalo Lava Jato, la colossale Tangentopoli brasiliana. Altre inchieste sono state aperte dai pubblici ministeri di Colonia, in Germania, per evasione fiscale, sulla base delle notizie pubblicate da Süddeutsche Zeitung. Le procure di mezzo mondo intanto accendono il faro sui tesori esteri dei potenti, mentre le autorità fiscali cominciano a reclamare le tasse non pagate e le sanzioni. Alla fine del 2017, il bilancio legale dei Panama Papers è già notevole: il fisco in Spagna ha recuperato 103,6 milioni di euro, secondo i dati ufficiali del ministero; in Olanda 6,2 milioni; in India le autorità hanno accertato redditi non dichiarati per 162,4 milioni di dollari; in Gran Bretagna si prevedono sanzioni per circa 100 milioni di sterline. Molti altri paesi avviato indagini e in parte già recuperato le imposte evase. In totale, nel 2016, le autorità fiscali della Corea del Sud risultano aver incassato un miliardo e 180 milioni di dollari. Anche in Italia sono in corso numerose indagini che partono dai Panama Papers. L'Agenzia delle entrate ha comunicato di aver messo nel mirino una prima lista di 800 italiani con società offhore aperte dallo studio di Panama. Altre indagini, anche penali, sono state avviate da Roma a Milano, da Torino alla Campania e alla Sicilia. Ma le inchieste più importanti sono ancora segrete. (Hanno collaborato Will Fitzgibbon e Ben Hallman)
Ministro Salvini, ora dica la verità sui soldi della Lega: da Parnasi al Lussemburgo. Sulla "Più Voci", l'associazione sconosciuta e scoperta dalle nostre inchieste, qualcuno sta mentendo. Ma chi? E ancora: con quali soldi sopravvive il partito del vice premier? Su L'Espresso in edicola domenica 17 giugno ricostruiamo la galassia finanziaria leghista e le troppe dissonanze. Su cui si sta instaurando un coordinamento investigativo tra le procura di Roma e Genova, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 15 giugno 2018 su "L'Espresso". «I conti segreti di Salvini». Due mesi fa, titolava così L'Espresso l'inchiesta di copertina sui soldi della Lega. Per la prima volta una sconosciuta associazione dal curioso nome “Più voci” usciva dall'anonimato. Fino ad allora nessuno poteva immaginarne l'esistenza. Anche perché non ha mai pubblicizzato alcuna attività politica, culturale, sociale. E non ha una sede aperta al pubblico, come le più classiche delle associazioni che lavorano sul territorio. Si trova, infatti, in via Angelo Maj 24, in un anonimo condominio di Bergamo, presso lo studio dei commercialisti che compongono il cerchio strettissimo del segretario, oggi ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Sulla Più voci scovata dall'Espresso e fondata nel 2015 dal tesoriere della Lega scelto da Matteo Salvini, qualcuno dei protagonisti mente. Chi? Luca Parnasi, da poco in carcere per l'indagine sul nuovo stadio della Roma, cioè uno degli imprenditori che hanno finanziato con 250 mila euro la sconosciuta associazione leghista? O Giulio Centemero, il cassiere del partito, braccio destro del neo ministro dell'Interno? Vedremo, insomma. Intanto sull'asse Roma-Genova si sta instaurando una collaborazione investigativa tra le due procure. Un coordinamento tra i pm che indagano sull'affare stadio-Parnasi e i loro colleghi che scavano sul tesoro della Lega. Gli inquirenti, dunque, hanno acceso un faro sui contributi svelati dall'Espresso e ora finiti al centro della cronaca. Sull'Espresso in edicola da domenica 17 giugno vi raccontiamo le dissonanze tra la versione fornita dai fedelissimi di Salvini e quella di Parnasi, registrata dalle cimici dei carabinieri. Messe a confronto restituiscono un quadro contraddittorio, confuso. È un imprenditore generoso, Parnasi. Che ha fiuto per il cambiamento, percepisce prima di altri in che direzione soffierà il vento del rinnovamento nei palazzi. Negli ultimi anni, infatti, si è avvicinato alla Lega e ai Cinquestelle. Il nuovo potere, appunto. Chi mente, dunque? L'imprenditore che intercettato dai carabinieri della Capitale rivela a un suo collaboratore di aver dato quei soldi per la campagna elettorale delle comunali di Milano? O il tesoriere di Salvini che all'Espresso aveva escluso categoricamente che quei soldi fossero finiti in attività politiche del partito? Di certo la Lega non è ancora riuscita a chiarire fino in fondo è il ruolo dell'associazione “Più voci”. Registrata davanti a un notaio nell’autunno del 2015, dai tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Ognuno di loro con l'arrivo di Salvini alla segreteria si è ritagliato un ruolo sempre maggiore all'interno della Lega. Tra Salvini e Parnasi c'è un ottimo rapporto: «Lo conosco personalmente come una persona perbene», ha dichiarato il ministro la mattina dell'arresto del costruttore. Ma all'epoca dell'inchiesta dell'Espresso sui “conti segreti”, né Salvini né Parnasi avevano risposto alle nostre domande sull'associazione gestita dai commercialisti della Lega. Di certo Parnasi è molto vicino al leader ora capo dei Viminale. «Amico fraterno», lo definisce in alcuni dialoghi contenuti nelle informative depositate in procura a Roma. Parnasi non è stato il solo a versare a Più voci. L'Espresso ha documentato come anche il colosso della grande distribuzione Esselunga abbia donato denaro alla fondazione-associazione leghista. Soldi che dopo una breve sosta sui conti di Più voci sono ripartiti per finire su quelli delle società della galassia del Carroccio. Ora, però, è l'indagine della procura di Roma, con l'arresto di Parnasi, che permette di compiere un passo in avanti. Il costruttore romano, intercettato, mostra una certa agitazione dopo aver ricevuto le nostre domande in cui gli chiedevamo conto di quei 250 mila euro versati a Più voci. Tramite il commercialista, quindi, contatta l'amico di Milano, cioè Andrea Manzoni. L'immobiliarista ha intenzione di chiedere all'uomo di Salvini di «fare una cosa retroattiva» rispetto al versamento. E poi aggiunge: «Te lo avevo detto che era una rogna», riferendosi all'inchiesta dell'Espresso sull'associazione della Lega. Ma è il passaggio successivo che rende l'idea di quanto scompiglio avessero provocato le domande: «Ragionando sulle possibili conseguenze dell'articolo, Parnasi e il suo commercialista, ipotizzano di creare una falsa documentazione contabile, retrodatata, per giustificare l'erogazione». Ma perché tanto trambusto? Forse perché qualcuno non dice la verità. Forse è arrivato il momento per il partito del ministro di pubblicare anche i nomi degli altri finanziatori della Più voci. Esistono, e sono diversi. Lo sostiene Parnasi, secondo cui almeno 10 imprenditori avrebbero versato alla Più voci. E ce lo aveva confermato il tesoriere della Lega, trincerandosi però dietro il muro della privacy. Nel servizio sui soldi della Lega in edicola domenica, ripercorriamo anche le tappe delle nostre inchieste esclusive pubblicate in questi mesi sulla caccia ai 48 milioni frutto della truffa dei rimborsi elettorali lasciati da Umberto Bossi sui conti del partito e mai più trovati da chi, inquirenti e investigatori, cerca di far rispettare una sentenza dello Stato. In questi mesi L'Espresso ha ricostruito nei dettagli i flussi finanziari e societari della galassia leghista dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Francesco Belsito. E seguendo i fili degli affari da via Angelo Maj siamo arrivati fino in Lussemburgo, nel polmone offshore dell'Europa. Proprio il Granducato dove la guardia di finanza di Genova ha inviato una rogatoria per raccogliere maggiori informazioni su strani movimenti di denaro. Tanto che nei giorni scorsi sono state eseguite delle perquisizioni presso due filiali della Sparkasse, istituto di Bolzano dal quale sono transitati alcuni milioni riconducibili al partito, sospettano i detective. Di quel denaro a distanza di cinque anni non c'è più traccia. Con il partito e il suo attuale leader che piangono miseria. E allora come sopravvive il partito del ministro? Con quali soldi?
Ministro Salvini, è ora di dire la verità sui soldi della Lega. Con quale denaro sopravvive il partito del vice premier? E chi sta mentendo sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste? Ricostruiamo la galassia finanziaria leghista e le troppe dissonanze. Su cui si sta instaurando un coordinamento investigativo tra le procura di Roma e Genova, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 21 giugno 2018 su "L'Espresso". Caccia al tesoro sparito della Lega ai tempi della Terza Repubblica. E ai finanziatori segreti del Carroccio. Che fine hanno fatto i milioni di euro pubblici frutto della truffa sui rimborsi elettorali firmata da Umberto Bossi? E che ruolo ha l’associazione “Più voci”? Sono le domande da cui siamo partiti in questi mesi per ricostruire i flussi finanziari della galassia leghista post Bossi e Maroni, per capire dove sono finiti i 48 milioni messi sotto sequestro dai magistrati (che però ne hanno trovati solo 3) dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Francesco Belsito. Con la sentenza di primo grado del tribunale di Genova è stata riconosciuta la truffa ai danni dello Stato realizzata da Belsito, Bossi e altri uomini del partito di quell’epoca. Ma i giudici hanno anche stabilito che quei soldi devono essere restituiti. Matteo Salvini non perde occasione per sottolineare come le casse della Lega siano vuote. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali del partito. E allora come sopravvive la Lega? Come paga le sue campagne elettorali?
A partire dall’inchiesta “Salvinidanaio” (2 ottobre 2017), L’Espresso ha cercato di ricostruire i flussi finanziari che hanno attraversato le tre diverse gestioni della Lega: Bossi, Maroni e Salvini. Quest’ultimo ha sempre sostenuto che di quei 48 milioni non ha mai visto uno spicciolo. I report interni del Carroccio però smentiscono il ministro dell’Interno e segretario del partito. E dimostrano l’esistenza di un filo diretto tra la truffa architettata dalla coppia Belsito-Bossi e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo Maroni ha incassato 12,9 milioni di euro. Rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Quando Salvini subentra a Maroni poco cambia. Il nuovo segretario incassa 820 mila euro per le elezioni regionali del 2010. Perché allora sostiene che quei soldi non li ha mai visti? Sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste, qualcuno sta mentendo. Ma chi? È proprio seguendo i soldi, analizzando documenti bancari e contabili del partito, che sono emersi altri due dati rilevanti: un portafoglio di titoli finanziari di cui è titolare il partito di Salvini e un’associazione culturale, la “Più voci”, usata dopo la condanna per truffa per incamerare contributi volontari da imprenditori amici. Un’inchiesta giornalistica che ha dato il titolo a una delle copertine dedicate dal nostro settimanale al tesoro scomparso della Lega. “I Conti segreti di Salvini” (1° aprile 2018) svelava per la prima volta l’esistenza di un patrimonio finanziario del Carroccio fatto di buoni del tesoro italiano e obbligazioni societarie. Oltre alla liquidità, quindi, il partito poteva contare su un sostanzioso tesoretto. Investito parzialmente in titoli vietati per un partito politico, dato che la legge permette di scommettere denaro solo su titoli di Stato della zona euro. Nel dicembre del 2013, quando Maroni è ancora il segretario federale, la Lega è titolare di titoli per 11,2 milioni di euro. Due terzi della somma equivalgono a buoni del tesoro italiani, mentre il resto sono obbligazioni societarie. E ci sono anche 380 mila euro investiti in un derivato, basato sull’andamento del Ftse Mib, il principale indice azionario della Borsa di Milano. Insomma una Lega che, a dispetto della legge e delle dichiarazioni ufficiali contro la finanza speculativa, ha scelto di rischiare parecchio con i soldi dei rimborsi elettorali. Con l’arrivo di Salvini la strategia non cambia. Nello specifico, il neo ministro ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural. Ma c’è un fatto ulteriore che emerge dallo studio dei saldi bancari: da dicembre del 2013 al maggio del 2014 il patrimonio è crollato, passando da 14,2 milioni a 6,6 milioni. In che modo sono stati spesi così rapidamente tutti quei soldi resta uno dei misteri della nuova Lega sovranista, sulla quale si sono intanto accesi i riflettori della procura di Genova e della Guardia di finanza. Le perquisizioni presso le sedi della Sparkasse, la banca in cui per un certo periodo il Carroccio ha parcheggiato la sua liquidità, hanno infatti l’obiettivo di ricostruire lo spostamento del denaro fuori dai confini nazionali. I detective sono alla ricerca di investimenti passati per il Lussemburgo. Sono convinti che il materiale sequestrato darà loro molte risposte. Perché è anche da quei conti che è transitato il denaro poi improvvisamente sparito. Un passaggio che già nel 2015 L’Espresso raccontava in un’altra inchiesta dal titolo “Caccia al tesoro padano”. L’indagine della magistratura è ancora a carico di ignoti, e l’ipotesi di operazioni di riciclaggio effettuate tramite Sparkasse è solo uno dei filoni. L’attività principale riguarda infatti la ricerca del denaro da sequestrare, così come ordinato dal tribunale dopo la sentenza di condanna per truffa. Di certo la Lega non è riuscita a chiarire fino in fondo il ruolo dell’associazione “Più voci”. L’Espresso aveva rivelato, nell’inchiesta sui “Conti segreti di Salvini”, che questa organizzazione fondata nell’autunno 2015 aveva ricevuto parecchi finanziamenti privati. A tenere le redini dell’associazione sono tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. La “Più Voci” finora non ha pubblicizzato alcuna attività politica o sociale, ma ha ricevuto parecchi bonifici. Soldi - 313 mila euro in pochi mesi, da fine 2015 a metà 2016 - che entrano, fanno una sosta e poi ripartono per altri lidi. O meglio, verso altri conti intestati a società della galassia leghista: aziende in cui i commercialisti preferiti da Salvini hanno incarichi di rilievo, come Radio Padania e la Mc Srl, l’impresa che edita il quotidiano online Il Populista, nuovo strumento della propaganda salviniana in rete.
Come avevamo raccontato, sul conto della “Più Voci” sono arrivati in particolare due bonifici per un totale di 250 mila euro dalla Immobiliare Pentapigna di Luca Parnasi. Già, proprio l’uomo che dovrebbe costruire il nuovo stadio della Roma e che è appena finito in carcere per corruzione nell’inchiesta che rischia di travolgere il Campidoglio a Cinquestelle. «Lo conosco personalmente come una persona perbene», ha dichiarato Salvini dopo l’arresto riferendosi al costruttore. Il ministro ha però dimenticato di ricordare dei 250 mila euro versati da Parnasi all’associazione gestita dai commercialisti della Lega. D’altra parte l’immobiliarista romano non è stato il solo benefattore. L’Espresso ha documentato come anche Esselunga abbia donato 40 mila euro. Ora è l’indagine della procura di Roma, con l’arresto di Parnasi, che permette di compiere un passo avanti. L’imprenditore, intercettato, si mostra agitato dopo aver ricevuto le nostre telefonate in cui gli chiedevamo conto di quei bonifici alla “Più voci”. Decide di non rispondere alle nostre domande, così come ha fatto Salvini, ma confida a un suo collaboratore che quei soldi servivano per finanziare la campagna elettorale di Stefano Parisi (candidato per il centro destra, Lega inclusa) a sindaco di Milano del 2016. Se fosse vero, questo smentirebbe la versione del tesoriere Centemero, che al nostro giornale aveva spiegato: «I fondi raccolti non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come per esempio le campagne elettorali». Di sicuro, una volta saputo della nostra inchiesta, il gruppo Parnasi si mette al lavoro per trovare una giustificazione al finanziamento. Tramite il suo commercialista, l’immobiliarista contatta Andrea Manzoni, il contabile fedele a Salvini. Gli vuole chiedere di «fare una cosa retroattiva». E poi aggiunge: «Te lo avevo detto che era una rogna», riferendosi alle nostre domande. Ma è il passaggio successivo che rende l’idea di quanto scompiglio avesse creato la nostra richiesta. Parnasi infatti propone a un suo collaboratore di «creare una giustificazione contabile retrodatata grazie alla quale sostenere che l’erogazione sia avvenuta a favore di Radio Padania». Ma perché tanta preoccupazione? In ogni caso quando Parnasi capisce che non c’è nulla da fare e che lo scoop dell’Espresso verrà pubblicato si arrende: «Pazienza, ma sotto un certo aspetto è positivo perché tutti sapranno che siamo vicini alla Lega che farà il governo». Tesi sostenuta anche da Luigi Bisignani. Il faccendiere evergreen prima chiede all’amico quanti sono gli imprenditori che hanno versato soldi all’associazione leghista “Più Voci”. «Una decina», risponde Parnasi: dunque molti di più rispetto ai due scoperti dal nostro giornale. Poi Bisignani dice all’amico che «non serve rispondere ai giornalisti ma cavalcare la cosa», perché in fondo è amico di tutti quelli che contano visto che «ha finanziato la Lega e il M5S». Che l’uomo incaricato di costruire lo stadio della Roma abbia finanziato anche i grillini è tutto da provare. Di certo l’intercettazione rivela un inedito spaccato sul nuovo potere. Ma anche sul vecchio: nella stessa conversazione i due sostengono che a sinistra «non possono dirgli nulla» sul finanziamento alla Lega, perché «anche quelli conoscono la sua società Pentapigna». Se l’inchiesta della procura di Roma conferma l’esistenza di canali alternativi usati dalla Lega per finanziarsi, evitando così il possibile sequestro dei soldi, resta aperto il capitolo “vecchio tesoro padano”. Una traccia del metodo usato dai leghisti per blindare il patrimonio milionario l’abbiamo raccontata nell’ultima inchiesta di copertina, “L’Europa offshore che piace a Salvini” (3 giugno 2018). Scavando negli affari del trio di commercialisti Centemero-Di Rubba-Manzoni, L’Espresso ha scoperto una ragnatela di piccole imprese di cui è impossibile conoscere il proprietario, perché a controllarle è una fiduciaria che porta lontano, fino in Lussemburgo. I cassieri della Lega hanno risposto alle nostre domande sostenendo che queste società nulla hanno a che fare con il partito. Questioni private, insomma. Gestite però da professionisti con ruoli pubblici in Parlamento. Di certo è curioso notare come i commercialisti scelti da Salvini abbiano legami con il Lussemburgo, paradiso fiscale europeo guidato per anni dal guardiano dei vincoli di bilancio, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. E ancora più curioso è rilevare che proprio nel Granducato la procura di Genova ha appena inviato una rogatoria per indagare sui flussi finanziari partiti dall’Italia e macchiati dalla truffa di Bossi.
Esclusivo: alla Lega sovranista di Matteo Salvini piace offshore. Da Bergamo al Lussemburgo, via Lugano. Lungo questa direttrice si dipanano gli affari dei cassieri del partito scelti dal segretario neo ministro degli Interni. L'inchiesta su L'Espresso in edicola domenica 3 giugno 2018, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine l'1 giugno 2018 su "L'Espresso". In via Angelo Maj 24, a Bergamo, c'è un piccolo studio contabile di proprietà di Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Due professionisti come tanti, se non fosse per la loro ascesa, a partire dal 2014, all'interno dell'amministrazione del partito di Salvini. Alla coppia, poco nota alle cronache, si aggiunge un terzo uomo, più conosciuto: Giulio Centemero, il tesoriere ufficiale del partito, voluto dal leader che ha portato la Lega all'exploit elettorale del 4 marzo. Centemero è stato eletto alla Camera alle ultime elezioni, ma è soprattutto l'uomo ingaggiato da Salvini per gestire i conti dopo gli scandali della truffa sui rimborsi elettorali durante la gestione di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Di Rubba, Manzoni e Centemero: i cassieri di Matteo, insomma.
Tutti nati nel 1979, tutti laureati in economia e commercio all’università di Bergamo, dove si sono conosciuti nei primi anni 2000. Un trio al cui vertice c'è proprio il neodeputato e tesoriere. Gestiscono decine di società con base in via Angelo Maj, nuovo quartier generale delle finanze leghiste, sette delle quali controllate- attraverso delle fiduciarie italiane tra i cui soci c'è anche un'anonima impresa svizzera- da una holding lussemburghese che fa capo a un'altra fiduciaria. Impossibile dunque, vista la sofisticata schermatura finanziaria, sapere chi sono i reali proprietari delle società registrate presso lo studio di Di Rubba e Manzoni. E impossibile è anche conoscere l'origine dei capitali attraverso cui sono state costituite. L'unica certezza è che seguendo il flusso di denaro si arriva nel Granducato, uno dei principali paradisi fiscali europei. Ma non è tutto. Approfondendo gli affari dei cassieri del Carroccio si arriva a un’impresa che noleggia auto, di proprietà di Manzoni e Di Rubba, il cui fatturato si è impennato da quando la Lega è diventata sua cliente. E c’è pure una grande tipografia della bergamasca, anche questa diventata fornitrice di punta del partito dopo le elezioni di Salvini a segretario federale, il cui proprietario pochi giorni fa ha fatto guadagnare oltre un milione di euro a Di Rubba. Da aprile scorso Manzoni e Di Rubba ricoprono anche una carica formale e delicata all'interno del partito: il primo è stato nominato direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera, il secondo è stato scelto come revisore legale del gruppo Lega al Senato. Non solo: entrambi hanno ottenuto incarichi di peso all'interno della Pontida Fin e della Fin Group, ammiraglie finanziarie del partito. Proprio la Fin Group ha cambiato sede con l'entrata in scena di Salvini e Centemero. Dalla storica via Bellerio, sede e simbolo di una Lega nordista, secessionista, padana, è stata trasferita in via Angelo Maj 24, presso lo studio Di Rubba - Manzoni, con quest'ultimo che è diventato l'amministratore unico della società. Alle domande de L’Espresso, sia Centemero che i colleghi Di Rubba e Manzoni hanno risposto allo stesso modo. Non hanno fornito informazioni sui beneficiari ultimi delle fiduciarie, ma hanno assicurato che le sette aziende in questione non hanno legami né diretti né indiretti con la Lega. Tuttavia un fatto è indiscutibile: in una di queste imprese l’amministratore è il tesoriere del partito, cioè Centemero, e in una seconda lo stesso ruolo è ricoperto dal professionista Manzoni, scelto per vigilare sui conti del gruppo parlamentare alla Camera. Sempre presso lo studio di Manzoni e Di Rubba è registrata anche la associazione culturale “Più Voci”: l'organizzazione fondata da Centemero, Di Rubba e Manzoni per incamerare contributi da imprenditori, di cui L'Espresso aveva dato conto in esclusiva due mesi fa nell'inchiesta di copertina “I conti segreti di Salvini”.
Sull'associazione Più voci questa volta la Lega ha risposto. Lo ha fatto con il tesoriere Centemero: «I soldi ricevuti non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come ad esempio la campagna elettorale». Il tesoriere ha sottolineato che «l’associazione, come da ragione sociale, stimola il pluralismo dell’informazione, perciò i progetti di sostegno (le donazioni private, ndr) sono stati indirizzati su Radio Padania e su Il Populista (il giornale online edito da Mc Srl, ndr)». Insomma, Centemero sostiene che quei soldi non servivano a finanziare la campagna elettorale della Lega, ma a sostenere l’informazione realizzata dai suoi media. Difficile capire quale sia la differenza sostanziale, visto che Radio Padania e Il Populista sono testate attraverso cui la Lega fa campagna elettorale. E piuttosto complicato risulta anche comprendere perché, se le cose stanno così, Esselunga e Parnasi (i donatori dell'associazione che avevamo rivelato due mesi fa) non sono stati invitati a donare soldi direttamente a Radio Padania e a Il Populista. Il tesoriere Centemero ci ha anche fatto sapere che l’associazione è ancora attiva, e che a partire dalla sua fondazione, nell’ottobre nel 2015, «ha raccolto qualche centinaia di migliaia di euro da aziende e privati». Nessuna informazione sui nomi dei donatori: «La normativa delle associazioni e la riservatezza dei dati richiesti mi impediscono di rivelare i nominativi dei contribuenti e i relativi importi», ci ha scritto Centemero.
L’indagine sui soldi della Lega e il Lussemburgo, scrive mercoledì 13 giugno 2018 Il Post. La procura di Genova sospetta che il partito abbia nascosto 3 milioni – che dovevano essere sequestrati – trasferendoli all'estero. Mercoledì mattina agenti della Guardia di Finanza e ispettori della Banca d’Italia hanno perquisito la sede centrale della Sparkasse, la Cassa di Risparmio di Bolzano, su richiesta della procura di Genova che da mesi sta indagando sui 48 milioni di euro che la Lega dovrebbe restituire allo Stato, perché confiscati al partito dopo il caso dei cosiddetti “rimborsi truffa” che coinvolse il tesoriere Francesco Belsito e l’ex segretario Umberto Bossi nel 2012. L’ipotesi della procura è che la Lega – non è chiaro quando, ma durante le gestioni di Roberto Maroni e Matteo Salvini – abbia cercato di nascondere parte dei propri soldi per evitare che venissero sequestrati, trasferendoli in Lussemburgo per poi farli rientrare in Italia. Lo scandalo dei falsi rimborsi della Lega emerse per la prima volta nel 2012, e nel 2017 portò alla condanna in primo grado di Belsito e Bossi, oltre che di diversi altri dirigenti della Lega. Quando venne deciso il sequestro di 48 milioni di euro come risarcimento, sui conti del partito ne vennero trovati soltanto due. Per risarcire lo Stato dei fondi sottratti illecitamente, quindi, era stato disposto il sequestro dei soldi che da allora in futuro sarebbero arrivati sui conti della Lega: il sequestro, chiesto dalla procura di Genova, era stato confermato lo scorso aprile dalla Cassazione. Come ha ricordato spesso lo stesso Salvini, però, ufficialmente la Lega non ha soldi sui propri conti («15mila euro», disse Salvini lo scorso gennaio). La procura ha aperto un’indagine per riciclaggio a carico d’ignoti, ipotizzando che la Lega abbia cercato di evitare il sequestro di parte dei propri soldi: al centro della perquisizione di mercoledì c’è un investimento di 3 milioni di euro in Lussemburgo, poi – secondo questa tesi – fatti rientrare in Italia. A segnalare alle autorità antiriciclaggio italiane queste manovre finanziarie è stato lo stesso Lussemburgo, che ha considerato sospetto il rientro in Italia della somma. Secondo la procura, la Sparkasse è stata la banca dalla quale i soldi sono stati trasferiti e poi rimpatriati. Oltre alla sede di Bolzano mercoledì sono state fatte delle perquisizioni anche a Milano e a Collecchio, in provincia di Parma, scrive il Secolo XIX. La procura ha anche presentato una rogatoria internazionale per ottenere dal Lussemburgo i documenti sui trasferimento di denaro sospetti.
Fondi della Lega, blitz della Finanza alla Sparkasse di Bolzano, scrive Matteo Indice il 13 giugno 2018 su "Il Secolo XIX". Come anticipato questa mattina dal Secolo XIX e dalla Stampa, accelera l’inchiesta per riciclaggio dopo la condanna per i “rimborsi-truffa” ricevuti dalla Lega ai tempi di Bossi: una segnalazione dal Lussemburgo ha spinto i pm di Genova a chiedere l’acquisizione di una serie di documenti. Questa mattina, poco prima dell’orario di apertura, finanzieri, ispettori e tecnici di Bankitalia si sono presentati nel centro di Bolzano per una vasta “ricognizione” alla Direzione generale della Sparkasse, la Cassa di Risparmio. Gli inquirenti sono alla ricerca di prove documentali e informatiche sul sospetto riciclaggio di parte dei rimborsi fuorilegge che la Lega ha incassato dal Parlamento fino al 2013, e che potrebbe aver esportato in Lussemburgo con l’obiettivo di metterli al riparo dai sequestri, per poi farli rientrare sempre parzialmente in Italia. Due operazioni sospette (un investimento di 3 milioni nel Granducato e il rientro d’una somma analoga dallo stesso paese) sono avvenute proprio tramite l’istituto altoatesino e agli occhi di chi indaga potrebbero essere collegate a esponenti leghisti. Una fiduciaria lussemburghese ha inoltre segnalato nei mesi scorsi alle autorità antiriciclaggio italiane come “anomala” la transazione di ritorno, che ha avuto per terminale sempre la Sparkasse. Ecco perché le Fiamme Gialle, su delega della Procura di Genova che indaga per riciclaggio al momento contro ignoti, si sono concentrati su Bolzano e con una rogatoria internazionale hanno già chiesto di acquisire vari incartamenti pure in Lussemburgo. Il blitz di Finanza e Bankitalia per la medesima indagine, oltre che in Alto Adige, è in corso anche a Milano e a Collecchio (Parma), dove si trova un importante centro informatico.
Lega e soldi dal Lussemburgo: i pm cercano a Bolzano i milioni del Carroccio rientrati in Italia. Una segnalazione di Bankitalia innesca i pm di Genova: una rogatoria per capire se si tratta dei rimborsi per cui sono stati condannati Bossi e Belsito, scrivono Valeria Pacelli e Ferruccio Sansa il 13 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Tre milioni di euro. Rientrati in Italia dal Lussemburgo e segnalati dalla Banca d’Italia dopo le elezioni politiche. L’indagine della Procura di Genova sui conti della Lega si riapre all’improvviso: i pm hanno avviato una rogatoria internazionale per capire se il denaro sia stato movimentato da persone riferibili alla Lega e se si tratti di una fetta del tesoro del Carroccio: 48 milioni mai ritrovati. Tutto comincia pochi giorni dopo il 4 marzo quando la Banca d’Italia riceve un report da una fiduciaria del Lussemburgo. Viene segnalato un movimento di denaro giudicato sospetto dal Granducato all’Italia. Per la precisione, alla Sparkasse di Bolzano, uno degli snodi di questa vicenda. Negli ultimi tempi le autorità europee hanno compiuto un giro di vite sugli spostamenti di denaro di entità rilevante che passano per il Lussemburgo. Il report della fiduciaria finisce sul tavolo dei funzionari di Bankitalia che, dopo averlo esaminato, lo trasmettono agli inquirenti genovesi. Quelli che stanno cercando di mettere le mani sul tesoro della Lega, i 48 milioni. Gli investigatori della Finanza e i pm Francesco Pinto e Paola Calleri presto si convincono che quei 3 milioni potrebbero essere “riferiti” ad attività di esponenti della Lega. Così l’inchiesta – finora non ci sono nomi sul registro degli indagati – che pareva destinata all’archiviazione riprende fiato. Certo, tengono a sottolineare qualificati ambienti investigativi, occorre assicurarsi che la segnalazione non sia una polpetta avvelenata: la Lega ha appena fatto il botto alle elezioni e qualcuno potrebbe cercare di bloccarla. Un’ipotesi che va comunque vagliata. Tutto comincia il 26 luglio scorso quando il Tribunale di Genova condanna – in primo grado – Umberto Bossi (due anni e mezzo) e l’ex tesoriere Francesco Belsito (quattro anni e dieci mesi). L’accusa parla di truffa ai danni del Parlamento per i rimborsi elettorali. Ma i magistrati, cercando di recuperare il denaro, si rivolgono anche a Stefano Aldovisi, uno dei revisori contabili della Lega di Bossi. Aldovisi dovrebbe versare ben 40 milioni. Ma il commercialista, assistito dal legale milanese Stefano Goldstein, giura di aver lavorato gratuitamente e di non aver mai toccato quel denaro. Alla fine presenta un esposto, in cui fa riferimento ad alcuni articoli pubblicati nei mesi scorsi sul settimanale L’Espresso e che riguardavano proprio i conti della Lega. Il denaro in teoria dovrebbe essere versato dopo il terzo gradodi giudizio, ma i pm chiedono di agire subito. E partono alla caccia. Soltanto 2 milioni vengono recuperati. Secondo i vertici della Lega il resto non ci sarebbe più: già speso per attività politiche. Ma i pm Paola Calleri e Francesco Pinto decidono di ricostruire tutti i movimenti. Si imbattono in diversi conti correnti dove sarebbero stati depositati 19,8 milioni. Si tratta di Unicredit (la filiale vicentina) e Banca Aletti (la sede milanese). I denari da qui nel 2013 sarebbero stati trasferiti su due nuovi conti aperti presso la filiale milanese della bolzanina Sparkasse. A consigliare l’istituto altoatesino sarebbero stati Domenico Aiello, avvocato di fiducia di Roberto Maroni e allora presidente dell’Organismo di Vigilanza della banca, e il suo collega Gerhard Brandstatter, allora presidente della Fondazione Sparkasse, oggi presidente della banca (nessuno dei due, va sottolineato, risulta indagato). Il conto, però, ha vita brevissima. Circostanza che ha indotto i pm ad approfondire. Secondo quanto ricostruì all’epoca Brandstatter, sarebbe stato aperto nel gennaio 2013 e avrebbe cessato l’operatività nel luglio successivo. Sette mesi. Aiello parlando con i cronisti spiegò: “Con Maroni segretario, il partito ha aperto un conto in Sparkasse che poi Salvini ha chiuso trasferendo il residuo in Banca Intesa nel 2014”. Ma perché tenere un conto per così poco tempo? “Erano in realtà due conti: un normale easy-business e uno per deposito titoli. Gli interessi offerti dalla banca erano del 2,5, poi calati all’1,9%. Alla Lega non bastava”, hanno raccontato nei mesi scorsi al Fatto fonti della banca. Insomma, il tesoro del Carroccio sembra essersi polverizzato. In attività politica, giurano i leghisti. Qui l’indagine stava per fermarsi. Ma ecco che a marzo arriva la segnalazione che tre milioni dal Lussemburgo sono rientrati in Italia alla Sparkasse. Di per sé niente di illegale, sempre che dalle carte che i pm stanno acquisendo – anche con una rogatoria in Lussemburgo – non emerga che il denaro è quello del tesoretto oggetto dell’inchiesta sul sistema Belsito. E che, insomma, nella Lega qualcuno non abbia cercato di sottrarre alla giustizia il denaro che sarebbe provento di un reato. Di qui l’ipotesi di reato di riciclaggio (senza indagati finora). C’è poi da capire se il denaro sia transitato in Lussemburgo per investimenti finanziari. E di quale natura. La legge del 2012 infatti prevede che i partiti possano investire le loro risorse soltanto in titoli di Stato dei Paesi Ue.
Lega, caccia ai milioni dal Lussemburgo: cosa sappiamo sui soldi del partito di Salvini. Gli investimenti illegali. L'associazione usata per ottenere finanziamenti privati. I soldi della truffa incassati dai nuovi dirigenti. I fortunati fornitori del partito. I bonifici di Parnasi. Fino allo strano gruppo di società controllate tramite una holding in Lussemburgo. Lo stesso Paese dove ora i magistrati credono che la Lega abbia riciclato milioni, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 13 giugno 2018 su "L'Espresso". Roberto Maroni e Matteo Salvini hanno riciclato i soldi della Lega in Lussemburgo? È questa la pista che stanno seguendo i magistrati della procura di Genova, da tempo impegnati a capire dove sono finiti i 48 milioni di euro di rimborsi elettorali usati illegalmente dal Carroccio ai tempi di Umberto Bossi. La notizia è stata pubblicata questa mattina da Repubblica e da Il Fatto Quotidiano. I due giornali hanno raccontato di una segnalazione inviata dalle autorità lussemburghesi alla Banca d'Italia poco dopo le ultime elezioni del 4 marzo. Una segnalazione legata a un movimento bancario sospetto: 3 milioni di euro versati da una fiduciaria lussemburghese su un conto corrente italiano che gli investigatori ritengono collegato alla Lega. L'inchiesta dalla procura di Genova, per ora a carico di ignoti, ha portato questa mattina la Guardia di Finanza a perquisire le sedi della banca Sparkasse di Bolzano e Milano con l'obiettivo di raccogliere tutta la documentazione sui conti del Carroccio. Come detto, la vicenda riguarda i 48 milioni di euro di rimborsi elettorali incassati dalla Lega ai tempi di Bossi. Soldi percepiti illegalmente, hanno stabilito in primo grado i tribunali di Genova e Milano, perché frutto di truffa e appropriazione indebita.
Il problema è che quando i magistrati sono andati a sequestrare tutti questi soldi sui conti del Carroccio hanno trovato solo 3 milioni. Gli altri? A questo tema – importante non solo perché riguarda un partito politico ma anche perché stiamo parlando di 45 milioni di euro pubblici, provenienti da chi paga le tasse - L'Espresso ha dedicato molti articoli nell'ultimo anno. Inchieste giornalistiche, basate su visure camerali e documenti interni alla Lega, che hanno permesso di svelare parecchie notizie inedite. Innanzitutto il fatto che sia Maroni che Salvini, segretari federali succeduti a Bossi, pur avendolo più volte negato in pubblico hanno usato il denaro pubblico frutto di truffa, e lo hanno fatto consapevoli dei rischi che correvano. L'Espresso è stato anche il primo giornale a rivelare ai suoi lettori l'esistenza di parecchi milioni di euro investiti dalla Lega in prodotti finanziari vietati per un partito. In barba alla legge, Maroni e Salvini hanno infatti usato i denari del Carroccio per acquistare titoli obbligazionari di alcune delle più famose banche e multinazionali del mondo come General Electric, Gas Natural, Mediobanca, Enel, Telecom, Intesa Sanpaolo e Arcelor Mittal. Dove sono finiti tutti questi soldi? Su quale conto corrente sono stati incassati una volta scadute le obbligazioni? Gli strumenti del giornalismo d'inchiesta non ci hanno permesso di scoprirlo. Seguendo i movimenti finanziari della galassia leghista siamo però riusciti a raccontare qualche altro fatto inedito. Abbiamo ad esempio dato conto dell'esistenza, a partire dal 2015, dell'associazione Più Voci, un'organizzazione fondata dal tesoriere del partito, Giulio Centemero, e usata per ricevere finanziamenti privati al riparo da sguardi indiscreti. È così emerso che sul conto corrente dell'associazione leghista sono arrivati bonifici a quattro e cinque zeri da Esselunga e dal costruttore romano Luca Parnasi, quello che dovrebbe realizzare lo stadio della Roma e che proprio per questo progetto è stato arrestato oggi su mandato della procura di Roma con l'accusa, insieme a diverse altre persone, di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Infine, nell'ultima inchiesta di copertina, abbiamo raccontato degli affari dei commercialisti scelti da Salvini per gestire le finanze del partito. E proprio studiando la rete societaria collegata ai cassieri del ministero dell'Interno siamo arrivati nel più noto paradiso fiscale europeo: il Lussemburgo. Lo stesso Paese che i magistrati di Genova ritengono essere al centro del riciclaggio milionario targato Lega.
I soldi dei leghisti nascosti in Lussemburgo. Gli affari dei tre commercialisti scelti da Salvini per gestire i fondi del partito. Tra fiduciarie svizzere e holding offshore, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 7 giugno 2018 su "L'Espresso". È questa la sede dell’associazione “Più voci”? La portiera di via Angelo Maj 24, a Bergamo, sgrana gli occhi. «Mai sentita nominare», risponde. Eppure, secondo i documenti ufficiali ottenuti da L’Espresso, è in questo condominio a sei piani color verde acqua che è stata registrata l’associazione fondata da tre commercialisti fedelissimi di Matteo Salvini. Un’associazione importante per capire come il leader della Lega ha riorganizzato le finanze del partito dopo gli scandali della gestione Umberto Bossi e del tesoriere Francesco Belsito, le condanne per truffa, i sequestri milionari. In meno di un anno, dall’ottobre del 2015 all’agosto del 2016, sul conto corrente della “Più Voci” sono arrivati bonifici per un totale di 313.900 euro. Denaro versato principalmente da Esselunga e dall’immobiliarista romano Luca Parnasi. Soldi che “l’organizzazione culturale” ha girato subito dopo a due società molto vicine alla Lega: Radio Padania e Mc srl, l’impresa che edita il quotidiano online Il Populista. Possibile che nemmeno la portiera dello stabile abbia mai sentito parlare della “Più Voci”, la porta girevole creata dai cassieri di Salvini per incamerare finanziamenti privati? Davanti all’insistenza dei cronisti, l’anziana signora ha un sussulto. Estrae da un cassetto un foglio bianco: vi sono riportati i nomi di una ventina di società. La portiera scorre attentamente l’elenco. «Eccola», esclama, «l’associazione “Più Voci” in effetti è qui, in quella porta», e la indica con il dito al piano terra. La porta è quella dello studio Dea Consulting, di proprietà di due commercialisti bergamaschi poco noti: Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Sono stati loro, insieme al collega e tesoriere leghista Giulio Centemero, a creare l’associazione. Sempre loro a depositare all’ufficio brevetti il marchio “Salvini premier”, sfondo blu e scritta bianca in stile Trump. E ancora loro a spostare il baricentro finanziario del partito da Milano, in via Bellerio, sede storica del Carroccio, alla più modesta via Angelo Maj, nella Bergamo dell’ex ministro Roberto Calderoli, bossiano del cerchio magico fino alla tempesta dell’indagine sulla truffa dei rimborsi elettorali, poi unico della vecchia guardia a sedersi con Salvini al tavolo delle trattative con i Cinquestelle. Passato e futuro che si incrociano in questa palazzina residenziale di Bergamo bassa. Con al centro i tre giovani contabili scelti da Matteo per gestire la cassa. Tutti nati nel 1979, tutti laureati in economia e commercio all’università di Bergamo, dove si sono conosciuti nei primi anni 2000. È indagando sugli affari dei tre commercialisti che si scopre una lista infinita di società. Una ragnatela che nasconde parecchie sorprese. Ci sono ad esempio sette imprese registrate presso lo studio Dea Consulting, di cui è però impossibile conoscere il reale proprietario: a controllarle è una fiduciaria che porta lontano dai confini nazionali cari a Salvini. Seguendo il flusso di denaro si arriva in Lussemburgo passando per la Svizzera. E ci si imbatte pure nella nipote di Silvio Berlusconi, azionista di minoranza della pattuglia di aziendine che fanno base presso lo studio dei commercialisti leghisti. Ma non è tutto. Approfondendo gli affari dei cassieri del Carroccio si arriva a un’impresa di Di Rubba e Manzoni che noleggia auto, il cui fatturato si è impennato da quando la Lega è diventata sua cliente. E c’è pure una grande tipografia della bergamasca, anche questa diventata fornitrice di punta del partito gestione-Salvini, il cui proprietario ha fatto guadagnare oltre un milione di euro a Di Rubba.
Centemero, Di Rubba e Manzoni. Gli amministratori della cassa del partito, traslocata in gran fretta dalla milanese via Bellerio alla bergamasca via Angelo Maj. Tutti e tre con ruoli di peso all’interno della Lega. Centemero è il tesoriere del partito. Gli altri due ad aprile sono stati nominati rispettivamente direttore amministrativo e revisore contabile dei gruppi parlamentari, Manzoni alla Camera e Di Rubba al Senato. Un ruolo delicato, perché chi lo ricopre ha a che fare con soldi della collettività. I gruppi parlamentari sono infatti sovvenzionati dallo Stato. E con la fine del finanziamento pubblico ai partiti, sono rimasti l’unico canale attraverso cui le forze politiche possono incamerare denaro dei contribuenti. Per questo sarebbe auspicabile evitare commistioni tra il ruolo pubblico e quello privato dei professionisti impegnati ad amministrare o a vigilare sui conti dei gruppi parlamentari. Al vertice del trio di cassieri Salvini ha posto Centemero, militante di lungo corso e tesoriere ufficiale del partito dal 2014. Compito particolarmente delicato viste le grane finanziarie in cui si è impelagata la Lega dopo la truffa sui 48 milioni di euro di rimborsi elettorali (sentenza di primo grado). Già assistente a Bruxelles di Salvini, che dice di conoscere da quando aveva 17 anni, il giovane commercialista è l’unico dei tre contabili ad essersi guadagnato un posto in Parlamento alle ultime elezioni. L’uomo a cui è stato affidato il compito di mettere in sesto le casse leghiste ha in effetti un curriculum di tutto rispetto. Niente a che vedere con Francesco Belsito, che prima di assumere la carica di tesoriere faceva l’autista. Nato in Brianza e residente a Milano, Giulio vanta un master in Bocconi e uno alla Boston University di Bruxelles, esperienze lavorative in multinazionali come Ibm e Pricewaterhouse Coopers, una passione non comune per le lingue (dice di cavarsela persino con l’armeno, l’arabo e il cinese). Nel curriculum non lo scrive, ma a facilitare la sua scalata nel mondo della politica potrebbe essere stata anche una parentela prestigiosa: sua sorella si chiama infatti Elena, più volte deputata di Forza Italia.
È stato Centemero a spostare gli affari più riservati della Lega da Milano a Bergamo, nello studio commercialistico di via Angelo Maj 24, quello degli ex compagni di università Di Rubba e Manzoni.
Questo civico alle porte del centro storico è diventato oggi il crocevia di decine di società sconosciute ai più. Sette di queste, però, sono più speciali delle altre. La proprietà è infatti impossibile da decifrare. Un lavoro da professionisti, quali sono in effetti i cassieri di Matteo. Risalendo la catena di controllo delle sette imprese registrate presso lo studio Dea Consulting ci si imbatte infatti in una fiduciaria italiana, a sua volta controllate da una holding lussemburghese dietro la quale si trova un’altra fiduciaria. Un’architettura perfetta per celare l’identità dei proprietari e ottimizzare il carico fiscale. Tutto legale, meglio dirlo subito. Ma andiamo con ordine. Tutte le azioni delle sette società italiane - che in comune hanno il fatto di essere state fondate tra il 2014 e il 2016, dopo la presa del potere di Salvini e la nomina di Centemero a tesoriere del partito - sono detenute dalla Seven Fiduciaria di Bergamo, a sua volta controllata da un’altra impresa bergamasca, la Sevenbit. Il presidente del consiglio d’amministrazione di quest’ultima si chiama Angelo Lazzari, che si presenta sul web come ingegnere ed ex promotore finanziario, prima in Mediolanum e poi in Unicredit, oggi manager con base in Lussemburgo.
Fondata nel 2015, la Sevenbit conta una trentina di azionisti - tra questi anche la nipote di Berlusconi, Alessia, attraverso la Blue Srl - ma la maggioranza delle quote, il 90 per cento, è in mano alla Ivad Sarl, sede in Rue Antoine Jans 10, Lussemburgo, fondata nel 2008 dallo stesso Lazzari. Impossibile conoscere l’origine dei capitali attraverso cui l’azienda è cresciuta a dismisura. Di sicuro, dal dicembre del 2015 la holding lussemburghese ha un nuovo proprietario ufficiale, e anche questa volta è italiano. Si chiama Prima Fiduciaria ed è specializzata nella creazione di trust, cioè fondazioni anonime. Tra gli azionisti della Prima Fiduciaria troviamo un’altra lussemburghese, la Arc advisory company. Che ci riporta dritti al punto di partenza, visto che è stata fondata nel 2006 proprio da Lazzari. Anche in questo caso, però, è impossibile tracciare l’origine dei capitali: il socio di controllo della Arc advisory company è infatti la Ligustrum, una società immobiliare svizzera, con base a Lugano, le cui azioni sono intestate al portatore. Perché tutta questa riservatezza dietro a sette piccole imprese della bergamasca? Ci sono legami tra queste società e la Lega? Alle domande de L’Espresso, sia Centemero che i colleghi Di Rubba e Manzoni hanno risposto allo stesso modo. Non hanno fornito informazioni sui beneficiari ultimi della Seven Fiduciaria, ma hanno assicurato che le sette aziende in questione non hanno legami né diretti né indiretti con la Lega. Tuttavia un fatto è indiscutibile: in una di queste l’amministratore è il tesoriere del partito, cioè Centemero, e in una seconda lo stesso ruolo è ricoperto dal professionista, Manzoni, scelto per amministrare il gruppo parlamentare alla Camera. Oltretutto quest’ultimo è stato scelto per guidare l’ammiraglia delle finanze del Carroccio, la Fin Group, di proprietà del partito. Di certo colpisce notare come il nuovo fortino degli affari leghisti porti nel paradiso fiscale europeo per eccellenza, quello in cui hanno trovato rifugio i grandi capitali della finanza speculativa. Il Granducato per anni governato da Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, volto del cosiddetto establishment e guardiano dei vincoli di bilancio europei che Salvini vorrebbe demolire in nome del sovranismo. Eppure, se da un lato Matteo promette una lunga guerra di trincea alle istituzioni comunitarie e si dice pronto a scommettere che la flat tax rimetterà in sesto i conti pubblici italiani, dall’altro non sembra preoccupato dagli affari offshore legati ai suoi fedelissimi cassieri. Affari in cui ricorrono spesso gli stessi nomi. Come quello di Giorgio Balduzzi, presente come procuratore speciale della Seven Fiduciaria all’atto di costituzione di alcune delle imprese registrate presso lo studio di Manzoni e Di Rubba. Balduzzi si mostra come numero uno della Wic Private Equitiy, una holding che gestisce investimenti. Nello stesso gruppo lavora Laura Balduzzi, che fino a settembre 2013 era la titolare dello studio poi venduto al duo Manzoni-Di Rubba. Un altro nome ricorrente è quello di Alberto Maria Ciambella. È il notaio, anche lui bergamasco, che ha registrato tutte e sette le società domiciliate al 24 di via Angelo Maj, quelle riconducibili all’anonima holding lussemburghese Ivad. Ma è anche l’ufficiale che ha firmato tutti i rogiti attraverso cui la Lega ha sparpagliato il suo ricco patrimonio tra le varie sezioni regionali del partito, prontamente dotate di codice fiscale e quindi di autonomia patrimoniale. Una mossa inedita, realizzata dopo l’arrivo di Salvini al potere e l’avvio dell’inchiesta per truffa che poco dopo avrebbe portato al sequestro dei conti del Carroccio, sui quali finora i magistrati di Genova hanno trovato poco più di 3 milioni di euro rispetto ai 48 milioni che cercavano. Una coincidenza, forse, quella del notaio Ciambella. O più probabilmente la conferma che Bergamo è diventata il nuovo centro finanziario della Lega di Salvini, il posto più sicuro per ridare fiato agli affari. Quelli dichiarati e quelli più segreti.
La funzione pubblica e quella privata si mischiano spesso anche quando si prova a ricostruire l’ascesa del commercialista Di Rubba, nominato ad aprile scorso direttore amministrativo del gruppo parlamentare della Lega al Senato. Una fortuna pazzesca, quella del 39enne commercialista di Gazzaniga. Ex dipendente di Ubi Banca, appassionato di montagna e motocross, da quando Salvini è diventato segretario del partito lui ha accumulato incarichi prestigiosi: presidente di Lombardia Film Commission, la fondazione controllata dalla Regione che ha come scopo quello di promuovere sul territorio lombardo le produzioni video; consigliere d’amministrazione di Radio Padania, la storica emittente del Carroccio in cui il segretario federale ha mosso i primi passi; amministratore unico di Pontida Fin, la cassaforte immobiliare del Carroccio, oggi rimasta l’unica azienda del partito con un patrimonio rilevante. Ripartiamo allora da lui, da Di Rubba e dalla sua fortuna. Non quella politica, però, ma quella finanziaria. Il gioiellino di famiglia si chiama Dea Spa, società immobiliare in cui Centemero e Manzoni hanno avuto incarichi di vigilanza, che conta oltre 20 proprietà tra case e terreni. Il vero colpaccio, però, Alberto l’ha messo a segno di recente. E ha fatto tutto da solo, senza l’aiuto dei familiari. Una compravendita azionaria da far impallidire i più smaliziati venture capitalist. Al centro dell’affare c’è la Arti Group Holding, società fondata a Bergamo nel dicembre dell’anno scorso e attualmente inattiva, dicono le visure camerali. Quando viene costituita, Arti Group Holding ha tre azionisti: Alessandro Bulfon con il 49 per cento, Marzio Carrara con il 45 per cento e Alberto Di Rubba con il 6 per cento. Cinque mesi dopo, il 10 maggio 2018, Di Rubba vende la sua quota a Carrara, che così ottiene il controllo dell’azienda (51 per cento). Una normale operazione finanziaria, verrebbe da dire. Non fosse per le cifre in ballo. Al momento della fondazione della Arti Group Holding, il 6 per cento in mano a Di Rubba valeva 10 mila euro. Cinque mesi dopo, per acquistarla Carrara ha versato sul conto del commercialista bergamasco la bellezza di 1,1 milioni di euro. Che cosa è successo nel frattempo per giustificare una maggiorazione di prezzo del genere? Le cronache locali raccontano che poco dopo la costituzione, a gennaio di quest’anno, Arti Group Holding ha acquisito dal fondo tedesco Bavaria due aziende della bergamasca: la Eurogravure e il Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche. Un’operazione importante, che non spiega però il motivo di quella straordinaria rivalutazione delle quote in mano a Di Rubba. Di certo c’è che nel frattempo Carrara ha migliorato il suo rapporto con la Lega. Secondo due fonti interne al partito consultate da L’Espresso, proprio negli ultimi mesi il movimento guidato da Salvini ha scelto di affidare buona parte delle forniture di stampa, volantini e manifesti elettorali, a un’azienda di Costa di Mezzate, sempre in provincia di Bergamo. Si chiama Cpz. E il proprietario è lo stesso Carrara. Interpellati da L’Espresso sul prezzo della compravendita, il proprietario della Cpz e Di Rubba hanno risposto nello stesso modo: l’operazione – si sono limitati a spiegare - «rientra nel più vasto piano di acquisizioni mobiliari che il gruppo Carrara sta compiendo». Quanto ha incassato l’imprenditore bergamasco dalla Lega nel 2017? A questa domanda sia Carrara che il tesoriere leghista Centemero hanno preferito non ribattere, giustificando la scelta con il rispetto della normativa sulla privacy e gli obblighi di riservatezza sui dati economici sensibili. Carrara ha voluto precisare che «da oltre vent’anni» il suo gruppo stampa per «numerose forze politiche», ma ha sempre mantenuto «una posizione di assoluta neutralità nei confronti della politica». E alla domanda “come spiega l’aumento delle forniture alla Lega nell’ultimo periodo?”, l’imprenditore ha risposto così: «Qualora vi fosse stato un aumento delle forniture in favore della Lega, ritengo possa essere attribuito alla campagna elettorale conclusasi con il voto dello scorso aprile».
Di certo l’eventuale aumento delle forniture della Cpz deve avere oscurato il ruolo della storica tipografia usata dal Carroccio negli anni di Bossi. Si chiama Boniardi Grafiche, ha sede a Milano e fino al 2016 ha registrato fatturati invidiabili per un’impresa di soli 9 dipendenti, oltre 2 milioni di euro all’anno. C’era solo un problema: i crediti verso i clienti, lievitati costantemente fino a sfiorare 1,5 milioni di euro. Quanti di questi erano appannaggio della Lega? Anche su questo punto il tesoriere Centemero ha spiegato di non poter rispondere a causa di «precisi obblighi di legge che mi impongono il rispetto della riservatezza», assicurando al contempo che tutte queste informazioni sono «oggetto nel caso della Lega a numerosi controlli da parte di diversi organi in sede di certificazione di bilancio e in seno alle commissioni a ciò preposte». Alcune fonti interne al partito raccontano però che per sanare i debiti sia stata escogitata una soluzione a costo zero. Almeno per le casse del partito. Alle ultime elezioni la Lega ha candidato Fabio Massimo Boniardi, 46 anni, figlio del fondatore della Boniardi Grafiche nonché azionista dell’impresa. Boniardi – che è pure consigliere comunale a Bollate, assessore a Garbagnate Milanese e vice segretario provinciale del partito - è stato eletto alla Camera e ora, se le elezioni in arrivo non gli scompagineranno i piani, potrà contare su cinque anni di stipendio. Pubblico, ovviamente. Non sarebbe questo l’unico fornitore fortunato della Lega. Tra le nuove aziende scelte dal Carroccio, raccontano tre fonti interne al partito, da un paio d’anni c’è infatti anche un’azienda bergamasca chiamata Non Solo Auto. Fornisce servizi di noleggio di autovetture, e anche questa ha sede legale nel condominio verde acqua di via Angelo Maj 24. La società è stata fondata alla fine del 2015 e nel giro di due anni il suo giro d’affari è cresciuto parecchio, arrivando a toccare un fatturato di 268 mila euro nel 2017. Non male per un’impresa che dichiara di non avere nemmeno un dipendente. Chi sono i fortunati proprietari della Non Solo Auto? Proprio Di Rubba e Manzoni. I quali respingono qualsiasi ipotesi di conflitto di interessi. Alla nostra richiesta di conoscere il fatturato della Non Solo Auto riferibile alla Lega, i due commercialisti bergamaschi hanno opposto il riserbo «per evidenti motivi di privacy e commerciali», argomentando che «né il dottor Di Rubba, né tantomeno il dottor Manzoni hanno ruoli di responsabilità esecutiva, strategica né funzioni dirigenziali» all’interno della Lega, partito per il quale i due dicono di svolgere «attività tecniche di natura amministrativa». E in effetti, tecnicamente, le cose stanno proprio così: i due sono presenti in diverse società legate al Carroccio, ma sempre come amministratori, membri del cda o del collegio sindacale. Nessun incarico politico, insomma, nemmeno adesso che i due professionisti lombardi hanno varcato la soglia dei palazzi romani con gli incarichi assunti alla Camera e al Senato. Se di Di Rubba abbiamo già detto, vale la pena conoscere meglio Manzoni. Laureato anche lui in Economia e commercio all’università di Bergamo, vanta un dottorato in “strategie di impresa” e decine di pubblicazioni nazionali e internazionali. Oltre a gestire lo studio di via Angelo Maj, da quando Salvini è diventato leader del partito il suo curriculum si è arricchito con una serie di nomine in società pubbliche e private. È ad esempio nel collegio sindacale di Cogeme e Anita, due multiutility lombarde a controllo pubblico, in quello di Metropolitana Milanese e di Arexpo, ma è soprattutto l’amministratore unico della Fin Group, la storica holding del partito creata, insieme a Pontida Fin, per gestire quello che un tempo era un ricco patrimonio. Ruoli strategici, occupati in passato da uomini fedelissimi a Umberto Bossi, che oggi sono concentrati nelle mani di questi giovani commercialisti. Professionisti cresciuti vicino a Pontida, nel cuore pulsante della Padania secessionista, e diventati nel silenzio generale i cassieri della nuova Lega a vocazione sovranista, quella che dice di voler difendere i confini e combattere le ingiustizie europee. Chissà se tra queste Salvini include anche i vantaggi finanziari offerti dal Lussemburgo.
Esclusivo: i conti segreti di Matteo Salvini. Milioni investiti illegalmente. E la onlus "Più voci" per incassare i soldi dei finanziatori. Ecco cosa nasconde la Lega. L'inchiesta in edicola domenica 1 aprile, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 30 marzo 2018 su "L'Espresso". Dov’è finito il tesoro della Lega? Dove sono spariti i 48 milioni di euro che il tribunale di Genova vorrebbe mettere sotto sequestro dopo la condanna di Bossi per truffa ai danni dello Stato? Da mesi i giudici di Genova sono a caccia di quei denari. Finora sui conti del Carroccio sono stati però rinvenuti poco più di 2 milioni. E gli altri? «Oggi sul conto corrente della Lega nazionale abbiamo 15 mila euro», ha detto lo scorso 3 gennaio Matteo Salvini, l'aspirante premier, l'uomo che vuole l'incarico di governo e che non perde occasione per ricordare come il suo partito sia senza un quattrino. Alcuni documenti bancari, tuttavia, aiutano a comprendere meglio che fine ha fatto la ricchezza leghista. Facendo emergere un fatto inedito: sia sotto la gestione di Roberto Maroni, sia in seguito sotto quella di Salvini, parecchi milioni sono stati investiti illegalmente. Una legge del 2012 vieta infatti ai partiti politici di scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro «l’Europa serva di banche e multinazionali» (copyright di Salvini) ha cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle più famose banche e multinazionali. Ma c'è di più. In questa trama finanziaria si ritaglia un ruolo anche un'associazione finora sconosciuta. Si chiama Più voci. Una onlus come tante, ma di area leghista. Con una particolarità: è usata dalla Lega per ricevere finanziamenti dalle aziende, denari girati subito dopo a società controllate dal partito. L'associazione è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Salvini nell’ottobre del 2015, nel pieno del processo per truffa contro Umberto Bossi e l'ex tesoriere Francesco Belsito. Non ha un sito web, né sembra attiva nel dibattito pubblico. Di certo, però, su quel conto corrente hanno lasciato traccia lauti bonifici. Chi ha finanziato la sconosciuta "Più voci"? L'Espresso, in edicola da domenica 1 aprile, pubblicherà i nomi delle aziende e degli imprenditori (insospettabili leghisti) che hanno offerto il loro contributo alla Lega sovranista di Salvini. Alle domande de L’Espresso, il partito guidato da Salvini ha preferito non rispondere. Ha commentato, invece, chi ha versato parte dei contributi sul conto della onlus.
Così è sparito il tesoro della Lega. Lo scoop de L’Espresso, scrive Democratica il 31 marzo 2018. Un’inchiesta del settimanale porta alla luce i conti segreti di Matteo Salvini. I conti segreti di Matteo Salvini, quelli sui quali indaga da mesi la Procura di Genova, sono al centro di un’inchiesta dell’Espresso che uscirà domani. Il settimanale è andato alla ricerca di quel tesoro del Carroccio, quei 48 milioni di euro che il tribunale genovese vorrebbe mettere sotto sequestro dopo la condanna di Bossi e dell’ex tesoriere Belsito nel 2017 per truffa ai danni dello Stato. Ma finora il tribunale è riuscito a recuperare poco più di 2 milioni.
Le minacce di Salvini: “Li querelo”. Salvini, che a gennaio aveva dichiarato che sul conto della Lega ci sono mila euro, ora minaccia di querelare il settimanale e in un video pubblicato oggi su Facebook li insulta: “O sono cretini o in malafede, o sono cretini in malafede”. “Non ho nascosto milioni di euro, i russi non ci hanno dato né soldi né matrioske – dichiara il leader del Carroccio – All’Espresso rispondo con un sorriso e una querela”.
L’inchiesta. Ma ci sono dei documenti bancari che, secondo i giornalisti dell’Espresso possono far capire che fine abbiano fatto i soldi della Lega. E non solo quella di Salvini, ma anche il Carroccio di Maroni. Durante entrambe le gestioni, infatti, “parecchi milioni sono stati investiti illegalmente”. “Una legge del 2012 – si legge sull’Espresso – vieta infatti ai partiti politici di scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro l’Europa serva di banche e multinazionali ha cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle più famose banche e multinazionali”.
Il ruolo della onlus Più voci. Oltre agli investimenti illegali, dall’inchiesta dell’Espresso – dal titolo I conti segreti di Salvini – emerge un altro importante novità. In tutta questa vicenda infatti c’è una associazione che ha un ruolo fondamentale nella “sparizione” del tesoro. Si tratta di una onlus “di area leghista” che si chiama Più voci. Non ha un sito Internet, non c’è traccia di sue attività sul territorio. La Lega la userebbe “per ricevere finanziamenti dalle aziende”. Finanziamenti che verrebbero subito “girati a società controllate dal partito. L’associazione – secondo quanto anticipa il settimanale – è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Salvini nell’ottobre del 2015” proprio durante il processo a Bossi e Belsito. Ma chi ha finanziato la onlus? Nell’inchiesta in uscita domani si potranno leggere i nomi delle persone coinvolte in questa vicenda opaca e complicata che getta, dopo gli ultimi scandali, ulteriori ombre sul partito di Matteo Salvini.
I conti segreti della Lega, cosa nasconde Salvini? L'inchiesta dell'Espresso: dov'è finito il 'tesoro' della Lega Nord? Spariti 48 milioni di euro. Quest'articolo è parte del Canale Matteo Salvini, scrive Happy Franci, Autore della news, (Curata da Marco Mancini) su "It.blastingnews.com". Il settimanale L'Espresso torna in edicola domenica primo aprile con un'inchiesta esclusiva. Dov'è il "tesoro" della #Lega Nord? Che fine hanno fatto quei 48 milioni di euro che, dopo la condanna per truffa allo Stato di Umberto Bossi, il tribunale di Genova vorrebbe sequestrare? Con queste domande si apre l'anticipazione del reportage di Giovanni Tizian e Stefano Vergine.
Il processo e la confisca. Il 24 luglio del 2017 i giudici del Tribunale di Genova condannarono Umberto Bossi e Francesco Belsito (ex tesoriere della Lega) rispettivamente a due anni e mezzo e a quattro anni e dieci mesi. Venne disposto, inoltre, la confisca di 48 milioni di euro al partito. Al verdetto fecero seguito un "braccio di ferro" tra il Carroccio e gli inquirenti ed il sequestro di circa 2 milioni di euro (dai conti di Bossi, Belsito e di altri 3 revisori contabili). E gli altri soldi, dove sono finiti? Lo scorso 3 gennaio, Matteo Salvini, attuale leader della Lega e aspirante premier [VIDEO], ha precisato che sul conto corrente del partito ci sono solo 15 mila euro.
Gli investimenti e la onlus Più voci. Per comprendere meglio le sorti del "tesoro leghista", si è deciso di spulciare alcuni documenti bancari. Ne è emerso un fatto inedito: sia durante la gestione di Roberto Maroni che durante quella di #Matteo Salvini, diversi milioni di euro sono stati investiti in maniera illegale. Un'accusa forte? Forse, ma fondata. Dal 2012, infatti, una legge, vieta ai partiti politici di "scommettere" i propri soldi su qualsiasi strumento finanziario diverso dai titoli di Stato emessi dai Paesi UE. Il partito che, come ricorda spesso Salvini [VIDEO], si batte con tutte le sue forze contro un’Europa serva di multinazionali e banche, dunque, ha cercato di trarre profitto acquistando obbligazioni emesse proprio da noti istituti di credito e da alcune importanti società. Ma non è finita qui. Ad un certo punto, dalla già intricata trama finanziaria, ha fatto capolino un'associazione praticamente sconosciuta fino ad oggi. Stiamo parlando di #più voci, onlus di area leghista che si contraddistingue per una particolarità. La Lega la usa per ottenere finanziamenti dalla aziende, soldi immediatamente girati ad alcune società controllate, in maniera più o meno diretta, dal Carroccio stesso. La Onlus è nata nell'ottobre del 2015 - nel pieno del processo contro Bossi e company - per volere di 3 commercialisti vicinissimi - e fedelissimi - di Matteo Salvini. Se la si cerca su "Google" si scopre che non ha un proprio sito internet e non pare attiva nel dibattito pubblico.Un'indagine più approfondita, però, rivela, che sul suo conto corrente, sono passati diversi, sostanziosi, bonifici.
I finanziatori. A questo punto, la domanda sorge spontanea: chi ha finanziato la Onlus Più voci? L'Espresso svelerà i nomi delle aziende e degli imprenditori che hanno, gentilmente, dato il loro contributo a Salvini, nella sua inchiesta in edicola domenica. Se il leader della Lega non ha risposto alle domande poste da Giovanni Tizian e Stefano Vergine, ha invece deciso di parlare chi ha finanziato la Onlus.
L'INCHIESTA INTEGRALE. Esclusivo: caccia ai soldi della Lega. Il denaro investito in modo illegale. E la onlus Più voci per sfuggire ai giudici. Quel che non dice l’uomo che vuole l’incarico di governo, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 03 aprile 2018 su "L'Espresso". Un’associazione senza scopo di lucro. Una onlus usata per ricevere finanziamenti dalle aziende e girarli subito dopo a società controllate dalla Lega. La porta girevole è stata creata da tre commercialisti fedelissimi a Matteo Salvini nell’ottobre del 2015, nel pieno del processo per truffa che ha poi mandato sul lastrico il partito imponendo il sequestro dei conti correnti. Ma questo non è l’unico segreto finanziario del nuovo leader della destra italiana, in corsa per diventare capo del governo. Al riparo da occhi indiscreti ci sono anche milioni di euro investiti in obbligazioni societarie e titoli derivati. Scommesse proibite per un partito politico, stabilisce la legge. Eppure la Lega le ha fatte. I documenti ottenuti da L’Espresso permettono di andare oltre i bilanci ufficiali e ricostruire un pezzo delle trame finanziarie architettate dal Carroccio negli ultimi sei anni, quelli cioè che vanno dalla cacciata di Umberto Bossi a oggi. Il risultato è che alla narrazione legalitaria sostenuta pubblicamente da Salvini si sovrappone una gestione economica opaca, che richiama il passato bossiano, tempi che “il capitano” vuole far cadere nell’oblio al più presto.
Ripartiamo dunque dall’inizio. Dov’è finito il tesoro della Lega? Dove sono spariti i 48 milioni di euro messi sotto sequestro dal tribunale di Genova dopo la condanna di Bossi per truffa ai danni dello Stato? Da mesi i giudici di Genova sono a caccia di quei denari: soldi pubblici, perché frutto dei rimborsi elettorali. Finora sui conti del Carroccio sono stati però rinvenuti poco più di 2 milioni. Gli altri? Usati, spesi, spariti: questo hanno sempre sostenuti i massimi dirigenti del Carroccio. «Oggi sul conto corrente della Lega nazionale abbiamo 15 mila euro», ha detto lo scorso 3 gennaio Salvini, che non perde occasione per ricordare come il suo partito sia senza un quattrino. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali. Alcuni documenti bancari aiutano però a comprendere meglio che fine ha fatto la ricchezza leghista. Facendo emergere un fatto inedito: sia sotto la gestione di Roberto Maroni, sia in seguito sotto quella di Salvini, parecchi milioni sono stati investiti illegalmente. Una legge del 2012 vieta infatti ai partiti politici di scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro «l’Europa serva di banche e multinazionali» (copyright di Salvini) ha cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle più famose banche e multinazionali. Colossi come l’americana General Electric, la spagnola Gas Natural, le italiane Mediobanca, Enel, Telecom e Intesa Sanpaolo. Una fiche da 300mila euro è stata messa anche sul corporate bond di Arcelor Mittal, il gruppo siderurgico indiano che ha acquistato l’Ilva promettendo di lasciare a casa circa 4mila lavoratori. Ma lasciamo stare per un attimo gli investimenti e torniamo al momento in cui tutto è cambiato. Il 16 maggio del 2012, poco dopo che la notizia dell’inchiesta per truffa ha costretto Bossi a dimettersi da segretario federale, la Lega apre un conto corrente presso la filiale Unicredit di Vicenza. Nel giro di sei mesi vi trasferisce buona parte della liquidità parcheggiata in altre banche: 24,4 milioni di euro in totale. È l’inizio di una frenetica girandola di bonifici e giroconti che porteranno, nel giro di quattro anni, al prosciugamento delle risorse finanziarie padane. O almeno di quelle registrate sul conto della Lega nazionale. Degli oltre 24 milioni arrivati in Unicredit, una decina sparisce quasi subito: prelievi in contanti, pagamenti non meglio specificati, investimenti finanziari, trasferimenti sui conti delle sezioni locali del partito, bonifici a favore di società di capitali controllate dalla stessa Lega come Pontida Fin, Media Padania ed Editoriale Nord. A gennaio del 2013 un altro colpo di scena. Il partito, allora guidato da Maroni, apre un nuovo conto corrente. Dove sposta una buona fetta del tesoretto custodito in Unicredit. Questa volta la scelta ricade sulla Sparkasse, la cassa di risparmio di Bolzano. Non un istituto a caso.
Il presidente della banca altoatesina è infatti Gerhard Brandstätter, già socio d’affari dell’avvocato della Lega di quel momento, il calabrese Domenico Aiello. Sul conto della Sparkasse arrivano, oltre a 4 milioni di titoli finanziari, 6 milioni di liquidità. Bastano solo sei mesi, però, e i soldi spariscono. La maggior parte del denaro viene usata per finanziare la campagna elettorale di Maroni alla presidenza della regione Lombardia: decine di bonifici a società di comunicazione e organizzazione eventi, tra cui spiccano i quasi 400 mila euro diretti alla sede irlandese di Google, punto di passaggio obbligato per chiunque voglia farsi pubblicità sul motore di ricerca più usato al mondo. Anche in questo caso non mancano i trasferimenti alle sedi locali del partito, ma la parte del leone - come avvenuto pochi mesi prima con il conto Unicredit - la fanno le società di capitali della Lega. Radio Padania: 250 mila. Editoriale Nord: 600 mila. Pontida Fin: 206 mila. Fin Group: 360 mila. Una volta prosciugato il conto Sparkasse, si torna a puntare tutto su Unicredit. Ed è qui che vengono a galla i dettagli sugli investimenti finanziari. Nel dicembre del 2013, quando Maroni è ancora il segretario federale, il Carroccio ha in pancia titoli per 11,2 milioni di euro. Due terzi della somma equivalgono a buoni del tesoro italiani, mentre il resto sono obbligazioni societarie. Ci sono anche 380 mila euro investiti in un derivato, un titolo basato sull’andamento del Ftse Mib, il principale indice azionario della Borsa di Milano. Insomma una Lega che, a dispetto della legge e delle dichiarazioni ufficiali contro la finanza speculativa, ha scelto di rischiare parecchio con i soldi dei rimborsi elettorali. Strategia che non è cambiata quando a Maroni è succeduto Salvini. Alcuni documenti bancari riassumono il saldo del conto corrente del Carroccio presso Unicredit il 19 maggio del 2014, quando Matteo è ormai da qualche mese in plancia di comando. Le carte raccontano due fatti. Il primo è che anche Salvini ha investito i denari del partito in obbligazioni societarie. Nello specifico, Matteo ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural. Il secondo fatto salta all’occhio confrontando i saldi del conto corrente leghista a distanza di soli cinque mesi. Da dicembre del 2013 al maggio del 2014 il patrimonio è crollato, passando da 14,2 milioni a 6,6 milioni. Non è dato sapere in che modo siano stati spesi così rapidamente tutti quei soldi. Di certo Salvini fino a qualche tempo fa poteva disporre di parecchie risorse, mentre oggi i conti della Lega sono ufficialmente a secco. Tant’è che lo Stato italiano, attraverso i giudici di Genova, si è dovuto accontentare di sequestrare solo 2 milioni sui 48 teorici. Perché la Lega ha investito soldi violando una legge dello Stato? E come mai i finanziamenti delle imprese sono arrivati sui conti di una sconosciuta associazione no profit invece che su quelli ufficiali? Alle domande de L’Espresso, il partito guidato da Salvini ha preferito non rispondere. Scelta che alimenta un dubbio: la onlus è stata creata per evitare il sequestro dei soldi da parte dei magistrati? In mancanza di risposte da parte dei diretti interessati, non resta che attenersi ai fatti documentabili.
L’associazione si chiama Più Voci, esiste dall’autunno del 2015. All’apparenza sembra una rivisitazione in salsa padana della fondazione renziana Big Bang. Con la differenza che la onlus sovranista non ha nemmeno un sito internet, figuriamoci una lista pubblica dei finanziatori. A tenerne le redini sono tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Se è vero che la onlus Più Voci finora non ha pubblicizzato alcuna attività politica o sociale, il conto corrente di riferimento mostra una certa vitalità. Soldi - 313 mila euro in pochi mesi - che entrano, fanno una sosta e poi ripartono per altri lidi. O meglio, verso altri conti intestati a società della galassia leghista: aziende in cui i commercialisti preferiti da Salvini hanno incarichi di rilievo. Per chiarire meglio il ruolo dell’associazione Più Voci è necessario tornare tra la metà del dicembre 2015 e i primi mesi del 2016, quando sul conto della onlus piovono due bonifici per un totale di 250 mila euro. La causale è la classica usata per i contributi ai partiti: “erogazione liberale”. I versamenti sono stati disposti dalla Immobiliare Pentapigna srl. Un nome che ai più non rivela molto. Scavando sulla proprietà si arriva a uno dei più noti costruttori della Capitale: Luca Parnasi, titolare del 100 per cento delle azioni dell’immobiliare. Già, proprio l’uomo che dovrebbe costruire il nuovo stadio della Roma, erede di una dinastia di palazzinari (lui preferisce il termine “sviluppatore di progetti”) che con il potere ha sempre flirtato. Il padre Sandro, era un comunista convinto, ha gettato le basi dell’impero, oggi con le finanze scricchiolanti e con i debiti in mano a Unicredit. Il figlio Luca preferisce il basso profilo, anche se qualche anno fa ha tentato di far rivivere lo storico quotidiano di sinistra Paese Sera, ma si è dovuto arrendere poco dopo. Nella sua carriera non ha disdegnato affari con personaggi equivoci. Come quello proposto dal capo della famigerata “Cricca”, Diego Anemone, di recente condannato in primo grado a 6 anni per associazione a delinquere. Una decina di anni fa, Parnasi acquistò da Anemone per 12 milioni un complesso residenziale di pregio dietro il Pantheon, un tempo nella disponibilità del Vaticano. Perché Parnasi ha versato almeno 250 mila euro all’associazione leghista? L’immobiliarista romano non ha risposto alle domande de L’Espresso. Di certo il primo contributo versato all’associazione Più Voci si concretizza il 12 dicembre di tre anni fa. Nel pieno dunque della retorica sovranista di Salvini, che già in quel momento può contare sul movimento Noi con Salvini per fare proselitismo sotto il Po. E sempre a cavallo tra il primo e il secondo bonifico il leader leghista annunciava la presenza della Lega-Noi con Salvini alle Comunali poi vinte dai Cinque Stelle e Virginia Raggi. Insomma, il sostegno “liberale” offerto dal re del mattone Parnasi potrebbe essere letto in questa ottica locale-Capitale. Un luogo dove il costruttore ha bisogno di mantenere buoni rapporti con tutti, se vuole davvero sperare di costruire lo stadio della Roma. Ma, forse, non si tratta solo di questioni romane. Perché i Parnasi si stanno giocando partite decisive per il futuro del loro gruppo anche oltre il Tevere e il raccordo. C’è per esempio il caso Ferrara. Qui la famiglia di costruttori è proprietaria del Palaspecchi, un grande complesso immobiliare che versa da anni in stato di abbandono. La politica locale, con in testa la Lega, per diversi anni ha sostenuto l’idea di demolire tutto. Un’ipotesi rischiosa per Parnasi. Per sua fortuna, però, le cose sono cambiate. Dopo anni di tira e molla, all’inizio dell’anno scorso la situazione sembra essere stata risolta con un intervento finanziato principalmente da Cassa depositi e prestiti. L’ente che gestisce i risparmi postali degli italiani dovrebbe permettere di riqualificare l’intera area e realizzare duecentosessanta alloggi sociali, affiancati da attività commerciali, servizi e spazi verdi. Un bel sospiro di sollievo per il gruppo Parnasi, che intanto sta facendo parlare di sé anche nell’altra capitale d’Italia, quella economica, Milano. Un mese e mezzo fa, infatti, il Milan ha affidato al quarantenne Luca Parnasi il compito di individuare un’area adatta a realizzare il futuro campo di proprietà rossonera. L’immobiliarista ha dunque contribuito in maniera massiccia alla causa di questa sconosciuta associazione leghista. Non è il solo, però. Con 40 mila euro si piazza Esselunga, la catena di ipermercati della famiglia Caprotti. Del resto Salvini stesso non ha mai nascosto l’ammirazione per il gruppo concorrente per eccellenza delle Coop. «Grande uomo, mai servo di nessuno», scriveva nel suo addio su Facebook il giorno della scomparsa di Umberto Caprotti. La causale del bonifico di 40 mila euro versato a giugno 2016 recita “contributo volontario 2016”. Quasi a voler sottolineare che anche per quell’anno sono in regola con l’attestazione di fiducia verso la Lega sovranista. Esselunga è stata l’unica a rispondere alle nostre domande. La catena di supermercati non ha spiegato perché abbia scelto di versare almeno 40 mila euro all’associazione leghista invece che donarli direttamente al partito. Si è limitata a farci sapere che quella cifra «è stata destinata a Radio Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti pubblicitari su oltre 70 radio». Ma allora perché le aziende non versano il loro contributo direttamente alla Lega o a Radio Padania? È un modo per confondere le acque ed evitare il sequestro dei soldi? E per quale motivo scrivere nella causale “Contributo volontario” se di pubblicità si trattava? Domande a cui non è possibile dare risposta. Il loquace Salvini, questa volta, ha preferito il no comment. C’è da dire, però, che in effetti, poco dopo essere arrivati sul conto della onlus i soldi, non solo quelli di Esselunga, vengono girati a società di capitali del gruppo leghista. In quattro mesi 265 mila finiscono proprio alla cooperativa Radio Padania, quella della storica emittente del Carroccio, mentre altri 30 mila euro vengono versati sul conto della Mc srl, società leghista che controlla il giornale online Il Populista, diventato lo strumento principe della propaganda salviniana in rete. Insomma, l’operazione ha tutta l’aria di essere una partita di giro. Anche perché l’amministratore unico sia della Mc che di Radio Padania è lo stesso Giulio Centemero, tesoriere del partito, che siede nella onlus da cui partono i denari. Le azioni della Mc sono saldamente in mano alla Pontida Fin, altra cassaforte storica del Carroccio ormai caduta in disgrazia, il cui 1 per cento continua a essere in mano al Senatur Umberto Bossi. Frammenti di un passato che Salvini vorrebbe rottamare, ma che non riesce a tenere fuori dalla porta. Anche se una cosa Matteo Salvini l’ha cambiata davvero. Roma per i sovranisti cresciuti tra le valli di Pontida non è più ladrona. Ai tempi di Umberto Bossi era proibito frequentare i salotti. Il Senatur aveva avvertito i parlamentari padani, guai a mischiarsi con il potere romano, tra manager, stelle dello spettacolo e palazzinari. Con la Lega modello Front National, certe rigidità appartengono al passato secessionista.
Esclusivo: anche Matteo Salvini ha usato i soldi rubati da Bossi. L’attuale leader della Lega e Bobo Maroni hanno utilizzato una parte dei 48 milioni di euro frutto della truffa orchestrata dal Senatur e dall’ex tesoriere. Lo dimostrano le carte del partito tra la fine del 2011 e il 2014 che abbiamo consultato, scrivono Giovanni Tizia e Stefano Vergine il 2 ottobre 2017 su "L'Espresso". Cinque anni fa, quando tutto ebbe inizio, Umberto Bossi usò un’immagine biblica per spiegare il suo intento. «Ho fatto come Salomone: non ho voluto tagliare a metà il bambino», disse mentre si apprestava a lasciare le redini del partito a Roberto Maroni. Erano i giorni in cui i giornali pubblicavano le prime notizie sullo scandalo dei rimborsi elettorali leghisti, quelli incassati gonfiando i bilanci e usati per pagare le spese personali del Capo e della sua famiglia, come la laurea in Albania del figlio Renzo o le multe del primogenito Riccardo. Il senso della metafora bossiana era chiaro: piuttosto di dividere la Lega tra chi sta con me e chi contro di me, il Senatùr si diceva pronto a lasciare pacificamente il potere al suo storico rivale. Da allora in poi l’intento di chi è succeduto a Bossi, prima Maroni e oggi Salvini, è sempre stato quello di differenziarsi, di creare compartimenti stagni tra il partito dell’Umberto e quello di oggi, tanto che all’ultimo raduno di Pontida al fondatore non è stato nemmeno concesso il tradizionale discorso dal palco.
Gli immigrati al posto dei meridionali, il nazionalismo in sostituzione del secessionismo. Pure un nuovo marchio, Noi con Salvini, dotato di satelliti sparsi dal Centro al Sud e rappresentato da personaggi della destra, come in Calabria, o vecchi democristiani votati all’autonomia, come in Sicilia. Nuovi volti (per modo di dire) e nuovi ideali sostenuti con forza proporzionale all’incedere delle inchieste giudiziarie sui fondi elettorali. Se è vero che negli ultimi anni molto è in effetti cambiato all’interno del Carroccio, c’è qualcosa che è rimasto segretamente invariato. Roberto Maroni preferisce non dirlo, Matteo Salvini lo nega categoricamente. Insomma, gli eredi del Senatùr sostengono di non aver visto un euro di quegli oltre 48 milioni rubati da Bossi e Belsito. «Sono soldi che non ho mai visto», ha scandito di recente l’attuale segretario federale commentando la decisione del Tribunale di Genova di sequestrare i conti correnti del partito dopo la condanna per truffa di Bossi. I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano però che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega.
A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’attuale governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie. Da qui in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Perché allora il segretario della Lega e aspirante candidato premier per il centro-destra continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E se li ha visti, come poteva non sapere che erano frutto di truffa? Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010. La sostanza però non cambia. Sono denari ottenuti con la rendicontazione gonfiata firmata da Belsito. Fatto di cui a quel punto è dichiaratamente convinto anche Salvini. Il quale, due giorni dopo l’ultimo prelievo, riceve persino una lettera dallo storico avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.
Il denaro, più che l’ideologia, è dunque il collante tra l’epoca di Bossi, l’interregno di Maroni e il presente firmato Salvini. Le tre età del partito della Padania intrecciate attorno a una vicenda che tutti vogliono dimenticare in fretta. Talmente in fretta da ritirare persino la costituzione di parte civile davanti al giudice. Già, perché solo un mese dopo essersi dichiarato vittima della truffa targata Bossi-Belsito, Salvini fa marcia indietro. Come a dire: chiudiamola qua, scordiamoci il passato e andiamo avanti. Una scelta travagliata, non da tutti condivisa. All’interno della Lega, infatti, nei primi mesi del 2014, c’era chi voleva mostrare pubblicamente la rottura col passato. Altri, invece, parteggiavano per la politica della rimozione. In questo contesto matura l’accordo di conciliazione” con l’avvocato di Bossi, nel quale la Lega rinuncia a costituirsi parte civile. A un patto però: il legale di fiducia del Senatùr avrebbe dovuto accantonare ogni pretesa di denaro che il partito gli doveva, circa 6 milioni di euro. Infine, a Bossi sarebbe andato un lauto vitalizio. Tutto risolto, dunque? Macché. Salvini e Maroni vengono meno al patto. E danno mandato all’avvocato Domenico Aiello, legale del governatore lombardo, di procedere con la costituzione di parte civile. Uno smacco al vecchio amico Bossi, a cui poco dopo segue un altro colpo di scena. A novembre durante l’udienza preliminare contro B&B, Aiello ritira l’atto di costituzione. In pratica la Lega non chiede più i danni per la truffa. Un’idea di Salvini, motivazione ufficiale: «Non abbiamo né tempo né soldi per cercare di recuperare soldi che certa gente non ha», spiegò l’europarlamentare appena eletto segretario del Carroccio. Una mossa che sorprese persino il governatore della Lombardia, Maroni, che con Aiello aveva fatto il possibile per chiedere i danni agli imputati leghisti. La sensazione di chi il partito lo frequenta da venti e passa anni è che sia stata una ritirata strategica, per rappacificare le opposte fazioni ed evitare rivelazioni scomode. Soprattutto in merito ai soldi lasciati in cassa da Bossi, quelli finiti al centro delle inchieste di tre procure.
I bilanci della Lega raccontano, infatti, meglio di qualsiasi dichiarazione politica che cosa è successo in questi anni ai soldi dei Lumbard, o meglio di tutti i contribuenti italiani. Il primo dato evidente è che le cose andavano molto meglio, almeno dal punto di vista finanziario, quando sulla plancia di comando c’era Bossi. Con lui al vertice i bilanci degli ultimi anni si sono infatti chiusi sempre in positivo. Le cose cambiano nel 2012, quando arriva Maroni: per la prima volta la Lega chiude i conti in rosso, con una perdita di 10,7 milioni di euro. L’anno seguente, il primo interamente firmato da Bobo, le cose vanno persino peggio: il bilancio evidenzia una perdita di 14,4 milioni. Colpa della diminuzione dei rimborsi elettorali e del calo delle donazioni private, si legge nei resoconti padani. Ma non è solo questo. Nonostante i dipendenti diminuiscano, i costi sostenuti dalla Lega aumentano. In particolare alcune voci, come quella denominata “spese legali”, per cui il partito arriva a sborsare oltre 4,3 milioni di euro tra il 2012 e il 2014. Un bella somma, oltretutto senza neppure essersi costituita parte civile nel processo contro Bossi e Belsito. Com’è possibile allora aver speso tutti quei soldi in avvocati? I bilanci non lo spiegano, ma un documento ottenuto da L’Espresso aiuta a capire meglio come sono andate le cose. È un contratto datato 18 aprile 2012. Bossi si è dimesso da due settimane e il Carroccio è retto dal triumvirato Maroni-Dal Lago-Calderoli. Sono loro ad affidare la consulenza legale allo studio Ab di Domenico Aiello, già avvocato personale di Maroni e in ottimi rapporti con il magistrato milanese che sta seguendo l’inchiesta, Alfredo Robledo. Nel contratto si specifica che la consulenza riguarderà proprio i procedimenti penali che coinvolgono Bossi e i rimborsi truccati. Si tratta delle indagini in corso a Milano, Napoli, Genova e Reggio Calabria, ciascuna segnalata con il relativo numero di fascicolo. Un lavoro ben pagato: per Aiello la tariffa sarà di 450 euro all’ora, costo che sale a oltre 650 euro se si aggiungono - come da prassi - spese generali, contributi previdenziali e imposte. Insomma non male per l’avvocato calabrese che, qualche anno dopo, Maroni piazzerà nel consiglio d’amministrazione di Expo, mentre la moglie, Anna Tavano, finirà per un periodo in Infrastrutture Lombarde, società controllata direttamente dalla Regione. Va detto che Aiello, così come la moglie, ha un curriculum di tutto rispetto. Tra i suoi clienti più celebri, oltre a Bobo Maroni spicca l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Poi ci sono gli incarichi negli organismi di vigilanza: Consip, Siemens, Conbipel, Veolia e la Sparkasse di Bolzano. In quest’ultima banca il presidente del Consiglio di amministrazione si chiama Gerhard Brandstätter. Brillante avvocato del Sudtirolo, che con Aiello, nel 2011, ha fondato lo studio associato AB, lo stesso scelto dalla Lega. Con Maroni traghettatore, le camice verdi apriranno anche un conto “easy business” e un conto deposito presso la banca altoatesina, depositando in totale qualche milioncino. È il periodo in cui si tentava di mettere al sicuro il patrimonio del partito, dalle cordate bossiane e forse anche dai giudici. Matura così l’idea, poi tramontata, di creare un trust in Sparkasse per blindare quasi 20 milioni. I bilanci non confermano solo questo. Spiegano anche perché oggi i conti del partito sono a secco. E quale la strategia scelta per evitare il sequestro effettivo dei soldi. Nel 2015, quando è Salvini a comandare, la ricchezza della Lega cala, infatti, vistosamente. Il patrimonio netto passa da 13,1 milioni dell’anno precedente a 6,7 milioni. Il motivo è spiegato chiaramente nella relazione sulla gestione finanziaria: i soldi del partito sono stati trasferiti alle sezioni locali, 13 in tutto, dotate nel frattempo di codici fiscali autonomi. È così ad esempio che due giorni prima di Natale la sezione Lombardia, fino ad allora sprovvista di risorse finanziarie, diventa titolare di un patrimonio da 2,9 milioni di euro. Custoditi per lo più su conti correnti bancari e postali. Una partita di giro, insomma. Il risultato? Al termine del 2016 la Lega aveva una disponibilità liquida di soli 165mila euro, mentre le sue 13 sezioni locali messe insieme registravano somme per 4,3 milioni. La nuova architettura finanziaria non ha però impedito ai magistrati di sequestrare le ricchezze del Carroccio. Come ha dichiarato lo stesso Salvini, al momento non è stato bloccato il conto corrente della Lega nazionale, ma quelli delle sezioni locali. «Un punto su cui daremo battaglia in sede legale», assicura una fonte del Carroccio che non vuole essere nominata. C’è però ancora una questione da risolvere. Il tribunale di Genova, nei giorni scorsi, ha deciso di bloccare il sequestro. I giudici hanno annunciato di aver congelato poco meno di 2 milioni. Eppure, come detto, alla fine dell’anno scorso sui conti della Lega c’erano 4,3 milioni. Mancano dunque all’appello oltre 2 milioni. Possibile che la Lega li abbia spesi in questo 2017. O anche che siano stati trasferiti su altri conti. Un’ipotesi, questa, impossibile da verificare. Perché “Noi con Salvini”, il movimento creato tre anni fa dal nuovo leader del Carroccio per conquistare il Centro-Sud, non ha mai pubblicato un bilancio. Dubbi e interrogativi sollevati dai nemici interni del leader in felpa. Salvini potrà dire che a lui certe questioni “politichesi” non interessano e che preferisce parlare di immigrazione, euro, lavoro. Ma all’interno del suo partito i bossiani non dimenticano. E i mal di pancia iniziano a diventare veri e propri tumulti silenziosi. Pare che siano persino pronti a muoversi autonomamente per le prossime elezioni politiche. Una forza che ruberebbe al Capitano il 2-3 per cento. Del resto non è facile disfarsi del Senatur, fu il primo a dare avvio a una tipica usanza leghista: scaricare i compagni di partito che osavano mettere in dubbio la sua autorità. Bossi fece così con l’ideologo della secessione Gianfranco Miglio. Con la stessa moneta lo hanno ripagato Maroni e Salvini. E ora sotto a chi tocca.
QUANTO E’ DURATA LA LEGA NORD?
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
Matteo Salvini ha fondato un altro partito: e quindi dovrebbe essere espulso dalla Lega. Il leader del Carroccio ha creato una seconda Lega con statuto quasi identico alla prima per incassare il 2 x mille senza vederselo sequestrato. Ma una regola da lui stesso approvata obbligherebbe la Lega originaria a espellerlo. Sull'Espresso in edicola da domenica i nuovi documenti sul caso dei 49 milioni di euro, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 13 luglio 2018 su "L'Espresso". Lega contro Lega. Salvini contro Salvini. Da una parte il segretario del Carroccio, quello che lotta da anni per l'indipendenza della Padania. Dall'altra il leader di un partito personale, che sostiene il sovranismo dei popoli e la creazione di un'Italia federale. In mezzo: migliaia di militanti, elettori, simpatizzanti. Ma soprattutto i soldi. Quelli della vecchia Lega messi sotto sequestro dalla magistratura di Genova, i 49 milioni frutto della truffa ai danni dello Stato. E quelli che continuano ad affluire nelle casse del partito grazie alle donazioni di sostenitori e parlamentari. È questa la paradossale situazione creata negli scorsi mesi dal ministro degli Interni con la fondazione della "Lega per Salvini Premier". Un'iniziativa che, in teoria, potrebbe causare l'espulsione dello stesso Salvini dalla Lega Nord. Il divieto è spiegato chiaramente nello statuto del Carroccio. Si legge infatti all'articolo 33: «La qualifica di Associato Ordinario Militante è incompatibile con l’iscrizione o l’adesione a qualsiasi altro Partito o Movimento Politico, associazione segreta, occulta o massonica, a liste civiche non autorizzate dall’organo competente. Il verificarsi di tale incompatibilità è motivo di espulsione dalla Lega Nord». In altre parole, chi è iscritto alla Lega non può aderire ad altri movimenti politici, pena l'esclusione. Una norma approvata dal consiglio federale del Carroccio nell'ottobre del 2015, quando Matteo Salvini era già il segretario del partito. Colpisce dunque scoprire che esattamente due anni dopo lo stesso Salvini abbia dato vita a una nuova creatura, la "Lega per Salvini Premier", che vede come segretario federale proprio Salvini e come tesoriere Giulio Centemero, deputato e al contempo amministratore dei soldi del vecchio Carroccio. Possibile che la creazione di questo nuovo partito non sia stata autorizzata dalla Lega Nord? «Non che io ricordi», dice a L'Espresso un membro del consiglio federale che preferisce rimanere anonimo. La fonte spiega che l'organo esecutivo del partito «ha autorizzato solo il passaggio e il cambio di gruppo di Roberto Calderoli al Senato. Null'altro. Tantomeno la costituzione di un nuovo movimento. Avrei trovato quantomeno singolare una scelta di questo tipo». Anche perché, se fosse vero quanto dice la fonte interna al Carroccio, Salvini avrebbe violato la regola da lui stesso approvata, e cioè quella che impedisce a un militante della Lega Nord di aderire ad altri movimenti politici. La stessa norma che nel marzo del 2015 è costata l'espulsione dal partito a Flavio Tosi, l'ex sindaco di Verona reo di aver dato vita alla fondazione "Ricostruiamo il Paese" e cacciato per questo da Salvini con la frase «un militante della Lega può essere iscritto solo alla Lega e non ad altri movimenti». Proprio dal nuovo partito creato meno di un anno fa dal ministro degli Interni parte il servizio de L'Espresso, in edicola da domenica 15 luglio. Perché grazie alla semisconosciuta Lega per Salvini Premier il vicepremier sta incassando i soldi del 2 per 1000, unico brandello di finanziamento pubblico rimasto dopo l’abolizione dei rimborsi elettorali. Un escamotage per evitare il sequestro disposto dal tribunale di Genova? Intanto prosegue il processo d’Appello sui rimborsi elettorali contro Bossi e Belsito. Al fianco dell’accusa, le parti civili Camera e Senato. Istituzioni difese dall’avvocatura dello Stato, che già in primo grado avevano ottenuto il riconoscimento del danno. E presentato una memoria, che L’Espresso pubblica sul prossimo numero, in cui spiega perché vanno sequestrati i 49 milioni di euro.
Quanto è durata la Lega Nord? Dal simbolo della Lega scompare la parola Nord, scrive il 22/12/2017 Paolo Magliocco su "La Stampa". La scelta di Matteo Salvini e del Consiglio Federale della Lega Nord priva la politica italiana di quello che ormai era il più longevo marchio elettorale: la Lega Nord, apparsa per la prima volta su una scheda elettorale nel 1990 e che da oggi diventa solo Lega. Alle prossime elezioni, il nome e il simbolo più antichi potrebbero essere quelli di Forza Italia, partito comparso alle elezioni del 1994. Trent’anni fa, alle elezioni politiche del 1987, Umberto Bossi entrò in Senato per la prima volta diventando subito il senatùr, ma era stato eletto come rappresentante della Lega Lombarda. La Lega Nord, che punta a raccogliere tutti i movimenti localistici, nasce invece due anni dopo, nel 1989. Lo statuto, che ancora si può leggere sul sito non lascia dubbi su quali siano le intenzioni del movimento. L’articolo 1 dice che “ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”. D’altra parte il nome per intero è appunto “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”. Insomma la Padania è, o dovrebbe diventare, una vera e propria repubblica federale indipendente, e dunque staccata dal resto dell’Italia, composta da quelle che vengono enfaticamente chiamate Nazioni, con la enne maiuscola. Il partito, da parte sua, si definisce una confederazione. Il primo grande successo elettorale è alle elezioni amministrative del 1990, quando la Lega Nord supera il 20 per cento in molte province e a Milano sfiora il 13 per cento. Alle elezioni politiche del 1992 supera l’8 per cento ed elegge 80 parlamentari. Due anni dopo, nel 1994, grazie all’alleanza con Silvio Berlusconi e al sistema maggioritario con collegi uninominali i deputati e senatori diventano addirittura 180, la Lega Nord va al governo e Irene Pivetti diventa Presidente della Camera dei deputati. Ventotto anni dopo la prima apparizione sulle schede elettorali Matteo Salvini dichiara di puntare al 20 per cento ma alle elezioni politiche che si svolgeranno nel 2018 il simbolo della Lega Nord non ci sarà più. Nel nuovo logo scompare il verde del fiore delle Alpi, scompare il Leone di Venezia, restano il nome Lega, scritto con lo stesso carattere, il colore blu e il guerriero di Legnano con lo spadone sguainato, quello che molti identificano, sbagliando, con Alberto da Giussano. L’errore, tra l’altro, è contenuto anche nello statuto della Lega Nord, che al simbolo dedica l’articolo 3. E siccome la modifica dello statuto non spetta al Consiglio Federale ma al Congresso, per modificare ufficialmente sia l’articolo 1 che il simbolo la Lega Nord dovrà adesso affidarsi a un vero congresso. Fino ad allora, i voti alla Lega saranno voti alla Lega Nord, dati per l’indipendenza della Padania “quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
QUELLI CHE SON SECESSIONISTI...
Salvini: «Il referendum libererà il Veneto». Il leader con Zaia: Lega al 15,3%, record storico. Avviso ai militanti litigiosi: «Lavate i panni in sezione», scrive Giusy Andreoli il 02 settembre 2017 su "Il Mattino di Padova". «Io voglio cambiare il Veneto, la Sicilia, l’Italia intera nel nome del buongoverno, dell’onestà, del lavoro, della sicurezza. E quindi il referendum del 22 ottobre è importante quanto liberare i siciliani dall’immigrazione e dal disastro del Pd. Poi sarà fondamentale vincere le elezioni politiche quando Renzi si degnerà di farci votare, io sono pronto, noi siamo pronti». Parole di Matteo Salvini, il leader della Lega, di scena a Campodarsego per l’apertura della nuova sede del Carroccio. Lontani i tempi di “Prima il Nord” e della secessione bossiana: «Sono orgoglioso dei nostri 300 sindaci in tutto il Nord. Ma sono felice anche di aver eletto i primi sindaci in Toscana, in Umbria, nelle Marche, nel Lazio e i consiglieri comunali in Puglia, in Sicilia. L’Italia sè bella, diversa, lunga. Voglio che rimaniamo insieme nel nome dell’autonomia, dell’identità, del federalismo, anche per opporci ai diktat europei che ci stanno massacrando». Chi prevede che il Nord del simbolo leghista sarà abbandonato a Pontida, il 17 settembre, si sbaglia: «Al raduno si parlerà di autonomia, lavoro, tasse, immigrazione. Del futuro, di bambini, io voglio tornare a riempire le culle, io voglio che i veneti e tutti gli italiani tornino a scommettere sul domani, a fare dei figli». Non teme, Salvini, un crollo del consenso di rinuncia al “marchio” nordista? «Non abbiamo avuto così tanti consensi, la gente ha capito che la battaglia della Lega per l’autonomia e il federalismo sono decisive per tutto il Paese, non solo per veneti e lombardi. Lo dimostra il sondaggio Swg che mi hanno girato oggi Swg: danno la Lega al 15,3%, è il massimo storico». Quanto all’immigrazione, Salvini contesta pure il piano Minniti: «Non è vero che arrivano meno profughi. Intanto ne sono sbarcati altri 600, dopo 4 anni fanno in ritardo e male quello che la Lega chiede da sempre. Ma quando lo dicevamo noi, eravamo razzisti». Adesso, però, la priorità assoluta sono i referendum per l’autonomia promossi da Luca Zaia e Roberto Maroni: «Finalmente 15 milioni di veneti e lombardi avranno l’occasione di chiedere poteri e risorse, di avere voce in capitolo sull’immigrazione, libertà di scelta sulla sanità, sui vaccini, sulla scuola, sull’educazione dei figli, di poter spendere i soldi per le infrastrutture e le ferrovie, ferme da troppo tempo». Poi la stoccata a chi osteggia la legge regionale che impone di esporre la bandiera di San Marco negli edifici pubblici: «Non vedo quale danno possa arrecare un simbolo di storia di libertà, di lavoro, di sacrificio, di fatica, di orgogli. Da milanese, dico: viva il Leon». E i leghisti padovani che vengono alle mani a Santa Giustina? «Beh, dico loro di chiarirsi prima in sezione e di uscire poi con il sorriso sulle labbra».
QUELLI CHE SON INDIPENDENTISTI...
Indipendentismo, Claudia Zuncheddu: "Anche la Sardegna è una nazione senza Stato", scrive Giuseppe Meloni l'1 ottobre 2017 su "L'Unione Sarda". Mentre Barcellona vota sull'indipendenza, Claudia Zuncheddu guarda con ansia alla Catalogna: "La repressione di Rajoy contro il popolo sovrano mi preoccupa", confida la fondatrice di Sardigna libera, "ha schierato 10mila militi per impedire che ci si pronunci"».
Ci sarà mai un percorso d'indipendenza simile, in Sardegna?
"Il governo catalano ha una maggioranza indipendentista e identitaria. Da noi, parte dei cosiddetti sovranisti sostiene le politiche neoliberiste di Pigliaru. Questo è un freno al processo di costruzione di un vasto fronte indipendentista".
Per alcuni l'indipendentismo della ricca Catalogna somiglia più all'egoismo padano che all'indipendentismo sardo. Condivide?
"Non esiste l'indipendentismo delle regioni ricche contrapposto a quello delle regioni povere. Esistono i popoli senza Stato con le loro rivendicazioni. Storicamente la Catalogna, come la Sardegna, è una nazione senza Stato, con una storia e un'identità fortissima, ma sotto dominio coloniale".
Intanto la Lega celebra i referendum per l'autonomia del nord.
"Prima la Lega scimmiottava il sardismo. Oggi è tutt'altro, un movimento razzista e xenofobo che cavalca le paure dei popoli in modo spregiudicato, quindi è un nostro antagonista politico".
Confronti a parte, che senso ha chiedere l'indipendenza oggi?
"La Sardegna, con una storia diversa da quella sabauda, rinunciò con la Fusione perfetta del 1847 alla condizione di Stato. Si generò un'oppressione coloniale che è alla base dei nostri mali. L'indipendenza è il futuro, con un ritorno alla dignità del passato. Ridiscute i privilegi costituiti, mira all'uguaglianza di tutti. Tutti devono avere uguali opportunità: diritto alla salute, al lavoro, allo studio, alla felicità; libero autogoverno del territorio, della cultura, dell'economia".
Su quali battaglie concrete deve impegnarsi la politica sarda?
"La difesa degli ospedali, la sanità pubblica di qualità e gratuita per tutti. La tutela dell'ambiente, del settore agropastorale, della piccola-media industria. La difesa della scuola pubblica e della cultura e lingua sarda; la difesa del territorio dal cemento e da tutto ciò che inquina, militarizzazione compresa".
Quale sviluppo economico immagina, nei prossimi vent'anni?
"La materia prima è il nostro unicum ambientale. Un progetto di governo deve tener conto anzitutto dell'economia agropastorale, condizione per un turismo realmente produttivo. Assurdo importare l'80% dei prodotti alimentari".
E all'industria dice no?
"Dico sì all'industria di trasformazione dei nostri prodotti, della farmaceutica, del sale, dei tessuti. Sì all'alluminio, per ottenere prodotti finiti dal riciclo; non per produrre veleni. No ai modelli di sviluppo imposti come il petrolchimico, che hanno dato profitti per pochi e alti costi in termini di salute".
Senza i fondi statali, come si gestiranno i servizi alla collettività?
"C'è una vertenza entrate che non è da barattare con le pensioni o con gli oboli ai Comuni. Certe logiche ricordano i fondi straordinari per i Piani di rinascita: di straordinario non c'era nulla, i Piani erano pagati con i soldi che lo Stato doveva ai sardi. E oggi noi ci paghiamo sanità e trasporti interni".
Gli indipendentisti criticano chi si è alleato con Pigliaru, ma anche lei nel 2014 si candidò in quella coalizione, con Sel. Fu un errore?
"Non è tanto grave essere eletti in una coalizione, il problema è: al servizio di chi si mette una forza indipendentista? Nel 2009 fui eletta con la coalizione di Soru e feci grandi battaglie, spesso in solitudine ma mai al servizio di nessuno, se non degli interessi dei sardi".
Su quali punti rimase sola?
"Per esempio per lo scandalo del G8 alla Maddalena nessun consigliere ebbe il coraggio di firmare la mia mozione. Vinsi da sola la battaglia giudiziaria contro la protezione civile di Bertolaso. Poi nel 2014 i miei appelli all'unità del mondo identitario cozzarono con posizioni precostituite. Mi candidai da indipendente con Sel perché in Consiglio sosteneva la mie battaglie. Capii poi che era per opportunismo. Oggi mi chiedo cosa ci fosse dietro il rifiuto dell'unità indipendentista, chi fossero gli sponsor italiani. Il perché di quel settarismo, utile a dividere".
Le piace l'idea di una casa comune degli indipendentisti aperta a chi ebbe ruoli rilevanti nei partiti italiani, come Pili e Oppi?
"Quando crolla il partito italiano di riferimento, non basta una berritta in testa per diventare sardisti. Ma Pili, di cui pure non condivido molte posizioni, segue da tempo il percorso identitario, gliene va dato atto. Il suo posto è in un fronte fuori dai blocchi italiani. Non me ne voglia invece Oppi, ma sulla rete ospedaliera non vorrei che fosse proprio lui il trait d'union tra Giunta e centrodestra".
Come si schiereranno le forze dell'autogoverno alle Regionali?
"Auspico che tutti i movimenti di matrice identitaria, sardista e indipendentista si uniscano sui grandi temi, lasciando anche spazio ai movimenti italiani progressisti che stanno fuori dai blocchi italiani e dalle loro politiche coloniali".
E alle elezioni Politiche, invece?
"Gli indipendentisti devono essere lì dove si decide il destino dei sardi. Un cartello che veda unite le nostre forze è necessario".
Sardigna libera parteciperà?
"Lavoriamo in quel senso, ma non solo per un cartello elettorale. Aborriamo il concetto di partito: parliamo di un movimento che può sciogliersi in un fiume che porti all'autodeterminazione e a costruire l'indipendenza. Per farlo dobbiamo governare, costruendo un grande movimento identitario che cambi il nostro destino".
Referendum, dieci differenze tra indipendentisti italiani (Lega Nord) e catalani, scrive Alessio Pisanò il 30 settembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". Troppo spesso la Lega Nord ha sbandierato un supposto gemellaggio politico con i movimenti e partiti indipendentisti catalani. Qualche giorno fa il Pirellone, sede del Consiglio regionale della Lombardia, ha rifiutato la richiesta del gruppo leghista di esporre la bandiera catalana, segno tangibile di un forte desiderio di secessione che nella base padana non è mai tramontato nonostante le velleità nazionali e nazionaliste del leader Matteo Salvini. Tuttavia le differenze tra Lega Nord e partiti catalani sono enormi e parlare di gemellaggio appare quantomeno azzardato. Vediamole nel dettaglio:
– La Lega Nord è un partito unico mentre l’indipendentismo catalano è supportato da tre partiti: il PDeCAT, l’Erc e il Cup;
– La Lega Nord si riferisce alla Padania, entità geografica senza unità politico amministrativa mentre la Generalitat de Catalunya è il sistema amministrativo-istituzionale per il governo autonomo della comunità autonoma della Catalogna;
– La Lega Nord è un partito conservatore e con forti legami con la destra e l’estrema destra italiana, mentre il PDeCAT è centrista e liberale, l’Erc di sinistra e il Cup di estrema sinistra.
– La Lega Nord è contraria all’Euro e all’Unione europea mentre PDeCAT e ERC sono fortemente europeisti, il Cup è anticapitalista quindi critico (ma non scettico) nei confronti dell’Ue. Tuttavia i partiti catalani sono a favore di una maggiore integrazione europea, sebbene il Cup solo a determinate condizioni.
– La Lega Nord supporta una politica anti-immigrazione mentre i partiti catalani sono a favore e per la piena accoglienza dei rifugiati;
– La Lega Nord è ‘no global’ e contraria ai principali trattati commerciali internazionali, mentre i catalani – ad eccezione del Cup – sono per l’economia di mercato;
– La Lega Nord è molto vicina alla Russia di Putin e contraria alle sanzioni Ue nei confronti di Mosca, mentre i partiti catalani sono europeisti;
– La Lega Nord ha accolto con favore l’elezione di Donald Trump e le sue politiche negli Stati Uniti mentre Carles Puigdemont, presidente della Generalitat de Catalunya, è su posizioni opposte;
– La Lega Nord ha ipotizzato l’introduzione di una flat tax (tassa unica al 15 per cento indipendentemente dal reddito) mentre i partiti catalani sono per una tassazione progressiva basata sul reddito;
– La Lega Nord è per una riforma della legittima difesa e per il possesso di armi da fuoco mentre nessun partito catalano renderebbe popolare il possesso di pistole e fucili.
LA SECESSIONE IDEOLOGICA.
La secessione ideologica, scrive l'1 ottobre 2017 Augusto Bassi, su "Il Giornale". Passando in rassegna i commenti della rete e ascoltando gli analisti televisivi, trovo esilarante notare come tutti i più illuminati europeisti di sinistra – che vedevano nella Brexit un regionalismo primitivo, rivendicazione oscurantista di una massa di contadini nostalgici, cocciuti nel voler mettere il becco in rivolgimenti più grandi di loro, ignari del mondo senza frontiere involato sulla testa delle piccinerie identitarie, e che prima ancora avevano plaudito alla sconfitta dei regredienti secessionisti scozzesi – ora celebrino l’orgoglio catalano, la comunità coriacea, il sacro fuoco indipendentista contro la iattanza del regime…
La Sinistra è morta. Suicida, scrive Nino Spirlì, Giovedì 28 settembre 2017, San Venceslao – a Casa Spirlì, in Calabria, su "Il Giornale". Accade. Accade quando perdi di credibilità. Quando le tue denunce da farsa, pronunciate a voce stentorea e ferma, risultano essere delle fanfaronate da saltimbanco. Quando il tuo elisir di lunga vita, alle analisi, risulta essere meno che piscio di gallo. Accade quando dai del fascista, pensando di offendere, e poi ti comporti da nazista, sapendo di esserlo. Accade quando per costruire una verità di carta, pensi di poter nascondere con un ditino la montagna della verità di granito.
Accade quando vai a casa del dio della comunicazione e pensi di metterlo nel sacco con grottesche scivolate sulla parete di specchio (magari anche oliata), raccontando di te e dei tuoi improbabili successi. Accade quando tenti di riempirti le tasche di danaro giustificandoti come farebbe il bambinello con la bocca sporca di Nutella davanti allo sportello del frigo. Accade quando sei massomafioso. Accade quando, in campagna elettorale, ti porti appresso gli sgherri delle peggiori ‘ndrine e ti riempi la bocca di antimafia e legalità.
Accade quando cerchi di privatizzare a tuo guadagno l’acqua pubblica; quando ti ingrassi con l’accoglienza dei clandestini; quando ti organizzi per farti appaltare la raccolta della monnezza; quando amministri la cosa pubblica come fosse roba tua.
Accade quando ti senti più tutelato degli altri davanti alla Legge, se la legge è rappresentata da qualche amichetto tuo.
Accade quando ti senti superiore a Dio e ai Santi e pensi di governarne anche le processioni con inchini e carnevalate. Accade. Sì, accade…Ecco, la sinistra Sinistra, quella italiana, quella che all’anagrafe risulta essere figlia della defunta demoNcrazia cristiana e di qualche figlio spurio dell’incenerito PCI, è morta così. Con le mani in pasta. Ovunque. La gente non le crede più e si sparpaglia. Si allontana dal paese dei balocchi, da lucignolo e pinocchio e cerca lidi più sicuri. Magari non immacolati, ma certamente meno prostituiti. Di questo decesso, ne avremo conferma nelle prossime tornate elettorali. Intanto, recitiamo un requiem, mentre, inascoltata, lei ulula il proprio De Profundis…fra me e me.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.
Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.
Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?
Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti.
Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…
CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.
Chi dice Terrone è solo un coglione.
La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero.
L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
Così è sempre, così è stato a Pontida il 22 aprile 2017. Sono più di 1500 e molti di loro vestono la t-shirt “terroni a Pontida” o anche “terroni del Nord”. Sono accorsi a Pontida, in provincia di Bergamo, da tutta Italia, ma soprattutto da quella Napoli che l’11 marzo 2017 aveva ospitato Matteo Salvini, leader della Lega Nord che proprio qui a Pontida ha la sua roccaforte. «Abbiamo espugnato Pontida, questa terra considerata della Lega Nord. Siamo qui per raccontare che per noi non esistono i feudi della Lega Nord e del razzismo, vogliamo costruire ponti e lo facciamo con questa festa, che richiama l’orgoglio antirazzista e terrone», ha spiegato Raniero Madonna di Insurgencia a “La Stampa”. E mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invita sui social i "terroni" a unirsi da Lampedusa a Pontida si pensa al bis. Il clou del concertone è la canzone "Gente d'ò Nord", brano che i 99 Posse hanno firmato con una serie di altri artisti che insieme hanno inciso un doppio cd con il nome di "Terroni uniti". "C'è tantissima gente. E' un bel posto - ha concluso Luca O'Zulú dei 99 Posse - perché non farlo diventare da simbolo della Lega a sede del Concerto Nazionale Antirazzista Migrante e Terrone?".
Un contro-concertone del Primo Maggio gratuito e dal sapore terrone con 10 ore di musica, interventi e colori degli artisti del Sud, scrive “La Repubblica” il 26 aprile 2017. In scena in piazza Dante, dalle 14 a mezzanotte, il festival dell'orgoglio antirazzista e meridionale che ha iniziato il suo tour a Pontida lo scorso 22 aprile. E in programma c'è una già terza tappa: Lampedusa. L'annuncio è arrivato dalla voce del sindaco de Magistris, durante una conferenza stampa che dal Comune si è spostata in piazza Municipio. "E' un progetto talmente bello - ha detto il sindaco - che lo riteniamo un progetto della città: ogni primo maggio si dovrà tenere nella capitale del Mezzogiorno un concerto che abbia come obiettivo i sud del mondo, i diritti, la solidarietà, l'antirazzismo, il lavoro e la lotta per la liberazione dei nostri popoli". Un Primo Maggio "terrone" perché "i terroni difendono il proprio territorio dai rifiuti, dalla malavita, dallo sfruttamento, dalla finanza predatoria". Ed è proprio sul palco del Primo Maggio che i Terroni Uniti continueranno il loro tour dopo Pontida, perché "a Napoli la festa dei lavoratori diventa la festa ribelle dei lavoratori a nero, dei lavoratori sfruttati, della manodopera dell'informale, delle vittime clandestine del caporalato".
Interverranno anche gli scrittori “Terroni uniti” come Maurizio de Giovanni e Antonello Cilento. Una maratona di musica e impegno sociale che avrà come tema il lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati e delle vittime del caporalato, e l'orgoglio meridionale.
Che figure di merda…più che terroni si è coglioni. Se già da sé ci si chiama terroni, cosa faranno chi li vuol denigrare?
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Il Terrone visto dai Polentoni, scrive Gianluca Veneziani. Dopo Vieni via con me è la volta di Sciamanninn, la versione terrona del programma di successo condotto da Fazio e Saviano. Anche in questo programma ci saranno degli elenchi. Ma non riguarderanno né i valori di destra, né quelli di sinistra, e tantomeno i 27 modi di essere gay. Avranno a che fare, piuttosto, con le caratteristiche tipiche di un meridionale. A stilare la tassonomia ci penserà un padano. Ecco allora il dodecalogo del terrone visto da un uomo del Nord. Terrone è:
Barbuto. Pregiudizio in voga soprattutto nei confronti delle donne. Si perpetua l’idea che le donne meridionali abbiano i baffi. Il pelo nell’ovulo riecheggia lo stato selvaggio e ferino del nostro Meridione.
Barbaro. Il terrone è considerato un ostrogoto. Per due ragioni: è rozzo, incurante di ciò che tocca e vede. E, quando apre bocca, non lo capisce nessuno. Credono che parli ostrogoto.
Barbone. Il meridionale è pensato come un mendicante, uno che questua soldi e vive a scrocco altrui. Magari un finto invalido che si mette agli angoli delle strade durante il giorno e la sera va a ballare con i soldi ricavati dall’elemosina.
Borbone. Pregiudizio storico. Il sudista è ancora assimilato alla vecchia dinastia pre-unitaria. Contribuiscono al cliché i cosiddetti neo-borbonici che, con grande tempismo, si fanno sentire adesso che l’Italia deve spegnere 150 candeline.
Lo sfaticato, che non vuole lavorare. Terrone non indica più la provenienza geografica, ma un’attitudine lavorativa. È terrone non chi viene dal Sud, ma chi sgobba poco. Il fannullone, il perdigiorno, chi lavora con lentezza. Fatto curioso, se si pensa che i terroni vanno al Nord, appunto, per lavorare. Ma il pregiudizio resta. Terùn, va a lavurà!
Il cafone, il tamarro, il che cozzalone. Fare una “terronata” significa fare una pacchianata, qualcosa di kitsch e di trash. Anche se chi la fa è un brianzolo, il nome “terrone” gli si appicca addosso.
Chi a colazione chiede cornetto ed espressino. Il barista lo guarda perplesso, senza capirlo. In Padania si dice brioche e marocchino. Occorre adeguarsi. Altrimenti vieni scambiato per un terrone o, peggio, per un marocchino.
Chi, il venerdì sera, fa il pendolare Nord-Sud e torna a casa in cuccetta, mentre i lumbard escono per fare l’happy hour Il terrone fugge dal Nord nel fine settimana: il sabato e la domenica va a consacrare le feste altrove.
Chi il lunedì mattina torna con lo stesso treno a Nord. Con un bagaglio però, pesante il doppio, perché la mamma lo ha caricato di tutte le sue delizie fatte in casa. Quella che si chiama “roba genuina”.
Chi al rientro in ufficio, offe ai colleghi specialità tipiche del suo Paese (magari le stesse che la mamma gli ha sbattuto in valigia). Una mia collega di Cava de’ Tirreni ci ha offerto mozzarelle di bufala campane. È stata festa grande, quel giorno.
Chi è legato alla terra, come dice il nome. Ama la terra, nel senso dei campi da coltivare: ama la terra, nel senso della propria terra; e ama la Terra, con la t maiuscola, perché il terrone è soprattutto un terrestre. Anche se qualcuno lo considera un extraterrestre.
Chi è legato al cielo. Il terrone è umile, cioè vicino all’humus, alla terra. Ma degli umili è il regno dei cieli.
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2010.
C’è sempre, però, chi è più terrone di un altro.
L’infelice battuta di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
“Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Giovani padani: "Siamo invasi dai terroni", scrive Daniele Sensi su “L’Unità”. «Non è giusto, siamo invasi! Ovunque ti giri sei sommerso da ‘sti qui che vogliono comandare loro, mi fanno venire la nausea», sbotta una novarese. «Troppi, ce ne sono troppi, meglio con contarli», ribatte un utente di Mondovì. «Ce ne sono tanti, ma molti dei loro figli crescono innamorati del territorio in cui sono nati e cresciuti», replica un magnanimo iscritto ligure. Ennesimo dibattito su immigrazione e presunte invasioni islamiche? No. Il sito è quello dei Giovani Padani, e l'oggetto della discussione è quanti siano i meridionali residenti nel nord Italia. Non si tratta solo di un divertito passatempo: lamentando la mancanza di dati ufficiali («Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare un censimento etnico in Padania, poiché siamo tutti "fratelli italiani"»), sul forum del movimento giovanile leghista con cura e dovizia vengono incrociate fonti diverse per tentare di fornire una risposta all'inquietudine che pare togliere il sonno ad alcuni simpatizzanti. Così, ricorrendo ad una terminologia allarmante e servendosi del censimento del 2001, delle analisi di alcuni studiosi dialettali e di quelle relative alle migrazioni interne del dopoguerra (con una certa approssimazione dovuta all'impossibilità di conteggiare con precisione i «meridionali nati al nord da genitori immigrati o da matrimoni misti padano-meridionali») alla fine, tenendo comunque conto «del tasso di fecondità dei centro-meridionali in base al quale è possibile stimare 3 milioni di discendenti meridionali nati in Padania, compresi i bambini nati da coppie miste», il verdetto è di «9 milioni di individui, tra centro-meridionali etnici e loro discendenti puri o misti». Una stima al ribasso secondo un utente milanese che arriva a denunciare, nelle statistiche, «la mancanza dei clandestini, cioè di quelli che sono qui di fatto ma non hanno domicilio o residenza padane». Dati eccessivamente gonfiati, al contrario, per un altro giovane lombardo, perché «credo proprio che il meridionale al nord, specie se sposato con una padana, figli meno rispetto al meridionale che sta al sud». Una ragazza di Reggio Emilia, invece, pare poco interessata a parametri e variabili: «Non so quanti siano, non mi interessa il numero, so solo che sono troppi e che stanno rovinando una zona che era un'isola felice. Girando per strada difficilmente si incontra un reggiano! Purtroppo stiamo diventando una minoranza e i meridionali la fanno da padrone».
La Lega, si sa, ha oramai ampliato il proprio bacino elettorale, pertanto pure un simpatizzante salernitano si inserisce nella conversazione, e, quasi invocando clemenza («Io sono meridionale ma amo la Lega e odio i terroni che vengono qui al nord per spadroneggiare e per rompere i coglioni»), finisce col cedere allo stesso meccanismo di autodifesa visto attivarsi durante la recente campagna mediatica e politica anti-rom, quando, per riflesso, non pochi cittadini rumeni quasi si sono messi rivendicare distinzioni etniche dai loro connazionali residenti nei campi nomadi, poiché nel gioco all'esclusione c'è sempre chi sta un po' peggio: «Certi meridionali non possono essere espulsi perché italiani, ma, se si potesse fare una bella barca, sopra ci metterei i meridionali che non lavorano e gli extracomunitari, che sono più bastardi dei meridionali». Qualche nordico animatore del forum non indugia nel mostrare comprensione e solidarietà al fratello salernitano, e si affretta a precisare come sia possibile ravvisare differenza tra "meridionali" e "terroni", spiegando che «terrone è colui che arriva e pensa di essere nel suo luogo di origine, e si comporta di conseguenza, tanto che nemmeno si offende se lo chiami terrone». Per taluni, addirittura, il luogo di origine non c'entra proprio nulla, perché «non è la provenienza che fa l'individuo, e nemmeno il sangue o il colore della pelle, ma unicamente l'atteggiamento». L'insistenza dei più ostinati («Se ne dicono tante sui cinesi ma sicuramente li rispetto più di certi meridionali o marocchini o slavi perché almeno lavorano e si fanno i fatti loro») incontra obiezioni dalle quali emergono ulteriori sfumature d'opinione tra i giovani padani, quelli più "cosmopoliti", coinvolti nella surreale disamina, tanto che tra essi diviene possibile distinguere tra filantropi («Di meridionali ne conosco tanti e tanti miei amici sono meridionali, per me un meridionale è colui che è venuto e lavora onestamente»), progressisti («Esempi di integrazione con il passare degli anni si fanno più frequenti, sono esempi da non snobbare ma anzi da far diventare casi di scuola: piano piano li integreremo»), e possibilisti («Un meridionale che lavora e interagisce con gli altri vale quanto un settentrionale»). Su tutti, però, inesorabile cade il richiamo ad un maggior pragmatismo da parte dei realisti: «Siete in ritardo di 40 anni, c'è bel altra gente che invade le nostre città, purtroppo!». Trascorso qualche giorno, sul forum viene avviata una nuova discussione: «Un test per capire a quale sottogruppo della razza caucasica apparteniamo». Un test scientifico, affidabile, perché «per una volta non ci si basa sul colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ma sulla forma del cranio».
Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani, scrive Francesco Romano su “Onda del Sud”. Trento: “Terrone di merda”. Operaio reagisce all’insulto con un pugno: licenziato. Al centro della discussione fra l’uomo e il caporeparto un ritardo dopo una pausa. Il giudice ha dato ragione all’azienda. “Il Gazzettino.it” di Trento ha riportato la seguente notizia: - Il caporeparto dell’azienda trentina per la quale lavorava lo ha appellato “terrone di merda” e lui, un operaio di origini meridionali, ha reagito all’insulto con un pugno. Per questo è stato licenziato. Al centro della discussione c’era il presunto ritardo dell’operaio dopo una pausa. Al termine dell’accesa discussione, il caporeparto avrebbe mandato via l’operaio dicendo “terrone di merda”. L’operaio avrebbe così reagito sferrando un cazzotto contro il collega, raggiungendolo di striscio. Dopo dieci giorni è arrivato il licenziamento in tronco. Da qui la causa intentata dall’operaio. La sentenza di primo grado del giudice del lavoro di Trento ha dato ragione al caporeparto in quanto «non è possibile affermare anche nei rapporti di lavoro la violenza fisica come strumento di affermazione di sé, anche quando si tratti della mal compresa affermazione del proprio onore». Un concetto ribadito dalla sentenza d’appello che ribadisce come «la violenza fisica non può mai essere giustificata da una provocazione rimasta sul piano verbale». Questo è quello che accade nel profondo Nord. Se non è mobbing questo, che cos’è. “Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani” era una vecchissima battuta comica di Francesco Paolantoni. La violenza certamente non ci appartiene ma forse è arrivato il momento di rivoluzionare il significato delle parole. Passare da negativo ad uno positivo. Questa è la cultura leghista che si è affermata al Nord. Dobbiamo subire la discriminazione dell’emigrazione e ci è impedita l’integrazione in questa nazione proprio quando ci apprestiamo a festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
QUELLI CHE SON RAZZISTI…EVASORI E LADRI.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD. Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche “il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna, dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile»: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le “scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo?». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la “liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era “la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati “belli” del Nord e quelli “brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente “disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati “belli” del Nord restano del Nord; quelli “brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale», parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la “Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama “New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già “meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce “isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce “Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce “Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è “rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
Dalle mazzette ai diamanti, tutti i guai della Lega Nord. I conti sequestrati sono solo l'ultimo problema in ordine temporale del Carroccio. Che dalla tangente Montedison al crack della CrediEuroNord ha mostrato di essere ladrona non meno di altri partiti, scrive Susanna Turco il 2 ottobre 2017 su "L'Espresso". Dai conti sequestrati di oggi, indietro fino a Tangentopoli. Ecco come, nella Lega, la razza padana s’è mescolata in un quarto di secolo con la Roma ladrona. “Ladroni in casa nostra”, sintetizzava amaro nei primi anni Duemila un cartello delle valli bergamasche. Azzeccato? «Per amor di Dio sì». Nel gennaio 1994, interrogato dall’allora pm Antonio Di Pietro, il capo della Lega Umberto Bossi risponde così alle domande sui duecento milioni incassati dal tesoriere Alessandro Patelli come contributo alla campagna elettorale, provenienti dalla Montedison attraverso l’amministratore delegato Carlo Sama e, materialmente, Marcello Portesi. Patelli stesso l’aveva ammesso un mese prima, davanti ai militanti ad Assago, dandosi del pirla: «Ingenuità, stupidità, o pirlaggine: chiamatela come volete.». Ingenui, sempre. Stessa versione di Bossi davanti a Di Pietro: «Eravamo senza soldi, senza finanziamenti. Per amor di Dio». «Per amor di Dio si o per amor di Dio no?», domanda il magistrato. «Per amor di Dio sì», risponde Bossi. “Sono socio fondatore della CrediEuronord, e tu?”. Ecco lo slogan, con tanto di faccione di Bossi, nel manifesto che alla fine degli anni Novanta lancia la Popolare CrediEuronord, la banca padana per i padani. L’impresa scricchiola nel 2003, nel 2004 vien comprata da Giampiero Fiorani. Il quale, dalla galera, chiarirà poi di aver tentato il salvataggio affinché i leghisti cambiassero idea su Bankitalia e Antonio Fazio (sperava di ottenerne favori). Nel flop vengono coinvolti 3.500 soci, la banca dilapida venti milioni di euro in quattro anni. La sentenza assolve però i dirigenti leghisti coinvolti. La Lega si dichiara vittima del crac. E per anni lancia sottoscrizioni per risarcire i militanti.
Villaggi turistici. Tra i disastri finanziari negli anni Novanta a opera del tesoriere Maurizio Balocchi da Genova, il fallito tentativo di costruire un villaggio turistico nell’Istria croata: 14 ettari, 180 appartamenti, albergo, piscina, centro benessere, golf, porticciolo. Cento militanti padani sottoscrivono le azioni della Ceit srl, che doveva realizzare il tutto. Finisce in un crack spettacolare e seguente inchiesta per bancarotta fraudolenta. Catastrofe pure il successivo tentativo di buttarsi nel business delle sale da gioco, con la Bingo.net: per risarcire il danno, Balocchi dovrà vendere due case di proprietà.
The family. L’impareggiabile cartellina “The family” spuntata nel 2013 dalla cassaforte del tesoriere leghista alla Camera, che contiene la lista delle spese dalla famiglia Bossi, tra cui: quasi diecimila euro per l’operazione di rinoplastica del figlio Sirio, le multe di Renzo, la ristrutturazione della casa di Gemonio, la laurea albanese in gestione aziendale del Trota.
Parte lesa. Il tesoriere genovese Franco Belsito, allievo di Balocchi, alla vigilia di Capodanno 2012 fa partire da Genova il bonifico da 4,5 milioni di euro, destinati a finire in un fondo in Tanzania, svelando il giro di mega prelievi, operazioni offshore, movimenti di assegni, vorticosi giri tra Africa e Cipro, milioni di corone norvegesi e pacchi di dollari australiani. Si darà così il via al processo che ancora oggi dà filo da torcere al Carroccio. Nel quale il segretario Matteo Salvini spiega essere la Lega, ancora una volta, “parte lesa”.
Undici diamanti. Belsito ormai ex tesoriere, riconsegna alla Lega undici diamanti e dieci lingotti, facendoli trasportare da Genova a Milano nel bagagliaio della A6 prima a disposizione di Renzo Bossi. L’autista, il collaboratore leghista Paolo Cesati, arriva a via Bellerio e consegna l’automobile, direttamente.
MAFIA, PALAZZI E POTERE.
Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.
Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avereinfluenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votinoe gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta iretroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.
Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..
Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?
V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…
L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?
V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.
L: Eh certo! (ride)
V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…
L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…
Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.
MILANO: DA CAPITALE MORALE A CAPITALE DEL CAZO.
Milano si è riappropriata "del ruolo di capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere". Lo ha detto il presidente dell'Autorità Nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, ricevendo dalle mani del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, il Sigillo della Città. Alla cerimonia di consegna del 28 ottobre 2015 hanno partecipato anche il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca, e il procuratore Edmondo Bruti Liberati. “Modello Expo difficile da esportare a Roma” - Per il presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, inoltre, il modello realizzato per Expo a Milano, caratterizzato da "profonda sinergia istituzionale è difficilmente esportabile senza questa sinergia. Stiamo cercando di esportarlo a Roma ma a Roma è questo che manca". E ha continuato: "Ho incontrato difficoltà, in parte superate anche con l'impegno perché il Comune di Roma non è fatto solo dei soggetti di Mafia Capitale, ma è fatto di moltissime persone per bene. Il problema è trovare una squadra che funzioni. Nell'Amministrazione abbiamo trovato punti di riferimento importanti, anche nel Comune, ma la sinergia che si è verificata a Milano è difficile da esportare come modello. L'idea di lavorare tutti con lo stesso obiettivo, pur nel rispetto della divisione dei ruoli, non è sempre facile da esportare in altre realtà". "Le mie parole non sono critiche" - Cantone, dopo le polemiche seguite al suo intervento, ha poi voluto precisare che le sue parole non "sono critiche a Roma ma un pungolo" per stimolare l'idea che si formi anche nella Capitale un modello di sinergia istituzionale".
Ho dovuto risentirlo più volte...non potevo crederci..., "Milano è Capitale morale" lo ha detto Cantone e fra i presenti, (non posso smettere di ridere), c'era Bruti Liberati, il Procuratore denunciato per irregolarità nell'assegnazione di fascicoli sulla corruzione nella Pubblica amministrazione…..
Quanto gli italiani hanno la memoria corta....
Dopo Roma tocca a Milano: è una nuova Tangentopoli, scrive Marco Scotti su “Il Ghirlandaio” il 14 ottobre 2015. Mentre l’eco delle dimissioni della giunta Marino, di Mafia Capitale e degli altri scandali che hanno scosso Roma durante l’estate non accenna ad attenuarsi, scoppia un nuovo caso di corruzione, questa volta a Milano. Così, la storica dicotomia tra capitale morale e capitale reale, tra sole e nebbia, tra romani e milanesi, trova un punto d’unione e di contatto di cui è bene non andare troppo fieri: la corruzione. Il caso è quello di Mario Mantovani, già assessore alla sanità della Regione Lombardia e oggi vicepresidente della giunta guidata da Roberto Maroni. L’accusa mossa nei confronti di Mantovani, che è stato arrestato nella giornata di ieri, è di corruzione e concussione per faccende relative alla sanità, compresa una gara sul trasporto dei dializzati. Ogni condizionale è d’obbligo, e ci mancherebbe, anche perché siamo ancora in una fase preliminare delle indagini. Ironia della sorte, oggi l’ex assessore alla sanità avrebbe dovuto presenziare a una giornata sulla legalità. Impegno, ovviamente, annullato, visto che per lui sono scattate le manette. Il vero problema per la giunta di Maroni, però, non è rappresentato dall’arresto di Mantovani, ma dalle conseguenze che questo ennesimo scandalo potrebbe avere. Se, infatti, non è difficile dimostrare lo scarso coinvolgimento di Regione Lombardia nella vicenda – d’altronde Maroni aveva rimosso Mantovani dal suo incarico – è più complicata la posizione di Massimo Garavaglia, assessore all’economia della giunta e uomo forte di Maroni. Per lui la procura di Milano ipotizza il reato di turbativa d’asta. Le carte dell'inchiesta lo accusano, insieme a Mantovani, di aver agito per turbare la gara "per l'affidamento del servizio di soggetti nefropatici sottoposti al trattamento dialitico". Una bella gatta da pelare. Anche perché Garavaglia, al contrario di Mantovani, continua a essere un pezzo da 90 all’interno della giunta lombarda, che Maroni guida da due anni e mezzo. Che fare ora? Perfino tra i fedelissimi dell’ex ministro dell’Interno c’è chi chiede a gran voce un corposo rimpasto della giunta che permetta di spazzare via ogni dubbio di legittimità. Perché, ricordano sempre i fedelissimi, per molto meno “saltò per aria” la giunta guidata da Roberto Formigoni, padre padrone del Pirellone per quattro mandati consecutivi. Sembra che Milano, dopo la serenità ritrovata grazie all’Expo (concluso a tempo di record dopo le infiltrazioni della criminalità organizzata che avevano obbligato l’Anac di Cantone a prendere il controllo della situazione) stia ripiombando in un nuovo incubo da cui non ci si riesce a svegliare: Tangentopoli. Che ha perso – se mai l’ha avuto – ogni connotato folcloristico (da Paolo Brosio davanti a Palazzo di Giustizia al linguaggio di Di Pietro) ma ha mantenuto quei tratti inquietanti che rendono la corruzione un cancro difficile da estirpare. Perché quando si pensa di aver ottenuto un risultato confortante, torna, sotto forme diverse e con differenti peculiarità. Gli anni ‘80 e ’90, caratterizzati da un Partito Socialista che poco aveva a che fare con il nome che portava, sono un ricordo lontano, così come lo sono la Milano da bere e le invettive di Craxi in Parlamento. Eppure rimane lo stesso retrogusto amaro quando ci si imbatte in fenomeni di questo tipo, quando l’appetito predatorio di una classe politica, che non ha ancora completato la transizione verso la Terza Repubblica, è lo specchio palese della sua inadeguatezza. L’Italia non è certo l’unico paese in cui la corruzione esista e sia diffusa. Ma i dati relativi ai costi sociali di questo fenomeno restituiscono una fotografia impietosa, in cui il nostro paese è agli ultimi posti, in Europa e tra i paesi del “primo mondo”, nelle speciali classifiche redatte periodicamente. La stima ufficiosa è che ogni anno la corruzione costi al nostro paese 60 miliardi di euro. Ma c’è chi, come il professor Alberto Vannucci dell’università di Pisa, considera questa stima sballata, ma al ribasso. Perché secondo la Corte dei Conti, la corruzione genera un costo superiore del 40% per appalti e forniture di servizi rispetto alla media europea. Calcolatrice alla mano, si tratta di circa 100 miliardi di euro. All’anno. Un fenomeno, quindi, che entra prepotentemente nel tessuto economico italiano, inquinando la possibilità del nostro paese di avere conti in ordine e maggiori posti di lavoro. Che si tratti di piccole commesse o di opere pubbliche di valore strategico, rimane un costo, interamente a carico della collettività, che non è più sostenibile. Anche perché genera un circolo vizioso da cui è difficile, se non impossibile, uscire. E la credibilità del nostro paese? Minata dalle fondamenta, con gli investitori stranieri che vengono letteralmente messi in fuga da almeno tre fattori: burocrazia, nessuna certezza del diritto e corruzione. Il primo fenomeno si manifesta in un apparato elefantiaco che rende difficile anche ciò che potrebbe essere semplicissimo; il secondo nelle norme che continuano a cambiare. La corruzione, soprattutto all’estero, è un fenomeno difficilmente comprensibile e intollerabile. Ma allora come si esce da questo “eterno ritorno” di Tangentopoli? Affidandosi a persone di valore, come Raffaele Cantone e la sua Anac, e cercando di migliorare progressivamente una classe politica che deve incarnare, una volta per tutte, quegli “aristoi” di antica memoria. L’Italia, e gli italiani, si meritano tutto questo.
Milano, capitale morale è solamente un ricordo, scrive "Blasting News". Milano, ex capitale morale d’Italia, ormai ha perso questo primato e la redenzione giunta dopo la Tangentopoli del 1992 è solo un lontano ricordo. Gli scandali si susseguono e si fa persino fatica a seguirli tutti. Un dato è certo, i beni pubblici lombardi sono gestiti spesso male, quando non oggetto di veri e propri abusi o frodi. Ultimo scandalo in ordine di tempo, è quello che ieri ha coinvolto il management di Ferrovie Nord. Ma ripercorriamo le tappe degli scandali più significativi che hanno colpito Milano in questi ultimi mesi.
TRENORD – i pendolari sono costretti a tour de force per essere puntuali tra continui ritardi e/o blocchi di treni e i manager di TRENORD si occupano di altro e sono sotto l’attenzione della Procura di Milano con l’accusa di peculato. Questa è l’ipotesi di reato rivolta ai vertici dell’azienda in un blitz eseguito il 10 marzo presso gli uffici della società. La Repubblica descrive l’irruzione dei Carabinieri di ieri. Sono stati sequestrati note spese di dirigenti e sono al vaglio degli inquirenti tutte le spese sostenute con carte di credito aziendali. Si va dal pagamento di ristoranti, agli hotel, ai cellulari, al pagamento di multe. In particolare, per le multe sono stati spesi da TRENORD 120 mila, e una buona parte sono riconducibili a multe prese da familiari di dirigenti, quindi poco o nulla hanno a che fare con l’azienda. Seguiremo l’evolversi della vicenda che ha una sola nota positiva: la denuncia dei fatti è partita dall’interno dell’azienda verso la Procura.
ALER – la società che gestisce le Case Popolari a Milano e in Lombardia è ormai da anni travolta dagli scandali, senza che nessuno riesca ad intervenire. Il Fatto Quotidiano in un articolo del 09 Marzo elenca le storture “mostruose” nella gestione dell’azienda che con la costruzione di vere e proprie scatole societarie ha distribuito finanziamenti pubblici perdendone il controllo. Il buco nel bilancio di ALER è di 500 Milioni di Euro. E con questi numeri, ALER si prende il lusso nel 2014, in barba a qualsiasi controllo o verifica, di assumere 40 custodi con contratti a tempo determinato di 88 anni.
EXPO – un blitz della Procura di Milano eseguito l’08 maggio 2014 dalla Guardia di Finanza e dalla DIA porta alla luce un vera e propria cupola degli appalti. Finiscono agli arresti il Direttore Generale di EXPO Angelo Paris e con lui altri 6 manager, tutti con importanti ruoli nel Progetto. L’organizzazione capitanata da Paris aveva contatti politici importanti e pilotava gli appalti Expo verso società che pagavano tangenti o che, addirittura, erano in odore di mafia. L’inchiesta su EXPO nasce da una costola dell’inchiesta Infinito sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia.
Inchieste giudiziarie, Roma e Milano a confronto. La giunta Pisapia è rimasta indenne, ma in Regione ci sono ancora guai. L’arrivo di Pignatone ha scoperchiato il marcio nella Capitale. A Milano sono serviti 23 anni per recuperare il titolo di «capitale morale d’Italia», perso nel 1992 con lo scandalo di Tangentopoli, scrivono Paolo Colonnello e Francesco Grignetti su “la Stampa” il 29 ottobre 2015. «Piena e totale fiducia nella magistratura» non è mai stata una frase di rito. Non per Giuliano Pisapia, avvocato penalista di fama prima ancora che sindaco di una città che stando alle dichiarazioni del presidente dell’anticorruzione Cantone si è riconquistata i galloni di «capitale morale d’Italia», primato perduto nel febbraio del 1992 quando esplose «Mani Pulite» che rivelò l’esistenza di una città dedita alle tangenti: per recuperare terreno c’è voluta una rincorsa durata 23 anni. Un’altra epoca, se si pensa che persino gli ultimi recentissimi scandali di Milano, l’arresto di quattro funzionari legati al settore dell’edilizia pubblica - uno dei quali trovato con dei lingotti d’oro nascosti in casa, un altro invece ripagato con un I-pad - riguardano funzionari e dirigenti nominati dalla precedente giunta, quella di Letizia Moratti. Così come quell’Antonio Acerbo, ex megadirigente comunale diventato poi subcommissario di Expo, condannato a tre anni (patteggiati) e a un risarcimento di 100 mila euro per aver pilotato gli appalti sulle Vie d’Acqua, progetto mai compiuto e dimenticato nella grande ubriacatura dovuta al successo dell’Esposizione Universale. Che pure ha relegato nell’oblio scandali e scandaletti nati dalla fretta necessaria per concludere le opere di Expo, riassunti nella formula della cosiddetta «cupola degli appalti», per ora ferma ai quattro pensionati della tangente (capitanati da Frigerio, Grillo e Greganti) e ad alcuni imprenditori, dalla Maltauro alla Mantovani, coinvolti in una più vasta ragnatela che passa dal Mose di Venezia alla costruzione di Palazzo Italia. In tutto ciò la giunta di Pisapia, in carica da quattro anni, è riuscita a passare indenne, tranne per l’ombra della vendita Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa, ceduta in buona parte dal Comune di Milano al fondo gestito dal manager Vito Gamberale per un totale di 385 milioni di euro. Vicenda che fu anche alla base della dura battaglia tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e l’allora suo aggiunto Alfredo Robledo. «Ombra» spazzata via da una sentenza di proscioglimento per Gamberale che escluse accordi irregolari per truccare la gara. Ben altra musica si è respirata invece nella Regione governata prima da Roberto Formigoni, travolto dallo scandalo sui rimborsi per la sanità, e poi dal leghista Roberto Maroni, coinvolto nella vicenda delle raccomandazioni di due collaboratrici. Per finire con l’arresto recentissimo dell’ex vicepresidente della Regione, Mario Mantovani, il «Faraone» di Arconate.
L’infezione e la cura. I poteri marci che frenano la risalita della Capitale, scrive Mario Ajello su “Il Messaggero”. Paragonando Roma a Milano, e ad altri centri minori, Camillo Benso di Cavour era convinto che «Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali». E insisteva nei suoi discorsi parlamentari della primavera del 1861: «In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono farne la naturale capitale di un grande Stato». Mettere in dubbio una realtà come questa, espressa oltretutto da una delle menti più raffinate e lungimiranti che l’Italia abbia avuto, è storicamente complicato. E sembra anche poco opportuno riproporre il tema tradizionalissimo del dualismo tra Roma e Milano, in una fase così delicata per entrambe. Nessuno può meritarsi la patente di «capitale morale», che ora Raffaele Cantone attribuisce a Milano mentre Roma «sta dimostrando di non avere gli anticorpi di cui ha bisogno». E sicuramente questo attestato di superiorità etica non lo si può attribuire alla metropoli lombarda, anche se proviene da un personaggio autorevole come il presidente dell’Autorità anti-corruzione. Perchè dai tempi della «Milano degli scandali» e di Tangentopoli, fino alla recente inchiesta con tanto di arresti sulle tangenti e le raccomandazioni nella sanità, passando dalle vicende di Formigoni, dalle infiltrazioni della ’ndrangheta padrona, dalle storie del San Raffaele e dalle mazzette delle Ferrovie Nord e da tante altre smentite plateali della virtuosità della politica meneghina, questa città ha mostrato un «lato oscuro».
Milano capitale morale? Ma di che? Le parole di Raffaele Cantone possono essere interpretate come uno sprone a non lasciare l'Italia preda dei signori della mazzetta. Ma non sono purtroppo giustificate dalla storia recente delle grandi opere dell'Expo 2015, scrive Ciro Pellegrino su Fan Page”. "Non esiste alcun sistema preventivo sicuro per la corruzione: a volte appalti perfetti celano fenomeni di corruzione. Non ho nessuna sicurezza che i nostri controlli impediscano la corruzione, la rendono sicuramente più difficile". Così parlava Raffaele Cantone ed era giusto un anno fa, in audizione davanti alla Commissione Antimafia. Oggi evidentemente il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, folgorato sulla via dei Navigli non la pensa ugualmente. Milano "si riappropria del ruolo di capitale morale d'Italia" dice il magistrato campano, contrapponendola a Roma che invece "non ha anticorpi". Da un uomo della statura morale di Raffaele Cantone accettiamo questa dichiarazione ritenendola come uno sprone a non arrendersi, a non lasciare il Paese nelle mani dei predoni degli appalti, degli sciacalli della Pubblica amministrazione, degli avvoltoi della spesa pubblica le opere, le speranze e i sogni del Paese. Tuttavia non possiamo non ricordare che nemmeno un anno fa lo stesso Cantone implorava il commissariamento delle gare d'appalto delle architetture di servizio di Expo 2015 (luglio 2015), che denunciava la mancanza di un sistema di controllo sui padiglioni stranieri dell'Esposizione Universale (ottobre 2015). Non vorremmo ricordare, poi, il caso delle Vie d'acqua e di Primo Greganti e la raffica di interdittive antimafia per aziende in odore di ‘ndrangheta. Dunque di quale capitale morale stiamo parlando? Della città che faticosamente, con l'ausilio di strumenti straordinari e tuttavia troppo tardi, è riuscita ad arginare le fameliche formiche degli appalti? Non certo dei campioni d'onestà da fiction di Raiuno. All'ombra del Duomo non c'è un clima da Suburra, siamo d'accordo. Ma solo perché i protagonisti di questo romanzo criminale girano invisibili tra capitolati d'appalto e ricorsi al Tar.
Sicuri che Milano sia la Capitale morale?
Per Cantone la città di Expo batte Roma. Ma tra scandali, mazzette e infiltrazioni..., scrive Francesca Buonfiglioli su “Lettera 43”. Cecati e mondo di mezzo, mazzette che filano una via l'altra come «ciliegie» o «antidolorifici», funerali sfacciati con elicotteri che gettano petali di rosa, sparatorie in periferia che sanno tanto di regolamenti di conti. Roma come Suburra. Peggio di Suburra. Seicento chilometri più a Nord, a Milano, invece non si parla che del successo di Expo: file infinite ai tornelli e attese di 9 ore ai padiglioni. Una città rinata, che ha ritrovato - almeno così si legge - il suo respiro da metropoli europea. Dopo la Milano da bere, ecco la Milano da esporre. Basta dire che se a Roma la candidatura a sindaco - sempre che Ignazio Marino confermi le dimissioni - suona come una roulette russa, a Milano c'è la fila per raccogliere l'eredità di Giuliano Pisapia con tanto di azzuffatine pre-primarie. Sarà anche per questo che Raffaele Cantone,presidente dell'Autorità nazionale anti-corruzione, ricevendo dalle mani del primo cittadino ambrosiano il Sigillo della città ha sentenziato: «Milano si è riappropriata del ruolo di capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere». Con buona pace delle inchieste sugli appalti dell'esposizione universale, sulle infiltrazioni della 'ndrangheta all'ombra della Madonnina e su quelle della Regione Lombardia, il cui ex presidente Roberto Formigoni è a giudizio per associazione per delinquere e corruzione e l'attuale, Roberto Maroni, è a processo per turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e induzione indebita per presunte pressioni per far ottenere un lavoro e un viaggio a Tokyo a 2 ex collaboratrici. Ma si sa, «gli italiani hanno la memoria corta», dice a Lettera43.it Francesco Calderoni, docente di Sociologia della devianza e ricercatore di Transcrime, il Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale della Cattolica. E aggiunge semiserio: «Cantone avrà voluto omaggiare la città e il sindaco che lo stava premiando...». La criminalità e lo spread tra Roma a Milano. Al di là dei convenevoli, sul primato morale di Milano «bisognerebbe andare cauti», continua Calderoni: «Da Tangentopoli in poi non ci siamo fatti mancare proprio nulla in materia di vicende corruttive». Anche se le differenze con Roma ci sono. «Vanno analizzate le strategie di indagine delle Procure», sottolinea il docente. A Milano, è il ragionamento, i fenomeni sono stati tenuti distinti: si è parlato di tangenti Expo, o allargando l'obbiettivo a tutto il Nord, di scandali Mose o Aemilia. «Nessuno ha abusato del termine 'mafia'». Anche se sono state scoperte collusioni tra criminalità, economia e politica. A Roma, invece, c'è la tendenza ad affibbiare «etichette», come accadde con la P3. Per cui l'associazione a delinquere condita da elementi mafiosi come l'intimidazione, l'assoggettamento e l'omertà viene semplificata con la definizione «mafia Capitale». Dimenticando, precisa Calderoni, «che tutto quello che abbiamo letto sui giornali finora non è che l'ipotesi d'accusa. Non è ancora stata convalidata da un giudice, e per il Gip è sufficiente avere un sospetto». Poi è innegabile che da quando Giuseppe Pignatone è arrivato con i suoi uomini a Roma, la procura capitolina da "Porto delle nebbie" «si è trasformata in un bastione dell'antimafia». E a Milano? «Si è parlato di mafia e 'ndrangheta al Nord, di infiltrazioni. Con più cautela». Una questione di stile? Questione di stile. «A Roma si spara ancora per strada», spiega il professore. «Ci sono i figli e i nipoti della Magliana o le famiglie campane che risalgono la costa tirrenica fino alla Capitale». Il loro controllo sulla città è sfacciato, alla luce del sole. Sintomo di come questi gruppi abbiano preso possesso e controllo del territorio. A Milano la criminalità c'è, ma è nascosta. Fa affari, non spara. Non ci sono i Casamonica con la loro allure folk e cafona. Almeno non in città. Anche perché la «Capitale morale» in confronto a Roma non è che un paesone. «Per un confronto attendibile, bisogna considerare l'intera provincia di Milano: i Buccinasco, i Quarto Oggiaro, i Desio e i Corsico». E la prospettiva allora cambia. Ma lo spread tra Roma e Milano non è solo una questione di dimensioni. La 'ndrangheta e la camorra al Nord «sono più sottotono», conferma Calderoni. «Nel tempo hanno strangolato i piccoli centri dell'hinterland. Ma la reazione c'è stata. L'operazione Infinito partita nel 2003 ha portato all'arresto di quasi 200 persone scoperchiando l'infiltrazione delle cosche calabresi al Nord». Segno che il sistema giustizia è stato efficiente. Quanto a dimensione corruttiva, le cose non cambiano molto lungo quei 600 chilometri. Se nella Capitale ha casa il potere - ci sono il parlamento, i ministeri, le sedi delle società partecipate - a Milano ci sono gli appalti, come hanno dimostrato le recenti inchieste su Expo, Sanità e Regione. Caratteristiche che attirano gli appetiti criminali e sono un humus perfetto per la mazzetta. Ma le notizie passano e gli scandali si archiviano. «Fino a ieri l'Esposizione era la madre di tutti i mali», fa notare Calderoni. «Giuseppe Sala fu addirittura accusato di avere diffuso dati falsi sugli ingressi in Consiglio comunale. E ora?». E ora si parla di sistema Expo da esportare in tutta Italia e molti, Matteo Renzi compreso, vorrebbero il commissario a Palazzo Marino. A questo punto, come nei film da botteghino sugli stereotipi settentrionali e meridionali, si potrebbe fare un esperimento. «Spostare qualche ministero» nella integerrima Lombardia, conclude Calderoni, avverando così il sogno leghista che naufragò nelle sale deserte della Villa Reale di Monza. E chissà, magari a quel punto spunterebbe pure una Mafia del panettone.
LA CAPITALE MORALE? NON ESISTE. L'arresto di Mario Mantovani e di altri esponenti politici della Regione Lombardia confermerebbe ancora una volta, nel caso le ipotesi dei magistrati risultassero fondate, che non esistono differenze etiche tra Milano e Roma, scrive Francesco Anfossi su "Famiglia Cristiana”. Dopo lo shock di Mafia Capitale e le polemiche successive alle dimissioni del sindaco di Ignazio Marino c'è chi ha parlato di due capitali, una politica e l'altra morale, contrapponendo Roma a Milano. La metropoli dove scorrono fiumi di denaro, del "mondo di mezzo" dove si incontrano faccendieri, criminali e politici del sottobosco contrapposta alla capitale europea onesta e laboriosa, vagamente calvinista, persino giacobina e ossessionata dalla legalità. In realtà questa differenza non esiste. E se le ipotesi di reato venissero confermate, la vicenda legata a Mario Mantovani, il vicepresidente della Regione Lombardia arrestato nell'ambito di un'inchiesta che contempla le ipotesi di concussione, corruzione aggravata e turbata libertà degli incanti, non farebbero che confermare l'equivoco. Si è detto giustamente che Mantovani si sarebbe dovuto fermare prima, dato che questo formidabile accumulatore di cariche pubbliche (senatore, sindaco di una cittadina del milanese, sottosegretario alle Infrastrutture,assessore, plenipotenziario lombardo di Forza Italia) è il fondatore di una cooperativa che si occupa di residenze per anziani, molte delle quali convenzionate con la Regione. Come è stato possibile che gli venisse assegnato l'assessorato alla Sanità? Il re delle case di riposo era in evidente conflitto di interessi, anche se dal punto di vista legale la cosa era possibile. Ma una politica che si vanta di governare la capitale morale del Paese e la Regione più progredita del Paese non può avallare incarichi del genere. Al di là degli esiti processuali (perché bisogna essere sempre garantisti e avere rispetto per chi viene privato della libertà e non convocare sprezzanti conferenze stampa con le arance da portare a San Vittore sul tavolo, come hanno fatto i Cinque Stelle) avrebbe dovuto essere la politica a fermare un passo prima Mantovani, e non la Procura. Qualcuno ribatte che la superiorità di Milano sta proprio nel saper scoperchiare le malefatte della politica, da Tangentopoli in poi. Ma tutto questo non è sufficiente a incoronare una metropoli capitale morale. Anche perché a ben vedere è stata Roma che ha fatto progressi in questo senso, attraverso una Procura che da "porto delle nebbie" si è trasformata in uno degli uffici giudiziari più efficienti e coraggiosi, senza più alcun timore reverenziale. Il problema, come si ripete fino alla nausea negli inutili talk show è "politico".
Da capitale morale a Capital del cazo e viceversa (si spera), scrive Daria Bignardi su “Vanity Fair”. Nel 1992 ero a Siviglia per scrivere dell’Expo, per Panorama. Ricordo ancora il mattino in cui lessi sul País: «Milano se muestra como la capital del cazo». Il termine cazo in spagnolo si usa anche per «corruzione»: era cominciata Mani pulite, e io, che vivevo a Milano da otto anni ed ero tra quelli cui la cosiddetta Milano da bere faceva venire l’afta epizootica, l’avevo trovata un’assonanza esilarante: «Sì, proprio la capital del cazo! Pareva anche a me». In quegli anni, se non eri yuppie dentro, a Milano non ti sentivi a tuo agio. Hanno un bel dire gli amici del folle che la settimana scorsa ha ucciso tre persone al Palazzo di giustizia che allora «si stava bene, girava il grano, passavamo da un locale all’altro», come ha riportato il Corriere: quel che ricordo io è soprattutto un clima sovraeccitato e superficiale, e quel che ribolliva sotto la superficie patinata lo abbiamo appreso con l’inchiesta Mani pulite. Come ha scritto spicciamente ma efficacemente Beppe Severgnini: «Gli anni Ottanta avevano trasformato la corruzione da episodio patologico a normalità fisiologica, che manteneva la politica, arricchiva i politici, appesantiva la spesa pubblica. Un gruppo di magistrati di Milano intervenne, mescolando senso civico e protagonismo: così nacque Mani pulite. Bossi e la Lega la cavalcarono e all’inizio la protessero. Silvio Berlusconi, perduto l’appoggio dei socialisti plurinquisiti, si spaventò, si mise in proprio e fondò Forza Italia. Il resto, più o meno, lo sappiamo». La serie 1992 di Sky in onda in queste settimane è un irresistibile fumettone che, superata la delusione per il fatto che non abbia nulla a che vedere con lo stile di Gomorra, si fa guardare con gusto per diversi motivi. Il primo è la vicenda storica: come è noto la cosiddetta Tangentopoli ha segnato la fine della Prima repubblica. Il Palazzo di giustizia di Milano, che purtroppo abbiamo appena rivisto nei Tg, è stato per mesi il teatro della prima grande inchiesta su corruzione, concussione e finanziamenti illeciti ai partiti. Sono passati più di vent’anni ma non abbiamo ancora capito fino in fondo cosa abbia significato l’inchiesta Mani pulite per la nostra storia: rivedere i fatti di quel periodo, per quanto romanzati in una serie televisiva, non può che indurre riflessioni interessanti in chi allora c’era e soprattutto in chi non c’era. Tutto è meglio dell’oblio, anche il rendersi conto che non è cambiato poi molto. Un altro buon motivo per seguire 1992 è che contiene quel mix di interpretazioni riuscite, come quelle di Antonio Di Pietro, Luca Pastore e molti altri personaggi veri o immaginari, e altre imbarazzanti, che lo fanno guardare anche per ridere alle spalle di alcuni interpreti, come accade in tutte le serie più popolari. Poi c’è Miriam Leone, tanto carina e audace che da sola credo sia per molti un buon motivo per non perdersi una puntata. E poi c’è Milano, che nel bene e nel male non è mai stata centrale come in questo periodo. Dall’Expo, per cui ormai contiamo i giorni, alla figura del prossimo sindaco, che incuriosisce e preoccupa in egual misura, al profilo della città che cambia ogni giorno: anche i più pessimisti non possono non essere curiosi e stimolati – magari preoccupati o mortificati per fatti come quello appena accaduto al Palazzo di giustizia, che però poteva accadere, ed è accaduto, in qualunque altro posto – dal futuro prossimo di Milano. Da capitale morale a capital del cazo e ritorno, o almeno si spera.
Dal 1881 ad oggi l'Expo ripropone il mito di Milano capitale "morale", scrive Roberto Cicala su “La Repubblica”. «Un nodo scorsoio» stringe l'anima di Milano, secondo Testori, tra lavoro, affari e ricerca di dignità e sentimenti. Così uno dei figli di questa «città sconciata epperò bellissima» descriveva ieri le contraddittorie potenzialità che oggi l'Expo ripropone e ingigantisce. Viene da chiedersi quanto l'occasione espositiva favorirà una riflessione sull'identità della "capitale morale", definizione resuscitata dopo il successo su Smirne e covata fin dalla stagione dei lumi intorno al Caffé ma diventata una bandiera nel Risorgimento. Non si fraintenda: la "moralità" non è etica ma deriva dall'orgoglio di «essere guida effettiva, non ufficiale del Paese». Lo annota Giovanna Rosa, presidente dei modernisti italiani, nel suo studio su Il mito della capitale morale con cui la Bur ripropone sue ricerche precedenti puntando su "Identità, speranze e contraddizioni della Milano moderna", come recita il sottotitolo, dove non si parla di quella letteratura che tuttavia fa la parte del leone nelle 300 pagine di un libro intelligente e ricco di citazioni fin dall'emigrato siculo Giovanni Verga: per lui «è la città più città d'Italia». Non è un caso che l'autore dei Malavoglia debba sbarcare a Milano per trovare il successo pubblicando il suo capolavoro da Treves nell'anno dell'Esposizione Nazionale del 1881, di cui descrive lo spettacolo della «fiumana del progresso». Si ripeterà nei prossimi mesi rinverdendo con la tecnologia ecosostenibile i fasti che nel 1881 hanno il culmine nel Ballo Excelsior alla Scala, contraltare alle «cose serie, cose sode» della città. Il volume di Rosa illumina il caso degli intellettuali che, radunati sulla carta stampata da Hoepli e Sonzogno, danno voce alla classe dirigente cercando un'identità nuova e «sollecitando la collettività a riconoscersi nell'etica del lavoro produttivo» a partire dai self made man come l'ingegner Pirelli e dal pilastro dell'editoria che fa di Milano una capitale. Nasce un dibattito in cui trova posto Valera con una Milano sconosciuta chiusa tra orti, navigli e viuzze malfamate dove «il progresso economico sembra non creare miglioramenti per il popolo». Al centro sta l'idea di «modernità» retta su due parole d'ordine indicate dal direttore di Casabella nel '32 e ancora valide: «culto testardo della metropoli» e «corsa verso l'Europa». La contraddizione «genetica, implicita» di essere capitale morale sta poi nel fare da «guida effettiva del Paese senza mai assumere la responsabilità della direzione politica» a dispetto di recenti presidenti del Consiglio lombardi. Il filo rosso che lega Expo 1881 e 2015 è nel superamento del "mito" e nella necessità di una consapevolezza del ruolo di metropoli reso visibile anche dall'architettura, che può sventare il rischio dei non-luoghi creati dalla somma di tutti i luoghi comuni della modernità patinata e commerciale. Serve non «edificare soltanto l'universo delle merci», secondo la visione di Benjamin, e non fermarsi dell'autorappresentazione come propone il numero 154 della rivista Nuova corrente: «la città non sia solo un touch screen». Nelle pagine ingiallite di Il ventre di Milano è curioso leggere di alimentazione, accoglienza e libertà nella «città che sale» del futuristi e «che cresce» dei socialisti come Turati che credono nella «capitale morale», cioè «patria di chiunque vi giunga». È così per Verga, ma anche per Stendhal, Berengo Gardin o Gae Aulenti: tutti dimostrano che Milano deve sforzarsi di non essere un «nodo scorsoio». Ha ragione il poeta Franco Loi: siamo nell'«unica città italiana internazionale. L'unico posto che mescola il mondo».
L'IDENTITÀ. Simbolo di modernità, oggi reso più evidente dai nuovi grattacieli.
LA STORIA. Un'immagine dell'Esposizione Nazionale del 1881, che celebrò il primato di Milano e il suo ruolo trainante nello sviluppo dell'Italia Fu in quella occasione che fu presentato alla Scala il famoso ballo "Excelsior".
IL VOLUME. La copertina del libro "Il mito della capitale morale" di Giovanna Rosa, Bur, pp 318,13 euro. Parte dall'Expo 1881 per riflettere sulle prospettive attuali.
Quando nacque il mito di "Milano, Capitale Morale"? La definizione – usata e abusata – di “Milano capitale morale” si presta a facili ironie in periodi di scandali come questo. Ma quando è nato (e perché) questo modo di dire? Lo inventò un napoletano nell’Ottocento, lo fortificò un vecchio expò, e a lungo ha poggiato sui valori della produzione am..., scrive Alessandro Marzo Magno “L’Inkiesta”. Capitale morale: un premio di consolazione. Siccome la capitale vera era stata messa a Roma, alla città più industriosa d’Italia non restava altro che la medaglia di latta, simile a quella della “vittoria morale” che nel 1934 avrebbe assegnato Nicolò Carosio all’Italia sconfitta con onore dai maestri inglesi del calcio. Milano, per un breve tratto della sua storia, diventa capitale davvero. In epoca napoleonica, nel ballottaggio tra Venezia e Milano, i francesi non hanno dubbi: tra la capitale di una repubblica durata oltre un migliaio d’anni e la sede di un ex governatorato spagnolo, ci mettono un amen a decidere chi debba abbassare la cresta. La contessa vicentina Ottavia Negri Velo nel 1806 scrive così: «La gara tra Milano e Venezia sembra dichiarata. Milano è una provinciaccia che ha sempre ubbidito, Venezia è una capitale in cui il dominio è originario». Proprio per questo il vicerè d’Italia, Eugène de Beauhrnais, ovvero il principe Eugenio, preferisce Milano come capitale del Regno d’Italia. Le istituzioni centrali vengono spostate in Lombardia: la nuova banca di Stato, il Monte Napoleone, assorbe il veneziano Banco Giro, che viene costretto a chiudere. Ma anche l’Accademia di Brera si avvale di una regalia di opere di celebri pittori veneti, spostate d’imperio dalla laguna ai navigli. Gli Asburgo replicano: hanno combattuto la Serenissima per mezzo millennio (salvo brevi parentesi, tipo Lepanto e le guerre contro i turchi di fine Seicento), hanno fatto di Trieste un porto franco per sottrarre all’ormai decaduta repubblica il dominio sull’Adriatico, e ora, riusciti finalmente a mettere le mani sullo spennato leone di San Marco, è ovvio che come capitale del Lombardo-Veneto, gli preferiscano Milano, che oltretutto era città dei loro cugini spagnoli. Assaporato il gusto del comando, Milano viene retrocessa dai Savoia. Ma ormai la città si è avviata sulla via dell’industrializzazione, è l’unico centro italiano legato da «un cordone ombelicale all’Europa», come disse lo storico Renzo De Felice che aggiunse: «Milano rappresenta un’instancabile incubatrice del nuovo che nasce nel Paese». Giovanni Verga la definisce «la città più città d’Italia». La consacrazione definitiva arriva con la Fiera industriale (oggi diremmo Expo) del 1881 quando Milano si mette in vetrina. La definizione di “capitale morale” sembra essere più o meno di quel periodo, assegnata oltretutto da un napoletano, Ruggero Bonghi, che in quegli anni dirigeva il quotidiano milanese La Perseveranza. Il successo (della definizione) è virale: va bene a tutti, ai milanesi per consolarsi, ai romani per consolarli. Come scriveva Guido Lopez «la mostra avvalorava l’operosità alacre di una città che si proclamava con orgoglio consapevole “capitale morale d’Italia”. Traduzione moderna del vecchio proverbio popolare Milan dis, e Milan fa. Renzo De Felice però non era d’accordo: «L’Italia ha solo due capitali: Napoli e Palermo», le uniche che ricordano Parigi, Madrid, Vienna, come sottolineò lo storico. Tuttavia Milano sembra effettivamente diventata una fucina non solo industriale. Roberto Sacchetti, nel suo La vita letteraria a Milano nel 1880 la butta sull’etica: «A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchelli, il cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga… e si crede di dir molto». Ognuno è considerato per quel che fa, insomma, non per quel che è. Dice Gaetano Salvemini: «Quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia». La città sembra voler pungolare un’Italia che ha voluto, che ha contribuito a costruire, ma che non è come avrebbe dovuto essere. Luigi Albertini schiera il quotidiano più influente del Paese, il Corriere della Sera, su posizioni interventiste, in contrapposizione al neutralismo del piemontese Giovanni Giolitti. E il fascismo sarà una faccenda tutta milanese: Benito Mussolini direttore de l’Avanti!, con sede in città, frequenta la casa milanese di Filippo Turati e Anna Kulishioff, dove conosce e diventa amante della veneziana Margherita Sarfatti che gli inculcherà il mito della romanità. Ed è nella milanese piazza San Sepolcro che il futuro Duce fonda i Fasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919. Il mito continua anche nel secondo dopoguerra, quando Milano diventa più che mai l’ombelico dell’Italia industriale, il centro dell’immigrazione (qualora si eccettui la Fiat). I primi ad arrivare sono i veneti, da allora qualificati con l’aggettivo di “terroni del Nord), seguono i siciliani, i pugliesi e tutti gli altri. Recita un proverbio: “Chi ghe volta el cü a Milan, ghe volta el cü al pan” (chi gira il culo a Milano, gira il culo al pane). Per parecchi anni la città vive una crisi di rappresentanza politica: la “capitale morale” conta relativamente poco nei palazzi del potere romano, dove non brilla un astro meneghino di prima grandezza fino all’avvento del socialista Bettino Craxi. Ma ormai siamo negli anni Ottanta e il mito comincia a offuscarsi. Alla “Milano da bere” immortalata, verso la metà del decennio, in un celeberrimo spot pubblicitario dell’amaro Ramazzotti, si contrappone la “Duomo connection”, un’inchiesta giudiziaria promossa tra il 1989 e il 1990 dal pubblico ministero Ilda Boccassini (ebbene sì, proprio lei) e attuata dal celeberrimo capitano Ultimo (al secolo Sergio De Caprio, capitano dei carabinieri). Un paio d’anni più tardi esplode Tangentopoli e l’effetto collaterale è l’entrata in scena di un altro milanese che avrebbe segnato parecchio la vita politica italiana: il cavalier Silvio Berlusconi. E tra “Berlusconi” e “morale” la contrapposizione è definitiva.
Milano, Capitale Morale? Un mito. Meglio Napoli e Palermo. Gli storici De Felice e Rumi riconoscono la vocazione europea della città, ma bocciano le tentazioni di separatismo. Milano "capitale morale": realtà o solo un mito? E Roma è davvero capitale? O l'Italia ha capitali "alternative"? Nel post Tangentopoli l'interrogativo potrebbe ricevere una risposta sbrigativamente liquidatoria, se non ironica. Ma se a porsi le domande è Renzo De Felice, la cronaca (magari nera) si riscatta. E la storia, se non proprio maestra di vita, qualcosa può aiutare a capire. Anche perchè De Felice fa riflessioni provocatorie, presentando un prezioso, illustratissimo volume edito dalla Cariplo, Milano nell'Italia liberale: 1898 1922. Due date fatidiche, che vedono il capoluogo al centro della vita nazionale: tra le cannonate di Bava Beccaris (100 cittadini morti) e la partenza di Mussolini in vagone letto per "marciare" su Roma. Ieri come oggi non si può mai dire: lo studioso rifiuta accostamenti. Ma sviluppa argomenti che valgono piu' di riferimenti all' attualità. In sostanza, la vocazione di Milano sembra snodarsi a metà fra il mito e la reale forza economica, la fattività. Due sono la caratteristiche di questa Milano ("che vanno tutt'altro che in un senso pro Bossi"): "la proiezione europea", soprattutto al Nord, verso il mondo germanico e anglosassone: una bella differenza, quindi, "fra una proiezione europea e una balcanica o mediterranea". E la "tradizione moderata" di Milano, che si esprime persino in certe forme "sovversive". Turati e la Kulishoff sono cosa diversa dai socialisti di altre parti; anche i "fasci di combattimento" milanesi differiscono dai toscani e dagli emiliano romagnoli. Se Milano piange, Roma non ride. Azzarda De Felice: "Se c'è un mito della capitale morale, c'è un mito anche di quella reale". Paradosso o provocazione? Roma ha una storia, la romanità e i papi, ma "l'Italia ha solo due capitali: Napoli e Palermo", le uniche che ricordano Parigi, Madrid, Vienna. A De Felice dà man forte Giorgio Rumi (lo storico che con Adele Carla Buratti e Alberto Cova ha curato il volume, introdotto da Roberto Mazzotta). E vero, "Milano rappresenta un'instancabile incubatrice del nuovo che nasce nel Paese", ma resta "ambigua". E l'unica terra italiana per vicende storiche legata da "un cordone ombelicale all' Europa", ma "ha usato la politica europea per sopravvivere, per difendersi". Metaforicamente, come emerge dalla ricerca della Buratti, è il succedersi di progetti d'architettura, senza però che poi il disegno riesca a trovare la dimensione attuativa, propositiva. Anche se lo storico per mestiere si astiene dal presente, almeno pone le premesse per la morale da trarre: 1898 1922; ritornano espressioni come "lo Stato di Milano" (Crispi) e "ducato di Milano" (Sturzo); è il busillis dell'"ingovernabile Settentrione". Milano che volle l'unità, col Risorgimento, e si alleò per realizzarla al Piemonte che aveva monarchia, esercito, diplomazia, viene presto presa - dice Rumi - "da tentazioni ricorrenti di separatezza". L'inquietudine e l'insofferenza verso l'Italia uscita dal Risorgimento nascono da Milano, tra cattolici e socialisti; da qui parte l'interventismo di Albertini, ma anche Mussolini. Insomma, Milano tormentata tra uno Stato che vuole e ha contribuito a costruire, ma che invece non è come avrebbe dovuto essere. Insomma, un'Italia che non si riesce a incarnare. Ieri come oggi. Con l'angoscia, per chi non fa lo storico, di dover lavorare in tale dilemma. E vivere. Pagina 46 (17 dicembre 1993) - Corriere della Sera...
IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.
Corruzione, efficienza, calcio: ecco perché Milano batte Roma (6-0). Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano, scrive Elmar Burchia sul milanesissimo "Corriere della Sera".
1. La storica rivalità. Il problema dei milanesi con Milano? La criticano, sempre, comunque. Appena possono, infatti, fuggono dalla città. Dicono di non volerci vivere. Nonostante l’happy hour, nonostante la vita notturna, nonostante le opportunità di lavoro, nonostante lo shopping. Per i romani, invece, niente è come Roma: l’ottima cucina, il clima mite, la storia millenaria, la bellezza sfrontata. D’altronde, anche Audrey Hepburn in Vacanze Romane aveva risposto in maniera inequivocabile alla domanda su quale fosse la sua città preferita: «Roma! Certamente, Roma!». Se il New York Times ha piazzato il capoluogo lombardo al primo posto tra 52 destinazioni nel mondo da vedere nel 2015, la capitale d’Italia è finita in questi mesi sulle prime pagine dei giornali per altre ragioni - davvero poco invidiabili. La rivalità tra le due città esiste da sempre: tra un «c’avete solo la nebbia» e un «Roma Ladrona», la (spesso) interminabile discussione si sposta quasi sempre sul calcio. Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni miti e luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano: ecco, in sei punti, le conclusioni a cui gli analisti sono arrivati.
2. Resilienza economica. Nel corso della recessione più lunga dalla Seconda Guerra Mondiale (2000-2015), il pil pro capite nella regione Lazio è sceso del 24,3 per cento (da circa 36 mila euro a circa 29 mila), secondo le proiezioni Bloomberg. In Lombardia il calo è stato dell’8,5% (da circa 37 mila euro a poco più di 36 mila).
3. Disoccupazione. Il tasso di disoccupazione nella provincia di Roma è salito all’11,3 per cento nel 2014 (dati Istat). Milano e la Lombardia hanno registrato rispettivamente l’8,4% e l’8,2% di persone in cerca di lavoro - una situazione meno critica rispetto al resto all’Italia (ormai al 12,7%). C’è poi il problema del numero esorbitante di dipendenti pubblici, che affligge la capitale. Per esempio l’Atac (l’azienda che gestisce i servizi di trasporto a Roma) ha circa 12 mila dipendenti, mentre l’Atm di Milano ne ha circa 9 mila. Il Comune di Roma da solo conta circa 24 mila dipendenti, e aggiungendo anche le municipalizzate di acqua, rifiuti e trasporti si superano i 50 mila addetti.
4. Efficienza. Nel 2015, la rete metropolitana milanese ha superato i 100 chilometri, mentre Roma è ferma a 62 km. Vale la pena ricordare che Roma è sette volte più grande di Milano, con quasi il doppio della popolazione. Bisogna dire che creare una rete sotterranea per la metro nella città eterna è parecchio complesso. I mezzi pubblici a Milano trasportano ogni anno quasi 750 milioni di passeggeri; a Roma, i passeggeri che utilizzano autobus e tram sono circa 927 milioni, solo 273 milioni per la metropolitana. Il bike sharing nella capitale è stato un fiasco. Il servizio BikeMi a Milano invece riscuote sempre più successo: ha contato nel 2014 oltre 2,4 milioni di noleggi, un incremento del 244,7% dall’esordio (nel 2009), con un ulteriore +26,7% rispetto al 2013.
5. Fascino. È vero che la città eterna attira più di 10 milioni di turisti stranieri l’anno, rispetto ai circa 7 milioni che arrivano a Milano. Tuttavia, grazie a Expo 2015, il numero di turisti nel capoluogo lombardo è aumentato del 9 per cento a maggio e del 12 per cento a giugno di quest’anno (a Roma è salito del 5 per cento nel mese di giugno 2015).
6. Corruzione. Sia Roma che Milano sono finite al centro di vari scandali. Gli appetiti della mafia sui grandi lavori di Expo sono un fatto ormai, tristemente assodato. Lo testimoniano le decine di inchieste giudiziarie e gli arresti (oltre 15 da marzo 2014) che hanno messo in luce i legami tra imprenditori e famiglie mafiose. Ma nel 2015 Roma è finita sulle prima pagine per la sporcizia, i rifiuti e «Mafia Capitale»: da dicembre sono circa 80 le persone finite in manette e oltre 100 gli indagati.
7. Calcio. «Milan e Inter? Sono squadre di calcio. Roma e Lazio: sono religioni». Alla fine, scrive Bloomberg, si torna quasi sempre a parlare di pallone, di giocatori, di campionato. E di quale città può vantare più scudetti: Milan e Inter hanno entrambi 18 scudetti, la Roma ne ha 3 e la Lazio 2. E così la «finalissima» (sempre secondo Bloomberg) vede Milano vincente su Roma per 6 a 0. Anche se nell’ultimo campionato...
PARADOSSI SUL WEB. Ecco le ragioni per cui Milano è «la peggiore città al mondo». BuzzFeed, il popolare sito americano esprime - con ironia - tutta la propria ammirazione per il capoluogo lombardo, scrive ancora Elmar Burchia sul milanesissimo "Corriere della Sera". Gli americani adorano Milano. Non lo dicono solo i numeri: dei 3,8 milioni di turisti giunti nei primi cinque mesi di Expo, al primo posto si collocano proprio gli statunitensi. E per puro divertimento BuzzFeed, il popolare sito con oltre 200 milioni di utenti unici al mese, ha pubblicato nei giorni scorsi una classifica delle 32 ragioni per cui «Milano è il peggio in assoluto». Il sito, con una carrellata di foto e didascalie assolutamente ironiche, esalta per antitesi il capoluogo lombardo, proprio come aveva fatto ad aprile, poco prima dell’apertura di Expo, con le «39 ragioni per cui l'Italia è il peggior Paese al mondo».
1. Dunque, hai sentito grandi cose su Milano? Inizia così, con una bella immagine del Duomo, il singolare racconto di BuzzFeed che elogia la città di Milano. Il titolo: «Dunque, hai sentito grandi cose su Milano?».
2. Pensi che valga la pena farci una breve vacanza? La seconda immagine è quella della galleria Vittorio Emanuele II, uno dei punti di forza di Milano: grazie soprattutto alla presenza delle tante boutique griffate, la splendida struttura in stile neorinascimentale viene percorsa ogni giorno da migliaia di turisti, che rimangono affascinati dal passaggio coperto. Anche chi fa la più breve delle vacanze non può non vederla.
3. Be’, risparmia tempo e soldi...La terza immagine è quella di Borgo Pirelli, in zona Bicocca, un gioiello di 30 case in stile liberty nato nel 1921 per ospitare gli operai dell’omonima fabbrica che sorgeva proprio lì di fianco. Sullo sfondo le Alpi innevate in una (ahimé rara) giornata limpida.
4. Perché Milano non li vale...I Navigli: centro nevralgico della movida milanese. La (riuscita) riqualificazione della Darsena è uno dei progetti che Expo lascia in eredità a Milano e alla Lombardia.
5. E nessuno dovrebbe mai andarci! Altro gioiello: il Teatro alla Scala, il Piermarini.
6. Seriamente, guarda quanto è brutta! Ancora una veduta dei Navigli.
7. È come una brutta grande verruca sulla faccia dell'Italia. Di nuovo la Galleria Vittorio Emanuele, in uno scatto dall’interno.
8. È semplicemente ripugnante. Lo skyline di Milano visto dal Duomo: il santo sulla guglia sembra fissare i nuovi grattacieli di Porta Nuova.
9. Così ripugnante da essere al limite dell'insulto. La basilica di Santa Maria delle Grazie, situata nel cuore della città. L’imponente opera architettonica è legata in modo indissolubile all’affresco di Leonardo, il Cenacolo, conservato al suo interno, nel refettorio. Dal 1980 è sito patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
10. Questa città non ha classe. Il Duomo: simbolo del capoluogo lombardo, per superficie è la terza chiesa cattolica nel mondo (dopo San Pietro e la cattedrale di Siviglia). Per Expo, il Duomo è stato consegnato in tutto il suo splendore ai milanesi e ai tanti visitatori. La ristrutturazione è costata decine di milioni di euro.
11. Nessun mordente. I variopinti graffiti sulle saracinesche sono piaciuti agli autori del sito americano. Sull’argomento i milanesi hanno pareri discordi.
12. Nessuna vita culturale. Il Teatro alla Scala, uno dei più celebri al mondo: da oltre duecento anni ospita artisti internazionalmente riconosciuti. Fu inaugurato il 3 agosto 1778 con «L’Europa riconosciuta», dramma per musica composto per l’occasione da Antonio Salieri.
13. Non c'è arte. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie. Databile al 1494-1498, è la più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale.
14. Zero storia. L’espressione «Fabbrica del Duomo» è divenuta proverbiale per parlare di qualcosa che dura moltissimo tempo, perché la costruzione e la manutenzione della cattedrale di Milano sono un processo infinito. La Veneranda Fabbrica del Duomo fu istituita nel 1387, con il compito di provvedere all’amministrazione, alla conservazione e alla disponibilità per il culto del Duomo.
15. Davvero una pessima moda. Milano vuol dire moda. Assieme a New York, Londra e Parigi, è tra le capitali più importanti dell’industria del fashion. E gli americani questo lo sanno benissimo: alla Settimana della moda le star non mancano mai.
16. E assolutamente nessun senso per lo stile. Che i milanesi abbiano un sesto senso per la moda lo si può capire anche dal look dei motociclisti in strada. Il sito americano approva, i milanesi si lamentano del traffico.
17. Proprio no. Un’auto d'epoca in centro.
18. Qui non succede mai nulla. Il coro e l'orchestra del Teatro alla Scala durante l'evento di apertura di Expo 2015 in piazza Duomo.
19. Non c'è nessun posto dove andare nel fine settimana. Lago di Como, a circa 50 km da Milano
20. L'architettura è noiosa. Il Bosco Verticale, a Porta Nuova, progettato da Stefano Boeri, che si è aggiudicato l’International Highrise Award 2014 vincendo su 800 grattacieli di tutti i continenti.
21. Non hanno proprio immaginazione... Le Residenze Zaha Hadid a CityLife. L’architetto anglo-iracheno ha anche progettato lo «Storto», il secondo grattacielo di CityLife - 44 piani per 170 metri di altezza - che sarà pronto entro il 5 ottobre 2016. Il «Dritto», la torre Isozaki, aspetta i tremila dipendenti di Allianz (arriveranno nel 2017).
22. È datata. La Torre Unicredit, 239 metri di altezza, è collocata a ridosso di corso Como e della Stazione Garibaldi. Cuore del complesso è la piazza Gae Aulenti. È stata progettata dall’architetto César Pelli ed è sede della direzione generale di UniCredit. Tutt’altro che datata, è stata inaugurata l’11 febbraio 2014.
23. Il tutto è semplicemente orribile. E qui vien quasi voglia di dar ragione al titolo: risente proprio dello stile del Ventennio la «porta urbana» che, secondo il proposito dei progettisti, avrebbe segnato il passaggio dall’antica alla nuova città. Ma evidentemente agli autori del sito americano è piaciuto anche l’Arengario, palazzo costruito negli anni Trenta su progetto degli architetti Portaluppi, Muzio, Magistretti e Griffini e sopravvissuto ai bombardamenti del 1942. Ora ospita il Museo del Novecento.
24. Urta i miei sentimenti. Lo skyline di Porta Nuova: a sinistra il Diamante.
25. Davvero, vorresti andarci? L’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II.
26. Vorresti passeggiare per queste strade? Il nome Brera deriva da braida: terreno incolto, ortaglia. Oggi questo quartiere pullula di negozi, bar, ristorantini. E di tanti, ma davvero tanti, turisti.
27. Sederti su questa fontana? La «torta degli sposi» in piazza Castello, ricostruita dopo i lavori per la linea 1 della metropolitana. Il Castello Sforzesco, fondato da Galeazzo II Visconti, venne ricostruito da Francesco Sforza nel 1450, che affidò al fiorentino Antonio Averlino il compito di realizzare la spettacolare torre dell’orologio. Una curiosità: alla fine dell’Ottocento si pensò seriamente di abbatterlo per sostituirlo con una fila di palazzi residenziali. Alla fine venne salvato dall’intervento (provvidenziale) di Luca Beltrami che ne curò poi anche la ristrutturazione.
28. Guidare attraverso questo arco? In effetti non si può passare in auto sotto l’Arco della Pace, ma si vede che agli americani l’idea piace. La costruzione dell’Arco della Pace, progettato nel 1807 da Luigi Cagnola, fu interrotta dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo; venne terminata per volontà di Francesco I d’Austria. È uno degli ingressi del Parco Sempione, e tutta l’area circostante è pedonale.
29. Dovresti essere pazzo per voler vivere in un posto del genere! Via della Spiga, una delle zone più lussuose e centro dello shopping dell’alta moda a livello mondiale. Sono in pochi quelli che possono dire di viverci.
30. Quindi credimi quando dico: non visitare mai Milano! Perché è la peggiore in assoluto! La carrellata si conclude con un’immagine tipica di turisti in piazza Duomo: un invito per i cittadini americani.
INVECE NO! TUTTI UGUALI. ROMA –MILANO, ITALIA. cOME NEL '92.
Questa volta nel mirino di Crozza finisce Mario Mantovani, il vicepresidente della regione Lombardia (ed ex assessore alla salute) finito in manette proprio poco prima di partecipare alla "giornata della legalità". come chiosa il comico genovese. “Oggi a Milano hanno arrestato il vicepresidente della Regione Lombardia, ex assessore alla sanità. Doveva partecipare alla giornata della trasparenza e della legalità, ma è stato arrestato "un secondo prima". Voi avete mafia capitale e a Milano abbiamo sanità criminale”, scherza il comico nella copertina Di Martedì del programma di La7 del 13 ottobre 2015, in onda su La7, condotto da Giovanni Floris. Quanto all'accusa di aver truccato gli appalti per il servizio di trasporto dei malati in dialisi, commenta "Di fronte a questo gli scontrini di Marino sono bazzecole", dice Crozza. «Voi avete Mafia Capitale a Roma e noi Sanità regionale. Tu mi dirai cosa c’entra? Da voi è Cosa Vostra, da noi Cosa Nostra, il bicamorrismo è perfetto». Crozza ha notato che l'accusa rivolta al vice presidente della Regione guidata da Bobo Maroni è quella di aver fatto "la grana sui dializzati". Se ne conclude che "mentre al Nord fottevano i malati, a Roma fottevano il medico", con riferimento alle dimissioni di Ignazio Marino: Marino come dottor House, solo che il bastone al momento non gliel'hanno messo proprio in mano. (...) Ieri al Campidoglio 2000 persone chiedevano a Marino di restare. Tutta gente che era stata a cena con lui, tra l'altro. Quindi un passaggio su "Sabrina Ferilli che fa il caxxiatone al Papa" e sulle idee del Premier per il post Marino nella Capitale: Renzi vuole sostituire Marino con 1 commissario e 8 sottocommissari. 9 al posto di 1, vedi che il Jobs Act funziona! Su Marino: «La data per le dimissioni ufficiali è il 2 novembre, il giorno dei morti. E’ sfigato, dai non gliene va bene una».
Se Roma Piange, Milano non ride. Maroni farebbe bene a dimettersi, scrive “On Line News”. Se Roma piange Milano non ride, espressione consunta ma tremendamente efficace. Mettiamo pure da parte il luogo comune ma la situazione si fa veramente difficile, la corruzione sembra una pianta inestirpabile che condizione sempre più la politica. Certo dove ci sono i grandi affari si sono i corrotti, i corruttibili e i corruttori. Milano e Roma in prima fila. Ma si poteva ragionevolmente pensare che la storia avesse insegnato qualcosa. Invece ci cascano tutti e gli sviluppi della corruzione scoperta, del malgoverno, del malaffare, trascinano a fondo la politica e i politici. Che reagiscono in modo diverso. Ma sostanzialmente lasciano malvolentieri incarichi e poltrone, come se la colpa fosse di altri, o almeno condivisa. Pochi che si facciano da parte spontaneamente. Marino è rimasto aggrappato al suo scranno come una cozza, si è fatto massacrare e difficilmente, al di là delle utopie, avrà un futuro politico. Maroni, presidente della regione Lombardia rischia di essere trascinato nello stesso vortice. Si fosse presentato alla stampa con le dimissioni in tasca con un discorsetto del tipo: non potevo non sapere e se non me ne sono accorto sono un pessimo presidente. Sarebbe stato un atto di dignità che gli avrebbe procurato applausi, consensi e lo avrebbe tenuto in partita. Così come si sta comportando, invece, rischia grosso. Credibilità a picco, palla nel campo avversario, demolizione mediatica. Provare per credere.
Mantovani e le tangenti in Lombardia. l’ira di Salvini, che si autodenuncia «Segnalavo associazioni benefiche». Il leader leghista: a Garavaglia accuse assurde, colpiti perché cresciamo, scrive Marco Cremonesi su “Il Corriere della Sera”. «Sono stanco. Stanco e inc...». Matteo Salvini è in tour per l’Emilia. Il tono è secco, molto più cupo del solito:
«Sa che faccio? Mi autodenuncio. Sono colpevole».
E di che cosa?
«Di segnalazione. Al posto di Garavaglia, lo avrei fatto anche io. Anzi, l’ho fatto: da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò».
Il segretario leghista sta arrivando a Parma per un comizio. Salvini mette fuori dal finestrino dell’auto il telefonino, si sentono rumoreggiare dei cori. Sono leghisti festanti? No, sono militanti dei centri sociali:
«Li sente? - grida Salvini nel telefono - sono i democratici urlanti e lancianti che cercano di impedirmi di parlare. Poi, però, chi viene indagata è una persona come Garavaglia perché avrebbe segnalato un’associazione di ambulanze. Senza prendere un euro, beninteso. Pazzesco, pazzesco...».
Secondo la procura di Milano, Garavaglia avrebbe agito per mantenere o aumentare
il suo consenso elettorale. Almeno come ipotesi, è ammissibile. O no?
«Macché, mi faccia il piacere... Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una
persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su
uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca».
Lui ha detto che ci deve essere un errore. Lei non la pensa così?
«Di nuovo, mi faccia il piacere... Guardi, giusto ieri (lunedì) ero stato un facile profeta. Al consiglio federale della Lega avevo detto: ragazzi, visto che siamo in crescita, prepariamoci. I sondaggi ci danno al 15,2 per cento e per fermarci le proveranno tutte. E in effetti, eccoci qui. Un’inchiesta che segna un primato».
Quale primato?
«È la prima indagine al mondo in cui si accusa una persona di aver cercato di dare una mano ad un’associazione benefica. Peraltro, senza riuscirci. Per l’ufficio di Garavaglia passano qualcosa come venti miliardi di euro».
Beh, la proroga dell’incarico all’associazione Croce azzurra Ticinia la avrebbe comunque favorita.
«Ma quale favorita, se poi non ha vinto? Comunque, ripeto: io l’avrei fatto e lo rifarei. Se c’è una Croce di qualsiasi colore, un’associazione che conosco e stimo, per farli partecipare a un bando io telefono anche al presidente della Repubblica».
La vicenda di Mantovani è altrettanto irrilevante, dal suo punto di vista?
«Non mi permetto di commentare l’indagine che riguarda Mantovani. E peraltro non ne so nulla, anche se lui mi pare una brava persona. In ogni caso, quella sembra un cosa diversa, che non riguarda l’aiuto alle ambulanze. Per quanto mi riguarda, mi permetto soltanto di dire che sono vicino a un padre a cui è nato un figlio dieci giorni fa (il capo di gabinetto dell’assessorato alla Sanità, Giacomo Di Capua), per un qualcosa che riguarda fatti che risalgono come minimo a un anno fa».
Insomma: un complotto?
«Beh, nel passato già ci hanno
provato. Si ricorda quando per due anni hanno cercato dei soldi che ci avrebbero
dato degli indiani per degli elicotteri. Poi, l’inchiesta (quella su
Finmeccanica ndr ) è stata archiviata. Perché non c’erano soldi, non c’erano
indiani, non c’erano elicotteri».
Ma quale sarebbe lo scopo?
«A qualcuno dà fastidio la sanità lombarda. Un solo numero: l’anno scorso in Lombardia sono venute da altre regioni per farsi curare tante persone da fare 872 milioni di fatturato. Un record europeo. Chissà, forse un po’ d’invidia...».
Scusi, che c’entra l’invidia?
«Massì, e allora la dico più chiara: forse qualcuno vuole coprire e far dimenticare i problemi del Pd e di Ignazio Marino? E Montepaschi? Nessuno ha pagato, tranne gli italiani. La Lombardia è la Regione meno costosa per i cittadini. E a qualcuno dà fastidio che la Lega, il partito delle ruspe e delle felpe, sia al governo nelle Regioni che producono il 30 per cento del Pil».
Come cambia Salvini se lo scandalo è a Roma o a Milano. Il leader della Lega tuona contro i giudici: "Si tratta di un attacco politico per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino". Il tutto a pochi giorni dalle dichiarazioni del governatore Maroni, che vede nel numero uno del Caroccio un buon candidato per la poltrona di sindaco di Milano, scrive Selene Ciluffo il 14 Ottobre 2015 su Today. Dopo l'arresto del vicepresidente della regione Lombardia, uno dei primi a schierarsi a fianco di Mario Mantovani è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Lo fa "berlusconianamente" apparendo su tutti i media possibili (dalle televisioni ai giornali) e prendendosela con i giudici: "Un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia magari per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino e Renzi. C’è stata una giornata di sputtanamento mediatico sulla migliore sanità europea e anche sulla Lega". Per questo secondo il leader del Carroccio la giunta lombarda non sarebbe a rischio, nonostante la mozione di sfiducia pronta di Pd e M5s. D'accordo con lui anche il governatore Roberto Maroni: "Salvini ha ragione, si tratta di un attacco politico". Mantovani è accusato di corruzione per aver favorito un architetto, Gianluca Parotti, nell’ottenimento di incarichi in appalti pubblici, compresi lavori in diversi ospedali lombardi, in cambio di prestazioni gratuite nei propri affari immobiliari privati. La Lega fa quadrato intorno a un berlusconiano di ferro a pochi mesi dalle elezioni comunali milanesi, previste per la primavera del 2016. E quando si è parlato di un possibile candidato, Lega e berlusconiani si sono trovati d'accordo su un nome: Matteo Salvini. Ovviamente la procura milanese la pensa in maniera diversa dal leader della Lega: per il pm Giovanni Polizzia, l'unico modo per "interrompere il funzionamento della concatenazione delittuosa" è quello di "neutralizzare Mantovani". Parole pesanti, sottoscritte anche dal gip Stefania Pepe, nelle carte dell’inchiesta che ha portato all’arresto del vicepresidente della regione Lombardia. La sua sarebbe una "fittissima rete di relazioni" da cui risulta "evidente che l'unica misura effettivamente in gradi di prevenire sia la commissione di nuovi delitti che, soprattutto, le attività di condizionamento ed intervento sulla genuinità delle prove (già peraltro avviate) sia quella massima della custodia cautelare in carcere”. Il leader della Lega è anche entrato nel merito dell'inchiesta della procura, prendendo le difese anche di Massimo Garavaglia, assessore regionale all’Economia e braccio destro di Maroni. Garavaglia è indagato per turbativa d’asta, insieme a Mantovani e altri, nel filone di una gara d’appalto per il trasporto dei dializzati, cancellata a esito già stabilito, secondo l’accusa per far rientrare in gioco alcuni operatori delle Croci con sede nei bacini elettorali dei due politici. Salvini usa i social per schierarsi con gli indagati. “Da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò”. In realtà secondo la procura di Milano Garavaglia non ha semplicemente fatto delle segnalazioni, ma si sarebbe adoperato per annullare una gara d’appalto già assegnata per il servizio di trasporto dei malati di reni bisognosi del trattamento di dialisi. Ma questo al leader della Lega non interessa: “Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca”. Per Salvini si tratta di una vera e propria campagna, visto che il Carroccio, in particolare negli ultimi mesi, ha aumentato i propri consensi nei sondaggi e di conseguenza "la giunta non deve dimettersi". Diversa invece era stata la reazione di Salvini quando lo scandalo aveva coinvolto la giunta e la città di Roma. Dopo lo scandalo di Mafia Capitale, Salvini aveva marciato sul Campidoglio chiedendo a gran voce le dimissioni del sindaco Marino. Non solo: in merito all'amministrazione capitolina, il leader della Lega non ha mai negato la necessità di "onestà, trasparenza e pulizia". Parametri però che non vengono applicati alla giunta lombarda, fatta secondo il leader del Caroccio da "brave persone". Eppure qualche dubbio la procura milanese su questo lo ha avuto: tanto da far scattare dei provvedimenti cautelari, come gli arresti domiciliari.
Tangenti nella sanità, arrestato il numero due del Pirellone Mario Mantovani. Uomo forte di Berlusconi in Regione, ex senatore e fino ad agosto assessore alla sanità. È accusato dei reati di concussione e corruzione aggravata. Indagato anche il Richelieu di Maroni, il leghista Massimo Garavaglia, scrive Michele Sasso il 13 ottobre 2015 su “L’Espresso”. Un terremoto scuote il Pirellone: arrestato Mario Mantovani, numero due in Regione Lombardia a fianco di Roberto Maroni e fino ad agosto potente assessore alla sanità. Il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ha comunicato che è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Mario Mantovani per i reati di concussione, corruzione aggravata e turbata libertà degli incanti. Arrestati, per gli stessi reati, Giacomo Di Capua, collaboratore di Mantovani e dipendente regionale, e Angelo Bianchi, ingegnere del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria. Nell’ambito della stessa indagine è indagato per turbativa d’asta anche l’assessore all’Economia della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, ex parlamentare della Lega e potente Richelieu di Maroni: ogni decisione della giunta passa dalla sua approvazione. L'inchiesta riguarda il periodo tra il 6 giugno 2012 e il 30 giugno 2014 per tangenti negli appalti della sanità. In quel periodo Mantovani faceva la spola tra Roma come senatore e sottosegretario ai Trasporti nel governo Berlusconi e la sua città natale Arconate, dove ha fatto il sindaco ininterrottamente dal 2001. Solo nel 2013 ha lasciato la Capitale per diventare vicepresidente della regione Lombardia. Secondo il pubblico ministero Giovanni Polizzi, Mantovani avrebbe sfruttato l’influenza derivante dalle sue numerose cariche per pilotare alcune gare d’appalto nel settore sanitario, favorendo liberi professionisti in concorso con altri pubblici ufficiali e ottenendo in cambio «mazzette» non sotto forma di denaro, ma di prestazioni di professionisti. Arrivando al Senato, il presidente di Forza Italia commenta la notizia dell'arresto per corruzione di Mario Mantovani, vicepresidente della Regione Lombardia ed esponente di spicco dei forzisti a Milano di Marco Billeci e Angela Nittoli. Per esempio, avrebbe ottenuto che i lavori di ristrutturazione di alcuni immobili di sua proprietà venissero realizzati da un architetto «amico», che in cambio avrebbe ottenuto alcuni incarichi pubblici e vinto alcune gare d’appalto. L’accusa di turbativa d’asta deriva dal fatto che Mantovani avrebbe contribuito a pilotare gare pubbliche relative tra l’altro al trasporto di pazienti dializzati, all’edilizia scolastica e alle case di riposo. Nell’elenco sono finiti anche la casa di riposo Opera Pia Castiglioni a Cormano e la struttura di Casorezzo. Entrambe controllate dall’impresa di famiglia, la fondazione Mantovani (in memoria della sorella Ezia, Mario è presidente), e poi appartamenti e uffici ad Arconate, la cascina dove abita il politico e immobili di alcuni familiari. Secondo l’accusa avrebbe anche fatto pressioni a un dirigente del provveditorato alle Opere pubbliche per far ottenere incarichi a persone a lui vicine. Tra politica e business, Mantovani è l’uomo forte di Forza Italia: è stato il più votato dai lombardi (quasi 13mila preferenze nel 2013), tanto da autodefinirsi “sindaco di Lombardia”. Partito dal comune dell’hinterland milanese di Arconate, ha costruito da qui la sua carriera politica e imprenditoriale: 65 anni, docente, imprenditore, europarlamentare. Nel 2008 il grande salto a Roma come senatore e sottosegretario alle Infrastrutture e trasporti. E allo stesso tempo coordinatore del Popolo della Libertà per tutta la regione-simbolo del potere degli azzurri. Negli affari il core business di questo epigono di Berlusconi è proprio la sanità, come raccontato da “l’Espresso” alla vigilia della campagna elettorale che ha portato Roberto Maroni all’ultimo piano di Palazzo Lombardia. Di Mantovani si è parlato per un conflitto d'interessi, visto che i suoi affari di famiglia prosperano grazie anche ai contributi della Regione. Gli assi nella manica sono la fondazione Mantovani e la cooperativa Sodalitas, dove siede come presidente del consiglio di amministrazione la moglie Marinella Restelli. L’attività principale è la progettazione, costruzione e gestione della residenze socio assistenziali, le Rsa per anziani. Già nel 1996 dalla giunta guidata dal compagno di partito Roberto Formigoni arrivano oltre 14 milioni dai fondi sanitari come strutture accreditate per la cura degli anziani: la Regione rimborsa con soldi pubblici una quota della retta giornaliera. Nelle voci a bilancio anche 4 milioni e 300 mila euro a fondo perduto per costruire "infrastrutture sociali" proprio ad Arconate. A San Vittore Olona nel 1997 la fondazione acquista dalla parrocchia locale il diritto di superficie per 40 anni, grazie all'imprimatur del Pirellone che certifica con una delibera che il progetto «è finalizzato alla realizzazione di una Rsa per 60 anziani non autosufficienti». L'affare delle case di riposo si allarga e vengono inaugurate nuove strutture, tutte nel milanese. Nel 2003 la casa famiglia di Affori, periferia nord di Milano, e a pochi chilometri un altro centro a Cormano. E poi l'Hospice di Cologno Monzese con posti letto ad hoc per malati terminali e centro diurno. Gli affari non si arrestano neppure con le inchieste della magistratura che svelano la corruzione milionaria della sanità lombarda e travolgono l’ex governatore Roberto Formigoni: ad aprile 2012 altri 40 posti per il centro di Cormano. Oggi i posti letto sono oltre 400, un piccolo impero di residenze che ha permesso alla cooperativa Sodalitas di chiudere il bilancio 2011 con un giro d'affari di 18 milioni e utili per 687 mila euro. A conti fatti la Regione ogni anno stacca un assegno da 6 milioni di euro per le due creazioni di Mantovani. E nessun dubbio quando è stato il momento di decidere a chi assegnare l’assessorato alla sanità, una poltrona cruciale dove si decidono finanziamenti per quasi 8 miliardi di euro. L’uomo forte di Berlusconi doveva fare il custode di questo tesoretto.
Il tuttofare del potente politico forzista si dovrà occupare di: "analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici". Peccato abbia solo il diploma e nessuna competenza in materia, scrivono Marzio Brusini ed Ersilio Mattioni il 21 luglio 2014 “L’Espresso”. Mario Mantovani, vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla Sanità, ha garantito una consulenza da 16 mila euro per il suo autista-segretario, il 21enne Fabio Gamba, per occuparsi di “analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici”. C'è da chiedersi con quali competenze. E infatti è lo stesso Gamba il 6 maggio scorso in un comune alle porte di Milano, Arconate, a svelare l'arcano: “Non ho nessuna esperienza - dice - e questo potrebbe essere apparentemente un problema, ma in realtà fortunatamente so di poter contare sulla competenza e sull’esperienza del nostro fuoriclasse, Mario Mantovani”. O più semplicemente basta essere il vicepresidente della Regione, per procurare al proprio autista-segretario un incarico. Non di certo il primo perché già nel 2013, il “fuoriclasse” Mantovani assicura al suo tuttofare una consulenza, da maggio a dicembre, per 10 mila euro per svolgere mansioni ancora oggi avvolte nel mistero. Il sito web di Regione Lombardia, alla voce consulenze, non brilla per trasparenza e l’interessato, interpellato all’epoca dei fatti, aveva risposto in modo evasivo: “Lavoro nello staff del vicepresidente”. "Non ho nessuna esperienza, ma so di poter contare sul nostro fuoriclasse, Mario Mantovani". Chi parla è Fabio Gamba: 21 anni, diplomato al liceo di Arconate e autista dello stesso Mantovani. L'occasione per questo discorso è la presentazione, lo scorso 6 maggio, di una lista per le elezioni comunali. Dopo Gamba a prendere la parola è lo stesso Mario Mantovani, assessore della Sanità e vicepresidente forzista della Lombardia, che ricorda come lui preferisca "segnalare la gente di Arconate". Detto, fatto: l'autista tuttofare, senza alcuna competenza, ha ottenuto una consulenza al Pirellone da 16 mila euro per "analisi dei costi della spesa farmaceutica territoriale ospedaliera, oltre che presidio tavoli tecnici"di Ersilio Mattioni. Anno nuovo, consulenza nuova. Ed ecco il nome di Gamba compare ancora nell’elenco degli incarichi fiduciari, ai sensi della legge regionale 20 del 2008. La normativa, 57 pagine, regola ogni tipo di rapporto di lavoro dentro il Pirellone. Leggendo il testo ci si imbatte decine di volte nelle parole “merito”, “controllo” e “trasparenza”. Fino all’articolo 23, quello relativo alle segreterie degli assessori. Il comma 7 recita testualmente: “Può essere assunto personale esterno all'amministrazione regionale”. E tanti saluti, fatta salva la competenza che deve possedere chi riceve un incarico. Nello specifico, l’autista-segretario di Mantovani dovrà dimostrare di intendersene del costo dei farmaci e pure del lavoro utilizzo negli ospedali. E vantando solo un diploma al liceo linguistico di Arconate non deve essere particolarmente facile. Il curriculum del ragazzo di bottega di Mantovani è comunque ricco di spunti interessanti. Nel 2009 è in stage “presso la segreteria politica del sottosegretario di Stato Sen. Mario Mantovani in via Giolitti 20 ad Arconate”; nel 2010 fa l’educatore al “centro vacanze giovani di Igea Marina, in provincia di Rimini”, gestito da una cooperativa della famiglia Mantovani; nel 2011 lavora nella sede romana del fu ‘Popolo della Libertà’ in via dell’Umiltà; nel 2012 presta una collaborazione occasionale in Rai, sempre a Roma, dove però nessuno si ricorda del suo passaggio. E’ iscritto all’università Bocconi di Milano, anche se gli esami, causa la sua intensa attività al fianco del vicepresidente della Lombardia, vanno un po’ a rilento. Il suo curriculum si chiude con una perla: “Ulteriori informazioni: La mia più grande passione è la Politica”. ‘P’ maiuscola, per carità. Ma per quale motivo questa grande passione deve essere spesata dai lombardi con consulenze fantasiose? Spesata dai lombardi pure la spedizione del mese scorso in terra giapponese in occasione della festa della Repubblica: tre notti a Tokyo da 2 giugno al 5 giugno. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un’inchiesta sulle missioni internazionali del ‘World Expo Tour’, alle quali lavora anche Maria Grazia Paturzo, una delle due donne che il governatore Roberto Maroni avrebbe fatto assumere nella società Expo 2015 (stipendio mensile: 5 mila euro), mentre l’altra, Mara Carluccio, è finita in Eupolis, ente controllato dal Pirellone. Per i magistrati bustocchi quello di Tokyo sarebbe stato un “viaggio in stile prima Repubblica”. Di diverso avviso il capogruppo di Forza Italia al Pirellone, Claudio Pedrazzini, ex assistente di Mantovani a Strasburgo nel 1999: “Il viaggio sarebbe finito nel mirino dei magistrati. Ma sulle altre missioni analoghe nessuno ha nulla da dire?” Difesa rocciosa. Ma Pedrazzini riesce persino a peggiorare la situazione: “A quel viaggio hanno partecipato quattro persone (doveva andare il presidente Maroni, sostituito il giorno prima della partenza dallo stesso Mantovani) e il costo totale è stato inferiore ai 25mila euro”. In pratica, 6 mila euro a persona. Fra volo, alberghi e ristoranti i rappresentanti della Regione devono essersi trattati bene. Assieme all’assessore alla sanità c’era anche, non è ben chiaro a che titolo, il suo autista-segretario Gamba. Il quale, lo stesso 2 giugno, postava su Facebook una foto di Mantovani a Tokyo con tanto di messaggio del vicepresidente lombardo, che con la consueta modestia si attribuiva il merito di aver portato Expo a Milano: “Questa mattina ho preso parte alle celebrazioni per la festa della Repubblica presso l'ambasciata italiana a Tokyo, in rappresentanza della Lombardia e del nostro paese. Dopo essermi impegnato nel 2008, da parlamentare europeo, affinché Milano ottenesse l'assegnazione di Expo 2015, in questi giorni con il ‘World Expo Tour’ stiamo promuovendo con soddisfazione l'evento in tutto il mondo. Buona festa della Repubblica a tutti! Viva l'Italia!”. Gamba, interpellato il 6 giugno di ritorno dal Giappone dal cronista Paolo Puricelli del settimanale ‘Libera Stampa l’Altomilanese’ sulle spese del viaggio, aveva replicato: “Fortunatamente posso pagarmelo da solo (la famiglia Gamba-Trimboli è fra le più ricche di Arconate). Visto però il vostro interesse per i miei viaggi, la prossima volta vi manderò una cartolina”. Intanto basterebbe sapere a che titolo possa redigere un'analisi dei costi della spesa farmaceutica degli ospedali lombardi. Per le cartoline c'è sempre tempo.
Mario Mantovani e Massimo Garavaglia intercettati mentre discutevano del nostro articolo. Che aveva anticipato il nuovo business delle ambulanze., scrive Gianluca De Feo su “L’Espresso” il14 ottobre 2015. Mario Mantovani e Massimo GaravagliaI due uomini chiave del potere lombardo si scrivono via sms. Da una parte c'è il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e braccio destro del governatore Roberto Maroni, ora indagato. Dall'altra Mario Mantovani, berlusconiano della prima ora, vicepresidente della Regione e assessore alla Sanità, da ieri in cella a San Vittore. A preoccuparli è un'inchiesta de “l'Espresso”, pubblicata a marzo 2014, che metteva in luce il cuore dello scandalo: “Assalto all'ambulanza. Fuori i volontari, il soccorso diventa un affare”. I due si stavano muovendo proprio per azzerare un appalto sul trasporto di pazienti in dialisi: undici milioni l'anno. Una torta che vede scendere sul sentiero di guerra una galassia di croci e associazioni di lettighieri, alcune professionali, altre di puro volontariato, diverse con agganci politici. Garavaglia manda quindi un messaggino a Mantovani, intercettato dalle Fiamme Gialle. «Su l'Espresso questa settimana ho trovato un articolo dal titolo Assalto all'ambulanza. Evidenzia quel che dicevamo ieri. Il servizio è ad alto rischio. Mi arriva qs per croce azzurra». La risposta è sintetica: «Sto lavorando martedì ne parliamo». E il leghista chiude la chat: «Grazie». Poche frasi, che vengono incluse nell'ordine di cattura per il numero due del Pirellone, perché secondo gli inquirenti evidenziano l'interesse di Garavaglia e le attività illecite di Mantovani per riaprire un appalto pubblico già chiuso. Una gara dove venivano richieste garanzie finanziarie e tecniche, che avrebbero tagliato fuori alcune realtà più piccole del soccorso. Come la Croce Azzurra Ticinia Onlus, sponsorizzata da Garavaglia che si sarebbe attivato con il ras della Sanità Mantovani. L'interesse dei due politici è convergente: Mantovani interviene sul vertice della Asl Milano 1 «affinché non venissero escluse Croci definite dallo stesso assessore “nostre”». A muovere la coppia di assessori ci sono interessi di campanile: le associazioni di volontariato operano nei “loro” comuni, in quell'area dell'hinterland milanese dove Garavaglia è stato sindaco e Mantovani all'epoca lo era ancora. Il sostegno alle Croci che gestiscono le ambulanze significa voti e consenso. Ma nel momento in cui le Onlus – che per definizione non dovrebbero avere finalità di lucro – entrano in affari da decine di milioni di euro, il quadro cambia radicalmente. Perché le autolettighe diventano di fatto un'azienda, che gestisce fondi e assunzioni. Proprio quello che per primo “l'Espresso” ha raccontato con l'inchiesta di Michele Sasso: “Assalto all'ambulanza. Il soccorso diventa un business. L'obiettivo non è più salvare ma incassare”. Parole che vengono sottolineate dall'assessore Garavaglia nel suo sms allarmato per l'articolo: «Fuori i volontari il soccorso diventa un affare». La nostra inchiesta descriveva la metamorfosi del settore, dove una deregulation strisciante trasforma le onlus in cavalli di Troia per le operazioni di politici e mafiosi, il tutto a danno del vero volontariato. Un'analisi confermata dalla procura di Milano: «Il problema di queste Croci è di tipo economico. Tali associazioni pur essendo state escluse dalla gara non solo vogliono recuperare l'affidamento del servizio ma lo vogliono a condizioni più favorevoli di quelle previste nella gara». Il procedimento per turbativa d'asta può apparire una storia piccola. Matteo Salvini parla di «un'indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti. Lo accusano di avere cercato di dare una mano a un'associazione benefica». Certo. Ma questa vicenda mostra come pur di assecondare il desiderio di un assessore si arrivi a svuotare una gara di appalto pubblica già conclusa, innescando un circuito colossale di conflitti di interesse fino a raggiungere il risultato. Vengono mobilitati decine di dirigenti regionali e funzionari delle Asl per garantire incassi di poche migliaia di euro alla Croce Azzurra Ticinia tanto cara a Garavaglia. E proprio seguendo le mani che si sono mosse per gestire questa pratica i magistrati hanno ricostruito gli assetti di potere nella Regione. Monitorando così i rapporti di forza tra Lega, Forza Italia e Ncd; i settori di lottizzazione e la mappa dei centri di spesa nella sanità pubblica dell'era Maroni. Un'attività di indagine che potrebbe presto portare a vicende molto più rilevanti delle ambulanze.
ALTRO CHE ROMA LADRONA.
Diffusione parziale, incasso globale: Radio Padania e i contributi pubblici controversi. Grazie a un'apposita norma del governo Berlusconi, quella del Carroccio è considerata un'emittente nazionale a carattere comunitario. E per questo, insieme a Radio Maria, riceve da anni finanziamenti milionari. Anche se il segnale analogico copre solo mezza Italia: appena 9 regioni su 20, scrive Paola Fantauzzi il 5 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Chissà se alla fine Matteo Salvini il bonifico l'ha fatto davvero. Davanti alle ricorrenti voci sulla chiusura di Radio Padania, nei mesi scorsi l'ex direttore e ora segretario del Carroccio aveva promesso di destinare 5 mila euro (invitando tutti i dirigenti a fare lo stesso), così da trovare soldi “in maniera onesta”. Un punto d'onore, per un politico che su quei microfoni ha costruito la sua fortuna politica fino a scalare la vetta del partito. Di certo per l'emittente di via Bellerio rischiano di profilarsi tempi ancora più bui degli attuali, già segnati da una dura crisi a causa del taglio dei finanziamenti pubblici. Grazie a un emendamento ad hoc infilato nella finanziaria del 2003 (da un parlamentare leghista, ça va sans dire) Radio Padania riceve infatti, insieme alla cattolicissima Radio Maria, un contributo tutto speciale quale “emittente comunitaria a carattere nazionale”. Tradotto: non una comune realtà locale e commerciale ma l'espressione di particolari istanze culturali, politiche o religiose e senza scopo di lucro. Per effetto di questa specificità, le due stazioni hanno diritto a dividersi da sole il 10 per cento dei fondi destinati alle emittenti legate al territorio. In pratica il grosso della torta, dato che in tutto i beneficiari sono un migliaio. Solo considerando l'ultimo triennio per il quale sono disponibili i dati, si tratta di circa 2 milioni a testa per Radio Padania e Radio Maria. Una cifra che sale ulteriormente se si risale indietro nel tempo: soltanto fra il 2008 e il 2009, come si evince da un'interrogazione parlamentare della scorsa legislatura, ciascuna incassò un altro paio di milioni. Soldi peraltro erogati assai generosamente da Roma ladrona, non essendo prevista alcun tipo di rendicontazione. Il problema è che, se si ha carattere nazionale, si presuppone sia sufficiente accendere una radiolina in qualunque angolo del Paese per mettersi all'ascolto. Invece per l'emittente padana non è affatto così. Come si evince dalla sezione del sito dedicato alle frequenze, il segnale analogico viene diffuso soltanto in nove regioni (Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Sardegna), mentre nel resto d'Italia bisogna far affidamento sul segnale digitale del consorzio Eurodab. Ma si può definire nazionale una realtà del genere? No, secondo la Corte dei conti. Al contrario, osserva la magistratura contabile in una relazione dedicata a tv ed emittenti locali, questa situazione “potrebbe avere effetto anche sulla ricorrenza dei presupposti per l’erogazione dei contributi, dal momento che appare legata al carattere di nazionalità, inteso come diffusione analogica del segnale su tutto il territorio italiano”. Di conseguenza, niente trasmissione nazionale, niente soldi. Per lo meno non nella forma attuale. Adesso spetterà al ministero dello Sviluppo economico, che eroga il denaro, “compiere accertamenti sulla diffusione del segnale analogico sull'intero territorio nazionale”, come invita la Corte. A norma di legge, il dicastero guidato da Federica Guidi ha sei mesi per rispondere ai rilievi. E se svolgerà i controlli suggeriti, Radio Padania - già alle prese con quasi un milione di rosso - rischia di subire un altro duro colpo economico. Per rispondere al quale, dopo le cene di autofinanziamento, difficilmente basterà la campagna abbonamenti lanciata da Salvini stesso: sottoscrizioni da 90 a 300 euro l'anno, dai nomi evocativi Monviso, Venezia, Pontida, oltre all'immancabile Ruspa, la più costosa ovviamente. In cambio, tutta una serie di “opportunità riservate”, come vengono definite, dalla prelazione a intervenire in diretta ai posti riservati nei grandi eventi organizzati dalla Lega. In fin dei conti un abbonato padano ha sempre un posto in prima fila. Che poi si tratti di un comizio del leader anziché del festival di Sanremo poco importa.
Roberto Maroni e il tesoro della Lega: 20 milioni trasferiti per sfuggire a Bossi e ai giudici. Nelle intercettazioni dell'indagine Breakfast l'operazione allestita dall'attuale governatore lombardo con la Sparkasse di Bolzano per evitare pignoramenti da parte di esponenti vicini al senatùr, a partire dall'ex parlamentare Matteo Brigandì che avanzava pretese per milioni di euro. Il commercialista all'avvocato Aiello: "La bontà è che i soldi non sono più sul conto della Lega e vaffambagno. Se fanno l’esecuzione non li trovano", scrive Marco Lillo il 4 gennaio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Continua, con la storia del tesoro della Lega, la galleria di fatti e personaggi che emergono dalle telefonate dei leghisti intercettati tra il 2012 e il 2014. Abbiamo già svelato i retroscena dell’accordo Lega-Pdl con le minacce di Berlusconi a Maroni di usare la clava mediatica, l’impegno leghista per aiutare l’imprenditore Salini che mirava alle penali per la mancata costruzione del Ponte sullo Stretto, le chiamate di Malagò che cercava il voto di un leghista al Coni. L’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria contiene intercettazioni della Dia effettuate sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore Federico Cafiero De Raho. Probabilmente le intercettazioni dell’indagine, che va avanti in gran segreto dal 2012, non porteranno a nulla sul piano penale. Ma devono essere pubblicate perché svelano fatti di rilievo pubblico dietro le quinte del potere. Roberto Maroni ha trasferito 20 milioni di euro della Lega Nordalla Sparkasse di Bolzano e ha chiesto al suo legale, Domenico Aiello di costituire untrust o uno fondazione dove far confluire tutti i beni del partito per metterli al riparo dai leghisti amici di Umberto Bossi, come Matteo Brigandì. Le intercettazioni inedite dell’indagine Breakfast della Dia di Reggio Calabria svelano i retroscena di un giallo di cui si era occupato anche L’espresso con un articolo seguito da imbarazzate mezze smentite. Peter Schedl, allora direttore generale della Sparkassse, e il presidente attuale Gerhard Brandstätter (avvocato altoatesino e socio di studio di Aiello) hanno seguito il trasferimento dei fondi da Unicredit alla banca dell’Alto Adige. Aiello parla con Schedl il 14 gennaio 2013.
Aiello (A): l’operazione è quella di cui le ha accennato Gerhard.
Schedl (S): Sì sì me l’ha accennata.
A: Sto portando l’onorevole Stefani (tesoriere della Lega, ndr) in filiale a Milano ad aprire il conto (…) Brandstätter mi parlava di una cifra notevole. Quasi venti milioni e mi ha chiesto un’indicazione per il tasso.
A: Il meglio che può fare, semplice. Andiamo via in una situazione che è il 3 e mezzo. Lui indicava il 4, c’ero io quando ha chiamato…
S: Il 4 non è possibile (…) facciamo così partiamo dal 3 e mezzo e poi da lì vediamo strada facendo.
Poi Aiello (A) chiama Brandstätter (B), allora presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.
A: Siamo andati ad aprire il conto.
B: Sì mi ha chiamato adesso per dirmelo.
A: Ah okay domani gli arrivano sei milioni di euro.
A gennaio 2013 la disponibilità sul conto IT13Z06….6 sulla filiale di Milano di Sparkasse arriva a 19 milioni 817 mila e 469 euro. Nel 2014 i soldi saranno spostati, dopo l’arrivo alla segreteria di Matteo Salvini, in un conto di Banca Intesa. La ragione è in una mail del 21 febbraio 2013 del dirigente Sparkasse Paola Brunelli ad Aiello: “Il tasso attualmente applicato si intendeva legato a una determinata operatività… si era prospettata la possibilità di investire in fondi, azioni, Crbz, obbligazioni societarie ecc… successivamente siamo venuti a conoscenza del fatto che la legge 966-7-2012 art. 89 vieta ai partiti politici di investire la propria liquidità in strumenti finanziari diversi dai titoli emessi da Stati membri della Ue…”. Brunelli chiama il 12 marzo 2013 Aiello: “Che pasticcio! Questa cosa spicca agli occhi di qualcuno che venisse a fare dei controlli nel senso che mi dicono: ‘perché tutti gli altri clienti con patrimoni grossi hanno l’1,5 e questo ha il 3,5?!’”. All’origine del trasferimento del conto e dell’idea del trust c’è la questione Brigandì. L’ex parlamentare per anni legale di Bossi, in quel periodo fa valere i suoi vecchi incarichi. La Lega viene condannata a pagare milioni di parcelle e Maroni chiede contromisure ad Aiello. L’ipotesi nasce in vista delle elezioni 2013 ma rivive in estate dopo la vittoria in Lombardia. Aiello, intercettato senza essere indagato dal pm Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria, riceve una telefonata di Maroni il 22 luglio 2013 alle 23. L’allora segretario gli dice di aver parlato con Calderoli per costituire, imitando Alleanza Nazionale, una fondazione dove trasferire tutto il patrimonio della Lega, mobiliare e immobiliare. La ragione? Maroni spiega: “In buona fede, non pensavo che si sarebbe arrivato a tanto, ma, se Bossi inizia a fare questo gioco, si impone una reazione, per evitare di rimanere in mezzo”. La questione della Fondazione, spiega Maroni, deve rimanere tra lui, Aiello, Calderoli e Carmine Pallino, un commercialista; “Non deve essere portata a conoscenza di altri”. Maroni sottolinea che bisogna trovare, rapidamente, il modo di separare il patrimonio dalla gestione del partito: “Bisogna fare la ‘bad company’ dove rimane dentro un cazzo”. Aiello replica che il notaio Busani l’aveva già studiata. Lui rispolvererà il progetto. Effettivamente è antico. Già il 20 dicembre 2012 Aiello chiamava il suo collega Massimo Centonze e gli diceva che Maroni lo aveva autorizzato a creare un fondo separato “come fosse un trust” entro il 12 gennaio 2013 perché quel fondo dovrà essere il portafoglio della campagna elettorale. Aiello prosegue: il partito deve avere un patrimonio separato rappresentato da un conto corrente da aprire alla Sparkasse perché “se i nove milioni che sono stati pignorati li avesse avuti su questo fondo non potevano essere oggetto di sequestro”. Aiello dice che bisogna far presto “entro il 10 gennaio perché il 15 gennaio si presentano le liste e il timore di Maroni è che poi venga un ‘pazzo’ come il procuratore di Forlì Sergio Sottani che dice: ‘l’impegno di ogni singolo candidato per me costituisce una compravendita di candidatura’. Invece così il singolo candidato si impegna a versare direttamente sul patrimonio destinato”. Aiello a gennaio 2013 confida anche al commercialista Massimo De Dominicis: “Noi dobbiamo segregare un patrimonio esistente di 20 milioni e uno nascente”. Entro il 10 gennaio. Anche perché “loro prendono una vagonata di soldi a dicembre e una vagonata a luglio e adesso è arrivata una vagonata di soldi”. De Domenicis: “Il veicolo migliore è il trust”, istituto giuridico di origine anglosassone usato in Italia per ragioni ereditarie o fiscali nel quale un soggetto (qui la Lega) trasferisce i beni al cosiddetto trustee. Poi Aiello il 9 gennaio 2013 chiama il notaio Busani per avere chiarimenti.
Busani (B): Quanti soldi parliamo di segregare?
Aiello (A): Almeno 10 milioni.
B: Hai paura di azioni esecutive?
A: Una l’abbiamo appena subita di 3 milioni, prestazioni professionali erano. Tra l’altro un dirigente della Lega Nord (Brigandì, ndr). Però prima vorrei capire la bontà della struttura che mettiamo in piedi…
B: Domenico, la bontà è che i soldi non sono più sul conto della Lega e vaffambagno. Se fanno l’esecuzione non li trovano!
Il 10 gennaio 2013 Aiello chiama Maroni preoccupato proprio per eventuali nuove azioni di Brigandì che “forse ha portato via altre carte che erano sue”. Poi suggerisce all’allora segretario: “In ragione di questo valuta ancora quello spostamento almeno di una parte del residuo, almeno il 50 per cento di quei fondi lì’ perché se questo qui già conosce quel conto corrente …”. Maroni rinvia all’indomani. Il trasferimento dei 20 milioni poi ci sarà. Il trust e la fondazione? “Io non ne ho più saputo nulla”, chiosa il notaio Angelo Busani.
La Lega e la caccia al tesoro padano. Nella guerra di successione del dopo-Bossi, le fazioni si contendono un gruzzolo di 20 milioni di euro. Spostato su una banca di Bolzano, scrivono Giovanni Tizian e Gianfranco Turano su “’L’Espresso” dell’11 novembre 2015. Le eredità guastano i rapporti nelle famiglie più unite. Figurarsi tra parenti serpenti quali sono diventati i leghisti. Il movimento delle scope che tre anni fa ha mandato in pensione il fondatore Umberto Bossi a vantaggio di Bobo Maroni e poi di Matteo Salvini, aspirante leader del centrodestra a reti unificate, ha innescato uno scontro finanziario e politico mascherato dietro la compattezza marmorea del movimentismo padano. È una storia già vista con il patrimonio di altri partiti, dal Pci ad Alleanza nazionale. Gli indipendentisti verdi non solo si battono sui soldi senza essersi sciolti ma non hanno nemmeno la possibilità di litigare in privato sulle decine di milioni di euro di contributi pubblici accumulati in un ventennio di politica. Due procure della Repubblica, Milano e Genova, più l’avvocatura dello Stato, stanno dando la caccia al tesoro della Lega e ipotizzano truffa e appropriazione indebita. La giustizia ordinaria aveva parlato di 41 milioni di euro. Gli avvocati dello Stato hanno ritoccato al rialzo (59 milioni) la cifra che la dirigenza leghista avrebbe avuto a disposizione, e male impiegato, quando il tesoriere era Francesco Belsito, finito sotto indagine ad aprile del 2012, arrestato a marzo dell’anno successivo e oggi dipendente di una gelateria genovese. La posizione della Lega è che non c’è più un euro in cassa, tanto che la spending review in verde ha dovuto licenziare fin nella sede storica di via Bellerio. Eppure, come “l’Espresso” è in grado di rivelare, 19,8 milioni di euro in liquidità e titoli sono stati trasferiti dalla filiale Unicredit di Vicenza e dalla sede milanese di Banca Aletti per essere messi in sicurezza dai debitori. Alla filiale milanese della Cassa di risparmio di Bolzano all’inizio del 2013 sono stati aperti due conti intestati alla “Lega nord per l’indipendenza della Padania”, come si chiama il partito per esteso. L’operazione, ordinata dall’allora segretario Maroni, è stata portata a termine grazie ai due principali soci dello studio legale AB e associati: il catanzarese Domenico Aiello e l’altoatesino Gerhard Brandstätter. Il primo è l’avvocato di fiducia di Bobo Maroni ed era presidente dell’Organismo di vigilanza della Sparkasse altoatesina. Il secondo era, al tempo dei fatti, presidente della Fondazione Sparkasse, azionista di controllo della banca. Alla fine di aprile del 2014 Brandstätter è stato spostato dalla fondazione e nominato numero uno dell’istituto di credito bolzanino. I due professionisti hanno seguito insieme processi molto importanti. I principali sono la malversazione di fondi attribuita all’ex presidente della Provincia, Luis Durnwalder, leader della Südtiroler Volkspartei (Svp) in carica alla Provincia per 35 anni fino al gennaio 2014, l’inchiesta per frode sportiva contro l’olimpionico di marcia Alex Schwazer, condannato e da poco rientrato in attività. Il procedimento più importante riguarda la Sel, la municipalizzata locale dell’energia, e le sue concessioni, con vari politici della Svp coinvolti. Al margine dell’operazione Lega-Sparkasse, il nuovo vertice del movimento padano post-bossiano a guida Maroni avrebbe preso in considerazione varie soluzioni. Fra queste, la creazione di una fondazione sul modello di An e la costituzione di un trust di scopo per preservare il patrimonio. Entrambe le opzioni puntavano a sottrarre i fondi accumulati durante la gestione Bossi dalle rivendicazioni dei bossiani e, in primo luogo, di Matteo Brigandì, ex parlamentare leghista ma soprattutto legale di fiducia del partito fino alle dimissioni del Senatùr dal vertice del movimento nordista il 5 aprile 2012, due giorni dopo l’inizio dell’inchiesta contro il suo cerchio magico. «Le ipotesi di una fondazione e di un trust di diritto italiano», dice Aiello, «erano state avanzate da alcuni consulenti ma sono state rigettate per difficoltà tecnico-normative. Del resto, Brigandì aveva già pignorato 2,6 milioni di fondi sul conto Unicredit di Vicenza dove erano passati anche i fondi di Banca Aletti, che aveva consentito a Belsito di fare i bonifici a se stesso senza le procure che lo autorizzavano. Brigandì si è trovato in una situazione di infedele patrocinio avendo occultato a tutti, escluso Belsito, che aveva un titolo di debito verso la Lega riconosciuto da Bossi, fin dal 2004. Con Maroni segretario, il partito ha aperto un conto in Sparkasse che poi Salvini ha chiuso trasferendo il residuo in Banca Intesa nel 2014». Sulla tempistica è più preciso Brandstätter. «Mi sono informato in direzione generale», dice il presidente della banca impegnata in un roadshow per la ricapitalizzazione con Reinhold Messner come testimonial. «La Lega ha aperto un normale conto “easy business” nella nostra filiale milanese a gennaio del 2013 e poi un conto deposito titoli a marzo del 2013. Le posizioni sono state di fatto chiuse il 9 luglio del 2013 perché la Lega non era soddisfatta degli interessi che poteva offrire la Sparkasse, con un massimo del 2,5 per cento in quel periodo, poi sceso all’1,9. La chiusura formale della posizione è avvenuta un anno dopo, quando restavano poche migliaia di euro. Ma mi risulta che anche la cifra versata inizialmente fosse di alcuni milioni e non di 20. Quanti milioni non saprei dire». Aiello, che difende il governatore lombardo nel processo milanese per le consulenze all’Expo 2015 e che Maroni ha nominato nel cda della stessa Expo, concorda con Brandstätter anche sull’entità del tesoro, parlando di un paio di milioni al massimo. Un po’ poco per un partito che si è alimentato per anni con contributi pubblici e dazioni volontarie di parlamentari e militanti. Ma è il caso di procedere con ordine. Il 3 aprile 2012 il tesoriere leghista Belsito finisce sotto inchiesta. Insieme a lui, è coinvolto il cosiddetto cerchio magico. Emergono le spese pazze dei figli dell’Umberto: il maggiore, Riccardo, e il laureato albanese Renzo “il trota”. Due giorni dopo Bossi si dimette da segretario. All’interno della Lega, inizia uno psicodramma padan-freudiano dove la figura del padre, sofferente dopo l’ictus del marzo 2004, deve essere distrutta senza che si sappia in giro per non danneggiare l’intero movimento. Il 10 aprile 2012 c’è la notte delle scope anticipata dallo slogan “pulizia, pulizia, pulizia” di Maroni e conclusa dalla stretta di mano sul palco di Bergamo fra il fondatore e il leader in pectore. A riflettori spenti volano i coltelli. L’ala dura, dove non tarderà ad emergere il consigliere comunale milanese Matteo Salvini, pone il problema di una costituzione di parte civile della Lega al processo Belsito. Il desiderio di rivalsa del nuovo corso è forte anche se l’aggressione in tribunale al fondatore resta un’eresia. Il messinese Brigandì, interprete sanguigno del leghismo in salsa sudista, si elegge ultimo difensore dei bossiani in declino. La sua strategia si concretizza in una parcella da 6 milioni di euro complessivi presentata ai nuovi padroni della Lega a compenso di centinaia di cause perorate gratis et amore Dei in favore del movimento e dei suoi dirigenti. All’inizio del mese di ottobre del 2012 Maroni affida i pieni poteri legali del movimento a un altro diversamente padano, il calabrese Aiello che, secondo la vulgata ufficiale non confermata dagli interessati, il neosegretario ha conosciuto allo stadio di San Siro durante una partita dell’amato club rossonero. Fra i due avvocati del Sud sono subito scintille. Brigandì non è solo legato alla vecchia gestione ma ha parecchi problemi in proprio. Fra questi c’è l’estromissione dal Csm per avere, da consigliere laico, passato un dossier alla stampa con notizie diffamatorie su Ilda Boccassini, magistrato della Procura di Milano impegnato nel Rubygate. Dopo mesi di tensioni seguiti alle dimissioni di Bossi, la prima guerra civile leghista è dichiarata il 5 dicembre 2012 quando Brigandì ottiene il blocco di fondi per 2,6 milioni di euro sul conto della Lega in Unicredit a Vicenza, città del nuovo tesoriere Stefano Stefani, leghista della prima ora confluito nel nuovo corso maroniano insieme ad altri esponenti di primo piano del movimento come Roberto Calderoli e l’allora governatore piemontese Roberto Cota. Brigandì presenta come titolo di credito la dichiarazione firmata da Bossi, cioè dal suo cliente. Il sequestro fa parte di una strategia che punta, fra l’altro, a proteggere Bossi e la sua famiglia da eventuali ritorsioni della nuova dirigenza. Non è un timore infondato perché Aiello si costituisce parte civile per conto della Lega in tutti i rami del processo Belsito, legato a triplo filo con il clan del Senatùr. Gli ufficiali di collegamento tra le fazioni avviano una mediazione per lavare in casa i panni sporchi. Non si tratta soltanto di evitare l’attacco leghista a Bossi nei processi ma anche di garantirgli un vitalizio. Una richiesta iniziale di 800 mila euro all’anno viene ridotta a metà ma non c’è accordo su come affrontare i processi. E sotto il profilo giudiziario il 2012 per la Lega è un anno davvero sfortunato. Le indagini della cosiddetta rimborsopoli investono la Lombardia formigoniana e il Piemonte di Cota. In entrambi i casi, i consiglieri leghisti finiscono sotto inchiesta. A febbraio del 2013 uno scoop di Paolo Biondani su “l’Espresso” rivela la mappa delle elargizioni di Belsito: 19 milioni di euro distribuiti a 67 persone o società amiche, a partire da Belsito stesso, da Bossi e figli, da Brigandì e dal falso avvocato calabrese Bruno Mafrici, consulente del ministro della Semplificazione Calderoli e indagato dalla direzione antimafia di Reggio Calabria nell’inchiesta Breakfast. Il 18 marzo 2013 Maroni diventa governatore della Lombardia. Il suo progetto è di approfondire i buoni rapporti in Alto Adige per costituire in parlamento un gruppo per le autonomie con Svp e Union Valdôtaine. Sono i giorni a ridosso della condanna in primo grado a due anni di Brigandì per il dossier anti Boccassini (26 marzo). Sono anche i giorni in cui arrivano alla Sparkasse i titoli della Lega dopo i primi 6 milioni di euro cash spediti ad apertura di conto in gennaio. I fondi sono remunerati al 3,5 per cento in Unicredit. La tesoreria retta da Stefani vorrebbe spuntare un tasso del 4 per cento. Viene avviata una trattativa che coinvolge l’allora direttore generale della Cassa, Peter Schedl. Il dirigente si mostra subito titubante sulla richiesta in una fase in cui i tassi d’interesse stanno scendendo. L’ipotesi di impiegare il denaro in operazioni a maggiore rischio, e con remunerazione superiore, deve essere scartata perché la legge 96 del luglio 2012 vieta ai partiti di investire fondi di provenienza pubblica in altro che non siano titoli di Stato italiani o dell’Ue. Schedl sarà estromesso dalla Cassa sei mesi dopo l’arrivo di Brandstätter (ottobre 2014) per le sue responsabilità nei cattivi risultati della banca (38 milioni di perdite nel 2013, 231 milioni l’anno dopo). Il negoziato sul tasso di remunerazione non va a buon fine anche perché la Bce continua ad abbassare i tassi. Così alla fine di luglio del 2013 torna in ballo l’opzione di un trust o di una fondazione dove conferire il patrimonio della Lega, dagli immobili alla liquidità che, nel giro di pochi mesi, è diminuita di diversi milioni. L’idea è discussa fra Maroni e Calderoli, poi trattata a livello tecnico. Uno dei professionisti consultati è il commercialista Carmine Pallino, addetto alla spending review di via Bellerio e consulente del Ministero del Lavoro con Maroni. Mentre prosegue la battaglia sui soldi pignorati da Brigandì, che Aiello attacca in tre tribunali (Milano, Vicenza, Pinerolo), sul fronte politico la Lega si prepara a un nuovo ribaltone. A settembre del 2013 Maroni ribadisce la sua intenzione di non mantenere il doppio incarico come governatore e segretario e annuncia le primarie per il mese di dicembre. La corsa a segretario è vinta da Matteo Salvini che, come l’altro Matteo del Pd, non resta inoperoso. Cancella tutte le costituzioni di parte civile della Lega dai processi contro Belsito. Rimpiazza Aiello con i suoi legali trentini Claudia Eccher e Christian Gecele. In parallelo con la rottamazione del sistema Maroni, confinato nel suo potere locale, Salvini avvia un nuovo negoziato con Brigandì e Bossi. All’inizio, fa la voce grossa e minaccia di dimezzare il vitalizio del Senatùr a 200 mila euro. Poi capisce che non ha senso mettere in discussione il fondatore. La scrittura privata del febbraio 2014, quella che stabilisce un primo accordo tombale sul passato fra la vecchia guardia e il nuovo corso, viene elaborata a lungo in modo che tutti abbiano soddisfazione. Il risultato finale è che Brigandì si tiene i 2,6 milioni di euro pignorati alla Lega e Bossi ottiene vitalizio e manleva da parte della Lega. Tramontato Maroni, nessuno nel partito nordista parla più di cercare investimenti in Alto Adige dove la cassa di risparmio (aprile 2014) cambia vertici e insedia alla presidenza Brandstätter con un vicepresidente di area Pd, l’ingegner Carlo Costa. In ottobre inizia un’ispezione di Bankitalia che durerà sei mesi. Aiello si separa consensualmente e in amicizia dallo studio legale del collega altoatesino alla fine del 2014. Non che gli manchi il lavoro. Difende Maroni dalle accuse di finanziamenti illeciti alla Lega nel processo contro l’ex manager di Finmeccanica Giuseppe Orsi. Fuori dall’area leghista difende sia Selex-Finmeccanica nel processo napoletano sul sistema Sistri sia l’ex numero uno dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, arrestato lo scorso ottobre per le truffe sui rimborsi all’ospedale Israelitico. A partita chiusa, l’avvocato Brigandì minimizza. «Mi sto limitando a difendere Bossi», dichiara l’ex Procuratore generale della Padania, «e non c’è stato nessun contenzioso. L’abbiamo risolta con una conciliazione senza neppure arrivare in udienza. Certo ci sono stati momenti di tensione con Aiello, l’avvocato di Maroni, una vita fa. Ma Maroni non c’è più».
Scandalo Lega Nord, Belsito: “Soldi in nero a Salvini”. Il segretario: “Solo fango”. L'ex tesoriere del Carroccio, parlando con i magistrati di Milano che hanno chiuso il primo filone dell'indagine sulla gestione dei fondi, parla anche di tangenti, ricostruendo il pagamento di un milione di euro arrivato alla Lega del Veneto da parte di una multinazionale francese. Nuovi dettagli sulla laurea comprata di Renzo Bossi, scrive il 13 dicembre 2013 “Il Fatto Quotidiano”. Il neo segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, interviene sulle polemiche scatenate dalle dichiarazioni di Francesco Belsito, e lo fa duramente dai microfoni di Radio Padania: “Fango, fango fango, non ho parole, sono palle, del resto i magistrati hanno già archiviato..”. L’ex tesoriere del Carroccio, in un passaggio con i magistrati di Milano - che hanno chiuso il primo filone di inchiesta sulla gestione dei fondi della Lega Nord – chiama in causa figure di spicco del partito, a riportarlo è La Repubblica. L’ex cassiere parla di fondi neri, sottolineando che “il nero che gli imprenditori versavano venva utilizzato a volte per la campagna elettorale dagli esponenti politici e veniva gestito senza passare dalle casse del partito”. Ed è qui che viene tirato in ballo il segretario, eletto domenica scorsa alle primarie: “Ricordo che Bonini, in quota Lega alla Sea (Giuseppe Bonomi ex deputato leghista, ndr), diede in contanti 20 mila euro a Salvini. Salvini, per sanare i suoi obblighi verso la Lega, intendeva girare al partito questa somma, cosa che non mi risulta sia avvenuta”. Ma Belsito nelle sue dichiarazion ai magistrati coinvolge anche il governatore del Veneto, Luca Zaia. In un interrogatorio del 13 maggio, l’ex tesoriere ricostruisce il pagamento di un milione di euro arrivato alla Lega del Veneto da parte di una multinazionale francese, la Siram, specializzata in appalti ospedalieri. Belsito avrebbe affermato che tutto lo stato maggiore del partito era informato di quel finanziamento. “Anche Zaia – è la tesi dell’ex cassiere del Carroccio – fu informato”. “La Lega Nord del Veneto – racconta Belsito – aveva chiesto un milione al finanziere Stefano Bonet (tramite con la società francese, ndr)”. L’ex cassiere sostiene che nel 2010 informò sia Bossi sia Calderoli “che tale Cavaliere aveva chiesto questi denari alla Siram”. E questi soldi sarebbero stati pagati con un bonifico a una società, “credo riconducibile a Cavaliere (ex presidente del Carroccio in consiglio regionale del Veneto, ndr). Belsito racconta di più: “Cavaliere trattava su incarico del sindaco di Verona Flavio Tosi”. “Da quello che ricordo – dice ai magistrati del capoluogo lombardo – la somma degli appalti di Bonet a Siram in Veneto era di circa 25 milioni in un triennio”. “Rispedisco al mittente queste affermazioni”, è secco Luca Zaia. “Mi spiace perché avrei qualcos’altro di cui occuparmi. Penso che anche la magistratura abbia altro di cui occuparsi però a questo punto la impegnerò io facendo un querela, tutelandomi. Spero che si faccia chiarezza da subito”. “Stiamo parlando comunque di una persona – conclude il governatore – che, tra le tante cose, abbiamo scoperto aveva una Porsche pagata dalla Lega, tra l’altro ora sequestrata. E’ imbarazzante. Rimando tutto al mittente. Sono a disposizione dei magistrati e querelo, assolutamente querelo”. Ma dalle carte dell’inchiesta sui fondi della Lega emergono anche alcuni retroscena sulla laurea di Renzo Bossi, comprata – secondo l’accusa – con 77 mila euro del Carroccio, provenienti da denaro pubblico e dai rimborsi elettorali. Il “Trota” non avrebbe mai fatto cenno al padre della laurea conseguita in Albania. Anzi, Renzo raccontava al Senatùr di studiare negli Stati Uniti e di collezionare un bel voto dietro l’altro. Umberto Bossi, quindi, sarebbe stato all’oscuro della carriera universitaria del figlio, di cui andava molto orgoglioso per i risultati portati a casa. Il particolare è stato messo a verbale dall’ex segretaria e tuttofare della Lega, Nadia Dagrada, davanti ai pm di Milano.
Le condanne e i processi dell'associazione padana di stampo leghista, scrive Carlo Gubitosa su “L'Espresso” l’’11 novembre 2015. Dopo la trionfale marcia su Bologna delle truppe padane, ho provato a fare il punto su quella che si propone come futura classe dirigente del paese, tracciando il mio personale pantheon leghista che comprende i seguenti personaggi:
Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord: diceva che Roma era Ladrona. Chiuse le indagini, si va verso il rinvio a giudizio per truffa ai danni dello stato nello scandalo leghista dei rimborsi elettorali, nel quale è accusato di avere utilizzato danaro pubblico per esigenze personali.
Renzo Bossi: rinviato a giudizio con l'accusa di peculato e truffa per i rimborsi truccati richiesti come consigliere regionale della Lombardia. Più il procedimento per truffa ai danni dello stato nel quale è coinvolto anche il padre.
Riccardo Bossi: rinviato a giudizio per truffa pluriaggravata con l'accusa di aver acquistato gioielli e un orologio di pregio in un negozio senza pagare il conto. Più il procedimento per truffa ai danni dello stato nel quale è coinvolto anche il padre.
Matteo Salvini, segretario della Lega Nord: erede della tradizione di Umberto Bossi. Parla di legalità e lotta alla delinquenza, ma ha rinunciato a costituirsi parte civile a nome della Lega Nord nel processo per le ruberie a danno dei fondi del partito. Con questa azione, pur senza essere coinvolto in processi penali, ha di fatto sancito la sua complicità morale con le azioni dei Bossi, personalmente e a nome dell'intero partito.
Oscar Lancini, sindaco leghista di Adro: rinviato a giudizio con le accuse di falso in atto pubblico, turbata libertà degli incanti e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Appalti truccati, insomma. Avrebbe favorito alcune aziende nella gara d'appalto per la realizzazione di alcune opere in paese. Lancini è noto alle cronache nazionali anche per la sua crociata contro i genitori dei bimbi che non pagavano la mensa all'asilo, ai quali aveva negato l'accesso ai pasti.
Pier Gianni Prosperini, personaggio leghista poi passato ad AN, noto per i suoi sermoni in lombardo sugli immigrati delinquenti: "Ciapa 'l camél, ciapa la barchétta, e te turnet a cà!". Arrestato per corruzione e turbativa d'asta durante il suo mandato come assessore della giunta regionale lombarda guidata da Roberto Formigoni, ha patteggiato una pena di 3 anni e 5 mesi.
Mario Borghezio, "talebano" del leghismo: dopo aver dichiarato che "per sradicare la criminalità a Napoli ci vorrebbe un generale come Massu". [il comandante delle forze francesi in Algeria che nel 1957 aveva avuto istruzioni di utilizzare qualsiasi mezzo, lecito e non, per riportare l'ordine, ndr] viene condannato in via definitiva dalla Cassazione nel luglio 2005 a due mesi e venti giorni di reclusione per concorso in danneggiamento e incendio, dopo aver dato fuoco con altri sette leghisti ai pagliericci di alcuni immigrati che dormivano sotto il ponte Principessa Clotilde a Torino, con il conseguente scoppio di un incendio.
Roberto Calderoli, senatore leghista autore del "Porcellum", la legge elettorale porcata che ha spazzato via le minoranze dal Parlamento. Nel settembre 2015 viene concessa dal Senato l'autorizzazione a procedere contro Calderoli con l'accusa di diffamazione dell'ex ministro Cecile Kyenge, mentre viene respinta la richiesta di procedere per le accuse di istigazione all'odio razziale per la medesima frase pronunciata in un comizio del 13 luglio 2013: "quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango".
Roberto Maroni e Francesco Speroni: rinviati a giudizio nel 1998 assieme a Mario Borghezio con le accuse di attentato contro la Costituzione e l'integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge, ma il processo si conclude con un nulla di fatto, anche per successive modifiche al codice penale.
L'elenco potrebbe continuare ancora, ma credo che a questo punto sia già chiaro con chi abbiamo a che fare, e qual è il brodo di coltura che ha espresso la marcia su Bologna dei giorni scorsi. Se questa gente dovesse diventare maggioranza di governo, come è possibile in un paese dove la maggioranza degli adulti non legge libri, prepariamoci a tempi davvero bui.
Camera e Senato alla Lega: "Truffa sui rimborsi, restituite allo Stato 59 milioni". I finanziamenti alla Lega sotto inchiesta. Dal processo che riprende oggi a Genova contro l'ex amministratore del Carroccio e contro il Senatur, spuntano carte inedite che chiamano in causa anche Salvini e Maroni, scrive Alberto Custodero il 02 novembre 2015 su “La Repubblica” Truffa contro Bossi e Belsito sui rimborsi elettorali della Lega: Camera e Senato presentano al partito di Salvini il conto da restituire allo Stato. Non più "solo" 40 milioni, come conteggiato dai magistrati, bensì 59 milioni. Dal processo che riprende oggi a Genova contro l'ex amministratore del Carroccio e contro il Senatur, spuntano carte inedite depositate dal Parlamento che dimostrano che una parte di quei rimborsi elettorali truffaldini sono stati incassati dalla Lega anche dopo il "movimento delle scope" del 5 aprile 2012 che aveva defenestrato Bossi. Complessivamente, nel periodo in cui la segreteria leghista è stata retta da Roberto Maroni, nelle casse dei lumbard sono stati versati dal Parlamento quasi 13 milioni oggetto della truffa, e 820mila euro durante la segreteria Salvini. Ma al di là di quanto sia l'importo, che fine hanno fatto quei milioni di euro che, secondo l'accusa, Bossi e Belsito hanno ottenuto da Camera e Senato falsificando i rendiconti delle spese elettorali? Perché, se il governatore della Lombardia e l'attuale segretario sapevano della truffa (Salvini s'è addirittura costituito parte civile), hanno continuato a incassarli, e, soprattutto, a spenderli, visto che la Lega è stata costretta a licenziare il personale per essere rimasta senza un euro in bilancio? A proposito di dove siano finiti i quaranta o i cinquantanove milioni oggetto della truffa, i documenti depositati nel processo genovese rivelano uno scontro all'ultimo sangue tra leghisti. Bossi, per voce del suo avvocato Matteo Brigandì, chiede a Salvini la restituzione dei 40 milioni che la procura ritiene il corpo del reato della truffa elettorale. Il 29 ottobre del 2014, il legale di Bossi invia al segretario leghista una lettera dai toni affabili ("Caro Matteo....". "Un abbraccio padano"), ma dal contenuto al vetriolo. Lettera presente tra i documenti processuali. Bossi ha lasciato in bilancio un attivo da 41 milioni: "Sono certo - scrive, sarcastico, il legale di Bossi - che mai verrà dalla Lega adoperato anche per il futuro un solo euro da questa detenuto e da questa stessa dichiarato (con la costituzione di parte civile, ndr) corpo di reato". "Tenterò ogni conciliazione - aggiunge il legale Brigandì alludendo alle costituzioni di parte civile di Camera e Senato - sul presupposto della vostra disponibilità a rendere quanto da voi dichiarato come prezzo della truffa aggravata, prezzo presente nelle vostre casse". "Quindi - conclude l'avvocato di Bossi, ben sapendo che tutti i soldi sono stati spesi - ti diffido dallo spendere quanto da te stesso considerato come corpo di reato". La coppia Bossi-Brigandì è consapevole della portata devastante che questa lettera, inviata a Salvini, possa avere sul processo: il Senatur e il suo legale vogliono che i giudici valutino se aver incassato i soldi oggetto della truffa costituisce concorso nel reato e, averli spesi, ricettazione. La difesa di Bossi, a questo punto, sembra essere quella (fatti di dovuti distinguo) di Sansone: che muoia Bossi, ma con tutti i (segretari) leghisti. Almeno quelli che gli hanno fatto la guerra.
Altro che Roma ladrona. Lega Nord, Camera si costituisce parte civile nel processo a Bossi e Belsito. Dopo aver ascoltato in ufficio di presidenza una istruttoria svolta dal questore Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Laura Boldrini ha deciso di costituire Montecitorio nel processo ai due ex massimi dirigenti del Carroccio per truffa aggravata ai danni dello Stato nella vicenda dei 40 milioni di rimborsi elettorali, scrive “Il Fatto Quotidiano” il 17 settembre 2015. Dopo il Senato, arriva anche la Camera dei deputati a costituirsi parte civile nel processo a Umberto Bossi e Francesco Belsito, ex segretario e tesoriere della Lega Nord. I due ex massimi dirigenti del Carroccio sono imputati, insieme a Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci, revisori dei conti del partito, per truffa aggravata ai danni dello Statonella vicenda dei 40 milioni di rimborsi elettorali utilizzati per fini diversi da quelli politici. Dopo aver ascoltato in ufficio di presidenza una istruttoria svolta dal questore Stefano Dambruoso di Scelta Civica, la presidente della Camera Laura Boldrini ha deciso di costituire Montecitorio contro Bossi e Belsito. Alla riunione erano assenti sia i due rappresentanti di Forza Italia, il questore Gregorio Fontana e il vicepresidente Simone Baldelli, sia quello della Lega, Davide Caparini. A chiedere alle due camere di decidere se costituirsi o meno parti civile, in vista dell’udienza del prossimo 23 settembre, è stato il giudice per l’udienza preliminare di Genova, dove si terrà il procedimento. Palazzo Madama aveva già dato il suo via libera dopo aver incaricato l’avvocatura dello Stato. Per Bossi, Belsito e i revisori dei conti del Carroccio era stato chiesto il rinvio a giudizio nel febbraio scorso dal pm genovese Paola Calleri, dopo che il procedimento era stato spostato per competenza dalla procura di Milano. I cinque imputati erano poi stati mandati a processo il 21 maggio 2015 scorso dal gup Massimo Cusatti che ha fissato l’inizio del processo proprio per il 23 settembre 2015.
Salvini prende in giro gli italiani su Belsito & Co, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Matteo Salvini è un leader con il naso lungo. Una delle bugie di cui nessuno gli ha mai chiesto conto riguarda la rinuncia a costituirsi parte civile nei processo contro i ladroni della Lega. Ha alzato bandiera bianca nei confronti dei suoi colleghi di partito che, secondo diverse procure d'Italia, avrebbero rubato rimborsi elettorali e denari del Carroccio. Lo fa perché di fronte a sé ha Umberto Bossi e l'ex tesoriere Francesco Belsito, vecchi amici di lotta e custodi di molti segreti della vecchia Lega. E si è arreso a modo suo, con uno slogan: «Non possiamo perdere tempo e neppure soldi, oltretutto per cercare di recuperare soldi che certa gente non ha - dice il leader - in primo luogo sono cose che fanno parte del passato: due, se ne occupano gli avvocati e non la politica. Ma soprattutto mi spiacerebbe intasare i tribunali della Repubblica andando a chiedere quattrini che certa gente neppure ha». L'annuncio risale ormai a un anno fa, ma oggi torna d'attualità visto che a pochi giorni dall'inizio del processo genovese anche la Camera dei deputati, dopo il Senato, ha deciso che sarà in aula per chiedere i danni ai ladroni in camicia verde. In realtà Salvini mente. Lo sa bene. Perché la rinuncia di costituzione di parte civile è legata a uno scontro interno al partito che è durato almeno fino al 2014. E le motivazioni di questa resa sono da ricercare nel rapporto deteriorato tra la nuova dirigenza della Lega e l'avvocato Matteo Bregandì, legale del partito e di Umberto Bossi. La frattura nasce da una serie di contenziosi e per motivi squisitamente economici, tra questi la parcella milionaria richiesta dall'avvocato del Senatur per i servizi prestati dal 2000 al 2013. La frattura è diventata ancora più profonda dopo che il conflitto tra Salvini e Bossi si è fatto più aspro, con il primo che minacciava di costituirsi parte civile nei procedimenti penali e di non dare più soldi al fondatore del Caroccio. La situazione sembrava insanabile, fino a quando grazie alla mediazione di Stefano Stefani, il nuovo tesoriere, è stato raggiunto un accordo tra il vecchio capo della Lega Bossi e il nuovo segretario Salvini. Il patto di non belligeranza è stato firmato il 26 febbraio. Una scrittura privata per chiudere la vicenda e guardare al futuro del partito. Già nella scrittura privata pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” è evidente, anzi è proprio scritto nero su bianco, che la Lega, e cioè, Salvini, avrebbero rinunciato a costituirsi parte civile nei processi scaturiti dalle inchieste sullo sperpero di denaro pubblico e del partito da aprte di Belsito &Co. Sullo sfondo quindi una resa dei conti interna. E non è da escludere uno scambio di cortesia per chiudere una volta per tutte quella brutta storia di ruberie. In modo tale che non se ne parli mai più. La priorità dunque era far calare il sipario su quella fase e concentrarsi sul futuro picchiando forte sull'unico tema che gli porta consensi: l'immigrazione. C'è poi un altro aspetto. Nell'inchiesta calabrese ancora aperta su Belsito e l'ufficio di via Durini a Milano, nota con il nome "Breakfast", l'ex tesoriere non è l'unico leghista presente e citato. Nell'istruttoria dei pm dell'antimafia di Reggio Calabria c'è un mosaico di contatti, relazioni e progetti che gravitano attorno al mondo leghista. Non costituirsi parte civile però è stata una mossa azzardata. Così ritengono molti leghisti di peso, in particolare alcuni uomini molto vicini a Roberto Maroni che erano contrari a questa resa convinti che avrebbe leso l'immagine pubblica della Lega. E secondo loro questa ritirata poteva ritorcersi contro in futuro. Ma a poco sono valse quelle critiche, il patto è stato siglato lo stesso. Salvini ha annunciato che la Lega non si costituirà parte civile, camuffando la ritirata come un atto di responsabilità verso i cittadini, «non possiamo perdere tempo in queste cose, non vogliamo ingolfare le procure». Una bugia, insomma. Come dimostra il pezzo di carte da lui firmato e il malumore di chi non ha condiviso, se pur per sola strategia politica, quel documento in cui la Lega firmava la resa verso la banda Belsito.
Certo è che se poi la Lega trova sponda nei cosiddetti democratici...
Offese a Monti e Napolitano: Bossi condannato (con polemica). Un anno e sei mesi all’ex leader della Lega. L’avvocato: «Difformità col caso Calderoli», scrive “Il Corriere della Sera”. Umberto Bossi è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione per vilipendio al capo dello Stato con l’aggravante della discriminazione razziale. Lo ha stabilito il tribunale di Bergamo accogliendo la richiesta del pm Gianluigi Dettori. Un’inchiesta nata da un centinaio di querele, presentate in tutta Italia (da Verona alla Sicilia, fino a Bergamo), dopo il comizio di Bossi alla festa della Lega di Albino (Bergamo) il 29 dicembre del 2011: parole e immagini rilanciate la sera stessa e il giorno dopo da tutti i telegiornali. «Ma Monti lo sa che molti allevatori si sono impiccati? Questi coglionazzi del governo lo sanno?» aveva esclamato il lumbard dal palco, applaudito dal pubblico e dai suoi colonnelli. «Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica», aveva rincarato, esibendo il gesto delle corna. E poi ancora: «Napolitano, Napolitano, nomen omen, terun…». E quando il pubblico aveva iniziato a scandire: «Monti, Monti, vaffanculo...» il leader dal palco aveva replicato. «Eh...magari gli piace anche...». Prima che il collegio dei giudici, presieduto da Antonella Bertoja, si ritirasse per la sentenza, il difensore dell’ex leader del Carroccio, l’avvocato Matteo Brigandì (ex deputato e senatore della Lega) ha chiesto che la corte sollevasse il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato e in subordine che venisse esclusa l’aggravante della discriminazione, «perché - evidenzia Brigandì -Bossi rispondeva al pubblico che aveva detto teun». Il legale ha anche ricordato che per Bossi la Camera dei Deputati non si era pronunciata sull’insindacabilità, a differenza di quanto ha fatto di recente il Senato per Roberto Calderoli, invischiato nel processo sulle offese all’ex ministro Cecile Kyenge (in realtà i senatori hanno negato l’autorizzazione a procedere solo sull’aggravante, non sulla diffamazione). Rimarcando la mossa di Calderoli che subito dopo ha ritirato i 500 mila emendamenti alla riforma di Palazzo Madama, l’avvocato non ha risparmiato una stoccata finale: «C’è - sostiene - una giustizia di maggioranza». Da Calderoli, nero su bianco sulla sua bacheca Facebook, è arrivato comunque sostegno: «Fatemi capire - commenta il colonnello leghista -, un pluriomicida come Adam Kabobo prende 20 anni per aver ucciso tre persone, meno di 7 anni per ogni vita umana stroncata, e Umberto Bossi per una semplice battuta fatta ad un comizio viene condannato a 18 mesi? Qualcosa non mi quadra davvero... Ovviamente all’amico Umberto va tutta la mia solidarietà per questa condanna».
Calderoli e “l’orango” alla Kyenge, per il Senato non c’è istigazione all’odio razziale. Neanche il Pd cambia idea: il paragone tra l'ex ministro e la scimmia è una "condotta ritenuta insindacabile perché coperta dall'articolo 68 della Costituzione". Palazzo Madama dà solo l'ok per il processo per diffamazione. L'ex ministro: "Ricorrerò alla Corte Ue", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 16 settembre 2015. Diffamazione sì, istigazione all’odio razziale no. Dare dell’orango a una persona di colore non merita un processo. Ma chi riceve l’epiteto ha almeno il diritto di rivalersi. Così il Senato ha deciso sull’autorizzazione a procedere contro il senatore della Lega Nord Roberto Calderoli che nel luglio 2013, durante un comizio a Treviglio, paragonò l’allora ministro per l’Integrazione Cècile Kyenge a una scimmia, per l’esattezza a un orango. Una decisione che ora potrebbe finire davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, dove annuncia che la porterà la Kyenge: “Il mio perdono a Calderoli l’ho dato, ma non si tratta più di un fatto personale. Ora è una questione di principio perché il messaggio che arriva dalle istituzioni ai nostri ragazzi e giovani è devastante”. Nel frattempo il M5s sottolinea la coincidenza tra la mezza “assoluzione” da parte del Senato per Calderoli e il ritiro del mezzo milione di emendamenti che il senatore del Carroccio aveva presentato per il disegno di legge sulle riforme istituzionali in discussione al Senato. “Il mercato delle vacche continua” commenta Riccardo Nuti. “Smanettando con Internet – disse Calderoli – apro "il governo italiano" e, cazzo, cosa mi viene fuori? La Kyenge. Io resto secco. Io sono un amante di animali, eh, per l’amore del Cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie. Però quando vedo le immagini della Kyenge e quelle sembianze da orango, resto ancora sconvolto”. Parole che avevano suscitato la reazione di tutte le più alte cariche dello Stato, a partire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Peraltro si segnalò, in quell’occasione, una difesa d’ufficio della senatrice Serenella Fucksia (M5s) – poi subito ritrattata – che spiegò che “tutti assomigliano a un animale”. Per esempio, aggiunse, l’ex M5s Adele Gambaro somiglia “a una mucca” o Nicola Morra che le ricordava “un camaleonte…”. La Fucksia, componente della Giunta per le immunità, aveva votato contro l’autorizzazione a procedere per Calderoli. La Procura aveva chiesto così il giudizio immediato. Ma una decisione del genere del Senato era nell’aria. La Giunta per le immunità, a suo tempo, a febbraio, si era espressa contro l’autorizzazione a procedere nel suo complesso. Tra coloro che votarono contro c’erano anche i commissari del Pd. “La condanna politica resta – disse allora il capogruppo democratico in giunta Giuseppe Cucca - però non ci sono le basi per l’istigazione razziale. E il magistrato non può procedere per diffamazione perché non c’è stata la querela da parte del ministro”. E così anche in Aula, a Palazzo Madama, la condotta di Calderoli è stata ritenuta insindacabile in quanto coperta dal primo comma dell’articolo 68 della Costituzione, in base al quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Il Pd sembrava averci ripensato, ma in Aula quell’orientamento è stato confermato. Il Pd in Aula ha chiesto invano di rinviare il voto finale. Così il relatore della proposta Lucio Malan (Forza Italia) ha proposto di votare il documento per parti separate: un primo scrutinio per la diffamazione ai danni dell’ex ministro di origine congolese, un secondo per l’istigazione all’odio razziale. Nel primo caso il Senato ha dato il via libera all’autorizzazione a procedere con 126 sì, 116 no e 10 astenuti. Per l’istigazione all’odio razziale l’Aula ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere con 196 no (46 i sì e 12 le astensioni).
Calderoli "razzista riluttante", scrive “L’Indro”. Il Senato lo salva dal processo per il caso "orango" Kyenge. Il M5S sospetta un voto di scambio sulle riforme. Il Senato concede l’autorizzazione a procedere contro Roberto Calderoli per diffamazione (ma non per odio razziale, salvandolo, di fatto, dal processo)) nei confronti dell’ex ministro Cecile Kyenge: l’aveva paragonata ad un orango. Lui risponde annunciando il ritiro dei 500mila emendamenti della Lega alla riforma costituzionale (tranne 10) allo scopo, dice, di riportare la discussione del ddl Boschi in commissione Affari Costituzionali dove il Giglio Magico «non ha i numeri». Ma per il M5S quello in corso tra il senatore leghista e la maggioranza è un «mercato delle vacche», una sorta di "voto di scambio". E, infatti, come volevasi dimostrare, la conferenza dei capigruppo, convocata sotto il tiro dei fucili Pd da Pietro Grasso al Senato, proprio per forzare i tempi dopo la rottura del tavolo delle trattative sulle riforme tra renziani e minoranza Dem, ha comunque stabilito di portare il testo in aula già da domani saltando il passaggio in commissione. Il forzista Paolo Romani parla di «forzatura inaccettabile» e smentisce con decisione la riedizione del patto Nazareno e il "soccorso azzurro". E il premier, sull’orlo di una crisi di nervi, prima convoca la Direzione del partito per lunedì prossimo allo scopo di rimettere in riga i bersaniani, e poi incontra Flavio Tosi a Palazzo Chigi ottenendo, non si sa in cambio di cosa, il ‘non ostruzionismo’ delle tre senatrici tosiane sulle riforme. Respinte con voto segreto, sempre a Palazzo Madama, le dimissioni dell’ex M5S Giuseppe Vacciano, ora nell’Idv per votare (forse) insieme a Renzi. Terroristi di tutto il mondo tremate: le Agenzie ci danno conto che questa mattina si è tenuta a Palazzo Chigi una nuova riunione sul tema del contrasto al terrorismo. A formare la task force tricolore, oltre all’ubiquo Renzi, i ministri Alfano, Boschi e Gentiloni. Migranti, Beppe Grillo d’accordo col Dalai Lama: «Impossibile accoglierli tutti». Nonostante il gruppo Pd avesse espresso palesemente l’intenzione di rinviare il voto in aula sull’autorizzazione a procedere contro il leghista Roberto Calderoli (probabilmente per ammorbidirlo in vista della concitata votazione sulle riforme costituzionali), oggi Palazzo Madama ha detto sì all’inchiesta per diffamazione nei confronti del suo vicepresidente. Pietra dello scandalo sono le offese rivolte nel 2013 da Calderoli all’ex ministro del governo Letta Cecile Kyenge, colpevole di avere la pelle nera e di assomigliare, secondo il lombrosiano e "macumbato" leghista, ad un «orango». 126 i voti favorevoli, 116 i contrari e 10 gli astenuti, un voto sul filo di lana che, però, ha al contempo respinto l’accusa, grave ed infamante, di istigazione all’odio razziale. Ma è su questo punto controverso (il voto separato dell’aula su reato di diffamazione e aggravante di odio razziale che ‘disinnesca’ il processo) che si innestano i sospetti del M5S. «Il Pd salva Calderoli dal processo penale e lui ritira i suoi 500mila emendamenti. Il mercato delle vacche continua», scrive su twitter Riccardo Nuti. «Calderoli ritira suoi ridicoli 500mila emendamenti subito dopo voto Senato che lo salva da processo penale. Vedete un nesso?», cinguetta il suo collega Danilo Toninelli. Il protagonista della triste vicenda, intanto, aveva provato a scusarsi prima con un autodafé («avrei voluto tagliarmi la lingua») e poi cercando di strappare lacrime ricordando che «proprio in quel periodo avevo subito 4 interventi chirurgici pesanti. Stavo facendo la chemioterapia, e anche ora la faccio, ed è pesante e quando la fai con la testa non ci sei e qualche stupidata magari scappa». Nelle sue condizioni, appunto, sarebbe meglio tacere. Ma il padre del Porcellum anziché lasciare, raddoppia e annuncia di essere disposto a ritirare gran parte della montagna di emendamenti presentati dalla Lega al ddl Boschi. Unica condizione: il ritorno del testo in commissione Affari Costituzionali per riprendere la discussione. «Renzi vuole andare in aula non per il numero degli emendamenti», spiega così la sua scelta Calderoli, «ma perché non hanno i numeri in commissione e non ce li hanno in aula». Dichiarazioni che, secondo i grillini, sarebbero niente altro che menzogne. Infatti, il redde rationem in casa Pd sulle riforme costituzionali è stato già fissato direttamente da Matteo Renzi per lunedì 21 settembre, quando si riunirà la Direzione del partito. Ma l’odierna linea del Piave è stata la conferenza dei capigruppo, convocata per oggi pomeriggio dal presidente del Senato Pietro Grasso, messo sotto pressione dal governo e dalla maggioranza renziana del Pd. Dopo il rovesciamento del tavolo della trattativa con la minoranza Dem, almeno per quanto riguarda gli incontri ufficiali e non il mercato dei voti, il Giglio Magico pretendeva di calendarizzare al più presto il voto sulle riforme perché, come ha detto il premier, bisogna chiudere entro il 15 ottobre. E il ddl Boschi già domani sarà a Palazzo Madama, confermando in pieno i sospetti a 5Stelle. Peccato che i rivoltosi in camicia rossa (si fa per dire) vogliano (o vogliono far credere di) vendere cara la pelle. «Ma io non potevo mica rimanere a quel tavolo: perché, mentre noi trattavamo, all’esterno una parte del Pd faceva il tifo per la rottura», spiegava stamane al "Corriere della Sera" la "Giovanna D’Arco bersaniana" Doris Lo Moro, «perché mentre noi affrontavamo il nodo dell’elettività diretta dei futuri senatori, all’esterno il presidente Renzi chiudeva sull’articolo 2». Sempre per il capitolo riforme, ci pensa il forzista Paolo Romani a smentire alcune ricostruzioni giornalistiche che danno per risorto il patto del Nazareno con l’obiettivo di far respirare una boccata di voti in più alla maggioranza che rischia di non avere i numeri a Palazzo Madama. «Forza Italia è solida e compatta: i problemi ce li hanno gli altri, nel Pd e nell’Ncd. Il ‘soccorso azzurro’ sul ddl riforme non ci sarà», assicura Romani intervistato da ‘Libero’. Smentite anche le voci di un voto favorevole alle riforme renziane da parte dei senatori Bernabò Bocca e Franco Carraro perché, conclude Romani, «sono persone perbene e non intendono minimamente disattendere all’indicazione del gruppo». A cercare di far dormire sonni tranquilli al tormentato presidente Renzi ci prova, invece, il senatore amico del ‘casalese’ Nicola Cosentino, Vincenzo D’Anna, vicepresidente del gruppo Ala (Alleanza Liberalpopolare Autonomie), ovvero il braccio destro di Denis Verdini. «Con questa vicenda Renzi si libererà della minoranza interna», confida D’Anna al quotidiano ‘Il Mattino’, «probabilmente sfiorerà i 170 voti. Ad ogni modo poi ci siamo noi 13 verdiniani». Fa discutere il post pubblicato sul blog di Beppe Grillo che riporta le parole del Dalai Lama sulla questione migranti. «Penso che Germania e Austria abbiano avuto una buona risposta alle migrazioni, ma bisogna riflettere: è impossibile che tutti possano venire in Europa», ha detto la guida spirituale del buddhismo durante un viaggio in Gran Bretagna. Non che il monaco tibetano si sia trasformato di punto in bianco nel nuovo Matteo Salvini. Il Lama, infatti, elogia quei paesi europei che hanno deciso di accogliere i profughi, ma ricorda anche che l’ondata migratoria deve essere gestita in qualche modo, soprattutto cercando di risolvere alla radice i problemi dei paesi poveri, affamati da secoli di colonialismo imperialista. Di fatto, le stessa posizione espressa dal M5S.
Ecco chi ha salvato Roberto Calderoli dall'accusa di razzismo. Due terzi dei senatori democratici, sinistra interna compresa. Una metà dei vendoliani. Qualche Cinque stelle, espulsi inclusi. Tutti convinti che nelle parole dell'esponente leghista ("la Kyenge sembra un orango") non ci fosse un intento discriminatorio basato sul colore della pelle, scrive Paola Fantauzzi su “L’Espresso”. Roberto Calderoli"Vorrei proprio vedere se hanno il coraggio di guardarmi negli occhi": se, come ha affermato all'Espresso, aspetta un segnale dai senatori Pd per il voto di Palazzo Madama che ha salvato Roberto Calderoli da un processo per razzismo, Cécile Kyenge può probabilmente attendere in assoluta calma. Dietro la fredda conta numerica, infatti, c'è tutto un abisso da esplorare. Dai risvolti sinceramente inaspettati. Secondo l'esito della votazione, solo 45 senatori hanno reputato che, per aver paragonato l'allora ministro dell'Integrazione a un orango, Calderoli meritasse l'aggravante della discriminazione razziale prevista dalla legge Mancino. Mentre per ben 196 quella "battuta", come l'ha definita il suo autore, era insindacabile, perché in quel comizio il politico leghista stava esercitando le sue funzioni da parlamentare. L'europarlamentare dem se la prende col suo partito: "Così ci distinguiamo dai populisti? Con quale coraggio rimprovereremo i nostri figli quando li sentiremo fare affermazioni razziste?". E sottolinea: "Quell'insulto, al Paese intero, ora arriva dalle istituzioni". A scandagliare dietro questi quasi 200 senatori che hanno "graziato" l'esponente del Carroccio dalla pesantissima accusa, come ha fatto l'Espresso sulla base dei tabulati e delle votazioni, si resta tuttavia sorpresi per l'entità del supporto ricevuto dallo schieramento avverso. A essere convinti che paragonare una donna di origini congolesi a un primate non prefiguri un caso di razzismo che esuli dalle funzioni parlamentari sono stati 81 senatori Pd. Ovvero oltre due terzi del totale, considerato che i democratici a Palazzo Madama contano 113 onorevoli. Con una trasversalità assoluta fra maggioranza, minoranza interna, dissenzienti e dissidenti vari. Si va dal capogruppo Luigi Zanda presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, relatrice delle riforme costituzionali lo scorso anno proprio con Calderoli, dalla vicepresidente del Senato Valeria Fedeli a renziani osservanti tipo Andrea Marcucci. Fino agli anti-Renzi per eccellenza, esponenti della sinistra interna che in questi giorni stanno alzando le barricate sulla riforma della Costituzione come Vannino Chiti o il bersaniano Miguel Gotor. Di questi 81, la gran parte (68) hanno votato l'autorizzazione per far processare Calderoli per diffamazione, in ossequio alla via di mezzo escogitata dal Pd per non "assolvere" del tutto l'ex ministro. Ma ce ne sono stati alcuni che hanno votato sia contro l'aggravante razziale che contro la diffamazione, proprio come il centrodestra. Nove in tutto: Daniela Valentini, Mara Valdinosi, Maria Rosa Di Giorgi, Silvana Amati, Corradino Mineo, Raffaele Ranucci, Francesco Scalia, Ugo Sposetti e Ludovico Sonego. Altri ancora hanno invece ritenuto non ci fosse discriminazione e non hanno votato al momento di esprimersi sull'autorizzazione a procedere per diffamazione: Anna Finocchiaro, Rosanna Filippin, Walter Tocci, Giuseppe Cucca, Claudio Broglia e Rosaria Capacchione. Ma la convinzione che non ci fosse del razzismo nelle parole di Calderoli ha fatto breccia anche in un partito, come Sel, che si dice in prima linea sui diritti civili. Su sei senatori vendoliani, tre hanno votato contro l'aggravante della discriminazione e si sono astenuti sulla diffamazione: Loredana De Petris, Luciano Uras e Giovanna Petraglia. Con loro anche l'ex grillina Maria Mussini. Calderoli ha comunque potuto contare anche sull'aiuto di alcuni Cinque stelle, malgrado l'indicazione del gruppo prevedesse due voti contrari alle proposte di insindacabilità. Serenella Fucksia, la senatrice "tentata" dal salvataggio di Giovanni Bilardi in Giunta delle immunità - come Adele Gambaro, espulsa dal M5S - ha votato come il centrodestra: nelle parole di Calderoli non prefigura diffamazione né razzismo. Mentre le grilline ortodosse Laura Bottici e Nunzia Catalfo non hanno votato sull'aggravante razziale ma si sono espresse a favore del processo per ingiurie. Non è mancata neppure qualche sorpresa assoluta, come quella che riguarda le senatrici fuoriuscite dal Carroccio per aderire al progetto "Fare!" di Flavio Tosi: Raffaela Bellot, Patrizia Bisinella ed Emanuela Munerato. Tutte e tre si sono espresse sia a favore della discriminazione razziale che della diffamazione. Hanno votato male o si tratta di una vendetta postuma nei confronti dell'ex collega leghista?
Calderoli, i politici "dicono, disdicono, stradicono, non dicono niente”. Il Senato ha detto sì all’autorizzazione a procedere per diffamazione, no a quella per istigazione all’odio razziale, nei confronti del sen. Calderoli, che nel 2013 aveva definito "orango" l'allora ministro per l'immigrazione. La conclusione: si può dire e fare quasi tutto in proporzione del potere che si ha, dal blog L'inquieto di don Vinicio Albanesi su “Redattore Sociale”. Tra le notizie belle di questa mattina abbiamo letto che il Senato della Repubblica italiana ha detto sì all’autorizzazione a procedere per diffamazione, no a quella per istigazione all’odio razziale nei confronti del sen. Calderoli. Il 13 Luglio 2013, durante un comizio a Treviglio, l’allora Vice-Presidente del Senato aveva detto: “Smanettando con internet apro “il governo italiano” e, cazzo, cosa mi viene fuori? La Kyenge. Io resto secco. Io sono amante di animali, eh, per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie, però quando vedo le immagini della Kyenge e quelle sembianze di orango, resto ancora sconvolto”. Evviva il nostro Senato della Repubblica perché al rispetto delle istituzioni (verso un Ministro) al rispetto di una donna (nel caso della Kyenge) al rispetto della la verità (che cosa di più ignobile si potrebbe dire a una donna di colore) ha preferito piccoli e grandi strategie di politica nazionale (equilibri, riforme, governabilità, stabilità economica). Non è vero nulla: i nostri rappresentanti al Senato si sentono onnipotenti. Gestiscono concetti, parole, indicazioni fuori da ogni realtà e buon senso. “Dicono, disdicono, stradicono, non dicono niente” affermava S. Caterina da Siena ai potenti del suo tempo. Con esempi così eccelsi, difficile combattere il bullismo a scuola, gestire le paure dell’immigrazione, dare un futuro ai giovani e alle famiglie. La conclusione che si trae è facile: si può dire e fare quasi tutto in proporzione del potere che hai. Il colpevole tenderà a minimizzare (ha chiesto scusa, ha mandato fiori), i sodali cercheranno le vie d’uscita nelle pieghe di un regolamento debitamente ammansito. Si invocherà comprensione e misericordia senza spese. Perché – il bello deve venire – la pena per l’offesa non sarà troppo onerosa: lo spirito è quello dei “compagni di merenda”; una battuta colorita, un linguaggio proporzionato alla lotta politica … bla, bla, bla … forse un po’ esagerato! Oggi a te, domani a me. Tutti resteranno in silenzio, perché devi far parte dell’istituzione, altrimenti ridiventi un comune cittadino: in politica, in magistratura, nella finanza, nella Chiesa. Al dunque le lotte liberatorie, le utopie, un futuro radioso scompaiono nei privilegi di quanti hanno fatto le leggi per tutelare i propri interessi. Saranno i convegni di sociologi, antropologi, economisti a tentare di spiegare perché metà della popolazione non va a votare. Ma l’istituzione si regge anche quando più della metà degli aventi diritto non partecipa. Tutto previsto.
Soldi ai partiti, 180 milioni di rimborsi: così la Lega ha spremuto “Roma ladrona”. Il Carroccio ha beneficiato di tutte le leggi sui contributi elettorali statali. Dal 1988 al 2013. Dal fondatore Umberto Bossi al nuovo leader Matteo Salvini. Passando per Roberto Maroni. Eppure il partito ora ha le casse vuote. E vari processi aperti per le spese pazze dei suoi vertici, scrivono Francesco Giurato e Antonio Pitoni su “Il Fatto Quotidiano”. Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova. Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996. L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimo blitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura. Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro. E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.
FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD (1988-2013)
1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57
TOTALE 179.961.382,78
Lega morosa, le bollette di Pontida intestate a un militante. Alla segreteria federale l’Enel non allaccia la corrente, l’escamotage per il raduno, scrive Anna Gandolfi su “Il Corriere della Sera”. Girano i tagliaerba per il coup de théâtre del raduno 2015. Girano per riprodurre un enorme Sole delle Alpi, tributo al bandierone (17 mila metri quadri) che nel 2005 venne steso sui prati per festeggiare il ritorno a Pontida di Umberto Bossi dopo la malattia. Tagliano e scavano i leghisti, in un’opera di cesello vegetale che ha rischiato di finire oscurata. Letteralmente. Il raduno avrebbe potuto restare senza corrente elettrica: causa bollette non pagate in sedi sparse qui e là per l’Italia (partita Iva unica, tutto il mondo leghista è paese) il partito a livello centrale risulta moroso e l’Enel ha risposto picche quando dalla segreteria orobica che si occupa dell’organizzazione è stato chiesto di attivare il (solito) contratto per gli allacciamenti di palco, musica, schermi e via dicendo. Ostacolo aggirato alla fine, con un militante che si è intestato la fattura (non si va oltre i 200-300 euro) e il direttivo a certificare il lesto rimborso. Eppure la procedura che per ogni gestore elettrico è prassi, e che molti partiti ormai conoscono bene (vedere per credere Forza Italia a Treviglio, dove per pagare la bolletta dell’acqua si deve fare colletta), sul pratone ha portato un paio d’ore di brivido per il rischio black out impensabile in vista del raduno che Matteo Salvini ha già definito «evento», quello in cui «lanceremo la sfida a Renzi per governare il Paese». Girano i tosaerba a Pontida. Da queste parti, come in segreteria, non si trova nessuno disposto a confermare lo sventato pericolo, ma la faccenda non è vox populi e fornisce anche uno spaccato dei tempi: il taglio del finanziamento pubblico alle forze politiche lascia le casse nazionali vuote e si abbatte sulle sedi locali. C’è chi resta senza corrente e chi fa colletta, chi ricontratta gli affitti e chi abolisce l’uso della carta. La spending review regna sovrana tra sezioni e sezioncine, ma c’è chi oltre al danno si becca la beffa. Restando alla Lega, non si deve andar lontano. La segreteria orobica ha storicamente i conti in regola: grazie ai risparmi per una sede concessa gratuitamente per anni in via Berlese e ai contributi volontari extra versati dagli eletti (in particolare parlamentari e consiglieri regionali, che in una terra roccaforte sono parecchi) si è arrivati ad accumulare in banca circa 400 mila euro. Una cifra - pare - superiore a quella di tutto il resto delle segreterie lombarde. Eppure la Lega orobica del tesoretto è beffata: esempio lampante, quello del pratone. Non è la sola, come non è un mistero che problemi nei conti federali siano dovuti a gestioni nebulose del passato o ad aree meno autonome economicamente situate soprattutto al Centro. Ebbene: Salvini stesso ha deciso di mettere mano alla faccenda con un congresso federale. Riunione domani mattina a Milano proprio per «motivi fiscali»: si mette mano allo statuto per dare autonomia alle diverse regioni, visto che anche il Carroccio ha ritrovato in se stesso i problemi del tanto vitu perato centralismo. La Lega Nord federale dividerà le sue sorti fiscali da quelle degli organismi locali sbloccando una situazione che stava ingessando tutti. Altro esempio concreto: 70 dipendenti che facevano capo a via Bellerio sono in cassa integrazione, ragion per cui ogni altra assunzione è bloccata, anche nelle province che hanno fondi. Di nuovo, è toccata anche Bergamo. Ma l’ottovolante della casse non tocca certo solo i leghisti. Forza Italia, storicamente il partito borghese, è in una situazione ancora più pesante. Basti pensare che, per la prima volta dal 1994, gli azzurri non hanno più una sede provinciale: la base di via Frizzoni è stata chiusa da poco, l’affitto giudicato oneroso, e mai più sostituita. «Hanno detto che ci avrebbero dato il nuovo indirizzo, così li saremmo andati a trovare: non li abbiamo più sentiti», racconta un vicino, ormai ex. Sembrano passati secoli da quando l’allora coordinatore pdl Carlo Saffioti decise di trasferire armi e bagagli da Piazza della Libertà e venne contestato per la base «troppo periferica». Il costo - sembra - si ridusse da 40 mila euro l’anno a 20 mila. Era il 2011. Oggi anche 20 mila sono proibitivi. L’anno scorso era stato tagliato il telefono, via libera ai cellulari personali. Per la sede di Treviglio la segreteria ha dovuto farsi anticipare da un sostenitore 250 euro per l’acqua, salvo poi lanciare un appello per la colletta. Sono tempi grami.
Quanti guai per Roberto Maroni, indagato per i viaggi pagati da Expo. La Procura di Milano chiude le indagini sul governatore lombardo: «pressioni per un contratto alla sua collaboratrice» nella società che gestisce il grande evento e un viaggio a Tokyo. Un’altra pista porta invece ad un bando su misura. Al centro dei favori due ex fedelissime che hanno lavorato con il leghista al Viminale, scrive Michelle Sasso su “L’Espresso”. Il viaggio in Giappone, l’sms galeotto e la collaboratrice «con una relazione affettiva» assunta da Expo per evitare polemiche in Regione Lombardia. Sembra la trama di un film di terz’ordine invece sono le accuse al governatore lombardo Roberto Maroni che rischia di finire a processo e nel caso di condanna (anche solo di primo grado) di dover lasciare la poltrona secondo la legge Severino che prevede la sospensione. Sono i possibili effetti della chiusura delle indagini da parte della Procura di Milano in vista della richiesta di rinvio a giudizio a carico dell’ex segretario della Lega Nord accusato di “turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente” e “induzione indebita” per presunte pressioni per far ottenere un lavoro e un viaggio spesato a Tokyo a due sue fedelissime. Una presunta raccomandazione che avrebbe portato Maria Grazia Paturzo (non indagata), che collaborava con Maroni quando era ministro dell’Interno, ad ottenere un contratto come “temporary manager” nella società che gestisce l’esposizione universale di Rho. I due come scrive il pm nell'atto di chiusura indagini, sarebbero stati “legati da una relazione affettiva” e ciò emergerebbe da un verbale e da alcuni sms. "Sono tranquillissimo. Non ho mai fatto pressioni in vita mia per nessuno. Né amici né parenti". Il presidente di Regione Lombardia Roberto Maroni commenta così la notizia della chiusura delle indagini da parte della Procura della Repubblica di Busto Arsizio. Secondo i pm il governatore di Regione Lombardia fece pressioni per favorire una donna con cui aveva una relazione affettiva. Secondo gli investigatori, Maroni non avrebbe potuto inserire la professionista nel suo staff al Pirellone e, dunque, avrebbe concordato per lei con il capo di Expo Giuseppe Sala (solo teste nell'inchiesta) un contratto di sei mesi da 5mila euro e scaduto lo scorso ottobre. C’è anche dell’altro. Nel viaggio del 2 giugno 2014 verso l’estremo oriente, secondo la ricostruzione della magistratura, l’ex ministro avrebbe voluto che Paturzo fosse inserita nella delegazione della Regione per il viaggio e che fosse spesata da Expo, perché il Pirellone non poteva coprire i costi. Da qui le sue presunte "pressioni" sul direttore di Expo Christian Malangone, attraverso il capo della sua segreteria Giacomo Ciriello. Il direttore, dal canto suo, avrebbe promesso di “intervenire” sui vertici Expo per il pagamento di biglietti aerei business class e per il soggiorno di lusso in un albergo per un totale di oltre 6mila euro di spese. Il 27 maggio 2014, in particolare, Ciriello e Malangone si sarebbero incontrati e quest’ultimo, stando agli atti, avrebbe spiegato di dover chiedere l'ok a Sala, che diede parere contrario. Il 28 maggio, si legge nell'imputazione, Malangone ricevette un sms da Ciriello: «Christian il Pres ci tiene acché la delegazione per Tokyo comprenda anche la società Expo (attraverso la dott.sa Paturzo)», ed è completato da una domanda che nell’imputazione risulta saltata: «Puoi parlarne con Sala o autorizzarne la missione?». Malangone avrebbe attivato gli uffici di Expo per l'acquisto dei biglietti e la prenotazione dell’albergo. Poi ancora un sms a Ciriello: «Di' alla Paturzo di mandare mail ad Arditti», capo della comunicazione di Expo, per l'autorizzazione. Cosa che puntualmente lei avrebbe fatto. A questo punto tutto sarebbe andato in porto, perché Malangone comunicò a Ciriello: «Ok, capo allineato». Prima della partenza il colpo di scena: Ciriello avrebbe chiamato Malangone per chiedergli di “sospendere” i voli, anche se i biglietti erano già stati emessi. Per gli inquirenti Paturzo non partì perché Maroni decise così per mettere a tacere alcuni contrasti all'interno del suo team di collaboratori ed forse evitare un focolaio di polemiche. Così la missione a Tokyo venne guidata dal vicepresidente Mario Mantovani. L'inchiesta è virata sulle spese del viaggio nell'ambito del “World Expo Tour”, una serie di missioni internazionali per attirare folle di turisti pronti a visitare Milano e “accendere i territori”. Partito a gennaio 2014 ha fatto tappa a Barcellona, Bruxelles, Parigi, Berlino, Dublino, Berna, Tokyo, Roma, Londra, Washington, Montreal, Shanghai, Dubai, Vienna, Varsavia, Bucarest, Istanbul, Tel Aviv, New York. Volo, soggiorno di poche ore in cui il governo "federale" incontra la comunità economica e le ambasciate, si stringono le mani e si riparte. Tra i sei indagati, che hanno ricevuto l'avviso di conclusione indagini firmato dal pm Eugenio Fusco, c’è anche Expo 2015 spa, coinvolta in base alle legge sulla responsabilità amministrativa degli enti, oltre al direttore generale della stessa società Christian Malangone, e Andrea Gibelli, segretario generale del Pirellone e da poco nominato presidente di Ferrovie Nord Milano. Questo il commento di Maroni: «Finalmente dopo un anno le indagini si chiudono, era ora. Se per una sciocchezza come questa ci vuole un anno, poveri noi. Io sono tranquillissimo». C’è però un altro filone d’inchiesta per un’altra persona vicina al governatore. Si tratta di Mara Carluccio ed Eupolis, l’ente di Regione Lombardia per la ricerca, la statistica e la formazione. In questo caso l’accusa è aver turbato la gara per favorire l'assegnazione di un contratto da 29.500 cucito su misura per la ex collaboratrice ai tempi del Viminale. Eupolis è una delle controllate dell’universo di Regione Lombardia create su misura dall’ex governatore Roberto Formigoni nei 18 anni del suo regno. Cosa c’entra un istituto di ricerca, statistica e formazione a controllo regionale con un evento che ha come obiettivo attirare milioni di visitatori nel sito a due passi da Milano? Apparentemente nulla ma l’ex presidente è stato un grande protagonista delle scelte in chiave Expo (il 20 per cento è proprio del Pirellone) e tutte le società regionali hanno avuto una parte di appalti. Per la Carluccio un bando ad hoc, secondo l'accusa, anche grazie all'intervento di Gibelli e dell'allora direttore della controllata Alberto Brugnoli, che ha già patteggiato. Ogni desiderio delle donne del cerchio magico maroniano erano un ordine: Questo è l’sms spedito da Carluccio a Brugnoli prima dell’assunzione: «Gentile dottor Brugnoli, ho parlato con il mio commercialista che, per evitare di pagare troppe tasse, mi ha consigliato di prevedere una retribuzione che non superi 29.500 euro». Detto-fatto: in pochi giorni cifra stabilita e firma dell’incarico di consulenza alla signora.
Roberto Maroni, consulenze per le amiche. Non solo la Regione, le due donne al centro dell'inchiesta sulle pressioni di Maroni ebbero molti contratti anche dal Viminale. E il prefetto Caruso ricorda: «Segnalazioni pure per gli incarichi dell'emergenza immigrati», scrivono Piero Messina e Francesca Sironi su “L’Espresso”. Le due donne per le quali Roberto Maroni avrebbe chiesto, secondo la Procura di Milano, contratti di favore in Expo spa e in una partecipata di Regione Lombardia, hanno alle spalle una lunga carriera all'ombra del leader leghista, ricostruita da “l'Espresso” nel numero in edicola domani. C'è Mariagrazia Paturzo, la giovane con cui Bobo avrebbe scambiato messaggini “a tutte le ore”, che nel 2010 viene assunta dall'Agenzia per i beni confiscati alla mafia, alla cui guida Maroni aveva appena nominato l'attuale capo dell'Immigrazione Mario Morcone. Ma soprattutto c'è Mara Carluccio, salita nelle stanze del potere quando era ministro del Lavoro e che durante il suo mandato agli Interni, fra il 2008 e il 2011, colleziona ben dieci incarichi e poltrone, consulenze da 30mila euro l'anno e ruoli di prestigio, senza – stando al suo curriculum depositato agli atti – essere neppure laureata. Roberto Maroni, le donne e le consulenze. Non solo il Pirellone: anche contratti agli Interni per le due protette del governatore. E il prefetto Caruso: segnalazioni pure per l’emergenza immigrati. In quel periodo il ministro è ospite frequente a casa sua e del marito, Gioacchino Gabbuti, ex amministratore Atac che secondo la Procura di Roma proprio in quegli anni sottraeva fondi alla società capitolina per consulenze fittizie a San Marino. Che Maroni a volte suggerisse segnalazioni preferenziali lo ricorda poi a “l'Espresso” il prefetto di Palermo Giuseppe Caruso, nel 2011 commissario straordinario per l'emergenza migranti: «Mi venne chiesto di arruolare due signore indicate dal ministro Maroni. Non ricordo come si chiamassero, ma quell’episodio mi diede un po’ fastidio: in quei giorni avevo un’emergenza da affrontare…». Roberto Maroni, le donne e le consulenze. Non solo il Pirellone: anche contratti agli Interni per le due protette del governatore. E il prefetto Caruso: segnalazioni pure per l’emergenza immigrati. Bisogna aver talento, tanto, anzi parecchio, per essere esperte di pari opportunità e cooperazione, sicurezza e immigrazione, nonché d’infanzia e «riorganizzazioni societarie». E tutto senza bisogno di una laurea: nel curriculum depositato al Viminale nel 2014 i suoi studi si fermano infatti al diploma dalle Suore Marcelline. Lei è Mara Carluccio e il talento lo ha dimostrato con costanza a Roberto Maroni, con cui è indagata a Milano per una consulenza affidatale da una partecipata di Regione Lombardia: trentamila euro “strappati” secondo gli inquirenti in modo irregolare all’ente pubblico. L’inchiesta giudiziaria la unisce alla bella Mariagrazia Paturzo, con cui secondo i pm Bobo scambiava messaggini “a ogni ora del giorno”, prima e durante l’incarico a lei assegnato nel 2014 da Expo spa come “temporary manager”. Ma questi due contratti non sono che l’ultimo anello di una carriera cucita all’ombra del leader leghista e ricostruita da “l’Espresso”. Che il politico di Varese smistasse a volte segnalazioni preferenziali lo rammenta il prefetto Giuseppe Caruso, commissario straordinario per l’emergenza migranti nella primavera del 2011. «Il ruolo mi venne affidato dal governo Berlusconi perché ero prefetto di Palermo, e vivevo in prima linea quel che succedeva a Sud», racconta il funzionario: «Quando si seppe che da decreto c’era la possibilità di usare dei consulenti mi venne chiesto di arruolare due signore indicate dal ministro Maroni. Non ricordo come si chiamassero, ma quell’episodio mi diede un po’ fastidio: in quei giorni avevo un’emergenza da affrontare…». E finì per preferire alle due “segnalate” un avvocato dello Stato, un giudice contabile e un magistrato del Tar. Per Mariagrazia Paturzo il salto di carriera risale a prima. È il 2010, Maroni è ministro dell’Interno e ha appena nominato alla guida dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia l’attuale capo dell’Immigrazione Mario Morcone. Dopo una selezione, l’Agenzia assume la Paturzo all’ufficio relazioni esterne, con uno stipendio per due anni da 27mila 828 euro. Fra le due donne è però Mara Carluccio a ricevere più ruoli ufficiali. Il suo rapporto con il lùmbard d’altronde inizia già nel 2001, quando lui sbarca al ministero del Lavoro e lei sale nelle stanze del potere. E prosegue all’Interno. Nel 2008 il Viminale le affida il «rafforzamento legislativo» del G8: due mesi, 10mila euro. Nel 2009 ha il compito di «studiare politiche di genere»: 31.200 euro. A dicembre si insedia all’Osservatorio nazionale sulla Famiglia. Pochi mesi dopo è sua una poltrona all’Osservatorio nazionale per l’Infanzia, sempre su indicazione degli Interni. Non sono incarichi danarosi, ma certamente di prestigio. Di soldi d’altronde Mara non sembra averne troppo bisogno, se il broker romano Giancarlo Lande, il Madoff dei Parioli, aveva potuto bruciarle 218mila euro. A Roma, durante il mandato all’Interno, il ministro leghista non incontra la Carluccio solo in ufficio: Maroni è ospite frequente a casa sua e del marito, Gioacchino Gabbuti. Ex amministratore di Atac, Gabbuti è stato coinvolto in un’inchiesta su milioni di euro sottratti alla società capitolina e transitati a San Marino proprio in quegli anni, dal 2007 al 2011. Coincidenza: nel 2012 di fianco al ministro Anna Maria Cancellieri alla firma di un accordo contro la criminalità fra Roma e San Marino c’è anche lei, la “dottoressa” Carluccio. I suoi incarichi romani infatti proseguono anche dopo l’addio del leghista. Nel 2012 il Dipartimento di pubblica sicurezza le dà 10mila euro per uno studio su come «combattere l’immigrazione illegale». Ancora nell’aprile del 2014 ottiene un contratto agli Interni, ma risulta «non perfezionato»: forse perché a luglio emergono le indagini sulla consulenza al Pirellone.
Roberto Maroni, da statista ad estremista. L'inchiesta che coinvolge il governatore spazza via una delle poche certezze rimaste del vecchia carroccio. E lui da politico "ragionevole" diventa simbolo anti-immigrati che arriva a proporre di abolire Schengen: quasi che respingere loro, significhi respingere tutte le altre accuse, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Di Roberto Maroni, almeno nella Lega, ce ne è sempre stato uno. Equilibrato, rassicurante, al limite grigio ma non esente da guizzi, sposato con una compagna classe, tre figli, sempre uguale a se stesso. Di recente, pare invece che da uno si sia fatto bino: e il bello è che nessuno dei due Maroni di oggi sembra somigliante al Maroni di ieri. Ce ne è uno, per dire, grafomane: due lettere ai prefetti lombardi in quattro giorni, roba che nemmeno Angelino Alfano. Grafomane e appassionato alla causa no-immigrati persino più di Matteo Salvini e Beppe Grillo messi assieme: diffida i comuni lombardi ad accoglierli, dice che il governo ha una gestione “inadempiente” e “improvvisata” nella distribuzione dei migranti alle regioni, spiega che bisogna “sospendere Schengen”, “impedire le partenze con il blocco navale”, “fare campi profughi in Libia”. L’altro Maroni, quello che spunta dalle carte dell’inchiesta milanese condotta dal pm Eugenio Fusco, è altrettanto inedito: uno che scrive “ciao splendore” alla sua ex collaboratrice Maria Grazia Paturzo, secondo i magistrati legata a lui da una “relazione sentimentale”, la invita in camera al berinini bristol “sono alla 506”, si impegna per un (poi mancato) viaggio a Tokio, e soprattutto per far ottenere a lei e un’altra amica un paio di contratti di lavoro, in Expo e in Eupolis. Ancora non è ufficialmente stabilito se si tratti di comportamenti penalmente rilevanti: ad ogni buon conto, nell’avviso di conclusione indagini, il pm ipotizza induzione indebita e turbata libertà nella scelta del contraente. Insomma, sul Maroni supposto gaudente pende ora la tegola giudiziaria, potenzialmente in grado di abbattersi anche sotto forma di legge Severino, ossia di sospensione dalla guida della Regione. Si vedrà. Ma intanto, che imbarazzo, che disagio, che disdetta. Proprio adesso che il governatore della Lombardia per dirla col Foglio era “uscito dal coma”, rilanciando la Lega verso Forza Italia, lanciando Salvini verso le primarie. Proprio adesso che dopo anni da pacato amministratore, pareva pronto a lanciarsi di nuovo nell’agone della politica sanguinolenta. E va bene che, dopo i Belsito e Trota e i diamanti, la Lega di un tempo non c’è più da un pezzo, e va bene che non ci sono più le mezze stagioni, però che l’ultima primavera portasse via anche l’immagine che Maroni si è costruito in oltre un ventennio di politica leghista toglie anche l’impressione che qualcosa il tempo lo salvi. Immalinconisce, oltretutto. Nella Lega bossiana di lotta e di governo, Bobo era quello di governo. Ragionevole, sorridente, accomodante, al limite di sinistra (e non solo per il passato remoto, da ragazzo, nel gruppo marxista-leninista o in Democrazia proletaria), appassionato di musica e addirittura suonante l’Hammond o il sax nel suo gruppo, il Distretto 51. Mai un pettegolezzo, mai un capello fuori posto, figurarsi inchieste. Poi, dopo tante stagioni da autorevole secondo, il grande passo: sfilare al bossismo decadente il Carroccio, farselo intestare, diventare lui il capo. Ricostruire un minimo sindacale di credibilità, a colpi di ramazza. E, dopo diciotto mesi di transizione difficilissima, il capolavoro politico, l’accordo di spartizione che (salvo il caso Tosi) ha funzionato magnificamente: chiudersi in regione, passando lo scettro – la scopa magicamente tramutatasi in felpa – a Matteo Salvini, l’artefice del risorgimento leghista, dell’inimmaginabile riscossa. Naturalmente ora Maroni è “tranquillissimo”, spiega trattarsi di una “inchiesta ridicola, che è costata centinaia di migliaia di euro ai contribuenti”, mentre il Giornale parla ancora una volta di “giustizia ad orologeria” che si abbatte sul tentativo di ricostruire una alleanza politica nel centrodestra. Ma, al di là della verità processuale ancora tutta da stabilire, c’è intanto questo pastrocchio di immagine, nel quale l’unità almeno pubblica del personaggio pare essersi andata a farsi benedire. E un giorno Maroni tuona contro gli immigrati, un altro litiga con Renzi e con Alfano e smentisce gli accordi che lui stesso aveva siglato da ministro, un altro finisce in prima pagina per gli sms imbarazzanti, i curruculum tutti da inventare (“ma che ci devo scrivere? Io non ho fatto un cavolo”, dice Paturzo ad una amica), le raccomandazioni che la madre della sua ex collaboratrice fa alla figlia: “A Tokio vai a fare la regina”. E più escono notizie giudiziarie, più il governatore lombardo picchia duro sui migranti, e scrive, e avverte, e minaccia: quasi che respinger loro sia respingere il resto. O serva, per lo meno, a non pensarci.
Assessore dà la casa ai profughi, sospesa dal sindaco. Faggion: «Ho offerto un tetto a 15 migranti e il sindaco di Selvazzano mi ha punito. Sono iscritta alla Lega, ma lo rifarei», scrive di Alice Ferretti su “Il Mattino di Padova. «Cacciata dalla giunta perché ho data casa ai profughi». Questa l’accusa dell’ormai ex assessore del Comune di Selvazzano, appartenente alla Lega Nord, Daniela Faggion, che racconta delusa di essere stata estromessa dall’amministrazione comunale per aver messo a disposizione dei profughi un immobile di sua proprietà. Da martedì 9 giugno 2015, infatti, nella palazzina di via delle Cave 11 a Padova di proprietà dell’ex assessore all’Immigrazione di Selvazzano vivono 15 profughi africani arrivati da poco in città. Faggion ha, infatti, affittato tutti gli appartamenti del condominio alla cooperativa Populus, una delle tante a gestire l’emergenza profughi. Il fatto da subito ha scatenato perplessità e malumori tra i vicini e, in particolare, nel titolare dell’agenzia immobiliare che si trova al secondo piano del civico 11 e che ha manifestato la volontà di andarsene in seguito all’arrivo dei 15 africani. Dopo la tregua durata una settimana è già ripreso il flusso dei migranti provenienti dalla Sicilia. Non sono mancate le polemiche politiche con lo scarica barile tra Lega Nord e tosiani sull’appartenenza politica dell’ex assessore. Lunedì sera, nel frattempo, a Faggion sono state ritirate le deleghe. «Io sono iscritta alla Lega Nord», sottolinea. «Lunedì sera, prima della giunta, sono stata convocata dal sindaco che mi ha annunciato la mia sospensione dall’incarico di assessore. Quando sono arrivata ho visto gli altri assessori con dei musi lunghi come se avessi ucciso qualcuno, poi ho capito». Quanto alle spiegazioni date dal sindaco di Selvazzano, Enoch Soranzo, Faggion aggiunge: «Mi ha dato due motivi. Il primo perché a gennaio non avrei rinnovato la tessera della Lega e quindi non risulterei più tra i sostenitori, il secondo perché ho dato una mia proprietà ai profughi». Ma la Faggion è convinta che in realtà il motivo del suo allontanamento sia solo uno: quello di aver affittato ai profughi. «Innanzitutto voglio specificare che la mia tessera da sostenitrice della Lega Nord va rinnovata a settembre e non il primo gennaio, quindi non è ancora scaduta. E anche se lo fosse, non è assolutamente un motivo valido per sospendermi», dice l’ex assessore. «L’unico motivo che ha portato al mio allontanamento è l’aver dato una mia proprietà ai profughi». La reazione della Faggion alle parole del sindaco non è stata di pentimento. «Gli ho detto che sono contenta della mia scelta e che la rifarei mille volte. Non ho neanche potuto partecipare alla giunta perché il sindaco mi ha consigliato di andarmene visto che non ero più ben vista dai membri della giunta». Il sindaco: «Non è stata la nota del partito a spingermi a revocarle le deleghe, è una mia scelta autonoma». Faggion dice di non comprendere la scelta dell’amministrazione. «Non ho affittato un immobile a Selvazzano per cui devo rendere conto alla giunta di Selvazzano, ho affittato un immobile a Padova, perciò non capisco perché sia nata tutta questa confusione e perché ce l’abbiano tanto con me. La cosa mi sembra molto strana, con Selvazzano e il mio lavoro questo fatto non c’entra nulla», prosegue l’ex assessore. «Certo è vero che ho la delega all’immigrazione ma non ho mai fatto niente in quest’ambito, ho piuttosto lavorato sempre per quel che riguarda i parchi, le piste ciclabili, gli arredi urbani» prosegue l’ex assessore. «I miei appartamenti del condominio di via delle Cave erano in affitto da tempo e un’agenzia mi ha proposto di darli alla cooperativa Populus, alla quale, proprio perché parliamo di un fine solidale, ho affittato a prezzi quasi stracciati», conclude Daniela Faggion. «Devo essere sincera, sono contentissima di quello che ho fatto anche perché questi ragazzi africani si stanno comportando in modo davvero impeccabile».
Migranti, le sparate e le amnesie di Maroni. Il governatore lombardo gioca al ricatto contro l’accoglienza dei profughi: «Ai sindaci che dovessero prenderli ridurremo i trasferimenti regionali». Dimenticando che il piano di quote e l’apertura del centro di Mineo al centro dell’inchiesta Mafia Capitale, portano la sua firma come ministro dell’Interno del governo Berlusconi, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Se ci saranno rifiuti delle Regioni all’accoglienza dei profughi agiremo d’imperio». L’aut aut governativo ha il volto del ministro dell’Interno Roberto Maroni. E' marzo 2011, l’esecutivo è quello verde-azzurro di Umberto Bossi e Silvio Berlusconi e in piena emergenza Nord Africa, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia si abbatte sulle coste italiane: fra marzo e settembre l'esodo conta 60 mila persone. Il governo, con i leghisti al potere, applicò il sogno federalista anche per le quote: «Si procederà secondo il piano che ho sottoposto agli enti locali, che prevede un tetto massimo di 1.000 profughi ogni milione di abitanti», spiegava Maroni di fronte ai governatori riottosi e pronti a smarcarsi dalle quote di migranti. Passati quattro anni e a parti invertite, l’ex ministro ora governatore sancisce la sua nemesi politica con un “ricatto” ai comuni lombardi: «Io scrivo una lettera ai prefetti diffidandoli dal portare in Lombardia nuovi clandestini. E poi anche ai sindaci dicendo loro di rifiutarsi di prenderli. Ai sindaci che dovessero accoglierli ridurremo i trasferimenti regionali come disincentivo alla gestione delle risorse. Poi chi lo fa violando la legge, violando le disposizioni che io ho dato, subirà questa conseguenza». Il presidente della Regione Lombardia minaccia di tagliare i trasferimenti ai Comuni lombardi che dovessero accogliere nuovi migranti, mentre il Governatore del Veneto parla di "bomba pronta ad esplodere". In una caldissima domenica mattina di giugno l’ex segretario leghista spara a zero contro il governo mettendosi al di sopra di Roma e delle politiche di accoglienza nazionali. E dopo il polverone di chi lo accusa di demagogia e sparate elettorali il governatore oggi rincara: «Ci stiamo pensando e ho incaricato l’assessore all’economia Garavaglia, per capire in che modo tagliare i fondi». C’è anche un’altra mossa dell’ex ministro Maroni emerso dall’inchiesta Mafia capitale che porta diritto allo scandalo del centro di Mineo, il più grande centro d’accoglienza d’Europa in provincia di Catania. La gestione getta la propria ombra lunga sul governo Renzi e arriva fino a Giuseppe Castiglione, sottosegretario alfaniano all’Agricoltura e tra i sei indagati per turbativa d’asta nell’inchiesta della Procura di Catania sull’appalto per la gestione del Centro assistenza rifugiati e richiedenti asilo. In ballo l’appalto da 100 milioni di euro aggiudicato dal Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, che ha gestito le gare incriminate sotto la supervisione di Castiglione, ex presidente della Provincia di Catania. A spiegare l’intreccio è lo stesso Castiglione: «Nel luglio 2011, in piena emergenza immigrazione, chiedo garanzie su Luca Odevaine al Viminale e le ottengo, anche se non è ascrivibile alla mia parte politica, militavo nel Pdl». In quell’estate, spiega Castiglione, «il ministro degli Interni Maroni lancia un appello agli enti locali per accogliere quanti più migranti. Io sono presidente di tutte le Province, oltre che di Catania, e mi mobilito. Maroni fa requisire il villaggio della solidarietà, l’ex residence degli Aranci a Mineo. Odevaine allora è il direttore della polizia provinciale di Roma al fianco di Zingaretti, è stato capo di gabinetto di Veltroni, persona autorevole e nota in quanto tale». Così il democratico Luca Odevaine (gli arresti sin dall’anno scorso) viene designato al Tavolo di coordinamento nazionale insediato presso il Ministero dell’Interno e come consulente del Cara difende la sua gallina dalla uova d’oro contro ogni proposta di chiusura e superamento dell’emergenza.
Lega Nord: accuse, processi e scandali da Patelli a Belsito. In principio fu indagato Patelli. Era il '93. Poi Bossi, Boni, Cota, il Trota e Belsito. Salvini strilla contro la mafia romana. Ma scorda i guai giudiziari del Carroccio, scrive Guido Mariani su “Lettera 43”. Il ritorno di «Roma ladrona». Sembrano gli Anni 90: scoppiava Tangentopoli, i vecchi partiti si sgretolavano travolti da un uragano giudiziario e la Lega Lombarda (che poi diventò Lega Nord) tuonava contro gli scandali garantendo: «La Lega non perdona». Ma di acqua sotto i ponti del Po ne è passata parecchia e oggi gli strali di Matteo Salvini contro la corruzione capitolina sembrano un tentativo di cancellare il ricordo di tanti guai che lo “spietato” Carroccio ha saputo perdonare in fretta. Anche (e soprattutto) in casa propria.
ALESSANDRO PATELLI. LA PRIMA MACCHIA NEL 1993. Era il 7 dicembre 1993 quando comparve la prima macchia sulle camicie verdi. Alessandro Patelli, responsabile amministrativo, organizzativo, tesoriere e braccio destro di Umberto Bossi si trovò le manette ai polsi per aver intascato in nero una busta contenente 200 milioni di lire generosamente donate dalla famiglia Ferruzzi (alla guida della Montedison) che ai tempi aveva a libro paga quasi tutta la politica italiana. Ammise le colpe e si diede pubblicamente del «pirla», scagionando moralmente i vertici del partito.
BOSSI CONDANNATO A 8 MESI. Il Senatùr si disse all’oscuro e portò in procura un assegno di 200 milioni. Ma fu ritenuto responsabile con il suo segretario amministrativo ed entrambi si presero una condanna definitiva di 8 mesi per violazione della legge per il finanziamento pubblico ai partiti.
PATELLI, VITALIZIO DA 3 MILA EURO. Patelli ha tentato senza fortuna di riciclarsi in politica, ma ha vissuto da allora grazie al generoso vitalizio da 3.686 euro lordi al mese in quanto ex consigliere regionale. Forse non era solo un «pirla», ma anche il paziente zero di un’epidemia che ha portato poi a Francesco Belsito.
BELSITO ED IL COMITATO D’AFFARI. Titolare dello stesso incarico di Patelli (cioè tesoriere) dal febbraio 2010, Belsito venne indagato nell’aprile 2012 per truffa, appropriazione indebita e riciclaggio. L’inchiesta si è poi allargata a macchia d’olio tra investimenti esteri (Cipro, Norvegia e Tanzania), tangenti e ricchi emolumenti ad amici e parenti illustri. Un anno dopo sono arrivati anche gli arresti.
«FONDI PER I VIZI DEI BOSSI». Belsito sarebbe stato alla guida di un «comitato d’affari» che gestiva, soldi alla mano, presunti rapporti illeciti con imprenditori e che utilizzava fondi pubblici del partito per finanziare i vizi della famiglia Bossi.
SALVINI NON CHIEDE I DANNI. Lo scandalo ha segnato la fine politica del leader carismatico: Umberto Bossi si è dimesso in concomitanza dello scoppio del terremoto ed è uscito di scena aprendo l’era Salvini, che nel novembre 2014 ha rinunciato a chiedere i danni all'ex tesoriere.
PINI CONDANNATO PER MILLANTATO CREDITO. In mezzo alle due inchieste altri scandali e altre condanne. Il deputato Gianluca Pini è l’attuale vice capogruppo delle Lega Nord alla Camera, eletto in Emilia Romagna. È stato condannato a 2 anni (pena sospesa) per millantato credito e rinviato a giudizio per evasione fiscale dal tribunale di Forlì.
«PROMESSA RIMBORSATA». Avrebbe ricevuto nel 2007 15 mila euro da un candidato al concorso di abilitazione alla professione notarile, col pretesto di favorirlo nei confronti dei membri della commissione. Soldi versati dal candidato e ricevuti da Pini che avrebbe promesso di influenzare alcuni colleghi in parlamento sull’esame di abilitazione. Una promessa finita nel nulla, ma lautamente rimborsata.
OSCAR LANCINI A GOIUDIZIO PER TURBATIVA D’ASTA.
Oscar Lancini,
sindaco di Adro, Comune in provincia di Brescia, veniva definito dalla stampa
«sceriffo». Aveva lasciato il segno tappezzando la scuola elementare e gli
edifici pubblici con il simbolo leghista del sole delle alpi. Per lui sono
arrivati gli arresti
nel novembre 2013 e poi nel luglio 2014 il
rinvio a giudizio per turbativa d’asta. L’accusa è quella di aver controllato
alcuni appalti pubblici, alimentando un sistema di favori che creava una corsia
preferenziale per ditte amiche e aggirava le regole.
Presentatosi alle scorse Europee, sempre nelle fila della Lega che non perdona,
non è stato eletto.
ENRICO CAVALIERE: BANCAROTTA. Enrico Cavaliere, deputato leghista dal 1994 al 2000 e in seguito presidente del Consiglio regionale veneto fino al 2005, è stato condannato in secondo grado a due anni e tre mesi (pena condonata) per la bancarotta di un fallimentare progetto edilizio da 2.300 appartamenti in Croazia del valore di 2 miliardi di lire. Tutto finanziato e sostenuto da militanti ed esponenti della Lega che avevano investito quote nell’operazione. Nel processo è stato coinvolto anche il tesoriere della Lega Maurizio Balocchi, deceduto nel 2010. Su Cavaliere, dal dicembre 2013, è in corso pure un’indagine della procura di Milano collegata all’inchiesta che chiama in causa Belsito. Per gli inquirenti sarebbe coinvolto in un giro di presunte mazzette provenienti dalla società Siram, colosso dell’energia e titolare di diversi appalti pubblici in Veneto.
IL TROTA E BONI A PROCESSO PER RIMBORSI ILLECITI. Il 29 ottobre 2014 a Milano è stato chiesto il rinvio a giudizio per 64 ex consiglieri regionali lombardi per aver percepito rimborsi illeciti per spese private. Tra questi i leghisti Renzo Bossi - il Trota figlio del Senatùr -, Davide Boni - ex presidente del Consiglio Regionale - e Cesare Bossetti, che nel 2011 avrebbe speso quasi 15 mila euro per comprare dolci e per un numero imprecisato di colazioni.
BALLAMAN CONDANNATO PER PECULATO. Edouard Ballaman, ex presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, è stato condannato a luglio del 2014 in secondo grado a un anno di reclusione con interdizione dai pubblici uffici per peculato. L’esponente leghista, poi autosospesosi dal partito, avrebbe utilizzato con troppa disinvoltura l’auto blu anche per viaggi privati, tra cui alcuni spostamenti in occasioni della luna di miele. La Corte d’Appello, oltre a convalidare la sentenza di primo grado, ha anche deciso la trasmissione degli atti alla procura riscontrando gli elementi d’indagine per un abuso d’ufficio su cui il tribunale di primo grado non si era pronunciato. Il tribunale di Trieste ad aprile ha aperto un'ulteriore indagine su altre spese molto probabilmente private, ma effettuate con soldi pubblici e giustificate come «di rappresentanza».
COTA TRA FIRME FALSE E PECULATO. Nella trappola dei rimborsi illeciti è caduto anche Roberto Cota, ex presidente della Regione Piemonte decaduto in seguito allo scandalo di firme false raccolte da una lista che lo appoggiava. Da fine ottobre 2014 è sotto processo con rito immediato per peculato. Cota, oggi coordinatore regionale piemontese del Carroccio, ha già restituito 32 mila euro al Consiglio Regionale. È la cifra che gli è stata contestata dalla procura di Torino maggiorata del 30%, così come hanno chiesto i pm a indennizzo del danno arrecato all’istituzione.
ALTRO CHE PALLOTTOLE. «Se c' è qualcuno», tuonò un combattivo Umberto Bossi nel 1993, «sia pure magistrato, che vuole coinvolgere la Lega nella storia delle tangenti, sappia che noi siamo molto rapidi con le mani, ma anche con le pallottole. Dalle mie parti una pallottola costa solo 300 lire, e se un magistrato vuol coinvolgerci nelle tangenti, sappia che la sua vita vale 300 lire». Di pallottole leghiste per fortuna non se ne sono viste. Di tangenti molte di più. E per molto più di 300 lire.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
PADANIA LADRONA.
Il comune sentire dei barbari padani.
«Un terrone in meno da mantenere». Denunciato torinese per il commento sulla morte di un giovane siciliano. Aveva commentato con un profilo falso su Facebook la morte di un diciassettenne siciliano. L’uomo è stato identificato e denunciato dalla Procura di Siracusa, scrive Salvatore Frequente, scrive il 15 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Sono felicissimo, un terrone in meno da mantenere». È il commento postato su Facebook da un torinese di 40 anni che commentava così la morte, in un incidente stradale, di un diciassettenne siciliano. Ma grazie alle indagini oggi è stato identificato e denunciato per diffamazione aggravata da odio razziale. Una vicenda che lo stesso procuratore capo di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, e il sostituto, Antonio Nicastro, hanno definito «disumana». Tutto parte tre mesi fa quando a seguito di in un tragico incidente stradale a Siracusa, dopo alcuni giorni di agonia, perde la vita il diciassettenne Stefano Pulvirenti che viaggiava a bordo del suo scooter. Passano poche ore dalla morte e su Facebook compare uno sconcertante commento: «Sono felicissimo, un terrone in meno da mantenere. Quando vedo queste immagini e so che nella bara c’è un terrone ignorante, godo tantissimo. Peccato che ero al nord, altrimenti avrei cagato su quella bara bianca. Buonasera terroni merdosi. Non è morto nessun altro di voi oggi?». Immediatamente il post ha fatto il giro della rete e poco dopo viene presentata una denuncia alla Procura della Repubblica di Siracusa che apre un’indagine, coordinata dal procuratore Giordano e dal sostituto Nicastro. Per identificare l’autore del commento viene incaricato il Nucleo Investigativo Telematico (Nit). Il profilo su Facebook risulta falso ma grazie alle indagini si arriva all’identità dell’uomo: si tratta di un operaio di 40 anni residente nel torinese. L’uomo, al quale è stato sequestrato il computer, è stato denunciato per diffamazione aggravata da finalità di odio razziale. «Fra le varie forme di povertà, la povertà morale è quella che rischia di mettere a maggiore rischio la dimensione umana», hanno commentato il procuratore capo Francesco Paolo Giordano e il sostituto Antonio Nicastro.
“Un terrone in meno da mantenere”: operaio di Settimo denunciato per il post su Facebook. Operaio di 40 anni ha commentato la morte di un ragazzo di 17 anni a Siracusa: identificato e sotto inchiesta della procura: “Fossi stato lì avrei cagato sulla bara bianca”. La Procura siciliana ha oscurato la pagina dell’uomo, un operaio quarantenne che usava uno pseudonimo, scrive Fabio Albanese il 15/03/2016 su "La Stampa". Stefano Pulvirenti aveva solo 17 anni. È morto il 20 novembre dell’anno scorso, 23 giorni dopo essere stato travolto con il suo scooter da un Suv in viale Paolo Orsi, una delle strade più trafficate di Siracusa. Tre giorni dopo, mentre una città commossa partecipava al suo funerale dopo avere per settimane sperato inutilmente in un miracolo, qualcuno dall’altra parte del Paese apriva un finto profilo Facebook a nome di una fantomatica Elisa Covello e «postava» frasi come queste: «Sono felicissimo, un terrone in meno da mantenere». E, più avanti: «Quando vedo queste immagini e so che nella bara c’è un terrone ignorante, godo tantissimo. Peccato che ero al nord, altrimenti avrei cagato su quella bara bianca. Buonasera terroni merdosi. Non è morto nessun altro di voi oggi?». Nei giorni scorsi in casa dell’autore di queste frasi, C.D., un operaio di 40 anni che abita a Settimo Torinese, si sono presentati i carabinieri del Nit, il Nucleo investigativo telematico della Procura di Siracusa, che gli hanno notificato una denuncia per diffamazione aggravata da finalità di odio razziale, gli hanno sequestrato il computer e hanno oscurato il profilo Facebook: «Volevo solo provocare, suscitare un dibattito», avrebbe detto l’operaio per giustificarsi. Ma i «post» di quest’uomo, diventati virali sulla Rete già poche ore dopo essere apparsi sul finto profilo Facebook, sono arrivati anche alla famiglia e agli amici di Stefano, che sono subito andati in Procura a denunciare. Da lì è partita l’indagine dei pm affidata ai tecnici del Nit, un gruppo di investigatori telematici di polizia e carabinieri molto esperto, nato a Siracusa diversi anni fa per occuparsi delle tante denunce di web-pedofilia del Telefono Arcobaleno e divenuto un’eccellenza nel settore: «Sono state fatte indagini tecniche molto importanti - spiega il capo della Procura siracusana Francesco Paolo Giordano - per risalire all’autore e per poi entrare nel profilo e oscurarlo». «Quei post avevano ucciso Stefano un’altra volta - dicono gli amici - lui era un ragazzo d’oro che amava il mare e la vita, studiava ed era ben voluto da tutti. Non meritava quella fine e non meritava quegli insulti». «Una vicenda disumana - dicono il procuratore Giordano e il sostituto Antonio Nicastro - fra le varie forme di povertà, la povertà morale è quella che rischia di mettere a maggiore rischio la dimensione umana».
Terroni da mantenere?
L'accusa dei pm:"Lega ladrona". Dopo lo slogan di Bossi "Roma ladrona" di vent'anni fa, oggi si ipotizza un'altra musica: "Lega ladrona", scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 07/03/2012, su "Il Giornale". Agli inizi degli anni Novanta Bossi lanciò lo slogan più fortunato e vincente del marketing politico italiano, quel «Roma ladrona» che diventò la colonna sonora della discesa del Nord nei palazzi del potere. Oggi, esattamente vent’anni dopo, proprio al Nord, purtroppo si ipotizza un’altra musica: «Lega ladrona», sostengono i pm di Milano che accusano il presidente del consiglio regionale lombardo, Davide Boni, leghista, di essere il collettore di tangenti (almeno un milione di euro) destinate al partito. Non crediamo sia vero, ma il solo fatto che un’accusa simile possa essere per la prima volta ufficializzata (se si esclude l’ormai archiviato caso Enimont) azzera presunte differenze che erano state spacciate addirittura per antropologiche. Anche per la Lega è arrivato il momento di fare i conti forse con debolezze umane oppure, sarà la storia a dirlo e noi ci auguriamo che sia così, con la follia di magistrati politicizzati. Si sa, le malattie colpiscono più facilmente quando il fisico è debole e stressato. E oggi quello della Lega è un corpo vulnerabile, provato da lotte intestine soffocate per mesi, forse anni, appesantito da un leader confuso diventato una macchietta dell’eroe che fu, azzoppato da una linea politica senza sbocco. Perché stare all’opposizione di Monti può essere cosa nobile e coraggiosa, ma mandare all’aria per sempre, a prescindere, con rabbia e rancore l’alleanza storica con il Pdl è da suicidio. Fuori dal governo, tra poco fuori dalle amministrazioni locali chiamate alle urne, è un lusso che si può permettere un movimento giovane e corsaro, non il partito più anziano del Parlamento, che in vent’anni è diventato un apparato vero e proprio e sul quale anche i moderati di tutta Italia contavano per non perdere terreno. Chi dentro la Lega ha convinto Bossi a rompere con Berlusconi facendo sponda sul gioco spregiudicato dei magistrati (caso Papa e non solo) oggi mastica amaro. Non credo, e non spero, che Maroni ora voterebbe per autorizzare l’arresto di uno dei suoi che si proclama innocente. E mi chiedo con chi si immagina di votare un domani il federalismo. Torna presto, Lega, che non tutto è perduto.
Lega ladrona, la procura non perdona. Luca Rocca «Lega ladrona». L’accusa di truffa allo Stato per 40 milioni di euro e di appropriazione indebita contestate a Umberto Bossi a conclusione delle indagini avviate nel 2012, segna il...scrive il 30 Novembre 2013 “Il Tempo”. «Lega ladrona». L’accusa di truffa allo Stato per 40 milioni di euro e di appropriazione indebita contestate a Umberto Bossi a conclusione delle indagini avviate nel 2012, segna il «contrappasso» della Lega Nord, nata e cresciuta al motto di «Roma ladrona». La procura di Milano, che si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per il Senatùr, per i figli Renzo e Riccardo, per l’ex vicepresidente del Senato Rosy Mauro e l’ex tesoriere Francesco Belsito, parla di «truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche» sulla base di una contabilità «del tutto inattendibile e in larga misura priva dei documenti giustificativi di spesa». Quaranta milioni di euro, cioè la somma dei rimborsi elettorali finiti nelle casse della Lega sulla base dei rendiconti del 2008 e 2009. Al Senatùr vengono contestate spese «personali» per più di 208 mila euro: 1.583 euro per la casa di Gemonio; 33 mila euro per «casa Capo lavori»; 81 mila per la casa di Roma; 26 mila per capi d’abbigliamento e altre spese minori. La Mauro si sarebbe appropriata di 99 mila euro. A Renzo vengono contestati 145 mila euro, 77 mila dei quali per la laurea in Albania. Le «spese improprie» di Riccardo arrivano a 157 mila euro: per l’affitto, il veterinario, l’abbonamento a Sky, una Mercedes e altro. L’ex tesoriere Belsito si vede contestare 2,4 milioni di euro: acquisti da Louis Vuitton e prelievi in contanti. Chiesta l’archiviazione per Calderoli, per la moglie del Senatùr Manuela Marrone e per l’ex legale del Carroccio Brigandì. Qui potrebbe finire la corsa di Bossi alla segreteria. Salvini, suo sfidante, «reagisce» su Facebook: «Il tribunale di Milano riprende a “occuparsi” di Bossi e della Lega. I processi a mafiosi e assassini possono attendere».
Nuova condanna per Umberto Bossi: due anni e mezzo per truffa allo Stato. Confiscati 48 milioni di euro al Carroccio. L'ex tesoriere Belsito condannato a quattro anni e dieci mesi. Erano tutti imputati per la truffa da 56 milioni di euro ai danni dello Stato. Per l’accusa, nel periodo tra il 2008 e il 2010 sarebbero stati presentati rendiconti irregolari al Parlamento per ottenere indebitamente fondi pubblici. Denaro poi utilizzato in gran parte per le spese personali della famiglia del senatur, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 24 luglio 2017. Due anni e mezzo al senatur, quattro anni e dieci mesi per il suo storico tesoriere. Nuova condanna in pochi giorni per Umberto Bossi e Francesco Belsito riconosciuti colpevoli alla fine del processo sulla truffa da 56 milioni di euro ai danni dello Stato. In questo procedimento il pm di Genova aveva chiesto 4 anni per l’ex leader del Carroccio e e 4 anni e mezzo per il tesoriere. Il giudice ligure ha quindi emesso una condanna più lieve per Bossi aumentando quella di Belsito di quattro mesi. Il tribunale di Genova ha inoltre disposto la confisca di 48 milioni di euro dai fondi della Lega Nord. Accolta quasi totalmente, dunque, l’istanza della procura che aveva chiesto la confisca di tutti i 56 milioni di euro al Carroccio in quanto “percettore delle indebite appropriazioni dei soldi pubblici”. Per l’accusa, nel periodo tra il 2008 e il 2010 sarebbero stati presentati rendiconti irregolari al Parlamento per ottenere indebitamente fondi pubblici. Denaro poi utilizzato in gran parte per le spese personali della famiglia Bossi. Condannati anche i tre ex revisori contabili del partito Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi (rispettivamente a due anni e otto mesi, due anni e otto mesi e un anno e nove mesi) e i due imprenditori Paolo Scala e Stefano Bonet (cinque anni ciascuno). Tutti sono accusati di truffa. L’inchiesta era deflagrata nel 2012 e aveva portato alle dimissioni di Bossi e dei suoi fedelissimi. Belsito e i due imprenditori sono accusati anche di riciclaggio perché avrebbero portato oltre confine, a Cipro e in Tanzania, parte dei soldi illecitamente ottenuti. Il tribunale ha anche stabilito, a carico dei condannati, il pagamento di quasi un milione di euro a titolo di provvisionale a favore di Camera e Senato, che si erano costituiti parte civile. La sentenza è l’ultimo atto di un processo cominciato il 23 settembre scorso, dopo che nel capoluogo ligure era arrivato per competenza lo stralcio d’indagine da Milano. L’inchiesta della procura meneghina sulle spese dei Bossi era stata ribattezzata “The Family” come il nome appuntato sulla copertina di una cartella conservata nell’ufficio che Belsito aveva alla Camera. Da quell’indagine era nato il processo che il 10 luglio scorso si è concluso con la condanna di Belsito a due anni e sei mesi. Insieme a Belsito i giudici milanesi hanno condannato il senatur a due anni e tre mesi e il figlio Renzo Bossi a un anno e sei mesi. Erano tutti imputati di appropriazione indebita per aver usato, secondo l’accusa, fondi del Carroccio per fini personali. Il magistrato aveva argomentato che per Bossi “sostenere i costi della sua famiglia” con il patrimonio della Lega era “un modo di agire consolidato e già concordato dal Segretario federale” con il tesoriere da lui scelto “come persona di fiducia”, e cioè prima con Maurizio Balocchi e poi con Belsito.
Truffa allo Stato, Bossi condannato: «La Lega restituisca 49 milioni». Confisca di beni ai danni del Carroccio: sarà esecutiva anche con la prescrizione. Condannati in sette, tra cui l’ex tesoriere Francesco Belsito, scrive il 24 luglio 2017 di Luigi Ferrarella su "Il Corriere della Sera". Quarantanove milioni di euro da confiscare alla Lega Nord. Accende il ticchettio di una bomba a scoppio ritardato sotto il partito di Matteo Salvini la sentenza del Tribunale di Genova che ieri, nel condannare per «truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche» l’ex segretario politico Umberto Bossi (2 anni e mezzo) e l’ex segretario amministrativo Francesco Belsito (4 anni e 10 mesi), nonché i tre ex revisori contabili leghisti Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi (2 anni e 8 mesi i primi due, 1 anno e 9 mesi il terzo), ha anche ordinato la confisca diretta alla Lega Nord di 48 milioni e 969.000 euro di finanziamento pubblico: cioè di quei rimborsi elettorali che nel 2008-2010 rimpinguarono le casse degli avversari di «Roma ladrona» sulla scorta di rendiconti ingannatori del Parlamento di «Roma Ladrona», perché o senza giustificativi o con spese per finalità estranee al partito. La confisca, essendo in primo grado, non è immediatamente esecutiva, ma lo spettro per il partito è che comunque prima o poi arriverà, indipendentemente dal fatto (assai possibile) che nelle more dei futuri processi d’Appello e di Cassazione maturi la prescrizione del reato. Dopo la sentenza Varvara della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che nel 2013 in ambito urbanistico si era espressa contro confische che non poggiassero su condanne definitive, nel 2015 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 49 ha invece aperto a questa possibilità, lungo binari poi precisati dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza Lucci: il principio è che, anche se la prescrizione elide le condanne degli imputati, resta la confisca diretta del profitto quando (come qui) ci sia stata una precedente condanna con giudizio di merito sul reato, sulla responsabilità dell’imputato e sulla qualificazione del bene da confiscare. Dunque, allo stato, la Lega può sperare di salvare i 49 milioni solo se in appello Bossi e Belsito dovessero essere assolti nel merito; altrimenti è solo questione di tempo, ma, anche in caso di prescrizione di Bossi e Belsito, la Lega si vedrebbe comunque confiscare il finanziamento pubblico incassato ingannando Camera e Senato. Che ieri, per il danno non patrimoniale, hanno avuto dal Tribunale presieduto da Marina Orsini 754.000 e 224.000 euro di acconto a carico dei condannati Bossi, Belsito e revisori. In questo processo, approdato a Genova per competenza territoriale e sostenuto dal pm Paola Calleri dopo che a istruirlo nel 2012-2013 a Milano erano stati i pm Robledo-Filippini-Pellicano, si inseriva anche la bizzarra vicenda della Tanzania: e cioè di 5,7 milioni, dei quali 1,2 spediti il 28 dicembre 2011 da un conto genovese della Lega alla Krispa Enterprices di Paolo Scala presso la Bank of Cyprus (850.000 euro restituiti nel febbraio 2012), e altri 4,5 bonificati due giorni dopo su un conto di Stefano Bonet alla Fbme Bank in Tanzania, che li respinse perché difettava la documentazione (somma rientrata nel febbraio 2012). Gli imprenditori Scala e Bonet ieri sono stati condannati a 5 anni per riciclaggio.
LA LEGA E LA SENTENZA PER TRUFFA ALLO STATO. Salvini: «Qui soldi non ce ne sono. E poi siamo noi i danneggiati». «Mi viene da ridere. Noi oggi qui siamo i danneggiati. Al massimo possiamo pagare 49 euro». «Capita non poche volte che i verdetti dei giudici vengano ribaltati. Aspetteremo», scrive il 24 luglio 2017 Franco Stefanoni su "Il Corriere Della Sera". La sentenza dei giudici di Genova per truffa allo Stato che ha stabilito una confisca del valore di 49 milioni di euro alla Lega dovrà diventare definitiva per essere attuata. Ma una futura assoluzione cambierebbe tutto, mentre una prescrizione no: i 49 milioni sarebbero perduti. Un problema non da poco.
Preoccupato, Matteo Salvini, per la sentenza di condanna con confisca?
«Mi viene da ridere. Noi oggi qui siamo i danneggiati. Al massimo possiamo pagare 49 euro».
È una confisca pesante.
«Abbiamo già tagliato le spese della Lega, ci finanziamo con le feste di partito, io non ho nemmeno l’aria condizionata in ufficio. Questa è la realtà».
Ma un verdetto è un verdetto.
«Se politicamente qualcuno sta cercando d’intimidirci, d’imbavagliarci, s’illude. E poi, in Italia capita non poche volte che i verdetti dei giudici vengano ribaltati. Aspetteremo».
Spese personali con i soldi della Lega: 2 anni e 3 mesi a Umberto Bossi. Condannati anche il figlio Renzo e Belsito. Processo The Family: un anno e sei mesi per "il Trota", 2 anni e 6 mesi per l'ex tesoriere del partito. L'altro figlio di Bossi, Riccardo, era già stato condannato in abbreviato, scrive il 10 luglio 2017 "La Repubblica". Umberto Bossi, il figlio Renzo e l'ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito sono stati condannati a Milano per appropriazione indebita per aver usato i fondi del partito per spese personali. Il Senatur fondatore della Lega, è stato condannato a 2 anni e 3 mesi, un anno e 6 mesi per 'il Trota', 2 anni e 6 mesi per l'ex tesoriere. L'altro figlio di Bossi, Riccardo, era già stato condannato in abbreviato a un anno e otto mesi (per circa 158 mila euro di fondi sottratti dai conti del Carroccio). "Me l'aspettavo. Ma non ho nulla da rimproverarmi. E' solo il primo grado, andiamo avanti", questo il commento di Bossi jr che ha ammesso: "Tornassi indietro non mi candiderei". "Sentenza ingiusta", ha detto Belsito. Amaro il tweet di Roberto Maroni: "Mi spiace per Umberto, persona straordinaria. Mi spiace per lui, non per quelli che hanno sfruttato lui e la sua malattia in modo vergognoso". La decisione del giudice Maria Luisa Balzarotti è arrivata nel processo The Family, così ribattezzato per il nome scritto sulla cartella di documenti sequestrata allora a Belsito in cui comparivano quelle che sono state giudicate spese private della famiglia Bossi pagate però con i soldi del Carroccio arrivati anche dai rimborsi elettorali. La tesi della procura è che per Bossi "sostenere i costi della sua famiglia" con il patrimonio della Lega è stato "un modo di agire consolidato e concordato". Stando alle indagini, tra il 2009 e il 2011, l'ex tesoriere della Lega si sarebbe appropriato di circa mezzo milione di euro, mentre l'ex leader del Carroccio avrebbe speso con i fondi del partito oltre 208mila euro. A Renzo sono stati addebitati, invece, più di 145mila euro, tra cui migliaia di euro in multe, tremila euro di assicurazione auto, 48mila euro per comprare una macchina (un'Audi A6) e 77mila euro per la "laurea albanese". "Ho saputo della mia laurea in Albania solo dopo questa indagine", aveva detto in aula il ragazzo lo scorso luglio testimoniando in aula. "La Lega non ha mai pagato le mie multe né la laurea in Albania dove non sono mai stato", ha ribadito oggi il ragazzo. "Ho creduto nel progetto del partito fino in fondo - ha aggiunto - sono stato assolto da una parte delle accuse e dopo cinque anni non ci sono ancora le prove che io abbia preso i soldi". Uno dei difensori di Bossi padre, Marcello Gallo, aveva chiesto al tribunale di sollevare davanti alla Consulta "la questione di legittimità costituzionale della disciplina dell'appropriazione indebita" perché, in sostanza la norma, violerebbe il principio di ragionevolezza in quanto punisce la condotta di "appropriazione di cose comuni" - come è stata da lui inquadrato l'operato degli imputati - mentre reati più gravi come l'appropriazione di oggetti smarriti o di beni avuti per errore sono stati depenalizzati. Il pm Paolo Filippini aveva chiesto proprio 2 anni e 3 mesi per l'ex leader della Lega, 1 anno e mezzo per Renzo e 2 anni e mezzo per Belsito.
Bossi: «È solo un processo politico, volevano distruggere me e la Lega». La notizia della condanna per lui e per il figlio Renzo raggiunge Umberto Bossi mentre si trova nel quartier generale leghista di via Bellerio, subito dopo il consiglio federale. «È stato un processo politico. Come sotto il fascismo», scrive Marco Cremonesi il 10 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". «È stato un processo politico. Come sotto il fascismo». La notizia della condanna per lui e per il figlio Renzo raggiunge Umberto Bossi mentre si trova nel quartier generale leghista di via Bellerio, subito dopo il consiglio federale. Sta per partire, come ogni lunedì sera, per Roma. Se il presidente della Lega è amareggiato, non lo dà troppo a vedere: più che altro, pare arrabbiato.
Se lo aspettava?
«E cosa dovevo aspettarmi, secondo lei? Dopo tutto quello che mi hanno fatto in questi anni, dopo tutto quello che hanno tirato fuori. Dopo avermi trascinato in tribunale lei pensa che potessero dire di essersi sbagliati? Macché... Piuttosto che ammetterlo, a un certo punto, hanno anche mandato via il pubblico ministero che aveva iniziato il processo. Si voleva distruggere la Lega. Ed è normale che uno Stato che non frequenta troppo la democrazia utilizzi tutti i mezzi».
Insomma, è sempre convinto che contro di lei ci sia stato un complotto?
«E che cosa, se no? Sono riusciti a farmi saltare da segretario della Lega. Questo era l’obiettivo. Se ne sono sentite di ogni colore, per mesi tutti i giorni sui giornali e in televisione a dire che io avevo preso i soldi. Io non ho preso un cazzo. Mi dispiace soltanto perché non era quello che serviva al Nord».
Ma la Lega si è però ripresa. Il progetto contro di lei è fallito?
«Non è la Lega che serve al Nord. La Lega che guarda a quelli che vivono qui e mandano i soldi a Roma...»
Salvini dice che lei «fa parte di un’altra era politica».
«Un’altra era, dice? Il Nord era schiavo prima ed è schiavo oggi».
Scusi, però: di chi sarebbe stato il complotto?
«Dei colonialisti. Qualcuno starà esultando oggi. Qualcuno starà stappando le sue bottiglie. Però, potranno gioire per poco. Perché il loro problema non si risolve e molto presto tornerà a galla».
Quale sarebbe il loro problema?
«Tenere in piedi il colonialismo. Mantenere un sistema in cui si ammazzano le imprese di tasse e poi di queste tasse ritorna poco o niente. Un residuo fiscale come quello della Lombardia o del Veneto, non può durare. Non può più. Loro sapevano che senza trascinarmi in tribunale non potevano avere la meglio».
Perdoni: ma quando dice «loro» di preciso a chi si riferisce?
«L’Italia è furba. Sa che la Padania sono trenta milioni di persone, un unicum nel mondo per la forza economica e del suo lavoro. Il colonialista è quello che mangia mentre gli altri lavorano. E così, il loro problema è sempre lo stesso: quello di andare avanti così. Non hanno nessuna voglia di cambiare».
E ora lei che farà?
«Che cosa dovrei fare? Combatto. Andrò avanti, fino in Cassazione».
Renzo Bossi: " 22mila euro di mojito? Ora allevo capre e maiali", scrive l'11 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Dai 22mila euro spesi in mojito e negroni (per cui è a processo) Renzo Bossi è passato alla vita agreste. "Ho una azienda agricola, lavoro con mio fratello. Alleviamo maiali e capre, produciamo salumi e formaggi. Mi va bene così", racconta in una intervista al Messaggero. "Mi aspettavo una condanna, ma è solo il primo grado e andremo avanti. Per una parte delle accuse sono stato assolto, altre sono state derubricate in tentata appropriazione indebita. Servono le prove per dimostrarlo e non sono mai state portate in aula. Io non ho nulla da rimproverarmi, se tornassi indietro mi ricandiderei". La Lega infatti gli manca molto: "Ho cominciato dal basso, attaccando i manifesti alle sagre di paese. E ho sempre versato la mia quota mensile al partito, ho creduto nel progetto politico". Ora anche se non esclude di votare per Matteo Salvini, alla Lega "manca un programma. Cinque anni fa c'era e si parlava di federalismo. Lo dico anche da imprenditore, aspetto che le tasse che puntualmente pago restino in Lombardia". Lui però con la politica ha chiuso: "Basta, vado avanti con la mia azienda", quanto al Carroccio "non ho più rapporti con nessuno". Ora il "Trota" pensa di andare in Appello. "Non mi fermo qui". "Non sono mai stato in Albania. Il consulente della guardia di finanza ha dichiarato durante un interrogatorio di non aver trovato una prova del pagamento da parte della Lega della famosa laurea all'estero... In 5 anni so cosa ho pagato di avvocati. Solo il cd degli atti è costato mille euro...". Le multe? "Nel 2013 ho trovato 15 mila euro di multe in Equitalia che ho rateizzato e pagato. La macchina non era la mia ma della Lega e ancora in uso alla Lega".
Quello che non dice la condanna di Bossi. Se c’è un leader che non è rimasto incollato alla poltrona quello è il Senatùr, scrive Stefano Zurlo, Martedì 11/07/2017, su "Il Giornale". Ci sono condanne che segnano l’epilogo. Altre che portano solo una pena: l’amarezza. Chissà come il vecchio leone ha accolto la notizia della sentenza. Da tempo Umberto Bossi ha fatto un passo di lato e ha ceduto lo scettro del Carroccio alle nuove generazioni. Se c’è un leader che non è rimasto incollato alla poltrona quello è il Senatùr. Noi e i nostri lettori sappiamo che un verdetto di colpevolezza non misura lo spessore di un uomo che ha segnato il nostro tempo e, per la sua parte, l’ha cambiato. La storia della Lega coincide con quella di questo profeta che aveva colto in pieno, con le sue antenne prodigiose, la questione settentrionale quando parlarne era fantascienza. Il visionario di Gemonio ha costruito un partito ma, di più, ha portato a galla questioni profonde e drammatiche che agitavano il cosiddetto ceto medio da Torino a Venezia ma che erano tabù: il fisco rapace, l’insicurezza e l’assenza dello Stato. Certo, in ogni grande storia ci sono i lati oscuri, le cadute e le pagine venute male: l’Umberto ha pensato la Lega come una grande famiglia, poi la famiglia, ovvero i figli, ne hanno approfittato. Sì, i ragazzi hanno fregato il padre e lui, incalzato con spietatezza darwiniana dalle nuove leve dei Salvini, si è defilato. Comprendendo, da persona intelligente, che certe stagioni finiscono e andare avanti sarebbe solo un inutile e patetico esercizio di galleggiamento. Un giorno chiesero ad Alessandro Manzoni come mai avesse scritto capolavori e invece i suoi figli non ne combinassero una giusta. Lui, il pio e devoto Don Lisander, rispose con una rasoiata ruvida e perfino volgare: «I libri li ho fatti con il cervello, i figli con il cazzo». Coraggio, Senatùr: non risulta a nessuno che lei si sia arricchito guidando il Carroccio o frequentando Roma ladrona. Non l’abbiamo mai vista inseguire laticlavi, premi e onorificenze. Lei è rimasto sempre lo stesso, quando era in prima fila e ora che è ai confini, quasi come un eretico, offre sempre ragionamenti illuminanti, lancia frecciate ai Renzi e ai Salvini che hanno preso il suo posto, dà consigli anche se non sono richiesti. È questa libertà di fondo, svincolata dai piccoli calcoli quotidiani, quel che più piace al popolo che lo segue da decenni. Umberto Bossi aveva un orizzonte più alto e ha allargato l’orizzonte di migliaia di padani. Impossibile non volergli bene e riconoscere, proprio oggi, che di pesi massimi come lui ne abbiamo contati pochissimi, dai tempi di Mani pulite e della nascita della Seconda Repubblica. Certo, come tutti i precursori ha volato su idee troppo grandi per un Palazzo troppo piccolo. Ha liberato il Nord, ma solo un po’, avrebbe dovuto liberarsi dei robusti appetiti dei suoi ragazzi, ma non ne è stato capace. Con il suo stile scomposto e mai compiacente, anche esibendo la canottiera, le ampolle e gli elmi, gli è riuscita la cosa più difficile: far sentire a una nomenklatura sorda la voce profonda del Paese.
Rimborsi Lega Nord, Bossi contro Maroni: “I soldi della truffa li ha spesi lui”. Scontro nella Lega sul caso della truffa sui rimborsi elettorali. Bossi, imputato a Genova, attacca: “I soldi spesi da Maroni, Salvini deve restituire 40milioni”, scrive il 4 novembre 2014 Antonio Palma su "Fan Page". È scontro aperto ormai all'interno della Lega Nord sul caso dei rimborsi elettorali che secondo la procura di Genova sarebbero stati ottenuti con una truffa della quale sono chiamati a rispondere l'ex numero uno e l'ex amministratore del Carroccio, Umberto Bossi e Francesco Belsito. Tra la vecchia e la nuova amministrazione del partito infatti è partito uno scaricabarile ma anche una serie di accuse reciproche che probabilmente sanciranno la rottura definitiva. Secondo quanto racconta Repubblica, Bossi infatti avrebbe accusato i suoi due successori alla guida del partito, Roberto Maroni e Matteo Salvini, di essere stati loro a spendere parte di quei soldi successivamente alla scoperta della truffa pur consapevoli che erano stati incassati illecitamente. Attraverso il suo avvocato il Senatur infatti ha chiesto a Salvini di restituire 40 milioni contestati che secondo lui erano nell'attivo del bilancio ma che sarebbero stato spesi per la campagna elettorale di Maroni. Bossi ricorda che entrambi i successori sapevano bene la provenienza di quei soldi perché Maroni lo spodestò proprio a causa della scoperta di quella truffa e che Salvini, come Lega Nord, si è costituito parte civile proprio al processo di Genova. Quindi secondo Bossi, grazie ai rendiconti falsi del suo mandato, durante i due mandati dei successori il partito ha continuato ad incassare i rimborsi elettorali illeciti e a spenderli nonostante i due nuovi leader sapessero della truffa. Se la circostanza fosse confermata anche Salvini e Maroni potrebbero essere chiamati in causa nel processo genovese. "Non esiste questa cosa, io ho guidato la Lega per 18 mesi e ho fatto certificare e verificare ogni spesa da un'agenzia esterna. Quindi non ho alcun timore, i conti sono in ordine" ha replicato però il governatore della Lombardia Roberto Maroni, assicurando: "I conti della Lega durante la mia segreteria sono stati in ordine". Anche l'attuale segretario federale del Carroccio rigetta ogni accusa. "Io sono tranquillo e onesto, la Lega è cambiata, ora è pulita e trasparente. Sul passato io non do giudizi" ha commentato infatti Salvini.
La plastica al naso, l'intervento ai denti e i soldi per l'Audi. "La famiglia Bossi era mantenuta dalla Lega". Ecco le carte della sentenza di condanna. Nel processo per appropriazione indebita cento pagine di fatture e ricevute. C'è anche una fattura per il rifacimento della impermeabilizzazione dei terrazzi della loro villa di Gemonio. E poi i 77 mila euro versati all'Università “Kriistal” di Tirana, Albania, per un diploma di primo livello in gestione aziendale, scrive Guido Ruotolo l'11 luglio 2017. È il passato che non merita riconoscenza e neppure comprensione. Nessun dubbio. Anzi. Colpisce la reazione di Matteo Salvini, segretario della Lega, che alla notizia delle condanne per appropriazione indebita del fondatore del Carroccio, Umberto Bossi, di suo figlio Renzo e dell'ex tesoriere Francesco Belsito, ha preso le distanze da loro: «La condanna? È una vicenda che fa parte di un'altra era politica. La Lega ha rinnovato uomini e progetti». E già, è un'altra storia di un altro secolo, anche se sono trascorsi appena cinque anni. E la Lega è sempre la Lega. Quella che nel 1992 gridava «Roma ladrona» e mostrava il cappio in Parlamento contro i ladroni e tangentari. Salvo poi essere condannati, il segretario Bossi e l'allora tesoriere Patelli, a 8 mesi per i 200 milioni di lire della maxi tangente Enimont finita ai leghisti. Ieri il fondatore del Carroccio, Umberto Bossi, è stato condannato a 2 anni e 3 mesi, il figlio Renzo a un anno e sei mesi, l'ex tesoriere Francesco Belsito, a 2 anni e 6 mesi. Ma prima delle condanne di ieri, un altro figlio di Umberto, Riccardo Bossi, era già stato condannato a 2 anni e 6 mesi con il rito abbreviato. Ha scritto il giudice che l'ha condannato: «Non solo Umberto, ma la moglie e i figli erano mantenuti dalla Lega e i costi dei ragazzi erano di gran lunga superiori a quelli che lo stesso segretario immaginava». Perché questa è la storia di Umberto Bossi e della sua famiglia che vivevano sottraendo cospicue somme del finanziamento pubblico assegnate alla Lega, dispensate da un tesoriere, Belsito appunto, che aveva investito in Tanzania 7 milioni di euro dei rimborsi elettorali. E del processo che li ha visti condannati ieri. Naturalmente va subito precisato che siamo al primo grado di giudizio, che alcuni episodi sono stati derubricati in tentata appropriazione indebita, altri sono andati prescritti e per altri c'è stata l'assoluzione. Complessivamente, questa era la stima degli inquirenti milanesi, ammontavano a 19 milioni di euro le spese sospette utilizzando fondi pubblici. Insomma, il finanziamento pubblico dei partiti, il rimborso delle spese elettorali. Il processo che si è concluso ieri con le condanne, era uno stralcio di una inchiesta più complessa delle procure di Reggio Calabria, Napoli e Milano. Addirittura l'inchiesta madre nasce nel 2008 a Reggio Calabria quando il Pm antimafia Giuseppe Lombardo è sulle tracce degli investimenti (anche) all'estero della cosca De Stefano, e si imbatte sulla Lega. C'è una cartellina sequestrata il 4 aprile del 2012 in Parlamento, nella cassaforte dell'allora tesoriere Francesco Belsito, dal Pm napoletano Henry John Woodcock, che anche lui si imbatte in alcuni personaggi della Lega sviluppando un'altra indagine. L'intestazione della cartellina: «The family», la famiglia Bossi, Umberto, Renzo, Sirio. Cento pagine di fatture e ricevute. Una fattura di 9.901,62 euro al gruppo “Iseni” di Linate Pozzolo, per una operazione di rinoplastica (setto nasale) al figlio di Umberto, Sirio Bossi. Un bonifico di 779 euro per una polizza assicurativa della casa dei Bossi, di Gemonio. E poi una fattura per il rifacimento della impermeabilizzazione dei terrazzi della stessa villa di Gemonio. E 1550 euro per le spese dentistiche di Umberto Bossi. Uno spendi e spandi era Renzo Bossi, il lanciatissimo delfino di Umberto in politica, consigliere regionale della Lombardia che si era fatto comprare una Audi A6 (48.000 euro). Naturalmente si faceva pagare dal tesoriere anche l'assicurazione e le multe. Ahi quante multe prendeva. Per eccesso di velocità in autostrada, per il transito nei centri storici vietati alle auto o per le soste su marciapiedi di Bologna, Modena, Milano, Rovigo, Vicenza e Padova. E poi la perla dei 77 mila euro versati all'Università “Kriistal” di Tirana, Albania, per un diploma di primo livello in gestione aziendale. Ma a che serviva a Renzo Bossi un diploma albanese? Il giorno dopo il ritrovamento della cartellina “The family” il segretario del Carroccio, Umberto Bossi, si dimette. La Lega è in crisi profonda. Anche se per gli amici di Umberto, il senatore nulla sapeva dell'uso improprio della cassa del partito, la segretaria amministrativa della Lega, Nadia Degrada, ha messo a verbale che invece il segretario sapeva. Una parte della tranche milanese sulla Dinasty Bossi, quella che ipotizza il reato di truffa è stata spedita a Genova, mentre potrebbe non essere ancora archiviato il filone investigativo di Reggio Calabria sui rapporti di alcuni personaggi della Lega con alcuni riciclatori della 'Ndrangheta.
L'indagine che ha travolto Bossi. Tutto inizia il 23 gennaio 2012, quando un militante della Lega si presenta in procura, a Milano, per fare un esposto in merito alla liceità dell’operazione in Tanzania e di molte altre operazioni finanziarie effettuate mediante denaro pubblico, scrive Luca Romano, Lunedì 10/07/2017, su "Il Giornale". I problemi per la Lega iniziano cinque anni fa, nel 2012. Un militante del Carroccio si presenta in procura, a Milano, e consegna un esposto di poche righe, con allegati alcuni articoli di giornale, "in merito alla liceità dell’operazione in Tanzania e di molte altre operazioni finanziarie effettuate mediante denaro pubblico". Quel giorno è di turno il procuratore aggiunto Alberto Nobili che gira per competenza l’esposto ad Alfredo Robledo, il magistrato che coordina le inchieste sulla pubblica amministrazione, e sta già svolgendo accertamenti sul Carroccio. Nei primi mesi del 2012 altre due procure si occupano della gestione dei soldi della Lega: quelle di Napoli, con Henry John Woodcock che arriva alla Lega partendo dall’inchiesta sulla P4, e Reggio Calabria, nell’ambito di un’inchiesta sulla ’ndrangheta.
- 4 aprile 2012. Su disposizione dei pm napoletani, viene sequestrata alla Camera dei Deputati nella cassaforte di Belsito la cartellina "The Family" che contiene alcuni documenti con le spese della famiglia Bossi. Tra queste, quelle per i figli del fondatore che sarebbero state effettuate con fondi pubblici. Quasi 10mila euro per l’operazione di rinoplastica al figlio Sirio, le multe saldate a Renzo e le spese per la ristrutturazione della casa di Gemonio. Ci sono anche tre paginette con l’intestazione "Università Kriistal" di Tirana dove Renzo ha ottenuto un diploma di primo livello in Gestione aziendale. Costo dell’operazione, 77mila euro.
- 5 aprile 2012. Bossi rassegna le sue dimissioni da segretario della Lega. "Chi sbaglia paga - spiega il Senatur - qualunque sia il cognome che porta. Mi dimetto per il bene del movimento e per difendere la mia famiglia".
- 16 maggio 2012. Bossi riceve un avviso di garanzia in cui gli vengono contestati i reati di truffa ai danni dello Stato e di appropriazione indebita. Insieme a lui, sono indagati i figli Renzo e Riccardo. "Bossi risponde come segretario federale che redige i conti - spiega il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati - e abbiamo elementi utili per dire che era a conoscenza della distrazione dei fondi". La consapevolezza di Bossi non sarebbe solo presunta, in quanto lui era il legale rappresentante del movimento politico, ma verrebbe confermata da altri spunti d’indagine, a cominciare dalle dichiarazioni dell’ex segretaria amministrativa del partito, Nadia Dagrada.
- 10 aprile 2012. Renzo Bossi lascia il consiglio regionale in seguito agli sviluppo delle indagini e da quel momento si dedica all’attività di agricoltore.
- 11 aprile 2012. Roberto Maroni si presenta in Procura a Milano per un colloquio coi pm, marcando di fatto la sua distanza da Bossi e dal cosiddetto 'cerchio magico' "Per noi questa indagine - dichiara l’allora Ministro leghista - ha svelato la violazione del codice etico che è importante come il rispetto delle leggi.
- 29 novembre 2013. La procura di Milano chiude le indagini contestando ia Umberto Bossi i reati di truffa aggravata e appropriazione indebita in relazione ai rimborsi elettorali ottenuti dal Carroccio in base ai rendiconti del Parlamento negli anni 2008 e 2009. Truffa commessa, stando alle indagini, in concorso con Belsito, ex tesoriere per il 2009 e 2010. Con inganno ai presidenti della Camera e del Senato e dei revisori delle due assemblee che autorizzavano i rimborsi basandosi su rendiconti falsati "in assenza di documenti giustificativi di spesa e in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito". Tra gli indagati anche l’ex senatrice leghista Rosi Mauro, con l'accusa nei suoi confronti che verrà poi archiviata, e l’imprenditore Stefano Bonet, l’uomo degli investimenti in Tanzania. A Renzo e Riccardo viene contestato di avere usato per fini personali circa 303mila euro di soldi pubblici.
- 19 ottobre 2014. Il gip di Milano Carlo Ottone De Marchi dispone la citazione diretta a giudizio per Bossi e i figli per appropriazione indebita, mentre finisce a Genova la posizione di Umberto Bossi sulla presunta truffa. Il processo è ancora in corso e la sentenza è prevista a luglio.
- 14 marzo 2016. Arriva la prima sentenza. Riccardo Bossi viene condannato col rito abbreviato a due anni e mezzo di carcere. Nelle motivazioni, il giudice Vincenzina Greco scrive che non solo Umberto Bossi ma anche la moglie e i figli "erano mantenuti dalla Lega e che i costi dei ragazzi e erano di gran lunga superiori a quelli che lo stesso segretario immaginava".
- 27 marzo 2017. Il pm Paolo Filippini chiede di condannare a 2 anni e tre mesi Umberto Bossi, a 1 anno e sei mesi per Renzo e a 2 anni e sei mesi per Belsito. La tesi della procura è che per Bossi "sostenere i costi della sua famiglia" con il patrimonio della Lega sarebbe stato "un modo di agire consolidato e concordato" con Belsito.
Bossi: “La Lega non ha rubato come il Psi, ma ha sprecato soldi”. "E' meglio che venga fuori tutto, chi ha sperperato li restituirà". Quindi il leader del Carroccio ospite a Conegliano ha ribadito che "non c'è alcun risvolto penale". Sul trota ammette lo sbaglio di averlo candidato: "Uno degli errori è stato portare in politica mio figlio", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 28 aprile 2012. Umberto Bossi a Conegliano (Treviso) prova a salvare capra e cavoli. Parte invocando controlli ancora più approfonditi sul Carroccio: “E’ meglio che venga fuori tutto, la Lega non è il Psi che rubava alla gente e si faceva pagare le tangenti. La Lega non ha rubato niente, ha sprecato soldi e chi li ha sprecati li restituirà”. Ma frena subito e grida al complotto: “Non c’è alcun risvolto penale, la pena è passare attraverso tv e giornali. Noi non abbiamo rubato alla gente. E’ un tentativo di Roma per dividere il movimento. Non si può sconfiggere il Nord, è inutile che Roma se la meni…”. Alle domande su Piergiorgio Stiffoni che coinvolto nell’inchiesta si è autosospeso, il presidente ha spiegato: “Gli ho chiesto come è andata e lui ha detto che i soldi erano suoi. Controlleremo tutto”. Il senatur poi si fa confuso: “Vivo male questi momenti non avevo capito chi era quello lì”, dice riferendosi all’ex tesoriere Belsito, anche perchè “cercava di agganciare i miei figli”. Sul “trota” ammette lo sbaglio: “Uno degli errori è stato portare in politica mio figlio. Ma i miei figli sono cresciuti alle feste della Lega, si appassionavano. E’ un errore coinvolgere i figli nella politica, è pericoloso”. Ma di mollare lui stesso non se ne parla: “Io non posso ritirarmi assolutamente perchè altrimenti la gente penserebbe che è colpa degli altri. Io ho fatto la Lega, questo la gente non lo dimentica e devo garantire la continuità senza contraccolpi negativi. Troveremo la quadra”. Quindi torna agli slogan dei “vecchi tempi” precisando le origini etnico/culturali del partito: “Nella Lega ci sono solo lombardi e veneti, non ci sono mafiosi”. Ma di secessioni interne il fondatore del movimento non ne vuole sentir parlare: “Adesso la cosa fondamentale da fare è stare uniti. No alle divisioni tra maroniani e bossiani, che fanno male. No alle lotte personali ma dobbiamo stare tutti uniti “. Poi sull’Imu Bossi si fa mistico: “Una tassa mutuata dal nostro federalismo ma noi la pensavamo per la seconda casa. La prima casa è sacra, è una cosa spirituale”.
Bossi Story: il politico tutto cappio e slogan. Le pretese da cantante, la laurea bluff, l'incontro con Maroni e l'invenzione della Lega: il Senatùr, una parabola lunga 28 anni. Disse: "Questa classe politica non verrà seppellita da una risata, come recitava uno slogan sessantottino, ma dal tintinnio delle manette", scrive Luca Telese il 6 aprile 2012 su "Il Fatto Quotidiano". “Finché non rubo io nella Lega, non ruba nessuno”. Di certo non si è ricordato questa sua frase del 1989, Umberto Bossi, quando ieri ha rassegnato le sue dimissioni. Eppure, quasi profeticamente, tutto era già scritto in questo Dna, in questa premonizione che oggi lo insegue come una sentenza. La Lega nata ululando contro “i ladroni di Roma”, “i pretacchioni un po’ manigoldi della diccì”, contro quel “furfante con i coglioni di Craxi”, non poteva che andare in cortocircuito sulla questione morale. Non è un giudizio garantista. Ma è l’unico giudizio possibile, con Bossi, visto che il meno garantista di tutti i politici italiani è stato proprio lui: “Sono tutti ladri – scriveva – la sentenza popolare è stata già emessa, poco importa l’esito dei processi. I politici dei partiti – aggiungeva – hanno subìto la condanna dell’opinione pubblica che è, come tutte le condanne popolari, sovente spietata, talvolta ingiusta con gli individui, ma spesso storicamente esatta e sempre – concludeva spietato – politicamente inappellabile”. È stato così anche ieri, così anche per lui. Dimissionato sommariamente da quel che resta della sua stessa storia. Il Bossi che negli anni ruggenti tagliava le teste, infatti, non aveva mai dubbi: “Questa classe politica non verrà seppellita da una risata, come recitava uno slogan sessantottino, ma dal tintinnio delle manette. Conta poco sapere se si è arricchito personalmente o se ha preso soldi per il partito. Questo conta in sede penale – aggiungeva il leader del Carroccio – ma non cambia la sentenza politica che è di colpevolezza”. A rileggere ora i giudizi affilati che il padre della Lega aveva consegnato alla sua prima e unica autobiografia, ovvero al trittico di best sellers scritti a quattro mani con Daniele Vimercati per la Sperling & Kupfer nei primi anni novanta (esauritissimi e – non casualmente – mai ristampati) ci si rende conto immediatamente del perché la base del Carroccio ieri abbia ripudiato il suo mito: “Quando scoppiano le rivoluzioni – diceva all’Ansa nel 1993 – i Re non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l’esilio”. Ebbene, ieri Bossi è salito sulla stessa ghigliottina che evocava. Una ghigliottina metaforica, ma dalla lama terribilmente affilata. Alla stampa, nel 1993 diceva: “I giudici sono la cura, ma la guarigione è la Lega”. Adesso l’unica cura possibile sono le sue dimissioni. Bossi è un ex di se stesso, non è più il leader che ripeteva spavaldo: “Vengo dalla gavetta, sono un uomo di strada e viaggio in groppa come i miei avi, con la carne cruda tra il sedere e il cavallo”. Adesso è l’ultimo leader a sua insaputa, l’ultimo leader che ha visto piovere sulla sua famiglia “i denari di Roma”. A pensarci bene, solo ora, che esce dalla vita politica, Bossi può entrare finalmente nella sua vera dimensione, che è quella della commedia all’Italiana e del dramma farsesco, dell’impresa impossibile, del romanzo. Anzi: di un lunghissimo “Romanzo Padano”, visto che mentre la Lega rischia di essere travolta, l’unica cosa che Umberto Bossi consegnerà alla storia è il suo testamento creativo, l’almanacco delle sue visioni incarnate. La sua stessa fantasia, al Potere. Bossi è stato il Philip Dick italiano, solo che invece di scrivere racconti, fantascientifici, ha creato un partito, fantascientifico. Chissà quanti noteranno, oggi, che la Lega è il più antico dei partiti italiani in Parlamento, il simbolo più antico sulle schede elettorali, l’unico sopravvissuto alle macerie della prima repubblica, un partito nato dalla forza delle visioni, degli slogan, e ovviamente delle balle. Se c’è una cosa in cui il Senatùr non ha avuto rivali è stato proprio il potere immaginifico, il potere della parola. Prendete la nascita del movimento. Bobo Maroni l’aveva raccontata così, a Giorgio Bocca, in Metropolis: “Frequentavamo il circolino di Bobbiate, uno di quei bar cooperativa con il gioco di bocce della provincia, lì si aggiunsero a noi Speroni e Leoni e lì nacque la Lega autonomista lombarda che di politico – conclude Maroni – aveva poco o niente”. E come avrebbe potuto diventare epico un movimento in cui i condottieri si raccontavano così? Certo che adesso nessuno potrà più dire come diceva Roberto Calderoli: “Magari siamo un partito ruvido, qualche volta rompiballe. Ma coerente”. Quando è andata smarrito questo filo asimettrico di coerenza? Con la Lega di governo? Con il ribaltone? Con il secondo matrimonio che la legato il Carroccio a Berlusconi? Certo, più passava il tempo, e più il leader che fu si inoltrava nel suo crepuscolo, protetto e strangolato dal Cerchio magico. Come sembrava lontano il primo Bossi che Bossi si era inventato, il figlio delle valli e della vita agra: “Hanno fatto così con noi ragazzi di paese – raccontava a Vimercati lui – ci hanno portato via da qua con ogni mezzo, ci hanno strappato con la dinamite dalla terra dei nostri padri”. E in questo passato che Bossi si era inventato, affioravano grandi ritratti utili per la sua battaglia. Una Nonna socialista, un padre cattolico … “Mia nonna si chiama Celesta. Ma la cosa più bella era il racconto che Bossi faceva di sè, una volta arrivato in vetta: “A quindici anni ero un ragazzo scapestrato che collezionava ragazzine e si divertiva con gli amici”. La data ufficiale di nascita della Lega, che inizialmente si chiamava Lega Autonomista Lombarda, è il 12 aprile 1984. Ma il movimento aveva iniziato i suoi primi passi un paio di anni prima, intorno a un capo morto in un incidente, Bruno Salvadori. Forse la Lega era nata dentro la forza barbarica di un celebre slogan: “La Lega ce l’ha duro–spiegava lo stesso Bossi – è un modo poetico per chi sa apprezzare certe cose. Era una metafora, abbastanza esplicita, del carattere della Lega. Ma non vorrei, adesso, che alla Lega si iscrivessero tutte le signore italiane …”. Oppure era la Lega figlia di quel patchwork fra tutte le culture che da autodidatta Bossi aveva ingurgitato? “Il vecchio Marx – diceva con un po’ di vanagloria a Il Tempo nel 1992 – ci avrà pure insegnato qualcosa”. E che dire del carisma, del culto del capo? “Vedo che qualcuno dice che nella Lega comando solo io, ma non è vero”. Oppure la Lega era l’invenzione immaginifica di quel simbolo, che Bossi ascriveva, con un altro aneddoto leggendario, al suo talento di fotografo? “Quale immagine più adatta, allora – mi dissi – dell’Albertùn, la grande statua di Alberto da Giussano che campeggia nella piazza centrale di Legnano? Corsi a fotografarla, e nell’occasione mi tornò utile la passione per la fotografia che avevo coltivato da ragazzo”. Una lavoro ispirato, quasi febbrile: “Riportai la foto su un foglio, ricalcai il profilo all’interno del cerchio, entro il quale disegnai anche i confini della Lombardia. Il tutto, stilizzato, divenne il simbolo della Lega”. Poco importa che un altro degli ex, Franco Rocchetta, disse perfido: “Aveva copiato il simbolo delle biciclette Legnano”. Bossi in realtà era questo, soprattutto questo. Dava il meglio di sè nell’iperbole che in bocca a qualsiasi altro sarebbero suonate ridicole: “Noi diciamo stupidità che muovono l’Italia”. Era vero. Ma dietro c’era una biografia, e che biografia. C’erano stati i tempi grami. E poi quel primo matrimonio, poi dimenticato, le prime amicizie leghiste, la famiglia ripudiata quella di Pierangelo Brivio, marito di suo sorella: “Mia moglie ed io lo mantenevamo: gliel’abbiamo anche detto pubblicamente. E lui zitto. Gelato”. Ma l’invettiva più celebre, oggi del tutto dimenticata, era quello della sorella, Angela Bossi. Solo lei poteva ricordare pagine lontane e fallimentari come la fondazione della fantomatica “Unolpa”: nata prima della Lega “per staccare Varese dal resto della Lombardia”. Ma non era anche in questa incrostazioni di avventure fallimentari il segreto di un successo? A tutto questo mare di improperi Bossi rispose ancora una volta con la sua arma vincente di un tempo, il sorriso del ganassa ostentato a Mixer, intervistato da Giovanni Minoli: “Mia sorella Angela il leader? Sì, delle bistecche”. E lei, furibonda: “Ha detto che sono buona solo a far bistecche! Lui! Ah, se le ricorda bene le mie bistecche, lui! Perché per anni solo quelle ha mangiato, quel mantegnù”. Duello senza quartiere: l’ultima invettiva della Angela esplose in una intervista raccolta da Gian Antonio Stella, per Tribù: “Oooooh!!! Stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato!”. E i primi fondi? Tutti gli albori sono circonfusi nella leggenda. Sempre Brivio: “All’inizio i soldi al Bossi, per i suoi giornaletti, glieli dava Gheddafi”. Ma Brivio non era credibile perché non era che il primo degli apostati, il primo dei tanti che furono cacciati dal partitone leninista all’insegna dell’epurandosi-ci-si-rafforza. Non è stata questa anche l’ultima follia? Pensare di poter continuare a cacciare tutti, anche quando il suo carisma si era esaurito? Bossi non raccoglieva le insinuazioni, e con Vimercati parlava più volentieri del suo gruppo musicale: “Il mio complesso ebbe vita breve e grama. Io ero il meno dotato tecnicamente, ma avevo un certa fantasia: ero il paroliere del gruppo”. E che dire della formazione umanistica? Lui la raccontava così: “La prima tappa della mia tappa di avvicinamento alla cultura – diceva Bossi – fu la Scuola Radio Elettra. Un corso per corrispondenza che spiegava il funzionamento di molte apparecchiature elettriche ed elettroniche”. Chi mai potrebbe immaginare che quel Bossi si considerava professore? “Per pagarmi gli studi davo lezioni private. Non ero male come insegnante: la mia dialettica nei comizi nasce da lì”. Dove iniziava la verità? Dove il mito? “Evitai le serali, perché avrei impiegato altri anni ad arrivare in fondo. Mi dedicai anima e corpo agli studi; senza dimenticare le donne, però. … Sul finire degli anni Sessanta mi diplomai”. Il lavoro di autocostruzione dell’immagine era stato per certi versi titanico: “A quell’epoca ero molto ottimista, mi sentivo in grado di mantenere una famiglia, ormai la laurea era dietro l’angolo e pensavo di ottenere facilmente un posto, al termine di una carriera universitaria brillante anche se tardiva. Avevo in mente di diventare medico”. Peccato che sulla balla della laurea la prima contestatrice era stata proprio Gigliola Guidali, prima moglie di Umberto Bossi, che in una memorabile intervista a Oggi, raccontò: “All’inizio del 1975 decidemmo di sposarci in agosto. In aprile Umberto diede a tutti la grande notizia: mi sono laureato, presto avrò un impiego come medico. Non facemmo nessuna festa, ma corsi a comprargli un regalo, la classica valigetta in pelle marrone da dottore”. Mai usata. Però tutti i giorni usciva di casa. Finché Gigliola non scopre tutto: “Dovetti chiedere di essere ricevuta dal rettore. E lì, in quella stanza austera, un tabulato mi rivelò quello che sospettavo”. Una testimonianza che accostata alla sua compone un quadro fantastico: “Nel ‘77, se ben ricordo – aggiungeva Bossi – cominciai a collaborare con la clinica di Patologia chirurgica dell’università di Pavia, come esperto d’elettronica applicata in sala operatoria”. L’autorappresentazione non aveva limiti: “Continuavo a dilettarmi di elettronica, riuscii perfino a costruire un piccolo laser nel garage di casa”. Poi erano arrivate la Lega e l’incontro del destino, quello con Bobo Maroni: “Ricordate le prime scritte che inneggiavano alla Lega, quelle sui viadotti delle autostrade? Bene, erano trecento. Le ho fatte tutte io, con tanti chilometri in auto e non so più quante bombolette spray. Poi è arrivato Bobo”. Aggiungeva Maroni: “Bossi lo incontrai casualmente. La sera di una domenica. Io e la mia ragazza non sapevamo cosa fare, si andò da amici a Capolago e si finì in casa di Bossi. Lui si mise a parlare di cose incomprensibili, astruse. Mi annoiavo profondamente, che senso aveva sproloquiare di federalismo fra quattro provinciali annoiati, la sera di una domenica?”. Era sempre l’autopersuasione che rendeva tutto grande, sempre quella forza che sosteneva l’Umberto: “Resta il fatto che mentre raccontava di Dea, Dia, Digos, Cia, Sism, Sismi, Mossad e chi più ne ha più ne metta –raccontava ancora Tabladini– si passavano le serate dei dopo comizi in pizzeria a sentire le rodomontate su come tentavano di farlo fuori e su come lui era bravo a schivarli”. Bossi, ovviamente, si vedeva tutto intento al sacrificio: “Lavoravo come una bestia, nella commiserazione di parenti e amici. Vidi mia madre piangere, e non è certo una donna facile alle lacrime, quando mi trovò in canottiera a friggere le patate in un campetto di periferia”. E ovviamente sempre tornava a quel chiodo. La povertà, gli stenti, l’incorruttibilità: “Se avessi voluto farmi corrompere, avrei accettato una valigia di miliardi dalla Dc per distruggere la Lega”. E aggiungeva ancora nel 1992: “Ho passato cinque lunghi anni in mezzo agli uomini del Palazzo. Una bella condanna, per uno come me che vuole liquidare i politicanti romani. Eppure è un calice amaro che mi tocca bere”. Adesso gli anni sono diventati quasi trenta. A Bossi faceva piacere alimentare il mito di un carisma sintetico, di un leader predone che seduceva le donne infischiandosene nel politicamente corretto: “La mia prima fidanzata? Non me la ricordo più. Ne ho avute parecchie di ragazzine, facevo lo sbruffone”. Chi erano i militanti della Lega, dopotutto? “La base della Lega è la fanteria bergamasca e bresciana, quella che un giorno ha fatto l’Italia. E io piaccio alla fanteria”. Vestivano tutti più o meno come lui, parlavano tutti più o meno come lui, erano tutti più o meno figli di quel sogno e di quelle visioni. Le ampolle sacre del Dio Po, la secessione, il governo Sole, il parlamento padano, le ronde, le camicie verdi, le pallottole, gli insulti ai magistrati, “il manico” agitato a Margherita Boniver, il tricolore gettato nel cesso, le tentazioni secessioniste: “Noi non amiamo più l’Italia. Se uno scopre che la propria donna è una zoccola può perdonare una scappatella 2 o 3 volte ma poi la lascia”. Il Bossi di oggi invece è stato strangolato dal cerchio magico, reso afasico dall’ictus, sequestrato dalla sua seconda famiglia e dalle amorevoli cure di Emanuela, che gli ha fatto vivere la sua stessa sopravvivenza con un senso di colpa. E poi quei debiti esibiti come medaglie: “Ho passato anni infernali, quando si chiuse il giornale e ci rimasero sul gobbo venticinque milioni di debiti. Maroni pagò la sua parte ed ebbe la fortuna che lo chiamarono a militare così in qualche modo staccò”. E infine quel testamento morale, da capo guerriero, che adesso lo inchioda: “Io sono come un barbaro, porto la mia famiglia in battaglia con me. La mia donna e i miei figli devono sentire l’odore della polvere da sparo e il fragore metallico delle spade. La mia crociata è la loro crociata”. Adesso è accaduto il contrario. E l’odore di polvere da sparo si è dissipato: finiscono le visioni, i sogni, i miti, le parole tornano chiacchiere. E trent’anni di battaglie finiscono con l’assalto alla Lega e l’immagine di quel leader in camicia che se ne va. Tutto finito, come lacrime nella pioggia.
La parola alla difesa di ufficio. PERSECUZIONE LEGA. Bossi, un'altra condanna: vogliono uccidere il Senatùr, scrive il 25 Luglio 2017 Renato Farina su "Libero Quotidiano". Vige una legge che ci era ignota. È vietata in Italia, oltre alla ricostituzione del partito fascista, l'esistenza della Lega. Avevano già provato vent' anni fa a rottamare il Carroccio, quando un procuratore mandò la polizia a occuparne la sede di via Bellerio. Il 15 settembre del 1996, qualcuno ricorda?, ci fu un' irruzione di truppe in assetto antisommossa, che neanche in un covo delle Br. Infatti un magistrato aveva intuito il carattere pericolosissimo dell'organizzazione, e mandò i reparti speciali a catapultarsi sulla presunta "banda armata", la cui arma fondamentale era la polenta, indigesta al pm meridionale. Feltri titolò la prima pagina del Giornale a caratteri cubitali: "Lo Stato è impazzito". Il problema è che gli infermieri non sono arrivati, e questo Stato fuori di testa gira ancora in mezzo a noi. La foto che corredò quello sciagurato blitz esibiva un Roberto Maroni steso a terra. Adesso a essere colpito è il fondatore, Umberto Bossi. Diciamolo. Ci riprovano. Vogliono far crepare Bossi e uccidere la Lega. Facendo passare il primo per una specie di Bokassa padano, con i forzieri colmi d' oro e i freezer stipati di bambini da fare allo spiedo, uno che per colazione prenota Tir di caviale iraniano. E la seconda finge di fare politica per non dare nell' occhio, mentre trattasi di un'organizzazione di scassinatori, dediti a svaligiare con la mascherina la Banca d' Italia. Al Senatur pertanto hanno addebitato la truffa del secolo, con pene che sfiorano i cinque anni. Alla Lega le sentenze chiedono la restituzione di 48 milioni di euro sui 56 incassati da rimborsi elettorali tra il 2008 e il 2010, cavandole anche il sangue che non ha, tagliandole risorse vitali. Insomma costringendola a chiudere. Ingiustizia - Che razza di giustizia. Ammesso e non concesso che l'accusa e i tribunali abbiano visto giusto, ci viene qui da gridare a un doppiopesismo scandaloso. Il Partito comunista bevve oro dai gulag sovietici, oltre che da Enimont? Vero verissimo. Risultato? Zero, niente di fatto. Tonino Di Pietro e gli altri pm, tutti scornati e alcuni premiati. A Bossi già allora, anche se la borsa coi contanti non finì in mano sua, e il leghisti restituirono tutto, affibbiarono 8 mesi di carcere. Invece l'esimio responsabile comunista degli Esteri (gulag compresi), cioè Giorgio Napolitano, è diventato Capo dello Stato, ed in questo istante è portato in giro sulle Alpi da sediari pontifici come un Papa emerito. Napolitano aveva chiesto l'intervento assassino dei carri armati sovietici a Budapest? Premiato. Bossi ha dichiarato che centomila bergamaschi erano pronti con i fucili a fare la secessione? Condannato a un anno di reclusione. Meravigliosa equipollenza. Amnistia per i compagni dell'oro di Mosca. La Lega invece, secondo le risultanze processuali più incredibili della storia dei cartoni animati, avrebbe sottratto all' erario, con rendiconti falsi, 48 milioni. E questi denari - come riferisce il quotidiano economico Sole 24 ore, che di pecunia se ne intende per ragioni sociali - "per l'accusa sarebbero stati usati, in gran parte, per spese personali della famiglia Bossi". 48 milioni in spese personali. Chiamateli Onassis. Umberto e Trota Onassis. La "famiglia Bossi". Ma certo! Altro che la "famiglia Riina" o la "famiglia Provenzano", la "famiglia Boss dei Bossi". Aveva ragione Umberto Bossi quando, nel 1993, alla cattura di Salvatore Riina, sostenne di non credere che fosse Totó o' Curto, «quel barbone», il boss dei boss. Come dice la parola stessa, il boss era il Bossi con tutta la sua tavolata di briganti leghisti. Finalmente la verità è stata stabilita dai Tribunali di Milano (due settimane fa, appropriazione indebita, 2 anni e 3 mesi). E di Genova (ieri, truffa, 2 anni e sei mesi). Se si sommano le altre condanne (vilipendio, un anno e quattro mesi); diffamazione, cinque mesi; istigazione a delinquere, un anno, siamo davanti ad Al Capone. E come il capo mafia di Chicago fu incastrato non per le stragi ma per evasione fiscale, così provano a torcere il collo all' alter ego di Alberto da Giussano per questioni di quattrini portati via allo Stato. L' Umberto, con i figli Renzo il Trota e Riccardo il Pistola (non nel senso di revolver), avrebbe accumulato più tesori lui delle bande di Cavallero e Vallanzasca, di Carminati e Buzzi in consorzio. Pasticci - Che ci siano stati pasticci dalle parti di Bossi, non v' è dubbio. Osiamo però proporre una riflessione. Dopo l' ictus dell' 11 marzo del 2004, che avrebbe schiantato Hulk, e gli ha paralizzato il lato sinistro del corpo, lo ha colpito nella favella, tale da essere trattato dalla satira di Rai Tre come Lazzaro avvolto dalle bende; dopo tutto questo, che lo menoma da allora in modo permanente, Bossi sarebbe secondo voi riuscito con una mano lesta da far invidia a Johnny lo Zingaro e ai migliori rom del pianeta, a mettersi in saccoccia non 48mila euro bensì 48 milioni, a livello quasi di un banchiere dopo la sua onesta liquidazione e a spenderli pure? Tutto questo ci pare grottesco, e ci induce a solidarizzare con quest' uomo e la sua gente, trattata come un'accolita di farabutti. Non dimentichiamo che dalle Valli Bergamasche e Bresciane, dalle pianure monzesi e mantovane, nonché dalle plaghe venete, proviene il grasso di cui cui si nutre il resto della penisola grazie a circa cento miliardi di euro che vanno a Roma e non rientrano. Impalare Bossi e la sua creatura, per colpa di un tesoriere che commerciava con la Tanzania, ci sembra la decisione tipica di una giustizia uscita dai gangheri. Ovvio: non ci permettiamo di dubitare della buona fede di accusa e giudici, ciascuno agisce secondo coscienza. Ma ci sembra una sentenza analoga a quella che cercò di buttar fuori con infamia dalla politica, per altro senza riuscirci, Silvio Berlusconi. Un modo per distruggere l'opposizione di centrodestra, minandone la reputazione, e impoverendone le risorse economiche senza delle quali oggi non si sposta un voto. A noi pare che il vero esproprio dello Stato e dei cittadini sia un crimine tutt' ora in corso e sanato con orrenda legge dello Stato, firmata Gentiloni-Padoan. E ci riferiamo alle banche e ai banchieri ladri e incapaci i cui danni ciclopici sono stati riparati dalla gente comune. Che ora è disgustata e noi con lei.
Tutti i guai di Roberto Maroni, il leghista che voleva fare il premier. Il governatore sogna in grande, ma a frenarlo arrivano le inchieste. A iniziare da quella sull’agenzia lombarda a cui ha affidato la riscossione delle tasse e che ora è indagata per truffa, peculato e falso in bilancio, scrive Paolo Biondani e Vittorio Malagutti il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". Le ultime parole famose portano la data del 12 settembre 2016. «Oggi la Regione Lombardia ha licenziato Equitalia», scrisse su Twitter il governatore Roberto Maroni. Con tanto di hashtag compiaciuto: "manteniamo le promesse". A dieci mesi da quel solenne annuncio le tasse made in Padania sono già un flop, con la procura di Milano che indaga sulla Duomo Gpa, una delle due aziende private a cui la Regione a guida leghista ha affidato la riscossione delle imposte. Diego Federico Cassani, maggiore azionista e amministratore unico della società, è infatti indagato per peculato, truffa aggravata e falso in bilancio. Almeno otto milioni sono spariti dai conti. Accusa grave, a maggior ragione per chi maneggia soldi pubblici riscuotendo le tasse. Il boomerang della società di riscossione finita sotto inchiesta è un grosso guaio per il governatore lombardo e per le sue ambizioni (giusto mercoledì scorso il Foglio lo incoronava futuro leader del centrodestra unito), a pochi giorni da un altro affondo della magistratura: questa volta nel mirino c’è la Pedemontana: l’autostrada che taglia la Brianza collegando la provincia di Varese e quella di Bergamo, simbolo della grandeur d’asfalto in salsa leghista, si è trasformata in un gigantesco buco nero di perdite e debiti. I guai delle tasse e quelli d’asfalto capitano proprio nel mezzo della campagna per il referendum consultivo sull’autonomia lombarda. Per Maroni, leghista di governo, variante post-democristiana del sovranismo alla Matteo Salvini, le settimane che portano all’appuntamento del 22 ottobre prossimo dovevano trasformarsi in una passerella verso il trionfo. Questo successo, a sua volta, avrebbe aperto nel migliore dei modi la volata verso le amministrative del prossimo anno, con il governatore leghista pronto a ricandidarsi. Una corsa che sembrava scontata, con l’opposizione costretta a rincorrere a grande distanza. Tanto che in vista del voto di ottobre, la gran parte del Pd, con in testa i sindaci di Milano, Giuseppe Sala, e di Bergamo, Giorgio Gori, si era spostata sulle posizioni del governatore per non lasciare solo a lui tutto l’incasso della scontata vittoria referendaria.
In questa cornice trionfale, l’inchiesta su Duomo Gpa, finora rimasta sottotraccia, con pochi trafiletti sui giornali confinati nella cronaca locale, è quella che potrebbe finire per creare i guai maggiori per Maroni, quanto meno sul piano dell’immagine. Nel 2013 infatti, l’ex ministro dell’Interno dei governi Berlusconi aveva sbancato la lotteria delle elezioni regionali, mitragliando slogan sul fisco. Parole forti. Tipo: «Ai lombardi il 75 per cento delle tasse pagate in Lombardia». Strada facendo, il governatore è dovuto venire a patti con la realtà. A quattro anni di distanza, le promesse restano promesse e buona parte dei tributi padani prendono ancora il volo verso Roma. Equitalia però restava un ottimo bersaglio, un simbolo del fisco rapace da abbattere al più presto. Detto, fatto. La Regione ha bandito una gara, vinta da Duomo Gpa, associata per l’occasione alla Publiservizi, una ditta di Caserta, con il ruolo, quest’ultima, di capocordata con la quota di maggioranza. Non si può dire che ci fosse una gran concorrenza. L’unica altra offerta è arrivata da Poste Tributi, società pubblica che è finita in liquidazione nel 2016. Duomo Gpa, però, aveva già i conti in grave crisi: ricavi in calo, debiti oltre il livello di guardia. E adesso dalla magistratura è arrivata un’altra mazzata. Non per niente, il ministero dell’Economia ha già sospeso la Duomo dal registro delle imprese abilitate alla riscossione. La Regione Lombardia, invece, per ora non ha preso provvedimenti. L’istruttoria nasce da una lettera anonima spedita il 25 marzo 2016 alla Guardia di Finanza, ancor prima, quindi, che l’azienda di Cassani vincesse la gara bandita dalla giunta Maroni. Dalle carte sequestrate dalla Guardia di Finanza emerge che il nuovo concessionario lombardo ha accumulato debiti per quasi 20 milioni. Una somma enorme, se si considera che i mezzi propri della società non raggiungono i 7 milioni. La società fatica a far fronte ai propri impegni. Negli ultimi due anni, i dipendenti, un centinaio in tutto, sono rimasti per mesi senza stipendio, mentre decine di enti pubblici reclamavano le loro entrate. La Duomo Gpa, infatti, incassa i tributi per oltre 800 comuni in Lombardia e Piemonte, fino alle Marche e alla Toscana. Dalle carte dell’inchiesta risulta che già nel 2016 la società era assediata dai decreti ingiuntivi e dalle proteste dei municipi. Nel gennaio 2017 due impiegati, intercettati dalla Guardia di Finanza, si sfogano al telefono accusando la famiglia Cassani di aver «intascato otto milioni di euro»: «Stiamo parlando di debiti nei confronti dell’erario e dei comuni», per cui «se arriva un pm ti porta a San Vittore». Non solo. La moglie di Cassani, intercettata, spiega a un ragioniere che «la contabilità va ricreata ex novo». Una funzionaria protesta che «per coprire i debiti fanno cose allucinanti, bonifici finti, un sacco di contabili finte». Ad ascoltare simili confidenze, preoccupato, è Ezio Buraschi, che non è indagato, già socio della Duomo: «Fanno il gioco delle tre carte», è il suo commento, «ma così qualcuno va in prigione». Secondo la Guardia di Finanza almeno 8 milioni sono spariti. Gli ammanchi, ha ricostruito il pm Mauro Clerici, dipendono da «una confusione tra conti pubblici e privati», che è l’effetto di una legge singolare, modificata solo in tempi recenti. Un sistema durato anni, così congegnato: le tasse, che appartengono ai comuni, vengono pagate dai cittadini (coi bollettini postali) su conti di proprietà degli esattori che sono quindi liberi di travasarli altrove. La Duomo, in particolare, ha dirottato le tasse di mezza Italia su un proprio deposito di Milano, chiamato «conto padre», usato per pagare dipendenti e fornitori, versare bonus e benefit ai dirigenti, distribuire utili e premi agli azionisti.
Tra il 2015 e il 2016 la società sigla con i comuni alcuni «piani di rientro» a rate, ma di fatto usa le entrate di un municipio, accusano i magistrati, per tappare i buchi con un altro. La nuova legge, che intesta i conti delle tasse direttamente ai comuni, interrompe una volta per tutte questa girandola. E a quel punto parte la presunta truffa: la Duomo prepara «finti bonifici» on line, li stampa e li trasmette ai comuni come se fossero veri, ma subito dopo li annulla. I contabili descrivono anche un’altra presunta «tecnica fraudolenta collaudata da anni», che loro stessi chiamano «il sistema Cassani». Il punto di partenza è che esistono due tipi di contratti di riscossione: con i piccoli comuni la società paga solo un canone fisso, per cui può trattenere tutte le tasse che superino quel minimo garantito; con gli enti più grandi, invece, riceve una percentuale (chiamata aggio) e quindi dovrebbe rimborsare una cifra variabile in base agli incassi. Invece, secondo l’accusa, i soldi dei grandi comuni venivano spostati, con un apposito programma informatico, sui conti dei piccoli. In quel modo la Duomo pagava solo i canoni fissi e incamerava una bella fetta di tasse dei grandi enti: «in media il 10 per cento», secondo i contabili già interrogati. Il 30 giugno scorso i magistrati hanno ordinato il primo sequestro di otto milioni. Oltre alla società, il decreto ha colpito i tre proprietari, cioè Cassani con la moglie e la sorella, che negli ultimi dieci anni tra stipendi e benefit hanno ricevuto dall’azienda almeno 5 milioni e mezzo. Tra le uscite contestate compaiono tre auto da 70 mila euro ciascuna regalate a parenti, rimborsi benzina per una Jaguar e oltre due milioni di fatture sospette, liquidate a un’altra ditta di famiglia. Nel decreto i magistrati precisano che l’inchiesta continua e potrebbe scoperchiare altri ammanchi: nella sede perquisita mancavano le carte di «più di cento conti bancari». Interpellato dall’Espresso, l’avvocato Giovanni Maria Soldi, che difende Cassani e i suoi familiari, smentisce qualsiasi truffa o ruberia: «Esiste un debito importante nei confronti dei comuni, ma escludo che ci siano state frodi o appropriazioni indebite». Adesso, in attesa delle prossime mosse della magistratura, c’è il rischio che la Lombardia sia costretta a reclutare un nuovo concessionario per riscuotere le tasse. Dal licenziamento di Equitalia è passato meno di un anno. Chissà se Maroni avrà ancora voglia di parlarne su Twitter.
Addio felpa, è il momento del doppiopetto verde, scrive Piero Ignazi il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". La Lega è una idra dalle molte teste. Un giorno si presenta con ruspa e felpa pronta a far piazza pulita di immigrati, un altro si mette giacca e cravatta e incontra manager e dirigenti d’azienda; un giorno rivendica orgogliosamente il proprio primato e il diritto alla guida del centrodestra, un altro cinguetta con vecchi e nuovi alleati; un giorno guarda oltre i confini della Padania parlando di “italiani”, un altro organizza referendum nelle regioni del nord per riaffermare l’autonomismo locale. In questo nulla di nuovo. Già la Lega dei tempi di Umberto Bossi si considerava un partito di lotta e di governo: aggressiva e tonitruante nei suoi messaggi, pragmatica e accomodante al governo nazionale o locale. Matteo Salvini ha seguito la stessa modalità alternando messaggi bellicosi per mobilitare il consenso a toni concilianti per costruire un fronte elettorale comune. In una prima fase il leader leghista ha creato e coltivato l’immagine del giovane leader simil-renziano, insofferente di tutele all’interno del proprio partito e di uno status di minorità nel centrodestra. Grazie all’ascesa del Carroccio e all’eclisse di Forza Italia, Salvini ha portato il suo partito al centro dello schieramento di destra ponendo con forza il problema della leadership. Già due anni fa, nel novembre del 2015, “costrinse” Berlusconi a partecipare a un meeting organizzato a Bologna per lanciare la sfida al governo Renzi. Ora, invece, forte del successo alle amministrative dove i suoi candidati o il suo partito hanno consentito la vittoria del centro-destra in tanti luoghi, Salvini può permettersi di mettere la sordina alla questione della leadership. Si limita ad annunciare la sua disponibilità. Un passo di lato intelligente per favorire la ri-costituzione di una coalizione potenzialmente vincente alle prossime elezioni. Un’ipotesi, questa, non sorprendente, visto che tutti i sondaggi di questi anni indicavano che la somma di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia più cespugli vari equivaleva, grosso modo, ai voti di Pd e M5S. Ma rimaneva sempre in predicato la possibilità di costituire un fronte unico a destra. Adesso il profumo di vittoria consolida i rapporti tra alleati; inoltre, smussa i contrasti interni al Carroccio. La frattura tra una Lega di governo e nordista, seppure non più secessionista, e la proiezione nazionale di Salvini al di sotto degli Appennini è rimasta congelata. Qualche puntura di spillo ma nulla di più. Mentre il vecchio Bossi, ormai un’icona senza seguito, protesta, i governatori di Lombardia e Veneto si sono astenuti dal fare polemiche. E, corrispettivamente, il segretario del Carroccio non ha mai criticato le alleanze larghe, comprensive anche degli alfaniani, quando si trattava di competere per i governi locali. Gli ultimi passi compiuti da Salvini per capitalizzare il recente successo alle amministrative e imprimere il marchio leghista sul centrodestra vanno in una direzione “governista”, vicina alle sensibilità dei Maroni e degli Zaia. La Lega può permettersi questo passaggio moderato perché ha acquisito da tempo il primato sulla questione dell’immigrazione: nessuno può sottrargli il vessillo dell’ostilità agli immigrati. Questa posizione costituisce la carta vincente in quanto pesca un po’ in tutti gli ambienti, compreso quello del Pd nella sua componente più anziana, la più spaventata dal fenomeno migratorio - che è anche la più perplessa della gestione renziana: un mix esplosivo per il Partito democratico, come si è visto in Emilia-Romagna dove il Pd ha perso tutti i ballottaggi contro la destra. Se poi la Lega affianca al suo richiamo trasversale su immigrati-sicurezza anche posture e proposte diverse, più pacate e pragmatiche, come ha fatto nel convegno di Piacenza del 16 luglio con un sobrio Salvini in giacca blu, la sua presa elettorale e la sua credibilità aumentano ulteriormente. Questo passaggio verso il doppio-petto verde, ancora embrionale ma sintomatico della proiezione verso le prossime elezioni, indica il consolidarsi di un gioco di squadra tra i potenti governatori del lombardo-veneto e il giovane leader per dare vita, ancora, a una Lega di lotta e di governo.
Rivoluzione nella Lega: cambiano nome e simbolo. Basta sdoppiamenti tra Lega Nord e Noi con Salvini. Nessun riferimento alla Padania. E un logo unico per tutto il Paese. «Niente società di consulenza, lo disegneremo in casa. E ci sarà il mio nome», scrive Roberto Di Caro il 24 luglio 2017 su "L'Espresso". Simbolo nuovo. Lo stesso per tutta Italia. Prima delle elezioni politiche. E nuovo nome. Che significa via la parola “Nord”. Una rivoluzione, un cambio di pelle radicale. Nelle cose è già in atto: chiedi infatti a Matteo Salvini quando si deciderà a cancellare l’anacronistica dicitura “per l’indipendenza della Padania” dal nome del partito e dei gruppi parlamentari, e ti risponde che due mesi fa ha vinto il Congresso «con l’83 per cento su una piattaforma federalista chiara e dichiarata, unire le energie di lombardi, veneti, abruzzesi, calabresi, siciliani e tutti gli altri per salvare il paese dalla rovina. La sostanza è già questa, la forma la sistemeremo». Gli racconti allora che un quarto di secolo fa, intervistando in pubblico D’Alema, alla domanda su cosa aspettavano a cancellare “comunista” dal nome ti rispondeva vago «ci penseremo, ma ci sono radici e tradizioni», e una settimana dopo il Pci diventava Pds. Mica farà anche lui così? «Una settimana dopo?» Eh, sì. Ride e scuote la testa, Salvini. «Vabbè. Allora. Non è che possiamo star lì tanto a cavillare. Il 22 ottobre si terranno i referendum per l’autonomia in Lombardia e Veneto. In inverno, presumo a febbraio, le politiche. Lì sicuramente la Lega si presenterà con lo stesso simbolo in tutta Italia. No, non lo abbiamo ancora disegnato: ho visto che ci sono studi e società di consulenza, ma non abbiamo una lira, ce lo faremo noi, ne siamo capaci. Di certo resterà il marchio Lega, che è la nostra storia. E ci sarà il nome del segretario. Il resto si vedrà, ascolterò e decideremo». Chiedi conferma: simbolo unico, niente più sdoppiamento Lega Nord sopra la linea gotica e Noi con Salvini sotto, significa via “Nord” dal nome, giusto? «Abbiamo sessanta consiglieri comunali in Sicilia. L’altro giorno 500 persone mi aspettavano a Ladispoli, litorale laziale, nuovo sindaco eletto da noi e Fratelli d’Italia contro Pd, Forza Italia e tutti gli altri. Poi andrò a festeggiare la nuova giunta dell’Aquila. A incontrare i pescatori di Tropea. A Catanzaro a inaugurare la nuova sede. È evidente che non posso continuare a fare tutto ciò come Lega “Nord”». Il dado è tratto. Barzago, 2400 anime in provincia di Lecco, festa lombarda al centro sportivo, è l’una di notte quando la conversazione con Salvini ha inizio, dopo che un acquazzone ha finalmente mandato a casa il grosso degli astanti. Alle 9 di sera era a Vizzolo Predabissi, a sud di Milano, festa provinciale Lega della Martesana. Bermuda, camicia azzurra fuori dalla cintola, dal palco ha pestato sugli immigrati clandestini, le tasse, i negozi che chiudono per il salasso fiscale, le culle vuote, infine l’appello accorato: «Quest’estate non un giorno di tregua, in posta, in edicola, col vicino d’ombrellone a convincere i rassegnati, dobbiamo vincere, governare, ripulire questo paese da nord a sud, ce la giochiamo tutta». Neanche il tempo per un boccone, un’ora d’auto ed è a Barzago. Lo aspettano centinaia di persone: militanti storici, famiglie, molti ventenni, ragazzi e ragazze. No, non è una festa per vecchi. Altro comizio. Bossi, ai tempi d’oro, seduceva le folle per tre ore infilando ragionamenti chilometrici con toni alterni dal didascalico allo ieratico, Salvini è secco, diretto, a tratti ironico, lingua veloce, argomentazioni per exempla. Appena tocca un nervo scoperto, non ha che da scegliere, volano i bravo e gli applausi. Non c’è dubbio, la Lega è sua. Bossi chiudeva col Va’ pensiero, lui «con una canzone il cui titolo ben rappresenta la nostra battaglia», ed eccolo cantare “Voglio una vita spericolata”, di quelle che non dormi mai, qualche stecca, un cedimento di voce, capita se ti fai due o tre comizi al dì. Il lavoro duro però comincia adesso: «Calma, due o tre alla volta, ho tempo fino a mezzanotte, le foto le fate tutti!» L’orchestrina è passata ai Pooh. Un’orda si sposta dietro Salvini sul prato: coppie di fidanzati, grappoli di ragazzi, famiglie dalla nonna al nipotino, militanti della prima ora, giovani mamme con figlie, donne sole. L’Umberto d’antan tirava notte a firmare libri, patenti, caschi da moto, magliette, maschi avambracci e petti delle militanti, nel bagno di folla ci sguazzava. Al Matteo al centomillesimo selfie, la camicia zuppa dal caldo, ogni tanto passano un sorso di birra e la mascella tesa a sorridere gli si stende per un istante: «Ma è giusto così, ti devono vedere, ti devono toccare...» Vero. Le donne gli mettono la mano sulla guancia, sulla pancia, tra i capelli, qualcuna lo bacia all’improvviso senza scampo. Con buona pace di Kantorowicz e dei “due corpi del re”, nell’epoca dei selfie, e dell’intimità coatta ancorché illusoria di Facebook, non c’è più distinzione tra il corpo fisico e quello politico del capo, il corpo naturale e il corpo mistico. Come in certe tribù, il corpo del Capo è cibo per il suo popolo. Quando non ce la fa più, a grandi passi Salvini si rifugia in cucina, lo rincorrono, e lui «dai, va bene, portali qui». Seduti infine alla tavolata, roast-beef e arancini del cuoco siciliano, un dirigente gli parla di un problema a Lecco, lui risponde netto: «Ne avete tre da segare? Fatelo! Ci attaccheranno tutti, se il primo che passa comincia a discettare di filosofia, addio! Io ne ho espulso uno (si riferisce al senatore Provera, trent’anni di Lega in Valtellina, che al referendum aveva votato sì, ndr) ed è bastato». Si potrà fumare? Adesso si può, il segretario federale s’è appena acceso una sigaretta: «Sì, ho ripreso», dice con un sorriso amaro. «Questa settimana. E non per ragioni legate alla politica...» Sa di gioco sporco, la copertina e il tono del pezzo di “Chi”, titolo “Ma quali nozze con Salvini, lei ama un altro”. «No comment». Certo. Neanche glielo chiedi. Il punto è Berlusconi, la rivista è sua. «Voglio credere che non c’entri lui. Altro non so e non mi interessa». Riallearsi? Salvini ti risponde più o meno ciò che t’aspetti: nel vecchio centrodestra c’è un enorme vuoto, in politica come nella vita contano i numeri, sono finiti i tempi in cui Forza Italia dettava legge e la Lega a ruota, lui è pronto ma non fa della leadership una questione di vita o di morte, si batte per un centrodestra unito e un programma comune ma prima delle elezioni, non dopo. Alla peggio, ognuno per sé e a urne chiuse si faranno i conti. Meno tenuti all’aplomb, i militanti sparano invece alzo zero. Alla tavolata di quelli di Inzago, tovagliette “Salvini premier, idee cuore coraggio”, bianco in campo azzurro, fuori moda anche il verde-Lega, Elisabetta la casalinga certo che se l’è comprato il famigerato numero di “Chi”. Per lei, e per Massimo l’autotrasportatore, Imerio l’imprenditore in pensione, Emma la presidente del Consiglio comunale, Berlusconi «è un filibustiere, uno che stupidamente prova a far fuori Salvini con tutti i mezzi, e alleanze assolutamente no, è un leader perdente, peggio, uno che fin che campa avrà a che fare con la magistratura». Stoccata finale: «È uno che non comanda più. Come Bossi». Sì, il fondatore l’hanno archiviato una volta per tutte. Nei cuori, non solo ai congressi. Meglio stia fuori, crea solo casini. Non mi è mai piaciuto, troppo spavaldo. Morto un papa se ne fa un altro. Chi ha avuto ha avuto. Largo ai giovani. Finiti i proverbi, sic transit gloria mundi. Imerio e un altro azzardano che pure Maroni sarebbe forse ora si mettesse da parte, non aveva detto cinque anni da presidente poi jazz e pensione? Fatto salvo il gioco delle parti, il presidente della Lombardia lo trovi sempre più spesso in disaccordo con il suo segretario federale, dal bagnino fascio di Chioggia alle alleanze per le regionali 2018. «Ovviamente non è ipotizzabile che gli alfaniani, a Roma con Renzi, possano ripresentarsi in Lombardia con noi». Maroni dice il contrario. «Ho parlato con lui, è disponibile, risolveremo insieme». Se sulle alleanze senti i militanti, non che vada tanto meglio quando tiri in ballo i Cinquestelle. Raccontano i sondaggi di una larga disponibilità dei leghisti a qualche forma di intesa con Grillo, Di Maio, il Dibba e gli altri. Sarà. Qui fanno tutti facce tra lo scettico e lo schifato. Non mi fido. È gente che cambia idea a seconda di come si sveglia la mattina. Macché carne fresca, vengono tutti chi di qua chi di là. E Salvini, che qualche avance l’ha pur fatta? «Io non ho condiviso l’approccio di Renzi e Berlusconi, che vedono in loro dei disoccupati debosciati. Ma dove governano, tranne rarissime eccezioni, hanno dimostrato il nulla. La loro proposta di un reddito per chi sta a casa non fa parte della mia forma mentis. A Bruxelles votano quasi sempre con la sinistra su Islam, profughi, accoglienza, minoranze rom, poi qua Grillo urla basta con i barconi, tutti a casa. Difficile un’alleanza: la Lega ha tanti difetti ma parla con una sola voce». Spiraglio aperto, come una porta di riserva, senza contarci, capitasse mai. Ma, giochi tattici a parte, su cosa le vinci o le perdi le prossime elezioni? Stop invasione, recita la maglietta che più vedi in giro addosso ai ragazzi, contro una sola “Prima il Nord”, ormai vintage. A parlar d’immigrati scopri l’acqua calda, e quanto ai toni del comizio salviniano, «il Pd si finanzia con l’immigrazione illegale di nuovi schiavi, noi con le salamelle. Se non ci muoviamo in fretta, fra cinque anni questa festa la facciamo col velo islamico, il muezzin che chiama alla preghiera e la salamella fuori legge!» Ma, alle ortiche per un istante gli slogan e le battute facili, c’è un modo sensato e praticabile per affrontare la questione? «Ma sì!», risponde Salvini: «Alla fine gli organismi internazionali, l’Onu, l’Unione europea, la Nato, interverranno per spostare i confini oltre il Mediterraneo. E i centri di accoglienza, identificazione, alloggio, selezione, riconoscimento, saranno in Africa invece che in Italia. Inevitabilmente accadrà. Spero non fra tre anni». Comunque sia, «noi non parliamo solo di clandestini. Il nostro è un programma di governo su tutti i temi fondamentali: lavoro, pensioni, scuola, burocrazia, studi di settore, revisione dei trattati europei. E tasse. A Piacenza, giornata di studio Facciamo squadra!, per esempio. Piacenza, albergone sulla tangenziale, terza domenica del mese. Parlamentari, amministratori, professionisti, imprenditori. E dodici esperti per dodici temi di governo. Armando Siri, il 45enne consigliere economico di Salvini, snocciola in 35 slide il progetto di legge sulla “flat tax” già depositato in parlamento e di cui è estensore, nume tutelare l’Alvin Rabushka della Stanford University. Conti, raffronti, tabelle, clausole di salvaguardia: 15 per cento di tassazione fissa, un po’ meno sui redditi molto bassi per via di deduzioni, liberi enormi risorse, rimetti in moto l’economia, lo Stato recupera introiti grazie alla crescita, l’Europa non te lo può impedire e il gioco è fatto, l’uovo di Colombo. Lo scetticismo è lecito, ma non è questo il luogo dove vagliare i conti. La domanda è: se vincete, quando tagliate le tasse al 15? «Subito. Qualche mese. Per gradi non funziona», ti risponde Siri. Salvini, quando il 15 per cento? «A regime nel quinquennio, questo è l’obiettivo. Ma uno shock lo devi dare subito». Sarebbe? «Nel primo anno». Aliquota unica? «Dimezzare quelle massime attuali». Ci mette la faccia? «Sì, certo. Non farei il segretario della Lega se non fossi ambizioso».
Federalismo ladrone della Lega regalo di Silvio a Bossi, scrive il 4 marzo 2011 su "Il Malpaese" GiulioL. La domanda è: ma ladrona con chi? Di certo non con la Lega che, a quanto pare, usufruisce della grande generosità di Roma per fare i suoi “porci” (appunto) comodi. Da leggere l’illuminante articolo di Mario Ajello, pubblicato sul Messaggero, nel quale si mostra ben bene come i cari leghisti amino molto sfruttare tutte le possibilità che la nostra capitale offre in termini di favori e compensi. La Lega è molto peggio e molto di più che ladrona. E’ proprio quell’Italia che, apparentemente e solo a parole, voleva condannare. Ha portato al potere la furbizia, l’ignoranza, la violenza, l’omertà, il razzismo, la corruzione, e chi più ne ha più ne metta.
Federalismo Municipale. Ora siamo proprio fottuti! Altro che palla al piede! Sud sempre più serbatoio del nord, scrive Angelo Forgione. E così la Camera ha confermato la fiducia al Governo approvando la risoluzione di maggioranza relativa al testo sul “Federalismo fiscale municipale”. Berlusconi ha fatto festa con la Lega infilandosi nel taschino del suo doppio petto il fazzoletto verde della Lega passatogli dal Ministro degli Interni, il leghista Maroni, in mezzo a un tripudio di bandiere della Lega Nord. Tutto il carroccio contento, Bossi compreso che ora pensa al prossimo step, il Federalismo fiscale regionale da attuare da qui a quattro mesi. Se il carroccio è in tripudio c’è un solo perché: il federalismo municipale apre il rubinetto per i comuni del nord, non certo per quelli del sud, e la forbice è destinata ad allargarsi. Vediamo perchè. Il disegno di legge prevede che il 4,9% del gettito nazionale IVA venga distribuito ai comuni in base ai consumi. Vuol dire che verranno premiati quei comuni con alta concentrazione di fabbriche, commercianti, e professionisti, laddove vengono dichiarati e versati maggiori importi IVA. Il trucco è tutto qui: l’IVA è una partita di giro per l’imprenditore o il professionista che prima la versa e poi la scarica. Chi la versa senza mai scaricarla è il consumatore, ovvero il vero soggetto che produce gettito fiscale. Facciamo un esempio chiaro: le numerose fabbriche del nord che vendono prodotti in tutto il territorio nazionale, sud e isole comprese, realizzeranno un vero e proprio drenaggio dell’IVA nel meridione, pagata dal consumatore meridionale per versarla, sempre nella misura del 4,9%, nelle casse dei comuni di provenienza, laddove cioè hanno sede legale.
Facciamo allora un po’ di numeri per capire in che misura si allargherà la forbice. Su 2,88 miliardi di euro devoluti, 1,7 miliardi andranno al nord, 716 milioni di euro al centro e 463 milioni al sud. La CGIA, Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre, ha fatto due conti per misurare gli effetti economici che emergeranno dall’applicazione del nuovo decreto sui principali Comuni capoluogo di Provincia, deducendo che da questa operazione ne trarranno vantaggio i Sindaci del Nord. Milano sarà il Comune più premiato. In termini pro capite il vantaggio economico sarà di 211 €. Seguono Monza, con +201 € pro capite, Parma, con +144 € pro capite, Imperia, con +141 € pro capite e Siena con 132 €. Male, invece, la situazione al Sud. Tra le realtà più penalizzate Foggia, con una differenza negativa di 192 € pro capite, L’Aquila, con -208 € pro capite, Taranto, con -215 € pro capite, Cosenza, con -269 € ed, infine, Napoli, con -327 €. Si avvia a ripetersi dopo 150 anni il drenaggio delle risorse economiche del Sud a favore di quelle del Nord. Allora l’operazione si attuò passando per le banche, con il Piemonte che dopo l’annessione del Sud al suo Regno impose l’apertura al Sud di filiali della Banca Nazionale e il divieto al Banco di Napoli di apertura al Nord. Fu la prima vera truffa finanziaria della storia d’Italia alla quale fece seguito quella ancor più grande detta “Legge sul corso forzoso” che stabilì l’inconvertibilità della moneta della Banca Nazionale e la convertibilità in oro di quella del Banco di Napoli al fine di trasferire l’oro del Sud al Nord (che ne era completamente sprovvisto). Fu un gioco da ragazzi per i settentrionali cambiare la moneta del banco di Napoli in oro e drenare le riserve auree del Regno delle Due Sicilie a vantaggio del nord. Tutta l’operazione è a costo zero per le casse dello Stato centrale perchè a fronte di un taglio dei trasferimenti ai Comuni di 11,243 mld di euro, altrettanti 11,243 mld di euro saranno devoluti agli stessi Comuni. La differenza sta nel fatto che, a livello territoriale, alcuni ci guadagnano e altri invece ci rimettono. Tradotto in soldoni, con un gioco di prestigio, il nord vince e il sud perde. Milano ride, Napoli piange. Del resto, ad esultare erano Berlusconi, Bossi, Calderoli e Maroni.
Signori, siamo fottuti! (Vi ricordate la battuta “calcistica” di Berlusconi alla Camera di Commercio di Milano prima di Milan-Napoli di tre giorni fa? “Il Milan per battere il Sud”).
Verde mattanza, scrive Valentina Di Cesare. Mi verrà un’ulcera, questo è chiaro. Com’è altrettanto chiaro che il mio colore preferito prima era il verde, ma ora non riesco a non associarlo a quegli idioti che ne contaminano la bellezza in parlamento. Tra l’altro il verde acceso sta bene a chi ha la pelle scura, sui visi leghisti color caglio sarebbe preferibile un tono su tono: l’avana. Alla camera è passato il voto di fiducia per la riforma del federalismo. Il decreto contiene un errore già nel nome in quanto secondo il corretto utilizzo della lingua ITALIANA con la parola FEDERALISMO derivante dal latino FOEDUS, “patto” si indica un “corpo di membri che vogliono raggrupparsi in una federazione (come è accaduto negli Stati Uniti e in Svizzera) guidati da un rappresentante comune”. Quel che è stato approvato ieri è esattamente il contrario di quanto detto sopra: ieri infatti, 314 parlamentari hanno dato vita legalmente alla prima forma autorizzata di AUTONOMISMO. Un minimo accenno ad alcuni elementi: la risoluzione è passata con 314 sì e 291 no e 2 astenuti; i voti favorevoli mancanti all’appello sono stati solo 5, un leghista si è astenuto, due pidiellini erano assenti e due erano in missione. Ad astenersi inoltre anche due deputati delle Minoranze linguistiche, Brugger e Zeller, mentre dell’opposizione in 10 non hanno risposto alla chiamata. Poco prima del voto il governo ha poi recuperato in calcio d’angolo 10 deputati di Noi Sud di Micciché, col patto di non tagliare le risorse sull’eolico. Ripeto deputati del sud: rabbrividisco. Ma a cosa porterà il federalismo municipale? Innanzitutto alla TASSA IMU che entrerà in vigore dal 2014, l’Imposta Municipale Propria che assorbirà definitivamente l’IRPEF e l’ICI. Non si applicherà alle prime case e non la pagheranno chiese, scuole, hotel e oratori religiosi. L’impatto dell’IMU sarà di certo deleterio sui ceti meno abbienti e sui pensionati; l’analisi dell’ufficio studi di Confartigianato sulle 101 province italiane, ha evidenziato come il passaggio da Ici a Imu base, determinerebbe un incremento d’imposta superiore a un quarto. A dir poco grottesca è la TASSA sul TURISMO che graverà sui visitatori dei comuni in oggetto; ciò secondo i leghisti incrementerà il settore turistico. OTTIMISTI. La generale semplificazione del sistema contributivo concentrato a livello locale nasconde a mio parere pericoli di non poco conto, in primis quello che Comuni stessi aumentino la pressione fiscale o la mantengano ai livelli già presenti, ma senza offrire i servizi promessi. Le semplificazioni, soprattutto a livello di tassazione degli affitti e sulla compravendita degli immobili sembrano teoricamente vantaggiose, ma i leghisti fingono di non vedere la trave ingombrante davanti ai loro occhi. Invece di continuare a raccontarci barzellette sul federalismo, puntando sulla favola dello snellimento delle pratiche, e dell’aumento della trasparenza, sarebbe il caso che qualcuno ricordasse loro che in molte regioni italiane, dove i brogli e le raccomandazioni sono sufficientemente diffuse pur essendoci controlli statali, l’autonomia non farà altro che peggiorare tale disastro, concentrando nelle mani degli amministratori locali tutto il potere decisionale. Il Centro Studi della Cgia di MESTRE (siamo in Veneto, eh!), dopo l’approvazione del decreto sul federalismo ha stilato una classifica delle regioni più penalizzate dalla riforma: saranno avvantaggiati i sindaci del Nord, mentre quelli meridionali saranno penalizzati dal nuovo sistema; 11.243 miliardi di euro di trasferimenti statali saranno soppressi a tutti i comuni italiani, e se Milano avrà un vantaggio economico di 211 euro pro capite insieme a Monza, Parma, Imperia e Siena e molte altre al Sud Foggia sarà penalizzata con meno 192 euro pro capite, L’Aquila con meno 208 euro, Taranto con meno 215, Cosenza meno 269, Napoli con 327 euro appunto. Ricordo che 2 delle città più colpite dalla riforma L’Aquila e Napoli, sono l’una distrutta, immobile e sommersa dalle macerie da ormai 2 anni, e l’altra schiava della malavita organizzata, troppe volte concussa allo stato nonchè strozzata da rifiuti e dalla criminalità. Dettagli anche questi a quanto pare, perchè gli italiani narcotizzati sono senza voce e non oppongono resistenza, perchè il sud subirà in silenzio l’ennesimo furto senza ribellarsi; all’approvazione del decreto il senatur, nonostante il poco fiato, ha festeggiato con i suoi adepti sventolando bandiere e vessilli leghisti, mentre l’euforico Maroni ha persino infiocchettato il nostro premier che per solidarietà si è cinto di tradizionale fazzoletto leghista. Magra consolazione: il verde vi sta malissimo! Valentina Di Cesare
Altro che Sud, Salvini vuole i soldi dei “terroni” per salvare la Lega. Ecco spiegato il (ri)trovato amore per Napoli e il sud. Gli sghèi del Mezzogiorno vanno a nord per sanare i buchi di bilancio. La Lega non sa nulla di meridione: Salvini ignora che a Brindisi c'è un aeroporto e il sen. Volpi ha visto Napoli una volta nella vita. Era un cenone di Capodanno, scrive Francesco Floris il 18 Marzo 2017 su “L’Inkiesta”. La lista “Noi con Salvini”, a Matera, ha preso la bellezza di 213 voti. Ultima classificata con un poco invidiabile 0,60 per cento. È andata meglio altrove, per esempio a Gallipoli? Non proprio: 170 voti, 1,39 per cento. Nei gazebo di Lecce, Foggia, Taranto, Brindisi ci sono sempre le stesse 5-10 persone, le stesse facce di attivisti e militanti. Che si spostano di provincia in provincia, di comune in comune come una simpatica compagnia di giro itinerante. Il Senatore Raffaele Volpi, numero due della Lega Nord al Senato e responsabile di mantenere (e se possibile allargare) i rapporti con il meridione, in occasione delle scorse elezioni regionali si è recato una sola volta a Bari e una in Campania. Dove ha candidamente spifferato all'orecchio dei suoi sodali di aver visto Napoli solo in un'occasione in vita propria. Per un cenone di Capodanno. Il cotechino, però, non puzzava. Era ottimo. Altro che nazionalismo e riscoperta della questione meridionale. Matteo Salvini, fino a poco tempo fa, prima che qualche (ex) “terrone” lo imbeccasse, non sapeva nemmeno che a Brindisi ci fosse un aeroporto civile. Era convinto che l'unico scalo pugliese fosse quello di Bari. Venti euro, ecco quanta costa entrare nelle grazie del leader del Carroccio per un meridionale. È solo una questione di “sghèi”, di “danè”. Oppure di “piccioli”, di “sordi”, di “pila”. Cambiano le regioni e le inflessioni dialettali ma la sostanza rimane la stessa. Il (ri)trovato amore per il sud si scrive partito a vocazione nazionale ma si legge buco di bilancio. Matteo Salvini e il sud Italia? Gli serve per risanare i bilanci disastrati del partito ma non c'è nessuna attenzione al meridione. Il leader non sapeva nemmeno che a Brindisi ci fosse un aeroporto. Certo ora «Il vero nemico è l'Europa» come ci ricordava lo stesso leader del Carroccio dal palco di Pontida a ottobre – mentre si vantava di aver portato nella bergamasca due ragazze di Frosinone – e non più i fannulloni del sud o i forestali calabresi. Certo ci sono i voti da prendere per il nuovo corso sovranista. Tanto sovranista che in Puglia, alle regionali, ci si è presentati assieme alla lista “Sovranità” dove trovano spazio fascisti e “fascistoni” (copyright Umberto Bossi). Questo prima di scaricarli dopo il voto (il loro massimo esponente è arrivato a 600 preferenze) e magari dopo avergli fatto sottoscrivere qualche tessera. Quelle famose da 20 euro. Certo, oggi c'è la necessità di parlare a Napoli a tutti i costi come abbiamo imparato lo scorso weekend. Ma più importanti di tutto ciò sono gli “sghèi” e i conti in ordine. Perché nel partito l'austerity la si combatte in Europa ma la si è fatta in casa: 37 dipendenti tagliati, meno cinque milioni di euro di spese gestionali e quasi un altro mezzo milione sforbiciato alla macchina della propaganda. E di quest'ultimo taglio se ne sono accorti i militanti, ai raduni, alle feste, nelle sezioni. Se ne è accorto meno Luca Morisi che dal partito ha intascato la bellezza di 300mila euro l'anno scorso. Negli ambienti della Lega Nord lo definiscono lo spin doctor di Salvini. In realtà è l'uomo che gestisce i social network e la comunicazione del leader. Quei 300mila euro, a onor del vero, Luca Morisi sembra esserseli guadagnati proprio tutti, almeno a giudicare da come è riuscito a trasformare la pagina Facebook di Salvini in un'agenzia stampa a matrice leghista dove perfino i giornalisti attingono a piene mani a caccia di notizie, dichiarazioni al vetriolo, polemiche quotidiane. La Lega Nord combatte l'austerity ma ha dovuto farla in casa: 367 dipendenti tagliati, meno cinque milioni di spese gestionale e un altro mezzo milione alla macchina della propaganda. Ma Luca Morisi si è preso 300mila euro per gestire i social netwotk di Salvini. Ma ci sono altri “danè” che sono stati spesi in maniera folle, come quelli per le lotte tutte intestine al Veneto e alle “ingerenze milanesi”. Prima Salvini contro Tosi, poi Tosi contro Zaia. E che i soldi manchino lo abbiamo anche (ri)scoperto la scorsa settimana su un caso specifico: quello del ristoratore di Lodi che ha sparato e ucciso un rapinatore. Salvini prende, come da copione, le parti del ristoratore che, a suo dire, ha il diritto a difendersi anche con le armi. E annuncia assistenza legale nel processo che lo vedrà coinvolto. Con i soldi di chi? Della Lega? No di certo. Con quelli di regione Lombardia dove lo sprizzante leader però non ha alcun incarico, men che meno dentro l'avvocatura. Cosa ne pensi il Presidente Maroni di queste dichiarazioni, a oggi, non è dato saperlo. Fin qui solo per fermarsi ai freddi numeri. Ma la Lega Nord ha dovuto fare altri “compiti a casa” nel tentativo di fermare l'emorragia. C'è la sede storica di via Bellerio “congelata” per metà, durante l'inverno, per risparmiare sul riscaldamento e illuminazione. E per gli aficionados del partito e del movimento anche qualche batosta di quelle che si sentono: su tutte, la chiusura del giornale d'area La Padania e la cessione delle frequenze di Radio Padania. Chiuso il giornale la Padania, vendute le frequenze della radio, sede storica di via Bellerio “congelata” durante l'inverno. Berlusconi non caccia più i soldi e tutto il centro destra è orfano del “salvadanaio” vivente Silvio Berlusconi. La cura dimagrante della Lega Nord non finisce mai. La cura dimagrante non è servita a molto. Il rosso parla ancora di una cifra che oscilla fra i 3 e i 4 milioni di euro. I tempi bui per il finanziamento pubblico ai partiti non aiutano. I “chiacchierati” soldi di Putin che foraggiano l'alleata francese Marine Le Pen non arrivano. E tutto il centro destra è ormai orfano di un salvadanaio senza fondo che aveva nome Silvio Berlusconi. La soluzione però è a portata di mano. Da due anni il produttivo Nord succhia risorse agli scansafatiche del Sud. Parliamo proprio di “Noi con Salvini”, invenzione ibrida, a metà fra un partito (ma non ha uno statuto né un regolamento), un movimento e dei circoli di simpatizzanti, che ha spento a dicembre la sua seconda candelina. I soldi che al sud si raccolgono su base provinciale con tessere e donazioni non rimangono “a casa loro”. Ma vengono impacchettati e spediti ad Andrea Manzoni – ex presidente dell'assemblea dei soci per Radio Padania e che oggi funge da simil-tesoriere di “Noi con Salvini” – che a sua volta storna il tutto verso i conti correnti di via Bellerio. In pratica sono dei famigerati trasferimenti di danaro, solo che camminano nella direzione opposta rispetto a quella contro cui la Lega ha sbraitato per trent'anni. Ecco dunque spiegata l'insistenza nel voler esserci a Napoli, anche contro il parere di sindaco e prefettura. E va bene così ma in cambio di cosa? Di poco. O forse nulla. Almeno per il sud. Le tessere, a volte, nemmeno arrivano al sud ed è difficile credere che sia un'inefficienza di Poste Italiane o dei corrieri espressi. Qualche bandiera di rappresentanza a Pontida e in una sola occasione sono stati comprati e spediti materiali. Qualche decina di moduli per raccogliere le firme al sud per abolire la legge Merlin e reintrodurre in Italia le case chiuse. Mai un'interrogazione parlamentare su problemi veri del Mezzogiorno, come la Xylella negli uliveti pugliesi, ma anzi forse molta più attenzione al famigerato “olio tunisino” che starebbe invadendo l'Europa. Mai interventi sulle questioni della mobilità, dai Frecciarossa in meridione fino alla disastrata rete regionale che l'anno scorso ha provocato anche un terribile incidente letale. La soluzione? I soldi degli (ex) terroni servono a rimpinguare le casse del partito. Ok, ma in cambio di cosa? Di nulla. Le tessere nemmeno arrivano al sud e il meridione è per i leghisti terra sconosciuta. Il senatore Volpi ammise di aver visto Napoli una sola volta in vita sua, per un cenone di Capodanno. O, per restare alla politica politicante, la Lega Nord non pare aver aiutato nemmeno in fase di chiusura delle liste elettorali, spesso sguarnite oppure infarcite da riciclati ex democristiani ed ex missini che cercano un nuovo posto al sole dalla parti di Caserta, Catania, Pescara. Oppure interviene per fare polemica quando si montano dei casi mediatici: maggio di due anni fa per esempio. Un giornale pubblica una foto amatoriale di un pakistano che fa volantinaggio per “Noi con Salvini” fuori da un centro commerciale. Scandalo. Arrivano le telefonate da Roma, infuriate, proprio dalla segreteria del Senatore Volpi al cellulare di Mauro Gianni Giordano – imprenditore e coordinatore regionale di Noi Con Salvini in Puglia, il più votato in tutta la regione con 1053 preferenze, all'epoca alla sua prima esperienza politica nella vita, poi dimessosi in polemica con la Lega anche e proprio per l'atteggiamento del partito nei confronti degli stranieri. «Ci saranno provvedimenti contro di voi» gli viene detto al telefono. Poi viene fuori che il pakistano è regolare, residente in Italia da 10 anni e che l'azienda che lo ha assunto per fare volantinaggio (a chiunque paghi per questo servizio) ha tutto in regola: soldi, contratto, busta paga. Nemmeno la politica politicante paga: in Puglia la Lega e Forza Italia hanno imposto la Poli Bortone per ragioni di bottega. Non sapevano che nelle seconda provincia più popolosa era detestata da tutti per gli scandali del passato come quello immobiliare di via Brenta. Altre volte ancora la segreteria nazionale della Lega interviene a piedi uniti per imporre le alleanze ignorando del tutto i contesti locali. Sempre in Puglia viene imposta Adriana Poli Bortone come candidata Presidente di Regione. Mentre si decide di scaricare Ncd – perché Salvini, di fare patti sul territorio con chi a Roma tiene in piedi i governi di Letta prima e Renzi poi, non vuole nemmeno sentir parlare – ma si decide soprattutto di bruciare l'alleanza con i potentissimi CoR – i Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto. Perché? Conti da saldare nel centrodestra fra Silvio Berlusconi, Forza Italia e proprio l'ex governatore di regione. Si punta tutto sulla Poli Bortone che però non è affatto il cavallo vincente e nelle teste degli elettori ha lasciato ricordi che oscillano fra l'indifferenza e la rabbia. A seconda della latitudine pugliese che consideriamo lei suscita umori contrastanti: a Lecce il 90 per cento delle persone la vorrebbe veder sparire. Perché da sindaco ha messo un filobus che in pratica non esiste e soprattutto perché si è trovata coinvolta nello scandalo immobiliare di via Brenta, in quella che il gip dell'epoca, Ercole Aprile, definì nell'ordinanza di custodia “la più colossale truffa ordita ai danni dei cittadini leccesi”. E questi coinvolgimenti hanno pesato sulla lista di “Noi con Salvini” drenando voti nella seconda provincia più popolosa. Quando arrivi a Bari la cominciano a digerire mentre a Foggia se la ricordano soprattutto come ex ministro all'agricoltura più che come amministratore locale. A Taranto, intanto, ricadeva tutto sulle spalle di Marco Musolino. Se il nome vi dice qualcosa potrebbe essere che lo abbiate sentito nominare alla Domenica Sportiva o sulla Gazzetta, perché il 42enne carabiniere dell'Arma di Potenza ha collezionato 100 presenze in serie A come guardialinee. I napoletani puzzano, dice qualcuno, ma i soldi non hanno odore. Lo sanno bene dalle parti del Carroccio. Che cos'è dunque “Noi con Salvini”? Di certo non è una sorta di Lega Sud perché non ha classe dirigente, non ha amministratori locali, non ha mezzi e nemmeno soldi. E quei pochi che ha servono a rimpinguare le casse altrove per tirare a campare. Mentre si fanno insistenti le voci e mal di pancia dentro la Lega, di chi pensa che Salvini abbia trasformato il partito nel suo forziere personale per lanciarsi come leader di caratura nazionale e internazionale. Ma che alle sue, ingombranti, spalle cresca ben poco, esclusi i buchi di bilancio. Ecco quindi spiegato l'amore per il Mezzogiorno. Perché è bene ricordare che i napoletani puzzano – dice qualcuno – ma i soldi, come ben sappiamo, non hanno odore.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti
di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha
incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa
oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è
incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista
espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un
atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad
emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di
efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già
svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il
Parlamento abusivo rischia l'arresto.
Dopo la
bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime
leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”.
Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a
Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente,
approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da
accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento
stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in
generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità
o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi
soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo
il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad
accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale
Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo
annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data
ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento
illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle
situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno
sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose,
visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio,
il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione
quelli che fanno solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi,
sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro
per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la
tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante
altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per
altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le
classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce
personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo,
il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette
Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA……
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
"In Italia ci sono milioni di vittime della male giustizia". Silvio Berlusconi non poteva evitare di ricordarlo durante l’incontro con il club lombardo di Forza Silvio, riunito a Milano. "Siamo arrivati ad avere magistrati che con troppa leggerezza arrivano a togliere libertà a cittadini italiani - dice Berlusconi - e per questo nella riforma della giustizia che vogliamo realizzare dopo aver vinto le elezioni inseriremo anche l’istituto della cauzione, come accade in America, che sarà graduata a seconda delle possibilità economiche del singolo cittadino. In carcere si dovrebbe andare solo per reati di sangue". Sempre in tema di giustizia, il Cavaliere ha anticipato qualcosa dell’instant book che ha scritto in questi giorni e che verrà distribuito a tutti i club Forza Silvio d'Italia. "Nel libro - ha detto l’ex premier - spiego la magistratura con cui abbiamo a che fare. Che è incontrollata e incontrollabile. Non paga mai anche quando sbaglia. Sono impuniti, godono di un privilegio medioevale. Se ci sono 100 imputati in un processo di solito 50 sono giudicati colpevoli. Ma qual è il risultato se l'imputato è un giudice? la percentuale scende al 4-5%. Ci troviamo in una situazione molto lontana da quella di libertà in cui dovremmo vivere. Nessun italiano può essere sicuro, in queste condizioni dei propri diritti".
Cavaliere, criticare i giudici è reato! Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Il tribunale di sorveglianza di Milano ha diffidato Berlusconi, colpevole di avere criticato una decina di giorni fa la magistratura nel corso di una udienza (alla quale aveva partecipato come testimone) a Napoli. Diffidato vuol dire che se Berlusconi tornerà a criticare la magistratura, gli sarà sospeso il beneficio dei servizi sociali e finirà in cella. Tradotto in parole semplici, questa decisione della magistratura decreta che è proibito criticare la magistratura. O almeno che è proibito per chi ha subito una condanna. E che violare questa proibizione può costare anche l’arresto al capo dell’opposizione. Se Berlusconi non si atterrà alle disposizioni della dottoressa Crosti, diventerà il primo dirigente politico, nel dopoguerra, a finire in carcere per via di una sua opinione. Circostanza difficilmente compatibile con un regime di democrazia. Per quel che si è saputo, Berlusconi non ha obiettato nulla alla diffida, e la ha accolta. Probabilmente non poteva fare altrimenti per restare a piede libero. È probabile che anche il suo partito dovrà accettare l’intimidazione subita dalla magistratura e abbassare i toni, per evitare l’arresto del suo leader. In queste condizioni si svolgerà la battaglia sulla riforma della giustizia: con il partito storicamente più avverso alla magistratura costretto sulla difensiva e sostanzialmente sterilizzato. La vicenda Berlusconi-tribunale di Napoli è stata già raccontata molte volte nei giorni scorsi. Era successo che Berlusconi, di fronte a una domanda sui suoi rapporti con il finanziere Ponzellini, aveva detto alla giudice: «Non capisco che senso ha questa domanda». La giudice gli avea risposto con una buona dose di maleducazione: «Non c’è nessun bisogno che lei capisca». Una frase ingiuriosa anche nei confronti di un ”imputatello” di 20 anni, e tanto più inopportuna nei confronti di un signore di 78 anni, a prescindere dal suo ruolo e dal suo status. Berlusconi si era arrabbiato e aveva parlato di irresponsabilità di una «magistratura ormai fuori controllo!». Un giudizio polemico, che in parte è abbastanza incontestabile: qualcuno saprebbe dire chi controlla la magistratura?
Il Commento di Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Silvio Berlusconi, la sua colpa è dire troppe verità sugli errori dei pm. Certa magistratura costringerebbe a difendere Berlusconi anche se mancasse del tutto la voglia di farlo: perché la giustizia ad personam a cui lo sottopongono regolarmente smaschera un’acrimonia peraltro non necessaria, rivelatrice di una determinazione ostinata cui nessun giudice ormai osa sottrarsi. Berlusconi è un fortilizio conquistato, vinto, e ogni episodio che lo riguarda non ci parla solo dell’accanimento cui è sottoposto lui, che pure è Berlusconi: ci parla di ciò che riserverebbero a ciascuno di noi, che non siamo niente. Le notizie le avete viste: la prima è che la procura di Napoli, lunedì, deciderà eventuali iniziative legate alle frasi «contro la magistratura» pronunciate da Berlusconi nell’udienza dell’altro ieri: una decisione che in teoria potrebbe fargli revocare l’affidamento in prova e accompagnarlo direttamente in galera; la seconda notizia riguarda il calendario del processo d’Appello per il caso Ruby, altro record mondiale che oltretutto già apparteneva a Berlusconi: la sentenza è già prevista per il 18 luglio, il processo, cioè, si dovrebbe giocare in sole tre udienze e cioè 11 luglio (requisitoria dell’accusa) e poi 15/16 luglio (arringhe difensive) con sentenza appunto il 18, questo per rispettare un confine procedurale cui i magistrati tengono assai: le vacanze, le ferie, quella pausa tribunalizia che in altri paesi neppure esiste. Liquidiamo subito la prima faccenda, quella del presunto oltraggio alla corte durante il processo contro Walter Lavitola: una violazione obsoleta, depenalizzata e contestata, in passato, soprattutto agli imputati di terrorismo che alzavano il pugno chiuso. In pratica Berlusconi, dopo un’ora e mezza di interrogatorio in aula, ha detto così: «La magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena». E qui verrebbe voglia di osservare che è semplicemente la verità, che è «incontrollabile e irresponsabile» proprio tecnicamente, come previsto dalla Costituzione e come nessun referendum sulla responsabilità civile dei giudici è mai riuscito a scalfire. Ma andremmo a impelagarci in una disputa non necessaria: forse basterebbe chiedersi se esista ancora la libertà di opinione (e di critica) o se a essa sono sottratti i cittadini in giudicato, meglio: se a margine dell’oltraggio alla corte, appunto depenalizzato, sia stato reintrodotto il reato di lesa maestà. C’era da chiederselo anche nel marzo scorso, quando il pm Ilda Boccassini parlò di «oltraggio, vilipendio, disprezzo della corte» dopo che Berlusconi e Niccolò Ghedini si erano detti impegnati in Parlamento e impossibilitati a presenziare in udienza. Ora ci risiamo: la critica di Berlusconi (perché è una critica, ci pare) potrebbe avere ricaduta sull’affidamento ai servizi sociali che il tribunale di Milano ha concesso a Berlusconi dopo la condanna per frode fiscale: la specifica prescrizione di non diffamare la magistratura (ciò che dovrebbe valere per tutti) potrebbe riverberarsi sul beneficio ottenuto portando Berlusconi ai domiciliari o addirittura al carcere. Per che cosa? Qual è la differenza tra una diffamazione e una critica sgradita a chi semplicemente non c’è abituato? La differenza tra rispetto a sacralità? Le opinioni, in Italia, sono libere a seconda di chi le esprime? Ed eccoci al processo Ruby d’Appello e ai suoi record mondiali. Un processo d’Appello, cioè, cotto e mangiato in tre udienze: saremmo l’avanguardia d’Occidente, se fosse la norma. A Milano, del resto, sanno correre come lepri: la sentenza di primo grado del caso Mills (il primo caso Mills, quello che le toghe hanno voluto celebrare senza il Berlusconi scudato) è stata emessa il 17 febbraio 2010 e la sentenza d’Appello è stata fotocopiata l’8 febbraio 2011: la durata netta è stata di otto mesi (compreso il periodo estivo: i magistrati hanno 55 giorni di ferie l’anno) e quindi niente da dire, la giustizia anglosassone in confronto è tartarughesca. Lodevole anche l’impegno dei giudici nel render note le motivazioni della sentenza Mills entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse ancora più spedito. Sanno correre, a Milano. Il processo per frode fiscale, quello per cui Berlusconi è ai servizi sociali, ha addirittura accelerato: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione. Un primato imbattibile, ma restano da battere i record di specialità: e un Appello in tre udienze piazzerebbe Milano (e Berlusconi) ancora primi sul podio. Forse un Berlusconi in galera potrebbe addirittura facilitare le cose: ma che il tribunale di sorveglianza lo condanni per «oltraggio» pare improbabile: se fosse indagato come tale, le sue dichiarazioni rese nel processo di Napoli diverrebbero inutilizzabili, e a Berlusconi non dispiacerebbe. I giudici non gli farebbero mai questo favore.
Silvio Berlusconi, il precedente del pm che lo accusa, scrive ancora Filippo Facci. Noi, qui, non stiamo dicendo che «la magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena». Questo l’ha detto Silvio Berlusconi, non noi. E noi infatti ci limitiamo a raccontare una storia che ha due antefatti. Il primo, come noto, è che Berlusconi la settimana scorsa ha pronunciato la frase di cui sopra, suscitando la piccata reazione del pm napoletano Vincenzo Piscitelli: «Questo non lo posso accettare», ha detto in aula. Il pm Piscitelli oltretutto è uno dei tre magistrati che esamineranno il verbale di Berlusconi per decidere se trasmetterlo al Tribunale di Sorveglianza di Milano, che a sua volta potrà decidere se revocare l’affidamento ai servizi sociali concesso al leader di Forza Italia. Il secondo antefatto è che il pm Vincenzo Piscitelli fu co-protagonista di una delle vicende più clamorose degli Anni novanta in materia di ingiustizia: il caso di Vito Gamberale, noto manager che nel 1993 era amministratore delegato della Sip (poi Telecom) e che il 27 ottobre di quell’anno fu arrestato per concussione suscitando grande scalpore: nacquero movimenti d’opinione per la sua liberazione (parteciparono semplici cittadini e parlamentari di tutto l’arco costituzionale) e sul possibile «arbitrio» ai danni del manager ebbe a esprimersi anche l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: il 2 febbraio 1994, rivolto al Ministro Guardasigilli Giovanni Conso, scrisse una missiva carica di perplessità sull’operato dei magistrati napoletani con in calce una battuta scritta a mano: «Purtroppo, più che di giustizia, si ha la sensazione dell’arbitrio!!». Con due punti esclamativi. Vito Gamberale, il 18 luglio 1996, fu assolto con formula piena e gli venne riconosciuto uno dei più alti risarcimenti della storia giudiziaria italiana. La vicenda meritò diversi libri e tra questi ci fu il romanzo d’esordio di Chiara Gamberale - Una vita sottile, poi divenuto fiction della Rai - che raccontò l’anoressia vissuta dalla ragazza durante la carcerazione del padre. Bene, domanda: stiamo cercando di ricollegare la vicenda di Gamberale (e di Piscitelli) alla magistratura «incontrollata e incontrollabile» citata da Berlusconi? No. Noi no. Però è vero che il Guardasigilli Giovanni Conso nel 1994 promosse un’azione disciplinare contro Piscitelli, pm che condusse le prime indagini su Gamberale e che secondo il ministro era reo di «essere venuto meno ai propri doveri» e di aver compiuto «una grave violazione processuale» utilizzando un’intercettazione telefonica autorizzata per altro procedimento. L’azione disciplinare fu duplice: la prima degli ispettori del ministero della Giustizia, la seconda del Consiglio superiore della magistratura. E come andò a finire? Noi ci limitiamo doverosamente a segnalarlo: prima il Csm (ottobre 1994) e poi le sezioni unite civili della Corte di Cassazione (settembre 1995) sgombrarono il campo dalle accuse e dichiararono corretto il comportamento tenuto da Piscitelli. Se questo confermi - o smentisca - le tesi di Berlusconi sull’irresponsabilità della magistratura è valutazione che il lettore può fare da solo. Non mancano altri spunti di valutazione. Vincenzo Piscitelli, pm che ha giudicato «inaccettabile» l’uscita di Berlusconi, per la vicenda Gamberale ha anche sporto diverse cause: e le pure vinte. Ci limitiamo a citarne due. Una sentenza è stata emessa l’8 novembre 2003 dal giudice civile Paola Maria Gandolfi (Prima sezione) che ha ritenuto diffamatorio un articolo firmato da Lino Jannuzzi sulla prima pagina del Giornale del 29 novembre 1999: «Gamberale, l’innocente che non può non essere colpevole». Piscitelli ha ottenuto 25mila euro più 13mila e 500 di spese legali; la sentenza è stata pubblicata da Repubblica, Corriere della sera e Giornale il 12 gennaio successivo. Piscitelli ha poi ottenuto altri 25mila euro dal Giornale il 17 gennaio 2002, a seguito di un articolo di Antonio Socci sempre sulla vicenda Gamberale: 25mila euro di risarcimento più novemila di spese legali più la pubblicazione della sentenza con caratteri doppi del normale. E queste non sono certo le uniche querele o cause civili intentate dai magistrati del caso Gamberale, che pure è stato giudicato innocente e meritevole di risarcimento. Anzi, speriamo che questo articolo non allunghi la lista. Del resto noi non stiamo dicendo che «la magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena». Questo l’ha detto Silvio Berlusconi, non noi. Noi non l’abbiamo detto e non lo pensiamo. Nessuno lo pensa, in Italia.
E' normale, poi, che succeda questo.
TROPPI TESTIMONI INUTILI? PENA PIU' ALTA!
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
Intanto nelle more della disillusione che la giustizia funzioni. Milano, condanne pesanti per tre poliziotti: "Portavano via soldi e droga agli immigrati". La pena più pesante è a oltre 12 anni. Gli agenti, secondo l'accusa, avrebbero realizzato per oltre un anno una serie di blitz fuori dalle regole per portare via droga e denaro a immigrati e piccoli spacciatori, scrive “La Repubblica”. Tre agenti della Polfer di Lambrate, a Milano, sono stati condannati a pene fino a 12 anni e otto mesi di reclusione perché avrebbero messo in atto per oltre un anno una serie di blitz fuori dalle regole, portando via denaro e droga a immigrati e piccoli spacciatori. Lo ha deciso il gup milanese Gennaro Mastrangelo, che ha condannato i tre poliziotti a pene anche superiori rispetto a quelle chieste dalla Procura. Erano accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere, peculato e detenzione e spaccio di stupefacenti. In particolare Clodomiro Poletti è stato condannato a 12 anni e otto mesi, Ezio Orsini a 11 anni e cinque mesi e Gianluca D'Acunto a sei anni e sei mesi. La sentenza è stata emessa con rito abbreviato, dunque con lo sconto di un terzo della pena. Si tratta di provvedimenti più severi rispetto a quelli invocati dal pm Paolo Filippini, che aveva chiesto fino a 11 anni di reclusione. L'inchiesta era nata dalle denunce del legale di alcuni immigrati, l'avvocato Debora Piazza, e aveva portato la scorsa estate a diverse perquisizioni negli uffici della Polfer a Lambrate. Gli agenti Orsini e Poletti, fra le altre cose, secondo l'accusa avrebbero avuto a disposizione "illecitamente" oltre 144 chilogrammi di hashish "custoditi all'interno del locale posto nell'interscambio ferroviario di via Otto Cima, a Milano, di cui avevano l'esclusiva disponibilità". Droga che secondo l'imputazione era destinata "alla cessione a terzi". Ai poliziotti viene contestato, a vario titolo, anche di aver portato via altri stupefacenti per decine di chilogrammi, fra cui cocaina, tutti rubati durante i blitz. Si sarebbero appropriati anche di pistole, auto, denaro e gioielli. Lo scorso maggio, infine, avrebbero addirittura trattenuto due stranieri in una cella di sicurezza per ore, sempre senza verbalizzare alcunché. Da qui anche l'accusa di sequestro di persona. I due uomini sequestrati si sono costituti parti civili e hanno ottenuto provvisionali di risarcimento da 3mila euro ciascuno. Due immigrati hanno ottenuto risarcimenti da quantificare in sede civile. Provvisionale da 1.000 euro per il ministero dell'Interno, invece, in qualità di parte civile. "Nel processo non è emerso alcun segno di ravvedimento, alcun tentativo di risarcire le parti civili o le persone offese da parte degli imputati", ha scritto in una memoria l'avvocato Piazza. Il legale, che con le sue denunce ha fatto scattare le indagini, si è trovata "di fronte - ha scritto nella memoria - all'epilogo di un processo a cui mai avrebbe voluto partecipare, le cui risultanze colpiscono l'affidamento che tutti noi riponiamo nelle istituzioni poste a difesa di uno Stato democratico, i cui valori devono essere recuperati in fretta perché proprio su questa fiducia dette istituzioni poggiano". Gli imputati, si legge ancora nel documento, "agivano per pure logiche personali in totale disprezzo del nostro ordinamento, in danno dei soggetti socialmente più deboli forti della consapevolezza che per il loro ruolo istituzionale le vittime dei loro soprusi mai avrebbero denunciato l'accaduto". Anche questa inchiesta era finita nelle carte scontro fra il capo della Procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati, e l'aggiunto Alfredo Robledo. In questo caso, il motivo d'attrito fra i due magistrati non ha riguardato lo svolgimento delle indagini, quanto il personale scelto da Robledo per seguirle. Per indagare sui tre agenti il procuratore aggiunto si è servito del pool di investigatori a lui fidato. Bruti, invece, avrebbe voluto affidare le indagini a uomini della polizia, anche in nome di quella cortesia istituzionale secondo cui tocca a una forza dell'ordine scovare eventuali mele marce al suo interno. Significative, a questo proposito, le parole usate dal capo della Procura nella lettera inviata al Csm,il Consiglio superiore della magistratura, il 13 maggio scorso: "Robledo delega pressocché costantemente solo una struttura della guardia di finanza di Milano, la sezione tutela mercati", denuncia Bruti, accusando l'aggiunto di essere "entrato più volte in contrasto con la squadra mobile della polizia diretta da Alessandro Giuliano, il cui livello di professionalità è ben noto". E ancora, "le mie ripetute indicazioni orali al procuratore aggiunto Robledo sull'impiego della polizia giudiziaria sono state disattese", proprio perché "non utilizza l'alta professionalità della sezione di polizia giudiziaria presso la Procura", un vero e proprio "fiore all'occhiello" secondo Bruti.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA. PARE UNA BARZELLETTA.
SENTIAMO SILVIO BERLUSCONI.
Silvio Berlusconi: "Altro che bunga bunga, ecco quello che succedeva ad Arcore", scrive “Libero Quotidiano”. A pochi giorni dalla sentenza della Corte d'appello di Milano che giudicherà Silvio Berlusconi in secondo grado sul processo Ruby il Giornale ripropone ampi stralci del memoriale che il Cav ha usato per le dichiarazioni spontanee rese davanti ai giudici nell'ottobre 2012. L’ex presidente del Consiglio ribadisce di non aver mai avuto rapporti sessuali con Karima El Mahroug sostenendo che l’inchiesta è stata un’intrusione nella sua vita privata, che il bunga bunga era solo una battuta e di non aver mai fatto pressione sui funzionari della questura. Il testo integrale della dichiarazione spontanea resa al Tribunale di Milano è pubblicato sul sito di Forza Italia. Di seguito riportiamo alcuni passi.
Le cene di Arcore - "Le cene", puntualizza il Cav, "si svolgevano in una grande sala da pranzo, un grande tavolo accoglieva tutti gli ospiti insieme, io al centro della tavolata monopolizzavo la conversazione parlando di politica, di sport, di cinema, di televisione, di gossip e mi divertivo confezionando battute e cantando, a richiesta, le canzoni del mio repertorio giovanile e quelle scritte da me in collaborazione con Mariano Apicella. Dopo la cena alcune volte le mie ospiti organizzavano nel teatro della residenza degli spettacoli con musica e costumi, spettacoli che non avevano alcunché di volgare e scandaloso. E a proposito della dizione “Bunga Bunga” questa espressione nasce da una vecchia battuta che ho ripetuto più volte prima dei fatti contestati ed è stata riportata doviziosamente dalla stampa. Altre volte nella discoteca che era stata dei miei figli si ballava (io però non ho mai partecipato ad alcun ballo) ed accadeva quello che si può vedere in qualsiasi locale aperto al pubblico di ogni età. Posso quindi escludere con assoluta tranquillità che si siano mai svolte scene di tipo sessuale. Tutto tra l’altro avveniva alla presenza di camerieri, musicisti, personale di sicurezza, ospiti di una sola serata e, a volte, con l’intervento di miei figli, che venivano a salutarmi".
Ruby - "Voglio innanzitutto ricordare, nei limiti del possibile, come ho conosciuto Karima El Mahroug cioè Ruby.Qualche mese prima dei fatti accaduti il 27 maggio Ruby era intervenuta ad una cena presso la mia residenza in Arcore.Non ricordo con chi venne questa prima volta, forse con Lele Mora. In quell’occasione Ruby attirò su di sè l’interesse e l’attenzione di tutti i commensali raccontando la sua storia.Ci disse di essere di nazionalità egiziana, figlia di una famosa cantante anch’essa egiziana appartenente ad una importante famiglia imparentata col Presidente Moubarak. Ci fece vedere un video con questa cantante che effettivamente aveva qualche somiglianza con lei". Berlusconi ricorda che Ruby disse a lui e ai suoi ospiti "di essere stata buttata fuori casa dal padre che l’aveva anche picchiata, ci fece vedere una vasta cicatrice sulla testa procuratale dal padre con un getto di olio bollente, il tutto ci disse a causa della sua decisione di convertirsi alla religione cattolica. Ci narrò di molte sue tristi peripezie e infine ci raccontò di essere arrivata a Milano un mese prima e di essere stata ospitata da un’amica". "Questa era la storia che lei ci rappresentò piangendo e facendo commuovere molti tra i miei ospiti", continua Berlusconi. "Le offrii subito un aiuto economico per il suo sostentamento e per cercarsi una casa in locazione e le assicurai di poter contare sul mio interessamento e sul mio aiuto. Fece conoscenza con alcune delle mie ospiti ed in seguito intervenne con loro ad altre cene a casa mia".
Nipote di Mubarak - Berlusconi ribadisce che non aveva dubbi che fosse la nipote di Mubarak. "Nel corso del vertice Italo-Egiziano che si era tenuto otto giorni prima del 27 maggio cioè il 19 maggio 2010, a Villa Madama, durante il pranzo, terminata la parte ufficiale dei negoziati avevo chiesto notizie di questa Ruby allo stesso Presidente Moubarak raccontandogli di come l’avevo conosciuta e della sua storia convinto com’ero che fosse una sua parente.Alla mia domanda se conoscesse la madre di Ruby la risposta fu affermativa e mi disse che si trattava di una famosa cantante che effettivamente faceva parte della sua cerchia famigliare ma che non era a conoscenza del fatto che avesse una figlia messa fuori casa per problemi di religione. L’argomento “Ruby” occupò la conversazione, di fronte ai molti commensali, per diverso tempo. Moubarak mi assicurò alla fine che si sarebbe informato e che mi avrebbe fatto sapere. Rimasi quindi nel convincimento che Ruby potesse avere davvero un legame parentale con il Presidente egiziano".
L'età - "Desidero anche ricordare che tutti avevamo l’assoluto convincimento che Ruby fosse maggiorenne, sia perché lei aveva detto a tutti di avere 24 anni, sia per il suo modo di esprimersi proprio di una ragazza matura, sia per il suo aspetto fisico che non corrispondeva assolutamente a quello di una minorenne, sia perché mai avrei pensato che una minorenne potesse intraprendere una attività come quella che le avevo finanziato. Inutile dire che non ho avuto alcun tipo di rapporto intimo con lei e che, durante la sua permanenza alle cene, non vi sono mai stati accadimenti di natura men che lecita".
La telefonata in Questura - "Tornando alla notte del 27 maggio", chiarisce il Cav, "parlai con Nicole Minetti che già aveva saputo da un’amica di quanto stava accadendo a Ruby e che quindi confermò quanto dettomi poco prima dalla Loddo. Poiché mi era stato riferito che si trattava anche di un problema di identificazione, essendo la ragazza sprovvista di documenti, ritenni utile chiedere alla Minetti che aveva conosciuto bene Ruby da me di recarsi in Questura per agevolare tale identificazione. La decisione quindi di contattare la questura, come ho già ricordato, fu suggerita dall’on. Valentini prima e poi dal capo scorta Ettore Estorelli, il quale disse che avrebbe potuto assumere informazioni tramite un funzionario con cui si rapportava per i nostri spostamenti. Io non sapevo neppure chi fosse questo funzionario né che ruolo ricoprisse nella Questura di Milano, ma ero interessato a sapere se effettivamente vi fosse un problema per l’identificazione della ragazza. La telefonata con questo funzionario, il dottor Ostuni, fu estremamente breve. Mi limitai a chiedergli se poteva confermare o meno che vi fossero problemi per l’identificazione di una giovane di nome Ruby di cittadinanza egiziana, e gli dissi che mi risultava che questa giovane potesse avere rapporti di parentela con il presidente Moubarak. Dissi che per agevolare le operazioni di identificazione avevo chiesto al consigliere regionale Nicole Minetti che, ripeto, aveva personalmente conosciuto presso la mia residenza la stessa Ruby, di recarsi presso la Questura". "Qualche tempo dopo", continua Berlusconi, "Nicole Minetti, mi chiamò per mettermi al corrente della situazione in Questura. Mi raccontò che Ruby era stata identificata e che era risultata non essere egiziana bensì di nazionalità marocchina e per di più minorenne. La notizia mi lasciò di stucco e mi resi finalmente conto che Ruby aveva mentito e si era costruita una seconda diversa identità in sostituzione della sua condizione reale".
Niente sesso - "Voglio infine ribadire che i miei rapporti con le ospiti alle mie cene erano basati sulla simpatia, sul cameratismo, sull’amicizia e sul rispetto e che non c’è mai stata alcuna dazione di denaro per ottenere rapporti intimi. Devo anche affermare con forza che nessuna delle mie ospiti poteva essere classificata, per quanto a mia conoscenza, come “escort” come invece poi è accaduto sui media nazionali ed internazionali".
SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.
In occasione della prima udienza del processo d'appello per il caso Ruby, Franco Coppi, difensore di Silvio Berlusconi, ha commentato le pesanti esternazioni fatte dal suo assistito a Napoli, dove è stato sentito come teste al processo Lavitola. "Non l'ho sentito né prima né dopo, ma se ha fatto quelle dichiarazioni avrà avuto un motivo. Ed è stato sicuramente tirato per i capelli dal presidente, che poteva avere più garbo", ha concluso Coppi. A scatenare la furia dei magistrati è stata una frase del Cav pronunciata in Aula: "Magistratura incontrollabile. E impunita". Lo sfogo del Cav è arrivato dopo che la presidente della Corte aveva affermato: "Lei - rivolgendosi a Berlusconi - non deve capire il senso delle domande, deve rispondere". Terminata la testimonianza, Silvio ha parlato in Aula anche del ruolo dei giudici: "La magistratura è incontrollabile, irresponsabile e gode di immunità". L'esternazione del Cav arriva dopo una provocazione del giudice Giovanna Ceppaluni che gli aveva rivolto delle domande il Cav aveva chiesto spiegazioni in merito. La risposta del giudice però è stata piccata: "Lei non deve capire il senso delle domande". Il diverbio lo ha chiuso il magistrato affermando che "la magistratura è ancora tutelata dal codice penale".
Ruby: "Berlusconi condannato per nulla". La giovane: "Se mi avesse dato 5 milioni non dovrei chiedere soldi ai suoceri per fare la spesa", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Lei non ci verrà, al processo che porta il suo nome, anche perché stavolta non l'hanno nemmeno invitata come «parte offesa». Parte stamattina 20 giugno 2014 il processo d'appello a Silvio Berlusconi, e per tutto il mondo è il «processo Ruby».
«Un soprannome che mi sono inventata quando avevo nove anni, e che adesso mi pesa. Vorrei liberarmene, vorrei tornare a essere Kharima, voglio essere la ragazza che vendeva tappeti in spiaggia a Catania. Ma non mi viene permesso, vengo massacrata in continuazione. So che il vero bersaglio non sono io ma è Berlusconi. Ma lui è maggiorenne e vaccinato, io invece devo pensare a difendere me stessa e mia figlia. E mi domando: quanto deve durare questo massacro?».
Converrà, signora el Mahroug, che una mano a questo putiferio lo ha dato anche lei. Nelle sue intercettazioni diceva di avere avuto rapporti con Berlusconi, «l'altra è la pupilla e io il c...». E ai pm quando l'hanno interrogata ha descritto le sere di Arcore in modo abbastanza colorito.
«Avevo diciassette anni, ero totalmente allo sbando, e in quelle telefonate mi attaccavo ad amiche che poi amiche non erano, e mi inventavo cazzate per darmi arie. Errori di gioventù che non credo di dover pagare in eterno. Il problema vero è quello che è successo dopo, quando sono arrivati i pm a interrogarmi, e ho capito subito che di me non gli interessava assolutamente niente, volevano solo e a tutti i costi questo signor Berlusconi, e io gli ho dato quello che volevano. Sono stata anche pittoresca, certo. Faccio mea culpa, va bene? Ma da qui a prendere per oro colato le parole di una ragazzina di diciassette anni scappata di casa ce ne corre».
E allora qual è la verità? Quella dei verbali, delle intercettazioni, degli interrogatori in aula?
«La verità è che Berlusconi mi ha rispettato più di tutti gli uomini che ho incontrato nella mia vita precedente nei locali e nelle discoteche. Gli hanno dato sette anni per nulla».
Per avere sostenuto questa versione durante il processo di primo grado, lei è stata incriminata per falsa testimonianza e oggi è sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari. I giudici dicono che Berlusconi ha comprato il suo silenzio.
«Io di essere sotto inchiesta l'ho saputo solo dai giornali, perché nessuno mi ha detto niente. È dall'inizio di questa storia che leggo tutto sui giornali. Sono sotto inchiesta? Bene. Io sono tranquilla, perché se Berlusconi mi avesse dato i cinque milioni di cui parlavo nelle intercettazioni, non sarei ridotta adesso a chiedere ai miei suoceri i soldi per fare la spesa. Invece quando cerco lavoro, anche come commessa, trovo solo porte chiuse perché la gente pensa "ma come, questa ha cinque milioni di euro e vuole lavorare, chissà cosa c'è sotto". Adesso forse ho trovato un posto in un ristorante a Milano. Se va male anche lì, andrò dalla Boccassini a chiederle di prendermi come donna delle pulizie».
Ilda Boccassini non è stata tenera con lei, nella sua requisitoria. L'ha accusata di «furbizia orientale».
«Io l'ho incontrata per la prima volta in aula, al processo, quando dovevano interrogarmi e poi non mi hanno interrogata. Poi ho letto quella frase e mi ha lasciata di sasso. Diciamo che non mi è sembrata per niente garbata né nei miei confronti né delle donne orientali. Mi è sembrata una frase razzista. E soprattutto mi ha lasciata incredula che una persona del livello della Boccassini non sapesse che il Marocco non è in Oriente. Magari adesso faccio una colletta e le regalo un atlante o un mappamondo».
Io sarei più cauto.
«Io sono stanca. Sono finita dentro una macchina da guerra, davanti a gente che non voleva sapere la verità ma solo perseguire un obiettivo, l'interesse non era per me ma per una persona che aveva un ruolo infinitamente più grande. Quando sono entrata in aula e ho letto scritto sul muro che la legge è uguale per tutti mi è venuto da ridere, perché in questi quattro anni ho potuto toccare con mano come per colpire una persona abbiano rovinato la vita e la psiche di una ragazza di diciassette anni. Grazie a loro sono stata coperta di spazzatura mediatica, ho dovuto cambiare città, a volte faccio ancora fatica a girare per strada. Mi sento trattata come un killer mentre i veri killer sono a piede libero».
Le guerre che il Csm non vede. Della guerra Robledo-Bruti Liberati e del correntismo interno al Consiglio superiore, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Da alcuni mesi anche i lettori meno attenti si sono accorti che alla Procura di Milano è in corso un violentissimo scontro tra il capo, Edmondo Bruti Liberati, e uno dei suoi più stretti collaboratori, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo. Detta in breve: i due si sono scambiati accuse gravissime sulla conduzione delle inchieste (non si parla di fascicoletti sull’abigeato, ma dell’Expo o del Mose), sull’assegnazione delle indagini, sugli atti da compiere. Una guerra che, in qualsiasi altro ufficio pubblico o privato, si sarebbe risolta con l’avvicendamento di uno dei due o con una precisa direttiva su chi deve fare che cosa e con l’indicazione tassativa sui confini entro i quali ognuno avrebbe dovuto muoversi. L’organo che avrebbe dovuto dirimere la vicenda è il Consiglio superiore della magistratura. Il quale ha indagato, audito, approfondito, dibattuto, valutato. Stava anche per decidere chi aveva torto e chi ragione, fatto più unico che raro, quando a poche ore dal voto è stata recapitata a palazzo una «lettera riservata» del presidente della Repubblica. Che ha avuto effetti dirompenti perché capace di far battere in ritirata chi aveva già messo nero su bianco le sue conclusioni a sfavore del procuratore. Un fatto inaudito. Il Csm ha così deciso di non decidere (un classico) e i due litiganti sono tornati immediatamente a farsi la guerra, dandosele di santa ragione. Badate bene: non parliamo di dispettucci tra colleghi, ma di comportamenti legati a delicatissime inchieste giudiziarie; al punto che uno degli indagati, stufo della manfrina tra capo e aggiunto, s’è messo a fare lo sciopero delle dichiarazioni. Così il procuratore generale di Milano è tornato a rivolgersi al Csm (e campa cavallo) per censurare il comportamento del procuratore. Il vicepresidente del Csm, quello che aveva ricevuto la «lettera riservata» di Giorgio Napolitano, ha commentato «il caso Milano per noi è chiuso» e forse mentre lo diceva si riferiva agli occhi che il Csm ha pilatescamente chiuso confezionando questo bel capolavoro. Insomma, una telenovela della peggior specie. Luciano Violante, che sa perfettamente di che cosa parla, oramai lo ripete fino alla noia: «Le correnti della magistratura sono diventate luoghi in cui si costruiscono carriere. I componenti del Csm vengono da queste correnti e anche il personale amministrativo, dai segretari alle altre figure professionali, viene selezionato dalle correnti e questo fa venire meno la neutralità del Csm». Ora mi rivolgo a voi, gentili ministro della Giustizia e presidente del Consiglio: che bisogno c’era, dopo 4 mesi dall’insediamento del governo, di perdere tempo con le 12 linee guida sulla riforma della giustizia e buttare la palla avanti almeno fino a settembre? La verità è che ci voleva e ci vuole coraggio per sfidare i niet che arrivano dallo strapotere dei magistrati e condizionano lo sviluppo del Paese. Chiedo troppo, lo so. Continuate pure a fare melina.
Expo, il memoriale di Frigerio: "Vi racconto gli affari della sinistra", scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Dalla sua cella nel carcere di Opera (Milano) Gianstefano Frigerio, 74 anni e quasi cieco, continua la sua battaglia contro la carcerazione preventiva nell’ambito dell’inchiesta sull’Expo. E in un memoriale in due parti, lungo 20 pagine, inviato al procuratore meneghino Edmondo Bruti Liberati, lancia accuse pesantissime alla sinistra e alle cooperative rosse e invia messaggi sibillini al Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Il linguaggio è felpato, allusivo, ma la sostanza è urticante come un cespuglio di ortiche. In apertura il detenuto - accusato di associazione per delinquere con finalità di turbativa d’asta - si rivolge all’«illustre procuratore» e si affida alla «sua alta funzione di garanzia». Quindi l’ex notabile lombardo della Dc gli chiede «umilmente la grazia» per lui «vitale» di essere interrogato. Ai convenevoli seguono le prime bordate che lasciano intravedere lo spirito combattivo di questo ex parlamentare democristiano. Frigerio non ha digerito la perquisizione inflitta al figlio: «C’è forse da aspettarsi in futuro una pioggia di avvisi di garanzia su tutti i fruitori di protezioni familistiche? Sto pensando alle generose consulenze di Finmeccanica, Ferrovie, Eni a favore dei figli dei vertici del Paese». Qui il riferimento neppure tanto velato è agli eredi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma non solo a loro. «Sto pensando a molti rampolli dell’alta burocrazia o forze dell’ordine o magistratura che hanno trovato un futuro nelle grandi banche o nelle grandi istituzioni finanziarie». A fianco alla parola «magistratura» si intravede, cancellato, l’aggettivo «milanese». I riferimenti a Napolitano ritornano quando elenca gli argomenti dei suoi colloqui con l’imprenditore piddino Primo Greganti, altro componente della presunta «cupola dei tre vecchietti al bar» degli appalti per Expo 2015 (il terzo membro è l’ex senatore Luigi Grillo). «Con Greganti io parlavo solo di politica; del presente di cui era molto scontento (la linea di Renzi gli era indigesta) (…) e soprattutto del passato con grande nostalgia. Emergevano allora i ricordi dei miei rapporti molto solidi e duraturi con Gianni Cervetti (uno dei leader, assieme a Napolitano dei miglioristi)». Quei miglioristi del Partito comunista che ai tempi di Tangentopoli finirono nel mirino dei pm milanesi. «Con Greganti parlavamo spesso delle paure dentro il Pci di un colpo di Stato, dei finanziamenti da Mosca, dei rapporti con gli altri Paesi comunisti, delle tensioni dei miglioristi (in particolare Napolitano) con Berlinguer, della vicinanza dei miglioristi a Craxi (giunta Tognoli) e dopo le elezioni dell’’83 con Berlusconi». Manda bigliettini Frigerio, molto in alto. Fa intendere, allude. Quasi a dire: Enrico Berlinguer, il santino della sinistra e dei grillini, era molto diverso da Napolitano, re Giorgio era più in sintonia con Silvio Berlusconi. E Greganti, il compagno G. delle tangenti rosse, l’uomo del conto Gabbietta, ora in carcere per l’Expo? «Mantiene tuttora forti collegamenti col mondo delle coop, coi leader del vecchio Pci (Fassino, D’Alema, Bersani, Moretti ecc.) e coi giovani turchi (Barca, Orlando, Fassina ecc.) e con numerose realtà internazionali (Cuba, Cina, Vietnam)». Sorpresa: l’”uomo nero” della sinistra avrebbe tuttora legami stretti con tre ex segretari di Pds-Ds-Pd, con l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti, con l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina, con l’ex ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca e con il Guardasigilli Andrea Orlando. Ovviamente sono tutte affermazioni senza riscontri o rilievi penali, ma potenzialmente di grande valenza politica. Frigerio entra anche nel merito delle accuse a lui rivolte e in particolare al presunto interesse della “cupola” a mantenere al suo posto Giuseppe Nucci, l’ex ad della Sogin. Nucci doveva “turbare” la gara europea per la centrale di Saluggia (Vercelli)? Ecco la perfida chiosa: «Il responsabile unico della procedura era l’ingegner Cittadini (collaboratore strettissimo e fidato di Nucci), molto legato a Bersani» e nonostante Grillo abbia presentato Nucci a Gianni Letta, Bersani e ad altri politici, alla fine Enrico Letta alla Sogin «nominò il suo amico Casale». Frigerio scrive anche che il grande progetto della Città della salute non era sponsorizzato solo dall’ex governatore lombardo Roberto Formigoni: «Tutta l’elìte politica milanese, a cominciare dal sindaco (Giuliano Pisapia ndr) era favorevole a collocare la città della salute sull’area del Cerba del professor Umberto Veronesi, favorendo anche Mediobanca e Ligresti». Nel memoriale del “vecchietto” terribile c’è spazio pure per Angelo Paris, il manager Expo finito agli arresti domiciliari, che Frigerio sostiene di aver messo in contatto con «il fratello dell’autorevolissimo segretario generale del Quirinale». «Paris era convinto che si stesse saldando un legame del tutto privilegiato tra Sala e il Pd: questo mi fu ampiamente confermato da Greganti. Del resto nel mondo politico di sinistra prendeva sempre più forza la candidatura di Sala a sindaco (di Milano ndr)». Per Frigerio tutte le gare per l’Expo hanno visto «una semplificazione delle procedure», «un’ansiosa corsa contro il tempo», con «ben 4 direttive in tal senso dal governo Letta-Lupi e Renzi-Lupi». La conseguenza? «Una giungla di fantasiose procedure anomale con tutti i poteri decisionali nella mani di Giuseppe Sala (l’ad di Expo spa, ndr)». Ma la “deregulation” dei governi di sinistra avrebbe avuto «un altro risultato riassuntivo evidente». Quale? «Il trionfo delle coop rosse». Che si sarebbero spartite la torta con il mondo vicino a Comunione e Liberazione: «In queste grandi opere si era realizzata una saldatura profonda tra le coop rosse e le imprese della Compagnia delle opere». Per Frigerio «solo la gara per la piastra (la più contestata dai pm ndr) era coerente con le normative europee». Alla fine il detenuto invia un messaggio in bottiglia alla procura e le ricorda che nel 2010 il ministro Giulio Tremonti aveva mandato gli ispettori in Lombardia a studiare «i sovracosti per l’Erario dei project financing» per le grandi opere. Al termine dell’ispezione «Tremonti mandò i fascicoli dell’indagine ministeriale in procura. (…) Come mai ora è calato l’oblio e tutti soffrono di vistosi vuoti di memoria?». Quesito interessante a cui qualcuno, forse, dovrà dare una risposta. Insieme con i saluti, Frigerio chiede a Bruti Liberati di «segretare integralmente» il contenuto della suo j’accuse «per evitare gli slogan roboanti e ad effetto dei media reali e virtuali». La Procura ha preferito non farlo.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
LEGHISTI: RAZZISTI ED OMOSESSUALI.
LEGA NORD/ Meridionali, stranieri e omosessuali: fuori dai coglioni! Siam leghisti, siam razzisti, scrive Carmine Gazzanni su “L’Infiltrato”. La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni… Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni. “E noi vogliamo far decidere il futuro nostro, del Paese e dei nostri figli a chi fino a cinque anni fa era nella giungla a parlare con Tarzan e Cita?” Terroni di merda!. Calderoli, Borghezio e simili raccontano, a furor di popolo, ciò che il leghista medio vorrebbe sentirsi dire…Infatti molte dichiarazioni e provocazioni di esponenti (molto spesso di punta) della Lega rivelano tratti xenofobi ed anche omofobi. Basti ricordare alcuni episodi emblematici. Ad iniziare, ad esempio, da Roberto Calderoli, Ministro della Repubblica Italiana. Anni fa il Ministro leghista – il 14 settembre 2007 – partecipò allo sciopero della pasta e propose di mangiare solo maiale per indispettire i musulmani che praticavano il ramadan e inoltre di mettere a disposizione lui stesso e il suo maiale per una passeggiata a Bologna nel territorio destinato alla costruzione di una moschea proprio come aveva fatto a Lodi, e, a tal proposito, ricordò: “Il terreno dopo la passeggiata del mio maiale fu considerato infetto e pertanto non più utilizzabile per la moschea!”. Ma non è finita qui: lanciò anche la proposta di un vero e proprio “Maiale Day” con tanto di mostre e ”concorsi e mostre per i maiali da passeggiata più belli”, per evitare la costruzione di moschee. Ma d’altronde il suo odio (perché di odio si tratta) verso il “diverso” si manifestò già un anno prima: il 18 settembre 2006, durante un comizio, chiese ad una platea esalatata: “E noi vogliamo far decidere il futuro nostro, del Paese e dei nostri figli a chi fino a cinque anni fa era nella giungla a parlare con Tarzan e Cita?” Ma Calderoli si è distinto anche per le esternazioni contro i gay: “La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni… Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”. Ed ancora, quando incombeva la “minaccia” dei Di.Co.: “Se non si fosse ancora capito essere culattoni è un peccato capitale e chi vota una legge a favore dei Di.Co. finirà nelle fiamme del più profondo dell´Inferno”. Cambiamo politico, ma il registro non cambia. Mario Borghezio non solo con parole, ma anche con azioni ha dimostrato il suo essere razzista: l’europarlamentare, infatti, è un pregiudicato, essendo stato condannato in via definitiva per incendio aggravato da “finalità di discriminazione”, per aver dato fuoco ai pagliericci di alcuni immigrati che dormivano sotto un ponte di Torino, a 2 mesi e 20 giorni di reclusione commutati in 3.040 euro di multa. Ma anche con dichiarazioni ha palesato la sua indole da ventennio: “Pensate se i nostri nonni avrebbero raccontato che noi ci facciamo togliere i canti natalizi da una banda di cornuti islamici di merda, detto con il massimo rispetto per gli imam, con tutte queste palandrane del cazzo, che circolano liberamente, che organizzano terrorismo e attività sovversive che nessuno controllava in questo paese di Pulcinella, con prefetti che guadagnavano dieci milioni al mese e non facevano un meritato cazzo”. E ancora. “Gli enti locali non continuino a finanziare una manifestazione alla quale in maggioranza partecipano atleti africani o comunque extracomunitari in mutande”. Questo si domandò Pietro Giovannoni, leghista e presidente del Consiglio comunale di Vigonza, in merito alla maratona che si organizza ogni anno a Padova: a che serve fare una maratona – si chiese – se poi tutti gli anni la vincono extracomunitari e in particolar modo Africani? Negli ultimi anni, infatti, il predominio del “continente nero” nella competizione non è stata digerito di buon grado dal Carroccio. L’ultima manifestazione (25 aprile 2010), ad esempio, ha visto salire sul podio più alto, tra gli uomini, Gilbert Chepkwoni, mentre tra le donne si è imposta Rael Kiyara. Entrambi keniani. Ed allora ecco l’assurda proposta del leghista: niente più finanziamenti se poi a vincere sono “africani o comunque extracomunitari in mutande”. E’ evidente: la proposta è alquanto assurda. Ma, anche qui, nulla di cui sorprendersi. Pietro Giovannoni, uno degli uomini di punta della Lega Nord veneta, non è nuovo a queste dichiarazioni e provocazioni. Tempo fa, ad esempio, dichiarò che “I gay sono culattoni”; in occasione della discussione della mozione contro l’omofobia, invece, parlò – ancora una volta – di “culattoni e lesbiche“. Giustificandosi poi per l’uso del termine ingiurioso con il fatto che “in Veneto si dice così“. È indubbio, allora, che la Lega abbia avuto un ruolo determinante nel rendere l’Italia un Paese razzista. Checché se ne dica, infatti, oggi noi viviamo in un Paese dai tratti fortemente razzisti. E non siamo noi a dirlo. Un vasto rapporto (2009) dell’Agenzia dei Diritti Fondamentali dell’UE dimostra che il razzismo e la discriminazione sono il pane quotidiano dei Paesi membri dell’Unione Europea, ma le vittime molto spesso nemmeno sporgono denuncia, per paura o perché non credono di poter essere aiutate dalle autorità. Lo studio, realizzato nei 27 paesi della UE, si basa su 23500 interviste a persone appartenenti a minoranze etniche e ad immigrati. E indovinate chi troviamo in testa a questa speciale classifica? Proprio la nostra bella e cara Italia: ben il 94% degli intervistati dice di essere stato vittima di discriminazioni.
Se il gay non Lega. Il celodurismo del Carroccio? È solo apparenza, scrive Silvia Zingaropoli su “Lettera 43”. In pochi ricorderanno Los Padania. Tanti faranno finta di non averli mai sentiti nominare. Altri ancora azzarderanno le ipotesi più bizzarre. Un gruppo musicale latinoamericano? I cugini dei Los Lobos? Un’esotica marca di biscotti? Niente di tutto questo. Los Padania, dove “Los” stava per Libero Orientamento Sessuale, era il nome di un’associazione nata nel 1997 volta a rappresentare la “minoranza” omosessuale dell’elettorato leghista, al tempo riconosciuta a pieno titolo dalla dirigenza bossiana come un’appendice del Carroccio. Chi ha la memoria un po’ più lunga rammenterà anche che un ministro ombra dell’allora governo padano, intervenne a un loro convegno dicendosi addirittura favorevole ai matrimoni gay. Bene. Sapete che fine fecero i Los Padania? Kaputt. Cancellati dalla memoria collettiva. Sciolti, rimossi, evaporati nei meandri della storia. Oggi, a circa dieci anni dalla loro scomparsa prematura, ben poco è rimasto nella Lega Nord dell’atmosfera laica di un tempo. Tutto scorre, a volte anche il giudizio. Dall’ufficio stampa dell’Arcigay tengono a ricordare anche il Mos, movimento omosessuale leghista, perso durante «il percorso involutivo» del Carroccio. Paola Concia, onorevole Pd, denuncia a Lettera43.it una vera e propria «battaglia ideologica leghista contro stranieri e omosessuali». Non c’è dubbio, l’inversione di rotta è assodata. Ma quando avvenne il fattaccio? Ovvero, quando la dirigenza del Carroccio decise di cambiare linea? Da una breve ricerca negli archivi di stampa, “la svolta anti-gay” di Bossi risale al lontano 1999, giorno in cui dal sito web della Lega scomparve il sottosito del già citato movimento omosessuale padano. Sui motivi di tale repentino passo indietro, solo congetture. Un modo per intercettare il voto cattolico, la teoria più accreditata. «Penso che ci possano essere gay leghisti, ma la Lega è un movimento popolare ed è dunque vicina ai problemi della famiglia e dei figli» disse un giorno un insolitamente pacato Senatùr, all’alba della sua svolta “celodurista”. Tradotta, la dichiarazione di Bossi suona più o meno così: «il voto dei gay me lo prendo, ma non facciamo troppa pubblicità». Ben più diretto, il suo colonnello, l’incontenibile Roberto Calderoli che, interrogato sul tema, proclamò lapidario: «A Bergamo i gay li chiamiamo culattoni». Che duro colpo devono esser state per lui le parole di Franco Grillini che, incurante di qualsiasi reazione a catena, anni fa dichiarò spudoratamente “sospetto” il fanatismo omofobo del ministro. Illazioni prontamente smentite dalla sua dolce metà, Sabina Negri che, incalzata dal sapiente Sabelli Fioretti, negò risolutamente qualsiasi impudica supposizione. Ripercorrendo l’evoluzione delle dichiarazioni leghiste sul tema “omosessualità verde-Carroccio”, troviamo un Luca Zaia che si indigna per i «troppi gay in Rai», una Carolina Lussana che spera di non avere «un figlio omosessuale», un Matteo Salvini che, ripercorrendo le orme del proprio leader, ammette che «ci possono essere gay leghisti, ma noi siamo per la famiglia». Nel corso della ricerca di Lettera43.it, è emerso persino un inedito Mario Borghezio che ai microfoni di Klauscondicio proclama, quasi si trattasse di un suo placido alter ego, che «l’Italia è pronta per un presidente del Consiglio gay», riferendosi all’ipotesi Vendola-premier. E qui è d’obbligo una pausa di riflessione. Le ultime due affermazioni, quelle di Salvini e Borghezio, non fanno testo. O meglio, vanno interpretate. Ricordiamo infatti che i due europarlamentari (autori di boutades insostenibili anche per il più estremista dei leghisti), sono stati confinati a scontare la loro pena in quel di Strasburgo. Ci permettiamo quindi di tradurre le loro composte prese di posizione con un: «ci siamo moderati, ora per favore fateci tornare in Italia che in Europa non ce la facciamo più». Ma questa è solo una possibile chiave di lettura. Qualcosa però dice che il famoso “celodurismo” leghista, virile vessillo dell’esercito padano, sia a rischio estinzione. Ma cosa significa esattamente il “celodurismo”? Il vocabolario recita: dicesi “celodurismo” un «astratto formato mediante univerbizzazione dall'espressione ce l'ho duro, utilizzata a partire dagli anni '90 dal leader della Lega Nord, Umberto Bossi, per indicare, con un lessico gergale, una pretesa specificità "virile" del suo partito». Una pretesa specificità virile. Questa la definizione aggiornata di un modo d’essere, quello leghista. A questo punto è d’obbligo interpellare uno dei diretti interessati. Peschiamo tra gli elettori. Ardua impresa. Seppur numerosi (in molti sono pronti a giurarlo) i leghisti gay, in ossequio alla “linea di partito”, non amano uscire allo scoperto. Lettera43.it ha deciso quindi di fare un giro su Facebook. Digitiamo il termine «Leghista» and «Gay». Tentativo fallito: l’unica pagina disponibile è quella del gruppo «Meglio gay che leghista». Un tantino fuori strada. Riproviamo. «Meglio la fine del mondo nel 2012 che un premier leghista nel 2013. Di male in peggio. Ricorda tanto quell’uscita di Italo Bocchino, «meglio un premier gay che leghista», ma quella è un’altra storia. Tentativo dopo tentativo, alla fine riusciamo a trovare chi fa al caso nostro. È M.C., vicentino, 27 anni, leghista, omosessuale, disposto a raccontare la sua esperienza ma mantenendo l'anonimato. «Non è per niente facile la vita del gay leghista» esordisce sorridendo. «Non sono l’unico, questo è certo. Conosco tanti leghisti omosessuali, anche impegnati politicamente, che passano la loro vita ad ostentare quel che non sono». Ma allora perché hai scelto la Lega? Gli chiede Lettera43, «Perché mi sento leghista dentro. Ma se facessi outing non me la perdonerebbero mai». Punto e basta. A volte fingere aiuta a vivere. Meglio o peggio, questo dipende dai punti di vista.
Lega Nord, Giovani padani vs Buonanno: “Inaccettabili le sue dichiarazioni sui gay”, scrive Alessandro Madron su “Il Fatto Quotidiano”. L'europarlamentare e sindaco del Carroccio su Radio24 ha attaccato gli omosessuali e proposto una loro "schedatura". I leghisti con un comunicato chiedono provvedimenti disciplinari: "Cerca solo visibilità personale". Gianluca Buonanno, europarlamentare e sindaco leghista dalla sparata facile, è di nuovo finito nell’occhio del ciclone. Questa volta a tirargli le orecchie non sono i benpensanti di sinistra o la nomenklatura comunista. Contro il "Pierino" del Carroccio è arrivata la condanna dei Giovani Padani, proprio da quelli che un po’ per età e un po’ per spirito goliardico dovrebbero maggiormente apprezzare le uscite politicamente scorrette di cui Buonanno è particolarmente prodigo. I coordinatori provinciali del Mgp (di Milano, Como, Monza e Brianza, Varese, Pavia, Lecco, Crema, Cremona, Martesana, Ticino e Lodi) hanno firmato un duro comunicato, chiedendo al partito di prendere provvedimenti contro il politico piemontese, colpevole, secondo i giovani leghisti, di aver passato il segno nel campo degli insulti. “Dichiarazioni inaccettabili – hanno detto -. Ora si prendano provvedimenti disciplinari”. Le parole oggetto di contestazione sono quelle che Buonanno ha rivolto agli omosessuali in un’intervista a La Zanzara su Radio 24: ha proposto di procedere alla “schedatura” per poterli “sottoporre a un trattamento sanitario obbligatorio” e poi di offrire agli stessi “una banana e un finocchio”. “Riteniamo inaccettabili le parole di Gianluca Buonanno – dichiarano i rappresentanti dei giovani Padani – e ne prendiamo nettamente le distanze in quanto non hanno nulla a che fare con la linea politica della Lega Nord e il pensiero dei Giovani Padani. L’orientamento sessuale di una persona non deve assolutamente rappresentare una discriminante per chi, come noi, ha come fine l’indipendenza della Lombardia, che rappresenta l’unico modo per ridare speranza e un futuro a tutti i cittadini Lombardi”. E, ancora: “Buonanno non è nuovo a sparate di questo tipo fatte unicamente per avere visibilità personale. Auspichiamo pertanto che la Segreteria federale prenda immediatamente provvedimenti disciplinari al fine di tutelare l’immagine della Lega Nord e dei suoi militanti”. Poi concludono: “Siamo stanchi di chi, utilizzando il proprio ruolo istituzionale, rilascia dichiarazioni che ledono il movimento e ne screditano le proposte concrete”. Povero Buonanno, viene da dire, non è certo il primo leghista a fare dichiarazioni sopra le righe. Nel tempo siamo stati abituati alle dichiarazioni dei Bossi, dei Borghezio e dei Calderoli contro questa o quella minoranza. Perché tutto questo astio nei confronti di Buonanno? “Prendiamo posizione – puntualizza Federico Martegani (Mgp Varese) – perché nessuno ha mai osato parlare di Tso. L’indipendenza della Lombardia la si raggiunge con i cittadini Lombardi senza differenze di sesso, religione e colore della pelle”. Una posizione, quella del Mgp, che non è da sottovalutare, il movimento dei giovani leghisti interpreta spesso in modo radicale il pensiero della segreteria federale, mettendo in luce gli umori e le inclinazioni: “L’Italia è un Paese marcio – continua Martegani – dove non puoi nemmeno fare un referendum per liberalizzare la prostituzione, come pensiamo di arrivare a parlare di diritti alle coppie omosessuali? Prima l’Italia affonda e meglio è per la Lombardia e per chi in Lombardia ama, vive, sogna, lavora e paga le tasse”. Buonanno è avvisato: la Lega vuole tornare a battere sul chiodo dell’indipendenza e i suoi gli chiedono di riporre “banane e finocchi” e tornare a “lavorare per il Nord”. L'ultima bomba, tra le tante sganciate ancora una volta con uno dei suoi libri, Luigi Bisignani se l'è tenuta per il giorno successivo l'uscita de "I potenti ai tempi di Renzi", parlando in diretta a "Un giorno da pecora" su Radio2, scrive “Libero Quotidiano”. "Matteo Salvini - ha detto l'ex faccendiere approdato con successo all'editoria - ha sei gay intorno a lui, ne ha nella sua segreteria e nella comunicazione, nel Consiglio regionale della Lombardia". Inevitabile la domanda dei conduttori: "Chi sarebbero i gay a cui lei fa riferimento? "C'è n'è anche uno che era candidato alle regionali". Quindi una persona che attualmente è candidata a governatore? "Ora non lo è più, quella persona è stata tirata fuori", ha spiegato Bisignani.
Nuovo idolo dei gay (leghisti): "Siamo il 15%. Bobo, dacci più spazio", scrive “Libero Quotidiano”. La componente omosex del Carroccio si rivolge all'ex ministro dell'Interno. «Il nuovo segretario Maroni riapra le porte ai leghisti omosex. Il 15% dei leghisti è gay e bisex. Tutti sanno che fin dai tempi della sua fondazione, molti big nella Lega erano chiacchierati per i loro amori omosex». Lo ha dichiarato Carlo Manera, segretario di Los Padania, l’associazione gay vicina alle posizioni leghista, ospite di «KlausCondicio», la trasmissione tv di Klaus Davi. Secondo Manera nel Carroccio l’omosessualità sarebbe alquanto diffusa e Bobo farebbe in modo da ostacolare le carriere interne dei gay in camicia verde: «Maroni farebbe bene a riaprire al mondo gay, visto che fin dall’inizio siamo stati una componente importante del partito accettata da tutti, a un certo punto poi esclusa da Bossi. Se Maroni - ha concluso - vuole dare un’immagine liberale del partito, speriamo che faccia delle aperture sul tema dell’omosessualità, molti parlano bene ma poi razzolano male».
Luigi Bisignani: "Matteo Salvini ha sei gay intorno a lui". Le rivelazioni a "Un giorno da pecora su Radio 2", l'ex manager: "C'è n'è anche uno che era candidato alle regionali", scrive Mario Valenza su "Il Giornale". "Matteo Salvini ha sei gay intorno a lui, ne ha nella sua segreteria e nella comunicazione, nel Consiglio regionale della Lombardia". Ad affermarlo è Luigi Bisignani, ex giornalista e manager, che oggi è stato ospite di "Un Giorno da Pecora", il programma di Radio2 condotto da Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro. Chi sarebbero gli altri gay a cui lei fa riferimento? "C'è n'è anche uno che era candidato alle regionali". Quindi una persona che attualmente è candidata a governatore? "Ora non lo è più, quella persona è stata tirata fuori", ha spiegato Bisignani a "Un Giorno da Pecora". Poi Bisignani parla anche del Cav: "Berlusconi voleva Bruno Vespa Presidente della Repubblica. Il conduttore lo sapeva ed era ben contento di sapere che dalla terza camera dello Stato sarebbe diventato la prima…".
"Apertura al mondo gay? Non conosco questo signor Bisignani e non capisco cosa ne può sapere lui della Lega. Detto questo, la posizione della Lega è nota e l'ho sempre ribadita: la sfera privata è privata, diritti e doveri per tutti, ma il matrimonio si ha tra una donna e un uomo e i bambini vengono adottati dalla mamma e dal papà". Così Matteo Salvini, contattato al telefono dall'Agi, dopo le dichiarazioni di Luigi Bisignani che ha riferito di una sua apertura al mondo gay in chiave di "superamento del celodurismo bossiano". Quanto alle allusioni che vi siano esponenti gay nel Movimento, il segretario leghista ha risposto: "Può essere. Ci saranno sicuramente: se prendi la nostra tessera non è che ti chiediamo se sei eterosessuale o omosessuale. Ci saranno gay, ci saranno lesbiche".
DA BERLUSCONI A DRAGHI, DALLA BOSCHI AL CARDINALE SCOLA… IL FUORI SCENA DELLA POLITICA ITALIANA. TUTTO QUELLO CHE “È COSÌ MA NON SI PUÒ DIRE ”.
– Ma l’altro Matteo, Salvini, come si trova a capo della Lega “celodurista” di Bossi?
– Alle prese con Flavio Tosi, circondato da gay e con tantissimi guai per i debiti del partito, che forse spera di risolvere a Mosca…
Si chiama POTERE. In tutte le sue forme, i suoi tic, i suoi segreti, i suoi perché. Lo vogliono in tanti ma lo provano in pochi. La parola va a chi è informato sui fatti perché il potere lo conosce bene. Col libro precedente, L’UOMO CHE SUSSURRA AI POTENTI, Bisignani e Madron si erano fermati al 2013. Da allora molte cose sono cambiate. Dopo la morte di Andreotti e l’elezione di Bergoglio, la MAPPA DEL POTERE in Italia è tutta da ridisegnare. Ora un uomo solo è al comando, MATTEO RENZI, e un altro Matteo, Salvini, si è affacciato alla ribalta del teatro politico. La commedia è stata allestita e i due autori provano a raccontarla tra le pieghe di una cronaca che giornali e tv propongono solo in parte. Dai retroscena dell’elezione di MATTARELLA e il vero perché della rottura del Patto del Nazareno alla crisi drammatica all’interno del VATICANO. Ecco un Renzi sconosciuto, le storie inedite dei suoi collaboratori, l’improvvisazione e l’arroganza che ha stravolto ogni protocollo, gli affari in corso tra nuove nomine e gaffe internazionali (con BERGOGLIO e OBAMA). Sull’altra sponda anche SALVINI è una vera sorpresa, a cominciare dal nuovo cerchio magico che comprende diversi GAY. Benissimo. Ma la Lega del celodurismo di Bossi? E la DERIVA FASCISTA dell’alleanza con CasaPound e l’amicizia con Putin? Ecco la fotografia strappata e contraddittoria del potere oggi in Italia. Un’Italia che in parte non conosciamo, che fa ridere e anche un po’ piangere. Per salire sul carro di chi è più forte la gara è durissima, mentre i cittadini, disinformati, ignari, storditi, assistono fuori dai Palazzi.
AUTORI
Luigi Bisignani ha lavorato per varie testate giornalistiche. È stato anche capo ufficio stampa per alcuni ministeri della Prima repubblica. Attualmente è partner di una società di consulenza. È stato al centro di clamorose inchieste giudiziarie. È autore di due spy-story: IL SIGILLO DELLA PORPORA e NOSTRA SIGNORA DEL KGB, uscite entrambe per Rusconi. Per Chiarelettere ha scritto il thriller IL DIRETTORE (2014) e con Paolo Madron L’UOMO CHE SUSSURRA AI POTENTI (2013).
Paolo Madron, giornalista, già corrispondente da New York di “Milano Finanza” e vicedirettore di “Panorama”, è ora direttore di Lettera43.it, quotidiano online da lui fondato nel 2010. Ha condotto importanti inchieste sul capitalismo italiano ed è autore di vari libri, tra cui IL LATO DEBOLE DEI POTERI FORTI (Longanesi 2005) e STORIA SEGRETA DEL CAPITALISMO ITALIANO (con Cesare Romiti, Longanesi 2012).
Da “la Zanzara - Radio24”. Luxuria: “Finalmente, sono stufa delle copertine con gli uomini con le sopracciglia ad ala di gabbiano che neanche Jonathan Livingston, manco Moira Orfei. Sono stufa di questi coi muscoli scolpiti che invece di farti godere quando fanno sesso si devono guardare allo specchio per vedere quanto il loro muscolo si sta contraendo. Evviva Salvini”. Così Vladimir Luxuria, ex deputato di Rifondazione Comunista, a La Zanzara su Radio 24 commenta la copertina del settimanale Oggi con il leader della Lega Nord Matteo Salvini fotografato a petto nudo. “Salvini – spiega Luxuria – è un perfetto retrosexual, l’opposto del metrosexual tutto curato alla Beckham. Evviva Salvini con tutti i suoi peli, i suoi cespugli sotto le ascelle e i suoi chili in più. Non se ne può più di quelli che quando vengono a casa tua invece di rubarti la verginità la prima cosa che fanno ti rubano le creme di bellezza”. E a Salvini Luxuria dice: “Matteo, non andare in palestra, non mi diventare come Beckham e tutti gli altri. Lascia un po’ di panza e la barba trasandata. Fa maschio, fa bene”. “Va benissimo – dice ancora – che Salvini si è messo a nudo con i suoi chili in più e i suoi peli sotto le ascelle. Meglio lui della calza di Berlusconi o il photoshop della Meloni che sembrava la nipotina di Giorgia”. Però adesso – insiste Luxuria – il leader della Lega ha fatto 30 e adesso deve fare 40, si deve mettere tutto nudo, così vediamo se la Lega ce l’ha davvero duro. Magari insieme a uno di colore”. Scoppia l’amore tra Vladimir Luxuria e Giuliano Ferrara. “Bravo Ferrara – dice Luxuria a La Zanzara su Radio24 – gliela darò, ad avercela ovviamente”. Ferrara aveva detto nei giorni scorsi, sempre a La Zanzara di essere eccitato dai transessuali (“sono una cosa stupenda”, aveva detto Ferrara). “In Italia – dice Luxuria - sembra che i trans non piacciano a nessuno, nessuno dice che ci va e gli piace. I trans sono fantasmi che si incarnano nel momento della goduria e poi dicono: ‘io no, non l’ho mai fatto’. Che ipocrisia”.
"Mi spiegate perché Salvini ha l’orecchino, forse perché anche lui è un Lgbti?", scrive “Articolo 3”. Alessandra Mussolini dal palco del convegno ’Primavera italiana – centrodestra riprendiamoci il futuro, lo ha chiesto al pubblico in sala, scatenando applausi e risate tra i tanti presenti alla convention organizzata dai senatori Matteoli e Gasparri. Bersagli della Mussolini anche tutti gli ex azzurri che hanno voltato le spalle a Berlusconi, "quelli che se ne sono andati dopo aver avuto tutto dal Cavaliere. Il ’dentice, la Lorenzin, ministro della Salute, dice ’quasi quasi vado nel Pd’, ma ci andasse, andasse subito con Renzi", dice l’eurodeputata azzurra. Poi Alfano "segretario per acclamazione, che è un altro miracolato" e la "De Girolamo, che non sapete quanto era berlusconiana. «Con questa gente non possiamo allearci di nuovo, non devono rientrare nel partito con ruoli di responsabilità, al massimo, se li dobbiamo riprendere, allora mettiamoli in purgatorio", suggerisce la Mussolini. Galeotto fu l’orecchino. “Non penso che chi porta l’orecchino possa guidare il centro-destra, scrive “Termometro Politico”. Credo che il leader dei moderati debba rispondere a dei canoni estetici tradizionali, sia che prediliga lo stile casual che quello con cravatta. L’orecchino non mi entusiasma francamente. Il mondo cambia in peggio. Diffiderei da un leader che lo indossi. Se ci daranno un leader con l’orecchino, andrò a casa anche io”. A dirlo è il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, intervistato da Klaus Davi per il suo programma “KlausCondicio“. “Intendiamoci, non credo assolutamente – ha precisato Gasparri – che portare l’orecchino sia sinonimo di essere gay. Piuttosto quello con l’orecchino non è certo un maschio che mira al massimo dell’eleganza. I canoni estetici dell’eleganza sono mutati in peggio. Un uomo deve distinguersi per un’estetica idonea. Ai gazebo mica ci vado col tight? Io non indosserei mai un orecchino, per carità. Mai nella vita. È un canone estetico sbagliato”. “Salvini – ha precisato Gasparri – non potrà mai essere il leader del centro-destra del futuro. L’erede di Berlusconi dovrà in primis rappresentare una figura di sintesi, di raccordo fra le diverse anime dei moderati. Difficilmente Salvini può portare il centro-destra al 51%. Il futuro leader del centro-destra dovrà rappresentare una coalizione più ampia che difficilmente Salvini può guidare, essendo egli concentrato solo su alcuni temi specifici. Tra l’altro l’hanno criticato anche perchè, se non sbaglio, la ex moglie e l’attuale compagna hanno avuto incarichi pubblici, cosa che, diciamocelo, poteva evitare”.
Contrordine camerati, Salvini: «Sono comunista», e spiazza la sinistra, scrive Gloria Sabatini su “Il Secolo d’Italia”. «Sono un comunista vecchia maniera». È un Matteo Salvini che non ti aspetti, quello che domenica dai microfoni di Che tempo che fa, incalzato da Fazio, rivendica la sua identità rossa e spiega di sentirsi «più di sinistra di Renzi». «Se fossi un marziano – aggiunge – e dovessi votare Renzi in base a quello che dice in tv lo voterei. Ma non ne mantiene una…». Colpaccio mediatico o passo falso? Di sicuro l’outing spiazza la sinistra che vede il “camerata Matteo” come la peste. Per evitare la delusione dei nuovi fan arruolati tra le fila di CasaPound e degli ex An, Salvini chiarisce che il suo è un comunismo sociale, niente bandiere rosse e Internazionali: «Conosco più fabbriche io di chi frequenta i banchieri». Che tra un post e l’altro su Facebook abbia scoperto il Fascismo immenso e rosso di Robert Brasillach, il poeta francese fucilato nel 1945 per le sue idee? Che qualcuno gli abbia passato sotto mano qualche volume di Giano Accame? Il suo telefono squilla a vuoto, ospite di Agorà, prima tappa del suo tour mattutino per radio e televisioni. Ma non è un mistero che il giovane Matteo, classe 1973, iscritto alla Lega celodurista di Bossi dal 1990, nel 1997 venne eletto al Parlamento padano come capolista dei Comunisti padani. «In Lega ero accusato di avere l’orecchino e la barba e di essere un po’ strano», aveva detto a Bersaglio mobile prima delle elezioni europee. Un dettaglio buttato là per bucare il video o forse per strizzare l’occhio alla gauche approfittando della presenza in studio di Barbara Spinelli, candidata con la lista Tsipras. E la cravatta rossa? «È il colore della Repubblica Veneta col simbolo del leone di San Marco, non è rossa per altri motivi…».
PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.
Umberto Bossi: "Processatemi a Roma", scrive “Libero Quotidiano”. Un tempo "Roma ladrona". Oggi "processatemi a Roma". Protagonista della peculiare parabola è il Senatùr per eccellenza, Umberto Bossi, che attende di essere giudicato nel caso legato a Francesco Belisto, il tesoriere truffaldino della Lega Nord, la vicenda in cui è invischiato anche il Trota, il figlio Renzo Bossi. E' successo, infatti, che gli avvocati di Bossi (padre) abbiano presentato un'istanza per spostare nella capitale le cause pendenti tra Milano e Genova (il 29 ottobre scorso è stato deciso che per il reato di appropriazione indebita ipotizzato sia competente il tribunale di Genova). Insomma, oggi, il Senatùr chiede che a restituirgli l'onore sia il tribunale di Roma.
La Lega Nord accusata di "banda armata": 18 anni dopo, le Camicie verdi a processo, scrive “Libero Quotidiano”. A processo, diciotto anni dopo. Si tratta della paradossale vicenda che riguarda le 34 "camicie verdi" della Lega Nord per le quali è stato richiesto il rinvio a giudizio per banda armata dalla procura di Bergamo per aver "promosso, costituito, organizzato o diretto un'associazione di carattere militari". Per inciso, le Camicie verdi erano quelle che si definivano "un servizio d'ordine organizzato nell'ambito dei territori della Padania". Ora, se il gip accoglierà la richiesta, partirà il processo. L'inchiesta - Nel frattempo il leader del Carroccio, Matteo Salvini, ha detto che chiederà il risarcimento dei danni per "un processo senza senso", anche perché per la stessa imputazione stato già assolto un gran numero di leghisti, da Umberto Bossi e fino a Maroni e Calderoli. Per altri leghisti il procedimento era stato sospeso parecchie volte in attesa di responsi della Consulta. L'inchiesta era stata avviata nel 1996 dal procuratore di Verona Guido Papalia perché la maggior parte degli indagati proveniva da quella provincia. Successivamente la maggior parte dei magistrati avevano accolto l'eccezione di competenza territoriale, infatti le Camicie verdi furono fondate il 2 giugno 1996 a Pontida, in provincia di Bergamo. E dunque è là che ora il processo, dopo quasi due decenni, dovrebbe ripartire.
Lega, il processo da rifare dopo 18 anni, scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Procuratore di Verona Guido Papalia aveva diritto di indagare sulle Camicie Verdi più o meno quanto il sottoscritto ha diritto di presiedere l’assemblea dell’Onu. Cioè, nulla. Per fortuna ce ne siamo accorti in fretta: ci abbiamo messo solo 18 anni. L’inchiesta sui leghisti responsabili di «associazione militare con scopi politici»,infatti, era nata il 1996. Al Quirinale, tanto per dire, c'era Scalfaro. Nel 1996 si disputavano le Olimpiadi di Atlanta, l’inventore di Facebook Mark Zuckenberg era appena uscito dall’asilo, gli sms erano scambiati solo da pochi adepti e i telefoni cellulari erano così poco diffusi che le intercettazioni di quell’inchiesta vennero fatte tutte su telefoni fissi. Uno degli indagati, Matteo Bragantini, a quel tempo era un giovane studentello con i capelli lunghi. Oggi è un parlamentare di lungo corso con i primi segni dell’incanutimento e un po’ di pancetta. Però gli è andata meglio che a un altro dei 36 indagati, classe 1925, che nel frattempo è morto, senza nemmeno aver potuto scoprire che Papalia non aveva alcun diritto di perseguitarlo. Però adesso non prendetevela con la giustizia: per capire se un procuratore può indagare o no su un fatto ci vorrà il suo tempo, no? Bisogna esaminare le carte con attenzione, magari serve anche un sussidiario di geografia per capire i confini delle province di Verona e Bergamo. Non è che si possa far tutto semplice. E poi che volete? Diciotto anni e ci arrivano anche loro. Non lo fanno apposta a tirarla per le lunghe: lo dimostra il fatto che, appena si sono accorti che le Camicie Verdi erano state costituite a Pontida e accertato che Pontida non è provincia di Verona (promossi!), hanno predisposto il trasferimento «immediato» del fascicolo a Bergamo. Immediato, proprio così. 18 anni dopo, ma immediato. Nei tribunali mica si perde tempo. Peccato solo che in questi 18 anni, nel frattempo, sia successo di tutto. Ricorderete: udienze, ispezioni della Digos in via Bellerio, scontri con la polizia, Maroni in barella, dibattiti in Parlamento, giornali scatenati. Sull’inchiesta di Papalia (che non doveva nemmeno cominciare) è stata scritta la qualunque, compresi gli indimenticabili titoli sui «Terroristi in Camicia Verde», «Secessione a Padania armata», «Organizzazioni militari leghiste», «Verde scuro tendente al nero» intere trasmissioni di Santoro, paginate indignate dei commentatori intelligenti. Ecco: scusate, ma ci siamo sbagliati. È nato tutto da un equivoco. Anzi, da un errore. Non se n’è accorta nemmeno la Corte Costituzionale: coinvolta per cinque volte nella vicenda, per cinque volte ha rimandato il fascicolo a Verona. Cioè nel posto sbagliato. Anche alla Consulta, evidentemente, ci sono problemi con la geografia. Adesso ricomincia tutto da Bergamo. E ricomincia da zero. Dispiace un po’ per Papalia, che tutte le inchieste si porta via: nel frattempo è andato in pensione, ma il suo lavoro è stato inutile. O meglio: è stato utile solo a lui. Gli è servito a farsi un po’ di pubblicità, che fa sempre bene, e forse un po’ di carriera, arrivando a farsi nominare Procuratore Capo a Brescia. «Terun de la madonna, vuol arrestare il Va’ Pensiero», lo apostrofò Bossi. Del resto la giustizia italiana è fatta così: il procuratore di Trani mette sotto inchiesta Moody’s e Standard's&Poor, Henry John Woodcock fa sfilare a Potenza Savoia e showgirl, Raffaele Guariniello convocherebbe a Torino pure San Gennaro se solo potesse. Basta che un magistrato intravveda la possibilità di avere l’attenzione dell’opinione pubblica e zac, l’inchiesta è aperta. Tanto che problema c’è? Al massimo finisce tutto in nulla. O peggio: 18 anni dopo si scopre che l’indagine non doveva nemmeno cominciare perché Bergamo non è Verona. Che importa? Le telecamere ormai sono lontane. E gli errori della giustizia, si sa, non li paga nessuno.
Papalia e le camicie verdi: «Così non è giustizia diciotto anni sono troppi», scrive Cremonesi Marco su “Il Corriere della Sera”. «Non c'è il minimo dubbio. Una giustizia così lenta non è più giustizia». Guido Papalia è in pensione da circa un anno. Ma nel 1996, diciotto anni fa, fu lui ad avviare, da procuratore di Verona, il procedimento contro la «Guardia nazionale padana», le cosiddette Camicie verdi. Secondo i leghisti, un servizio d'ordine. Secondo varie procure, un'associazione militare. Il processo, però, non è partito: la procura di Bergamo (oggi competente sulla vecchia indagine) ha chiesto sabato al gip il rinvio a giudizio di 34 militanti di allora. Procuratore, lo avvierebbe ancora quel procedimento? «Ah, non c?è dubbio. Tra l'altro, l'ho avviato io a Verona dopo una riunione con diverse procure che si svolse a Mantova. Fu lì che si decise che il procedimento si sarebbe dovuto svolgere a Verona. Ma sul fatto che fosse motivato, dubbi non ce n'erano da parte di nessuna delle procure. E io, di dubbi, continuo a non averne: la costituzione di associazione militare, sulla base della legge del 1948, c'è in pieno».Per quei fatti, buona parte dei capi leghisti non sono stati processati in quanto parlamentari. Non è stridente?«Certo, ma fu una decisione del Parlamento italiano, che considerò quei fatti come opinioni degli eletti, libera espressione di pensiero. Ma badi che, invece, il Parlamento europeo a suo tempo sancì che i responsabili andassero processati».Molti di quei militanti oggi sono magari tranquilli padri di famiglia.«Credo anch'io. Certamente non esistono più le camicie verdi di allora. Però, le persone sono coinvolte per quei fatti di allora, sulla base di una legge vigente. Per dire: noi a suo tempo avevamo contestato anche l?attentato alla Costituzione e all'integrità dello Stato. Poi, però, la legge fu modificata e quei capi di imputazione sarebbero stati insussistenti. Ma la legge che c'è, va rispettata». La lunghezza del procedimento era inevitabile? «I processi non possono durare tanto, ce lo diciamo tutti. E non dovrebbero esistere meccanismi tanto dilatori. Però, qui non parliamo di cavilli, ma di momenti processuali che hanno determinato una stasi inevitabile, come le eccezioni di costituzionalità. Che dovrebbero essere decise immediatamente, e non dopo tre o quattro anni». E dunque, si può essere processati per fatti di quasi vent'anni fa che peraltro non hanno portato ad altri reati specifici.«Sì. Ma io credo che quando si tratterà di decidere, si terrà conto della situazione attuale. Anche psicologicamente, credo se ne terrà conto».
Lega Nord, Rosi Mauro assolta: non prese i soldi del partito. Lei attacca: "Maroni e Salvini, la pulizia non c'è stata", scrive “Libero Quotidiano”. "Altro che scope, nella Lega la pulizia non c'è stata". Sono i giorni della rivincita per Rosi Mauro: l'ex vicepresidente del Senato della Lega Nord, fedelissima di Umberto Bossi, è stata assolta dall'accusa di essersi intascata 100mila euro del partito. Peccato che prima del processo sia stata la Lega stessa a "epurarla", sull'onda dello scandalo della gestione dei soldi del partito. Prima di lei, sul patibolo, erano già saliti l'ex tesoriere Francesco Belsito e, di fatto, il fondatore e leader storico dei padani, Umberto Bossi. "La verità deve ancora venire fuori - si sfoga la Mauro sul Giornale -, ma è chiaro che un un complotto, colpirono me per affossare Bossi, per farlo fuori". Era l'aprile del 2012, la Lega stava cercando di uscire faticosamente dagli scandali giudiziari e finanziari. Bobo Maroni aveva preso in mano il partito e la prima operazione fu soprattutto mediatica: cacciare la vecchia guardia, il cerchio magico di Bossi e sostituirla con volti nuovi e puliti, tra cui quello di Matteo Salvini. Nella famosa serata delle ramazze, a Bergamo, c'erano tanti leghisti arrabbiatissimi con i "traditori" e con lei, la Mauro, salutata con cori tipo "terrona" e "Rosi p... l'hai fatto per la grana". Quella classe dirigente fu spazzata via a suon di insulti. "Mettiamola così - spiega la Mauro -, mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passio indietro e io rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?. Lui mi rispose che era una questione di opportunità politica". Da due anni con la nuova nomenklatura leghista l'ex "badante" del Senatùr non ha più rapporti: "E nessuno si è fatto vivo" per complimentarsi per l'assoluzione. E Salvini? "Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me".
Rosi Mauro: "Io assolta. E la pulizia nella Lega non c'è stata". La serata delle scope non è servita. Sono stata giustiziata per far fuori Bossi, ma molti restano al loro posto, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”.
«Me la ricordo la serata delle scope, eccome. Ecco, a Roberto Maroni direi che quello spettacolo non è servito a nulla. Io non ci sono più, ma molti di quelli che dovevano essere spazzati via sono ancora al loro posto».
Per una che è stata dipinta come la «strega nera» del Carroccio, la reazione è assai misurata. Ma lei, Rosi Mauro, ora è semplicemente «contenta».
«Contenta di una cosa che in cuor mio già sapevo».
Ovvero, che con l'uso spregiudicato dei fondi della Lega non aveva nulla a che fare. Per questo, ieri, l'ex vicepresidente del Senato è stata prosciolta dal gip di Milano. E dopo essere stata silurata dal partito senza processo e prima del processo, dopo essersi presa gli insulti dai colleghi lumbard e da una parte della platea leghista - «terrona» era il meno, qualcuno gridava «Rosi p..., l'hai fatto per la grana» - ora può voltare pagina.
Rosi Mauro, due anni fa venne «giustiziata» dal triumvirato Maroni-Calderoli-Dal Lago.
«Mettiamola così: mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passo indietro e io mi rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?».
E cosa le venne risposto?
«Che era una questione di opportunità politica».
Ne fu convinta?
«Ma figuriamoci!».
E allora qual è la verità?
«La verità deve ancora venire fuori, ma è chiaro che fu un complotto. Colpirono me per affossare qualcun altro».
La butto lì: Umberto Bossi.
«Certo! È stato un complotto per fare fuori Bossi».
Ordito da chi?
«I responsabili sono sotto gli occhi di tutti. Quello che mi consola è che la nostra gente l'ha capito».
Ne è sicura?
«Tutte le persone del movimento che ho incontrato in quel periodo me lo dicevano: Rosi, non mollare e vai avanti».
A due anni di distanza, pensa a qualche rivalsa nei confronti del partito o delle persone che l'hanno affondata?
«Qualche querela è già partita, vedremo come andrà a finire. Altre potrebbero partire. Ma non c'è fretta, di pazienza ne ho molta».
Facile immaginare che ce ne sia voluta parecchia in questi due anni.
«Da quando è scoppiato il caso ne ho viste di cotte e di crude. Quello che mi ha fatto più male sono le cose che sono state scritte su di me. Sono finita in prima pagina, leggevo notizie incredibili che sapevo essere false. La verità è che io sono entrata nella Lega nel 1987, e non ho mai tentato di fare le scarpe a nessuno».
Oggi il giudice di Milano l'ha assolta dall'accusa di essersi intascata quasi 100mila euro del partito. Qualcuno da via Bellerio l'ha chiamata?
«Nessuno della nomenklatura si è fatto vivo. Ma non mi aspettavo diversamente, anche perché è da due anni che con queste persone ho interrotto i rapporti. Invece, con molte delle seconde linee continuiamo a sentirci. E ovviamente oggi mi hanno chiamata».
A distanza di due anni, cosa direbbe a Roberto Maroni?
«Che la famosa serata delle scope non è servita a nulla. Che quelle scope hanno funzionato male, perché la pulizia vera non c'è stata».
E al segretario Matteo Salvini? Anche lui, con toni più morbidi, chiese la sua testa.
«Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me».
Ora che questa vicenda si è chiusa, cosa farà?
«Ancora non lo so. Ma di sicuro, questo sarà un bel Natale».
QUANTI GALLI NELLA LEGA?
Donatella Galli, leghista a processo. Su Facebook: “Forza Etna, forza Vesuvio”. Donatella Galli, della Lega Nord di Monza e Brianza, è accusata per aver scritto messaggio discriminatorio contro centro-sud Italia. La denuncia da Napoli, dove il presidente della Ottava Municipalità della città si è costituito parte civile, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Ha pubblicato su Facebook un post con su scritto “Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili”, augurandosi “una catastrofe naturale nel centro-sud Italia”. Ora Donatella Galli, consigliera provinciale uscente della Lega Nord di Monza e Brianza, dovrà affrontare un processo con l’accusa di aver diffuso “idee fondate sulla superiorità razziale ed etnica degli italiani settentrionali rispetto ai meridionali” e di “discriminazione razziale ed etnica”. Lo ha deciso il pm di Monza Emma Gambardella che, dopo aver chiuso le indagini, ha disposto la citazione a giudizio per l’imputata. A presentare una denuncia per quel post pubblicato sul social network è stato l’avvocato Angelo Pisani, di Napoli, che si costituirà parte civile nel processo rappresentato dal legale Sergio Pisani. I fatti sono iniziati nell’ottobre 2012 quanto la donna commentò su Facebook una foto satellitare dell’Italia priva delle regioni dal Lazio in giù, foto che era stata intitolata “Il satellite vede bene, difendiamo i confini”. Dopo aver messo un “mi piace” alla foto, la consigliera leghista aveva commentato: “Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili”, augurandosi, come scrive il pm, “una catastrofe provocata dai tre più grandi vulcani attivi” della zona. Il processo, in cui Angelo Pisani è “parte offesa” in quanto presidente della Ottava Municipalità di Napoli, inizierà a Monza il 23 ottobre del 2015, davanti al giudice Elena Sechi. “Intendiamo lanciare un segnale forte“, ha spiegato Angelo Pisani, “per far capire a tutti che la dignità dei cittadini italiani, siano essi meridionali o settentrionali, va rispettata. Se non lo si comprende per senso civico”, continua l’avvocato, “gli artefici lo capiranno pagando di tasca propria per le offese fatte”. Pisani ha spiegato che devolverà il risarcimento danni in beneficenza: “La condanna che potrebbe arrivare rappresenterà un importante argine alla violenza razziale che avvelena lo sport italiano, il web e la convivenza civile”. Forza Vesuvio, Forza Etna, Forza Marsili“. Questo il post pubblicato su Facebook dalla leghista Donatella Galli, di Desio, e ritenuto razzista tanto da costarle un rinvio a giudizio. Parole di certo non leggere se corredate da quella foto dell’Italia tagliata a metà, dove il sud scompare. Incitare i vulcani a cancellare l’esistenza del sud Italia, questo il succo del post apparso su Facebook. Non solo parole nel web per Angelo Pisani, ma parole di offesa che vanno punite. In un comunicato pubblicato da il Mattino Pisani spiega il perché della denuncia, che porterà in tribunale l’autrice del post pubblicato su Facebook: “«Intendiamo lanciare un segnale forte per far capire a tutti che la dignità dei cittadini italiani, siano essi meridionali o settentrionali, va rispettata. E se non lo si comprende per senso civico, gli artefici lo capiranno pagando di tasca propria per le offese». E’ quanto annuncia l’avvocato Angelo Pisani, presidente della Ottava Municipalità di Napoli, che insieme al penalista Sergio Pisani ha denunciato una internauta di stampo leghista residente a Desio (MI), autrice di post sui social network in cui si augurava una catastrofe naturale tale da distruggere l’Italia meridionale ed i suoi abitanti. Pisani, che ha ottenuto la citazione diretta a giudizio della donna, si è costituito parte civile nel giudizio aperto al Tribunale di Monza. La signora, dopo aver diffuso sul web la sua assurda propaganda xenofoba contro i meridionali, dovrà ora rispondere del reato di discriminazione territoriale. Nella citazione a giudizio della Procura di Monza si legge infatti che D. G. è imputata «perché propagandava idee fondate sulla superiorità razziale ed etnica degli italiani settentrionali rispetto ai meridionali e commetteva atti di discriminazione razziale ed etnica fondata sulla superiorità sopra indicata». A ottobre 2012 – ricorda il pubblico ministero Emma Gambardella – la signora aveva inserito nel suo post una foto satellitare dell’Italia dal Lazio in giù, foto commentata con frasi come «Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili». Il riferimento legislativo è in primo luogo alla violazione della Legge n. 164 del 1975, con la quale il nostro Paese ratifica la convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Pisani, che nel giudizio si è costituito parte offesa come presidente della Municipalità a nome dei cittadini meridionali, tiene ora a sottolineare: «La condanna che potrebbe arrivare in questo processo rappresenterà un importante argine alla violenza, anche di connotazione razziale, che avvelena lo sport italiano, il web e la convivenza civile. E’ ancora forte – aggiunge Pisani – l’onda emotiva nel Paese per il ferimento a morte di un giovane, innocente tifoso di Scampia dinanzi allo stadio Olimpico. La famiglia di Ciro Esposito ha impartito al Paese una grande lezione di civiltà con i suoi ripetuti inviti alla non violenza. In tal senso con la nostra denuncia, e ora con la costituzione di parte offesa a Monza, intendiamo dare un segnale forte a tutti coloro che offendono i valori dello sport con atti di discriminazione e razzismo. Vogliamo contribuire concretamente ad arginare simili focolai e a riportare l’attenzione di tutti sul rispetto della dignità. Chi fomenta l’odio, d’ora in poi imparerà le regole del comportamento civile a suon di risarcimenti danni, pagando di tasca propria. Sarà il modo migliore per farli smettere»”.
"Forza Etna, forza Vesuvio!!": il web si scatena contro Donatella Galli. La giovane consigliera provinciale leghista ha pubblicato un commento sul noto social network sotto l'immagine di un'Italia a metà. Non si sono fatte attendere le repliche. Il partito: "Goliardate", scrive Antonio Piemontese su “Monza Today”. La vignetta: un'immagine dell'Italia dal satellite, ritoccata cancellando la parte di Penisola a sud della Toscana. La battuta: "Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili!!!". La protagonista: Donatella Galli, consigliera provinciale leghista a Monza. Giovane, sposata con due figli, la Galli ha scatenato un putiferio con il suo commento su Facebook. Non una novità, a dire il vero: poche settimane fa, il segretario della Lega di Bovisio Patrizio Ferrabue aveva scatenato l'inferno con un commento dopo il rogo al magazzino cinese tra Monza e Brugherio, costringendo il suo omologo provinciale Dionigi Canobbio a scusarsi. Canobbio si scusa anche questa volta, ma in maniera meno convinta: "Sono goliardate - stigmatizza il politico - anche se sarebbe il caso di evitare di scriverle. Donatella è una ragazza appassionata e questo a volte può causare problemi. Ma stanno tutti con gli occhi puntati su di noi: è ovvio che nessuno della Lega si augura che il Sud sprofondi, ma nessuno si occupa delle aggressioni al nostro partito. Ad esempio, quella a Roberto Maroni. Con queste polemiche si crea una falsa immagine del leghista". Proprio sicuro, segretario, che certe battute che girano da sempre nelle sezioni non c'entrino nulla? "Io dico che quando sui manifesti si vede Maroni che bacia Formigoni indossando una coppola nessuno si scandalizza, mentre poi si attacca la Lega per una battuta su Facebook". Ha sentito la consigliera Galli? "Non ancora, ma la chiamerò". Per dirle cosa? "Per dirle di usare quella cosa che ha in mezzo alle orecchie, cioè il cervello". Pressapoco sulla stessa linea il presidente lumbard del consiglio provinciale di Monza e Brianza Angelo De Biasio: il politico ridimensiona, difende la Galli e rilancia: "Sono battute da bar che girano da trent'anni a cui stiamo dedicando anche troppo tempo. Ricordo quando a Napoli comparvero manifesti contro un ministro della Repubblica (Umberto Bossi, ndr) gravemente ammalato; in quei giorni negli stadi si sentivano persino cori contro di lui, ma non c'è stata alcuna sollevazione". La sollevazione c'è stata invece sul web. La notizia ha fatto in poche ore il giro della Rete e non sono mancati i commenti - a dir poco accesi - sulla pagina personale della giovane leghista. Le repliche sono diverse e colorite, non pubblicabili per motivi di opportunità. Il popolo di Internet ha richiesto le dimissioni della consigliera che, dal canto suo, non ha replicato alle accuse. Nè si è scusata. Intanto si apre il fronte interno alla Giunta Pdl/Lega. Il presidente Dario Allevi è furioso, e ha preso in maniera netta le distanze dalle affermazioni, che hanno procurato un'attenzione di natura decisamente sgradita all'ente di via Grossi in un momento delicatissimo: martedì è infatti atteso il verdetto della Corte Costituzionale sulla riforma Monti che potrebbe portare all'abolizione della Provincia di Monza e al conseguente ingresso dei 55 Comuni nella città metropolitana. "L’ho appena saputo e devo dire che sono senza parole – ha commentato Allevi - Mentre siamo tutti concentrati a difendere la Provincia di Monza e Brianza, c’è chi la mina con dichiarazioni farneticanti. Quelle usate dal consigliere Galli sono parole intollerabili ed ingiustificabili sotto ogni punto di vista ed è per questo che chiedo scusa, come rappresentante legale dell’Ente, ai tantissimi cittadini che ci hanno inondato di mail di protesta e che si sono giustamente sentiti offesi da un amministratore provinciale. Ora, però, mi auguro che arrivino anche le scuse del consigliere, per mettere una pietra tombale sopra questa triste vicenda”.
Donatella Galli (Lega) su Fb: “Forza Marsili e Vesuvio!”. Poi toglie il post, scrive Pino Nicotri su “Blitz Quotidiano”. Strage di meridionali invocava su Facebook Donatella Galli, consigliera provinciale della Lega, provocando tali reazioni che ha dovuto togliere il post. Sarà pur stata una goliardata, ma la Galli, 40 anni, laureata e madre di due figli, deve essersi resa conto di averla combinata troppo grossa, tant’è che dalla sua pagina Facebook dove l’aveva pubblicata l’ha fatta sparire. Attorno alla vicenda c’è un pizzico di mistero che ruota attorno a due immagini. La Lega ora sostiene che non è vero che Donatella Galli, consigliera leghista della Provincia di Monza e della Brianza, una settimana fa nella sua pagina Facebook ha pubblicato questo manifesto: “Io sono una BASTARDA leghista e me ne vanto. Voglio che il Vesuvio e l’Etna facciano una strage di meridionali. I meridionali sono per me come gli Ebrei erano per Hitler e vanno messi nei forni crematori”. Come si può vedere, il manifesto contiene tanto di foto di forno crematorio con annesso cadavere, lugubre pendant alla facciona sorridente sopra i simboli sia della Lega Nord che della sua antenata Lega Lombarda, entrambi a spadone sguainato. Secondo Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, si tratta di un falso. La Galli però, nonostante il polverone suscitato, finora è stata ben zitta e lo stesso Salvini ha minacciato querele vari giorni dopo che il manifesto, vero o falso che sia, imperversava on line. Salvini invece nulla ha da eccepire sull’altra immagine al centro di aspre polemiche. Infatti Donatella Galli, nella sua pagina Facebook ha pubblicato anche una foto dell’Italia presa dal satellite, foto dalla quale però ha cancellato l’intero centro sud dello Stivale – eccetto la Sardegna, forse perché parte del regno sabaudo cui diede il nome, unita da secoli a Piemonte e Liguria- e inserito una didascalia patriottico padana: “Il satellite vede bene, difendiamo i confini….”. La Galli ha anche aggiunto un commento: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!!”. Marsili è il vulcano sottomarino del Tirreno meridionale, fratello dei vicini vulcani delle Eolie. A questo punto nella Rete le proteste sono diventate una valanga, tant’è che il dirigente provinciale della Lega, Dionigi Canobbio, non ha esitato a scusarsi minimizzando: “Si tratta di goliardate, anche se sarebbe il caso di evitare di scriverle”. Strana come goliardata, se non altro perché la signora Galli ha 40 anni, è madre di due figli ed è laureata da 15 anni in Scienze dell’Informazione presso l’Università Statale di Milano. Nel Monzese comunque non è la prima “goliardata” di gusto pessimo e razzista che augura la morte del “nemico”. Il 21 settembre il segretario leghista di Bovisio, Patrizio Ferrabue, si è detto dispiaciuto che non fosse morto nessun cinese nell’incendio scoppiato nei grandi magazzini della cinese Globo Trade di Monza. Tra i commenti e le contumelie molto poco gentili collezionate su Facebook e dintorni, ce n’è una che non manca d’ironia: “Vorrei far presente alla – si fa per dire – signora Galli che, allo stato attuale, l’unica cosa certa in tema di “scomparse” non sarà l’Italia Meridionale, ma – ahi lei! – la provincia di Monza-Brianza. Infatti, a partire dal 1 gennaio 2013 tale Provincia sarà cancellata dalla geografia politica della’Italia e con essa verrà soppresso anche lo scranno su cui siede la futura massaia brianzola. A proposito di pregiudizi, non ho potuto non notare il color “rosso malpelo” di cui è “tinta” la temeraria leghista: secondo una vecchia credenza in uso alle popolazioni meridionali il color rosso dei capelli era indice di persona malvagia ed iraconda”.
Donatella Galli e i presunti post razzisti contro meridionali ed ebrei, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuvio Live”. Si infittisce il mistero sul presunto post pubblicato dalla consigliera provinciale della Lega Nord Donatella Galli che invoca la morte dei meridionali proprio come accaduto agli ebrei nei campi di sterminio tedeschi. Un “manifesto” shock che pare aver provocato reazioni tutt’altro che morbide, al punto da indurre il politico a rimuovere il post. C’è chi dice che l’autrice materiale non sia stata lei, chi invece che la Galli abbia voluto fare una “goliardata” nonostante i suoi suonati 40 anni, una laurea, due figli e un’età che avrebbe dovuto indurla a capire che, un simile post, non può essere considerato uno scherzo ed infine c’è anche chi assicura si tratti di un fake. Di certo i dubbi aumentano e nonostante il passare dei giorni le ombre che si sono abbattute su questa misteriosa vicenda non accennano a diradarsi. La Lega Nord sostiene che Donatella Galli, consigliera leghista della Provincia di Monza e della Brianza, sia stata vittima di un “complotto” perchè una donna come lei, non avrebbe mai potuto pronunciare parole di tale odio nei confronti di qualcuno. Il post incriminato recita così: “Io sono una BASTARDA leghista e me ne vanto. Voglio che il Vesuvio e l’Etna facciano una strage di meridionali. I meridionali sono per me come gli Ebrei erano per Hitler e vanno messi nei forni crematori”. Non c’è molto da aggiungere, visto che l’immagine così come la frase si commentano da sole. Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, si è subito attivato per smentire la vicenda annunciando di essere in presenza di un falso. Nonostante la bufera che la veda protagonista però, la Galli, appare serena tanto da non sentire l’esigenza di esprimersi sui fatti che le sono contestati, nascondendosi vigliaccamente dietro ad un agguerrito Salvini pronto a querelare chiunque accosti la frase incriminata al consigliere. Facendo passare per buona la storia del falso, Salvini però dovrebbe spiegare a tutti i meridionali (ed in particolare a quelli che l’hanno votato) come mai non ha pronunciato una sola parola su un’altra foto postata da Donatella Galli, fino a qualche giorno fa ancora presente sul suo profilo, in cui si poteva vedere l’Italia presa dal satellite e da cui era stato letteralmente cancellato il Sud Italia, eccetto la Sardegna, con tanto di didascalia: “Il satellite vede bene, difendiamo i confini….”.
L’indignazione anti-leghista alimentata da una foto FAKE, scrive Riccardo Ghezzi su "Quelsi". Donatella Galli, 40 anni, consigliere provinciale di Monza e Brianza eletta in quota Lega Nord, è la più recente vittima della gogna da social network. Non che non l’abbia combinata grossa e ci abbia messo del suo, sia chiaro, il problema è che qualche solito buontempone di facebook ha voluto rincarare la dose per creare un clima da inquisizione. Gli utenti che affollano il social network, come da abitudine, sono caduti nel trappolone e in queste ore stanno diffondendo una foto che è palesemente falsa. Un fake, come si dice in questi casi. Cos’è accaduto, in realtà? E’ successo che Donatella Galli, dimenticandosi di rivestire un incarico pubblico, di essere un personaggio istituzionale e, in quanto tale, di avere una certa dose di responsabilità, si è lasciata andare ad un commento censurabile su facebook. Un suo amico ha pubblicato un link, “L’Italia vista dal satellite”, con la foto di uno Stivale completamente privo del tacco. Al posto del meridione, il mare. E il commento, già di per sé censurabile, “il satellite vede bene, difendiamo i confini”. Il link è piaciuto a Donatella Galli, che oltre ad aver espresso il suo apprezzamento cliccando “mi piace”, ha pensato bene di commentare “Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili!”, ossia i tre principali vulcani del meridione. Probabilmente si è scordata del suo incarico, e pure di non aver impostato limiti di privacy al suo profilo, completamente pubblico (adesso non lo è più). Qualcuno ha fatto lo screenshot del suo commento, la notizia si è diffusa in men che non si dica sui social network e la pagina di Donatella Galli, fino a qualche giorno fa aperta anche ai commenti dei non amici, è stata inondata di insulti e minacce. Un personaggio pubblico che sbaglia subisce le giuste conseguenze. Dal canto suo, la Lega Nord avrebbe fatto bene a chiedere le immediate dimissioni del consigliere provinciale o optare per l’espulsione in caso di rifiuto. Va anche detto che Donatella Galli non si è ancora scusata. Il problema è che per qualcuno la gogna non era sufficiente, ci voleva qualcosa di più. Qualcosa che potesse mettere ulteriormente in cattiva luce il consigliere provinciale leghista. Ed ecco che è spuntata una foto dai contenuti decisamente orribili. Oltre al viso di Donatella Galli e al simbolo della Lega Nord, appare la scritta “Sono una bastarda leghista e me ne vanto. Voglio che il Vesuvio e l’Etna facciano una strage di meridionali. I meridionali sono per me come erano gli Ebrei per Hitler e vanno messi nei forni crematori”. Inutile dire che questo delirio non può neppure essere considerato un’interpretazione del pensiero espresso da Donatella Galli. Sono frasi assurde, che lei non ha mai scritto o detto e neppure lasciato intendere attraverso quel suo pur censurabile commento “Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili”. Qualcuno però c’è cascato, pensando addirittura che il link riportasse una reale foto creata da Donatella Galli, se non addirittura un suo manifesto elettorale. Qualcun altro ha pensato l’avesse pubblicata la stessa Galli sul social network. Altri hanno ritenuto che tale link, pur non essendo opera dell’esponente leghista, riportasse in ogni caso sue reali dichiarazioni. I meno creduloni sostengono che in ogni caso Donatella Galli se la sia cercata. Sarà anche vero, ma il riferimento ai forni crematori è qualcosa che va oltre la diffamazione aggravata e la strumentalizzazione politica. Inoltre, avendo a disposizione lo screenshot del reale commento, c’era davvero necessità di creare un palese fake? Ribadendo che l’esponente leghista farebbe bene a dimettersi dal suo incarico e la Lega dovrebbe premurarsi di espellerla dal partito e smentire il fake, per completezza alleghiamo la foto che sta circolando su facebook. Ribadendo che è un vergognoso FAKE.
Donatella Galli: la leghista bannata da Facebook per razzismo, scrive “Giornalettismo”. Di Donatella Galli e della battutona su “Forza Vesuvio, forza Etna, forza Marsili che l’ha infilata all’interno di una bufera su Facebook abbiamo parlato il 2 novembre. Venerdì scorso Matteo Salvini aveva annunciato la presentazione di una denuncia querela per difenderla da alcuni utenti, che avevano falsificato le affermazioni della leghista, rendendole molto più pesanti rispetto a quelle iniziali. Oggi, la pagina Polizia Postale web site fans annuncia che il profilo di Donatella Galli è stato chiuso dopo una segnalazione per razzismo: L’admin della pagina che ha effettuato la segnalazione non c’entra nulla con la Polizia Postale, come è spiegato nella sezione delle informazioni: QUESTA FAN PAGE NON E’ UNA PAGINA UFFICIALE DELLA POLIZIA POSTALE, MA SEMPLICEMENTE UNA FAN PAGE DEDICATA & AMMINISTRATA DA SOSTENITORI DELLA POLIZIA POSTALE. Mentre gli admin fanno sapere cosa è successo: Matteo Salvini segretario nazionale della Lega Lombardia aveva fatto sapere tramite la sua pagina facebook, un’azione legale; chiedendo “centinaia di migliaia di euro” verso gli utenti che diffamavano la loro consigliera. Purtroppo però Matteo Salvini, non aveva considerato che la Dott.ssa. Donatella Galli 2 ore prima ora aveva DICHIARATO ai microfoni di Radio 24 che si trattava di una provocazione. Signor Salvini, lei ed il suo partito avreste fatto una degna figura dissociandovi letteralmente dalle parole di questa illustre Signora, chiedendo SCUSA a nome di tutta la Lega Nord. Signor Salvini, adesso quereli tutti noi.
"Forza Vesuvio, forza Etna" La consigliera non si scusa, scrive “Il Giorno”. Donatella Galli (Lega Nord): "Non mi scuso e non mi dimetto. I consiglieri provinciali non sono diversi dai cittadini normali, abbiamo diritto a scherzare anche noi". Donatella Galli nella bufera per il suo "Forza Etna, Forza Vesuvio" su facebook. E' finita nella bufera per un post su facebook che ha destato clamore. Ha caricato la foto dell'Italia, annegata nella metà meridionale e sotto un commento: "Forza Etna, forza Vesuvio...". Donatella Galli, consigliera provinciale di Monza, non fa nessun passo indietro e non si pente per quanto scritto. “E’ uno scherzo, una goliardata. Non mi scuso e non mi dimetto. I consiglieri provinciali non sono diversi dai cittadini normali, abbiamo diritto a scherzare anche noi. Ho preso un post un po’ ridicolo con il Meridione scomparso e l’ho messo su Facebook - spiega la Galli - ma quella dell’Italia spezzata a metà è la mia filosofia, altrimenti non sarei della Lega. Non voglio certo il Sud sprofondato, ho tanti amici al Sud e non mi auguro sciagure”. “Forza Etna e Forza Vesuvio - dice ancora - è uno scherzo. Mi auguro che l’Etna erutti solo per i turisti, come i siciliani. Una persona sana di mente non può augurarsi una disgrazia. E poi, cinicamente, se ci fosse una tragedia in Meridione poi le spese della ricostruzione saremmo costrette a pagarle noi del Nord come al solito”. “Per fare quella battuta sui vulcani - dice ancora la Galli - mi sono ispirata a una barzelletta, quella della lampada di Aladino e i tre desideri. Il primo desiderio è che la Terronia sprofondi tutta, il secondo è che riemerga. E poi sprofonda di nuovo. Mi hanno accusata di violenza ma non ho detto di prendere i mitra - spiega ancora - è solo una cosa figurativa. Sono stupita delle reazioni spropositate”.
"La Lega Nord è razzista. Basta ascoltare tutti i comizi che la Lega continua a fare. Sono veri e propri comizi che sono un inno alla paura". Lo ha detto Cecile Kyenge, europarlamentare del Pd ed ex ministra dell'Integrazione ai microfoni di 24Mattino su Radio 24 il 3 novembre 2014. "Sono ormai una decina di anni - ha spiegato la Kyenge - che la Lega continua a trasmettere paura e a provocare la guerra fra le persone".
Internazionale attacca la Lega Nord: “Leghismo simile al nazismo”, scrive Francesco Di Matteo su “Termometro Politico”. Un durissimo attacco a Matteo Salvini e, più in generale, ai leghisti è arrivato questa mattina dalla rivista Internazionale, a cura del suo opinionista Christian Raimo. L’opinionista, infatti, avvia un’analisi nei confronti del leghismo che, secondo lo stesso, si avvicina molto al nazismo, oltre ad essere profondamente razzista. Il commento di Raimo è scatenato da un video, negli ultimi giorni diventato virale su Facebook, postato dal leader del Carroccio in cui si vede un leghista, che si era recato in un campo rom in Emilia in visita “provocatoriamente” e che è stata cacciata in malo modo ad opera di due rom. Il video era accompagnato da un commento di Salvini che faceva notare come “A questa gente che AGGREDISCE e insulta i leghisti, la Sinistra emiliana (a spese di tutti gli italiani) offre gratis acqua, luce e gas! Altro che integrazione! Un voto alla Lega – conclude Salvini – è un voto per chiudere e sgomberare tutti i campi rom”. L’autore, così, ha deciso di procedere con uno studio dell’account Facebook di Salvini, Grillo e Renzi, notando come Salvini, in quanto a numero di post e likes, sia molto più seguito di Renzi e, incredibilmente, anche più seguito da Grillo che del lavoro su internet e sui social fa il proprio credo. Infatti Raimo fa notare che ai post di Salvini sul social network corrispondono puntualmente migliaia di likes e svariate centinaia di condivisione. Nel caso specifico l’opinionista fa notare come al video postato ci siano quasi 42.000 likes e oltre 33.000 condivisioni. “Un counter non so quanto attendibile mi dà 2.264.270 visualizzazioni” conclude Raimo. Sempre in merito al video in esame Raimo fa notare che molti degli oltre 14.000 commenti sono di stampo nazista, invocando Mussolini ed un abominevole sterminio dei rom. Si può citare a caso: “bruciateli vivi senza pietà”, “ecco una soluzione ai problemi d’integrazione” (con immagine annessa), “un bel lanciafiamme e risolverei il problema”, “Solo il FUOCO… Fuori dall’Italia!”, “Immondizia umana”, “apriamo i forni e bruciamoli tutti, razza di m—a”, “il duce deve risorgere”, “il NAPALM ci vorrebbe”, “5/6 forni bisognerebbe riaprire”. “Datemi l autorizzazione ve lo sgomberiamo noi quel campo!!!!! In 10 min facciamo un bel lavoro pulito pulito”, “Alle docce!!!”, “Tutti nei termovalorizzatori per alimentare il teleriscaldamento, così i nostri figli non soffriranno il freddo nelle aule scolastiche e queste merde potranno finalmente servire a qualcosa”, “Per un mondo più pulito torni in vita Zio Benito”, “Signori miei l’unica soluzione è la benzina !!!”, “…io invece sono a favore dell’integrazione….. integriamoli nelle strutture del cemento armato delle costruzioni!!!”, “hai ragione, in effetti i rom possiamo tenerli per le sperimentazioni dei farmaci”, “Hitler non ha finito il suo lavoro, peccato…”. Le accuse di razzismo non sono una novità per il Carroccio, ma quasi una costante per la storia del movimento politico che sin dalla nascita ha fatto degli immigrati il primario capro espiatorio per la propria linea politica. Non è un caso che la legge che dichiara illegale l’immigrazione clandestina sia stata concepita dal fondatore storico della Lega, Umberto Bossi, insieme a Gianfranco Fini, e non si può dimenticare la strenua opposizione fatta recentemente all’operazione Mare Nostrum che ha operato negli ultimi mesi nel Mediterraneo. Ci sono stati anche casi di razzismo eclatanti e che coinvolgevano i singoli, come le offese gratuite all’ex ministro Kyenge oppure quando Calderoli paragonò la stessa ex ministro ad un “Orango Tango”.
LA GARA ALL'INTOLLERANZA. LA LEGA INTOLLERANTE SE LE CERCA E GLI INTOLLERANTI SINISTRI AGGREDISCONO.
Ecco perché con le sue affermazioni la lega le aggressioni se le cerca. Violenza gratuita da parte di chi, oltretutto, è abituato ad usare le maniere forti per divulgare il loro credo. Non riuscendoci con gli argomenti, usano la forza….E purtroppo si gli uni, sia gli altri, nel 2000 sono ancora lì a far caciara.
Bologna: Borgonzoni (Lega) aggredita a calci e pugni da una rom, scrive Antonio Del Furbo su “Zona D’Ombra”. Chiesta un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno Alfano. L'aggressione è avvenuta stamattina all'interno del campo nomade di via Erbosa a Bologna. La consigliera comunale in quota Lega, Lucia Borgonzoni, dopo essersi beccata qualche insulto verbale da parte di una donna rom, si è presa un pugno in faccia e qualche calcio. "Fuori! Fuori! Ti spacco la faccia" ha gridato la nomade e subito dopo ha sferrato uno schiaffo alla Borgonzoni. Gli animi si sono surriscaldati e sono sopraggiunti i famigliari della giovane donna che hanno circondato la consigliera. "Via di qui p.....a" ha urlato un uomo, quindi una strattonata da parte della rom. La Borgonzoni, accompagnata dal candidato alla presidenza della Regione Alan Fabbri, aveva da tempo preannunciato la visita al campo. "Siamo stati aggrediti per una visita, annunciata e organizzata - ha detto la Borgonzoni - e questa la dice lunga sulla realtà dei campi nomadi a Bologna" ha aggiunto. "Negli anni che vanno tra il 2007 e il 2012 – spiega la consigliera - ai rom abbiamo pagato 1,5milioni di euro di bollette, a cui vanno aggiunti i costi delle cooperative che vi operano e delle manutenzioni ordinarie e straordinarie, dovute ai danni provocati da certi nomadi. Gli paghiamo casa, bollette, strutture, sanità e servizi d’accoglienza e la risposta sono pugni in faccia, calci e insulti. Serve una risposta fortissima. Subito la chiusura". Ha subito raccolto la richiesta il deputato leghista Guido Guidesi che ha sta predisponendo un’interrogazione al ministro Alfano che, oltre alla chiusura del campo bolognese, pretende che "vengano restituiti i fondi pubblici fino ad oggi stanziati". Fabbri rincara la dose:"In caso di vittoria sosterrò e promuoverò il referendum leghista per ottenerne la chiusura in tutto il territorio". Matteo Salvini che sabato prossimo ispezionerà l'area affonda la lama:"A questa gente che AGGREDISCE e insulta i leghisti, la Sinistra emiliana (a spese di tutti gli italiani) offre gratis acqua, luce e gas! Altro che integrazione! Un voto alla Lega è un voto per chiudere e sgomberare tutti i campi rom".
La leghista Borgonzoni aggredita in un campo nomadi. L'assessore: "Alcuni militanti non erano autorizzati ad entrare". Una ragazzina sinti l'ha schiaffeggiata e insultata. Frascaroli: "Condanniamo la violenza, ma alcuni esponenti del Carroccio non potevano entrare", scrive “La Repubblica”. Uno schiaffo, un calcio e diversi insulti sono stati rivolti da una giovane sinti che vive nel campo nomadi di via Erbosa all'indirizzo della leghista Lucia Borgonzoni, in una visita di carattere elettorale. "Serve una risposta fortissima. Subito la chiusura", tuona l'esponente del Carroccio. Il video è stato pubblicato dal segretario della Lega nord Matteo Salvini. Fra i commenti, c'è chi scrive - raccogliendo consenso - che vorrebbe vedere i nomadi "bruciare uno ad uno vivi". Borgonzoni annuncia che presenterà denuncia contro la giovane che l'ha aggredita. Il segretario della Lega Salvini tornerà a Bologna sabato, e andrà al campo di via Erbosa. Sull'episodio è intervenuta in serata l'assessore al Welfare di Palazzo d'Accuriso Amelia Frascaroli. "Gli esponenti della Lega nord questa mattina sono entrati nel campo di via Erbosa senza autorizzazione - precisa l'assessore -, cosa consentita solo ai consiglieri comunali, e non ad altri come si è verificato. Questo non giustifica le violenze a cui abbiamo assistito. Condanniamo in maniera decisa quanto accaduto alla consigliera Lucia Borgonzoni". Siamo però dispiaciuti - aggiunge Frascaroli - nel vedere provocazioni e mancato rispetto delle regole come strumenti di campagna elettorale, tutto senza il minimo rispetto per la condizione di difficoltà che vivono i sinti italiani - non rom - che da tempo abitano in quel campo. L'amministrazione comunale sta lavorando per il superamento del campo di via Erbosa. Questa è una direzione ormai tracciata, e i consiglieri comunali la conoscono bene. Auspichiamo che la condizione di bisogno ed emergenza umanitaria vissuta da alcune persone, presenti anche nella nostra città, come i profughi, i richiedenti asilo politico, o in questo caso i sinti italiani, non venga più utilizzata strumentalmente ai fini della caccia al voto, perchè deplorevole dal punto di vista umano e politico".
Consigliera leghista presa a schiaffi in campo nomadi. L'aggressione durante un sopralluogo annunciato e organizzato a Bologna. Insorge la Lega: «Mai più soldi a queste strutture, da chiudere subito», scrive Simone Boiocchi su “La Padania”. Doveva essere un sopralluogo per denunciare quella che in Emilia è ormai una triste consuetudine. Invece, alla prepotenza e alla totale noncuranza delle regole, i rom del campo di via Erbosa a Bologna hanno affiancato anche una incresciosa dose di violenza. A farne le spese Lucia Borgonzoni, consigliera comunale di Bologna e commissaria provinciale della Lega Nord, aggredita da una rom ospite del campo, che l'ha colpita con schiaffi, calci e insulti mentre visitava il campo insieme al candidato alla presidenza della Regione, Alan Fabbri. Facendo leva sul suo sangue freddo, la Borgonzoni non ha risposto alle offese e all'aggressione. «Aggrediti per una visita, annunciata e organizzata: questo la dice lunga sulla realtà dei campi nomadi a Bologna - attacca la malcapitata -. A questa gente, tra il 2007 e il 2012, abbiamo pagato 1,5 milioni di euro di bollette, a cui bisogna aggiungere i costi delle cooperative che vi operano e delle manutenzioni ordinarie e straordinarie, dovute ai danni provocati da certi nomadi. Gli paghiamo casa, bollette, strutture, sanità e servizi d'accoglienza e la risposta sono pugni in faccia, calci e insulti. Serve una risposta fortissima. Subito la chiusura». «Un fatto di una gravità inaudita - le fa eco Fabbri -. Solidarietà alla consigliera Borgonzoni, aggredita per il solo fatto di aver voluto vedere che cosa accade in uno dei tanti campi nomadi pagati con i nostri soldi. Nella mia Emilia-Romagna le decine di milioni di euro che la Regione ha speso in questi anni (1,5 milioni solo nel 2014) per "ammodernare" i campi nomadi saranno azzerati e sosterrò il referendum leghista per ottenerne la chiusura in tutto il territorio. Facciamo piazza pulita dell'illegalità». Sulla stessa linea Matteo Salvini, il quale ha annunciando che sabato prossimo sarà nello stesso campo nomadi. L'on. Guido Guidesi ha predisposto un'interrogazione al ministro Alfano per chiederne «l'immediata chiusura» e «la restituzione dei fondi pubblici fino ad oggi stanziati» per l'area. Piena solidarietà a Lucia Borgonzoni anche da Fabio Rainieri, Segretario nazionale della Lega Nord Emilia: «Forse qualcuno pensa di essere superiore alla legge e di poter chiudere le porte in faccia ai rappresentanti dei cittadini. I rom non parlano, non pagano le tasse, pretendono e basta. E come rispondono a chi chiede il rispetto delle regole e delle norme? Con pugni in faccia, calci e insulti. Uno schifo». Ribadisce Fabbri: «Se sarò eletto Governatore, per prima cosa azzererò le risorse ai campi rom e anche ai clandestini, gli hotel a tre stelle che oggi lo Stato garantisce loro devono andare ai nostri disoccupati e agli emiliano-romagnoli vittime della crisi».
Salvini aggredito degli antagonisti, sassi e calci contro la sua auto. "Noi stiamo bene, bastardi". Il segretario della Lega a Bologna si è presentato al campo Rom. Assalto alla sua vettura da parte dei centri sociali. Nella fuga cadono un operatore e alcuni manifestanti. Durissimi i suoi post sui social network. Calderoli invoca la legge del taglione. Il Carroccio chiede le dimissioni di Alfano e la rimozione di questore e prefetto di Bologna. L'assessore Frascaroli: "Minacce di morte su Facebook", scrivono Alessandro Cori ed Agnese Ananasso su “La Repubblica”. L'auto della Lega col parabrezza sfondato e due manifestanti investiti. Così, a Bologna, la visita del leghista Matteo Salvini al campo sinti di via Erbosa (dopo l'aggressione subita da un'esponente bolognese del partito) si trasforma in una giornata di tensione, accuse e insulti. Gli antagonisti che contestavano la presenza del numero uno del Carroccio hanno puntato alla sua macchina, che ha accelerato investendo due persone. Salvini parla di "infami" e "bastardi", solidarizza Roberto Calderoli che parla di "gentaglia". Il sindaco di Bologna Virginio Merola chiede di tenere fuori provocazioni e scontri dalle campagne elettorali. La Lega vuole le dimissioni del ministro Angelino Alfano e la rimozione di prefetto e questore di Bologna. Il culmine della tensione della giornata è stato l'assalto a calci e pugni da giovani dei centri sociali dell'auto con cui il segretario della Lega Matteo Salvini è arrivato a un campo nomadi di Bologna per una visita, contestata da giorni in città. L'auto del segretario della Lega ha accelerato investendo due giovani che cercavano di fermare la vettura. Uno è salito coi piedi sul tetto. La vettura è fuggita seguita a piedi da manifestanti. In Facebook, Salvini ha poi postato la foto della sua auto col parabrezza rotto: "Così gli infami dei centri sociali hanno distrutto la nostra macchina prima ancora che ci avvicinassimo al Campo Rom. Noi stiamo bene. Bastardi". Tensione alla stelle, dunque, a Bologna stamattina. Matteo Salvini è arrivato verso le undici tenendosi a distanza dall'ingresso del campo nomadi di via Erbosa presidiato dalla forze dell'ordine e già teatro di tensioni tra gli antagonisti dei centri sociali, lì radunati, e militanti del Carroccio. Il leader della Lega Nord si è fermato in via dell'Arcoveggio, a poca distanza, per decidere il da farsi con la polizia. Il segretario era accompagnato da Alan Fabbri, candidato alle Regionali, e dalla consigliera Lucia Borgonzoni. Alla domanda: "Volete evitare gli scontri?", Salvini ha risposto: "Non li vogliamo. Vogliamo evitare gli scontri tra centri sociali e forze dell'ordine. Perciò vogliamo cercare ingresso alternativo". Quando alcuni antagonisti hanno saputo che il leader della Lega era arrivato si sono spostati in via dell'Arcoveggio, davanti all'Hippo Bingo. Fabbri e Borgonzoni sono corsi dentro l'auto, Salvini si è messo alla guida, e sono fuggiti. Alcuni manifestanti hanno cercato di bloccare la macchina che nella corsa che ha buttato a terra alcuni giovani. In cofnerenza stampa Salvini ha poi promesso: "Tornerò". Un cronista del Resto del Carlino è stato picchiato e preso a calci al termine della manifestazione delle realtà antagoniste. Il giornalista Enrico Barbetti è stato soccorso e portato al pronto soccorso: si è rotto il gomito sinistro. "Bologna antirazzista e antifascista!". Si firma così una lettera collettiva "da parte delle realtà presenti oggi in via Erbosa". "Qualche giorno fa la consigliera bolognese Lucia Borgonzoni si è recata per una visita elettorale al campo Sinti in via Erbosa richiedendone la chiusura, si è introdotta al suo interno telecamera alla mano, e si è persino permessa di palesare senza mezzi termini il suo disprezzo razzista nei confronti degli abitanti. A quel punto una ragazza, supportata da tutti i presenti, ha giustamente cacciato questo squallido personaggio intimandole di andarsene". "Questa mattina - conclude la nota - a Salvini e alla Lega Nord, come a Milano e altrove spalleggiati dai fascisti del terzo millennio di Casa Pound, sarebbe dunque piaciuto entrare nuovamente nel campo nomadi per dimostrare che loro possono andare dove vogliono e fare quello che pare loro. Ma così non è stato. A presidiare lo spazio insieme ai suoi abitanti c'era anche la Bologna antirazzista, quella Bologna che non si limita a rilasciare dichiarazioni ma pratica l'antifascismo in prima persona, senza delegar nulla a istituzioni sempre più solite a autorizzare manifestazioni di matrice xenofoba e omofoba". Immediate le prese di posizione, il caso diventa politico. Il leghista Roberto Calderoli va giù pesante. "Non è più tollerabile che i balordi dei centri sociali possano continuare ad esercitare violenza e a calpestare le regole della democrazia e del codice penale", afferma. "Si tratta di gentaglia e parassiti che nella propria vita non hanno mai lavorato ed esercitano quotidianamente una forma di fascismo purtroppo, per troppo tempo, tollerato da una sinistra. D'ora in poi se non li fermeranno le Forze dell'Ordine, non porgeremo l'altra guancia, ma varrà la legge del taglione: occhio per occhio dente per dente". "Non siamo in un Paese davvero democratico", tuona Luca Zaia, governatore leghista del Veneto, "se al leader di un partito politico si impedisce con la forza di verificare una situazione ed esprimere le proprie opinioni. Intimidazioni di questo tipo però- conclude Zaia - non sono certo espressione di un popolo che stimo come quello dell'Emilia-Romagna, che non credo proprio condivida questi comportamenti, ma di un gruppo di facinorosi esaltati e violenti. Questo ci conforta e ci rafforza". ''La violenza della sinistra, che oggi ha aggredito Salvini a Bologna e che a Trento ha attaccato la sede della Lega, non fermerà la rivoluzione leghista'': lo dice Erminio Boso, leader dell'ala indipendentista del Carroccio. ''Quel che mi domando - aggiunge Boso - è come mai non vengano mai identificati questi facinorosi che aggrediscono e distruggono. Mi chiedo se Prefetti e questori sono tutti ex sessantottini che lasciano questa gente far violenza come vuole?". "L'assalto a Salvini è certamente gravissimo e va perseguito", commenta Fabrizio Cicchitto (Ncd). "Ma il protagonismo di Salvini mirato per quello che riguarda i tempi e i luoghi ha puntato a sua volta ad incendiare la prateria, innescando processi e reazioni con obiettivi elettorali e demagogici". La collega Barbara Saltamartini: "Ferma condanna" dell'aggressione e solidarietà a Salvini; "La non condivisione delle tesi politiche non può e non deve mai sfociare nella violenza, così come quella che oggi si e' scagliata contro il segretario della Lega Nord". Così Carlo Giovanardi: "C'è chi cerca con impegno l'incidente e lo trova, come Matteo Salvini. Nell'esprimere solidarietà a Salvini e a tutti gli aggrediti dobbiamo purtroppo notare che in Italia invece di chiedere una esemplare punizione per i violenti, i faziosi se la prendono con il ministro, il questore e il prefetto che con l'aggressione di oggi non c'entrano un bel niente". Quella subita da Salvini è "un'aggressione ignorante e barbara perché sacrifica il confronto civile e umilia la democrazia", commenta la forzista Anna Maria Bernini. "Il clima di scontro e di dura contrapposizione che da tempo dilaga nel Paese è' un campanello d'allarme che non può più essere ignorato". "Vigliacca l'aggressione di Bologna, vergognose le parole di Bonaccini", commenta Giorgia Meloni, Fratelli d'Italia. "Solidarietà senza se e senza ma a Matteo Salvini e ad Alan Fabbri". L'ex del Carroccio, il bolognese Manes Bernardini, è convinto che "le provocazioni generano solo provocazioni. Noi non abbiamo bisogno di questo. I problemi della città vanno combattuti e risolti con la forze delle idee e delle proposte politiche. Dobbiamo dimostrare, con un grande senso di responsabilità, che le cose si possono cambiare, senza scatenare guerriglie urbane". Da sinistra reagiscono i candidati presidenti alle Regionali. Stefano Bonaccini, Pd, condanna l'aggressione ma usa parole altrettanto dure contro lo stesso leader leghista: "E' alla ricerca quotidiana di provocazioni e sensazionalismi". Cristina Quintavalla, candidata per l'Altra Emilia Romagna, attacca: "Salvini e Fabbri, fascisti su Marte, Bologna e l'Emilia sono medaglia d'oro per la Resistenza!". Emanuele Fiano, responsabile sicurezza Pd: "Chi tira i sassi ad una macchina è un delinquente. Punto. E chiunque crede di aver titolo di impedire a Salvini di recarsi in visita ai campi Rom, gli fa un regalo. Perché gli consente di giocare il ruolo della vittima, anziché del provocatore". Ignazio Messina, segretario nazionale Idv: "Le aggressioni sono da condannare, come anche le provocazioni e il clima di tensione e di odio generato dalla Lega nei confronti delle minoranze del Paese. Ad ogni campagna elettorale Salvini subisce un assalto: a Napoli per le Europee, a Bologna per le Regionali. Tranquilli: semplici provocazioni elettorali". Ross@ Bologna ricorda "a Salvini a tutti i razzisti e a tutti i fascisti che ci troveranno sempre al nostro posto ad accogliere qualunque 'bastardo senza gloria'". "Alfano si dimetta". Tutta la Lega fa quadrato attorno all'episodio. "Chiediamo - ha annunciato il capogruppo della Lega al Senato, Gian Marco Centinaio- le immediate dimissioni di Alfano. Le sassate ricevute da Matteo Salvini oggi, dimostrano che in questo paese comandano i centri sociali, i rom, i clandestini e i delinquenti". "Per riconsegnare un minimo di dignità alle forze dell'ordine bolognesi penso che il minimo che il ministro dell'Interno possa fare sia - ha fatto eco il vicepresidente dei deputati Gianluca Pini - di rimuovere immediatamente il Prefetto ed il Questore di Bologna: i colpevoli delle violenze a danno della Lega e del suo segretario sono tutte di chi non è stato in grado di difendere le istituzioni democraticamente elette da una banda di delinquenti, peraltro già noti per intimidazioni e violenze". "Tre persone, tra coloro che hanno partecipato all'aggressione, sono state identificate. Due di queste sono già note alle forze dell'ordine". E' lo stringato commento che fa il questore di Bologna Vincenzo Stingone. "Agiremo velocemente nei confronti degli autori dell'aggressione in via Erbosa. E cercheremo di individuare anche gli autori del vigliacco agguato al giornalista del Resto del Carlino". Lo dice all'Ansa il procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini, delegato ai rapporti con la stampa. L'assessore al Welfare Amelia Frascaroli denuncia di essere destinataria di minacce di morte attraverso Facebook. "Vedo molti commenti sulla mia pagina Fb e su quella di Matteo Salvini con gravi insulti e minacce di morte alla mia persona- scrive Frascaroli sul social network- mi spiace, ma anche su questo nulla aggiungo". L'assessore mette sullo stesso piano il Carroccio e i centri sociali. "La Lega e i suoi contestatori hanno giocato l'unica parte che sanno fare- sostiene Frascaroli- da una parte provocare e dall'altra raccogliere provocazioni con l'uso di gratuita violenza. Non c'è nulla da aggiungere, se non che nessuna delle due fazioni rappresenta la città di Bologna". "Condanno l'atto violento ai danni dell'europarlamentare Matteo Salvini ed esprimo solidarietà e vicinanza alle persone rimaste contuse. Vorrei però che le campagne elettorali fossero libere da gesti e azioni che possano provocare tensioni e scontri che ricadono ingiustamente sulla nostra città". E' il commento Virginio Merola, che ha ringraziato "prefetto e questore per la gestione dell'ordine pubblico". La visita di Salvini aveva giù provocato dure reazioni contro in città. Come annunciato, i collettivi e i centri sociali (Xm24, Tpo, Hobo), ma anche Asia-Usb, si sono dati appuntamento davanti al campo dei Sinti. In una cinquantina si sono presentati stamattina, con loro anche Massimo Betti dell'Usb e l'ex Prc Tiziano Loreti. I leghisti - cinque militanti appena - sono arrivati con un cartello "Una firma per chiudere il campo nomadi". Un antagonista ha strappato di mano il cartello. La zona è sempre stata presidiata dalle forze dell'ordine. Il primo ad essere contestato è stato Umberto Bosco, candidato della Lega alle prossime elezioni regionali. "Fascista, vattene. Stai zitto", intonano i contestatori, che espongono striscioni ("Spazza via il razzismo) e gridano slogan accompagnandosi con i tamburi. "L'integrazione dei campi è un fallimento", ribatte il leghista, sommerso dai fischi. "Questa è una città antifascista", gli ricorda Betti. A portare Salvini a Bologna è quanto successo in settimana: una consigliera del Carroccio, Lucia Borgonzoni, insultata e aggredita con uno schiaffo e qualche calcio da una giovane ospite del campo sinti. Al presidio c'era anche l'esponente dell'associazione Nazione Rom, Marcello Zuinisi che attacca: "Due giorni fa abbiamo denunciato Matteo Renzi, Alan Fabbri e il sindaco di Borgaro Torinese Claudio Gambino, perchè la discriminazione nei nostri confronti deve finire". Zuinisi denuncia inoltre "l'anomalia tutta italiana dei campi nomadi, veri e propri lager nazisti", e invita Salvini a "colonizzare un altro pianeta, perchè qui il razzismo non è ammesso". Anche alla luce di quanto avvenuto oggi I Sinti del campo nomadi di via Erbosa chiedono che siano rispettati i loro diritti e la loro sicurezza. Lo ribadiranno domani alle 10 in un incontro al centro "Lino Borgatti" di Bologna. Alla riunione, che fa parte di un ciclo di incontri sulla Costituzione, parteciperanno anche il presidente del Quartere Navile Daniele Ara e Armando Sarti, presidente del Comitato antifascista del Navile. Ci sarebbe stata, scrive l'Ansa, la mancata indicazione di percorso e di programma della visita a Bologna da parte dello staff di Matteo Salvini dietro la mancata presa in consegna da parte della Digos al suo arrivo nel capoluogo emiliano. L'aggressione da parte degli antagonisti sarebbe avvenuta in un luogo che non era stato comunicato alla Questura, che aveva predisposto sin dalle 7 del mattino un servizio di accoglienza e di tutela rafforzato, anche per la visita al campo nomadi di via Erbosa. E' quanto filtra da ambienti inquirenti e investigativi. Salvini è sottoposto a tutela di quarto livello, la più blanda, che prevede che lui possa essere scortato da Milano a luoghi di attività politica, che spetta a lui, da tutelato, indicare.
Matteo Salvini aggredito a Bologna, la Lega Nord: "Angelino Alfano si deve dimettere", scrive “Libero Quotidiano”. “Un abbraccio affettuoso a Matteo Salvini e a chi con lui ha subito la violenza fascista dei centri sociali. Il ministro Alfano deve spiegare". Roberto Maroni su Twitter esprime la vicinanza del popolo della Lega Nord al segretario, vittima di un'aggressione in un campo rom di Bologna durante un sopralluogo "contestato" dall'ultra-sinistra cittadina, che ha pensato bene di accogliere Salvini a suon di sassi contro l'auto, sfondata. L'attenzione politica della Lega, al di là delle polemiche sul "chi ha provocato chi", si sposta ben presto sulle responsabilità di chi doveva garantire l'ordine pubblico, a cominciare dal ministro degli Interni Angelino Alfano. D'altronde, che la visita di Salvini al campo rom fosse "a rischio" era cosa risaputa a Bologna. La Lega: "Alfano, dimettiti" - "Silenzio di Grasso, Boldrini e Renzi: per i benpensanti radical chic l'incolumità fisica dei leghisti non conta nulla. Per loro la vita dei leghisti valga meno delle altre", si lamenta il capogruppo della Lega alla Camera Massimiliano Fedriga, che punta il dito contro il silenzio della sinistra e delle autorità. Più diretto il capogruppo del Carroccio al Senato Gian Marco Centinaio: "Chiediamo le immediate dimissioni di Alfano. Le sassate ricevute da Salvini oggi - osserva Centinaio - dimostrano che in questo paese comandano i centri sociali, i rom, i clandestini e i delinquenti. Tutti coloro che in barba alla legge vogliono imporre le proprie convinzioni restano sistematicamente impuniti, peggio: sono coccolati da stampa e sistema. Vergogna. Tanto non ci fermerete mai, la gente è con noi!". Di fronte alle accuse leghiste, Ncd fa gruppo intorno al ministro nonché suo leader. "L'assalto a Salvini dei centri sociali è certamente gravissimo e va perseguito. Ma il protagonismo di Salvini mirato per quello che riguarda i tempi e i luoghi ha puntato a sua volta ad incendiare la prateria, innescando processi e reazioni con obiettivi elettorali e demagogici - spiega in una nota Fabrizio Cicchitto -. Ipotizzare poi la legge del taglione e una marcia sui campi rom significa scegliere volutamente il fomentare meccanismi di reazioni e controreazioni, assolutamente pericolosi". Sul giornale online del Nuovo Centrodestra, L'Occidentale, si legge: "Visto che non siamo animali a Salvini va tutta la solidarietà del caso per l'aggressione subita oggi dai balordi dei centri sociali. Non è nel nostro stile uscirsene con un Se l'è cercata, né tanto meno abbiamo mai concesso nulla alle teste calde della sinistra antagonista". "Davanti alla reazione della Lega - prosegue polemicamente l'articolo - che puntualmente strumentalizza l'accaduto per tornare a colpire il ministro Alfano, chiedendo la rimozione immediata del Prefetto e dei Questori bolognesi e lasciando addirittura intendere che la polizia abbia avuto la consegna di non intervenire, viene spontaneo suggerire una cosa a Salvini. Visto che da giovane, non troppi anni addietro, era leoncavallino e comunista padano, di casa e sodale dei centri sociali, esperienza di cui a oggi è rimasto soltanto l'orecchino, il segretario della Lega Nord si faccia un esame di coscienza sulla sua storia personale e su certa pratica della politica esercitata fuori dai recinti istituzionali. Lasciando in pace - conclude L'Occidentale - chi suddette ratiche ha sempre condannato e i centri sociali nella sua storia personale li ha visti solo col binocolo».
La solidarietà della Lega per la vile aggressione subita da Matteo Salvini. Il Carroccio si stringe intorno al suo segretario contro la violenza: «Non ci fermeranno mai», scrive Giovanni Polli su “La Padania”. Piena e incondizionata solidarietà la solidarietà espressa dall'interno del Carroccio nei confronti della vile aggressione subita dal segretario Matteo Salvini. A partire da quella del capogruppo alla Camera dei Deputati, Massimiliano Fedriga. «I profeti del "c'è qualcuno sempre più uguale degli altri" - ha dichiarto - si sono palesati anche oggi. Silenzio di Grasso, Boldrini e Renzi: per i benpensanti radical chic l'incolumità fisica dei leghisti non conta nulla. È chiaro che per loro la vita dei leghisti valga meno delle altre. In aula presenteremo subito un'interrogazione al governo». «Come è possibile - si chiede ancora Fedriga - che i delinquenti siano sistematicamente tutelati mentre i cittadini onesti possono essere aggrediti indisturbatamente? Il governo deve imporre lo sgombero dei centri sociali. Sono luoghi di aggregazione di violenti, l'aggressione di oggi ne è l'ennesima dimostrazione». Gian Marco Centinaio, capogruppo della Lega Nord al senato, chiede invece «le immediate dimissioni di Alfano. Le sassate ricevute da Matteo Salvini dimostrano che in questo Paese comandano i centri sociali, i rom, i clandestini e i delinquenti. Tutti coloro che in barba alla legge vogliono imporre le proprie convinzioni restano sistematicamente impuniti, peggio: sono coccolati da stampa e sistema. Vergogna. Tanto non ci fermerete mai, la gente è con noi!», conclude. Anche Il Presidente della Regione del Veneto Luca Zaia esprime la sua «totale solidarietà umana e politica» al leader della Lega Matteo Salvini. «La violenza non fa parte del nostro dna - aggiunge Zaia - e non siamo in un Paese davvero democratico se al leader di un partito politico si impedisce con la forza di verificare una situazione ed esprimere le proprie opinioni». «Intimidazioni di questo tipo però - conclude Zaia - non sono certo espressione di un popolo che stimo come quello dell'Emilia Romagna, che non credo proprio condivida questi comportamenti, ma di un gruppo di facinorosi esaltati e violenti. Questo ci conforta e ci rafforza». «Abbraccio affettuoso a Matteo Salvini - scrive il presidente lombardo Roberto Maroni - e a chi con lui ha subito la violenza fascista dei centri "sociali". Il ministro Alfano deve spiegare», conclude. «Ciò che è accaduto stamattina a Bologna è inaccettabile, una violenza figlia della paura, dell'arroganza e frutto di irresponsabilità politica da parte di chi giustifica in qualche modo queste aggressioni indegne», ha dichiarato Toni Iwobi, responsabile dell'immigrazione per la Lega Nord, sui fatti di Bologna. «Non dobbiamo dimenticare la bellissima esperienza del 18 ottobre scorso a Milano, dove abbiamo dimostrato la nostra maturità e responsabilità politica. La Lega Nord non è per la violenza. Possiamo batterli con l'unico strumento democraticamente approvato: il voto. Preparatevi ora. Siamo un popolo maturo e responsabile. Il nostro Segretario Federale Matteo Salvini non deve essere solo in queste occasioni cosi importanti». «La violenta aggressione da parte di un gruppo di assatanati contro Matteo Salvini è un abominio indegno di un paese che si dice civile. L'auspicio è che ai responsabili vengano inflitte pene esemplari e che siano accertate anche le eventuali responsabilità di chi avrebbe dovuto evitare che la situazione degenerasse». Così il segretario della Lega Nord Emilia Fabio Rainieri e il presidente del Carroccio emiliano Pietro Pisani. «Piena solidarietà al nostro segretario federale, è chiaro che Bologna non coincide con la follia di 50 delinquenti, ma è altrettanto evidente che questa situazione non può andare avanti. E se si è arrivati a questo punto è innanzitutto perché le diverse sinistre, nel corso degli anni, hanno sempre tollerato, fino a lasciare la città in mano a violenti ed estremisti». «Per riconsegnare un minimo di dignità alle forze dell'ordine bolognesi penso che il minimo che il ministro dell'Interno possa fare sia di rimuovere immediatamente il prefetto ed il questore di Bologna: i colpevoli delle violenze a danno della Lega e del suo segretario sono tutte di chi non è stato in grado di difendere le istituzioni democraticamente elette da una banda di delinquenti, peraltro già noti per intimidazioni e violenze». È durissimo, Gianluca Pini, vice capogruppo delle Lega Nord alla Camera, eletto in Emilia Romagna, nei confronti del prefetto e del questore di Bologna, ritenuti rei «di non aver fatto nulla per prevenire l'aggressione a Salvini nonostante le velate minacce dei giorni scorsi, peraltro avallate da Pd e Sel, che ritengo mandanti morali degli atti violenti». Il deputato leghista, annunciando sia una interrogazione parlamentare urgente sia la richiesta di chiarimenti in aula da parte di Alfano, non perdona ai vertici delle forze dell'ordine bolognesi il fatto che «dai filmati è chiaro sia il fatto che la stampa fosse informata dell'aggressione premeditata, sia che hanno potuto agire indisturbati senza che nessuno muovesse un dito a difesa di Salvini. Non è chiaro se le forze dell'ordine non fossero presenti o se abbiamo avuto la consegna di non intervenire: l'unica cosa che mi è chiara - conclude Pini - è che prefetto e questore non sono all'altezza del ruolo che rivestono e forse nemmeno di ricevere uno stipendio vista la loro incapacità di gestire l'ordine pubblico su un evento già segnalato a rischio per colpa di noti ma stranamente liberi, delinquenti». «L'aggressione avvenuta nei confronti di Matteo Salvini è un fatto grave senza precedenti. Un Paese in cui il segretario di uno dei principali partiti politici non può svolgere il proprio lavoro non è degno di essere chiamato civile. E il silenzio assordante delle istituzioni e degli esponenti degli altri partiti è l'inquietante conferma del clima di ostilità che si respira nei confronti di un movimento in costante crescita che forse spaventa chi pensava di avere già tutto apparecchiato». Lo dichiara il deputato della Roberto Caon. «Presenterò un'interrogazione parlamentare su quanto accaduto e nel frattempo ci aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso e punisca i delinquenti che si sono resi protagonisti di questa vile aggressione», conclude. «Hanno paura, il sistema trema di fronte alla bontà del progetto politico della Lega Nord, tanto che tentano di distorcere la realtà. Parlo dei media: oggi i carnefici (i centri sociali) diventano le vittime e le vittime (Matteo Salvini e chi c'era sull'auto) i carnefici». Lo dichiara Jonny Crosio, componente per la Lega Nord della commissione di vigilanza Rai. «Imbarazzante - denuncia -il lancio del TG3 al servizio sull'aggressione subita dal segretario federale della Lega Nord, la giornalista in studio ha completamente ribaltato la realtà. Presenteremo subito un esposto in vigilanza Rai. Basta con la disinformazione di stato, la gente paga un sacco di soldi per questo disastroso servizio pubblico».
IN LEGA TUTTI SI LEGALIZZANO.
Le frasi di Chiara Campo su “Il Giornale”. Matteo Salvini lo ha eletto responsabile immigrazione della Lega Nord a inizio ottobre, sostenendo che «farà più lui in un mese che Cecile Kyenge in una vita». Stesso colore della pelle ma un concetto dell'integrazione diametralmente opposto, quello di Toni Iwoby rispetto all'ex ministro. Da 38 anni in Italia «da regolare» (è arrivato a 21 anni per motivi di studio grazie all'iscrizione all'Università di Perugia) Iwobi, nigeriano, ha 59 anni ed è militante del Carroccio da 21. Ha moglie bergamasca, due figli e due nipoti, guida un'azienda informatica, è stato assessore lumbard e ora capogruppo nel Comune di Spirano, nella Bergamasca, un anno fa si è candidato pure alle elezioni regionali.
L'insulto più frequente che gli avversari rivolgono ai leghisti è «razzisti», non si sente mai in imbarazzo?
«Anzi, credo che la gente dovrebbe svegliarsi. Quando la Lega cerca di difendere la legalità, contesta i clandestini e l'operazione Mare Nostrum non lo sta facendo solo per gli italiani, ma anche per tutti quegli stranieri che vivono qui in modo legale da tempo, pagano le tasse e hanno diritto ad essere tutelati dallo Stato. Con la crisi non riusciamo a garantire un futuro neanche a chi c'è già».
A Milano è esplosa l'emergenza abusivi negli alloggi popolari, tre volte su quattro si tratta di rom o extracomunitari. Chi esce a fare la spesa o è ricoverato in ospedale rischia di ritrovarsi la casa occupata.
«Siamo arrivati ormai al culmine dell'illegalità generale, viene da chiedersi come sia possibile che cose di questo genere possano accadere in un Paese civile del "primo mondo", ma questo succede anche perché vengono minimizzate dalle autorità di sinistra».
La casa popolare sta diventando un miraggio anche per i milanesi o gli immigrati che come lei sono qui da lunghissimo tempo. La metà degli alloggi ormai viene assegnata a stranieri: ha ragione il centrodestra a chiedere di alzare il tetto della residenza?
«Cinque anni ormai non bastano più, e forse vanno ripensati anche gli attuali criteri di selezione, per poter assegnare gli alloggi a tanti nostri pensionati che vivono un momento di disagio inconcepibile».
La giunta Pisapia sta per mettere all'asta spazi per le moschee e la Lega raccoglie firme contro. Anche su questo è in linea con il suo partito?
«Certo, diciamo di no. La moschea che hanno in mente alcune comunità islamiche non è solo un luogo di preghiera come quelli che ho conosciuto anch'io da piccolo, nel mio Paese, ma una sede dove fare politica contro la nazione che li ospita, è un'altra cosa. E senza leggi e garanzie di sicurezza non vanno consentite».
Come giudica i controlli sugli immigrati?
«Ogni Paese civile ha il diritto di sapere dove va, dove vive, cosa fa ogni straniero che ci entra, ricordo che quando arrivai, 38 anni fa, i controlli erano massicci ed era giusto così, infondevano sicurezza. Non è più così. E Mare Nostrum è una sberla morale sia agli italiani sia a chi si è integrato con un percorso fatto prima di tutto di doveri e poi di diritti. Non porta nulla di buono se non clandestinità, e quando il Paese ospitante è in sofferenza i suoi ospiti soffriranno maggiormente, quindi si pensi prima agli italiani aiutando gli extracomunitari a casa loro».
Non è solo uno slogan?
«Le parlo per esperienza, io e un connazionale d'origine in 5 anni abbiamo creato un'associazione che, con poche risorse accumulate insieme al governo africano, ha favorito l'apertura di due cliniche in loco e la formazione di 30 infermieri e i medici. Quanto potrebbero fare istituzioni e grandi enti?».
LA LEGA SUL LASTRICO PER LADROCINIO?
Lega Nord, dal 1° dicembre 2014 chiude La Padania. Salvini: “Colpa di Renzi”, scrive F.Q su “Il Fatto Quotidiano”. L'annuncio sulla prima pagina del giornale. Dal mese prossimo offline anche il sito. Il segretario attacca il taglio dei fondi all'editoria. Ma il comitato di redazione del quotidiano accusa le scelte di via Bellerio. Addio a La Padania e al suo sito. Se Matteo Salvini continua a crescere nei sondaggi, il giornale cartaceo e online di riferimento della Lega Nord chiudono i battenti dopo 18 anni. E così, dal 1 dicembre il giornale del Carroccio non sarà più in edicola. Lo scrive lo stesso giornale, sulla prima pagina dell’edizione di oggi. Venerdì 7 novembre è stato infatti comunicato al Comitato di redazione l’avvio della cassa integrazione per tutti i dipendenti dell’Editoriale Nord a partire appunto dall’1 dicembre prossimo. Responsabile della chiusura, secondo il segretario Salvini, sono i tagli all’editoria stabilito dal governo Renzi. Ma il sindacato dei cronisti interno all’azienda attacca anche la dirigenza di Via Bellerio che “nonostante le prospettive di crescita dei consensi politico-elettorali che tutti i sondaggi le riconoscono, ha deciso di non rinnovare il proprio contributo al bilancio dell’Editoriale Nord.” Una scelta motivata dal fatto che “la Lega è al risparmio su tutto”, ha detto il leader del Carroccio all’Ansa, a cui ha poi fornito i motivi dello stop alle pubblicazioni. Salvini, peraltro, dal 2006 al 2013 è stato anche direttore di Radio Padania, unico media di partito per il quale non sono stati annunciati tagli. “In questo caso si tratta anche dell’ennesimo bavaglio calato dal Governo Renzi – ha detto il leader leghista – che riduce i contributi per l’editoria che esistevano da anni”. “Oltre che la Padania – ha aggiunto Salvini – stanno chiudendo e chiuderanno centinaia di piccole testate locali e di settimanali storici e chi ci perde è solo il territorio e la libertà di informazione“. Per quanto riguarda la situazione lavorativa dei giornalisti del quotidiano, però, il numero uno del Carroccio ha cercato di tranquillizzare: “La Lega è al risparmio ma comunque – ha detto – non ci arrendiamo e, coinvolgendo i giornalisti della Padania, stiamo lavorando per trovare una soluzione per rimanere quantomeno su internet”. Al momento, però, anche il sito internet del quotidiano terminerà le pubblicazioni. La versione fornita da Salvini, ricalca in parte quanto scritto oggi sul quotidiano. “L’attuale situazione è il risultato del drastico taglio del fondo per l’editoria operato dal governo Renzi – si legge in prima pagina – In tal modo si infligge un durissimo colpo al pluralismo e alla libertà dell’informazione garantiti dai principi costituzionali, aggravando in modo drammatico l’emergenza occupazionale che affligge il settore editoriale“. Le colpe? “Di Roma” fa sapere La Padania. Ma da parte del comitato di redazione non mancano le critiche ai vertici del partito nella gestione della crisi del giornale. “Anche in via Bellerio è stata fatta una scelta politico-editoriale che ha condotto alla cancellazione di una testata che da quasi 18 anni ha rappresentato l’unica voce delle battaglie del Movimento e che ad oggi è l’ultimo quotidiano di partito sopravvissuto in edicola – è scritto in prima e sul sito del giornale- La Lega infatti, nonostante le prospettive di crescita dei consensi politico-elettorali che tutti i sondaggi le riconoscono, ha deciso di non rinnovare il proprio contributo al bilancio dell’Editoriale Nord.”
Lega Nord, non vuole più soldi da Belsito per lo scandalo fondi: no a parte civile, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. La revoca al mandato degli avvocati dentro il processo all'ex tesoriere decisa dal segretario Salvini: "Chiedere soldi a chi non li ha è una perdita di tempo e poi sono cose che fanno parte del passato". Ma nel 2012, nelle settimane delle ramazze sul palco delle feste del Carroccio, parlava di calci nel sedere e defenestramenti a chi "abusa della fiducia". Non è più il tempo delle ramazze colorate con il Sole delle Alpi. La Lega Nord preferisce l’oblio, ora che nei sondaggi cavalca come Furia e nessuno si ricorda più della storiaccia legata al nome dell’ex tesoriere Francesco Belsito, accusato di frequentazioni con gente poco raccomandabile e soprattutto di aver trasformato i soldi dei rimborsi elettorali del partito in investimenti a Cipro e in Tanzania, ma anche in diamanti. Il segretario Matteo Salvini ha dato mandato agli avvocati che rappresentano il Carroccio di revocare la costituzione di parte civile nel processo che vede imputato il suo vecchio cassiere. I motivi sono due, spiega Salvini: il primo, “sono cose che fanno parte del passato”; il secondo, spiacerebbe, al leader della Lega candidato a diventare il nuovo capo dell’intero centrodestra, “intasare i tribunali andando a chiedere quattrini che certa gente neppure ha: in ogni caso noi non possiamo spendere soldi e perdere tempo in cause che durano anni”. Dunque i legali della Lega non presenzieranno ai processi di Milano e Genova in cui l’ex amministratore Belsito dovrà rispondere della distrazione dei soldi raccolti legalmente dal partito per fare cose che con un partito non c’entravano nulla. Gli avvocati del Carroccio escono da tutti i dibattimenti: non faranno domande, non potranno formulare richieste ai giudici al momento delle conclusioni, non potranno far valere la voce del partito e soprattutto non potranno tentare di recuperare il maltolto, interamente o in parte che sia. Sarà come dice Salvini – cioè che è un processo quasi inutile per il Carroccio – ma la decisione ha sorpreso perfino il suo predecessore che sull’onda dello scandalo diventò segretario federale quasi per acclamazione, Roberto Maroni: “Ho letto questa cosa, voglio sentire Salvini su questo punto”. A Piacenza più tardi incalza: “Parlerò con Salvini – risponde a una domanda di Piacenza24.eu – voglio capire perché ha preso questa decisione visto che noi c’eravamo costituiti. Avrà le sue buone ragioni, immagino”. Fu lui, Maroni, a salire sul palco della fiera “dell’orgoglio leghista” con in mano la ramazza vecchio stile. Era l’aprile 2012.Salvini questa ventata di freschezza piacque tantissimo. Proprio a Bergamo diceva: “Noi vogliamo soprattutto pulizia e trasparenza e chi non è in grado di garantirli esce dalla Lega”. Pochi giorni prima assicurava: “Tutti in Lega vogliono trasparenza e pretendono chiarimenti su qualsiasi centesimo di euro usato. Ci fidiamo uno dell’altro ma se qualcuno abusa di questa fiducia si butta giù dalla finestra“. Consultò senza esitazioni il meglio del dizionario leghista: “Se qualcuno in Lega sbaglia lo prendiamo a calci nel sedere“. Un anno dopo Belsito fu arrestato. “Per fortuna è soltanto una pagina, una brutta pagina, di un passato che non ritornerà” giurava Salvini quel giorno su facebook. Da allora, aggiungeva “la Lega ha cambiato, ha ripulito, è ripartita e sta lavorando bene”. Poi, ha concluso, “chi ha sbagliato ha pagato o pagherà, la Lega lavora per il futuro. Anzi, alla faccia dei gufi, la Lega è il futuro”. Maroni: “Sentirò Salvini, perché noi avevamo deciso di farlo. Avrà le sue buone ragioni, immagino”. Ma anche Salvini, come tutti i dirigenti della Lega Nord, finì tra i racconti di Belsito, negli interrogatori davanti ai magistrati. Circostanze sulle quali i pm non trovarono riscontro e infatti il segretario non è mai stato indagato. L’ex cassiere parlò in particolare di presunti fondi neri: “Il nero che gli imprenditori versavano venva utilizzato a volte per la campagna elettorale dagli esponenti politici e veniva gestito senza passare dalle casse del partito”. “Ricordo – disse Belsito – che Bonini, in quota Lega alla Sea (Giuseppe Bonomi è un ex deputato leghista mentre la Sea è la società che gestisce gli aeroporti milanesi, ndr), diede in contanti 20mila euro a Salvini. Salvini, per sanare i suoi obblighi verso la Lega, intendeva girare al partito questa somma, cosa che non mi risulta sia avvenuta”. “Fango, fango fango, non ho parole, sono palle, del resto i magistrati hanno già archiviato…” reagì furibondo il segretario. Disse anche che avrebbe querelato “perché qualche querela ogni tanto fa bene”. Non è noto che fine abbia fatto la querela di Salvini a Belsito, ma se l’approccio è lo stesso il percorso giudiziario potrebbe essersi già concluso. Ora il contrordine. La moralità perduta secondo i vertici della Lega è evidentemente già stata riconquistata, nonostante il partito non abbia fatto valere una propria posizione né nei confronti di Belsito né nei confronti di Umberto Bossi e i figli Renzo e Riccardo, rinviati a giudizio con citazione diretta con l’accusa di appropriazione indebita per le presunte spese personali con i fondi della Lega. La parte del procedimento che riguarda, invece, la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro è stata trasmessa a Genova per competenza territoriale. In questo filone sono imputati il Senatur, tre ex componenti del comitato di controllo di secondo livello della Lega (Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci) e ancora Belsito.
BESTIARIO NAZIONALE.
Bestiario nazionale di Giovanni Jannuzzi su “Futuro Europa”. Un’importante rivista italiana pubblica ogni settimana una rubrica con la lista (temo incompleta) delle maggiori stupidaggini dette dai nostri politici. È una specie di “bestiario nazionale” che farebbe ridere se non facesse rabbrividire, al pensiero che i suoi protagonisti sono persone che partecipano in diretta alla nostra vita pubblica, dovrebbero essere modelli di moderazione e di buon senso, e invece paiono impegnati in una gara a chi la spara più grossa. A suo tempo, questa era una prerogativa di Berlusconi (ricordate il libriccino Berlusconnades pubblicato da alcuni giornalisti francesi e al quale ho spesso fatto allusione?). Ora, però, ha trovato emuli che lo superano di molto e ce lo fanno quasi rimpiangere. Ospite abituale della rubrica è un certo senatore Razzi, di Forza Italia, un vero peso massimo della sciocchezza, uso ad un turpiloquio da bettola ma anche ad uno sconcertante candore; giustifica la sua posizione contraria allo scioglimento delle Camere con un argomento nobilissimo: “Ho famiglia. Che faccio, non posso mica rimanere disoccupato a 60 anni!”. Ma il campione assoluto è senz’altro Beppe Grillo. Non stiamo a ricordare tutte le bestialità che ha detto in questi anni, tutte da Guinness dei primati. Limitiamoci all’ultima (testuale, dal suo blog): “La mafia è stata corrotta dalla finanza; prima non metteva bombe nei musei e non dissolveva bambini nell’acido; aveva un suo codice d’onore!” Bravo, cento e Lode! Cari, poveri, romantici, in fondo onorati mafiosi corrotti da Passera! Raccapricciante è anche la polemica apertasi tra di lui e il Presidente della Regione siciliana, Crocetta (ma non governava con l’appoggio dei grillini?). Grillo: “Crocetta non si sa cosa sia, da nessun punto di vista. Ma non voglio entrare in particolari nauseabondi“ (NdA: una deputatessa della Lega, più esplicitamente, ha chiamato il Presidente siciliano “Frocetta”). E Crocetta, di rimando: “Grillo è un barbaro che cerca i voti della mafia, è xenofobo e razzista, insulta le persone anche per le loro scelte individuali”. Niente male! Apro una parentesi: è ovvio che le “scelte individuali” riguardano solo chi le pratica; a me danno però un poco fastidio quelli che ne fanno una specie di tiolo di merito.
Nella categoria “pesi massimi” va messo di diritto anche un recidivo cronico, l’ineffabile Mario Borghezio, leghista a diciotto carati (uno che fa apparire Calderoli e Salvini moderati gentiluomini inglesi): “Hitler io lo considero un artista; ha fatto meno danni della Merkel” (mica tanto strana, una bestialità così monumentale, da uno che pensa che l’Olocausto è un’esagerazione degli ebrei e che gli immigrati musulmani andrebbero sterilizzati). Una domanda mi turba: ma chi li vota, questi insensati? E perché ci tocca pagare loro fior di stipendi?
E come non includere tra gli insensati, almeno a titolo transitorio, la signora Camusso?: “Renzi lo hanno messo lì i poteri forti”. Ma non era stata eletto segretario nelle primarie del PD (cioè dal partito a cui si suppone la signora aderisca) da milioni di elettori? Non ha vinto le elezioni europee? Io, poi, questa storia dei poteri forti è una vita che cerco di capire chi sono: Mediobanca? Confindustria? La CIA? (fatto il debito accertamento, pare che la signora si riferisse a una frase dell’AD della Fiat-Chrisler, Marchionne, che tra tante doti non ha quella del silenzio). E mi chiedo, perplesso e pensoso: ma qual è la strategia della Camusso e dell’intera CGIL? Non capiscono che, se riuscissero a far cadere Renzi, al potere non ci andrebbe, non Fassina, né Vendola ma, con ogni probabilità, Berlusconi?
Nella categoria “insopportabile leggerezza dell’essere” metterei poi l’ex-segretario dei DS, Achille Occhetto. È un personaggio per il quale confesso di nutrire una carta tenerezza. Lo ricevetti vent’anni fa alla NATO, mi toccò rassicurarlo e consolarlo (capitò alla NATO il giorno in cui caccia alleati abbatterono aerei serbo-bosniaci; Occhetto quasi sveniva dall’apprensione e si rifece un po’ solo quando gli dicemmo che la TASS non aveva criticato l’operazione, che tra l’altro rispondeva a una risoluzione delle Nazioni Unite). Tornò anche in seguito al Quartier Generale dell’Alleanza, dove fece un discorso inintelligibile, confondendo più volte la NATO e l’ONU. Mi parve sempre di buona fede ma di una disarmante sprovvedutezza, degno però di rispetto per la sua sofferta “svolta della Bolognina”. Ora, in un’intervista a La Repubblica, ha sentenziato che quella svolta “è stata tradita” (ma non sarebbe decente che chi è stato regolarmente battuto se ne stesse zitto e buono?). Tutta l’intervista è una serie di accuse ai suoi successori, visti come uno più opportunista e preoccupato del potere dell’altro (dopo vent’anni, si è tolto vari sassolini dalle scarpe, il buon Achille: la vendetta è un piatto che si mangia freddo!); ma la perla è questa: dal comunismo, a suo avviso, si doveva uscire “da sinistra”. Da sinistra? Cosa c’era, cosa c’è, a sinistra del comunismo? Trotzki? La Rivoluzione permanente? Fidel Castro? Chavez? Nicki Vendola? Le reti sociali? Hezbollah? Ma non si è accorto che quel tipo di sinistra è morto e sepolto dappertutto nelle macerie del “socialismo reale”, salvo che da noi dove però è, per fortuna, minoritario? Non ricorda la sonora batosta che prese la sua “gioiosa macchina da guerra” armata con slogan di quella sinistra, per mano di un Berlusconi che proclamava una crociata liberale (mai realizzata, ma questa è un’altra storia)? Il comunismo aggirato “da sinistra”. Roba da far fremere tutto l’antico Politburo! Storia antica, fritta e rifritta. Del resto, volete sapere come si chiama il giornalista che intervistava Occhetto: Concetto Vecchio. Pare fatto apposta!
Infine, parliamo del camerata Gasparri, non nuovo al bestiario nazionale. La professoressa Sandulli ha ritirato, per ragioni che non condivido ma che tuttavia la onorano, la sua candidatura a Giudice della Corte Costituzionale (con molto dispiacere di chi, come me, venerava suo padre Aldo Sandulli come grande costituzionalista e maestro di civismo e ammirava lei come degna continuatrice). E l’ometto ha subito crepitato: “Avete visto? Si era permessa di parlar male di Forza Italia? Archiviata!”.
Ma quando ci decideremo ad archiviare i vari ometti che rendono farsesca una parte della nostra vita pubblica?
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
SETTENTRIONALI E/O LEGHISTI SE LI CONOSCI BENE …LI EVITI.
Tutti i settentrionali sono leghisti. Leghisti di sinistra e “maiali” italiani, scrive Pier Paolo Flammini su “Riviera Oggi”. Rinfacciavano alla Lega Nord un eccesso di egoismo e razzismo nei confronti dei meridionali. Ora invece condividono le identiche politiche su scala europea, nonostante loro stessi ne siano vittime. Paradossi di una nazione privata di un aspetto fondamentale: l’orgoglio di lottare per la libertà. Sì, voi. Quelli che “i leghisti sono egoisti, non vogliono che i soldi del nord finiscano nelle regioni del sud Italia, ma se siamo in una nazione le zone più ricche devono aiutare quelle più deboli“. Sì, voi, quelli che “offendono i meridionali, dicono che sono corrotti, mafiosi, sperperano il denaro pubblico delle loro tasse”. Voi, quelli che adesso dite, al bar, in famiglia, al lavoro: “Ma certo che i tedeschi non ci vogliono prestare soldi (???), noi italiani siamo ladri, corrotti, imbroglioni, inaffidabili, fanno bene, fanno” (e col pensiero, senza il coraggio di dirlo: “Andiamo puniti, ce lo meritiamo, siamo un popolo inferiore”, così ammettendo implicitamente l’esistenza di popoli invece superiori e innescando una inedita e masochistica forma di razzismo). Voi, quelli che dicono: “Se vogliamo l’Europa unita, è giusto che ci adeguiamo alle loro regole. Loro sono bravi, noi no”. Voi, che neppure avete l’orgoglio di ribellarvi se tutta la stampa europea vi chiama Maiali (Piigs), molto peggio dei meridionali che mai hanno mollato di fronte alle cafonate leghiste dei terun. Senza orgoglio, senza spirito critico, senza analisi. Voi, leghisti di sinistra.
I politici della Lega Nord sono abituati a sparare dichiarazioni shock e razziste per far leva sul proprio elettorato, scrive “Nano Press”. Oltretutto dopo lo scandalo Belsito, che ha scoperchiato il malaffare interno al Carroccio con numerose espulsioni e allontanamenti, i leghisti vogliono recuperare voti visto che il proprio partito è crollato nei sondaggi. E allora cosa propongono per contrastare le ruberie dei politici, i privilegi della casta e il malaffare in politica? Nulla di nulla, ma ritornano a fare campanilismo attaccando gli immigrati e i meridionali, rilanciando il ridicolo tema della secessione. Alcuni giorni fa l’europarlamentare del Carroccio Matteo Salvini parlando della crisi dell’euro ha nuovamente attaccato i meridionali e in particolar modo il Sud con dichiarazioni razziste e assurde. Come mai? L’obiettivo è quello di spostare l’attenzione su temi che non hanno ragion d’esistere con lo scopo di archiviare in fretta e furia lo scandalo Belsito e le ruberie interne al partito che hanno travolto il Senatur Umberto Bossi e suo figlio, il Trota.
A lanciare il primo sasso nello stagno ci ha pensato l’attuale leader del Carroccio Roberto Maroni che ha affermato che l’unica possibilità per salvare l’euro è ristrutturare l’attuale Unione europea creando macroregioni formate non più da Stati ma da aree geografiche, come per esempio Germania, Francia, Benelux e Nord Italia che condividano dati macro economici in grado di rispettare il pareggio di bilancio. E il Sud? Perché questa discriminazione? La motivazione l’ha data Matteo Salvini ed è stato come sempre molto lungimirante. «L’euro non se lo meritano. La Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio – ha asserito il parlamentare europeo -, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta. L’euro non se lo può permettere». Ma non è la prima volta che Salvini attacca i meridionali. Come si fa a dimenticare il suo coro da stadio ricco di insulti e offese razziste contro i napoletani? Durante la festa di Pontida nel 2009 è stato infatti ripreso in un video mentre intona un coro discriminatorio: “Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. Davvero vergognoso! Di Salvini sono famose non solo le sparate contro i meridionali, ma anche quelle contro gli immigrati per aizzare il popolo della Lega: “Uomini della padania, questi bingo bonghi col cazzo lungo vogliono scoparci le mogli, le nostre donne!“. Oppure la proposta choc contro gli immigrati avanzata il 7 maggio 2009, in occasione della presentazione dei candidati milanesi della Lega Nord alle elezioni provinciali del 6 e 7 giugno. In quella occasione ha proposto di usare i vagoni della metropolitana del capoluogo lombardo solamente alle donne e ai milanesi, escludendo immigrati e meridionali. Oppure le sue battaglie discriminatorie nei confronti dei rom. Tutti i cittadini italiani (compresi quelli del Sud) consentono a questi politici di fare la bella vita con vitalizi, stipendi e pensioni d’oro e questi piuttosto di risolvere i problemi del Paese nelle rispettive sedi istituzionali nazionali ed europee pensano a fare demagogia e populismo medievale, offendendo e umiliando anche coloro che gli consentono di avere un tenore di vita alto? Sono questi coloro che ci rappresentano in Italia e in Europa? Perché nessuna istituzione nazionale o europea interviene contro tutti questi politici che offendono e disprezzano l’unità d’Italia e per di più si divertono a lanciare offese e insulti razzisti e xenofobi?
Quel Salvini direttore di Radio Padania.
Radio Padania, 1,5milioni di soldi pubblici, per insultare meridionali e stranieri. «Premetto: non conoscevo l’esistenza fino a qualche giorno fa di Radio Padania, dopo una ricerca On-line sulle vostre trasmissioni, ho notato che oltre a regalare “inni patriottici padani, ed insulti gratuiti a meridionali / Terroni come da voi definiti”, vi prendete il privilegio etichettare i meridionali come mafiosi, ignoranti, nullafacenti e quant’altro… Adolf Hitler (capo nazista tedesco) riteneva il popolo ebreo appartenente ad una razza inferiore, per questo dovevano essere riconosciuti, etichettati e sterminati. In Italia abbiamo una Radio Padania, che fortunatamente non può sterminare i meridionali, ma si arroga il diritto di denigrarli ed insultarli in ogni modo. “”Il garante delle telecomunicazioni ignora tutto ciò, senza prendere alcun provvedimento contro questa emittente , la quale giornalmente regala insulti gratuiti ai meridionali”". Sinceramente non riesco a darmi una spiegazione logica alla vostre tristi e penose “provocazioni”, ma credo semplicemente che le motivazioni di gesti tanto orrendi ed insensati, non possono che trovarsi se non nell’ignoranza e nella poca cultura che persiste nella vostra vita… É più facile spezzare un ATOMO, anziché uno stupido PREGIUDIZIO… “VI PREGO DI NON OFFENDERE, NON SCENDETE AI LORO LIVELLI” noi Italiani siamo persone CIVILI… Inoltre, l’insulto, è solo dimostrazione della scarsa intelligenza di chi lo proferisce. Uno dei tanti mafiosi, ignoranti, nullafacenti di nome: Andrea Mavilla.»
Ma non solo. Torna l’insulto allo stadio. Si potrà urlare: “Napoli colera” e altre offese da stadio legati alla discriminazione territoriale. Il consiglio federale della Figc ha approvato la modifica della norma sulla discriminazione territoriale che andrà immediatamente in vigore. Si è intervenuti sui testi dell’art. 11 e 12 del Codice di giustizia sportiva. Non costituisce più un comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, quella condotta che era da considerarsi, direttamente o indirettamente, di “origine territoriale” (ex art. 11).
Ci è capitato spesso di raccontare storie di odio e di razzismo ai danni del popolo napoletano. Tra i commenti più in voga la presunta mancanza di pulizia partenopea che, nel corso degli anni, ha dato vita ad una serie di coloriti insulti tra cui quello da noi ritenuto il più odioso e insopportabile: “Dai Vesuvio lavali col Fuoco”. Eppure sfugge ai più che Napoli, così come il regno delle due Sicilie nel suo complesso, in fatto di pulizia fece scuola in quella che qualche tempo dopo divenne l’Italia Unita! In tal senso potrebbe essere utile raccontare ai più ignoranti e ai meno informati, che proprio i Borbone furono i primi a portare in terra “italiana” il bidet (simbolo per eccellenza di pulizia ed igiene). A raccontare la storia, lo scrittore e giornalista Roberto Saviano. Secondo i documenti ufficiali, quando i piemontesi “occuparono” Caserta appropriandosi della Reggia, nell’inventario ufficiale delle bellezze e dei tesori ritrovati all’interno delle stanze, il bidet non fu riconosciuto. Assolutamente ignari della funzione di quello strano arnese, i piemontesi scrissero nel loro registro “Oggetto sconosciuto a forma di chitarra”. Basta fare due conti, anche abbastanza approssimativi, per trarre una conclusione inevitabile: “Quando a Napoli ci lavavamo il sedere, nel resto d’Italia proliferavano piattole, sporcizia e sudiciume..” e poi quelli che hanno bisogno di una lavata, saremmo noi? Segnaliamo a chi volesse approfondire la questione un video a cura di Angelo Forgione sulla storia e le origini di quel famoso.. arnese a forma di chitarra!
Eppure vanno al Sud, promettendo sfracelli. Matteo Salvini come Berlusconi: una Lega per il Mezzogiorno, scrive Angelo Calemme su “Vesuvio Live”. Dopo Berlusconi e il Partito per l’autonomia del Sud, dopo gli esperimenti indipendentisti e secessionisti, dopo i comunisti di Rizzo e il Nuovo Partito Comunista, Matteo Salvini rilancia l’azzardo e cerca di inventare, dall’oggi al domani, una nuova soggettività politica. Salvini annuncia la nascita di una nuova identità, un sogno allucinatorio, una identità fantasmatica per il sud Italia e tutti gli elettori amici della Lega. Quasi come si crea un gruppo Facebook, Matteo Salvini testimonia la fondazione di un partito per i “leghisti” e i simpatizzanti del Sud. Essi potranno riconoscersi in un eroe “meridionale” Alberto da Giussano. Dalle Cronache storiche del frate domenicano Galvano Fiamma, direttamente dal XIV secolo, e per compiacere non solo l’allora Signore di Milano Galeazzo Visconti, ma anche Umberto Bossi, Salvini elegge l’eroe lombardo a mito fondatore della Lega meridionale e della presunta battaglia contro l’Impero europeo e la tirannia dei banchieri e dei migranti. Come Alberto da Giussano, che difese la Lega lombarda e il suo ideale comunale e guelfo di indipendenza e si contrappose a Federico I Barbarossa – imperatore del Sacro Romano Impero – nella battaglia di Legnano del 1176, Salvini chiama alla resistenza e alla lotta per la difesa del Caroccio una rinnovata Compagnia della Morte. Non più sbandati, guerrafondai e cavalieri dei Comuni e della periferia lombarda saranno chiamati, verranno arruolati alla causa la nuova periferia metropolitana e leghista di Milano, il resto dell’Italia e soprattutto il Mezzogiorno. Come nei casi di Lodi, Como e Pavia nel XII secolo Salvini, per la causa della Lega Nord e per la sua stessa sopravvivenza politica è disposto ad attaccare, schiacciare, distruggere, o ignorare, la cultura e l’identità millenaria del Meridione e dei meridionali. Ancora una volta, parzialmente, sia la retorica risorgimentale, sia i deliri di autonomia settentrionale di Bossi e Compagni, sembrano minacciare il Sud. Vari elementi a sfavore di Salvini e della Lega Nord: il primo tra tutti è la totale inesistenza di un’identità leghista meridionale; la totale mancanza di una realtà materiale, sociale ed economica, a sostegno di una lotta per una Lombardia allargata, e da cui segregare una soggettività di tale struttura e aspirazione; la diffusa e capillare cultura politica duosiciliana e revisionista neoborbonica; il totale fallimento degli intenti secessionisti di questi anni; il risentimento secolare delle genti del Mezzogiorno contro i saccheggi, le strumentalizzazioni, gli assistenzialismi, le colonizzazioni, gli espropri, le umiliazioni, i razzismi dei lombardi (i cui in gran parte sono meridionali) in particolare e dell’Italia Settentrionale risorgimentale e filo-savoiarda in generale. Forse l’unico appiglio possibile per il progetto salviniano è la totale assenza di un’alternativa politica seriamente credibile a livello nazionale. Tra un berlusconismo dilagante e un grillismo incostante, e inconcludente, l’elettorato meridionale (una volta rosso oppure, classicamente, reazionario) potrebbe resuscitare la Lega e il suo etnoregionalismo politico, sulla scia di una semplice simpatia da socialnetwork, oppure per la mancanza nel Meridione di punti di riferimento autoctoni forti. Certo è che Salvini riscopre un anacronistico meridionalismo reazionario propenso a remare contro il mezzogiorno stesso e l’Europa attuale (in relazione alla quale ormai non si può, storicamente, parlare di meridionalismo) in difesa dei privilegi dei pochi e delle illusioni dei molti. Coraggioso, per non dire patologico, rimane questa progettualità. Essa, molto probabilmente, non avrà gli esiti sperati. La proposta di Salvini è fuori da qualsiasi ipotesi di reale, si regge, come dicono i milanesi, su “fuffa”, su un’inconsistente credenza secondo cui è possibile fondare un’identità dal niente, a tavolino. Qualsiasi tipo d’identità, o di soggettività politica, può nascere solo da una consolidata serie di condizioni storico-materiali, sociali ed economiche empiriche. Come si può solo pensare alla possibilità di creare una Lega o un Partito del Sud senza un’identità, senza un popolo etnoregionale meridionale e filo-lombardo? Berlusconi almeno aveva giornali e televisioni, insieme a una realtà industriale enorme, per costruire un popolo, un’identità, o ciò che alcuni hanno chiamato semplicemente una “massa primaria compiacente” e “suscettibile di essere comandata dall’ideale della massa in carne ed ossa di turno”, ma è riuscito a realizzare tutto questo in vent’anni e non in due giorni. Salvini, sicuramente, avrebbe bisogni di consulenti diversi, e sicuramente di filosofi con i piedi per terra e più abituati a pensare criticamente.
Comunque sempre di gente meridionale si tratta. Avulsa al pensamento.
Salvini alla conquista del Sud, nel paese dove la Lega è il primo partito. Sempre più frequenti le incursioni del segretario. Aumentano i posti dove non è più visto come un nemico, scrive Alberto Mattioli su “La Stampa”. Garibaldi al contrario. Da quando ha deciso che la Lega non può restare confinata al Nord, il giovin segretario Matteo Salvini moltiplica le calate al Sud, con esiti alterni («Ma a Napoli dove mi hanno contestato tornerò entro l’autunno»). Ieri è toccato a Maletto, in Sicilia, quattromila abitanti sulle pendici dell’Etna accanto a Bronte, dove i garibaldini, quelli veri, non hanno lasciato dei bei ricordi. La scelta parrebbe eccentrica, ma la spiegazione c’è. Qui alle Europee la Lega è risultata il primo partito: 32%, insomma un elettore su tre del profondo sud che vota per il partito del profondo nord. Il merito è dell’ancor più giovin candidato, Antonio Mazzeo, 25 anni, ma anche del fatto che il Carroccio non partiva da zero: al suo gruppo parlamentare ha aderito Angelo Attaguile, deputato siciliano di lungo corso, ex Mpa dell’ex governatore Lombardo, che non sembrerebbe proprio il nuovo che avanza: «Degnissima persona», giura però Salvini. Che delinea la strategia per scendere sotto Roma senza inquietare i leghisti che stanno sopra: «Io non vado dai falsi invalidi o dai 30 mila forestali calabresi. Vado dai pescatori pugliesi o calabresi strangolati dai regolamenti dementi di Bruxelles», e qui davvero sembra di sentire l’amica e alleata madame Le Pen (e viceversa, quando parla lei). Il senatore Raffaele Volpi, eletto in Franciacorta e incaricato di gestire la questione meridionale, conferma: è il sud la nuova frontiera del partito del nord, «negli ultimi mesi ci sono arrivate almeno 150 richieste d’incontro». Nel frattempo, escursione a Maletto per ringraziare gli elettori e partecipare alla Sagra della fragola, principale avvenimento annuale del ridente paesino. Ora, alla vigilia si sarebbe anche potuto pensare che qualche siciliano le fragole a Salvini avrebbe avuto voglia di tirargliele in testa. Invece le contestazioni sono state solo due e pure limitate: a sinistra s’è sentito un «buffone non c’entri un beep!», a destra un «vai a casa!». Tutto qui. Per il resto, un bagno di folla. Sarà la tradizionale ospitalità siciliana (diceva Tomasi di Lampedusa che gli educati più puntigliosi d’Italia sono i piemontesi e i siciliani, e come al solito aveva ragione), sarà l’altrettanto tradizionale rispetto meridionale per il potere, qualunque sia, ma il Salvini formato esportazione è stato acclamato. A Maletto è andata benissimo. Del resto, il nazionalpopolare si addice alla Lega. E qui nel profondo sud esiste per fortuna ancora lo strapaese longanesiano, con gli stand enogastronomici, la banda, i notabili incravattati, i carabinieri in alta uniforme, i bambini che urlano, lo struscio sul Corso. «Minchia, Salvini è!». E giù un’orgia di selfie. Lui ovviamente gigioneggia: azzanna le fragole (in effetti squisitissime), regala la farina per la polenta, si fa fotografare con pupi, nonne, zie, stringe mani, bacia il sindaco piddino dall’impegnativo nome di Salvatore Barbagiovanni, assaggia il «cocktail Salvini» nel chiosco quasi coperto da un tricolore (pazienza), paragona l’altitudine di Maletto al paese dove fa le vacanze della Valcamonica (guarda caso, sono identiche), tuona contro l’immigrazione selvaggia e la disoccupazione, che poi in Sicilia è come contestare la corda in casa dell’impiccato. E pazienza per i braccialetti con le scritte «Milano capitale» o «Padania - Verrà il giorno», che qui sembrano un tantinello fuori target. Insomma, è subito Pontida. L’incontro Matteo-Mazzeo avviene nella sala consiliare sotto foto in bianco e nero di vecchi sindaci democristiani con cognomi tipo Calì o Zappalà; in mezzo alla strada, l’agnizione con l’unico padano trapiantato qui, un veneto ancora riconoscibile dall’accento. Doctor Livingstone, I presume. Un trionfo. Morale: Salvini è un gran simpatico e, quanto a piacioneria, con l’eclissi del Berlusca l’unico che oggi regge il confronto è quello che lui definisce «il Matteo sbagliato», l’inquilino di Palazzo Chigi. Per i discorsi politici seri, c’era stato tempo in aereo, dato che il volo Linate-Catania è stato in un primo tempo dirottato su Palermo, causa temporalone o addirittura un risveglio dell’Etna con uscita di fumi (si è poi scoperto che invece era colpa di imprecisate esercitazioni militari a Sigonella). La notizia del giorno era, ovviamente, l’insolita disponibilità di Grillo & Casaleggio a discutere di legge elettorale invece di dire no a prescindere come al solito. Che ne dice, Salvini? «Che la legge elettorale è la nostra ultima preoccupazione. Comunque siamo dispostissimi a discutere, e con tutti, sul modo di aumentare la partecipazione e la democrazia, cioè il contrario di quel che ha fatto l’Italicum. Ma mi sembrano solfe da vecchia politica. Con Renzi preferirei discutere di ciccia, di poteri delle regioni, di agricoltura, di immigrazione, di cose concrete, insomma». E, sempre a proposito di questioni serie, quanto a Italia-Inghilterra Salvini ammette di non aver tifato e anzi di non aver nemmeno visto la partita: «Mi sono addormentato, e poi per me il calcio vuol dire Milan». Meglio le fragole, va’.
Basta Barbari Sognanti adesso siamo tutti leghisti. Maroni archivia la corrente: «Ma diamoci un codice etico», scrive Giovanni Cerruti su “La Stampa”. Alle due dl pomeriggio, nella trattoria del centro di Milano, lascia il risotto, prende il telefonino e lo rigira. «Qui sopra c’è l’adesivo dei "Barbari Sognanti", i leghisti che in questi mesi mi sono stati vicino, quelli che si sono ribellati quando avevano convinto Bossi a togliermi la parola. Stasera lo stacco. Basta "Barbari Sognanti", ora più che mai siamo tutti leghisti». Si capisce, non servono più, e peccato che i carabinieri siano arrivati prima dei congressi. Tra un’ora Roberto Maroni sarà in via Bellerio, appuntamento con Umberto Bossi nel suo primo giorno da ex segretario, nel primo giorno di Bobo coordinatore. «L’ho chiesto io l’incontro, è vero. Con Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago dobbiamo far ripartire la Lega. E voglio che Umberto sappia tutto, sempre». E sempre resterà il suo leader, ci mancherebbe. Non sarà facile, e Maroni lo sa. Vorrebbe già essere nel futuro, al congresso d’autunno, ma pure lui è condannato a questo presente da cronaca giudiziaria. Non farà a tempo ad arrivare in via Bellerio ed ecco le agenzie che battono i verbali d’interrogatorio delle due segretarie leghiste, mica due terrone nemiche della Padania, e altro letame che si diffonde, e ancora soldi, e ancora i Bossi, e ancora Rosi Mauro, famiglia&famigli. «Bisogna ripartire, subito». Già martedì sera, appena dopo Pasqua, con la manifestazione dell’Orgoglio Padano, militanti che si erano «autoconvocati» prima che arrivassero i carabinieri. Organizza Giacomo Stucchi, deputato bergamasco e barbarosognante, possibile prossimo segretario della Lega Lombarda. Maroni ci sarà. «Vieni anche tu, Umberto». A vedere, a sentire i militanti della Lega, com’era successo a gennaio a Varese, con il teatro Apollonio in piedi, ad applaudire Bossi e Maroni, a urlare contro la «Lega di Tanzania», a invocare la «Lega degli onesti». Perchè forse non è ancora finita con le pulizie di Pasqua. C’è magari dell’altro. Il futuro si gioca in questo mese, la scadenza è l’8 maggio, la scommessa è su Verona. E’ da lì, dove l’altro barbarosognante Flavio Tosi ha resistito a minacce di espulsione, all’ordine di parlare solo da sindaco partito da Roberto Calderoli in agosto, ai mugugni di Bossi che l’aveva messo nel mazzo dei troppi «che vogliono spaccare la Lega, che può ripartire l’avventura.«Lui con la lista della Lega -dice Maroni-, più altre liste di sostegno che di leghisti non sono. Questa è la nostra strada se vogliamo essere il primo partito del Nord». Se Tosi vince, e può vincere al primo turno, lo aspetta la segretaria della Liga Veneta. E poi, sistemati i congressi del lombardoveneto, quello federale. Dove Bossi forse non si candiderà o forse sì, e se sì Maroni ha già detto che lo appoggerà. Ma sembra lontanissimo, oggi, quel congresso d’autunno. E c’è la cronaca giudiziaria che insegue questa Lega disorientata. Ancora non si è capito se i milioni di euro finiti in Tanzania sono rientrati in cassa. E nemmeno come sia cominciato quel viaggio. Chi ha letto le intercettazioni ha notato il nome di Aldo Brancher, il pio deputato berlusconiano, uno dei pochi ammessi dal Cerchio Magico, grande amico di Calderoli, ministro per un paio d’ore. «Io ancora non ho capito niente di questa storia, so solo che Belsito mi cercava, voleva parlarmi, ma ho lasciato perdere...». Per Maroni, e magari ne ha parlato già ieri pomeriggio con Bossi, ci vorrebbe una Commissione d’inchiesta interna. «Bisogna scoprire tutti quelli che hanno ingannato Bossi». Arrivare, almeno questa volta, prima dei carabinieri e delle Procure, o dei giornalisti. Bisogna che la Lega si dia un codice etico, dice Maroni. E se è per questo basterebbero gli atti del primo congresso della Lega Nord, anno 1991. Uno statuto e un programma che, riletti adesso, sembrano il programma rivoluzionario di Beppe Grillo. E poi c’è la Lega dei dirigenti, una grande famiglia che davanti a Bossi si abbraccia e lontano da Bossi si scalcia. In questi giorni, tra i cronisti che tengono la posizione in via Bellerio, si aggiornano i soprannomi che si sono dati. C’è "Nessuno", il "Vermino", "Cerchione", l’"Infame", "Mediolanum", il "Cappellano Matto", il "Senzapalle". Della Badante, Rosi Mauro, o del "Trota" Renzo Bossi parla più nessuno. Velo pietoso padano. Ma se non riescono a trovare un accordo, se le pulizie in casa non finiscono davvero, anche per uno che ci crede come Maroni sarà difficile riuscire nell’impresa. Già il varo dei tre coordinatori, nel giovedì delle lacrime e delle dimissioni di Bossi, ha avuto qualche incertezza. C’era Roberto Cota che ha proposto un nome secco, Roberto Calderoli. C’era Giancarlo Giorgetti che ne voleva tre, uno per regione. C’era Maroni che voleva almeno una donna. Il risultato sono i tre benedetti da Bossi, con Dal Lago che rappresenta il Veneto, Maroni la Lega che ha già vinto i congressi provinciali, Calderoli la continuità con la Lega di questi ultimi otto anni, dal giorno del coccolone del Capo. Tre coordinatori con un presidente ingombrante, Bossi che cercherà di avere sempre l’ultima parola. Ma neppure Maroni, e ancor meno Bossi, può scommettere su ne sarà della Lega. Dalle carte dell’inchiesta, non da terrone nemiche del Nord, ma da leghiste militanti e affidabili, escono quadretti inquietanti sulla passione di Manuela Bossi per magia nera e occultismo. Neanche un mese fa, tra i leghisti, girava la storia di una foto di Maroni spedita a un esperto in malocchio in Friuli. E così torna un’altra vecchia storia, che nei giorni del coccolone sembrava incredibile. Manuela e Rosi Mauro che contattano una Maga: per salvare Umberto «dovete creare una barriera di protezione». E così nacque il Cerchio Magico...
Ci saranno altri Nord, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. Vent'anni fa il Nord conquistava l’Italia. Berlusconi e Bossi, Bossi e Berlusconi, vincevano le elezioni politiche. E governavano insieme. Per poco, visto che, pochi mesi dopo, la Lega se ne sarebbe andata. Incapace di sostenere il ruolo del partito di governo. Eppure per vent’anni Lega e Fi, Fi e Lega hanno percorso un cammino comune. Con interruzioni improvvise. Anche lunghe. Ma, in fondo, hanno proceduto insieme. Al governo o all’opposizione. A livello nazionale e territoriale. La Lega, insieme a Forza Italia, è all’origine della Seconda Repubblica. Ha rappresentato il Nord. Ha fatto divenire la “questione settentrionale” questione “nazionale”. E ha imposto la rivoluzione federalista. Il trasferimento delle competenze e dell’autorità verso Regioni, Province, città. Vent’anni fa la capitale si è spostata. Da Roma al Lombardo-Veneto, patria del forza-leghismo, per ricorrere alla suggestiva definizione di Edmondo Berselli. Ma oggi, vent’anni dopo, che cosa resta del Nord? Della Lega? Di Forza Italia? Del Forza-leghismo? Francamente poco. La Lega, alle recenti europee, ha ottenuto un buon risultato, ma ha quasi dimezzato i voti rispetto alle politiche del 2008 e alle europee del 2009. A Fi, d’altronde, è andata anche peggio. Entrambi sono in crisi di identità. La leadership di Bossi, in particolare, è stata compromessa dalla malattia e, ancor più, dagli scandali che ne hanno coinvolto familiari e fedeli. L’attuale leader, Matteo Salvini, ha rimesso in cammino la Lega. Ma, rispetto al Senatur, è un’altra cosa… Gli storici raduni di Ferragosto, a Ponte di Legno, non a caso, appartengono alla storia. L’ultimo, nei giorni scorsi, è passato quasi in silenzio, sui media. Berlusconi, invece, è ancora sulla scena. Ma recita da comprimario. Sempre alle prese con problemi giudiziari. Sconta il declino del modello politico e sociale che interpretava. La società individualista e imprenditiva, fiaccata dalla crisi. Tuttavia, il problema maggiore, per il Nord, non riguarda tanto — e soltanto — la leadership. Ma, anzitutto, il fondamento e l’esistenza stessa della questione che esso ha rappresentato. Il Nord, appunto. Dov’è finito? I temi e le rivendicazioni che ha espresso: dove sono scivolati? Per quel che riguarda le autonomie territoriali e il federalismo: non è più tempo. I Comuni: schiacciati dalle aspettative dei cittadini, crescenti, in presenza di risorse calanti. Trasformati da attori in esattori — dello Stato. Le Province: sparite. Cancellate con un colpo di penna. Anche se le competenze e i servizi che esse realizzavano verranno ridistribuite tra associazioni di comuni, città metropolitane e altre entità indistinte. Le Regioni: investite da scandali ricorrenti. Percepite come nuove forme di centralismo. Che si sono aggiunte allo Stato. E oggi, per questo, appaiono altrettanto sfiduciate, agli occhi dei cittadini. Anche se la riforma costituzionale avviata dal governo prevede di cooptare al Senato i rappresentanti dei consigli regionali. Ma per risparmiare… Insomma: il federalismo, invenzione del Nord, sembra “devoluto”. Comunque, emarginato, come i soggetti politici che l’hanno imposto. È sopravvissuta soltanto la rabbia contro lo Stato e il sistema pubblico. Ma è stata intercettata e raccolta, in larga misura, da nuovi soggetti politici. Per primo: il M5s. Che, tuttavia, non ha radici territoriali. Non ha una geografia politica. Come la Lega, soprattutto. Ma anche Fi. Federazione di lobby e di gruppi di potere locali con la testa (e il portafoglio) a Milano. Oggi è scomparsa la geografia politica nazionale. Il principale partito, il PdR, il Pd di Renzi, non ha confini e punti di forza. Alle elezioni europee ha sfondato nel Nord. Nel territorio leghista. Ma ha una geografia nazionale anche il principale partito di opposizione. Il M5s guidato da Grillo e Casaleggio. D’altronde, il suo spazio è senza territorio: il web. E il principale motivo del suo successo risiede nel rifiuto dei partiti “tradizionali” della Seconda Repubblica. (L’ossimoro non è casuale.) Renzi e il suo partito ne hanno sfruttato la spinta. E nel governo di Renzi, già sindaco di Firenze, non a caso, lo spazio del Nord padano è molto limitato. I ministri che potrebbero evocare il Lombardo-Veneto hanno cittadinanza diversa. E la sottolineano. Pàdoan, non a caso, viene pronunciato con l’accento sulla prima e non sulla seconda “a”. D’altronde, nonostante l’origine, denunciata dal cognome, è “romano”. La stessa Lega, infine, è cresciuta soprattutto nel Centro-Sud. Si è anch’essa “nazionalizzata”. Insomma, il Nord oggi appare un’(id)entità rimossa. Insieme al Nordest. Per non parlare della Padania. Mentre il Lombardo-Veneto indica l’asse della crisi della Seconda Repubblica. Segnato dagli scandali scoppiati a Milano (intorno all’Expo) e Venezia (il Mose). Quasi una metafora del declino della “rivoluzione territoriale” degli ultimi vent’anni. Che ha eclissato anche il Sud. Nonostante i problemi del Mezzogiorno restino seri. Anzi, si stiano ulteriormente aggravando. La percezione della politica e dell’economia, d’altronde, si è “nazionalizzata” perché la geografia è stata sovrastata dalla geopolitica. Che ha confini “globali”. E più del Nord e del Nordest o del Lombardo- Veneto oggi contano (e conteranno) l’Ucraina, il Kurdistan, la Siria, Gaza. Il contrasto — sempre più evidente — fra Usa e Russia. Più di Roma: contano Bruxelles, Pechino, la City. Sul piano georeligioso: la Corea, l’Iraq dove gli Yazidi fuggono all’avanzata dell’Is. Così, i temi del dibattito politico, anche nel Nord (Italia), si globalizzano. Riguardano la Ue e l’immigrazione. La stessa Lega tende a divenire un soggetto politico securitario e antieuro. Come il Fn di Marine Le Pen. Insomma, il Nord si è perso nelle nebbie della globalizzazione politica ed economica. E la sua rimozione, in qualche misura, segnala quella “fine dei territori”, annunciata da alcuni studiosi (fra cui Bertrand Badie). Una tendenza che gli Stati nazionali (l’Italia per prima) non sembrano in grado di affrontare. Semmai, ne sono un fattore. Anche per questo il declino dei territori è destinato a fare emergere nuovi territori. Nuovi confini e nuovi Limes, reali o “inventati”. Nuove patrie, che soccorrano il bisogno di identità e di autorità. Al posto della Padania e del Nordest, d’altronde, già preme l’indipendentismo regionalista. Anzitutto in Veneto. Così, è meglio prepararsi. Dopo il Nord, oltre il Nord, ci saranno altri Nord. Non solo nel Nord. Per reagire allo spaesamento. Alla paura del Mondo.
INAFFIDABILI. LEGA CONTRO LEGA. PACTA SUNT SERVANDA. NON IN CASA LEGA.
Dichiarazione di Silvio BERLUSCONI (02 febbraio 1995). 1995 Berlusconi: “Io non mi siederò mai più ad un tavolo dove ci sia il signor Bossi. Non sosterrò mai più un governo…”. “Io non mi siederò mai più ad un tavolo dove ci sia il signor Bossi. Non sosterrò mai più un governo che sia appoggiato anche da Bossi, un monumento di slealta' che per giunta oggi vale l' 1,8 per cento di voti….?…un governo che conti su Bossi come sostegno. È una persona totalmente inaffidabile. Mi meraviglio come anche i mezzi di comunicazione, senza nessun senso critico, diano ospitalità a tutte le sue esternazioni che non hanno né capo né coda.”
E' vero che esiste un vitalizio di 400mila euro all'anno per Umberto Bossi come scrive il quotidiano la Repubblica? "Esisteva. Avevamo un fondo spese per far fronte alle esigenze di Bossi. Parliamo di autisti e... di questa roba qua", afferma ad Alberto Maggi su Affaritaliani.it. Stefano Stefani, segretario amministrativo della Lega Nord. Ma non esiste più questo fondo? "Non lo so. Fino a luglio esisteva. Adesso non lo so", aggiunge. E' vero che Bossi ha denunciato Salvini perché gli ha tolto il vitalizio? "A me non risulta, mi sembra impossibile. Comunque aspetto oggi se c'è questa udienza e che mi diano questa risposta", conclude Stefani.
"Mentre la Lega si batte contro la follia di Mare Nostrum (2.000 sbarchi nel week end), contro gli studi di settore e per cambiare la legge Fornero, alcuni giornali scrivono di litigi interni alla Lega: in una parola, scrivono CAZZATE! Abbiamo querelato più volte La Repubblica, quereleremo ancora. P.S. Bravi i militanti Leghisti di Bergamo, grazie ai loro 12 giorni di presidio (giorno e notte!) GLI IMMIGRATI SONO ANDATI VIA dal Parco dei Colli. Chi non si arrende, alla fine vince!". Lo scrive su facebook il segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini.
Accordi non mantenuti, accuse di tradimento e truffa, faide interne a via Bellerio dopo lo scandalo Belsito: esplode la querelle giudiziaria tra il fondatore del Carroccio e l'attuale segretario. I conti del partito non tornano, braccio di ferro sul vitalizio del Senatur e sui soldi spesi per la campagna elettorale delle europee, scrive Alberto Custadero su “La Repubblica”. Accordi non mantenuti, accuse di tradimento e truffa, faide interne a via Bellerio. È Lega contro Lega. Finisce in tribunale una lite tra il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, e l’attuale segretario del Carroccio, Matteo Salvini. Ecco l’antefatto di questa querelle giudiziaria tutta in casa padana. Bossi da tempo percepisce dalla Lega un vitalizio di 900mila euro per sostenere le sue spese mediche, e finanziare quelle del suo staff politico, il famoso "cerchio magico". Il legale del Senatur, inoltre, l’avvocato Matteo Brigandì, aveva presentato alla Lega una parcella milionaria per la sua attività professionale dal 2000 al 2013. E, per farsi liquidare l’esosa parcella, aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale il sequestro cautelativo di sei milioni di euro sui conti leghisti. Dall’altra parte, il segretario del Carroccio, Salvini, al momento del suo insediamento, aveva manifestato l’intenzione di non versare più alcuna somma al fondatore leghista, e aveva annunciato la volontà di costituirsi parte lesa, come Lega, nei processi contro lo stesso Bossi e i suoi figli, Renzo e Riccardo. C’era, dunque, una tensione al calor bianco tra Bossi e Salvini. Grazie alla mediazione diplomatica di Stefano Stefani, tesoriere del partito dopo lo scandalo Belsito e presidente della Lega Nord Estero, tra i due è stato raggiunto un accordo che avrebbe dovuto porre fine a questa faida tra padani. E così il 26 febbraio di quest’anno Bossi, Stefani, Brigandì e Salvini firmano una scrittura privata (che Repubblica è in grado di mostrare in esclusiva) che avrebbe dovuto sancire la fine della guerra tra camicie verdi. Ecco, in sintesi, gli accordi siglati privatamente tra i quattro. Bossi avrebbe imposto al suo legale di rinunciare alla parcella e di svincolare i sei milioni di euro. In cambio Salvini avrebbe garantito al Senatur un 'vitalizio' di 400mila euro annui, e si sarebbe impegnato a non costituirsi parte lesa nei processi contro la famiglia Bossi nell’inchiesta per truffa e appropriazione indebita sui fondi politici usati per fini personali. Ma da febbraio ad oggi le cose non sono andate come previsto dalla scrittura privata. Anzi, al contrario. Ecco i fatti: Bossi ha effettivamente provveduto a liberare i soldi leghisti fatti sequestrare dal suo legale. Ma la Lega ha usato quei sei milioni di euro per la campagna elettorale delle europee, li ha spesi tutti. E il bilancio del partito è andato in rosso. Rimanendo senza soldi, il segretario Salvini ha fatto sapere a Bossi di non potergli più garantire i 400mila euro promessi. A stento avrebbe potuto offrirgliene la metà. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, infine, è stato l’annuncio pubblico, fatto sui giornali, che la Lega alla prima udienza del 10 ottobre contro i familiari di Bossi si sarebbe costituita parte lesa. Il decreto che fissa l’udienza, del resto, non consente smentite. L’avvocato che difende il Carroccio è Domenico Aiello, legale di fiducia di Roberto Maroni, l’ex delfino di Bossi. Questo vuol dire che Salvini chiederà i danni all’uomo che ha creato il movimento. In sintesi, l’avvocato di Bossi ha perso 6 milioni di euro, Bossi ha perso 200mila euro annui, e ora rischia di dover risarcire la Lega. Insomma, il Senatur ha preso tutto questo come un tradimento di quei patti padani di febbraio. E ha deciso di adire le vie legali, incaricando - manco a farlo apposta - il suo avocato Brigandì di citare in giudizio Salvini in tribunale civile per danni. Si riserva infine di procedere sul fronte penale per truffa. Nell’atto di citazione in giudizio, a proposito del dimezzamento del vitalizio, Bossi e Brigandì scrivono: "Il movimento politico Lega Nord si è reso inadempiente alla scrittura privata del 26 febbraio 2014. Si tenga conto che è notoria la malattia dell’onorevole Bossi e, per usare una parola di moda, l’agibilità politica era stata assicurata con il pagamento di 400mila euro pattuiti".
LEGA. SONO SOLO AFFARI LORO……
Matteo Salvini e il vizio di fare assumere le compagne negli enti pubblici. Non solo l'attuale compagna assunta in Regione Lombardia, anche la ex moglie del segretario del Caroccio, Fabrizia Ieluzzi, è stata per quasi dieci anni al Comune di Milano, anche lei assunta a chiamata dal 2003 e poi confermata più volte prima da Gabriele Albertini e poi dalla giunta di Letizia Moratti. Cambiavano sindaci, direttori generali, assessori ma lei rimaneva lì: 18 ore settimanali, tre al giorno, con compensi tra i 20 e i 36 mila euro annui, scrive Davide Vecchi su “Il Fatto Quotidiano”. Non solo la compagna, anche la prima moglie. Matteo Salvini sembra essere afflitto da una particolare abitudine: far assumere dagli enti pubblici le donne che lo accompagnano. Se Giulia Martinelli, madre della seconda figlia del segretario del Carroccio (con cui si è presentato domenica al congresso della Lega a Padova), è stata assunta a chiamata nella Regione Lombardia del leghista Roberto Maroni, la ex moglie Fabrizia Ieluzzi è stata per quasi dieci anni al Comune di Milano, anche lei assunta a chiamata dal 2003 e poi confermata più volte prima da Gabriele Albertini e poi dalla giunta di Letizia Moratti. Cambiavano sindaci, direttori generali, assessori ma lei rimaneva lì: 18 ore settimanali, tre al giorno, con compensi tra i 20 e i 36 mila euro annui (come da contratti che il Fatto ha potuto consultare). Per carità, Salvini di parentopoli proprio non vuol sentir parlare. Anzi, ne è uno dei più strenui oppositori. Quando dall’inchiesta sull’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, spuntò la cartelletta “the family” con le spese e le paghette da migliaia di euro ai figli dell’allora Capo, Umberto Bossi, Salvini schiumava rabbia su Facebook: “La mia paghetta era 500 lire”. Pochi mesi prima i due erano in vacanza insieme, immortalati sul quad del Trota. Era un’altra vita. Superata come si passa una porta girevole. E Salvini ne ha attraversate di porte. Oggi si mostra come un giovane della politica. In realtà, dei suoi 41 anni anagrafici, più della metà li ha trascorsi su qualche scranno: 21, per l’esattezza. Entra in consiglio comunale a Milano nel 1993 insieme all’allora sindaco leghista Mario Formentini che conquistò Palazzo Marino scansando le macerie di Mani Pulite. Nel 2004 grazie alla rinuncia di Umberto Bossi – da poco colpito da malore – Salvini diventa eurodeputato a Bruxelles e vola in Europa coi suoi assistenti: Franco e Riccardo Bossi, fratello e primogenito del Senatùr. Negli anni del celodurismo, dell’indipendenza sbandierata a suon di pernacchie e fucili in piazza, Salvini è direttore di Radio Padania. Affianca Mario Borghezio in numerose e fantasiose battaglie, in particolare contro i “terroni” ed è stato ripreso appena due anni fa a cantare “Napoli merda, Napoli colera”. Anche questa è ormai un’altra vita, perché ora nel capoluogo campano Salvini va a cercar voti. Ma lui è stato anche “fervente comunista”. Alle prime elezioni del fantomatico “Parlamento padano” nel 1997 Salvini è capolista della corrente Comunisti Padani: su duecento seggi ne prende appena cinque. Più o meno lo stesso risultato ottenuto alle ultime Europee dopo aver stretto una profonda alleanza con l’ultradestra di Marine Le Pen. Con l’altro Matteo (Renzi), oltre alla coerenza tra affermazioni e azioni, condivide l’esperienza televisiva: a 12 anni Salvini partecipa da concorrente alla trasmissione Doppio Slalom, condotto da Corrado Tedeschi su Canale 5. Non bastava girare la ruota, era un quiz di cultura generale. E il Matteo del nord risponde perfettamente a tutte le domande. Prometteva bene anche negli studi: nel 1992 si diploma al liceo classico Manzoni, da cui erano usciti tra gli altri Giorgio Ambrosoli, Tito Boeri ed Edmondo Bruti Liberati. Ma per Salvini i titoli di studio si fermano lì. Tenta l’università. Corso di Storia alla Statale. Lascia dopo 16 anni, a cinque esami dalla laurea. Nel 2008 scherzando disse che sarebbe arrivata “prima la Padania libera della mia laurea”. Va detto che a differenza di molti altri politici di professione, Salvini nella sua vita ha conosciuto il lavoro. Parole tipo turni, ferie e busta paga per lui hanno un senso. Nel primo anno di università, nel 1992, per pochi mesi Salvini lavora alla catena di fast food Burghy, poi però è costretto ad andare in Comune. E così gli studi vengono abbandonati. E anche il lavoro. Ma la passione per gli hamburgher è rimasta. Si incontra con facilità in uno dei tre pub Brando di cui socio è la compagna Giulia Martinelli, insieme ad alcuni leghisti: Eugenio Zoffili (altro beneficiario di un contratto a chiamata in regione) e Fabrizio Cecchetti, vicepresidente del consiglio regionale. Quest’ultimo era finito nell’inchiesta rimborsopoli lombarda ai tempi della giunta di Roberto Formigoni. La Corte dei conti gli contestò 49 mila euro di spese. Nonostante sia indagato con gli altri, Cecchetti è l’unico a cui la Lega ha permesso di tornare in Regione. Lui ha restituito i 49 mila euro, motivano le alte sfere. Nei fatti Cecchetti si è dimostrato totalmente in linea con la Lega salviniana: mentre il leader si scaglia contro i gay (“non mi alleo con chi si iscrive all’Arcigay”, ha tuonato al congresso) lui firma il patrocinio della Regione guidata da Maroni al Gay Pride di Milano. Perché la coerenza in via Bellerio è un principio indiscutibile come i confini della Padania. Passati dal Po ai piedi dell’Etna.
PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?
I pm indagano Maroni su Expo per incastrarlo su Finmeccanica. Il governatore della Lombardia accusato di concussione per delle raccomandazioni. Ma il vero obiettivo delle toghe sono le presunte mazzette incassate dal Carroccio, scrivono Luca Fazzo ed Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Domanda che fa tremare il Palazzo: cos'hanno in comune due semisconosciute consulenti della Regione Lombardia e l'ex amministratore delegato di Finmeccanica, la più grande azienda di Stato con interessi che vanno dalla sicurezza all'aerospaziale? Risposta: due cose. La prima, l'ex ministro dell'Interno, leader della Lega Nord e attuale governatore lombardo Roberto Maroni. La seconda, un numero: 3856/12. È il numero di fascicolo con cui la Procura di Busto Arsizio ha messo sotto inchiesta Maroni e il suo braccio destro Giacomo Ciriello, accusati di concussione per induzione per aver fatto assumere senza particolari ragioni di curriculum due vecchie conoscenze del Viminale in un paio di società partecipate dal Pirellone. Una storiaccia assai italiana di donne, potere e raccomandazioni, all'apparenza robetta da quattro soldi se non fosse che dalla «visita» fatta ieri dai carabinieri negli uffici delle due consulenti emerge un dettaglio tutt'altro che irrilevante. E cioè che il numero stampato sul decreto di perquisizione - 3856/12 - è lo stesso del fascicolo con cui i pm hanno dato la caccia alle tangenti che Finmeccanica avrebbe versato per piazzare 12 elicotteri in India. Inchiesta chiusa da tempo, processo alle battute finali e sentenza attesa per il 3 ottobre. L'imputato principale è Giuseppe Orsi, ex numero uno di Finmeccanica. Lo stesso che al telefono confidava: «Se non c'era Maroni col cavolo che ero qua». Sullo sfondo, una maxi tangente da 12 milioni da destinare alla Lega, e che Orsi avrebbe girato in cambio dell'appoggio alla sua nomina nella holding di Stato. Quell'ipotesi investigativa, però, sembrava estinta. Fino a ieri. La mossa della Procura, infatti, dice che la pista delle mazzette alla Lega non si è affatto raffreddata, e che la storiella della due raccomandate tiene le braci accese sotto i piedi del bersaglio grosso: Roberto Maroni. Il commissario anticorruzione Raffaele Cantone, di fronte alla notizia sulle due assunzioni, annuncia subito che «siamo in una fase che non ha nessuna incidenza sulla vicenda Expo». Ma è indubbio che per il tormentato cammino dell'esposizione universale è una nuova botta. Chi sono le due fortunate? Mara Carluccio e Mariagrazia Paturzo, entrambe con un passato al Viminale sotto la gestione Maroni (la prima «consigliera della Segreteria del Ministro per le politiche comunitarie», la seconda «Responsabile relazioni esterne dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati»), attualmente in forza a due società partecipate dal Pirellone, entrambe con ufficio in via del Gesù, sede romana della Regione Lombardia. Carluccio ha un contratto a termine con «Eupolis spa» - istituto di ricerca, statistica e formazione - a 29.500 euro annui, «somma dalla stessa fissata per proprie esigenze fiscali», annotano in pm. Paturzo, invece, è stata assunta per 2 anni - ma con contratto di sei mesi rinnovabile - in Expo spa, a 5.417 euro al mese. Tutte e due, secondo il pm Eugenio Fusco, avrebbero ottenuto il posto su mandato di Maroni e grazie alle pressioni materiali fatte dal suo capo di segreteria Ciriello. Ma questo è il fumo. L'arrosto, quello vero, si trova a Londra. Dall'avvocato Christian James Michel. Nello stesso giorno in cui i carabinieri del Noe bussano al fantasmagorico ufficio di Maroni al trentacinquesimo piano di Palazzo Lombardia, e l'avviso di garanzia rivela al mondo la faccenda delle due giovani donne assunte su chiamata dall'alto, entrano in circolazione altri due documenti. Stessa Procura, stessa inchiesta. Ma questi sono due mandati di cattura. Uno è per l'avvocato indiano Gautam Khaitan, l'altro per il suo collega inglese Michel. Entrambi sono da sempre indagati per la vendita degli elicotteri italiani al governo di New Delhi, ma erano rimasti a piede libero. Invece ieri si scopre che nel febbraio scorso Fusco ha ottenuto che venisse ordinato il loro arresto, per ora non eseguito. Perché ora, a processo finito? Khaitan potrebbe essere il gancio per incastrare definitivamente la famiglia di Sashi Tyagi, il capo di stato maggiore indiano considerato il terminale delle tangenti. Invece Michel entra in scena per collaborare alla operazione di lobbying o corruzione in India. Ma c'è un dettaglio: è Michel che a un certo punto rende noto agli altri mediatori che bisogna restituire a Orsi dodici milioni già incassati. Segue litigio furibondo a Dubai. A cosa servono quei soldi? Gli altri mediatori se lo confideranno incautamente in macchina: «Sono per la Lega Nord». Da Michel, insomma, per i pm si arriva al Carroccio. No, non sono le due ragazze assunte a tempo determinato il guaio più grosso per Maroni.
Expo, indagato Maroni. I pm: "Fece pressioni per far assumere due conoscenti". Contratti a termine in Expo2015 spa e in Eupolis. Una era sua collaboratrice al Viminale. La Procura di Busto Arsizio indaga anche il capo di gabinetto. Il governatore: "Sereno, ma sorpreso", scrive “La Repubblica”. Roberto Maroni è indagato dalla Procura di Busto Arsizio per "induzione indebita a dare o promettere utilità" per due contratti stipulati dalla società Expo2015 spa e dall'Ente della Regione Lombardia per la ricerca, la statistica e la formazione (Eupolis). Il governatore lombardo e il suo capo di gabinetto, Giacomo Ciriello - ai quali è stato notificato l'avviso di garanzia dai carabinieri del Noe a Palazzo Lombardia - avrebbero esercitato "pressioni" per far ottenere indebitamente contratti a tempo determinato a due persone ritenute a vicine a Maroni, Mara Carluccio, in passato sua collaboratrice al ministero dell'Interno, e Maria Grazia Paturzo. Il contratto siglato da Eupolis avrebbe avuto il "fine esclusivo di garantire alla Carluccio una indebita utilità economica pari a 29.500 euro annui (somma dalla stessa fissata per proprie esigenze fiscali)", si legge nell'avviso di garanzia. Mentre Paturzo sarebbe stata assunta dalla società Expo con un assegno "pari alla somma di 5.417 euro mensili per la durata di due anni". Da dicembre 2011 Éupolis, secondo quanto riporta il sito, “ha sottoscritto una convenzione quadro con il Commissario Generale di Expo Milano 2015 per supportare: – la definizione e l’approfondimento del tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, soprattutto attraverso la predisposizione di approfondimenti conoscitivi (normativa, letteratura, stakeholder, etc.) in relazione ai vari sottotemi; – la gestione delle relazioni internazionali in ottica di promozione della partecipazione dei Paesi ad Expo 2015; – l’attività tecnico amministrativa, in particolare nell’attività di informazione sugli sviluppi e gli avanzamenti nella preparazione dell’Esposizione”. Si è difeso, in una nota, l'ex segretario della Lega Nord, che non ha in programma alcun intervento in Consiglio regionale (come sostenuto dal presidente Raffaele Cattaneo ma smentito dallo staff del governatore). "Sono assolutamente sereno e, allo stesso tempo, molto sorpreso. Per quanto a mia conoscenza, è tutto assolutamente regolare, trasparente e legittimo", ha sostenuto Maroni. Si tratta -spiega il presidente della Giunta- di due contratti a termine per persone che svolgono, con mansioni diverse, attività quotidiana di supporto della Regione Lombardia dalla sede di Roma. La loro attività è finalizzata alla ottimizzazione e alla efficienza della macchina organizzativa in vista dell’evento Expo". In particolare, sottolinea Maroni "una figura professionale ha un preciso scopo di raccordo tra la Regione Lombardia e la Società Expo, mentre l’altra, di provata esperienza professionale, ha un ruolo di consulenza delle diverse tematiche organizzative legate a Expo. «Sono, ribadisco, sereno e fiducioso -conclude- che le cose verranno al più presto chiarite". Secondo l'avviso di garanzia firmato dai pm Eugenio Fusco e Pasquale Addesso, Maroni e Ciriello avrebbero abusato della "loro qualità e poteri e, in particolare, delle qualità e dei poteri inerenti la carica di presidente della Regione su enti regionali e società dalla Regione stessa partecipata". L'indagine nasce dall'inchiesta sulla vendita di 12 elicotteri all'India da parte di Agusta Westland, società di Finmeccanica, e i reati, secondo i pm di Busto, sarebbero stati commessi dieci giorni fa, il 4 luglio, nella cittadina in provincia di Varese. I militari del Noe hanno anche perquisito uffici della Regione Lombardia in via del Gesù a Roma a disposizione della Carluccio. Nel dettaglio, Maroni e Ciriello avrebbero dato "indebite utilità economiche" a Carluccio e Paturzo - si legge nell'avviso di garanzia - "non essendo riusciti a collocarle nello staff del presidente, in quanto la loro assunzione sarebbe stata soggetta ai controlli della Corte dei Conti sulla Regione". Ciriello, "manifestando che tale era il desiderio del presidente Maroni - si sostiene - richiedeva e otteneva da esponenti di Eupolis un contratto conclusivo al fine esclusivo di garantire a Carluccio una indebita utilità economica pari a 29.500 euro annui. Inoltre, otteneva "da esponenti di Expo 2015, anche per il tramite di Obiettivo lavoro temporary manager, un contratto concluso al fine esclusivo di garantire a Paturzo, una indebita utilità economica pari alla somma di 5.417 euro mensili (per la durata di due anni)". La società Expo, in una nota, ha chiarito che l'assunzione di Paturzo è stata fatta su indicazione del gabinetto del presidente della Regione per curare alcuni progetti, tra cui i tour promozionali di Expo a livello internazionale e nelle province lombarde. Sul fronte politico al governatore è arrivata la "piena fiducia" e "solidarietà" degli assessori della sua giunta e dei capigruppo della maggioranza (in diverse note congiunte), oltre a quella della coordinatrice lombarda di Forza Italia, Mariastella Gelmini. Mentre Pd e Patto civico hanno espresso "preoccupazione" per la "pletora di notizie su irregolarità nelle nomine" (il riferimento indiretto è anche al contratto alla moglie di Matteo Salvini da parte dell'assessorato al Welfare). E il Movimento 5 Stelle ha prenotato la richiesta di dimissioni nel caso in cui le accuse contro Maroni fossero confermate. Da Palazzo Lombardia la voce dell'ex ministro dell'Interno è arrivata solo attraverso una nota, diffusa a metà pomeriggio. Al centro dell'inchiesta, ha chiarito Maroni, vi sono "due contratti a termine per persone che svolgono, con mansioni diverse, attività quotidiana di supporto della Regione Lombardia dalla sede di Roma". "La loro attività - ha continuato - è finalizzata alla ottimizzazione e alla efficienza della macchina organizzativa in vista dell'evento Expo. In particolare, una figura professionale ha un preciso scopo di raccordo tra la Regione Lombardia e la società Expo, mentre l'altra, di provata esperienza professionale, ha un ruolo di consulenza delle diverse tematiche organizzative legate a Expo". "Sono, ribadisco, sereno e fiducioso che le cose verranno al più presto chiarite", ha concluso Maroni.
Un’inchiesta era partita per un concorso dagli esiti sorprendenti: la selezione per l’assegnazione di quaranta borse di studio. I bandi sono due: uno per 31 “giovani laureati”, l’altro per nove “dottori di ricerca”. Ed è proprio uno dei candidati al secondo concorso che ha fatto partire le indagini, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Nell’esposto Antonio Alizzi, professore a contratto di management per l’editoria all’università di Verona, spiega come si sia ritrovato dal primo al secondo posto in graduatoria per una delle nove aree messe a bando. Nella selezione per titoli era risultato, con 40 punti, in cima alla classifica. Alle prove orali totalizza altri 39 punti e arriva a 79. Ma davanti a lui c’è Filippo Cristoferi, brillante studioso molto inserito nei giri di Comunione e liberazione, tra le firme del Sussidiario, la rivista d’area del movimento e già collaboratore e borsista di Éupolis. Cristoferi ha un punto in più di Alizzi: 80. Ed è molto curioso, osserva il suo concorrente, visto che nella valutazione dei titoli aveva solo 31 punti e per la prova orale altri 46. Come si arriva a 80? Con un incremento di tre punti della valutazione ufficiale, che nella somma finale viene portata da 31 a 34 punti. Per far funzionare questo carrozzone sforna studi la Regione ha speso nel 2013 quasi 23 milioni di euro per progetti che vanno da un generico “contributo per le attività istituzionali” al “trasferimento risorse gestione osservatori Dg Famiglia” fino ad un corso in formazione specifica in Medicina generale da oltre sei milioni di euro. Tra i suoi consulenti diversi ciellini tra cui l’ex sottosegretario formigoniano Robi Ronza, fondatore del settimanale ultracattolico "Il Sabato". Sono decine e sono chiamati con un contratto cucito su misura. Nell’elenco infinito di collaboratori e consulenti (sono più di 700 per i primi sei mesi del 2014 per una spesa che supera più di quattro milioni e 600 mila euro) spunta anche l’ex braccio destro di Formigoni Nicolamaria Sanese. Dieci mesi di lavoro per 46 mila euro per guidare «la scuola superiore di Alta Amministrazione di Éupolis Lombardia e progettazione attività formative per la dirigenza apicale della pubblica amministrazione lombarda». Sanese aveva lasciato la poltrona di potente segretario generale dopo il rinvio a giudizio per associazione a delinquere e corruzione insieme all’ex governatore Roberto Formigoni. Secondo i pm di Milano, da segretario generale Sanese teneva i rapporti con il faccendiere Piero Daccò. E interveniva sul direttore generale della Sanità Carlo Lucchina (anche lui rinviato a giudizio) «affinché fossero adottati dalla giunta, in violazione di legge e dei doveri di imparzialità ed esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico, provvedimenti diretti a erogare consistenti somme di denaro e procurare altri indebiti vantaggi alla Fondazione Mugeri». Nonostante il rinvio a giudizio tiene corsi di buona amministrazione ai manager pubblici lombardi.
Il cerchio magico di Maroni: ecco come il Governatore sistemava tutte le sue pedine. Dal Pirellone a Infrastrutture, il giro nelle nomine del segretario leghista alla guida della Regione Lombardia, scrive Alberto Statera su “La Repubblica”. Sono "indaghizzato": viene su spontaneo ironizzare, a causa dell'effetto Crozza, dinanzi alla notizia del presidente della regione Lombardia Roberto Ernesto Maroni, detto universalmente Bobo, indagato a Busto Arsizio per "induzione indebita a dare o promettere utilità". Ex impiegato dell'azienda di cosmetici Avon, fan di Bruce Springsteen e lui stesso musicista tuttora praticante, il governatore è stato sempre afflitto da una patologica timidezza, colta dal suo perfido imitatore e già raccontata da Guido Passalacqua nel suo libro sugli esordi della Lega. Ma l'antico dato caratteriale, dopo venticinque anni di politica anche in alti vertici come il ministero dell'Interno, non ha impedito che diventasse anche lui un campione del modello clientela&parentela o, se volete, dell'italico familismo amorale. Il cerchio magico delinquenziale del suo ex duce Umberto Bossi ha oscurato tutti gli altri cerchietti magici padani, ma anche Bobo ne ha da anni uno ben collaudato, diventato sempre più famelico dopo la sua assunzione al vertice della prima regione d'Italia. Per questo, con tutto il rispetto per i pm di Busto Arsizio e per lo stesso Maroni, che spesso ha lamentato che "quando bisogna immolarsi per la Lega tocca sempre a me", leggere il decreto di perquisizione dei magistrati, da una parte sembra fornire nuovi spunti satirici, dall'altra fa riflettere sulle piccole frazioni di realtà che la magistratura riesce - quando riesce - a perseguire...Tra i primi atti ci fu la nomina di Anna Maria Tavano da Catanzaro ai vertici delle infrastrutture della Lombardia, con uno stipendio di 186 mila euro più bonus. Questa signora sarà bravissima, ma è la moglie di Domenico Aiello, avvocato calabrese, una specie di Ghedini di Maroni...Tavano e Aiello, vecchi amici di Isabella Votino, detta "la badante di Bobo"... sono capisaldi del cerchietto magico. Come Maria Cristina Cantù, assessore regionale al Welfare, che ha appena assunto Giulia Martinelli, compagna del neo-segretario della Lega Matteo Salvini......Giovanni Daverio, in arte Johnny, e Giuseppe Rossi, in arte Gegè, musicisti del Distretto 51, la band di Bobo, approdati a tutt'altro che irrilevanti incarichi nella sanità regionale. O la vocalist Simona Paudice, "coadiutore amministrativo esperto" all'ospedale di Treviglio...
Regione Lombardia, la compagna di Salvini assunta per chiamata diretta. Giulia Martinelli è entrata nello staff dell’assessore al welfare Maria Cristina Cantù per una cifra al momento di circa 70 mila euro l’anno, nell'ente guidato dal leghista Roberto Maroni. Ma non è l'unica: il figlio dell'assessore Aprea vola nella sede regionale a Bruxelles. Il segretario del Carroccio: "Che c'è di male?", scrive Davide Vecchi su “Il Fatto Quotidiano”. Ognuno ha la sua family. Anche Matteo Salvini. La compagna del segretario del Carroccio è stata assunta con un contratto diretto in Regione Lombardia, guidata dal leghista ed ex capo del Carroccio, Roberto Maroni. Giulia Martinelli è entrata nello staff dell’assessore al welfare Maria Cristina Cantù, quella che propose di assegnare i fondi regionali a sostegno della maternità solo a chi risiede in Lombardia da cinque anni spiegando la decisione con un lapidario: “Oggi ne vanno troppi agli extracomunitari”. Martinelli doveva essere assunta già lo scorso primo gennaio: Cantù presentò il decreto di assunzione alla segreteria generale del Pirellone che però lo bloccò e rispedì al mittente. Il momento per il Carroccio non era dei migliori, il partito con ancora le ferite aperte della Family di Bossi guardava alla sopravvivenza alle Europee come a un miraggio. E soprattutto a storcere il naso erano stati alcuni esponenti del partito. A cominciare dall’ex assessore Daniele Belotti e da alcuni parlamentari che da Roma avevano chiamato direttamente il governatore Maroni: “Non provate a fare una roba del genere”. Bobo seguì il consiglio. Martinelli ha incassato, pur avendo già chiesto l’aspettativa alla Asl – dove ha vinto un concorso e lavora come avvocato – e ha cominciato a collaborare con la Cantù. Senza un incarico ufficiale. Che però è arrivato a giugno: un contratto in forma di incarico fiduciario per una cifra al momento di circa 70 mila euro l’anno. Il doppio di quanto percepiva alla Asl. Il contratto non è ancora stato ufficializzato. “Sappiamo che lavora qui, la vediamo da settimane ogni giorno eppure nessuno ha il coraggio di mettere la faccia su questa nomina”, afferma il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Dario Violi. Due settimane fa, con esattezza il 27 giugno 2014, Violi e il suo gruppo hanno presentato richiesta formale per avere l’elenco degli incarichi e dei contratti fatti da Cantù ma ancora non hanno ricevuto alcuna risposta. E non è detto che quello di Martinelli ci sia perché in base al decreto Monti non c’è l’obbligo della pubblicazione dei contratti privatistici ma solo delle collaborazioni. “Noi sappiamo che lavora qui – ripete Violi – e appena avremo i dati ufficiali faremo un’interrogazione per chiedere chiarimenti in merito alle assunzioni di amici, parenti”. Sì perché quello della compagna di Salvini non è “l’unico caso di incarico dubbio”: ci sono anche i fedelissimi del segretario del Carroccio Lucio Brignoli ed Eugenio Zoffili, coordinatore federale e nazionale lombardo del movimento giovani padani, entrambi sbarcati nel Palazzo Lombardia. Zoffili alla dirigenza dello staff dell’assessore Simona Bordonali, Brignoli in quella di Claudia Maria Terzi. Tanto per rimanere alla Lega. In Forza Italia la bandiera è tenuta alta dall’assessore all’istruzione Valentina Aprea: suo figlio Stefano Spennati, finita l’esperienza in Europa come assistente parlamentare di Lara Comi, è diventato dirigente della Regione Lombardia presso la sede di Bruxelles. Il consigliere regionale dei Cinque Stelle, Stefano Buffagni, ha presentato richiesta d’accesso agli atti e minaccia di presentare “una mozione di censura nei confronti dell’assessore”. Va detto però che Spennati, 32 anni, ha già un lungo curriculum: nel luglio 2009 era consulente del ministero dell’Istruzione per gli affari esteri, poi è stato nello staff del Commissario Antonio Tajani e nella segreteria di Mario Mauro quando era vicepresidente del Parlamento europeo. Spennati, oggi assistente a Bruxelles di Gianlorenzo Martini, direttore della delegazione presso l’Unione Europea di Regione Lombardia, non risponde al telefono. Disponibile invece è Matteo Salvini per spiegare la nomina della compagna. E parte all’attacco: “Un contratto con la Cantù? E cosa c’è di male? Lavorano insieme da almeno sei anni, prima a Milano poi a Legnano e ora in Regione, quindi?”. Quindi che la compagna del segretario della Lega venga assunta nella Regione che il partito guida non è proprio normale. “Ma per piacere… Ha fatto i concorsi per entrare all’Asl, se fosse rimasta nel privato da avvocato avrebbe guadagnato di più”. Lavorando anche di più. “Ma no, ha fatto una scelta di vita: lavorare nel pubblico, avendo a che fare con malati di mente, autistici e quant’altro; insomma la moglie di Renzi fa l’insegnante? La mia fa la dipendente Asl… poi guadagnasse diecimila euro al mese…”. Su questo “sono la stessa cosa”, chiosa Violi di M5S: “Parlano tanto di famiglia ma poi si preoccupano di sistemare le loro e, al massimo, gli amici”.
Il M5s: "Salvini ha piazzato la moglie in regione". Lui: "Siete dei poveretti", scrive “Libero Quotidiano”. Dal suo profilo Facebook Matteo Salvini si scaglia contro il giornale di Marco Travaglio che ha pubblicato un articolo nel quale denuncia la presunta assunzione in Regione Lombardia della compagna del segretario della Lega Nord. "Quei poveretti del Fatto Quotidiano, non potendomi attaccare su altro, se la prendono con la mia compagna perché ’lavora in Regione'", scrive Salvini. "Peccato - aggiunge - che la mia compagna, laureata e avvocato (più brava di me!), abbia scelto di lasciare una più comoda e remunerativa carriera nel privato per occuparsi di sociale, di malati di mente e di donne maltrattate, di disabili e di bimbi in difficoltà, lavorando per la Asl da ormai 5 anni, non da oggi, essendo assunta come migliaia di altre persone senza che io abbia (ovviamente) fatto nulla". Per Salvini "lei è in grado di aiutarsi da sola, e di aiutare gli altri. Se i Kompagni sono ridotti a questo, vuol dire che siamo sulla strada giusta! Scusatemi lo sfogo, ma quando infamano le persone mi incazzo. E ora riprendo a fare quello che mi piace, cioè lavorare". Ma non è solo Salvini ad essere finito nella denuncia del Movimento 5 Stelle che hanno presentato una interrogazione al governatore Roberto Maroni citando due presunti casi di una ’parentopoli' alla Regione Lombardia. In una nota, i grillini avevano scritto che "Giulia Martinelli, compagna del leader della Lega Nord Matteo Salvini, nel maggio scorso, è entrata a far parte dello staff dell’assessore regionale lombardo al Welfare Maria Cristina Cantù, con un compenso di circa 70 mila euro l’anno". E ci sarebbe anche "Stefano Spennati, figlio dell’assessore di Forza Italia Valentina Aprea", che "terminata l’esperienza in Europa come assistente parlamentare, è diventato dirigente della Regione Lombardia presso la sede di Bruxelles". Secondo Dario Violi, consigliere lombardo del M5S, "questa è una parentopoli e da mesi stavamo lavorando, con accessi agli atti, per farla emergere. I documenti ci vengono puntualmente negati o gli uffici ci fanno aspettare tempi enormi per darci informazioni che dovrebbero essere pubbliche. Aprea e Salvini ci dovrebbero spiegare l’opportunità che compagni o figli di esponenti di partito siano assunti nell’istituzione che governano". "Il caso Salvini-Aprea - ha aggiunto il consigliere del M5S - è solo la punta dell’iceberg: ogni giorno ci imbattiamo in personale assunto in posizioni apicali dalla Regione, dalle Asl o dalle aziende partecipate che non ha alcun requisito se non l’amicizia, la parentela con politici della casta o esperienze di lavoro in questo o quel partito". Pertanto, "con un’interrogazione chiediamo a Maroni di rispondere in merito a questo nuovo caso di parentopoli che danneggia i cittadini lombardi e l’immagine dell’istituzione".
Salvini, il comunista padano che per Milano dà il sangue. Il nuovo (probabile) leader della Lega da ragazzo frequentava i centri sociali. È stato consigliere comunale della sua città per 19 anni, è volontario dell'Avis e detesta Roma, scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Il superfavorito alla segreteria della Lega Nord, Matteo Salvini, ha una psicologia elementare che coincide con la scritta della sua maglietta verde preferita: «Milano. Viverci un onore, difenderla un dovere».
Matteo, detto Teo, è tutto qui: il Nord, la Padania, Milano, il Milan. Se si confermeranno le previsioni, il 7 dicembre, giorno dell'elezione, la Lega avrà per capo un baldo quarantenne impregnato così tanto di padanità che, al confronto, i due predecessori, Bossi e Maroni, fanno figura di spiriti universali. Umberto e Bobo, infatti, sono diventati con gli anni uomini di mondo, hanno soggiornato a Roma, frequentato salotti e accettato compromessi. A Teo, invece, Roma fa venire l'orticaria. Due volte gli è toccato scendere laggiù e solo perché era stato eletto deputato. In entrambi i casi, è fuggito appena ha potuto, preferendo allo scirocco romano le bore di Strasburgo. Nel 2008, resistette un anno. Poi, esausto, si fece eleggere alle Europee del 2009 e filò via. Rieletto a Roma con le Politiche di quest'anno, ma ancora in forze nell'Ue, optò per il seggio europeo, lasciando la scranna di Montecitorio a un collega. Insomma, con la capitale evita rapporti così come con il Centrosud. Anche perché, quando ci è venuto a contatto, è stato deluso. Venerando Bossi fin dalla puerizia, Teo volle imitarlo prendendo per moglie una ragazza di origine meridionale. Così impalmò la pugliese Fabrizia, di cui era innamoratissimo, e ne ebbe Federico, oggi di dieci anni. Ma a parte il fatto che lei era vicina ad An e lui un comunistoide in salsa padana, le cose tra loro si guastarono presto. Teo ne trasse conferma di essere incompatibile con ciò che oltrepassa i confini meneghini. Ora vive con Giulia da cui, un anno fa, ha avuto Mirta. Non si deve dedurre da questa traversia sentimentale, che Salvini sia ondivago o incostante. Fantasioso nelle sue iniziative, Teo è in realtà molto lineare nei comportamenti fondamentali. Ha quattro idoli, sempre gli stessi: Bossi, Maroni, Fabrizio De Andrè, il Milan. Bossi è il mito astratto, Maroni il riferimento concreto. Ciò significa che se ora Bossi si getterà nella lizza per contendergli la segreteria, Teo lo combatterà con ogni mezzo, senza timori reverenziali. Per lui è, ormai, puramente un'immagine votiva cui accendere un cero. Nelle cose serie, l'unico che pesi è Bobo. De Andrè, invece, è la sua fissazione dai tempi in cui frequentava il Leoncavallo, il centro sociale che lo ha nutrito di blande convinzioni di sinistra e che gli ha lasciato il marchio dell'orecchino alla Nichi Vendola che continua a portare. L'estate, quando come sempre va in Sardegna, trascina parenti e amici a Tempio Pausania in visita alla casa dove il cantautore fu rapito dai briganti. Il Milan, infine, rappresenta per lui le domeniche allo stadio tra i tifosi della curva e l'unico legame con il Cav che, per il resto, gli è indigesto. Tanto è vero che, per le politiche di quest'anno, aveva ostacolato l'alleanza tra Lega e Pdl «perché la presenza in campo di Berlusconi non ci aiuta». Di famiglia benestante - il papà era dirigente d'azienda - Teo ha sempre avuto un temperamento ruspante. Poteva diventare un distinto pollone della Milano da bere, con un bel master e un avvenire in banca. Ha scelto, invece, di trascorrere le giornate vestito di verde nei mercatini rionali a distribuire volantini. Anziché laurearsi - dopo le Medie dai preti e il liceo classico al Manzoni -, ha piantato le tende alla Facoltà di Storia. È lì da ventuno anni, senza dare esami ma rinnovando l'iscrizione tanto per non gettare la spugna. Non è un curriculum da intellettuale ma conferma la costanza cui accennavo sopra. A diciassette anni, nel 1990, Teo prese la tessera della Lega. Per amore della Padania, diradò la frequentazione della parrocchia dei Santi Narbore e Felice, dove aveva debuttato come boy scout e proseguito poi come sgambettatore del pallone. A vent'anni (1993), è entrato in Consiglio comunale, rimanendoci per diciannove primavere di fila. Prendeva l'equivalente di 800 euro il mese. Tanto gli è bastato per una dozzina d'anni finché dal 2004, si sono aggiunti altri incarichi tra cui, per due legislature, la poltrona di deputato europeo. Salvini non è uno che si è arricchito con la politica. Modesto all'inizio, dimesso tuttora, sua massima aspirazione è diventare un giorno sindaco di Milano. Altre cariche non lo solleticano. Gli piace «fare politica» che equivale, nella sua testa, ad armare un casino, movimentare la giornata, provocare. Già nel 1997 si fece notare alle elezioni dell'autoproclamato Parlamento della Padania, per il nome della lista che capeggiava: «Comunisti padani», frutto della già descritta propensione leoncavallina. Da allora, ha fatto sparate a iosa. Dalla proposta di riservare alle donne alcuni vagoni della Metro milanese per sottrarle «all'invadenza degli extracomunitari», al rifiuto, da consigliere di maggioranza, di stringere la mano al presidente Ciampi in visita a Milano dicendogli: «Lei non mi rappresenta». Una volta, sempre come consigliere, drizzò un mercatino abusivo davanti alla sede dei Vigili urbani, per rinfacciare sarcasticamente l'inerzia del Corpo verso il dilagare in città del vero abusivismo. Così, si è fatta fama di Pierino. Ma, considerato innocuo e talvolta utile, è benvisto anche dagli avversari. La giornata tipo di Teo comincia alle sette con le apparizioni nelle piccole tv regionali, da Telenova a Tele Padania. Poi corre qua e là per risolvere problemi minuti della gente, dall'ascensore rotto di una casa popolare, all'assistenza. Il grosso del tempo lo passa però nei mercatini, dove organizza banchetti leghisti, fa propaganda maroniana, raccoglie petizioni, ecc. Una variante, nella sua qualità di deputato Ue, è volare a Bruxelles di prima mattina per fare lobby padana e rientrare nel pomeriggio per fare all'incirca lo stesso a Milano. Ha due appuntamenti fissi. Il venerdì accompagna in parrocchia il figlio Federico, che vive con la moglie separata, a giocare a pallone come faceva lui nella speranza che in futuro segue le sue orme anche come boy scout e leghista professionale. L'altra immancabile scadenza è con l'Avis. Teo è infatti un generoso e quasi fanatico donatore di sangue che, in casi di emergenza, organizza anche scambi trasfusionali tra militanti della Lega. Un idiota gli ha chiesto se fosse un espediente per evitare al sangue padano di finire in vene extracomunitarie. «Il sangue ha un solo colore», ha osservato Salvini, dimostrando che la risposta più semplice è la migliore per dare del cretino a un cretino.
C’ERA UNA VOLTA LA MAFIA AL SUD E LE TANGENTI AL NORD. OGGI C’E’ LA MAFIA DEL NORD.
La mafia al Nord esiste. Ora è difficile negarlo. Una notte della scorsa settimana la Cassazione ha reso definitive le condanne del maxiprocesso di Milano sulla 'ndrangheta in Lombardia. Ora negare o nascondere sarà più difficile, ma se ne parla malvolentieri, scrive l'11 giugno 2014 Elisa Chiari su “Famiglia Cristiana”. Alessandro Manzoni aveva già capito tutto. Solo chi diceva che al Nord la mafia non esiste, poteva pensare che quel metodo intimidatorio, grazie al quale bastava un nome, per piegare i diritti alla prevaricazione, l’avesse “inventato” don Lisander facendo emergere dal nulla della fantasia l’incontro tra don Abbondio e i bravi. Troppo bello per essere anche vero, ma adesso, come si dice, “è Cassazione”. La ‘ndrangheta al Nord esiste e c’è la prova che, ovunque faccia affari sporchi, non è una faida tra ‘ndrine isolate, ma un struttura ramificata e unitaria, anche se con una struttura verticistica diversa da quella riconosciuta per cosa nostra. Il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti plaude all'efficacia dell'inchiesta e dei processi e definisce la sentenza di «eccezionale importanza». Chi studia la storia della criminalità organizzata ritiene che la sentenza definitiva relativa al troncone milanese del processo noto alle cronache come Crimine-Infinito, condotto tra Milano e Reggio Calabria, - abbia portata storica, in termini di conoscenza del fenomeno e di creazione di un precedente significativo, in fatto di giurisprudenza. C'è anche chi la paragona a quella del maxiprocesso di Palermo del 1992. Anche per questo fa un po’ impressione che il maxiprocesso di Milano faccia molta meno notizia di quello di allora a Palermo, quasi che ci si fosse assuefatti al rischio o, peggio, alla tentazione di cullarsi nell’incoscienza. Se ci avessero detto vent’anni fa che 22 anni dopo avremmo assistito a un maxiprocesso milanese di criminalità organizzata con centinaia di imputati, che sarebbe durato meno di 4 anni tra chiusura delle indagini e conferma in Cassazione, avremmo gridato a una previsione malata di catastrofismo, dimenticando che la litania della mafia che non esiste, aveva già avuto tanti precedenti al Sud, negati, finché il maxiprocesso palermitano non li ha messi nero su bianco in Tribunale. Ma ora che il punto fermo arriva a Milano quasi non se ne parla. Eppure, altre inchieste tra gli anni Novanta e primi anni duemila, sempre a Milano, avevano acceso luci, magari meno diffuse, ma significative sul problema, altri processi sono in corso a Torino. Ma c’è ancora chi si sente offeso: offeso non dall’esistenza di una locale di ‘ndrangheta che si chiama La Lombardia, offeso non dal fatto che sia potuto accadere, ma offeso dalle parole come pietre che la scolpiscono in una sentenza. E forse il problema è proprio qui: invece di indignarsi perché le cose contenute nelle sentenze accadono ci si indigna perché qualcuno indaga e le svela. Invece di voler capire per prevenire, si preferisce non sapere. Ma non è chiudendo gli occhi che si risolvono i problemi, e le cronache sulla corruzione lo dimostrano. A chi le ricorda, però, alla prova dell'attualità fanno eco le parole, scosse di commozione e di rabbia, che tuonarono ventidue anni fa nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano: «Oggi è finita la Duomo connection, alla quale Giovanni e io avevamo lavorato assieme. La mafia si può sconfiggere. Ma esiste, signor procuratore. A Milano come a Palermo, non ci sono confini». Oggi era il 25 maggio 1992, la Duomo connection era il primo processo che chiamava in causa la mafia, cosa nostra in quel caso, a Milano. Giovanni era Giovanni Falcone, saltato per aria due giorni prima a Capaci su mezza tonnellata di tritolo, le parole erano di Ilda Boccassini che vent’anni dopo, da capo della Direzione distrettuale antimafia milanese, in sinergia con Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Nicola Gratteri a Reggio Calabria, ha coordinato insieme ai sostituti procuratori Alessandra Dolci e Paolo Storari l’indagine portata al vaglio della Cassazione il 5 giugno scorso. La linea della palma non si ferma, il malaffare prospera, ma, almeno, Giovanni Falcone aveva ragione: «Se succede qualcosa a me altri continueranno». La magistratura, però, non può arrivare che a reati già commessi. Ad altri spetterebbe provare a prevenirli. Ma spesso sono gli stessi che preferiscono non vedere.
Mafie al nord, il timbro della Cassazione, scrive
Lorenzo Frigerio su “Articolo 21”. Quando gli storici ne scriveranno tra qualche
decennio – sempre che decidano di scriverne, privilegiando una volta tanto le
vicende più complesse di questo Paese e non i giochi di Palazzo – si ricorderà
senza dubbio la notte tra il 6 e il 7 giugno del 2014 come data epocale nella
storia del contrasto alla criminalità organizzata al nord e in particolare della
lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia, un tempo considerata immune dalle possibili
infiltrazioni mafiose.
Una criminalità, quella di origine calabrese, senza ombra di dubbio oggi la più
agguerrita tra le mafie nostrane, in grado di estendersi con i suoi tentacoli al
di fuori del nostro Paese tanto da diventare una minaccia pubblica a livello
internazionale. Una data da ricordare dunque. Una data davvero storica perché
segnata dalla decisione della VI sezione penale della Corte di Cassazione che,
mettendo un timbro definitivo al primo filone del processo “Crimine/Infinito”,
nato dal blitz ordinato dalle DDA di Milano e Reggio Calabria a metà luglio del
2010, certifica l’esistenza di un organismo verticistico di controllo delle
cosche nel bel mezzo della fantomatica Padania e ne sanziona l’esistenza,
comminando in totale ben otto secoli di carcere ai soggetti facenti parte delle
cosche all’opera nella regione più importante del nord del Paese, in quello che
viene considerato il motore economico d’Italia. Un organismo direttivo quello di
cui la Suprema Corte parla – denominato dagli stessi affiliati con una non
malcelata ironia “la Lombardia” – in grado di garantire unitarietà d’azione ai
locali sparsi sul territorio regionale e identificate negli atti processuali. Un
elenco da mandare a memoria, per evitare le amnesie di chi preferirebbe
archiviare tutto rapidamente: Milano centro, Bollate (MI), Bresso (MI), Cormano
(MI), Corsico (MI), Legnano (MI), Limbiate (MI), Pioltello (MI), Rho (MI),
Solaro (MI), Pavia, Canzo (CO), Erba (CO), Mariano Comense (CO), Desio (MB),
Seregno (MB). Una rete diffusa sul territorio lombardo fatta di contatti
informali e di rapporti solidi con quello che è “il capitale sociale” della
‘ndrangheta in Lombardia: un fitto reticolo di relazioni con insospettabili
esponenti dell’economia e della finanza e rappresentanti della politica e delle
istituzioni, in grado di assicurare agli uomini delle ‘ndrine di arrivare a
massimizzare profitti e di perfezionare business leciti e illeciti a favore di
un’organizzazione criminale ritenuta – a torto – fino ad un decennio fa un
pericolo minore rispetto a Cosa Nostra. La sentenza della Cassazione scrive
l’ultima pagina del giudizio abbreviato emesso dal gup del Tribunale di Milano
Roberto Arnaldi nel novembre 2011 e poi parzialmente confermato in appello
nell’aprile 2013 e riguarda la gran parte dei soggetti indiziati, al termine
delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei pm
Alessandra Dolci e Paolo Storari. Altri filoni processuali sono in itinere
presso i Tribunali di Milano e di Reggio Calabria e sarà interessante vedere se
avranno la stessa lettura assicurata da quest’ultima sentenza. Secondo la
ricostruzione operata nei diversi gradi di giudizio, “la Lombardia” era arrivata
addirittura a vagheggiare progetti secessionisti dalla casa madre in Calabria,
rappresentata dalle storiche “Province” di Reggio, della Piana e della Ionica.
Un progetto peraltro suicida che portò prima all’eliminazione di un boss come
Carmelo Novella nel 2008 in un bar di San Vittore Olona, alle porte di Milano, e
poi allo storico summit dell’ottobre 2009, ripreso dalle telecamere dei ROS dei
Carabinieri nel circolo per anziani di Paderno Dugnano, dove i capi della
‘ndrangheta in Lombardia si riunirono. Un incontro segreto resosi assolutamente
necessario per nominare i nuovi vertici, dopo l’eliminazione di Novella, voluta
per reprimere nel sangue il tentativo di affrancarsi dai clan calabresi e per
lanciare un monito a tutti gli affiliati. Un summit le cui immagini sono poi
state consegnate alla memoria collettiva grazie ad internet e ai social network
e che racconta di come i boss ‘ndranghetisti si diedero appuntamento in quella
struttura dedicata alla memoria dei giudici Falcone e Borsellino, noncuranti
dell’offesa alla loro memoria. Uno sfregio pensato e voluto, ma che si
immaginava sarebbe rimasto un segreto custodito dai partecipanti alla riunione.
La sentenza della Corte di Cassazione inaugura una nuova chiave di lettura del
fenomeno ‘ndrangheta, storicamente considerata refrattaria ad organismi
verticistici di comando e proprio per questa libertà organizzativa in grado di
diffondersi in Italia e nel mondo, senza troppi vincoli gerarchici, facendosi
però forte delle tradizioni e delle regole che pure restavano quelle delle
origini e della terra calabrese. Sono passati meno di quattro anni dal blitz del
luglio 2010 e sembra passato un secolo. Soprattutto oggi diventa difficile
leggere il quadro della presenza delle mafie nel nord, in particolare in
Lombardia, la regione più toccata dalle indagini antimafia degli ultimi
anni. Sembra sempre più difficile per la politica negare l’esistenza di una
ramificata presenza delle cosche nel territorio, presenza definita ormai con il
termine della “colonizzazione” da parte della Direzione Nazionale Antimafia.
Sembra sempre più difficile per l’opinione pubblica far finta di non avere
questa presenza scomoda in casa, ben dentro i confini di una terra colpevolmente
ritenuta immune. Sembra, infine, sempre più difficile però scaricare il peso del
condizionamento criminale degli appalti per EXPO 2015 sulla cricca dei “soliti
noti” presi con le mani nella marmellata appena qualche settimana fa. Eh sì,
perché la matematica non è un’opinione. All’indomani dell’operazione del luglio
2010, Ilda Boccassini in conferenza stampa annoverò tra gli effettivi a
disposizione della ‘ndrangheta in Lombardia ben 500 elementi. Se 150 furono
arrestati allora, significa che in circolazione ce ne sono almeno 350. E anche
se alcuni fossero finiti nelle maglie della giustizia in altri procedimenti,
vogliamo pensare che i molti restanti se ne stiano buoni e calmi, in attesa che
passi la “nuttata” o meglio l’EXPO, senza provare a fare quello che sanno fare
meglio?
La 'ndrangheta nata al Nord che nessuno voleva vedere. L'inchiesta "Infinito" ha dimostrato l'esistenza delle mafie nel Settentrione. La sentenza conferma che non si tratta più di un'invasione. La cultura e i meccanismi criminali si formano nel territorio come a sud, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. La prima pagina de Il Giornale che nel novembre 2010 lanciò la raccolta di firme contro Roberto Saviano La 'ndrangheta comanda al nord. È una sentenza storica questa della Cassazione che conferma le condanne e tutto l'impianto accusatorio del processo Infinito. Quando ne parlai, in prima serata tv, nel novembre del 2010, su Raitre, le mie accuse generarono una reazione incredibile. Raccontare come la 'ndrangheta comandasse nel nord Italia sembrò un'accusa insopportabile: ancor più, svelare che la criminalità interloquiva con tutti i poteri politici. Una bestemmia, per di più pronunciata all'ora di cena in tv, nella casa di ogni italiano. Quando, poi, l'inchiesta smentì la diversità della Lega, che anzi era spesso complice o nel silenzio o nella connivenza - come si vedrà con il caso Belsito anni dopo - la scoperta scatenò tutti i pretoriani del governo Berlusconi - e un impegno diretto dell'allora ministro dell'Interno. Roberto Maroni si precipitò a smentire in ogni angolo delle tv, cercando di far passare la presenza criminale al nord come una cosa minore, anzi scontata: lo sapevano tutti, e poi la Lega non c'entrava. I professionisti del fango iniziarono a raccogliere firme contro di me che osavo dare "del mafioso al nord". Finì così anche la mia esperienza in Rai: dopo aver raccontato come imprenditoria criminale e politica si saldano in una esponenziale crescita economica corrotta. Ma torniamo alla sentenza. Era il luglio del 2010 quando partì il blitz dell'inchiesta Infinito-Crimine: 154 arresti in Lombardia, altri 156 in Calabria. L'inchiesta della Dda di Milano svelava gli interessi mafiosi nelle Asl, l'infiltrazione nelle istituzioni pubbliche, le prime mire sull'Expo, i subappalti, le estorsioni, le aziende che vengono divorate perché - senza liquidità - si affidano a linee di credito delle 'ndrine. E ancora: la scoperta di una "confederazione" di diversi locali di 'ndrangheta nella struttura definita "Lombardia". Il tentativo del boss Carmelo Novella di rendersi sempre più autonomo rispetto alle 'ndrine calabresi, che dimostra il grado di maturità raggiunto dalla 'ndrangheta al nord, e la sua conseguente eliminazione. Ecco: tutto questo oggi non sono più accuse, ipotesi o condanne di primo o secondo grado. Oggi siamo di fronte a una sentenza di Cassazione e questa sentenza è chiara: l'inchiesta Infinito è confermata, al nord la 'ndrangheta comanda con una sua struttura unitaria. Ecco perché questa sentenza sta alla lotta della mafia come la scoperta dell'atomo alla ricerca fisica. I pm Ilda Boccassini, Paolo Storari e Alessandra Dolci della Dda, insieme con i Carabinieri, la Dia, i Ros di Milano e la Polizia - questa è un'indagine in cui credette molto il compianto Antonio Manganelli - hanno compiuto un'operazione complicatissima. E il ruolo di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino - all'epoca dei fatti procuratore a Reggio Calabria e ora a Roma - è stato fondamentale per permettere l'elaborazione di questa inchiesta doppia: fatta da sud e da nord. Perché questa sentenza non mostra semplicemente che c'è una presenza mafiosa al Nord: questo lo sapevamo dagli anni Settanta e a dimostrarlo c'erano già state diverse sentenze. No, questa sentenza dimostra invece che la presenza della 'ndrangheta non è più frutto di "invasioni", di cellule che vagano e arrivano ovunque anche al nord. Dimostra che la Lombardia, e più in generale il nord Italia, sono ormai diventati territorio di mafia. Questa sentenza fa cadere anche l'ultimo finto sillogismo: "Se è vero che tutti i meridionali non sono mafiosi, è vero però che tutti i mafiosi sono meridionali". Non è così: non è più così. I rapporti strutturali con il territorio e i meccanismi scoperti smontano l'idea che si sia trattato di invasione. Ma suggeriscono, al contrario, la formazione a livello locale di meccanismi e di cultura mafiosa. Di più. L'inchiesta dimostra che l'imprenditoria e una parte delle istituzioni lombarde si connettevano alle organizzazioni criminali per rafforzarsi, per consolidare potere economico. I livelli di responsabilità sono diversi, ovviamente: ma non v'è stata, da parte della politica, una vera scelta di contrasto al segmento economico mafioso. Per ultimo, andrebbe ricordato come ha lavorato l'Antimafia di Milano. Su Ilda Boccassini è stata riversata da anni una caterva senza precedenti di insulti e accuse, esterne e interne. Il pm non ha mai risposto agli attacchi: lo fa oggi, con questa sentenza storica che cambia il paese. Intercettazioni, riscontri, pedinamenti. L'inseguimento dei flussi di denaro, il ruolo delle banche, gli investimenti sospetti. E poi i traffici, gli omicidi. Anni, silenziosi, di inchiesta: senza colpi di scena, fughe di notizie, arresti chiassosamente eccellenti. È così che sono arrivati i risultati. E ora che cosa diranno coloro che hanno governato e governano la Lombardia? Quali firme raccoglieranno, quali bugie racconteranno i professionisti del fango? Da oggi è ufficiale: le mafie non riguardano più solo il Sud.
La mafia al Nord: quando dirlo era troppo scomodo, scrive Tiziano Resca su “Avvenire”. A volte può bastare un film per risvegliare la memoria, incrinare un comodo torpore e ricondurci a forza dentro la realtà. Tre giorni fa è stata presentata una realizzazione Rai dal titolo L'assalto. Andrà presto in onda, è una storia che si muove tutta al Nord del Paese, scosso dai tentacoli della più pericolosa piovra: la mafia, la 'ndrangheta, tutto quanto fa business sporco in modo facile e spietato muovendosi in una società in crisi di ogni cosa, o quasi. La "mafia al Nord" è un'ombra che si è fatta concreta almeno da una decina d'anni, ma che secondo alcuni ha origine negli anni Sessanta-Settanta, quando almeno cinquecento "uomini d'onore" vennero sottratti al loro brodo di coltura e inviati in quelle regioni grazie alla legge sul soggiorno obbligato. Oggi decine di inchieste, centinaia di arresti anche eccellenti, altrettanti "affari sporchi" portati alla luce hanno ormai dimostrato come uomini dei clan siano ben attivi in molta parte del Settentrione. Ma per lungo tempo i sospetti sulla mafia al Nord hanno trovato altalenanti risposte. Se qualcuno lanciava un allarme, qualcun altro cercava spesso di sopire, sminuire, dimenticare. Perché era vista come gratuita denigrazione – scomoda e imbarazzante – la sola idea che cosche e 'ndrine potessero davvero estendere i propri confini, incunearsi in zone dove più allettanti erano interessi e affari, cercare complicità e collusioni sempre più aggrovigliate e raffinate. Insomma, sarebbe stato come ammettere che quei tentacoli al Nord potevano contagiare anche parte del potere politico piccolo o grande, e gestori della cosa pubblica a livello locale. Sindaci di importantissime città e funzionari dello Stato sobbalzavano sulla poltrona solo a sentire quella parolaccia e la stessa Lega, partito decisivo nella gestione delle regioni settentrionali – Lega che peraltro aveva espresso un ministro dell'Interno quale Roberto Maroni, impegnato in una severa lotta ai clan – fu a volte protagonista di polemiche contro chi sosteneva che fosse in atto una strategia espansionistica delle cosche. Oggi – negli ultimi anni – una più diffusa presa di coscienza anche a livello politico ha certo fornito qualche puntello in più a magistrati e forze dell'ordine. Ma ormai le macerie lasciate dai nuovi "colletti bianchi" dei clan – forse meno dediti dei loro predecessori all'omicidio, ma ben specializzati in riciclaggio, usura, estorsioni, minacce – restano ad ingombrare le terre del Nord. Dove, per lorsignori, le attrattive continuano a non mancare. Milano, e con essa buona parte del Settentrione, sta viaggiando verso l'Expo 2015. Va riconosciuto: c'è la massima attenzione sui rischi di infiltrazione negli appalti. Ne parlava già esattamente quattro anni fa l'allora presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu. Lo scorso mese la stessa Commissione, ora presieduta da Rosy Bindi, è stata in trasferta a Milano. Anche in questa occasione si è riusciti ad innescare qualche polemica a livello politico, ma pazienza. Quello che conta è che, a giochi fatti, non si creino i presupposti perché tra qualche anno i luoghi dell'Expo siano al centro di iniziative come quella appena avviata sulla costa romagnola: un tour in pullman sui luoghi della mafia, una sorta di gita tra alberghi bar ristoranti simbolo della colonizzazione dei clan. Ottima l'intenzione di sensibilizzare, forse discutibile il metodo.
Eppure c'è ancora chi nega l'evidenza.
Le ossessioni di Saviano fanno il gioco della mafia. Il fatto che al Nord ci sia la mafia non vuole dire in alcun modo che il Nord sia mafioso, e neppure che rischi di essere contaminato, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Saviano, lo scrittore di mafia, gode come un matto. È entusiasta perché una recente sentenza della Cassazione ha stabilito, per legge, che la 'ndrangheta del Nord non è una parente povera della 'ndrangheta del Sud, ma è la stessa cosa. «Avevo ragione io - dice e scrive in queste ore -, il Nord è in mano alla mafia». Quella di Saviano ormai è una ossessione, direi un tifo interessato: senza la mafia non saprebbe che scrivere e addio libri, articoli, conferenze e incontri antimafia. Ora io non metto in dubbio le parole della Cassazione, è che mi sembra la scoperta dell'acqua calda. Mi sembra ovvio che la mafia ci sia, evidente che ci sono i mafiosi ma, addetti ai lavori a parte - direi maniaci a parte -, chi se ne importa se i clan che operano a Milano sono gli stessi o solo cugini di quelli che comandano a Corleone o a Reggio Calabria. Quello che Saviano non vuole capire - o finge di non capire - è che il fatto che al Nord ci sia la mafia non vuole dire in alcun modo che il Nord sia mafioso, e neppure che rischi di essere contaminato. Un conto è infiltrarsi in un appalto, riuscire a inserire con l'inganno un proprio esponente in una struttura pubblica o politica, altro è inquinare il vivere della comunità, comandare, disporre della vita e della testa delle persone. Fattene una ragione, caro Saviano, noi al Nord non siamo e non potremo mai essere in balia della mafia. Sappiamo combatterla ed estirparla non appena ne individuiamo una cellula. Non siamo omertosi, non siamo solidali, non applaudiamo i mafiosi all'uscita dalle caserme quando vengono arrestati, non insultiamo né aggrediamo - come avviene purtroppo in tante, troppe zone del Sud - i poliziotti che ammanettano i boss. Ci possono essere in giro - e probabilmente ci sono - anche migliaia di mafiosi, ma restano un corpo estraneo alla comunità. Al Nord un mafioso non è un padrino e neppure un uomo d'onore: è solo un criminale da assicurare alla giustizia il più presto possibile. Capiamo che chi ha costruito la sua fortuna economica e professionale sull'antimafia sia costretto a soffiare sul fuoco per tenere alti tensione e interesse. Buttafuoco, raffinato scrittore siciliano, di recente ha scritto che ci sono due tipi di mafia: la mafia e la mafia dell'antimafia. Un suo celebre conterraneo, Leonardo Sciascia, sostenne questa tesi già nel 1987, e per questo fu cacciato dal Corriere della Sera e linciato dai suoi amici comunisti. Chi sostiene che «tutto è mafia» porta inevitabilmente la gente all'assuefazione che «nulla è mafia». A vantaggio, caro Saviano, della mafia.
La mafia al nord? Saviano si sbaglia, scrive Franco Pelella su “Il Corriere della Sera”. Caro Beppe, Roberto Saviano ha preso spunto dalla recente sentenza della Corte di Cassazione relativa all’inchiesta “Infinito” per sostenere di nuovo una tesi da lui ripetuta più volte e cioè che la mafia è diffusa capillarmente nel nord dell’Italia. Secondo lui la sentenza “Dimostra che la Lombardia, e più in generale il nord Italia, sono ormai diventati territorio di mafia”. (“La ‘ndrangheta nata al Nord che nessuno voleva vedere”; La Repubblica, 8/6/2014). La mia opinione è che la sentenza della Cassazione mette in evidenza una consistente presenza della mafia al Nord ma essa non basta per dire che siamo di fronte ad una sua presenza capillare. Secondo me l’errore di fondo che fa Roberto Saviano è quello di basare le sue affermazioni su poche fonti di dati (soprattutto i processi) piuttosto che su molteplici fonti, come sarebbe corretto che facesse un sociologo “ad honorem” come lui. Se avesse consultato la ricerca più completa sulle mafie italiane (“Gli investimenti delle mafie”, redatta nel 2013 dal Centro di ricerca “Transcrime” dell’Università Cattolica di Milano) avrebbe avuto un quadro più completo del problema e avrebbe tratto conclusioni diverse. Il Centro “Transcrime” ha effettuato una misurazione della presenza delle organizzazioni mafiose sul territorio nazionale; tale misurazione è stata effettuata mediante la creazione dell’indice di presenza mafiosa (IPM). Il risultato finale del calcolo dell’IPM è una graduatoria delle regioni italiane formulata sulla base di tale indice. Ecco la graduatoria delle prime dieci regioni sulla base dell’IPM calcolato per ognuna di esse: 1) Campania 61,21; 2) Calabria 41,76; 3) Sicilia 31,80; 4) Puglia 17,84; 5) Lazio 16,83; 6) Liguria 10,44; 7) Piemonte 6,11; 8) Basilicata 5,32; 9) Lombardia 4,17; 10) Toscana 2, 16.
Il Giornale, Feltri: "Firmate contro Saviano che dà del mafioso al Nord". Il direttore editoriale del quotidiano di via Negri chiama a raccolta i suoi lettori contro lo scrittore di Gomorra, "reo" di aver parlato delle collusioni tra 'ndrangheta e Lega: "Sono fanfaronate, senzazioni che fanno guadagnare, non notizie", scrive Elena Rosselli su “Il Fatto Quotidiano”. Il giorno dopo l’arresto di Antonio Iovine, boss dei casalesi latitante da 14 anni, Il Giornale va alla guerra contro Roberto Saviano. In prima pagina, Vittorio Feltri, lancia l’iniziativa: “Una firma contro Saviano che dà del mafioso al Nord”. A fianco dell’editoriale al veleno dedicato allo scrittore, il quotidiano di via Negri mette a disposizione un indirizzo mail e numeri per fax ed sms invitando i lettori a scrivere chiaramente il proprio nome e cognome per dire al “signor Gomorra” che “Sondrio non è Casoria, Como non è torre Annunziata e Brescia non è Corleone”. Lunedì sera, durante il suo monologo nel programma di Raitre “Vieni via con me”, Roberto Saviano aveva raccontato la risalita delle organizzazioni criminali lungo lo stivale accostando alcuni esponenti della Lega al fenomeno della ‘ndrangheta in Lombardia. Durissime le reazioni il giorno dopo da parte degli esponenti del Carroccio. Ad arrabbiarsi più di tutti, il ministro dell’Interno Maroni che ha immediatamente chiesto alla Rai di poter replicare alle accuse dello scrittore campano nella puntata di lunedì prossimo. Alla risposta negativa del capostruttura di Raitre Loris Mazzetti, il titolare del Viminale ha prima minacciato querela e chiesto l’intervento del Quirinale, poi ha proposto allo scrittore “di metterci una pietra sopra e lavorare insieme contro la criminalità”. Tutto questo, nel giorno in cui la Direzione investigativa antimafia (Dia), lancia l’allarme sulle collusioni fra imprenditori e ‘ndrangheta in Lombardia. E in cui il Viminale mette a segno un gran colpo nella lotta alla criminalità organizzata: l’arresto di Antonio Iovine, superboss dei Casalesi latitante da 14 anni. Non sotterra l’ascia di guerra però Il Giornale, che in un servizio di cinque pagine attacca l’autore di Gomorra e chiama a raccolta i lettori perché esprimano tutto il loro sdegno contro l’accostamento tra lombardi e criminali. In prima pagina, Feltri dopo aver ricordato che “questo governo, quanto nessun altro prima, si è distinto nelle botte alla mafia”, si chiede: “E un giovanotto campano letterariamente fortunato salta su a dire che la Lega fa affari con la cupola?” Scontata la conclusione: “Ma ci faccia il piacere”. Secondo l’editorialista de Il Giornale, quelle di Saviano, “più che riflessioni sono fanfaronate”. Esagerazioni che portano soldi: “Compilare cronache (con pretese di saggio) sulla mafia sia redditizio assai e dia titolo per avere accesso agli studi televisivi, con relativo compenso, tuttavia ciò non affranca dal dovere di non spacciare sensazioni per notizie”. Insomma, la’ndrangheta al Nord? Per Feltri una “senzazione” di Saviano. Ecco perché i lombardi “che nel loro piccolo si incazzano”, secondo il quotidiano di via Negri sommergeranno il giornale di mail, messaggi e fax di adesione alla campagna. Ma il servizio contro Saviano non si limita alla prima pagina. Sono sei le facciate che Il Giornale dedica allo scrittore. Innanzitutto la cronaca della querelle tra Saviano e Maroni. Laddove l’autore di Gomorra diventa “il Pippo Baudo dell’antimafia ” (Borghezio dixit), il titolare del Viminale appare l’eroe buono che perdona “il telepredicatore impreparato” Saviano e gli chiede di “deporre le armi”. La terza pagina, sotto l’etichetta “agguato al Carroccio” è dedicata a un vecchio racconto di Saviano, “Un sogno padano” che lo scrittore aveva pubblicato nel 2003 per Nazione Indiana, una rivista letteraria online di Milano. Secondo l’articolo, dal “sogno” dello scrittore di Casal di Principe si capirebbe cosa egli pensi esattamente del Carroccio: “L’armata padana guidata da Bossi è un esercito pronto a usare il mitra contro immigrati, meridionali e negri. Il Saviano d’antan – continua l’articolo – è lo stesso di oggi, feroce con il Nord, settario e fazioso”. A fianco il commento di Salvatore Tramontano nota strani parallelismi tra la scelta dell’argomento criminalità – Lega usato dallo scrittore in Vieni via con me e l’uscita ieri della relazione della Dia che affronta l’esistenza dell’ndrangheta al Nord (inviata al Parlamento ieri, ma terminata a ottobre, e comunque controfirmata dal ministro dell’Interno Maroni, ndr). “La fabbrica sudista del fango ha subito sfruttato la relazione della Direzione investigativa antimafia – scrive Tramontano – che parla, con una coincidenza un po’ sospetta di tempi, di una presenza consolidata della malavita in Lombardia”. La penultima pagina del servizio, titolata “le balle di Saviano“, riprende articoli già usciti su Il Giornale sugli “strafalcioni” dell’autore di Gomorra accusato di aver “scopiazzato” pezzi di altri giornalisti per comporre il suo celebre reportage sulla camorra: “Così Saviano ha copiato Gomorra. Interi brani ripresi, senza citarli, da ‘corrispondenze di guerra’ di cronisti con l’elmetto da sempre”. Lo scrittore è chiamato in causa anche per le sue “amicizie imbarazzanti”: “Improbabile il legame tra Roberto e Pietro Taricone“. Perché? “Per i quattro anni di differenza”. A chiudere il cerchio degli articoli contro Roberto Saviano è Vittorio Sgarbi con un commento dal titolo “Scrittori coraggiosi? La malavita si combatte sul campo”. Il critico d’arte indossa la fascia tricolore in qualità di sindaco di Salemi e dopo essersi lamentato per il mancato invito a Che tempo che fa “perché sono un maleducato”, lancia la bordata contro Saviano “il coraggioso scrittore con scorta”. Sgarbi si paragona all’autore di Gomorra: “Anch’io vivo sotto scorta per le mie denunce, dalla Sicilia al business eolico in Molise”. Secondo il critico d’arte Saviano in trasmissione è stato “evasivo e non convincente” perché “non ha parlato di Molise, Puglia, Calabria e Sicilia, martoriate dalle pale eoliche con profitti miliardari e arresti di mafiosi. Niente, a Saviano non interessa”. Sgarbi è preoccupato per il Molise: “Vedo il Molise in pericolo. Lì con l’eolico fa affari la camorra”. Peccato che Feltri, nella conlusione dell’editoriale in seconda pagina dica il contrario e citi il Molise come esempio di regione del Sud virtuosa: “Nel Molise ad esempio, la camorra e la Sacra Corona Unita non hanno mai attecchito, perchè questa è terra sannita, e i sanniti, che hanno rotto le ossa ai romani, non hanno paura dei bulli con la pistola protagonisti di Gomorra”. Le firme contro Saviano non arrivano a sorpresa. Gli house organ di Berlusconi lavoravano da giorni a diverse varianti sul tema. Ieri mattina Libero apriva con questo titolo: “Saviano ha rotto i Maroni”. Il quotidiano di Maurizio Belpietro spiegava: “Il ministro, che ha arrestato 6500 boss in due anni, si appella al Quirinale contro le accuse dello scrittore alla Lega: “Devo andarmene?” Poi la chiosa: “Ora il presidente scelga se stare con le istituzioni o con l’avanspettacolo”. Ventiquattro ore dopo, via alla raccolta di firme su Il Giornale. A questo punto non resta che aspettare i titoli e le iniziative di domani.
Si moltiplicano intanto le iniziative a favore di Roberto Saviano. Il sito di Articolo21, l’associazione per la difesa della libera informazione diretta da Stefano Corradino, risponde a Il Giornale con l’appello “Una firma per Roberto Saviano (che dà dei mafiosi ai mafiosi)”. ”E’ grazie a Saviano e a tanti altri giornalisti che coraggiosamente indagano sulla criminalità, sui rapporti tra mafia, economia e politica – spiega Corradino – se si è aperto uno squarcio, uno dei tanti muri di omertà di questo Paese e se si è arrivati agli arresti di capi clan come Antonio Iovine”. “Per questo siamo con Roberto – conclude il direttore di Articolo21 – e con tutti i Saviano che ogni giorno dalle redazioni più grandi a quelle più sperdute, da nord a sud, ingaggiano una battaglia difficile e rischiosa contro la criminalità e i suoi intrecci perversi”.
Mafia e politica al Nord, ecco la mappa: 74 casi, il record a Milano con 18. L'analisi di ilfattoquotidiano.it basata sui dati delle inchieste giudiziarie degli ultimi quattro anni, dalla Liguria alla Lombardia. Un cittadino su cinque amministrato da almeno un personaggio avvicinato dai clan, soprattutto di 'ndrangheta. Cinque i Comuni sciolti sopra la linea del Po. Il sostegno elettorale al primo posto tra i motivi che determinano l'approccio, scrive Elena Ciccarello su “Il Fatto Quotidiano”. Cinque comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e un centinaio di relazioni pericolose. È la fotografia dei contatti tra ‘ndrangheta e politica nel nord Italia scattata dalle più importanti inchieste antimafia degli ultimi quattro anni. Un quadro inquietante, sicuramente incompleto, che descrive il tentativo dei clan di influenzare la vita amministrativa di comuni, province e regioni anche nel profondo nord del Paese. Le indagini realizzate dal 2009 al 2013 indicano che il 20 per cento dei cittadini di Piemonte, Liguria e Lombardia, ossia 1 su 5, è stato amministrato o rappresentato da almeno un politico accusato di affiliazione o concorso esterno in associazione mafiosa. Circa 75mila abitanti del nord-ovest dal 2011 vivono in un comune sciolto per mafia. E in questo quadro la provincia di Milano, con quella di Torino e Genova, risulta l’area in cui più forte è il tentativo di condizionamento dei risultati elettorali. Spulciando i documenti dell’antimafia e tenendo conto solo di politici in carica e candidati – e non di uomini di partito o funzionari, che pure figurano – si ricava un elenco di almeno 74 casi di avvicinamento tra rappresentanti delle istituzioni e criminalità calabrese (grande protagonista, pochissime volte affiancata o sostituita da Cosa nostra). La stragrande maggioranza dei casi non contiene alcun reato, e in ogni caso tutte le persone citate sono da intendersi innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Ma gli episodi tutti insieme tracciano una prima mappa inedita dell’assalto dei clan alla politica del Nord Italia. Emergono le scelte degli uomini legati alla malavita e quella rete di “relazioni esterne” dell’organizzazione criminale che, anche quando non ha rilevanza penale, contribuisce a fare della mafia un sistema di potere e non un semplice gruppo armato. Sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, i rapporti individuati possono essere classificati in cinque tipi per livello di coinvolgimento, a prescindere dal loro profilo penale che, lo ribadiamo, resta perlopiù irrilevante (o, in alcuni casi, ancora da provare definitivamente in tribunale). Si passa dal semplice contatto (30 per cento degli episodi), cene, pranzi e appuntamenti in cui gli uomini dei clan tentano un primo abboccamento, al sostegno elettorale (43 per cento), che rappresenta il tipo di rapporto maggiormente rilevato e nasce talvolta da una scelta spontanea dei malavitosi (una decisione in ogni caso mai gratuita, almeno nelle intenzioni), per arrivare agli episodi in cui più chiaramente emerge una prospettiva di accordo tra le parti (16 per cento). A questi si sommano infine gli episodi in cui, secondo gli inquirenti, politici e amministratori si relazionano agli uomini di mafia sapendo bene con chi hanno a che fare: 5 casi di presunta affiliazione e 3 di concorso esterno in associazione mafiosa. Le inchieste rivelano che il sostegno elettorale è il motivo di contatto più frequente tra cosche e classi dirigenti, così come lo scambio tra voti e appalti è la base di ogni scioglimento comunale per mafia. I voti sono una merce molto richiesta, la buccia di banana su cui rischiano di scivolare anche i politici più scafati. Passa tutto da lì: è il peccato originale che i clan sfruttano per ricavare beni e favori all’organizzazione criminale. In questo contesto i comuni sciolti per infiltrazioni mafiosa, Bordighera (il cui commissariamento è stato successivamente annullato), Ventimiglia, Leinì, Rivarolo e Sedriano, raccontano solo una parte della storia. Guardando ai rapporti tra politica e mafia ogni territorio, comune, collegio o circoscrizione elettorale del nord Italia diventa lo specchio del potere conquistato dai clan. L’area di elezione di politici e amministratori costituisce infatti lo spazio su cui si misura la capacità mafiosa di penetrare le istituzioni, condizionare un territorio e la sua vita democratica. La dimensione della sua scalata al potere. In questa classifica alla città di Milano tocca il valore massimo, con 11 episodi segnalati. E i numeri peggiorano quando gli episodi si sovrappongono sullo stesso territorio. La cifra che ne risulta (indicata nella mappa con una diversa gradazione di colore) è ben più grave e colloca, ad esempio, il capoluogo lombardo in vetta alle posizioni con 18 casi complessivi. Nelle intercettazioni e nei documenti ufficiali (i dati sono aggiornati al 31 dicembre 2013), la stragrande maggioranza dei politici si mostra inconsapevole, distratta, responsabile tutt’al più di una caccia al consenso che conduce talvolta a pericolosi incontri ravvicinati. E infatti tutti i politici si dichiarano estranei a qualsiasi coinvolgimento o responsabilità. Le relazioni con uomini legati ai clan nascono spesso in un’area grigia popolata da colletti bianchi, affaristi e fiancheggiatori di ogni sorta, in cui si stringono molte mani e non sempre è facile capire chi si ha di fronte. Capita, poche volte per la verità, che i politici vengano addirittura scelti a loro insaputa, sostenuti dai “calabresi” per giochi di sponda o di interessi incrociati, quando collettori di voti – luogotenenti dei boss, uomini di partito, affaristi e persino genitori o parenti – intercettano per i candidati inconsapevoli i consensi della rete criminale (è il caso, ad esempio, del sindaco di Torino Piero Fassino o delle giovani Fortunata Moio e Teresa Costantino). Accanto a questi episodi emergono però anche abboccamenti diretti e più compromettenti. Richieste di voto avanzate senza fare troppe domande. In questi casi i politici coinvolti non possono negare di aver chiesto quei voti, ma giurano di non aver minimamente sospettato della qualità criminale dei loro interlocutori, in alcuni casi ancora da provare in tribunale. Sono gli episodi in cui, come scrivono i magistrati della procura di Milano “non sempre è l’appartenente alla mafia che si infiltra nella società civile” ma “esponenti di istituzioni, della società civile o delle professioni ricercano il rapporto con la mafia”. A questi fatti si sommano poi alcuni casi limite, una decina in tutto, in cui lo scambio, secondo gli inquirenti, avviene nella piena ed esplicita consapevolezza dei ruoli. È sconcertante vedere quanto in alto riescano a salire gli uomini legati alla criminalità calabrese, nei loro rapporti, prima che scatti un qualche campanello d’allarme. Come un sasso tirato nello stagno, i rapporti tra mafia e politica disegnano centri concentrici che si propagano da alcuni punti nevralgici verso l’esterno. Più rapidi a diffondersi sono trovano interlocutori disponibili, più radi dove i servizi mafiosi non hanno mercato. Dal punto di vista della collocazione politica il partito di gran lunga più avvicinato è il Pdl, con 40 episodi, coincidenti ad oltre la metà dei casi totali, per il resto quasi equamente distribuiti tra Pd, Udc, Idv, liste civiche e altri partiti. Mentre sono tutte di centro-destra le amministrazioni dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa. I comuni commissariati per mafia sono tutti medio-piccoli, ma il dato non deve trarre in inganno. I tentativi di contatto riguardano infatti anche consiglieri e amministratori provinciali, regionali, nazionali e persino un parlamentare europeo. Se negli ultimi 4 anni i boss calabresi hanno contattato, sostenuto o fatto accordi con 10 sindaci, 6 assessori e 22 consiglieri comunali (guardando ai soli candidati eletti), i rapporti che superano la soglia comunale rappresentano nel complesso circa il 40 per cento del totale, con 12 avvicinamenti di consiglieri o assessori regionali e 6 di politici con cariche provinciali.
Nota metodologica e fonti. I dati riportati nella mappa e nei grafici sono aggiornati al 31 dicembre 2013 e riguardano gli episodi contenuti nelle principali inchieste antimafia realizzate dal 2009 al 2013. Il partito di appartenenza e la carica dei politici sono relativi al momento del contatto con l’organizzazione criminale. Molti di loro hanno successivamente assunto altre cariche, o cambiato partito. Non sono stati classificati gli intermediari o gli uomini di partito senza cariche rappresentative o amministrative al momento del contatto. La mappa segnala esclusivamente i politici citati negli atti giudiziari, molti dei quali non sono neppure indagati, e comunque tutti sono da considerarsi non colpevoli fino all’ultimo grado di giudizio. Ad ogni soggetto è attribuito un territorio in relazione al contesto di elezione: comune, collegio o circoscrizione. La situazione giuridica indicata per ognuno riguarda esclusivamente le condotte che abbiano attinenza con il tema della ricerca. Nel caso del sostegno elettorale, per ogni soggetto è indicata la carica conquistata anche grazie al sostegno mafioso e, in caso di mancata elezione, la carica – se presente – posseduta prima della candidatura. Viceversa compare la dicitura “non eletto”. Il lavoro ha utilizzato le seguenti fonti: Relazione Commissione antimafia XVI legislatura, gennaio 2013; G. Barbacetto e D. Milosa, Le mani sulla città, Chiarelettere, 2011; E. Ciconte, Politici e malandrini, Rubbettino, 2013; Marco Grasso e Matteo Indice, A meglia parola, De Ferrari, 2013; Vittorio Mete, Fuori dal Comune, Bonanno, 2009; M. Portanova, G. Rossi, F. Stefanoni, Mafia a Milano, Melampo, 2011, Rocco Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, Donzelli, 2009. Archivio web de Ilfattoquotidiano.it. La Repubblica, Il Corriere, La Stampa e alcune testate locali. I dati demografici e i confini territoriali attingono agli ultimi rilevamenti Istat (2011-2013).
Nicola Gratteri: "Non c'è mafia senza corruzione". Il maxiprocesso, tra Milano e Reggio Calabria, ma anche le inchieste sulla corruzione che devastano il Nord: quanto sono legate mafia e corruzione e soprattutto che fare, per essere efficaci? Ne parliamo con il procuratore aggiunto Nicola Gratteri, scrive Elisa Chiari su “Famiglia Cristiana”. Nicola Gratteri è procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ha lavorato con Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, al ramo calabrese dell'inchiesta nota alle cronache come Crimine-Infinito. Il troncone lombardo, coordinato da Ilda Boccassini, Paolo Storari e Alessandra Dolci, nei giorni scorsi ha avuto piena conferma in Cassazione, mentre il Paese annega nella corruzione dilagante.
Dottor Gratteri, è davvero una sentenza storica? Perché?
«Certamente è di fondamentale importanza, la sentenza della Cassazione conferma la presenza massiccia della ‘ndrangheta in Lombardia, ma anche in passato ci sono state inchieste di enorme rilievo, grazie a magistrati quali Alberto Nobili e Armando Spataro, che hanno dimostrato l’esistenza della ‘ndragheta in Lombardia. Purtroppo, c’è la tendenza a dimenticare, a sottovalutare esiti giudiziari importanti, quali quelli scaturiti da indagini come Nord-Sud, Zagara, La notte dei Fiori di San Vito e Riace. L’inchiesta Crimine-Infinito ha confermato molte delle “intuizioni investigative” del passato sull’unitarietà della ‘ndrangheta e sulla capacità di questa organizzazione criminale di mettere radici anche lontano dai territori di origine».
Quel processo, iniziato con l'indagine diventata pubblica nel 2010, svelava tra l'altro gli appetiti della 'ndrangheta sull'Expo, oggi ne vediamo, da altre indagini, la faccia corrotta: è un caso corruzione e criminalità organizzata spesso ramifichino dalla stessa malapianta?
«Il professor Antonio Nicaso, mio coautore ed esperto di mafie a livello internazionale, dice sempre che ci può essere corruzione senza mafia, ma non c’è mafia senza corruzione. Le indagini confermano questo assioma. Quello che prima si faceva con la violenza, oggi si fa con la corruzione, utilizzando prestanomi, avvocati, broker, commercialisti, faccendieri di ogni tipo. Le mafie, ed in modo particolare la ‘ndrangheta che ricava gran parte dei suoi proventi dal traffico internazionale di cocaina, ha bisogno di giustificare la propria ricchezza. Cerca di infiltrarsi dove c’è da gestire denaro e potere. Lo fa da sempre, anche se parte della politica tende a dimenticare e a sottovalutare gli esiti processuali, probabilmente per una sorta di marketing territoriale».
Che cosa deve aspettarsi un magistrato dal legislatore per un contrasto serio?
«Bisogna continuare ad aggredire i patrimoni mafiosi, ma soprattutto le cointeressenze, sempre più frequenti, tra politici e mafiosi. La lotta alle mafie non può prescindere da questi presupposti investigativi. Le mafie vanno impoverite, così come le risorse pubbliche vanno attentamente monitorate. Se non cominciamo a fare pulizia nel settore delle opere pubbliche, faremo sempre più fatica a combattere le mafie. Le organizzazioni mafiose per sopravvivere e rafforzarsi hanno bisogno di stringere relazioni con il potere».
La magistratura per reprimere, l'authority e la politica per prevenire: quanto è importante che le due cose coesistano?
«Sono due aspetti fondamentali. Non dovrebbe essere la magistratura a fare le pulci alla politica. Dovrebbe essere la politica a isolare i comportamenti discutibili, i rapporti con i mafiosi, le frequentazioni pericolose. Una volta c’erano i probiviri, oggi avanzano i furbi. La politica dovrebbe rimettere l’etica, i comportamenti virtuosi al centro del dibattito. Quando interviene la magistratura spesso è troppo tardi. Bisognerebbe prevenire certe pratiche e certi comportamenti. Mi auguro che la politica sia in grado di rigenerarsi».
Quanto è alto il rischio che si prevenzione e azione penale si intralcino a vicenda?
«Per combattere le mafie, così come la corruzione, c’è bisogno di una forte volontà politica. Nel rapporto presentato all’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, abbiamo indicato una serie di proposte. Mi auguro che il Parlamento abbia la forza e la volontà di adottarle».
Sentiamo parlare di poteri speciali all'Authority, di che cosa avrebbe bisogno per non essere una foglia di fico?
«Avrebbe bisogno di tutti quei poteri necessari per incidere, garantendo strumenti legislativi adeguati. Cantone è stato chiaro: non ha nessuna intenzione di fare passerella. È un magistrato serio e preparato. Resterà al suo posto, solo se gli verranno garantiti i poteri che ha chiesto al Governo».
Quando si parla di commissariamenti e di appalti da revocare le imprese insorgono e i lavoratori temono per il lavoro: esistono modi concreti di ripulire senza fermare tutto? O è un'utopia una volta scoperto un caso Expo, un caso Mose?
«Bisogna fare prevenzione, bisogna seguire attentamente tutta la filiera degli appalti. Si potrebbe cominciare con una sorta di “white list", una lista nella quella figurano aziende con profili virtuosi, affidabili, lontane da compromessi e contiguità politico-mafiose».
Esiste ancora una speranza di contrasto quando la corruzione lambisce anche i controllori?
«Esiste solo nella misura in cui si decide di voltare seriamente pagina. Non servono rattoppi, ma misure drastiche ed esemplari. Oggi non domani».
Già, il caso Expo. La denuncia dell'Authority dei contratti a Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione: "Deroghe a ottanta regole, così la spesa è lievitata", scrivono Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su “La Repubblica”. "Appalti senza controlli per mezzo miliardo". È stato più facile costruire le fondamenta dell'Expo che una pista ciclabile a Monza, più semplice affidare un contratto di vigilanza da qualche milione di euro che non assumere due bidelli in una scuola pugliese. In attesa di vedere quello che sarà, l'Esposizione universale del 2015 si è già rivelata per quello che è: una delle più grandi deroghe che lo Stato abbia mai concesso a se stesso. Mezzo miliardo di euro di denaro pubblico sottratto "alle norme e ai controlli" in nome dell'"emergenza" più prevista del mondo. "Ben 82 disposizioni del Codice degli appalti sono state abrogate con quattro ordinanze della Presidenza del consiglio - denuncia Sergio Santoro, l'Autorità garante per la vigilanza dei contratti pubblici - così hanno escluso noi e la Corte dei conti da ogni tipo di reale controllo". Dopo gli arresti dell'inchiesta di Milano, però, è scattato l'allarme e gli uffici tecnici dell'Authority hanno analizzato tutti i contratti per capire cosa sarebbe accaduto se quelle deroghe non ci fossero state, se il Codice nato nel 2006 apposta per combattere i fenomeni di corruzione fosse stato rispettato alla lettera. Ed ecco che sono venuti fuori affidamenti diretti oltre le soglie consentite, goffi riferimenti a commi di legge inesistenti, procedure ristrette poco giustificabili. "Le nostre sono osservazioni - ci tiene a specificare Santoro - fatte sui documenti disponibili online". Numeri, casi, segnalazioni, appunti, finiti in un dossier che Repubblica ha avuto modo di consultare e che è stato consegnato al magistrato Raffaele Cantone, il commissario voluto dal premier Matteo Renzi per evitare altri scempi. Le falle. Per capire di cosa stiamo parlando basta prendere l'opera al momento più famosa dell'Expo, le cosiddette "Architetture di servizio" per il sito, cioè le fondamenta dei capannoni. Famosa per il costo, 55 milioni di euro, ma soprattutto perché attorno a quel contratto ruota l'indagine di Milano sulla banda di Frigerio. Lo ottiene la Maltauro, ma come? Per l'affidamento Expo sceglie di non bandire una gara europea, aperta a tutti, ma di seguire la procedura ristretta. Partecipano sette aziende e dopo la valutazione della commissione vince un'Ati (Associazione temporanea di imprese) che ha come capofila appunto la Maltauro, l'azienda che è accusata di aver pagato mazzette a Frigerio e Greganti. La procura di Milano accerterà cosa è accaduto e come. Per il momento si può dire che a spalancare la porta alla corruzione è stata proprio la legge, permettendo la procedura abbreviata. "Come in molti altri casi per l'Expo - scrive il Garante nel suo dossier - si è seguito il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa". A individuare quale sia, deve essere una commissione di 3 o 5 membri, "imparziale e altamente qualificata". Ma, ed ecco l'anomalia, nell'offerta della Maltauro hanno avuto più peso gli elementi qualitativi "per loro natura soggettivi", quali l'estetica e il pregio, rispetto al prezzo e ai tempi di esecuzione, "che sono invece dati oggettivi". Il punteggio qualitativo era 65 punti, quello quantitativo 35 punti. In sintesi, basta avere dei commissari amici e il gioco è fatto. "Ne abbiamo due su tre", si compiacevano Frigerio e Greganti, al telefono. E lo stesso Maltauro, interrogato dopo l'arresto, ha confermato il sistema. L'urgenza che non c'è. Ma a impressionare l'Authority è l'"emergenza perenne" che tutto giustifica. Perché, per esempio, viene affidato "in deroga" a Fiera di Milano spa l'allestimento, la scenografia e l'assistenza tecnica (2,9 milioni)? "Non si ravvisano evidenti motivi di urgenza - annota Santoro - per un appalto assegnato il 28 novembre scorso, un anno e mezzo prima della data del termine dei lavori". Ancora: con procedura "ristretta semplificata" sono stati dati i 2,3 milioni per il servizio di vigilanza armata a un'Ati (la mandataria è la Allsystem Spa), nonostante quella modalità "è consentita solo per contratti che non superino il milione e mezzo di euro". Sforamenti simili, ma di entità inferiore, sono avvenuti con l'"affidamento diretto", utilizzato 6 volte. "Il tetto massimo ammissibile è 40mila euro", segnala Santoro, ma nella lista figurano i 70mila a un professionista per lo sviluppo del concept del Padiglione 0 e i 65mila per servizi informatici specialistici. Ben 72 appalti sono stati consegnati "senza previa pubblicazione del bando", tra cui figurano il mezzo milione a Publitalia per la fornitura di spazi pubblicitari e i 78mila euro per 13 quadricicli alla Ducati energia, impresa della famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi. A Fiera Milano congressi - il cui amministratore delegato era Maurizio Lupi fino al maggio scorso, quando si è autosospeso - viene invece affidata l'organizzazione di un meeting internazionale dal valore di 881mila euro. Anche in questo caso Expo decide di seguire la via della deroga, appoggiandosi a una delle quattro ordinanze della presidenza del Consiglio (il dpcm del 6 maggio 2013). Lo fa in maniera quantomeno maldestra, perché nel giustificativo pubblicato sul sito ufficiale "si rileva un riferimento al comma 9 dell'articolo 4 che risulta inesistente". Un refuso. Il caso Mantovani. Su un caso, la realizzazione della "piastra del sito espositivo", l'Authority si sofferma un po' di più. È l'appalto più consistente, la base d'asta è fissata a 272 milioni di euro. Con un ribasso addirittura del 41 per cento e un offerta di 165 milioni lo ottiene, il 14 settembre di due anni fa, una cordata guidata dal colosso delle costruzioni Mantovani, il cui presidente Piergiorgio Baita sarà arrestato il febbraio successivo nell'ambito di un'inchiesta sul Mose di Venezia. "Con lo stesso aggiudicatario - rileva il garante - Expo ha stipulato però altri due contratti, rispettivamente di 34 milioni e 6 milioni, in opere complementari alla piastra". Un'osservazione che rimane tale, che non arriva ad assumere le forme di una qualche accusa specifica contro la cordata di imprese vincitrici, ma che per Raffaele Cantone (che martedì si incontrerà con Santoro) potrebbe valere un approfondimento. La Pedemontana. Quando l'Authority ha potuto ficcare il naso, sono stati guai. "Solo per la costruzione della Pedemontana - spiegano - non siamo stati esautorati dal nostro ruolo di vigilanza". A marzo del 2013, dopo uno screening dello stato di avanzamento, oltre a segnalare gravi ritardi ha individuato un incremento del costo complessivo dell'opera complementare all'Expo di 250 milioni di euro. Non sarebbe un caso. Nella relazione ispettiva si legge che l'appalto era stato affidato con "elementi oggettivi di distorsione della concorrenza e conseguente alterazione del risultato della gara". In sostanza appalto sbagliato, costi impazziti, autostrada che rischia di non essere mai terminata.
Tangenti alla Lega in Veneto, c'è un'indagine segreta. La procura di Milano indaga su dieci milioni di euro versati al partito nel 2011. L’ex cassiere Belsito e il suo consulente Bonet accusano il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e l’ex primo cittadino di Treviso, Giancarlo Gobbo, di aver quantomeno avallato un sistema di finanziamento parallelo ed esclusivo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Nel numero in edicola domani “l'Espresso” rivela che la Procura di Milano indaga da più di un anno su un giro di presunte tangenti che potrebbe collegare i vecchi e i nuovi vertici della Lega Nord. Soldi sospetti, usciti dalla casse di multinazionali come la Siram, un colosso francese degli appalti di energia e calore, o di grandi aziende italiane come il gruppo statale Fincantieri. Versamenti per almeno dieci milioni di euro, fatturati come consulenze considerate molto anomale, che risultano incassati da due distinte cordate di faccendieri e politici, tutti legati ai vertici del Carroccio in Veneto. L’ex cassiere Francesco Belsito e il suo consulente Stefano Bonet hanno accusato proprio i big veneti del Carroccio, in particolare il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e l’ex primo cittadino di Treviso, Giancarlo Gobbo, di aver quantomeno avallato un sistema di finanziamento parallelo ed esclusivo: un giro di soldi gestito da faccendieri ed ex parlamentari leghisti. “L'Espresso” scrive che il primo a parlare di presunti «rapporti illeciti» tra Lega e Siram è stato proprio Belsito: «Bonet e Lombardelli mi dissero che la Lega del Veneto aveva chiesto denari, da versare a una società di Enrico Cavaliere (ex deputato del Carroccio ed ex presidente del consiglio regionale Veneto, ancora presente nel collegio dei probiviri del partito) e del suo socio, Claudio Giorgio Boni, come percentuale dei guadagni della Siram. Fui io a transare l’importo finale. Ho trattato personalmente con Boni, che mi disse che Cavaliere aveva avuto l’ok da Tosi a chiudere per un milione. Boni mi assicurò più volte che lui e Cavaliere agivano per conto del sindaco di Verona». Belsito sostiene che nella Lega, almeno fino al 2011, sarebbero esistiti due livelli di finanziamento illecito, locale e nazionale (anzi, «federale»), come succedeva nei partiti della Prima Repubblica. Il tesoriere doveva rivolgersi ai vertici proprio per capire a chi spettassero i soldi della Siram. «L’autorizzazione a chiudere a un milione l’ho avuta direttamente da Bossi, che mi disse che era roba dei veneti», dichiara Belsito, che aggiunge: «Ne parlai anche con Gobbo e Zaia, che non fecero alcun commento, mentre Roberto Calderoli mi disse di stare tranquillo e non fare denuncia». Nel settembre 2013, dopo tre mesi di carcere, anche Stefano Bonet vuota il sacco e aggiunge altri particolari: «L’ex onorevole Cavaliere e il suo socio ligure, Boni, erano importanti procacciatori d’affari per la Siram. Nel 2010 pretendevano due milioni dalla mia Polare. Fu la Siram ad accollarsi anche questa loro pretesa, per non compromettere i rapporti con la politica e i propri interessi nella sanità in Veneto. Cavaliere infatti era legato al sindaco Tosi e si occupava dei finanziamenti alla Lega. Questo mi fu riferito dagli stessi Cavaliere e Boni, di fronte a dirigenti della Siram». Nelle sue confessioni, Bonet aggiunge che la Siram non poteva dire di no alla Lega Nord, perché non voleva perdere due appalti colossali con la sanità veneta. E a questo punto rivela di aver partecipato a un incontro delicatissimo nel municipio di Treviso: «Oltre a me, erano presenti due dirigenti della Siram e, per la Lega, Gianpaolo Gobbo, allora sindaco, Stefano Lombardelli (ex dirigente di Fincantieri, latitante da un anno) e Belsito. Lombardelli alla fine rimase solo con il sindaco e dopo l’incontro mi disse che era stata già concordata la somma di cinque milioni di euro per pagare la politica, e segnatamente Gobbo, perché a Treviso non si muove nulla se la Lega non vuole». La Siram proprio nel 2011, dopo una tornata di gare costellate di irregolarità e per questo durate tre anni, ha vinto davvero due maxi-appalti decennali per le forniture di calore agli ospedali veneti: l’Asl di Treviso si è impegnata a versarle ben 260 milioni di euro, quella di Venezia altri 241 milioni.
Lega e tangenti, a Milano c'è un'indagine segreta. Consulenze usate per distribuire un fiume di milioni: 'Tosi e Gobbo sapevano'. Nelle carte riservate dei pm milanesi potrebbe esserci il pezzo mancante della maxi-inchiesta sul Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La Procura di Milano indaga da più di un anno su un giro di presunte tangenti che potrebbe collegare i vecchi e i nuovi vertici della Lega Nord. Soldi sospetti, usciti dalla casse di multinazionali come la Siram, un colosso francese degli appalti di energia e calore, o di grandi aziende italiane come il gruppo statale Fincantieri. Versamenti per almeno dieci milioni di euro, fatturati come consulenze considerate molto anomale, che risultano incassati da due distinte cordate di faccendieri e politici, tutti legati ai vertici del Carroccio in Veneto. Le carte giudiziarie più scottanti sono ancora segrete, ma gli atti già depositati nel primo processo all’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, arrestato nell’aprile 2013 e reo confesso, disegnano un quadro accusatorio che, se verrà confermato, potrebbe rappresentare il pezzo mancante della maxi-inchiesta sul Mose. Le tangenti per almeno 25 milioni distribuite dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, infatti, hanno arricchito politici di Forza Italia e del Pd veneziano, mentre la Lega ne risulta del tutto estranea, come ha rivendicato il governatore Luca Zaia. Ora però si scopre che l’ex cassiere Belsito e il suo consulente Stefano Bonet hanno accusato proprio i big veneti del Carroccio, in particolare il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e l’ex primo cittadino di Treviso, Giancarlo Gobbo, di aver quantomeno avallato un sistema di finanziamento parallelo ed esclusivo: un giro di soldi gestito da faccendieri ed ex parlamentari leghisti. Come Enrico Cavaliere, deputato dal 1994 al 2000, poi presidente del consiglio regionale veneto fino al 2005, quindi condannato in primo grado per la bancarotta di un fallimentare progetto edilizio da 2.300 appartamenti in Croazia. O come Stefano Lombardelli, ex dirigente ligure di Fincantieri (di cui Belsito era consigliere d’amministrazione in quota Lega), fuggito in Libia e ormai latitante da più di un anno. Alla base della nuova inchiesta ci sono le confessioni dei primi arrestati. Belsito è il faccendiere genovese che fu nominato tesoriere nazionale dal padre fondatore della Lega, l’onorevole Umberto Bossi. Già nell’aprile 2012 aveva ammesso di aver gestito anni di ruberie private sui finanziamenti statali al partito. Ora, nell’atto d’accusa del suo primo processo, Belsito è imputato di aver intascato due milioni e 401 mila euro e di aver dirottato altri fondi pubblici per pagare spese personali di Umberto Bossi (208 mila euro), dei suoi figli Riccardo (157 mila) e Renzo (145 mila) e della sindacalista padana Rosy Mauro (99 mila), vicepresidente del Senato fino al 2013. Quel gran pezzo di storia padana, sul piano politico, si è chiuso con il sofferto passaggio del Carroccio nelle mani dell’ex ministro Roberto Maroni, oggi governatore lombardo, e dei suoi alleati, decisi a spazzare via l’era dei rimborsi-truffa. Scongiurando così anche il pericolo che la Lega dovesse restituire ben 57 milioni di contributi elettorali ritenuti irregolari. Belsito si era tradito tra il 28 e il 30 dicembre 2011, quando cercò di trasferire 5,7 milioni di euro a Cipro e in Tanzania, dove però la banca africana rifiutò i soldi del partito padano, segnalando un sospetto riciclaggio di tangenti. Come spalla finanziaria, l’ex tesoriere leghista si era affidato a un consulente veneto, Stefano Bonet, poi arrestato con lui. Bonet è il titolare di una società, chiamata Polare, che è riuscito a far accreditare come «organismo di ricerca»: una ditta privata che, grazie a una favolosa legge italiana, può certificare le innovazioni industriali e far ottenere ad altre aziende ricchi crediti d’imposta. Secondo i magistrati, la Polare avrebbe emesso fatture false per 18 milioni di euro a favore della Siram, che con quelle triangolazioni avrebbe abbattuto le tasse da pagare in Italia. La nuova indagine sulla Lega nasce dai documenti e archivi informatici sequestrati nel 2013 nelle sedi della Siram, della Polare e di altre ditte venete. Il primo a parlare di presunti «rapporti illeciti» tra Lega e Siram, ma soltanto dopo l’arresto e quelle perquisizioni a sorpresa, è proprio Belsito: «Bonet e Lombardelli mi dissero che la Lega del Veneto aveva chiesto denari, da versare a una società di Cavaliere e del suo socio, Claudio Giorgio Boni, come percentuale dei guadagni della Siram. Fui io a transare l’importo finale. Ho trattato personalmente con Boni, che mi disse che Cavaliere aveva avuto l’ok da Tosi a chiudere per un milione. Boni mi assicurò più volte che lui e Cavaliere agivano per conto del sindaco di Verona». Belsito sostiene che nella Lega, almeno fino al 2011, sarebbero esistiti due livelli di finanziamento illecito, locale e nazionale (anzi, «federale»), come succedeva nei partiti della Prima Repubblica. Il tesoriere doveva rivolgersi ai vertici proprio per capire a chi spettassero i soldi della Siram. «L’autorizzazione a chiudere a un milione l’ho avuta direttamente da Bossi, che mi disse che era roba dei veneti», dichiara Belsito, che aggiunge: «Ne parlai anche con Gobbo e Zaia, che non fecero alcun commento, mentre Roberto Calderoli mi disse di stare tranquillo e non fare denuncia». Nel settembre 2013, dopo tre mesi di carcere, anche Stefano Bonet vuota il sacco e aggiunge altri particolari: «L’ex onorevole Cavaliere e il suo socio ligure, Boni, erano importanti procacciatori d’affari per la Siram. Nel 2010 pretendevano due milioni dalla mia Polare. Fu la Siram ad accollarsi anche questa loro pretesa, per non compromettere i rapporti con la politica e i propri interessi nella sanità in Veneto. Cavaliere infatti era legato al sindaco Tosi e si occupava dei finanziamenti alla Lega. Questo mi fu riferito dagli stessi Cavaliere e Boni, di fronte a dirigenti della Siram». Fin qui sono soltanto parole di due arrestati che in teoria potrebbero anche aver tramato false manovre per screditare quei leghisti puliti che li avevano già scaricati. I documenti sequestrati dalla Guardia di Finanza, però, confermano che Cavaliere ha effettivamente incassato mezzo milione di euro (più Iva) e il suo socio Boni altri 350 mila (sempre netti). Nel novembre 2013, quando viene indagato e perquisito per quei bonifici, l’ex onorevole accusa i pm di aver fatto un gravissimo errore: Cavaliere e Boni giurano di aver fornito vere consulenze alla Polare, per cui quel milione lordo sarebbe semplicemente una loro regolarissima liquidazione. Il problema è che la società di Bonet aveva appena ricevuto esattamente gli stessi soldi dalla Siram. Di qui la conclusione dei pm: la multinazionale francese ha usato la ditta di Bonet per pagare con una triangolazione, cioè senza comparire direttamente, quei due «procacciatori di appalti» legati alla politica. Nelle sue confessioni, Bonet aggiunge che la Siram non poteva dire di no alla Lega Nord, perché non voleva perdere due appalti colossali con la sanità veneta. E a questo punto rivela di aver partecipato a un incontro delicatissimo nel municipio di Treviso: «Oltre a me, erano presenti due dirigenti della Siram e, per la Lega, Gianpaolo Gobbo, allora sindaco, Lombardelli e Belsito. Lombardelli alla fine rimase solo con il sindaco e dopo l’incontro mi disse che era stata già concordata la somma di cinque milioni di euro per pagare la politica, e segnatamente Gobbo, perché a Treviso non si muove nulla se la Lega non vuole». Ma se gli appalti sanitari li assegnano i tecnici delle Asl, che bisogno avevano i manager di un’azienda privata di incontrare i politici di Treviso insieme ai tesorieri e faccendieri leghisti? L’unica certezza per ora è che la Siram proprio nel 2011, dopo una tornata di gare costellate di irregolarità e per questo durate tre anni, ha vinto davvero due maxi-appalti decennali per le forniture di calore agli ospedali veneti: l’Asl di Treviso si è impegnata a versarle ben 260 milioni di euro, quella di Venezia altri 241 milioni. Bonet, negli interrogatori in carcere, precisa di poter parlare solo di quell’incontro preparatorio, ma giura di non sapere se i presunti cinque milioni li abbia poi incassati veramente Gobbo, oppure Lombardelli «che voleva il suo 5 per cento» o magari altri leghisti. Alla fine del 2011, infatti, i dirigenti italiani della Siram hanno escluso Bonet dai rapporti con i politici, spiegandogli però che al suo posto sarebbe subentrata un’altra società di consulenza. Forse è solo una coincidenza, o forse no, fatto sta che nello stesso periodo la Siram e altre grandi aziende interessate a vincere appalti (soprattutto in Veneto e in Liguria) hanno versato molti altri soldi a un nuovo «organismo di ricerca», chiamato Care, fondato proprio da Boni e Cavaliere, che nel frattempo incassavano ricchissime consulenze anche tramite le loro società Matco, Leb e Archimedia. Consulenze molto singolari: tariffe del tre per cento che le aziende private pagano solo in caso di effettiva aggiudicazione di appalti pubblici. Nonostante le ricadute dello scandalo Belsito e l’iscrizione tra gli indagati per l’affare Bonet-Siram, l’ex onorevole Cavaliere resta molto amico del sindaco Tosi, almeno per ora. E conserva ottimi agganci con i vertici del suo partito, tanto da figurare ancora all’inizio del 2014 nel «collegio dei probiviri» della Lega.
LEGA NORD: I MOSTRI SON SEMPRE GLI ALTRI.
Lega Nord: il mostro c'è solo se conviene. Ora che il presunto assassino di Yara sarebbe un bergamasco doc, il Carroccio appare silenzioso. Ma all'inizio tuonava quando l'omicida sembrava essere un ragazzo marocchino. Non è la prima volta. Da Novi Ligure in poi, in molti casi i leghisti hanno cavalcato casi di cronaca nera per dare la colpa agli immigrati. Salvo poi tacere quando si è scoperto che gli autori erano italiani, scrivono Paolo Fantauzzi e Francesca Sironi su “L’Espresso”. “Ieri un matto, che girava nudo per Milano, ha ucciso e ferito senza nessun motivo. Non sarebbe il caso di riaprire delle strutture dove accogliere, curare e controllare i malati di mente?”. Su Facebook il segretario della Lega nord Matteo Salvini mostra comprensione nei confronti di Davide Frigatti, responsabile dell’accoltellamento di tre passanti a Cinisello Balsamo, uno deceduto e due ricoverati in gravi condizioni. Eppure lo stesso “garantismo” il Carroccio (e Salvini in persona) non sembrano averlo mostrato quando casi di cronaca nera hanno coinvolto cittadini non italiani. Al contrario, ogni delitto compiuto da un extracomunitario (vero o supposto che fosse) è stato quasi sempre il pretesto per campagne politiche sul tema dell’immigrazione. A cominciare dal caso di Adam Kabobo, il ghanese che lo scorso anno uccise tre passanti a picconate a Milano e al quale Salvini augurava di marcire in prigione. Così il segretario della Lega Nord sulla mancata richiesta dell'ergastolo ai danni Adam Kabobo, il ghanese che l'11 maggio del 2013 uccise a colpi di piccone tre passanti a Milano. Il pm Isidoro Palma ha chiesto una condanna a vent'anni di reclusione. Discorso simile per il caso di Yara Gambirasio, che nei giorni scorsi ha portato al fermo di Massimo Giuseppe Bossetti. Il 5 dicembre 2010, ad esempio, quando il marocchino Mohammed Fikri era stato appena fermato quale sospettato dell’omicidio, l’europarlamentare Mario Borghezio apparve sicuro della sua colpevolezza. Tanto da tuonare sulla necessità di «raccogliere le impronte digitali» perché era evidente la «necessità di introdurre un'aggravante per i reati commessi dai clandestini». Una posizione isolata? Non proprio, visto che lo stesso Matteo Salvini si diceva convinto che - a prescindere dalla nazionalità del colpevole - se era vero che «queste cose succedevano anche prima che arrivassero gli immigrati, da quando ci sono così tanti irregolari succedono di più». Insomma, la colpa era dei danni prodotti dall’“immigrazione incontrollata” e perché «c' è un senso di impunità». E siccome «Brembate è una città tranquilla e ospitale dove episodi del genere non si ricordano negli ultimi anni e se si verificano adesso un motivo ci sarà». Parole cui fa da contraltare il silenzio di questi giorni.
NOVI LIGURE. La fretta di incolpare gli immigrati non è arrivata solo per Yara. Un altro esempio clamoroso di uso strumentale della cronaca risale al febbraio del 2001. Delitto di Novi Ligure. Erika, quella che poi si scoprirà aver ucciso col fidanzatino adolescente madre e fratello, incolpa all'inizio due presunti ladri slavi. Albanesi, probabilmente. Occasione ghiotta per la Lega Nord, che organizza subito una fiaccolata in nome della sicurezza. In un'interrogazione immediata il parlamentare Mario Borghezio ricorda una donna stuprata pochi giorni prima chiedendo al ministro dell'Interno se non si ritiene «necessaria e urgente un'azione coordinata interforze per individuare e sradicare dalla zona le bande criminali di extracomunitari clandestini che attualmente vi spadroneggiano pressoché indisturbati, con misure efficaci ed effettive di espulsione». Criticato da tutti gli esponenti politici dopo il riconoscimento di Erika e Omar come gli autori del massacro, Borghezio non arretrò di un passo: «Citare la criminalità albanese ed extracomunitaria è un riflesso condizionato naturale di fronte al reiterarsi di episodi che hanno creato una grande paura» disse, e ancora: «Queste mie affermazioni sono la conferma che vi è una grande preoccupazione e averle citate non è nient'altro che la riprova, la dimostrazione che queste bande criminali sono troppo libere di agire». Borghezio non fu solo. Il clima anti-immigrati che si era creato lo ha ricordato in una recente intervista a Il Secolo XIX anche Mario Lovelli (Pd) che nel 2001 era sindaco di Novi: «Per la città furono giorni traumatici, c’è voluto tempo per metabolizzare la tragedia. Ricordo il giorno dopo il delitto, la reazione strumentale della Lega Nord e di Forza Italia, quando non si conosceva ancora la verità. C’era stato un consiglio Comunale infuocato, molti esponenti del centrodestra chiedevano di usare la mano pesante contro gli immigrati clandestini: si pensava che gli assassini fossero extracomunitari».
I ROM DEL FALSO STUPRO. Di tono simile le dichiarazioni lasciate da un esponente leghista dopo la denuncia, da parte di una ragazzina torinese di 16 anni, di uno stupro ad opera di alcuni rom. La violenza si rivelò poi falsa, un'invenzione, ma nel frattempo una spedizione punitiva andò a incendiare le abitazioni del campo nomadi della Continassa, alla periferia di Torino. In quei giorni Davide Cavallotto dichiarava: «A Torino l'emergenza rom è diventata ormai una piaga sociale. C'è voluto un episodio deprecabile come l'incendio doloso di un campo nomadi per capire che ormai la misura è colma. La politica deve mettere da parte l'ipocrisia e iniziare a fare i conti con l'impossibilità di una convivenza civile fra chi vive nella legalità e paga le tasse e chi rifiuta ogni forma d'integrazione e si macchia di reati restando impunito anche di fronte alla legge».
LA CAMIONETTA ASSALTATA. «Varese, ASSALTO a un furgone della POLIZIA per far scappare un detenuto ALBANESE. Primi effetti bastardi dell'infame legge SVUOTA CARCERI». Così commentava a caldo sempre Matteo Salvini la notizia di un furgoncino della Penitenziaria preso d'assalto a Gallarate, in provincia di Varese. Poi si venne a sapere che il detenuto evaso grazie alla sparatoria era Domenico Cutrì. «Per me poteva essere anche Finlandese», cerca di minimizzare allora Salvini, messo di fronte all'errore: «Cambia poco: lo svuota carceri resta una boiata».
Matteo Salvini e l’urgenza della sparata razzista, scrive Mauro Munafò su “L’Espresso”. A Gallarate, in provincia di Varese, un furgone della polizia penitenziaria è stato preso d’assalto da un commando che ha permesso a un detenuto condannato all’ergastolo di evadere. Nei primi minuti si è diffusa la notizia che il detenuto in questione fosse originario dell’Albania, fatto che è stato poi smentito: si tratta infatti di Domenico Cutrì, originario della Calabria e in carcere perché mandante dell’omicidio di un magazziniere polacco compiuto in quel di Novara. Quello riportato qua sopra è il messaggio condiviso su Facebook dal segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che ha pensato bene di non aspettare conferme sull’identità dell’evaso e di scrivere in MAIUSCOLO che si trattava di un ALBANESE, chiaramente con l’intento di aizzare un po’ i suoi tanti fan sul social network. Che cosa c’entri in questo caso la legge svuota carceri (che la Lega ha tutto il diritto di contestare) non è dato saperlo. UPDATE: 20 e 36. Qualcuno ha finalmente avvisato Salvini che il detenuto era italiano e non albanese. Facendo finta (…) che davvero per il segretario della Lega Nord “cambi poco”, resta ancora non chiarito il collegamento tra un’evasione e il dl svuota carceri.
MI RICORDO MUTANDE VERDI............
'O scarrafone 'o scarrafone
ogni scarrafone è bello a mamma soja
Ho scoperto che Pasquale
forse è nato a Cefalù
si è sposato a Novedrate
è un bravo elettricista
fuma ppoco e ascolta i Pooh
'o scarrafone 'o scarafone
ogni scarrafone è bello a mamma soja
Accidenti a questa nebbia
te set adre a laurà
questa Lega è una vergogna
noi crediamo alla cicogna
e corriamo da mammà
Oggi è sabato
e domani non si va a scuola
oggi è sabato
se non chiami ho un nodo in gola
oggi è sabato
e forse è un giorno speciale
oggi è sabato meno male
'O scarrafone 'o scarafone
ogni scarrafone è bello a mamma soja
E se hai la pelle nera
amico guardati la schiena
io son stato marocchino
me l'han detto da bambino
viva viva 'o Senegal
Oggi è sabato
e domani non si va a scuola..
'O scarrafone 'o scarafone
ogni scarrafone è bello a mamma soja
Pino Daniele.
Cota, l'ultima kermesse. Pronto il rinvio a giudizio. Il governatore del Piemonte in piazza con solo mille fedelissimi: "Contro di me un golpe". Ma dopo la sentenza che ha annullato le elezioni un'altra tegola è in arrivo per il leader leghista, scrive Maurizio Crosetti su “La Repubblica”. Si sente vittima di un complotto giudiziario, eppure il peggio deve ancora venire: in settimana, infatti, la procura torinese trasmetterà al gip il fascicolo con la richiesta di rinvio a giudizio per peculato, è la brutta vicenda dei rimborsi ai gruppi consiliari che passerà alla storia come Mutandopoli, nientemeno. Il governatore è pallido, tira le labbra per sorrisi forzati, e i faretti delle telecamere lo mostrano ancora più bianco, ancora più esangue. Fa quasi tenerezza, Roberto Cota, mentre riceve il vasto, materno (appunto) abbraccio di una stagionata militante con le palpebre pittate di verde, un bel verde color mutanda: "Robertino, amoreee, vieni qui". Lo strapazzano di coccole, ma altro ci vorrebbe adesso. Già il mattino non era stato piacevolissimo, per lui. Rassegna stampa, cellulare rovente, fiaccolata da organizzare. La solidarietà telefonica di Berlusconi e Alfano, Bossi. ("Ma non credo che Roberto si ricandiderà ") e Salvini ("A tempo debito valuteremo chi sarà il nostro candidato, tanto mica si vota a maggio"), Meloni e Maroni. Il Tar del Piemonte gli ha appena sfilato lo sgabello, però Robertino non si scompone, gli hanno insegnato che quando si gioca agli indiani poi arrivano i nostri, e i cattivi muoiono. O forse era guardie e ladri.
Ascesa e declino di un leghista. Roberto Cota, il Tar del Piemonte e la pioggia di risate sulle «Mutande Verdi», scrive Valentina Spotti. «Mi ricordo mutande verdi», ma anche un più latineggiante «Mutatis mutandis». O ancora, sull’onda dei recenti fatti di cronaca politica anche un «Cota chi?». La reazione del web alla notizia che il Tar del Piemonte ha accolto il ricorso di Mercedes Bresso – annullando le elezioni regionali del 2010 ed esautorando il presidente della Regione Roberto Cota – è implacabile e ridanciana. Su Twitter piovono cinguettii pervasi da uno spietato sarcasmo e perfino qualche fotomontaggio creato a tempo di record. Tutto comincia con la notizia diffusa dalle agenzie: il Tar del Piemonte ha accolto il ricorso presentato da Mercedes Bresso, candidata per il Pd alle Regionali del 2010. La Bresso, uscita sconfitta da quella tornata elettorale, aveva presentato ricorso accusando le irregolarità della lista «Pensionati per Cota» che, insieme a Pdl e Lega Nord faceva parte della coalizione che consegnò la vittoria al leghista Cota. Le firme di quella lista – che si rivelò determinante per l’elezione di Cota – erano state però falsificate da Michele Giovine, candidato di «Pensionati per Cota» che per questo motivo è stato poi condannato in via definitiva a 2 anni e 8 mesi insieme al padre Carlo. Ergo, l’elezione di Roberto Cota è invalidata e il Piemonte dovrà tornare alle urne. Subito dopo aver ricostruito l’intera vicenda, sul web è partita consueta gragnuola di battute. Ma a dare l’assist a freddure e prese in giro di ogni genere c’è anche la recentissima manifestazione del Pd che, soltanto cinque giorni prima, all’Epifania, aveva organizzato un flash mob davanti al Palazzo della Regione di Torino, chiedendo le dimissioni della Giunta di Cota a suon di mutandoni verde-Lega sventolate all’indirizzo di presidente e consiglieri. Non si è trattato di una scelta casuale: poco prima di Natale, infatti, era scoppiata la polemica sui «rimborsi facili» dei consiglieri regionali piemontesi e, dalle indagini, era emerso che Cota si sarebbe fatto rimborsare dalla Regione anche un paio di mutande. Quelle mutande, oggi, sono al centro delle battute degli utenti del web. Lui, Roberto Cota, non l’ha presa troppo bene. Oltre ad aver presentato al Tar un contro-ricorso (che se venisse accolto potrebbe ribaltare la situazione) il presidente della Regione Piemonte si è sfogato in conferenza stampa, definendo «una vergogna» la sentenza del Tribunale amministrativo piemontese. «Da quando sono stato eletto - ha detto ai giornalisti – Sono stato oggetto di una persecuzione senza pari Continuerò a fare il Governatore». E ancora: «Andrò avanti, chiudo giustizia».
Anche il commento di Matteo Salvini, è lungi dall’essere pacato: il neo-segretario della Lega Nord definisce la sentenza come «un attacco alla democrazia» e accusa i «giudici e la sinistra» di «riuscire a vincere anche quando perdono».
Piemonte, ecco chi Roberto Cota: dai bar di Novara alle mutande verdi. Con la spallata del Tar, finisce la parabola del fedelissimo del Senatùr partito dalla provincia piemontese per arrivare ai vertici del partito, scrive “Libero Quotidiano”. Dal tesseramento nel sottoscala di un bar di Novara, alla "decadenza" da governatore ad opera di una sentenza del Tar. Dall'ascesa nelle file del partito, agli scandali per i rimborsi spesa allegri (su tutte le mutande verdi). Enfant prodige del Carroccio, fedelissimo del Umberto Bossi, ecco chi è Roberto Cota, il presidente della regione Piemonte eletto nel 2010 e destituito (in attesa dell'esito del ricorso al Consiglio di Stato) con sentenza di un tribunale amministrativo. Cota entra alla Lega nel 1990, a 22 anni, entrando in contatto con le camicie verdi di Novara. L'anno dopo incontra per la prima volta il senatùr, iniziando un rapporto mai più esauritosi ("La sera mi chiamava sempre per darmi consigli - ha raccontato -, avevo un taccuino sul comò per prendere appunti"). La carriera in politica lo vede prima protagonista sul suo territorio (segretario provinciale e consigliere comunale a Novara) e poi piano piano salire fino al Parlamento, dove sbarca dopo un mandato da consigliere alla regione Piemonte. Tra il 2000 e il 2010 è alla Camera dei Deputati, dove è capogruppo del Carroccio e, tra il 2004 e il 2006, sottosegretario all'Economia. Nel 2010 arriva l'elezione a presidente della regione Piemonte. Sembra la consacrazione: Cota ha i meriti di aver strappato Torino ai rossi e di dare opportunità a chi crede nella macro-regione del Nord (avendo anche Lombardia e Veneto governi di centrodestra). Ma il mandato comincia sotto i peggiori auspici con il ricorso del candidato di centro-sinistra, Mercedes Bresso, ed è presto punteggiato di scandaletti amari. Già inciampato in alcune gaffe geografiche (ospite di Un giorno da pecora non ricordava i confini della sua regione) Cota finisce una prima nei pasticci per un rapporto della Guardia di Finanza sui rimborsi elettorali nel 2012. Il governatore aveva messo a nota spese "126 euro per quattro di chili di pasticceria", "quattro pacchi di Pall Mall azzurre" e, riportava la Stampa, "380 euro di regalo di nozze a un assessore". Peggio ancora, tra le tante spese poco inerenti all'attività politica, le fiamme gialle evidenziavano che su 529 report, in 115 casi il governatore non risultava dalle celle telefoniche nel luogo in cui era avvenuto l'esborso, dando luogo a strane ipotesi sulla sua ubiquità. Mentre poi calava l'astro di Bossi e del suo cerchio magico, Cota, sempre vicino al senatùr e pronto ad abbracciare la leadership del figlio Renzo, si trova spinto verso il margine della scena. Una seconda ondata di scandali per il governatore arriva alla fine del 2013, quando la procura di Torino rende noti i particolari sull'inchiesta sulle spese pazze del governo regionale: tra gli acquisti addebitati dall'ente alla comunità spiccano anche rimborsi a nomi dal presidente. su tutti un paio di boxer verdi da 40 euro acquistati nel 2011 ("un errore della segretaria", si è giustificato). L'ultimo colpo in questi giorni: per il Tar non è più neanche governatore.
Intanto il suo segretario fa un’altra delle sue uscite: “L'Italia è uno Stato razzista nei confronti del nord. Le autostrade le ha pagate lo Stato e quindi anche i cittadini". Lo ha detto Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, arrivando al casello autostradale della A.8 di Gallarate per la manifestazione indetta dalla Lega per "lo sciopero del pagamento del pedaggio autostradale", dove lo attendevano un centinaio di militanti del suo partito e che lo hanno accolto al grido di "Secessione, secessione". I manifestanti hanno bloccato per alcuni istanti la parte di casello dove, appunto, è passato il segretario della Lega senza pagare il pedaggio. "Dichiaro - ha detto Salvini - che non pago perché il servizio fa schifo. E' una questione di giustizia sociale: mille chilometri di autostrade al sud gratis e la batosta al nord, è razzismo".
Omettendo di dire che al sud non si possono chiamare autostrade ma carrettiere. Inoltre. In mezzo ai leghisti riuniti contro il rincaro dei pedaggi autostradali, il segretario Matteo Salvini fa una battuta: “Chi è che mi controlla che non mi rubino la macchina?”. Ma non è nella “Padania” terra di onesti lavoratori?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LEGA MASSONA.
Dal momento che si definiscono «muratori», è quasi normale che finiscano a litigare per una questione edilizia, scrive Claudio Del Frate su “Il Corriere della Sera”. Due associazioni sono finite davanti al giudice perché si contendono il possesso di alcuni locali: sembra una comunissima lite di condominio ma il discorso cambia perché i contendenti sono due logge massoniche. Abituata alla segretezza, la Massoneria rompe una sua tradizione e rende pubblica, seppur in tribunale, una sua diatriba interna che ha già investito anche il Grande Oriente d' Italia, il più importante organismo rappresentativo dei «fratelli muratori». Al tribunale civile di Varese il fascicolo della causa è costituito solo dall' atto di citazione depositato dai responsabili di una delle due logge, la «Carlo Cattaneo 700». Una decina d' anni fa i componenti di quest'ultima, assieme ai «fratelli» della loggia «Aleph 59» decisero di acquistare in comune la sede di via Cesare da Sesto e di adibirla a tempio massonico. Fu così costruita la società Asstra, estranea al Grande Oriente, al solo scopo di amministrare la sede. Nel frattempo, però, i rapporti tra le due logge si erano incrinati: il documento depositato dalla «Cattaneo» in tribunale dice che tra il '99 e il 2000 i suoi rappresentanti sono stati estromessi dalla Asstra e che la sede, contrariamente a quanto prevede lo statuto, viene concessa ad associazioni estranee alla Massoneria. Una lite culminata, sempre stando alla versione dei ricorrenti, con il più spiacevole degli episodi: i responsabili della Aleph hanno fatto cambiare le serrature della sede. Il Grande Oriente ha stabilito l'espulsione dalla Massoneria dei componenti della Aleph. Al tribunale di Varese, invece, viene chiesto di annullare tutte le delibera della società Asstra con la quali sono stati esautorati i «fratelli» della loggia Cattaneo e di restituire a quest' ultima l' uso del tempio di Varese. Non resta che attendere, a questo punto, le repliche della controparte chiamata in causa. Claudio Del Frate
Varese, Lega Cl e massoneria: i vertici in equilibrio del nuovo potere, articolo di Claudio Del Frate da “Il Corriere della Sera”. La città che detesta Roma ma vive sempre più di politica. In 46 anni di Prima Repubblica, Varese ha espresso un solo ministro, «mister terremoto» Giuseppe Zamberletti, primo responsabile in Italia della Protezione civile. Nei 17 di Seconda Repubblica, la città ha invece dato alla Nazione 3 ministri, due direttori di rete Rai, un presidente di Alitalia, uno dell’Inps, consiglieri di amministrazione di Enel, Finmeccanica, ancora della Rai più altri enti minori. «Grazie alla Lega Varese è diventata quello che era Avellino ai tempi di De Mita»: il copyright della battuta viene attribuito al deputato del pd Daniele Marantelli ma in ogni caso fotografa in poche parole la mutazione avvenuta nella mappa del potere cittadino nel giro di pochissimi anni: l’asse - al contrario di quanto avvenuto quasi ovunque -, si è spostato dalle imprese alla politica e Varese si è abituata a dipendere assai di più dall’economia di relazioni, quella fatta nei palazzi, che non dalle idee vincenti. Bizzarro, nella città dove è nato lo slogan «Roma ladrona». Per un’alchimia del destino (ma è poi tutto così casuale?) mentre Varese diventava uno dei punti focali della politica nazionale, le maggiori imprese della zona sfuggivano dimano ai capitani d’industria locali, per decenni i veri padroni della città: oggi la Whirlpool (l’ex Ignis di Giovanni Borghi) è americana, la B-Ticino francese, l’Aermacchi è nella galassia di Finmeccanica, banche locali non ne esistono più. Verrebbe da dire che il potere di Varese non abita a Varese e questo è in larga misura figlio della parabola della Lega Nord: qui il partito di Bossi è nato ma non ha mai raggiunto il record dei consensi in Italia (26% mentre a Bergamo, Brescia o Treviso sfonda il muro del 30) però qui ha prodotto gran parte della sua classe dirigente. È una Lega, quella varesina, molto più di governo che di lotta, avendo come uomini di peso Roberto Maroni o manager come Antonio Marano (Rai), Giuseppe Bonomi (Alitalia e Sea) o lo stesso sindaco Attilio Fontana, un professionista che non ha mai firmato ordinanze tacciabile di xenofobia. E’ insomma l’indotto generato dall’aver raggiunto posizioni chiave grazie alla politica a condizionare la vita della città. Ma identificare il potere di Varese con la Lega sarebbe riduttivo; numeri alla mano, al Carroccio di governo si contrappone l’altra vera presenza strutturata della città, Comunione e Liberazione. Cl alle ultime regionali è riuscita a far confluire 14.556 preferenze sul suo candidato Raffaele Cattaneo, e anche alle comunali, fin dagli anni 70 i candidati più votati (nella Dc, in Forza Italia, nel Pdl) sono sempre ciellini. Un peso confermato da un fatto: la chiesa intitolata a Massimiliano Kolbe, quartier generale del movimento, periferia della città, ha assunto negli ultimi anni una centralità che contrasta con la basilica di san Vittore o il santuario del Sacro Monte, tradizionali cuori religiosi di Varese. «Che ci sia stato un trasferimento di potere dall’economia alla politica è fuori discussione - commenta Riccardo Broggini, già "pezzo da 90" della Dc, oggi assorbito dalla sua professione di commercialista - anche se di questo la città non sembra trarne grande beneficio: forse perché i protagonisti di questa stagione sembrano più attenti a compiacere i loro referenti superiori». Ma la mappa del potere di Varese non sarebbe completa senza parlare di un terzo elemento, oltre a Lega e Cl, una sorta di «convitato di pietra» di cui spesso si sussurra: la massoneria. È proprio Broggini a far cadere il velo: «Quando fui candidato sindaco, e persi, durante la campagna elettorale notai una certa resistenza nei miei confronti da parte di alcuni ambienti della città, facenti riferimento alla massoneria. Quali? Ad esempio quelli legati all’università dell’Insubria». L’università è una realtà autonoma a Varese dal 1998, guidata da allora dal rettore Renzo Dionigi; periodicamente l’ambiente accademico si scontra con quello di Cl per la nomina dei primari all’ospedale cittadino, considerato un centro di eccellenza e le diatribe finiscono regolarmente raccontate sui media locali. Ma davvero il Grande Oriente è in grado di condizionare la vita di Varese? Giuseppe Armocida, storico della città e docente proprio all’Insubria (ma anche assessore esterno in una giunta monocolore leghista), getta acqua sul fuoco: «Se si conoscessero gli elenchi degli iscritti alla massoneria varesina si scoprirebbe che il loro peso è relativo. L’università come centro di potere massonico? Mah, se così fosse l’ateneo cittadino avrebbe attratto molto più risorse e non avrebbe la sede malandata in cui oggi deve operare».
Varese, Lega, affari e massoneria. La Velina Verde scatena un terremoto, scrive “La Provincia di Varese”. Lotte per il potere, presunti legami alla massoneria, affari e consulenze. A pochi giorni dall'inizio della stagione congressuale varesina, nasce un "misterioso" blog che "svela" gli affari segreti, o presunti tali, del Carroccio di Varese. Arrivando persino a ipotizzare infiltrazioni massoniche in consiglio comunale e giunta di Varese. Si chiama la Velina Verde, si richiama alla famosa Velina rossa che spiattellò i problemi del centrosinistra. Non ha autori ufficiali e il dominio sembra essere stato registrato in Islanda o alle Bahamas. Andando al contenuto, appare chiaro che l'intento è quello di screditare la corrente del ministro dell'Interno Roberto Maroni, che si contrappone al cerchio magico, il nucleo di esponenti vicinissimo a Bossi capitanato dalla moglie Manuela Marrone e con Marco Reguzzoni e Rosi Mauro come referenti.
Parla l’avvocato pro Maroni: “Macché massone, io sputtanato”, scrive Daniele Riosa su “Affari Italiani”. "Sono tutte le amenità che il famoso cerchio magico riferiva a Bossi per cercare di ‘sputtanare’ il sottoscritto che notoriamente è stato un loro nemico: per i cerchisti eravamo fascisti, affaristi, massoni e quant'altro. Infatti la famosa “velina verde” che è stata poi querelata, ha fatto il sunto di questo delirio. Probabilmente il signor Belsito deve aver raccolto queste notizie molto confuse e mi ha inserito tra i suoi persecutori viste la considerazioni di "bestia nera" di cui godo tra i fedelissimi del Senatùr". Andrea Mascetti, maroniano doc, con un passato da militante nel Fronte della gioventù, con un'intervista ad Affaritaliani.it, spiega perché il tesoriere della Lega lo abbia citato nelle sue conversazioni telefoniche con Bonet facendolo passare come referente di un ben non specificato complotto massonico ai suoi danni. Mascetti vuole poi sottolineare una cosa: "Sono solo contento se Belsito mi considera un suo nemico".
Dalle intercettazioni Belsito la tira in mezzo circa un ben non specificato complotto massonico organizzato ai suoi danni...
"Intanto sono felicissimo che il signor Belsito, che non ho nessun piacere di conoscere, mi consideri un suon nemico".
Andando nello specifico?
"Belsito sostiene confusamente che sono il fondatore della Banca Aletti ma la banca, con cui non ho mai avuto nessun rapporto, è stata fondata prima che io nascessi”.
Si dice che lei sia un uomo di estrema destra legato alla massoneria...
"E' noto che da ragazzino sono stato un militante del Fronte della Gioventù e frequentavo la nuova destra. In questi anni ho imparato che lo stato italiano non mi piaceva molto e per questo sono passato alla Lega. Sulla questione massoneria dico solo che sono sempre stato antimassonico".
Dunque perché circolano queste voci sul suo conto?
"Sono tutte le amenità che il famoso cerchio magico riferiva a Bossi per cercare di “sputtanare” il sottoscritto che notoriamente è stato un loro nemico: per i cerchisti eravamo fascisti, affaristi, massoni e quant'altro. Infatti la famosa, “Velina verde” che è stata poi querelata, ha fatto il sunto di questo delirio. Probabilmente il signor Belsito deve aver raccolto queste notizie molto confuse e mi ha inserito tra i suoi persecutori viste la considerazioni di "bestia nera" di cui godo tra i fedelissimi del Senatùr. Purtroppo non ho avuto un grande ruolo ma sarei stato felice di averlo avuto".
La Velina Verde, nell'agosto scorso, scriveva di un patto d'acciaio tra lei e Maroni. Nel testo si dice che lei garantisce i voti e il radicamento territoriale a Maroni nel Varesotto…
"Maroni non ha un uomo. L'ex ministro frequenta i militanti perbene, preparati e seri: io sono uno dei centomila. Queste sono cose che funzionano nella testa di Belsito. La verità è che io e altri militanti siamo stati sempre contrari al cerchio magico e siccome quella è gente che utilizza la menzogna come strumento di lotta politica si spiega perché io sia stato tirato in ballo”.
Il Fatto Quotidiano, intervista ad Andrea Mascetti (13-04-2012). Io ombra nera di Bobo? Neanche fossi Gelli. Ariani, massoni, fascisti, trafficanti: a Varese terrei tutti insieme nella mia associazione? Neanche Licio Gelli ci riuscirebbe”. Andrea Mascetti ci ride, nello spirito dell’omonimo conte di Amici Miei, ma di essere finito nelle carte della Dia citato da Francesco Belsito come “massone, fascista, molto legato a Ordine Nuovo” non è entusiasta. Lui è indicato come “l’eminenza grigia del sistema di potere che si contrappone al cosiddetto cerchio magico”, quindi l’uomo forte di Maroni. “Ma per carità, con Roberto siamo solo amici”, taglia corto. “L’unica cosa vera che hanno scritto in quelle pagine è il nome dell’associazione che ho fondato: Terra insubre”. Il resto? “Tutte assurdità, c’è scritto che sarei tra il fondatore della Banca Aletti, ma è dell’800… sarò mica highlander?”.
E i suoi rapporti con Ordine Nuovo?
La Dia dice che io conosco il figlio del fondatore, certo, è vero: ha un ristorante a Varese dove si mangia anche bene; lo conoscono tutti. Ma cosa c’entra ordine nuovo? Siamo seri.
Però Belsito parla di lei e da come la descrive sembra conoscerla.
Mi ritengo fortunato a non averlo mai incontrato e se mi ritiene un suo nemico ne sono ben felice e decisamente orgoglioso. Avrà sicuramente respirato l’aria del clan a Gemonio, il Cerchio magico lì e quindi tira dentro un po’ tutti i nemici di quelli lì. Ne vado fiero, ripeto.
Non le sta simpatico, però conosce anche la sua associazione e la definisce come un covo di massoni e fascisti.
Due entità da sempre inconciliabili tra loro. Ripeto: siamo seri. Terra Insubre ha 2500 iscritti, sulla nostra rivista scrivono magistrati, professori di destra, di sinistra, storici… noi siamo belli, colti e simpatici ma c’è chi, a quanto pare, non apprezza il nostro umorismo. O meglio ci invidia, è l’invidia del mal riuscito.
A chi si riferisce? Chi sono i mal riusciti?
Ma sono storie vecchie, Varese è una piccola città e siamo cresciuti negli stessi anni, Maroni e io, Reguzzoni e tanti altri. Credo che alla base di tutto ci siano cose adolescenziali, qualche ragazza rubata, cose così.
Scusi ma qui ci sono tre procure che indagano, milioni di euro di rimborsi elettorali finiti non si sa bene in quali università per comprare lauree, pagare multe ai figli di Bossi…
E io che c’entro? A me Bossi mi cacciò poveretto. Lo costrinsero a farlo quelli del suo cerchietto lì, perché lui fece anche confusione con i veneti. Io nel partito non ho mai avuto incarichi, figurarsi. Sono un avvocato, un lavoro vero ce l’ho. Molti invece nella Lega hanno trovato un impiego e a quanto pare non si sono neanche accontentati di quella fortuna, adesso che andranno a fare? Sono curioso. Si riferisce a Mauro? Non faccio nomi, difendo solo i ragazzi della mia associazione dagli attacchi idioti. Lei però sostiene Maroni? Siamo amici, un rapporto di stima reciproca, ci conosciamo da molti ma mi creda lui non ha bisogno di me. E comunque sì: spero che prenda la Lega perché altrimenti rischia di morire.
Scandalo Lega, la massoneria e quell’intercettazione scomparsa, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Su un blog vicino alla massoneria del Grande Oriente Democratico si scrive che tra le carte dell’inchiesta, vi sia una intercettazione. I giorni che vanno dall’8 al 12 gennaio del 2012 passeranno alla storia della Lega Nord. Sono cinque giornate che hanno segnato lo spartiacque tra la vecchia gestione «cerchista» di Umberto Bossi e il nuovo corso di Roberto Maroni. È un passaggio di testimone che si sta consumando in questa piovosa primavera lombarda, tra l’espulsione di Rosi Mauro dal Carroccio e le dimissioni del Trota Renzo Bossi dal consiglio regionale, dopo le indagini che hanno travolto l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito e tutta la famiglia Bossi di stanza a Gemonio. È un'inchiesta su cui stanno lavorando ben sei procure, da Reggio Calabria a Milano fino a Napoli. E dove s'intreccerebbero pure gli interessi della 'ndrangheta e di altre associazioni criminali con quelli della politica italiana. Dove compaiono e scompaiono uomini della malavita organizzata che sarebbero stati in affari con le grandi aziende statali che lavorano nell'Africa subsahariana, come Finmeccanica o Agusta Westland. Secondo il blog di Sergio Cori di Modigliani “Libero Pensiero” – vicino al God la massoneria del Grande Oriente Democratico – tra le maglie della maxi inchiesta su Belsito ci sarebbe «un’intercettazione» esplosiva registrata dalle forze dell’ordine proprio lunedì 9 gennaio. Si tratterebbe di un colloquio registrato che «la magistratura ha secretato e di cui non esiste alcuna trascrizione a disposizione della stampa» e che vedrebbe tra i suoi protagonisti «la vicepresidente del Senato» e l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «Perché si sa che quella intercettazione c’è. È quella il clou della tragedia», si legge sul sito. Le giornate che dovranno essere sottolineate con la matita rossa sui libri della Lega, quindi, sono appunto quelle che partono da domenica 8 gennaio. Quando tra i banchi della Camera dei deputati (e non solo), si discuteva su come votare per l’arresto di Nicola Cosentino, il deputato del Popolo della Libertà indagato dalla procura di Napoli per concorso esterno in associazione camorristica. In quell’occasione la Lega di Bossi (il capogruppo era ancora l’esponente del cerchio magico Marco Reguzzoni), si comportò in un modo martedì nella giunta per le autorizzazioni, votando a favore, e in maniera opposta due giorni dopo a Montecitorio, quando il voto segreto salvò Nick 'o 'mericano dal carcere. Secondo la maggior parte degli analisti politici, quella giornata, il 12 gennaio, fu il funerale politico di Maroni. Cosa che in realtà, osservando quello che sta accadendo in questi giorni, si è rivelata una premonizione sbagliata. Certo, Bobo prese un duro colpo quel giorno e lo comunicò pure via Facebook ai militanti. («Non smetto di credere e di lavorare per la Lega che ho contribuito a costruire in oltre 25 anni di attività politica»). Eppure, anche dopo la fatwa successiva con cui Bossi (?) impose a Maroni il silenzio, per l’ex ministro dell’Interno è iniziata una strada in discesa. Il 20 gennaio Reguzzoni perde la poltrona di capogruppo e i barbari sognanti incominciano a prendere sempre più potere dentro il movimento, a partire dalla serata «maroniana» di Varese il 18 gennaio. Ma torniamo alle giornate in cui nella Lega si discute sull’arresto di Cosentino. E qui bisogna fare una piccola premessa, prima di raccontare quei giorni infuocati dentro via Bellerio. Il caso Belsito per i fondi in Tanzania è già scoppiato l’8 gennaio. Il Secolo XIX ha già pubblicato quell’inchiesta molto dettagliata a riguardo e in Lega iniziano i problemi. A raccontarlo sono le intercettazioni contenute nelle carte della procura di Napoli che in questi giorni compaiono sui quotidiani, con Roberto Castelli e Roberto Calderoli che chiedono conto della finanza creativa al leghista genovese. Forse lo coprono. Forse no. I magistrati stanno indagando. Rimane che il Carroccio è nel putiferio. Il 9 gennaio è un lunedì. E la segreteria politica si riunisce per fare il punto della situazione. Quel giorno in Bellerio si deve parlare oltre che di Tanzania soprattutto della posizione che avrà il Carroccio su Cosentino. Maroni detta la linea e oltre a spiegare di non sapere niente dei fondi «africani» annuncia pubblicamente la sua presa di posizione di votare sì all’arresto. Il giorno dopo sui quotidiani l’ex direttore della Padania Gianluigi Paragone scrive su Libero: «Ma su Cosentino vince Maroni», mettendo in relazione gli investimenti in Tanzania del tesoriere del cerchio magico Belsito e la posizione dell’ex ministro dell’Interno sul deputato pidiellini. Tutto fila liscio alla giunta per le autorizzazioni alla Camera martedì 10 gennaio, ma in meno di 24 ore Bossi cambia idea. E il Senatùr lo dice pure pubblicamente poco prima del voto alla camera il 12 gennaio: «Libertà di coscienza. Nelle carte non c’è nulla». La cosa creerà una bagarre infinita, tanto che i leghisti arriveranno perfino alle mani nel corso della riunione di gruppo, con Maroni saldo nel dire: «Da ministro dell’Interno uscente vi dico che voterò a favore dell’arresto di Cosentino». Non è chiaro chi ha votato sì o no all’arresto, nel segreto dell'urna. I barbari sognanti sono uniti nel dire che votarono a favore. E tra le maglie dell’opposizione c’è la certezza che a votare contro furono gli esponenti del cerchio magico. Ma cosa accadde tra il 10 e l’11 gennaio? Cosa fece cambiare idea a Bossi? Secondo le cronache dell’epoca, il Senatùr vide mercoledì sera Silvio Berlusconi a palazzo Grazioli. Ma su blog di cui abbiamo parlato all'inizio dell'articolo, spesso citato dal God, si dà conto di uno spiffero che non è ancora stato smentito da nessuno dei protagonisti, né dalla magistratura, né dai parlamentari interessati. Il pezzo è uscito il 6 aprile scorso e parla delle indagini sul Carroccio. Scrive Di Cori Modigliani, che intreccia la questione Belsito con quella di Cosentino, raccontando appunto di quelle giornate. «Mi riferisco qui alla sera del giorno (9 gennaio, ndr) in cui si è svolta la riunione della direzione della Lega Nord a via Bellerio, nel corso della quale l’ex ministro degli Interni, Roberto Maroni, si assunse la responsabilità di sostenere l’assoluta necessità di votare alla Camera per l’arresto del deputato pidiellino Nicola Cosentino e di lì a un’ora comunicò la scelta del partito alla stampa». Cosa accadde quella sera secondo Di Cori Modigliani? Il titolare del sito “Libero Pensiero” parla di un telefono di Rosy Mauro infuocato. «Ma alle ore 20, Rosy Mauro riceve una telefonata da Cicchitto che chiede conferma. E venti minuti dopo c’è la telefonata del sultano di Arcore alla vice-presidente del senato, durata quasi un’ora. Due ore dopo, Bossi chiama Maroni e gli dice che si vota a favore di Cosentino. Come, regolarmente, avviene il giorno dopo». Esiste davvero questa intercettazione? Cosa si sono detti la Mauro, Cicchitto e il Cavaliere. C'è un filo che unisce le indagini della procura di Napoli con quelle di Reggio Calabria? Arrivando persino a quelle su Cosentino. «L’intercettazione è legale» si legge ancora nel pezzo. «Doppiamente legale. Perché i furboni, pensando di poter aggirare il lavoro delle forze dell’ordine, usano cellulari protetti e a nome di terzi sconosciuti. Si dà il caso, però, che questi terzi sconosciuti fossero già da tempo nel mirino degli inquirenti. E così il destino regala questa chicca che dà origine a tutto. Non sappiamo che cosa si siano detti. Ma 60 minuti sono lunghi, molto lunghi. Evidentemente di carne al fuoco ce ne doveva essere parecchia e denota i contorni di un copione italiano».
Lega e massoneria. Affari dei Templari leghisti Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo. Questa è la divisa del cavaliere della Suprema Militia.
LA POLITICA E GLI ANIMALI.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
LA POLITICA ED IL RAZZISMO. DIVERSI SI', MA NON MIGLIORI.
Il razzismo è la convinzione che gli uomini siano diversi tra loro a seconda della razza cui appartengono, che vi siano razze superiori alle altre, che le razze inferiori debbano essere discriminate e dominate da quelle superiori. Il razzismo è antico come l’uomo e nel corso della storia la maggior parte dei gruppi etnici ha cercato di imporsi sugli altri. Spesso una presupposta superiorità della propria razza è stata utilizzata come alibi o pretesto per il perseguimento di interessi economici e politici. Così scrive “Parados”. La teorizzazione di livelli razziali differenti ha permesso di giustificare fenomeni come la schiavitù e il colonialismo ed ha fornito un importante contributo all’intolleranza prodotta dalle differenze religiose e ideologiche. Numerose componenti concorrono a formare un atteggiamento razzista, ma la base teorica che lo sostiene deriva dalla convinzione che, nella loro diversità, alcuni gruppi siano più sviluppati ed evoluti di altri. Gli uomini si considerano diversi per molteplici aspetti: biologico, culturale, religioso, ideologico, filosofico, tecnologico, ecc. Queste diversità non sono però separate tra di loro, ma ognuna deriva dalle altre ed alle altre è strettamente connessa. Oggi, più di ieri, sembra che la percezione della diversità tra le varie popolazioni mondiali sia connessa principalmente allo stile di vita e alla cultura in generale. Se però proviamo ad approfondire i sentimenti di ostilità che le singole culture avvertono le une rispetto alle altre, ci accorgiamo che spesso le differenze di tipo culturale vengono ricondotte a un’ipotetica diversità biologica e genetica che avrebbe creato, nel corso della storia, sostanziali differenze tra i gruppi (questo può avvenire, come è stato nel caso del nazismo, anche all’interno di una stessa civiltà e di uno stesso gruppo religioso). La maggior parte dei pregiudizi “razziali” deriva quindi da supposte differenze “costituzionali” che in quanto tali sono giudicate insuperabili (il razzista non violento e buonista dichiara con fatalismo che le differenze “strutturali” delle persone non sono superabili neppure con la buona volontà). Sottraendo al razzismo la sua base biologico-genetica crediamo sia possibile eliminare buona parte del pregiudizio che governa ancora molte relazioni umane e smascherare parte delle argomentazioni razziste che costituiscono il fondamento ideologico per prevaricazioni e soprusi. Il razzismo spogliato della sua veste “scientifica” mostra più facilmente il suo nocciolo di banalità ed appare per quello che in realtà è: un semplice sentimento negativo verso una parte del proprio prossimo. Come per qualunque altro sentimento nocivo, anche contro il razzismo sembra possibile agire per ottenerne la rimozione o semplicemente un superamento.
Da dove ha origine il razzismo biologico? Fino al XVIII secolo le differenze tra i gruppi umani non furono esaminate con un’ottica scientifica. Dal 1700 si è cominciato a studiare le differenze somatiche tra i singoli gruppi senza però poter approfondire le basi biologiche di queste differenze. Si confrontavano semplicemente gli aspetti esteriori delle persone raffrontandoli con quelli degli altri mammiferi o con i canoni estetici di quel periodo. Alcuni scienziati come Camper, Winckelmann e soprattutto Lavater contribuirono allo sviluppo di una disciplina, la fisiognomica, che cercava di giustificare il carattere e l’indole di una persona in rapporto ai suoi tratti esteriori (in particolare il viso). Gall fu l’ideatore della frenologia; essa mirava a dimostrare che dalla forma della testa derivavano le capacità dell’encefalo. Nel 1800 Carus cercò di dimostrare come il colore chiaro della pelle e degli occhi determinassero l’appartenenza di un individuo al popolo “solare”, che ovviamente si supponeva superiore al popolo “notturno” di colore scuro. Nel 1853 il conte de Gobineau sintetizzò le conoscenze scientifiche dei due secoli precedenti e dette alle stampe il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane. Gobineau utilizzò argomenti antropologici, linguistici, storici e culturali per dimostrare che il mondo era abitato da tre razze principali e che ognuna di queste razze era caratterizzata da aspetti fisici e caratteriali specifici. L’obiettivo era di dimostrare che la razza tedesca era superiore alle altre e che per mantenerla pura era necessario evitare incroci e contaminazioni con le razze inferiori. La strumentalizzazione politica e sociale da parte di alcuni governi europei dell’opera di Gobineau permise una diffusione capillare di queste teorie, sottraendole a qualunque revisione e critica scientifica. Le conoscenze in campo genetico di quel periodo erano comunque insufficienti per un vero approfondimento di queste teorie. Lapouge, e poi Knox, riuscirono ad integrare le teorie razziste di Gobineau con le teorie evoluzioniste di Darwin, mettendo in guardia dal pericolo della contaminazione tra razze diverse. I nuovi concetti sulla selezione naturale vennero utilizzati per sostenere la necessità di eliminare gli individui affetti da malformazioni congenite e da malattie ereditarie. All’inizio del 1900 Galton fondò in Inghilterra il Laboratorio di Eugenetica Nazionale per studiare un sistema che incrementasse la riproduttività degli individui migliori e riducesse quella degli inadatti. All’inizio del secolo in tutta Europa si cominciò a studiare l’eugenetica e l’ereditarietà con finalità espressamente e volutamente razziste. Si sentenziò che le influenze ambientali incidono solo minimamente sulle caratteristiche umane. Come le teorie di Darwin anche quelle del Lombroso vennero strumentalizzate dai gruppi europei che in politica e nell’ambiente accademico lavoravano per fornire al razzismo biologico una base scientifica, gettando così le fondamenta ideologiche per le grandi dittature del XX secolo. In particolare i teorici del nazismo avevano spianata la strada per giustificare qualunque violenza e discriminazione: il problema razziale, analizzato su basi biologiche secondo i principi suddetti, veniva sviluppato a piacimento coinvolgendo aspetti religiosi e filosofici, giungendo addirittura a giustificare la discriminazione delle donne, degli zingari e degli handicappati. E’ importante ricordare che le teorie maturate in Europa tra il 1700 e l’inizio del 1900, non erano il prodotto di un piccolo gruppo di esaltati, ma rappresentavano sostanzialmente le idee ufficiali sull’argomento e, almeno nella loro struttura centrale, erano condivise dal mondo accademico. I ceti più poveri e incolti della popolazione non erano in grado di avere opinioni personali sull’argomento e subivano le idee del mondo più istruito. In parte il razzismo scientifico confermava l’ignoranza e i pregiudizi che la maggior parte della popolazione manifestava sull’argomento. La generazione più anziana della popolazione odierna ha vissuto e studiato nel clima di razzismo biologico fin qui descritto. In buona parte inconsciamente la loro educazione infantile e giovanile ha subito questa impronta indelebile ed ogni aspetto della loro vita ha dovuto fare i conti con questa impostazione, dallo studio della letteratura classica agli avvenimenti sportivi; la stessa cultura cattolica, almeno fino agli inizi degli anni ’60, ha purtroppo contribuito a rafforzare queste idee.
Cosa indicano le recenti scoperte scientifiche? Dal 1960 ad oggi le conoscenze scientifiche sulla specie umana hanno subìto una potente accelerazione per merito della ricerca genetica; nel contempo discipline quali la paleontologia e l’antropologia hanno permesso di chiarire in dettaglio l’evoluzione della specie umana nei vari continenti nell’arco degli ultimi tre milioni di anni; anche le influenze ambientali e geografiche sulla nostra specie sono state profondamente indagate portando sull’argomento un ulteriore contributo. Sebbene ancora molto debba essere capito e studiato, disponiamo oggi di dati sufficienti per riesaminare la questione alla luce delle scoperte più recenti, elaborando un’ipotesi antitetica alla teoria del razzismo biologico. La strada intrapresa dalla scienza attuale sull’argomento difficilmente condurrà ad una deviazione dalle presenti conoscenze: è più probabile prevedere ulteriori conferme alle teorie attuali. Prima di esaminare in dettaglio le recenti scoperte portate dalla genetica, è utile sottolineare che tali conoscenze non sono ancora di dominio comune e, per ora, non hanno ottenuto la capillare diffusione che meriterebbero. Questo potrebbe dipendere forse dal fatto che parte dell’attuale classe dirigente è nata e vissuta nel clima “razzista” del secolo che si è chiuso (comprese le guerre anche ideologiche e razziali che si sono consumate nella prima metà del secolo); in parte potrebbe essere dovuto alla stessa scienza genetica che, essendo una materia difficile e specialistica, necessita divulgatori e semplificatori abili. Inoltre il mondo politico e dell’informazione sembra sottovalutare l’importanza di diffondere queste conoscenze e non lavora attualmente per incrementare la cultura collettiva sull’argomento. E’ importante quindi che almeno le nuove generazioni possano crescere con conoscenze utili a formare una cultura più aperta e tollerante. Lo studio del genoma umano (DNA nucleare e mitocondriale), oltre alle scoperte della paleontologia moderna (studio scientifico dei resti fossili umani), ha permesso di stabilire che la diffusione della specie umana ha avuto origine in un unico punto del pianeta, l’Africa centro orientale, circa 100000 anni fa. Da lì sarebbe avvenuta una migrazione inizialmente verso il Medioriente e il resto dell’Asia, successivamente verso l’attuale Europa (circa 40000 anni fa); in seguito l’Homo sapiens sapiens avrebbe migrato negli altri continenti (Americhe e Australia). Ad oggi non esistono conoscenze che contestino l’origine unica della specie umana: questo primo dato pone quindi seriamente in dubbio che per l’uomo si possa parlare di razza anziché di specie. Ma procediamo con ordine: in Medioriente la nostra specie si arricchisce dell’agricoltura (siamo a circa 10000 anni fa), passa cioè dalla attività della semplice raccolta dei frutti spontanei della terra alla produzione pianificata del cibo. La nuova attività porta la popolazione ad aumentare velocemente di dimensione (circa mille volte in un periodo relativamente breve). I dati ottenuti da diversi studi indicano che questa conquista non è stata ottenuta per opera di una ristretta popolazione con capacità superiori, ma è stata realizzata per merito delle caratteristiche della zona geografica nella quale quella popolazione era venuta a trovarsi. Geneticamente tutti gli esseri umani erano predisposti a sfruttare le risorse ambientali ottenendo vantaggi utili al proprio sviluppo; ogni conquista ottenuta da un gruppo, se veramente utile, ha potuto diffondersi agli altri gruppi con tempi dipendenti dai diversi ostacoli geografici; alcuni fattori di progresso hanno subito rallentamenti nella loro diffusione quando sono stati esportati in zone geografiche nelle quali non erano vantaggiosi. Queste scoperte sono perfettamente in linea con la teoria evoluzionista e il principio della selezione naturale. Da milioni di anni la nostra specie ha mostrato di interagire fortemente con l’ambiente in parte sfruttandolo e in parte subendolo; e questo indipendentemente dalla struttura genetica della popolazione. Ma se deriviamo tutti da un unico ceppo genetico, perché (come gli scienziati hanno osservato nei secoli scorsi) morfologicamente siamo così diversi ? E quanto siamo diversi ? Lo studio del genoma umano ha permesso di scoprire che le differenze tra due individui della specie umana sono estremamente piccole, anche tra un uomo e una donna, e sono differenze individuali e non di popolazione. In pratica differenziamo per idee, cultura, abitudini, ecc. ma non per struttura biologica; Ghandi e Hitler possedevano sostanzialmente lo stesso patrimonio genetico. Lo studio del genoma è recente perché richiede una certo livello tecnologico, ma già 40 anni orsono una ricerca realizzata tramite lo studio dei gruppi sanguigni aveva portato alla scoperta che gli individui della nostra specie differiscono pochissimo dal punto di vista biologico. Esistono solo quattro gruppi ABO e due Rh; da ciò deriva ad esempio che un nero del Senegal 0+ ha sangue identico ad un bianco 0+ Irlandese. Studiando i gruppi sanguinei, già nel 1962 un gruppo di studiosi guidato da Luca Cavalli-Sforza è riuscito a costruire un primo albero genealogico dell’umanità, stabilendo le “parentele” tra le varie popolazioni. Lo stesso gruppo di ricercatori ha confrontato i dati dei gruppi sanguigni con i dati antropometrici (statura, forma del cranio, colore della pelle, lunghezza degli arti, ecc.) trovando molte discrepanze tra i due parametri. Negli anni successivi lo studio genetico ha permesso di capire che i gruppi sanguigni sono strettamente dipendenti dalle leggi dell’ereditarietà genetica, mentre i parametri antropomorfi dipendono in larga misura dall’ambiente e dallo stile di vita della popolazione considerata (oggi ne abbiamo un esempio nell’innalzamento della statura dell’ultima generazione che non ha seguito lo schema genetico dei genitori, bensì le variazioni delle abitudini alimentari degli ultimi anni). Tra il 1978 e il 1991 il gruppo di ricerca di Cavalli-Sforza, in collaborazione con gli scienziati italiani Paolo Menozzi e Alberto Piazza, esaminando 110 geni umani di 42 popolazioni sparse in tutto il mondo, è riuscito a costruire uno schema ancora più dettagliato e preciso dell’albero evolutivo della specie umana. In base ai dati di queste ricerche non sembra possibile, in termini scientifici, parlare per la specie umana di razze diverse; eventualmente bisognerebbe parlare di popolazioni diverse e introdurre pertanto parametri non più costituzionali ma di tipo acquisito come sono quelli ambientali. In base alle regole scoperte da Darwin sappiamo che qualunque mutazione (casuale) si verifichi anche in un solo individuo può diffondersi (nell’arco di alcune generazioni) a tutta la popolazione a patto di essere vantaggiosa per quel determinato ambiente. Per questo oggi si ritiene che in origine la nostra specie aveva la pelle olivastra e successivamente, con la diffusione nei vari ambienti, si è selezionato il colore di pelle più vantaggioso; il colore bianco è risultato svantaggioso in Africa (pericolo di eritemi e di tumori cutanei da raggi ultravioletti) e lì si è estinto, mentre è apparso vantaggioso nel Nord Europa dove i pochi raggi del sole dovevano penetrare la cute e permettere la produzione della vitamina D (indispensabile per l’assorbimento del calcio e quindi per l’ossificazione). Anche la differenza di forma delle narici tra un africano e uno svedese non dipende da fattori genetici, ma ancora da motivi ambientali: la dimensione delle narici comporta vantaggi e svantaggi per la respirazione in relazione alle temperature e al tasso di umidità presente nelle regioni nelle quali la singola popolazione si è evoluta. Pertanto la mutazione casuale “narici-larghe”, vantaggiosa in Africa, lì si è diffusa, mentre si è estinta la caratteristica svantaggiosa delle narici strette. Viceversa è successo nelle fredde regioni del Nord Europa. Oltre ai motivi geografici anche lo stile di vita e le abitudini alimentari possono provocare importanti differenze tra le popolazioni. Prima della diffusione dell’allevamento l’unico latte disponibile per la nostra alimentazione era quello materno ed era riservato ai neonati: pertanto solo loro possedevano gli enzimi necessari alla digestione del latte. 10000 anni fa, con lo sviluppo dell’allevamento, anche l’adulto ha potuto utilizzare il latte come alimento: gli adulti che per caso possedevano l’enzima lattasi erano avvantaggiati e questa caratteristica ha potuto diffondersi. Ancora oggi le popolazioni del nord che consumano molto latte possiedono lattasi intestinali, mentre le popolazioni orientali che non lo utilizzano non possiedono questo enzima; bisogna considerare che nel Nord Europa il latte è un alimento indispensabile perché la ridotta esposizione solare (nonostante la pelle chiara degli individui) riduce la produzione cutanea di vitamina D e pertanto è necessario un alimento ricco di calcio per compensarne il ridotto assorbimento intestinale. Abbiamo capito che in definitiva la forma esterna del corpo può dirci molto sulla situazione geografica e climatica nella quale è vissuta una determinata popolazione, ma molto poco sulla sua storia genetica. Ma allora quanto differiscono tra loro le varie popolazioni dal punto di vista genetico ? Oggi sappiamo che ogni cellula del nostro organismo possiede circa 1 milione di geni, e solo 3 o 4 di questi determinano variazioni del colore della pelle. Se consideriamo il patrimonio genetico di intere popolazioni, dal punto di vista qualitativo, non troviamo praticamente mai due geni completamente diversi in popolazioni diverse. Se poi consideriamo che le varie popolazioni non sono rimaste isolate nei loro continenti, ma nel corso dei secoli si sono sempre più mescolate tra di loro, diventa evidente che tra le cosiddette “razze” umane (da un punto di vista strettamente biologico) le differenze sono insignificanti. E’ utile considerare che all’interno di una singola nazione è praticamente impossibile individuare un unico ceppo biologico; anche nel nostro Paese non possiamo parlare di una razza italiana. Gli studi del gruppo di ricerca di Alberto Piazza, relativi al panorama genetico italiano, hanno individuato la presenza di ceppi greci, celtici, etruschi, antichi liguri (preindoeuropei), osco-umbro-sabellici. In Francia sono stati individuati ceppi bretoni, germani, baschi e greci. Solo quando una popolazione è rimasta chiusa agli influssi esterni la variabilità delle caratteristiche fisiche è rimasta molto bassa; è il caso degli ebrei che hanno mantenuto matrimoni chiusi all’interno del gruppo anche durante la diaspora e la migrazione in continenti diversi. Dal punto di vista genetico però anche per gli ebrei non è possibile parlare di razza, le differenze che potremmo trovare tra ebrei e palestinesi (o qualunque altro popolo del Medioriente) risulterebbero biologicamente insignificanti. Anche se volessimo suddividere il mondo in migliaia di razze (e l’operazione scientificamente non sarebbe assolutamente corretta) ci troveremmo nell’impossibilità di individuare una razza pura, troveremmo invece quello che viene definito polimorfismo genetico; ognuno di noi possiede singole variazioni che ci impediscono di considerarci parte di una razza pura. Se poi qualcuno volesse provare a creare una razza pura dovrebbe considerare che, oltre a dover impiegare parecchie generazioni per riuscirvi, arriverebbe alla fine a creare individui sterili e ad altissima probabilità di malformazioni congenite. Da tempo lo studio genetico ha dimostrato che (al contrario di quanto si credeva nel secolo scorso) l’incrocio tra popolazioni differenti rappresenta un vantaggio biologico che rafforza la specie. Fino agli anni 70 si credeva che la misura del QI valutasse una caratteristica innata e quindi trasmessa geneticamente dai genitori; si pretendeva pertanto di stabilire a priori il valore intellettivo di un individuo. Negli Stati Uniti le misurazioni fatte sugli studenti davano ai neri un QI medio di 15 punti inferiore a quello dei bianchi. Negli studi degli anni successivi è stato possibile dimostrare che il test di intelligenza in realtà comprendeva numerose componenti culturali. I test eseguiti su ragazzi neri adottati dopo la nascita da famiglie borghesi hanno mostrato valori sovrapponibili ai controlli su ragazzi bianchi dello stesso ceto sociale; anche i test svolti all’interno degli orfanotrofi non hanno mostrato differenze tra studenti bianchi e neri. La differenza di QI risultava invece significativamente differente quando si confrontavano soggetti che vivevano agli estremi della scala sociale, indipendentemente dal colore della loro pelle. A tutt’oggi non è ancora stato possibile stabilire se il QI è determinato da fattori genetici o ambientali; la maggior parte dei ricercatori ritiene che l’intelligenza sia determinata per un terzo da fattori genetici, per un terzo da fattori ambientali individuali di crescita e per un altro terzo da fattori culturali derivati dall’ambiente sociale.
Conclusioni. In questo contesto abbiamo esaminato soltanto l’evoluzione genetica della nostra specie; è evidente che, soprattutto in un periodo storico a noi più vicino, si è verificato anche un sviluppo tecnologico che ha ridotto le influenze dell’ambiente sul nostro organismo. La scienza dei secoli passati aveva comunque erroneamente interpretato gli effetti dell’ambiente nel determinare le differenze biologiche all’interno della nostra specie, attribuendo ai dati somatici un’importanza che non possiedono; il giudizio sulla civiltà di un popolo risentiva di questo errore fondamentale e risultava perciò incapace, o quantomeno disturbato, nel giungere ad una valutazione obiettiva. Le conoscenze scientifiche attuali indicano che non esistono vere e proprie differenze biologiche o costituzionali tra gli uomini, ciò che ci differenzia sono sostanzialmente fattori acquisiti come la lingua, la religione, le idee, le abitudini, lo stile di vita. Su questi elementi acquisiti è necessario il confronto, ma solo dopo essersi liberati dai molti pregiudizi che ancora rendono difficile un giudizio razionale e critico (e come brillantemente argomenta Norberto Bobbio il pregiudizio è per definizione acritico e irrazionale). Solo possedendo le necessarie informazioni scientifiche (per quanto possono offrirci le attuali conoscenze) le nuove generazioni hanno la possibilità di costruire una mentalità e una visione della realtà più aperta e disponibile, per comprendere meglio l’umanità che li circonda ed essere in grado di capire il veloce sviluppo del mondo d’oggi.
RAZZISMO E NORD ITALIA. BORGHEZIO E CALDEROLI. LA LEGA NORD PADANIA E L’ITALIA SETTENTRIONALE.
Nel nord Italia il Razzismo è serpeggiante ed insito nelle coscienze dei più ignoranti.
Maroni ammette: «La Lega Nord, all’inizio, era percepita come un movimento xenofobo e razzista contro i meridionali, poi contro gli extracomunitari. Be’, è un messaggio che non condivido ma un po’ non lo nascondo, su questo ci abbiamo marciato dopo che si è scoperto che aumentavano i consensi. Su xenofobia e razzismo ci abbiamo marciato, era un modo di raccogliere voti e consenso». Con queste parole, quello che di lì a poco sarebbe diventato il nuovo leader del Carroccio lanciava la sua Lega 2.0, smarcandosi dai toni dell’era bossiana. Era il 13 marzo del 2012, e di fronte alle telecamere del tg di La7 l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni teneva una lezione sulla comunicazione all’Università dell’Insubria in provincia di Varese. La confessione disinvolta di ciò che era chiaro da tempo a tutti fa comunque effetto. Anche perché l’ ex titolare del Viminale saprà certo che il razzismo è reato, e quindi dire “sì, è vero , siamo stati un po’ razzisti”, è come dire “sì, è vero, abbiamo rubato un po’”. C’è un limite alla realpolitik o per vincere le elezioni tutto è permesso?
È stata condannata a 13 mesi per direttissima Dolores Valandro, l'ex consigliera di quartiere leghista di Padova (espulsa dal partito), che aveva pubblicato su Facebook la frase «Mai nessuno che la stupri?», facendo riferimento con un link al ministro all'Integrazione, Cecile Kyenge, scrive “L’Unità”. La richiesta del pm era stata di un anno e quattro mesi di reclusione per istigazione alla violenza per fini razziali. L'udienza si è tenuta oggi presso il Tribunale di Padova, dove la donna è apparsa in lacrime e pentita. Quattro le parti civili a cui sono stati riconosciuti risarcimenti per complessivi 13 mila euro, di cui 10 mila al Comune di Padova e mille a testa a tre associazioni contro il razzismo. Tuttavia il pagamento delle provviginali è stato sospeso in attesa dell'appello che si terrà al Tribunale di Venezia. «Faremo ricorso - ha dichiarato infatti l'avvocato della Valandro, Massimiliano Nicolai - perché già dalla condanna di primo grado si intuisce che le prove sono insufficienti, la pena è il minimo possibile e la finalità razzista non c'è. Nella frase della Valandro semmai c'è ingiuria o diffamazione, per cui sarebbe servita una querela di parte dal ministro Kyenge. Non c'è alcun riferimento a questioni di pelle, o a etnia o razzismo in genere».
"Non mi dimetto. Sono un vicepresidente di opposizione. Avrei dovuto rispondere solo a chi mi ha votato ma sarei stato pronto a farlo se nell'ufficio di presidenza ci fosse stata un'amplissima maggioranza che me l'avesse chiesto. Ma così non è stato". Roberto Calderoli ha parlato il 16 luglio 2013 a Palazzo Madama di fronte a un'aula spaccata che in buona parte ha chiesto le sue dimissioni da vicepresidente del Senato, e che in altra parte lo ha difeso. Non solo ovviamente il suo partito, ma anche il Pdl, salvo poche eccezioni, non ha pronunciato alcune richiesta di dimissioni.
«Con disagio e imbarazzo oggi mi scuso con il Senato e con il presidente Napolitano - ha detto - per le parole sbagliate e offensive che ho rivolto al ministro Kyenge. Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula. Il mio errore - continua Calderoli - è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate».
SI NOTI BENE: CALDEROLI SI E’ SCUSATO PER LE PAROLE ADOTTATE PER RAPPRESENTARE IL SUO PENSIERO. MA NON SI E’ PENTITO E SCUSATO PER IL CONVINCIMENTO CHE IL SUO PENSIERO ESPRIME.
Caso Kyenge-Calderoli e il razzismo (non più) latente della Lega 2.0. Calderoli e il suo "orango" diretto alla Kyenge è solo l'ultima tappa di un lungo percorso fatto di insulti e attacchi di stampo xenofobo, scrive Diego Giorgi su “Today”.
Calderoli insulta Cecile Kyenge. Change.org mette in piedi una petizione web rivolta al presidente del Senato Pietro Grasso. Titolo della raccolta firme: “Dimissioni di Calderoli”. Alle 18 di lunedì 15 luglio 2013, la richiesta è forte di oltre 93mila autografi.
Ancora: legge ‘Mancino’ del 1993: è sempre aggravato dalla finalità dell’odio razziale il comportamento di chi insulta un’altra persona sulla base “di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore, e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità”. Secondo la Corte di Cassazione inoltre – sentenza 30525 – “non ha alcuna importanza verificare quale sia stato il movente sottostante all’espressione razzista che, di per sé, denota un atteggiamento improntato all’odio”. Così per quel che riguarda la legge penale.
Ancora: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Così è scritto nel terzo articolo della Costituzione italiana.
Ancora: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Così recita il primo articolo Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948). Capisaldi inviolabili, verrebbe da dire. Anche perché c’è chi la lezione l’ha capita o quanto meno ha provato a dargli un senso storico. Barack Obama in questo caso fa letteratura; un uomo nero alla Casa Bianca, lì dove hanno conosciuto la piaga dell’apartheid e del Ku Klux Klan.
Norme scritte per creare cultura, l’unica in grado di metter l’uomo al riparo da se stesso, da quella macroidiozia capace di farsi brutale. Eppure gli italiani, da Treviglio, hanno dovuto ascoltare l’ennesimo canone inverso: “Quando la vedo non posso non pensare a un orango”. Con queste parole Roberto Calderoli si è rivolto al ministro per l'Integrazione Cecile Kyenge. Un uomo delle istituzioni, ex ministro e attualmente vicepresidente del Senato, che dà della scimmia ad un ministro italiano di colore. Calderoli si è scusato, al Corriere della Sera, si è difeso così: “Ho fatto una premessa al comizio, cioè il mio amore per gli animali. Lì ho esplicitato un pensiero: citare l’orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale”. Così l’esponente di primo piano della lega Nord dopo le scuse di rito. Forse bastavano le scuse telefoniche. Scartabellando la storia, tuttavia, non è la prima volta che Roberto Calderoli è protagonista di scivoloni dalla portata storica. L’elenco è lunghissimo. Un teatro dell’orribile fitto di "perle"; in ordine cronologico (da Brecia Today):
T-SHIRT ANTI-ISLAM - Il 15 febbraio 2006 Calderoli mostra in Tv una maglietta che indossa sotto la camicia, sulla quale è stampata una vignetta che irride Maometto. Nei giorni successivi si susseguono reazioni violente nei Paesi islamici, compreso l'assalto al consolato italiano a Bengasi e la Chiesa nella stessa città. Calderoli sarà costretto alle dimissioni.
IL MAIALE DAY - Nel 2007 scatenò una bufera politica e lo sdegno della comunità musulmana con la sua proposta choc di indire un "maiale-day" (le cui carni sono cibo proibito dal Corano) contro la costruzione di nuove moschee in Italia.
CIAMPI - In visita a Napoli la signora Franca Ciampi dice: "La gente del Sud è più buona ed intelligente". Calderoli insorge e chiese una rettifica formale del Quirinale, perché "quella frase sarebbe razzista nei confronti del resto della popolazione".
LA TAGLIA - La invoca su Unabomber, che dissemina ordigni che colpiscono i bimbi; ma anche per chi ha ucciso un benzinaio militante della Lega di Lecco: 5 mila euro. "Così che si capisca cosa succede a chi tocca un padano".
LA PENA DI MORTE - La reclama per i pedofili e, ancora, per Unabomber. "E' ora di finirla con le ipocrisie".
LA CASTRAZIONE CHIMICA - La considera lo strumento vincente, "l'unico deterrente serio" contro gli stupri.
L'IRAQ - Calderoli coglie tutti in contropiede quando chiede di ritirare "in fretta" le truppe dell'Iraq per attestare in Italia la difesa dai terroristi, contro i quali chiede che il Parlamento voti "lo stato di guerra". Poi, dopo l'intervento dell'allora premier Berlusconi, si corregge.
L'ISLAM - E' il "pallino" che gli costerà perfino la poltrona di ministro. "L'Islam non è una civiltà", dice quando si esamina il decreto antiterrorismo, attirandosi gli strali sia della sinistra sia la "deprecazione" di Fini ed An. L'ex ministro se la prende spesso con il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu, di cui contesta l'essere troppo "morbido" con gli immigrati e gli scontri tra i due non si contano. Due particolarmente duri: quando chiese la chiusura della moschea di Viale Jenner a Milano; l'altro quando invece del soccorso propose le fucilate delle motovedette della Marina sulle carrette del mare cariche di clandestini. Sul tema, Calderoli ha le idee chiare: L'Islam moderato "é una chimera" e gli immigrati sono "bingo bongo".
"QUELLA SIGNORA ABBRONZATA..." - Sempre parlando di Islam in televisione, Calderoli si rivolse così a Rula Jebreal, la giornalista palestinese de 'La 7': "Non rispondo a quella signora abbronzata...", dice e provoca l'ennesimo putiferio di polemiche.
Questo per quel che riguarda i trascorsi storici di Roberto Calderoli. E la Lega Nord, 2013, come è messa a crociate e invettive fuori tempo massimo con le logiche storiche? Anche qui per pillole:
SALVINI – 28 aprile 2013, Matteo Salvini, segretario della Lega Nord in Lombardia: “Siamo pronti a fare opposizione totale al ministro per l'Integrazione, simbolo di una sinistra buonista e ipocrita, che vorrebbe cancellare il reato di clandestinità e per gli immigrati pensa solo ai diritti e non ai doveri”.
BORGHEZIO A RUOTA LIBERA – 30 aprile 2013, l’europarlamentare intervistato alla Zanzara (Radio 24) a ruota libera contro il ministro Kyenge: “La parola 'negra' in Italia non si può dire ma solo pensare. Fra poco non si potrà neanche dire 'clandestino', si dirà 'sua eccellenza'….Verrebbe da chiedere la carta di identità del Congo perché almeno là non fanno ministri così"…."Mi sembra una brava casalinga, non un ministro del governo”…”Gli africani sono africani appartengono a un etnia molto diversa dalla nostra. Non hanno prodotto grandi geni, basta consultare l'enciclopedia di Topolino”.
SALVINI 2 – 11 maggio 2013: “I clandestini che il ministro di colore vuole regolarizzare ammazzano a picconate: Cecile Kyenge rischia di istigare alla violenza nel momento in cui dice che la clandestinità non è reato, istiga a delinquere. Altro che abolizione del reato di clandestinità. Ci sono già migliaia di gazebo pronti: seppelliremo il ministro Kyenge con migliaia di firme”.
VENTURI E IL TERRREMOTO – 20 maggio 2013, Stefano Venturi, segretario della Lega Nord di Rovato, comune del bresciano, commenta così su Facebook la notizia del terremoto in Emilia Romagna: “Terremoto nel Nord Italia... ci scusiamo per i disagi, ma la padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)...”
POLLEDRI E I GAY – 4 giugno 2013, Massimo Polledri, parlamentare leghista ai microfoni della Zanzara, si Radio 24: “Se i miei figli fossero gay non sarei contento sarebbe come se mia figlia mi dicesse ‘mi faccio suora’ o ‘mi sposo con un marocchino’. Anzi, questo sarebbe uno dei peggiori casi che possano capitare”.
LEGA NORD: LA GARA A CHI E' PIU' RAZZISTA.
Lega Nord: la gara a chi è più razzista. La Lega, si sa, è affollata di personaggi repellenti, scrive Bruno Carchedi su Agora Vox. Il più noto è Mario Borghezio, quello delle cannonate contro i barconi con destinazione Lampedusa, fino a poco tempo fa in testa alla classifica del leghismo verace quanto a persecuzione degli immigrati. Secondo assoluto Matteo Salvini, quello dei vagoni della MM milanese solo per stranieri e dei napoletani che puzzano. Recentemente però il primato di Borghezio era stato scalzato dall'ex senatore Erminio Boso il quale aveva detto che quando nel Canale di Sicilia un barcone di immigrati affonda, lui è contento. Anzi ci gode. Ma subito dopo è arrivato Roberto Calderoli a superare sia Boso che Borghezio e a conquistare la posizione di comando in classifica. In base a quali meriti? Per aver detto, durante un pubblico comizio a Bergamo, che la ministra dell'integrazione Cecile Kyenge assomiglia a un orango. Ennesimo insulto che proviene dalla cloaca leghista, pronunciato però da uno che è vicepresidente del Senato, contro un bersaglio perfetto per il machismo razzista di stampo padano: donna e per giunta nera. Sdegno bipartisan da parte del centro sinistra, del centro destra, del centro centro, delle presidenze della Camera e del Senato, della presidenza della Repubblica, dei media politically correct. Unica eccezione Grillo, evidentemente preso da questioni più importanti. Il leghista Salvini ha provato a depotenziare la questione dicendo che quella del suo compare è stata solo una “battuta”, mentre il diretto interessato ha provato a spiegare la “battuta”. “Le mie parole erano inserite in un discorso ben più articolato e politico di critica al ministro”. Come esempio del suo “ben più articolato e politico discorso”, ecco le successive dichiarazioni del personaggio: “Fin dalla sua nomina la Lega ha espresso perplessità e critica nei confronti del ministro Kyenge. Intanto perché ci è subito sembrata una scelta provocatoria nei confronti della Lega [vero, e questa è un'ottima cosa] … E poi perché Kyenge sta portando avanti questa battaglia dello ius soli, che tra l'altro non è nel programma di governo [vero, e anche questa è un ottima cosa] … E allora mi pare corretto che in democrazia uno possa criticare apertamente chi ci vuole imporre, venendo da fuori [da fuori? Ma lo sa che la Kyenge è italiana da anni?], qualcosa che non rientra nel nostro [cioè nel tuo] modo di pensare e di vivere … Io comunque non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord [questa è da Guiness dei primati]”.
Maroni - coraggiosamente - ha emesso un belato di condanna. Ma cosa aspetta l'establishment delle larghe intese a dimissionare d'autorità il Calderoli dalla vicepresidenza del Senato, con la stessa velocità con cui ha dimissionato la ministra Idem per una questione assolutamente meno grave? In attesa di questo, la nobile gara nella Lega continua.
Bollato come razzista e ripudiato. Gli euroscettici non ne potevano più delle sparate del leghista Mario Borghezio. Così l'hanno cacciato dallo Efd (Europa della libertà e democrazia), il suo gruppo del parlamento europeo. Come se non fosse bastata l'autosospensione dopo le frasi sul ministro Kyenge, era arrivata anche l'intervista pubblicata sull'ultimo numero di Panorama: «I meticci sono un obbrobrio perché inquinano la differenza tra le etnie, gli antirazzisti italiani sono ignoranti e raccontano idiozie», è il succo del ragionamento. Troppo persino per i suoi colleghi europarlamentari: la comunicazione ufficiale del “cartellino rosso” è arrivata poco dopo le 16 del 3 giugno 2013………“Sono razzista, non l’ho mai negato. Il ministro Kyenge deve stare a casa sua, in Congo“. Sono le parole shock pronunciate da Erminio Boso, ex senatore e deputato della Lega Nord, ai microfoni de “La Zanzara”, su Radio24. “Ve la tenete voi il ministro di colore” – continua, rivolgendosi ai conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo – “La Kyenge dovrebbe tornare in Congo. Non me ne frega niente se fa il medico, il Congo ha bisogno di medici. Torni lì a farlo”. Il parlamentare del Carroccio è inarrestabile nel suo sfogo: “Ho la tessera della Lega e sono secessionista. La Kyenge dovrebbe dirci come è arrivata in Italia. Ce lo spieghi la signora. Per conto mio c’è stato il solito gioco della Caritas“. E aggiunge: “Sarà entrata illegalmente, per quello che mi riguarda. Non mi sento rappresentato da questo ministro che dopo due giorni va a trovare i delinquenti congolesi e non le vittime. Lei è un nulla” – prosegue – “E’ un medico? Non mi farei mai curare da una come lei“. Boso ribadisce ai conduttori: “Sono razzista, non l’ho mai negato, stronzi. E’ un’estranea a casa mia e io dagli estranei non mi faccio curare. Chi lo ha detto che è Italiana?” – insiste – “Solo perchè hanno fatto le foto insieme al Presidente della Repubblica e al capo del governo? La sua nomina è una grandissima stronzata“.
Bersani, se questo non è razzismo – Raccolta di “perle” razziste della Lega, scrive Pasquale Videtta su “Pensieriinformazioni”. Urge un immediato recupero di memoria (o se preferite un TSO, ovvero un Trattamento Sanitario Obbligatorio) da parte di Pierluigi Bersani. Il segretario del PD ha infatti affermato, sul quotidiano La Padania, che “la Lega Nord non è un partito razzista”. Non contento, nella trasmissione Otto e Mezzo, ha ribadito: “Ma vi pare che il 30% dei cittadini del nord che votano per la Lega siano razzisti? La Lega è sempre stata un partito con un forte senso della legalità (vedi inchiesta camicie verdi con depenalizzazione del reato per salvare alcuni big della Lega, vedi banda armata, vedi insulti ai magistrati Forleo e Papalia), qualche accento identitario che potrebbe indurre atteggiamenti al limite del razzismo in una minoranza dei suoi elettori è arrivato dopo.”
Sarebbe opportuno far leggere a “Oh ragassi, siam passi?!” questa raccolta di “perle” razziste e omofobe targate Lega Nord. 3…2…1, cominciamo!
Roberto Calderoli compilation:
“Dare il voto agli extracomunitari? Un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi”;
“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni… Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”;
“Loro vengono a casa di nostra a chiederci di togliere i nostri crocifissi o di rinunciare al nostro Natale e ai nostri presepi?! La porta è sempre aperta: tornino giù nel deserto a parlare con i cammelli o nella giungla con le scimmie!”; (minuto 3.45)
“Metto personalmente fin da subito a disposizione del comitato contro la moschea sia me stesso che il mio maiale per una passeggiata sul terreno dove si vorrebbe costruire la moschea!”;
“Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”;
“Pacs e porcherie varie hanno come base l’arido sesso e queste assurde pretese di privilegi da parte dei culattoni”;
“Una salva davanti, una salva dietro al limite delle acque territoriali e vedrete che le barche non partiranno più”;
“Ci sono etnie con una maggiore propensione al lavoro e altre che ne hanno meno. Ce ne sono che hanno una maggiore predisposizione a delinquere”;
“Non vorrei mai fra cinque anni e un mese trovarmi un presidente abbronzato”;
“Andremo a Bruxelles noi padani, porteremo un po’ di saggezza della croce a quel popolo di pedofili!”;
“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni… Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”;
[Rivolgendosi a Rula Jebreal] Ma la smetta quella signora, quella abbronzata lì, quella del deserto e del cammello; (da Matrix, 6-02-2006)
“Non sopporto che, per difendere i loro diritti, gli omosessuali vadano in piazza conciati da checche”; ( Il Foglio, 10-12-2007)
“Se non avessi portato il maiale, la moschea, a Bologna, l’avrebbero fatta”; ( Il Foglio, 10-12-2007)
“La fogna va bonificata e visto che Napoli oggi è diventata una fogna bisogna eliminare tutti i topi, con qualsiasi strumento, e non solo fingere di farlo perché magari anche i topi votano”; (Roberto Calderoli, 1-09-2006)
Giancarlo Gentilini compilation:
“Darò immediatamente disposizioni alla mia comandante dei vigili urbani affinché faccia pulizia etnica dei culattoni. I culattoni devono andare in altri capoluoghi di regione che so che sono disposti ad accoglierli. Qui a Treviso non c’è nessuna possibilità per culattoni o simili”; (Giancarlo Gentilini, 9-08-2007)
“I gommoni degli immigrati devono essere affondati a colpi di bazooka”; (Giancarlo Gentilini, 9-08-2007)
“Io voglio la rivoluzione contro gli extracomunitari clandestini! Voglio la pulizia dalle strade di tutte queste etnie che distruggono il nostro Paese! Voglio la rivoluzione nei confronti dei nomadi, dei zingari! Ho distrutto due campi di nomadi e di zingari a Treviso, non ci sono zingari! Voglio eliminare tutti i bambini dei zingari che vanno a rubare dagli anziani. Voglio tolleranza a doppio zero, Maroni dice “a zero”, io voglio “a doppio zero”; (Giancarlo Gentilini, 14-09-2008)
“Extracomunitari? Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile”; (tratto da Wikipedia)
“Siamo in guerra, i gommoni degli immigrati devono essere distrutti a colpi di bazooka. Occorre puntare ad altezza uomo”;
“Io gli immigrati li schederei a uno a uno. Purtroppo la legge non lo consente. Errore: portano ogni tipo di malattia: tbc, aids, scabbia, epatite…”; (tratto da Il Corriere della Sera)
Espelle gli zingari con un’ ordinanza: “Tornino nel Montenegro o nella ex Jugoslavia. Qui non li voglio. La maggior parte dei furti sono fatti da minorenni e donne incinte nomadi e quindi tutti gli arrivi improvvisi potrebbero far crescere la micro-criminalità”; (tratto da Il Corriere della Sera)
Mario Borghezio compilation:
“La Lega non cambia linea vogliono l’8 per mille? Noi ai clandestini bastardi gli diamo il mille per mille di calci in culo con la legge Bossi-Fini”; (citato ne la Repubblica, 23-06-2002)
“Le prime medaglie d’oro olimpiche assegnate ad atleti del Nord … dimostrano la superiorità etnica dei padani, anche in questo campo”; (RaiNews24, 13-08-2008)
“Pensate se ai nostri nonni avessero raccontato che noi ci lasciamo togliere i canti natalizi da una banda di cornuti islamici di merda!”; (Tratto da YouTube, minuto 4.39)
[riferendosi al Terremoto in Abruzzo] Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. [...] Il comportamento di molte parti delle zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate. Eccezioni ci sono dappertutto, ma complessivamente è stata un po’ una riedizione rivista e corretta dell’Irpinia: prevale sempre l’attesa degli aiuti, non ci sono importanti iniziative autonome di ripresa. Si attende sempre che arrivi qualcosa dall’alto, nonostante dall’alto arrivi molto.
Ed ancora:
*Mario Borghezio disinfetta un treno dagli immigrati;
*Matteo Salvini propone metro separate per milanesi e immigrati;
*Claudio Abendi, assessore di Coccaglio, propone l’iniziativa “White Christmas”, volta a ripulire la città dagli extracomunitari;
“Gli immigrati? Peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto” (Piergiorgio Stiffoni, 23-11-2003);
“Il meridionale che viene a studiare a Milano ha una sola cosa in testa: fregare ad un padano un buon posto di lavoro.” (Luca Riboni, La Padania 31-08-1998);
Altre “perle” (tratte dal blog “il Malpaese”):
L’8 dicembre 1989 Bossi: «La società va incontro alla disgregazione, sviluppa comportamenti patologici dell’omosessualità, della devianza giovanile, della droga, crea condizioni psicologiche che favoriscono ad esempio la sterilità per cui non nascono più figli»;
Settembre 1990 Bossi ammetteva a L’Europeo di aver espulso dal partito un ragazzo perché omosessuale «un ragazzo per bene ma era omosessuale. Quanti partiti democratici hanno omosessuali dichiarati, cioè donnicciole, nei loro posti chiave? Un omosessuale è persona di tolleranza fragile, instabile»;
Gianfranco Miglio nel 1993 confermerà su la Stampa che «gli omosessuali sono degli ammalati: è un forma di malattia largamente diffusa, di tipo genetico, e non possono essere considerati normali»;
1996 Bossi riteneva che «il razzismo non è quello che dicono gli altri per farci passare da razzisti. Razzismo è un’altra cosa, è il controllo dell’economia dei popoli da parte di una etnia, è il controllo dell’economia degli altri»;
15 febbraio 1997, Umberto Bossi si scaglia contro l’Italia che «tratta i popoli della Padania come colonie interne da sfruttare economicamente e da assoggettare etnicamente, magari spingendovi le masse di immigrati extracomunitari che dovrebbero secondo le analisi degli illuminati di Santa Romana Chiesa raggiungere i 13 milioni di individui in pochi decenni. Evidentemente per Roma e per gli Italiani il più grave problema della Padania è che ci sono troppi Padani. La razza pura ed eletta dei romanofili pensa di poter dirigere dall’alto le terre incognite padane ridotte a colonie penali celtiche-congolesi nel nome sacro ed eterno “de Roma”»;
20 febbraio 1999 Bossi invitava i cittadini a firmare per l’abrogazione della legge Turco-Napolitano avvertendo che «il progetto mondialista americano è chiaro: vogliono importare in Europa 20 milioni di extracomunitari, vogliono distruggere l’idea stessa di Europa garantendo i propri interessi attraverso l’economia mondialista dei banchieri ebrei e attraverso la società multirazziale. Ma noi non lo consentiremo. (…) Il disegno dei 20 potenti americani non passerà, anche se usano armi potenti come droga e televisione»;
24 agosto 2000, Bossi «la famiglia eterosessuale va difesa da chi vuole creare una dittatura massonica-comunista mondiale. Se passano le famiglie omosessuali che non hanno figli è necessaria l’immigrazione, e con essa l’ideologia che riesce a scardinare l’identità dei popoli. Se ritorna invece la famiglia eterosessuale, e con essa i figli, vincono i popoli e la democrazia»;
«giù le mani dai bambini, massoni, framassoni e sporcaccioni non toccate i bambini. Presto ci saranno i nostri gazebo ovunque contro ciò. Presto si scatenerà la resa dei conti con l’Europa che ha voluto dare i bambini alle coppie omosessuali»;
Nel 2000 Boso dimostra di avere le idee molto chiare su come rimpatriare i clandestini: “Dovremmo rimpatriare i clandestini con gli Hercules C130 dell’ Aeronautica militare. Intanto perché su gli aerei di linea possono violentare le hostess e va ben che certe donne sono porcellone e ci provano gusto, però… Ma c’ è un altro motivo. Sapete cosa fanno quelli prima di partire? Si sporcano in modo indecente, così puzzano e i passeggeri non li fanno prendere su. Sugli aerei militari, invece, con una bella pompa li annaffiamo tutti senza troppe storie “. Poi rassicura: “Noi non siamo razzisti, per me tutti gli uomini sono uguali, hanno la medesima dignità. Il più nero dei neri ha gli stessi diritti del mio vicino di casa. Però a casa sua”;
Nel 2000 la “Padania” scriveva: “Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Sbatteteli fuori questi maledetti!”;
Aprile 2008, Matteo Salvini: “I topi sono più facili da debellare degli zingari”;
Giugno 2008, Massimiliano Romeo parlando dei lager nazisti: “Se nel corso della storia i Rom non si sono fatti molto amare, qualche colpa ce l’avranno pure, qualche errore lo avranno commesso”;
Settembre 2008, Gentilini parlando degli zingari: “Voglio eliminare tutti i bambini che vanno a rubare agli anziani”;
Ottobre 2009, Radio Padania (gestita da Matteo Salvini): “I trans sono cessi immondi ed aborti della natura”;
Gennaio 2010, Radio Padania: “Non vogliamo vedere film dove gli omosessuali si slinguano tra di loro: la depravazione morale sta raggiungendo il suo limite estremo, arrivando a superare la cattiveria con la quale Hitler ha mandato sei milioni di ebrei a morire”;
Settembre 2010, Sindaco di Cassina de’ Pecchi (MI), Radio Padania “Un islamico che viene qua si può dire integrato quando si converte al cristianesimo. Qui sta il punto che ci dice se c’è integrazione o no”;
Dicembre 2010, Marco Pinti, consigliere provinciale della Lega Nord: “Ho appena sentito al telegiornale che Nichi Vendola è stato svegliato nel cuore della notte da alcuni manifestanti del Pdl ed è caduto dalle scale. Purtroppo non ha avuto danni permanenti”;
22 aprile 2010, il Comune aveva deciso di riservare una piccola area cimiteriale ai musulmani, come avviene in diversi paesi dell’Unione europea. La Lega Nord e del Pdl hanno fatto una raccolta di firme per dissotterrare la neonata. La sua sepoltura sarebbe stata “irrispettosa dei sentimenti più intimi della maggioranza della popolazione”. “Dobbiamo verificare se nella sepoltura siano state commesse delle irregolarità, come il lavaggio in un luogo improprio di alcune parti della salma. Dal punto di vista cristiano ci sconvolge questo modo di iniziare un’epoca all’insegna dell’integrazione” sono state le parole di Loris Michelini capogruppo del Pdl al comune di Udine.
Tante altre buone feste con la Lega, caro Bersani. Tutte le sparate razziste della Lega. Dagli insulti di Umberto Bossi, alle pittoresche esternazioni dello sceriffo Gentilini fino alla dichiarazioni contro il ministro Cecile Kyenge. Ecco tutti i casi in cui gli esponenti leghisti hanno esagerato..., scrive Stefania Saltalamacchia su “Vanity Fair”. «Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna». L’invito choc è arrivato da Dolores Valandro, consigliere leghista di quartiere a Padova, ed è stato rivolto al ministro per l’Integrazione Cècile Kyenge. La frase della Valandro è comparsa sulla sua bacheca Facebook facendo poi il giro della rete e scatenando l’indignazione di molti utenti. E le reazioni dei vertici del Carroccio. «Inqualificabile, era già sospesa, stasera sarà espulsa», ha detto, all’agenzia Ansa, Flavio Tosi, segretario veneto e vice segretario federale della Lega Nord. Dopo qualche ora è arrivato anche il dietrofront della stessa Valandro. «E' stata una battuta - ha detto a Radio Capital - in un momento di rabbia, le chiedo scusa. Non sono un tipo violento. Abbaio, ma non mordo». Stavolta la dichiarazione era talmente grave e scandalosa che non si poteva fare a meno né delle scuse né dell'intervento degli stessi rappresentanti del partito. Ma non è di certo il primo caso di esponenti leghisti che pronunciano frasi quantomeno equivoche. Gentilini, Borghezio, Salvini, lo stesso Bossi e altri rappresentanti locali, negli ultimi anni, sono stati al centro di critiche e polemiche per le loro esternazioni shoccanti e per le dure prese di posizione.
Ecco l’elenco delle più eclatanti (raggruppate per autore):
UMBERTO BOSSI - «A Milano le case si danno prima ai 42 mila lombardi che aspettano un alloggio e non al primo bingo bongo che arriva». Lo ha dichiarato il Senatur intervistato a Radio Padania nel dicembre 2003. E poi all'Ansa nel settembre 2009: «Gli immigrati hanno dei diritti, però solo a casa loro».
GIANCARLO GENTILINI - Il campionario delle frasi celebri sull'agormento dell'ex primo cittadino di Treviso è un forziere di "perle:« Era domenica e ho visto nella zona della stazione decine di negri seduti sulle spallette del ponte, altri extracomunitari seduti sulle panchine e sacchetti e zaini attaccati penzoloni ai rami degli alberi. Il giorno dopo sono andato dal prefetto perché non tollero che Treviso diventi una terra di occupazione». Era il 1997 e Gentilini al suo primo mandato proponeva, con queste parole, di togliere le panchine davanti alla stazione. Qualche anno dopo continua così:«Io gli immigrati li schederei a uno a uno. Purtroppo la legge non lo consente. Errore: portano ogni tipo di malattia: TBC, AIDS, scabbia, epatite». Poi in occasione della festa della lega del settembre 2008: «Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari. Io ne ho distrutti due a Treviso. E adesso non ce n'è più neanche uno. Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anziani. Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio la tolleranza doppio zero». E ancora rivolgendosi agli “extracomunitari perdigiorno”: «Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucil».
MARIO BORGHEZIO - Il parlamentare leghista non ha avuto parole dolci per l'elezione del nuovo ministro dell'Integrazione: «Scelta del cazzo ha la faccia da casalinga» e «Questo è un governo del bonga bonga». Ma l'elenco delle sue esternazioni "controverse" è lungo: «Contro i clandestini ci vorrebbero bastoni ovunque, a ogni angolo di strada», ha detto alla Zanzara, trasmissione di radio24, nel 2012. E poi «Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù». Famoso anche il suo commento dopo la rielezione di Barack Obama nel novembre 2012: «Ha vinto Obama perchè ormai l’America è meticcia e quindi ha vinto quest’America multirazziale, che mi sta un po’ sul cazzo».
ERMINIO BOSO E SERGIO DIVINA - I due consiglieri provinciali di Trento della Lega Nord, in un'interrogazione, hanno chiesto la creazione di vagoni dei treni riservati agli immigrati extracomunitari, divisi da quelli per i pendolari italiani. «Crediamo sia giunto il momento di prevedere sul treno degli appositi vagoni per extracomunitari, e delle carrozze riservate ai poveri italiani». Il motivo? «Gli stranieri si tolgono le scarpe e puzzano».
MATTEO SALVINI - Festa di Pontida 2009. Un video mostra il deputato ed europarlamentare della Lega Matteo Salvini, con un bicchiere di birra in mano e attorniato da un gruppo di persone che canta un ritornello: «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani…».Sua anche l'idea, lanciata nel maggio 2009, di creare una metro solo per i milanesi: «L'idea di riservare posti ai milanesi, da qui a qualche anno, potrebbe diventare una realtà. La mia è l'amara considerazione da parte di un utente dei mezzi pubblici. Non c'è ancora una delibera o una proposta di legge, se qualcuno vorrà proporla lo aiuteremo a farlo».
STEFANO VENTURI - «Terremoto nel nord Italia... Ci scusiamo per i disagi ma la Padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)...». Così Stefano Venturi, segretario della Lega di Rovato (Brescia) e consigliere comunale, ha commentato sul suo profilo Twitter le prime notizie del terremoto in Emilia del maggio 2012.
ROBERTO CALDEROLI - «La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni». Così parlava nel novembre 2010 l'ex ministro della Semplificazione Normativa.
Le offese a Kyenge e quel razzismo colposamente ignorato.
La Lega non è stata salvata solo dalla cattiva politica, ma anche dalla cattiva coscienza degli italiani , scrive Alessio Postiglione su “Europa Quotidiano”. Italiani brava gente. Siamo così dei bravi ragassi che l’ultima inveterata uscita di Calderoli sulla Kyenge sarà presto derubricata a ragazzata: cadrà nell’oblio. Magari, con l’espulsione dell’inventore del Porcellum, la Lega dei “buoni amministratori” si sarà nuovamente rifatta una verginità. Quante volte, infatti, abbiamo assistito a questa indegna operazione di maquillage? L’osceno linguaggio leghista è stato colposamente ignorato, perché la Lega “amministra bene il territorio” e Roberto Cota ha la faccia pulita. La Lega è stata salvata innanzitutto dalla cattiva politica. Da Berlusconi, che la elevò a partner, perseguendo, all’epoca di Forza Italia, una scientifica operazione di creazione – non di un fronte moderato – ma reazionario e neofascista. Un rassemblement che giunse ad includere, non solo i post-fascisti di An – la cui maturazione democratica è stata lenta e difficile –, ma un’accolta spregiudicata che annoverava Roberto Fiore e Adriano Tilgher. Un sottile (ma neanche tanto) file noire che legava i liberali berlusconiani di noiantri a Gentilini, il sindaco di Treviso nostalgico del duce, e a “Provolino”, ovvero Maurizio Lattarulo, ex Nar, già braccio destro del boss della Magliana, De Pedis, e staffista alle Politiche sociali con Alemanno sindaco. Ma la Lega non è stata salvata solo dalla cattiva politica, ma anche dalla cattiva coscienza degli italiani. Troppo proni ad alimentare un’immagine bonaria e generosa di sé, pronti a perdonarsi tutto, pur di non guardare dentro se stessi. Se la ricca ed europea Lombardia si affida alla Lega, allora non è neofascista. Ecco il perverso sillogismo che portò la capitale morale del paese a consegnarsi alla Lega, quella ancora più volgare dei primordi, già nel ’92, allorquando divenne sindaco il rassicurante Marco Formentini. Sarebbe bastato guardare con la dovuta obiettività ai cartelli che campeggiavano al Nord “Qui non si affitta ai meridionali”, per mettere adeguatamente a fuoco quella pericolosa pulsione razzista che da sempre cova in noi. Per costituire i giusti anticorpi democratici. Invece, opera in Italia una pericolosa rimozione psicanalitica. Che parte già dalla nostra incapacità di guardarci dentro e capire la nostra storia. L’infelice battuta di Berlusconi sul “fascismo buono”, ad esempio, trova ampio consenso in quella parte degli italiani che imputi agli altri, ad Hitler, gli orrori del fascismo. Di fronte a questa negazione collettiva, non serve ricostruire l’immondo bestiario razzista di Niceforo e Lombroso, che anticipò e fornì al fascismo le proprie basi ideologiche. Non serve ricordare gli stupri, le evirazioni e il vilipendio dei corpi perpetrati dal gerarca Rodolfo Graziani in Libia, al quale, l’anno scorso, il Comune di Affile ha dedicato un sacrario. Non serve ricordare che il razzismo contro i meridionali risale al 1861, allorquando l’esercito piemontese rase al suolo due interi paesi del beneventano, Casalduni e Pontelandolfo, dichiarati solo nel 2011 “città martiri del Risorgimento”. Non serve ricordare, le origini medievali del nostro antisemitismo: solo nel 1965, la Chiesa ha proibito il culto di San Simonino da Trento, vero e proprio falso storico di bambino canonizzato in quanto martire delle “pasque di sangue”; l’accusa lanciata dai cristiani agli ebrei di uccidere i bambini per utilizzarne il sangue a scopi rituali. Eppure, di fronte a questo catalogo dell’orrore, c’è ben poca riprovazione per le uscite dei Calderoli, dei Salvini, dei Borghezio. Sono solo dei gaffeur. Invece, servirebbe la massima attenzione. Mentre noi siamo indulgenti con noi stessi, non la pensa così la comunità internazionale. Già nel 2002, il Consiglio d’Europa, nella sua XXVI plenaria, indicava nella Lega Nord un pericoloso soggetto diffusore di razzismo, richiamando l’Italia a rispettare la normativa internazionale e adombrando l’illegittimità ai sensi della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (Cedu) della coalizione di Berlusconi, in virtù della presenza di un partito, la Lega, chiaramente definito xenofobo e razzista. Le preoccupazioni del Consiglio sono state reiterate nell’ultimo report su razzismo e intolleranza del febbraio 2012, dove si denuncia la mancata ratifica da parte dell’Italia del Protocollo 12 della Cedu, che imporrebbe una maggiore azionabilità dei reati razzisti ed imporrebbe un’estensione dello Jus soli rispetto all’attuale ordinamento. Il Consiglio d’Europa ha anzi motivo di ritenere che l’Italia abbia fatto significativi passi indietro, come nel caso della legge 85/2006, che ha sostituito il divieto di diffusione di contenuti razzisti con un più blando divieto di propaganda. Le raccomandazioni di Strasburgo, dunque, vanno proprio nella direzione delle proposte politiche decise dalla ministra Kyenge, che ha scelto di voltare pagina rispetto ad una legislazione “padana” fortemente avversata dalla Comunità internazionale. Eppure, l’adesione della ministra a quei principi che rappresentano fonte primaria di diritto internazionale, le costano volgarità irriferibili. Che faremmo bene a non considerare gaffe o ragazzate.
Chi non è razzista scagli la prima pietra. Quando Clio urlava a Naomi: "Sporca negra" e Napolitano non diceva nulla. La firts lady inveì contro la modella che disturbava la sua pennichella a Stromboli. Giorgio non disse nulla. Ma ora vuole la testa di Calderoli, scrive “Libero Quotidiano”. Fermi tutti. Quando Napolitano s’è detto "colpito e indignato" dalla battuta di Roberto Calderoli contro la "Kyenge-orango", non era amareggiato solo per il leghista. Le parole del vicepresidente del Senato gli devono avere aperto una ferita personale. Nel 2006 gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana rivelarono che la signora Clio Napolitano si imbufalì con Naomi Campbell durante una vacanza a Stromboli. La signora s’affacciò alla finestra e avrebbe gridato "brutta negra" alla modella perché le disturbava la pennichella. Sarà vero? E se lo è, che farà Giorgio?
Ecco l'articolo di Lucia Esposito uscito su Libero nel dicembre 2006.
A un certo punto l’intervista barbarica scivola pericolosamente verso un’estate a Stromboli. Daria Bignardi ci prova e chiede: dicono che i vostri rapporti con Clio Napolitano non sono buoni... Stefano Gabbana e Domenico Dolce sono lì davanti a lei. Un attimo di silenzio, poi risponde Gabbana. Ecco, testualmente, cosa dice: «Lei ha fatto una figuraccia. Noi eravamo in terrazzo dopo pranzo. Alle tre di pomeriggio, eravamo in quindici, si ascoltava un po’ di musica. A un certo punto vediamo questa specie di spettro che esce da una finestra.... Questa signora anziana e scompigliata esce dicendo che eravamo dei delinquenti, disgraziati, farabutti. Con noi c’era Naomi Campbell e lei dice “quella brutta negra”». Sconvolgente. Ma non finisce qui. Gabbana riprende fiato (riportiamo sempre fedelmente): «Allora io le ho detto: guardi signora, lei può essere mia nonna ma non la voglio insultare. E lei: non sa chi sono io, chiamo la polizia. Alla fine sono arrivati i carabinieri di Stromboli che ci hanno detto questa qui è una rompipalle, appena c’è un clacson, un bambino che piange...» A Stromboli tutti ricordano quella volta che sotto il vulcano nero arrivò la Venere Nera, ospite degli amici stilisti. Ma quel fazzoletto di dodici chilometri stava troppo stretto alla top delle top. Naomi si annoiava a morte e la sera, quando calava il buio e si accendevano le lucine delle torce (a Stromboli non c’è illuminazione pubblica) le veniva anche un po’ di tristezza. Si dice che quel giorno gli stilisti, per rallegrare il pomeriggio, accesero lo stereo in giardino e che la signora Clio, dopo averli invitati cordialmente ad abbassare il volume, mandò i carabinieri. Nessuno può sapere quello che l’appuntato disse a D&G sulla signora Clio Bittoni che da oltre vent’anni trascorre le vacanze nell’isola che fece innamorare Ingrid Bergman e Roberto Rossellini. Tutti gli anni la coppia passa parte dell’estate all’ombra del vulcano che continua a sputare pietre di fuoco. Da sempre nello stesso albergo, La Sciara. Qui una stanza in alta stagione costa 250 euro, 280 se con vista mare. Ma per trenta euro ne vale la pena perché lo spettacolo è da perdere il fiato. E poi c'è una terrazza solarium, una piscina di acqua di mare e un giardino mediterraneo. Tutto, a soli venti metri dalla spiaggia. E i coniugi Napolitano amano il mare e ogni giorno - con la paglietta color crema lui, la borsa degli asciugamani lei - se ne vanno alla spiaggia della Sciara. Sole e nuoto prima di tuffarsi in una granita di gelso. Di pomeriggio, dopo un riposino in camera, la passeggiata tra i vicoli dove il Presidente e sua moglie conoscono tutti, le chiacchiere con gli isolani, uno sguardo alle vetrine. La sera sempre lontano dalla mondanità, con gli amici, tra cui Miriam Mafai, oppure a giocare a carte. Ogni Ferragosto l’ex consigliere Rai Alberto Contri, ospita nella sua casa con vista sull’orizzonte i suoi amici più cari per un concerto musicale. Giorgio e Clio, appassionati di musica (oltre che di cinema e teatro), non hanno mai perso un appuntamento. Quando la scorsa estate hanno dato forfait a causa della nuova carica e dei relativi problemi di sicurezza, il Presidente della Repubblica ha chiamato il suo amico per chiedergli la scaletta del concerto allestito in terrazza. A Stromboli i quattrocento abitanti considerano Clio una di loro. Discretamente elegante, la first lady - racconta chi la conosce - non ama giri di parole. Gentile ma schietta, diretta come una freccia, la first lady, settantadue anni portati con nonchalance, non è certo una che la manda a dire. Laureata in giurisprudenza, da ragazza faceva l’avvocato difendeva i braccianti agricoli di Acerra e questi, quando vedevano arrivare Napolitano, dicevano: «Quello è il marito dell’avvocato nostro». Era lei che la domenica portava i suoi due figli a vedere le partite allo stadio anche se, confessa, «di pallone capivo pochissimo». Quando il suo Giorgio diventa presidente della Camera, lei va avanti con la vita di prima. Spazzatura inclusa. Continua a portare le buste dell’immondizia nei bidoni anche se, per difendere l’immagine, li nasconde nei sacchetti delle boutique. Clio, che deve questo nome a due “compagni” dei suoi genitori con una bimba che si chiamava così, ama il cinema, il teatro e il mare. Specialmente quello delle isole. Dopo Stromboli, c’è Capri e le tante estati all’hotel Minerva. Anche in questo caso è sempre lo stesso da sempre, tanto che la coppia è diventata amica dei proprietari. Più recente la passione per Capalbio scoperta grazie a Guido Fabiani, rettore dell’Università Roma Tre e marito della sorella di Clio. Anche qui la coppia presidenziale è di casa, anche qui della signora Napolitano dicono la stessa cosa. «Una donna spiritosa ma rigorosa». Un ritratto senza chiaroscuri. A cui venerdì sera, durante una puntata delle Invasioni Barbariche (La 7), Dolce e Gabbana hanno aggiunto una sbavatura.
Il razzismo c’è, e l’orango c’entra. Pierluigi Battista ribatte sul Corriere a quelli che dicono che Calderoli ha citato un animale come un altro. Intorno alla storia della stupida offesa del senatore Calderoli contro il ministro Kyenge si è rinnovata una discussione sul linguaggio razzista, discussione a volte strumentale e a volte no, in cui è stata evocata da alcuni commentatori l’opinione che il razzismo dell’offesa fosse stato sopravvalutato. Sul Corriere della Sera risponde loro Pierluigi Battista spiegando perché no.
È vero, si fa un abuso intimidatorio del termine «razzista». Ed essere a favore dello «ius sanguinis» anziché dello «ius soli» non fa un razzista di chi lo propugna. Ma dare dell’«orango» a una donna di colore, per provocare risate e consenso nel contesto di un comizio, è specificamente razzista. Lo è storicamente: da sempre nell’iconografia cara al Ku Klux Klan il «negro» è paragonato, o addirittura identificato, a una «scimmia». Da sempre l’immaginario razzista si nutre dell’immagine del «negro» inferiore come di un sotto-uomo dai tratti scimmieschi: un gorilla, uno scimpanzé. O un orango, appunto. Darwin non c’entra. Non sono i nostri (presunti) progenitori a essere chiamati in causa, ma i nostri antenati che sono restati indietro, che non si sono sviluppati e, schiavi dei più bassi istinti naturali, non sono entrati nello stadio della civilizzazione. «Bingo Bongo» sta sugli alberi, come le scimmie. Nelle edizioni del «gioco dell’oca» dell’epoca fascista, le caselle con i bambini neri raffiguravano esseri umani molto simili a delle scimmiette. Una gaffe, dicono ancora. Un incidente, un’imprudenza, una cosa buttata lì con i freni inibitori allentati. Appunto: quando le inibizioni crollano, le pulsioni si manifestano senza le briglie dell’opportunità e della buona educazione. Esce fuori il profondo, normalmente seppellito sotto strati di autocensura civilizzatrice, di ossequi alle convenzioni. A Calderoli è sgorgato spontaneo il paragone. Non ha detto cane, o orso, o coccodrillo. Ha detto «orango» come l’hanno detto migliaia e migliaia di suoi predecessori che hanno dileggiato, raffigurato, deriso, linciato i neri come «scimmie». Dicono: lo fanno tutti. No. Roberto Calderoli l'ha fatto peggio degli altri. Dicono anche:ma il bestiario da scagliare contro il nemico è una prassi consueta. È vero, è una pessima consuetudine, degna del primitivismo che domina il lessico politico italiano. Ma quell'«orango», buttato addosso alla signora Kyenge, non è un animalesco insulto ordinario. È un insulto speciale, che vuole dire proprio una cosa, che ha una storia alle spalle, che è sovraccarico di sottintesi che non si possono definire altrimenti che «razzisti». Ecco perché l’argomento del «così fan tutti» non regge. Il Giornale, in un estremo tentativo, se non di difendere l’indifendibile, quanto meno di attenuare l’impatto di quell’«orango» sventurato, elenca tutti i casi in cui i politici sono stati paragonati ad animali: «topo» a Giuliano Amato, «rospo» a Lamberto Dini e così via. Ma veramente non colgono la differenza offensiva di un insulto così carico di storia nella triste vicenda del razzismo come «orango» riferito a una signora di colore? Anche «caimano» a Berlusconi non è affatto piacevole: concetto che fa fatica a entrare nella testa di chi considera del tutto ovvio che si dia del «nano» a Brunetta e si crocifigga Ferrara come un «ciccione». Ma la qualità prettamente razzista del dileggio di Calderoli è autenticata dalla storia e dalla consuetudine. Se dipingi uno qualunque con un naso adunco è un conto, ma se dipingi un ebreo con il naso adunco e la fisionomia repellente il tratto antisemita di quel disegno è inequivocabile. E così difficile capirlo?Ieri in Senato il (purtroppo) non dimissionario vicepresidente Calderoli si è detto «rammaricato» per il «gravissimo errore» commesso. Ma a furia di chiamarlo errore, senza assumersene la responsabilità e rifiutandosi di capire il significato vero di ciò che si è detto, si finisce per non comprendere perché quell’errore sia stato commesso, quale deposito di stereotipi razziali sia stato saccheggiato nell’attimo preciso in cui Calderoli ha sfoderato quell’orribile «orango». Dunque non è stata l’animalizzazione generica dell’avversario a rappresentare l’errore, ma quello specifico link mentale che quell’insulto rivolto a quel ministro con quel colore della pelle ha voluto richiamare. Che poi ci sia stato un effetto non voluto, il problema è solo di Calderoli. Un uomo politico non può farsi dominare dai fantasmi dell’inconscio, e se quell’inconscio è strutturato secondo stereotipi in cui il nero richiama inesorabilmente la scimmia, allora il problema di un singolo diventa un problema della collettività. Non è vero, presidente Maroni?
Il manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato su “Il Post”.
75 anni fa un gruppo di scienziati - ma molte liste che circolano sono false - scrisse che per gli italiani era arrivato il momento di diventare razzisti. Il 15 luglio del 1938 venne pubblicato sul Giornale d’Italia – quotidiano fondato nel 1901, famoso negli anni Venti e poi chiuso dopo lungo declino nel 1976 – quello che poi sarebbe diventato famoso come il “manifesto della razza”, o il “manifesto degli scienziati razzisti”. L’articolo, in prima pagina e non firmato, era intitolato “Il Fascismo e i problemi della razza”. Era diviso in dieci punti e introdotto da un breve sommario in cui si spiegava che un gruppo di scienziati, professori e intellettuali fascisti, insieme al Ministero per la cultura popolare (il famigerato “Minculpop”) aveva redatto il documento per chiarire qual era la posizione del fascismo nei confronti della questione razziale. Il primo dei dieci punti affermava che “le razze umane esistono” e, per dare un’idea della prosa, diceva così: Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti. Nel seguito si distingueva tra “razza” – definita “un concetto puramente biologico” – e “popolo” e “nazione”, in cui entravano in gioco considerazioni storiche, linguistiche e religiose. Si affermava che “la popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana” e che, a differenza di quanto successo in “altre nazioni europee”, dopo l’invasione dei Longobardi (nel VI secolo) non c’erano stati grandi movimenti migratori e quindi, si diceva implicitamente, la razza si era mantenuta particolarmente pura. Il manifesto prendeva posizione poi contro i matrimoni misti e, al punto 7, diceva “È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”. Il punto 9 affermava che “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”. Il manifesto venne ripreso da numerosi giornali e poi pubblicato una seconda volta nell’agosto del 1938 sul primo numero di un nuovo quindicinale che aveva appena iniziato le pubblicazioni: La difesa della razza, diretto da Teresio Interlandi. Il sommario che introduceva il manifesto aveva un tono ancora più definitivo: nel testo erano scritte, si diceva, “le basi del razzismo fascista”.
Chi lo scrisse e chi aderì. Nella seconda pubblicazione, il manifesto era accompagnato da dieci firme: due erano di medici e il resto di ricercatori e assistenti universitari poco noti. A quanto sembra, quasi nessuno dei firmatari venne interpellato prima della pubblicazione del manifesto, ma sembra che soltanto due di loro (il fisiologo Sabato Visco e il patologo Nicola Pende) abbiano in qualche maniera protestato per essere stati associati al testo. Guido Landra, uno dei firmatari, un assistente di antropologia dell’università di Roma, fu l’autore materiale del manifesto. Mussolini ebbe una parte importante nel deciderne i contenuti e confidò al ministro degli Esteri (e suo genero) Galeazzo Ciano che gran parte del manifesto l’aveva scritta direttamente lui. Su Internet si trovano numerosi elenchi di “aderenti” al manifesto, il più famoso dei quali include più di 300 nomi tra cui quelli di Giorgio Guareschi, Amintore Fanfani e Giorgio Bocca: si tratta di un falso storico. Non esistono documenti che certifichino l’esistenza all’epoca di “elenchi di aderenti” al manifesto e difficilmente ci sarebbe stata la necessità di qualcosa di simile. Il manifesto non era una proposta di un gruppo di intellettuali indipendenti, ma il documento ufficiale con cui il Partito Fascista comunicava le sue posizioni sulle questioni razziali, che sarebbe state messe in pratica con una serie di leggi nei mesi successivi.
Il contesto e le conseguenze. Secondo gli storici, tra le numerose cause che portarono al manifesto razzista e poi alle leggi razziali, ce ne sono due che spiccano sulle altre. Due anni prima della pubblicazione del manifesto l’Italia aveva annesso l’Abissinia, l’odierna Etiopia. Il governo fascista si trovò a dover gestire un grande territorio popolato da milioni di abitanti di un’etnia diversa da quella italiana. Alcuni, come il viceré d’Etiopia Amedeo di Savoia-Aosta, erano favorevoli a un atteggiamento aperto nei confronti della popolazione etiope, coinvolgendo l’aristocrazia locale nel governo della colonia. Altri avevano un atteggiamento più severo, razzista appunto, secondo cui la popolazione doveva essere trattata in maniera radicalmente diversa da quella italiana e bisognava mantenere una rigorosa separazione. Un altro fatto importante fu l’alleanza con la Germania nazista. La conquista dell’Etiopia aveva in parte isolato l’Italia dalla comunità internazionale, rappresentata all’epoca dalla Società delle Nazioni, un antenato delle Nazioni Unite, che impose sanzioni economiche all’Italia. L’isolamento internazionale spinse l’Italia ad avere relazioni sempre più strette con la Germania e quindi ad adottare politiche in campo razziale simili a quelle della Germania – e in questo ebbe probabilmente una parte anche il fascino che Adolf Hitler esercitava su Mussolini. Poche settimane prima della pubblicazione del manifesto, Hitler aveva compiuto una lunga visita di stato in Italia. Comunque, bisogna ricordare che fin dai primi tempi il fascismo aveva manifestato in alcune sue correnti un atteggiamento razzista e antisemita, anche se questi aspetti non erano mai stati codificati ufficialmente. Poco meno di due mesi dopo la pubblicazione del manifesto, il 5 settembre 1938, venne pubblicato il Regio Decreto Legge numero 1390, la prima delle leggi razziali italiane. Seguirono altri decreti nei mesi successivi fino al punto in cui vennero vietati i matrimoni misti con i “non italiani”, mentre agli ebrei venne vietato di insegnare o di frequentare scuole insieme agli “italiani”. A tutti i non italiani, in pochi mesi, vennero negati quasi completamente i diritti politici e poi quelli civili.
Dell’inopportunità di paragonare la Kyenge a un orango, in questa pagina, già si occupano altri, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Io mi limiterei a ripetere una cosa semplice ma che pare ardua da comprendere: che lo scalcagnato esercito «razzista» non si combatte contrapponendogli un altro esercito «antirazzista», il quale, partendo da un’uscita di Calderoli a Treviglio, faccia esplodere una bomba mediatica internazionale. Non serve combattere le guerre già vinte: non è che il razzismo sarà sconfitto quando avremo dieci ministri come la Kyenge, sarà sconfitto quando l’etnia originaria sarà irrilevante al pari delle battute infantili. Negli Usa è presidente un uomo nero, ed è stato uno straordinario punto d’arrivo: ma il prossimo grande balzo sarà non notarlo neppure. Non serve essere anti-razzisti: basta essere normali, non badare neppure a certe sciocchezze, lasciarle macerare nel dimenticatoio della Storia o se volete a Treviglio. Altrimenti l’antirazzismo diventa una forma di razzismo blando, inconsapevole, a fin di bene: perché razzismo non è solo l’essere intolleranti con il diverso, ma è anche il sottolineare, ogni volta, che comunque è diverso. Per questo le battute sui nani sono peggiori di quelle sui neri: perché le prime mirano a un incolpevole difetto fisico, a uno svantaggio innegabile, mentre le seconde mirano al nulla, perché il colore è un dettaglio senza conseguenze. Non dovrebbe impedirti di diventare ministro, il colore, e neppure aiutarti a diventarlo.
Nord razzista e sud fancazzista (ovvero quando la Lega ha quasi ragione), scrive Laura Eduati su “Gli Altri on Line”. Francesco Patierno sta girando in queste settimane il suo nuovo film, “Cose dell’altro mondo”, con Diego Abatantuono e Valerio Mastandrea. Avrebbe voluto ambientarlo a Treviso, terra leghistizzata e dunque perfetta per mettere in scena la storia di un imprenditore veneto che dalle sue televisioni locali inveisce contro gli immigrati. Ha dovuto rinunciare: il sindaco Gian Paolo Gobbo, ras del leghismo nordestino, ha liquidato le troupe di Abatantuono con poche ficcanti parole: “Sono solo stereotipi”. E dunque il regista ha dovuto rimediare nella vicina Bassano del Grappa. Non è la prima volta che i dirigenti leghisti si arrabbiano quando cinema e televisione presentano i veneti come tonti, ignoranti, avvinazzati, sgobboni, attaccati “ai schei” e, ultimamente, pure xenofobi e intolleranti. E hanno ragione da vendere. I leghisti. Dalla loro si schiera persino lo scrittore vicentino Vitaliano Trevisan, contattato un tempo da Patierno per collaborare alla sceneggiatura ma che aveva rifiutato perché “colma di luoghi comuni”. Appunto. Trevisan non è mai stato tenero coi capannoni del Nordest e con il sistema produttivo veneto, né tantomeno con la Lega Nord, eppure rileva il fastidio – quanto mai comune nei nordestini – verso un sud che non conosce il nord e spesso lo illustra con aggettivi poco edificanti, poi restituiti al mittente. Trevisan non è il solo. In una intervista ad Antonello Piroso il magnifico Antonio Pennacchi, originario del Polesine, aveva sentito l’esigenza di chiarire come il Veneto, terra certamente attraversata dall’intolleranza, sia molto diverso da come viene rappresentato e immaginato. E un altro giornalista-scrittore veneto, Stefano Lorenzetto, ha appena dato alle stampe un libro in difesa del carattere regionale, “Cuor di veneto. Anatomia di un popolo che fu nazione”, dove intervista venticinque personaggi veneti, famosi e persone comuni, che nulla hanno a che fare con le rivendicazioni autonomiste o con orgogli di pseudo-razza, ma che erodono il pregiudizio di un nordest superomistico ed egoista. L’operazione di Lorenzetto è probabilmente riduttiva e ha il sapore della difesa patriottarda, tuttavia coglie il punto. Non è un caso che il film “Benvenuti al sud” stia avendo successo al botteghino e che presto vedremo il sequel “Benvenuti al nord”: in una Italia spaccata in due entità territoriali che si guardano sempre più in cagnesco, e di questo la Lega porta fortissime responsabilità, sopravvive l’antica curiosità di mettere a confronto nord e sud per vedere l’effetto che fa. Il rischio naturalmente è quello di oscillare dal disprezzante luogo comune al “volemose bene”: gretti italiani del nord e fancazzisti italiani del sud che scoprono le reciproche qualità e si abbracciano in un lacrimoso happy end. Il rischio è tanto più alto se il nord, come il sud, vengono lasciati al racconto estemporaneo di registi e scrittori che poco hanno a che fare con (attenzione, ora arriva la parola più abusata dai leghisti) il territorio. Massimo Carlotto e Antonio Mazzacurati, entrambi padovani, hanno tentato di rappresentare le atmosfere, spesso cupissime, della periferia diffusa nordestina, della perdita dei valori a vantaggio dei benedetti “schei”, della violenza inespressa. Ma sono casi isolati. Il dramma è che il nordest è raccontato principalmente dalla Lega, e paradossalmente è proprio la Lega a difendere il nordest dagli stereotipi che lei stessa alimenta. Con un corollario: che quando i politici del Carroccio si difendono dal luogo comune, hanno torto pur avendo ragione. Tanto per cominciare, in un recente dibattito su Gramsci con Fausto Bertinotti, l’ex governatore sardo Renato Soru ricordava come il filosofo suo conterraneo scrivesse alla sorella raccomandandole di insegnare il dialetto ai bambini perché l’antica lingua andava conservata come tradizione preziosa. Sono parole che suonerebbero famigliari, e carissime, anche ad un veneto e ad un bergamasco per i quali il vernacolare è non soltanto interclassista ma, soprattutto, la lingua degli affetti più profondi. Nell’immaginario collettivo un veneto o un bergamasco che si ostinano a comunicare in dialetto diventano invece gretti, antistorici o magari desolatamente comici. Il guaio è che soltanto i leghisti mostrano bullescamente un amore spassionato per il dialetto, che nel nord diventa lingua, al punto da volerlo inserire nei programmi scolastici o, peggio, pretendere che gli insegnanti del sud lo imparino per poter meglio interagire con gli alunni. Il risultato sono le pernacchie. Nel chiasso leghista e autonomista, scompare la voce del poeta Andrea Zanzotto che sperimenta con il dialetto veneto, o comunque la voce di coloro che nel nord non voterebbero Lega nemmeno sotto minaccia ma che, nelle case o per le strade, conservano l’abitudine di comunicare in veneziano (o trevigiano, o bergamasco, o bresciano, o veronese etc.) al bar come a scuola, col medico o col moroso. E si sentono intrappolati in due rappresentazioni opposte eppure ambedue falsificate: da una parte lo smisurato orgoglio leghista che usa il dialetto persino nei documenti ufficiali come accade in alcuni Comuni lombardi; e dall’altra la ridicolizzazione della parlata nordica nei film e nelle fiction.
Non esiste la guerra del bene contro il male. Esiste la guerra del bene assoluto e del male minore. Cioè, ormai dovrebbe essere chiaro, del male assoluto e del male minore. Non bisogna lottare per la verità, ma per l’incertezza. Per il tentativo. Per l’esperimento. Per l’avventura. Per la fallibilità. Dunque per la libertà, purché sia una libertà che non si realizza mai, e dunque che non è duratura in nessuna della sue singole forme. Non bisogna lottare per nulla che sia infinito ed eterno: queste armi lasciamole all’avversario. Non bisogna lottare per essere perfettamente buoni, ma per essere moderatamente, tollerabilmente, umanamente cattivi. Non c’è diritto più grande ed irrinunciabile di quello all’imperfezione: perché è il diritto alla perfettibilità. Una giornalista dell’Espresso scrive: “Lega e nazisti, una faccia una razza”, scrive Luigi Alfieri su “Verso un Mondo Nuovo”. La suddetto giornalista dell’Espresso usa slogan razzisti per denunciare il razzismo, usa logiche razziste (qualche leghista ragiona come un nazista, ergo la Lega è un movimento neonazi) per evidenziare le logiche razziste, contribuisce a svuotare di ogni significato agli epiteti fascista e nazista, ormai inflazionati ed usati quasi immancabilmente a sproposito.
Esiste dunque un razzismo di sinistra?
L’intolleranza di tanti cittadini di sinistra verso i concittadini leghisti assume spesso tinte razziste ma, a sinistra, è più difficile accorgersene, perché inveire con stereotipi ed insulti contro i leghisti è politicamente corretto. È come se questi ultimi fossero collocati un gradino sotto gli esseri umani normali, assieme ai Neanderthal (e sotto gli immigrati). Il che fa tra l’altro il gioco del governo e dell’élite che lo appoggia, ben felice di vedere che l’indignazione si scarica contro l’opposizione (leghisti, grillini, no-Tav, anarchici, camionisti, ecc.). Il razzismo di sinistra si scaglia contro chi critica gli immigrati e le politiche dell’immigrazione. Come tutti i fanatismi, osserva selettivamente la realtà, rimuovendo gli aspetti spiacevoli della medesima. Così i clandestini non sono un così grosso problema, le carceri ricolme di extracomunitari non sono un così grosso problema, le strade invase dalle prostitute non sono un così grosso problema, l’insicurezza non è un così grosso problema, la mentalità medievale di una parte degli immigrati non è un così grosso parte. Non è un così grosso problema che certe realtà siano state letteralmente invase dagli extracomunitari nel giro di pochissimi anni per fare un favore alle imprese e perché ci va bene di continuare a distruggere le economie del Terzo Mondo per poter esportare le nostre merci: I leghisti hanno comunque torto, i critici dei leghisti hanno comunque ragione. I parlamentari leghisti sono comunque incompatibili con la democrazia. “Se i leghisti prendessero il potere in Italia chissà cosa succederebbe!” Il razzismo di sinistra è persino più irritante di quello leghista perché è moralista. Molti leghisti, in fondo, sanno che essere razzisti è brutto e sbagliato (infatti lo nascondono finché non sono con altri razzisti). Invece temo non siano molti i legofobi che si interrogano sulla moralità del loro atteggiamento nei confronti di milioni di loro concittadini (di serie B). Infatti “razzismo di sinistra” è un ossimoro. Non si può essere razzisti/xenofobi e di sinistra. O sei l’uno o sei l’altro. Chi è razzista/xenofobo non è davvero di sinistra. A sinistra, va da sé, ci stanno “li mejo”. Si comincia così e si arriva ai centri di rieducazione ed ai gulag ["se la sinistra prendesse il potere in Italia chissà cosa succederebbe!"] – specialmente in seno ad un certo ambientalismo messianico. A questo proposito, un’osservazione di Jacques Attali mi pare quanto mai azzeccata (Attali, “Domani chi governerà il mondo?” 2012, p. 289): “In risposta ai rischi sistemici mondiali, si vedrà in particolare crescere un’ideologia ecologica planetaria che raccomanda la riduzione della produzione per diminuire il consumo di energia ed attenuare i rischi d’inquinamento, imponendo restrizioni in tutti i settori in nome della frugalità e dei vantaggi a lungo termine. Dall’altra parte, un’ideologia religiosa – o più d’una – tenterà anch’essa di imporre regole conformi alle esigenze di un aldilà dove risiederà, secondo quanto sostiene, l’unica speranza di salvezza. Queste due ideologia fondamentaliste, ecologica e religiosa, convergeranno: l’una e l’altra affermeranno che il destino degli uomini è già scritto e che il vero padrone del mondo – la Natura o Dio – è altrove. L’una e l’altra, alla ricerca della purezza, denunceranno l’Occidente. L’una e l’altra sosterranno di pensare alla felicità degli uomini in termini di prospettiva. Potrebbe anche emergere un giorno un’ideologia che metta insieme le due dottrine: un fondamentalismo allo stesso tempo religioso ed ecologico. Un ossimoro, come lo fu il nazionalsocialismo. Già ha fatto la sua comparsa in Brasile, dove si sta sviluppando un fondamentalismo evangelico eminentemente interessato alla tutela dell’ambiente. Inoltre, nel 2002, Osama Bin Laden, nella sua “Lettera all’America”, accusò gli Stati Uniti di distruggere la natura più di qualsiasi altra nazione, con l’emissione di gas a effetto serra e la produzione di rifiuti industriali. Nel gennaio del 2010, sosteneva che “tutte le nazioni occidentali” sono colpevoli del cambiamento climatico. Nell’ottobre dello stesso anno, ribadiva che le vittime del cambiamento climatico sono più numerose di quelle delle guerre”. Ho sempre detto che la prossima tirannia sarebbe stata umanitaria ed ecologista, ma non avevo pensato al tipo di connubio preconizzato da Attali. Vedremo chi ci andrà più vicino. Tornando alla questione del razzismo di sinistra, mi pare che il film “Cose dell’altro mondo”, quello con Abatantuono imprenditore veneto razzista (a proposito: un attore credibilmente veneto non lo si poteva trovare?) lo esemplifichi mirabilmente. Il messaggio centrale è che senza la forza lavoro immigrata l’Italia sarebbe finita (il neoliberismo ce la sta comunque mettendo tutta – a proposito: chi può essere così genio da chiedere ad un neoliberista sfegatato di risolvere problemi causati dal neoliberismo?). Un messaggio così banale che persino quei subumani dei leghisti l’hanno capito. Dunque un film inutile? No. Molto utile per capire i pregiudizi della sinistra. Il film in questione è una predica rivolta ai credenti, fatta di caricature di leghisti ignoranti, italiani mammoni, immigrati per bene che devono restare qui perché sono bravi amanti e lavoratori instancabili. Un film che fa star bene i benpensanti perché sorvola sul problema della criminalità, della clandestinità, del lavoro nero, della virtuale abolizione dei diritti dei lavoratori, della sostituzione della forza lavoro italiana con quella immigrata, delle politiche commerciali europee ed italiane che sbattono fuori dal mercato gli imprenditori dei paesi in via di sviluppo (dumping), della filantropia e dell’umanitarismo che mantengono miliardi di persone in una condizione di dipendenza, minorità e squallore, ecc. È un film ipocrita e classista. Infatti fa svanire gli immigrati. Poteva farli mobilitare, organizzare in un movimento di protesta appoggiato dagli italiani, invece sceglie di perpetrare la dicotomia tra veneto razzista benestante (leghista cripto-nazi o proto-nazi) ed immigrato umile e passivo servo della gleba. È un film che crede di essere pedagogico ma è paternalista e reazionario, manicheo e stracolmo di cliché, incluso l’uomo bianco con ansie di inadeguatezza sessuale e l’ultrarazzista ipocrita che assume quasi solo extracomunitari, va con le prostitute nere e perciò si merita il nipotino meticcio. La questione sociale, la lotta di classe, viene esclusa in favore dell’ennesima riproposizione del volemosebbène e del rassicurante ordine che vede i bianchi benevoli e magnanimi in alto e i rispettosi, disciplinati colorati in basso. Nel film non c’è nessun protagonista immigrato che non sia un amante (alla fine la protagonista si consola molto presto tornando con l’ex italiano: alla faccia del grande amore!) o un lavoratore (amici? Parenti? Dirigenti? Negozianti? Liberi professionisti? Amministratori comunali? Docenti? Delinquenti professionisti?). Non si pone un’alternativa tra immigrato al suo posto ed immigrato assente (desaparecido). Cosa sarebbe cambiato se alla fine del film gli immigrati fossero ricomparsi magicamente come magicamente erano svaniti? Ci sarebbe stato meno razzismo esplicito in una società ugualmente iniqua, ugualmente ipocrita, ugualmente disumana. Si sarebbe radunato qualche milione di indigeni pronti a sostituire gli immigrati scomparsi – umilmente, docilmente, disciplinatamente (perché nel capitalismo, come nel socialismo, ogni essere umano è un’unità rimpiazzabile). Il film assegna agli Italiani la parte dell’ebete superficiale incapace di adattarsi alla nuova situazione, troppo viziato e bamboccione per darsi da fare, a dispetto degli allarmanti tassi di disoccupazione giovanile. È una forma di disumanizzazione – verso immigrati ed autoctoni – paragonabile a quella leghista, ma va bene perché è politicamente corretta. Non può essere razzismo, anche se è tanto deplorevole quanto quello leghista, anzi più viscido e manipolativo, perché moralista, perché offre una corsia preferenziale agli immigrati, trattandoli come minori o minorati, dispensati da alcuni degli obblighi spettanti a tutti gli altri in quanto sfortunati o comunque non ancora pienamente integrati, non ancora pienamente maturi, non ancora pienamente adulti. Il razzismo anti-leghista, non solo disumanizza i leghisti ma non fa nulla per aiutare gli italiani a sentire, a capire che gli immigrati sono esseri umani esattamente come loro. Se una maggioranza di persone comincia, per esempio, a pensare, come fece Jean-Paul Sartre, che “l’antisemita è l’uomo che vuole essere roccia spietata, un torrente furioso, fulmine devastatore: tutto fuorché un uomo” (“Réflexions sur la question juive”), non c’è limite a cosa sarà possibile fare a chi non pensa in modo conforme alla norma. E’ necessario ripeterci continuamente che chi non la pensa come noi ha pari dignità rispetto a noi, è un essere umano come noi, anche se la cosa ci dispiace. In conclusione, un film troppo compiaciuto dei suoi cliché per poter confessare il proprio razzismo. Un film manipolativo, diseducativo e squallido. Consigliatissimo per chi vuole capire la mentalità di certa sinistra.
RAZZISMO TRA ITALIANI DEL NORD E DEL SUD.
Ritorno del razzismo tra italiani del nord e del sud.
D. In Italia è tornato il razzismo tra italiani del nord e del sud d'Italia? La domanda è stata inviata da un utente in data 20090731 nel canale sondaggi / politica. Le eventuali risposte sono scritte dagli utenti e sono da intendersi come semplici opinioni personali. Hanno risposto alla domanda 18 utenti sul sito di “In Brevis”.
R. Io personalmente mi sento italiano sono nato e sono sempre vissuto al nord, ovviamente ci sono differenze ma non per questo negative anzi il mondo è bello perchè è vario! In Italia abbiamo questa caratteristica ogni posto ha i suoi piatti tipici i suoi dialetti e le sue usanze e tutto ciò da colore a questa nazione, invece si ha la brutta abitudine di associare alle differenze una connotazione negativa che non comprendo. Ovvio la gente ha bisogno di trovare un nemico e spesso il nemico è incarnato dai tuoi vicini di casa che siano quelli del paese confinante, della città vicina o di una determinata zona geografica, una volta trovato il proprio capro espiatorio la gente sa chi è l'ipotetica causa di tutti i suoi mali. Non è dove nasci a fare la differenza sono le persone di idioti ce n'è tanti a nord sud est e ovest, quindi non è proprio questione di punti cardinali. Il problema rimarrà fino a che gli italiani non si danno una bella scaturita e smettono di pendere dalla bocca dei nostri politici. Un saluto a tutti voi.
R. La divisione porta solo guai. Cavolo, noi Italiani ne dovremmo sapere qualcosa..la Storia insegna. Gli stati nazionali (Francia, Spagna per esempio..) si sono formati prima e.. ci hanno dominato (meglio dire : sfruttato). Avremmo avuto pure noi i nostri guai..ma sarebbero stati SOLO nostri..non importati. Per veniamo all'oggi : ma non vi viene da pensare che siamo il SUD dell'Europa ? (un nome a caso: Germania). Crearsi un nemico (possibilmente il vicino di casa) e' una buona scusa per coprire i propri errori, le proprie paure, i propri fallimenti e le proprie frustrazioni. E qualcuno cavalca queste cose. Complimenti, la più vecchia tattica del mondo per acquisire e mantenere il potere. Nell'isola di Pasqua la divisione tra gli indigeni con le orecchie lunghe e quelli con le orecchie corte portò all'occupazione, qualche secolo dopo le lotte interne, di un'isola deserta da parte dei Bianchi che stavano colonizzando le Americhe.. E pensare che in questo mondo globalizzato sarebbe meglio che l'Europa stessa fosse unita e compatta... noi invece diamo luogo a dispute di..pollaio.
R. Spesso per voler dare connotazioni politicamente corrette alle proprie opinioni si finisce per dire cose non razziste che vengono percepite come razziste e viceversa. Bisogna emanciparsi da tali pregiudizi al contrario. Io da ragazzo ero un terzomondista e tutto ciò che era occidentale mi faceva rabbia e procurava disprezzo. Poi ho avuto l'opportunità per piacere e per dovere di girare il mondo. Ho visitato Sud America, Usa e Asia. Credetemi...la civiltà in Europa è decisamente superiore a qualsiasi nel mondo. Lo dico senza vergogna. Le razze non centrano. Ne il sistema economico capitalistico-consumistico, che ormai è diffuso in tutto il mondo con i suoi pro ed i suoi contro. Noi abbiamo la cultura greco-romana e cristiana, che ci ha regalato il retaggio di un umanesimo incomparabile. E per cristiano intendo i valori morali ormai secolarizzati non quelli strettamente religiosi. Io prima di tutto mi sento europeo, poi italiano, poi meridionale ed infine orgogliosamente napoletano. Il mio patriottismo è come una matrioska...un sentimento non esclude l'altro. I settentrionali e i meridionali sono diversi punto e basta. Cultura, folklore religioso, lingua parlata(soprattutto al sud), abitudini ...e nei piccoli centri lontano dalle grandi città, dove vi è stata mescolanza come Milano, c'è anche un po' di differenza etnica. La maggior parte dei veneti sono diversi dalla maggior parte dei calabresi ecc...il punto è...e con questo? Che c'è di male? Mika stiamo parlando delle differenze tra inglesi e Sudanesi? Cosa ci ha insegnato la gloria dell'impero romano? siamo diversi ma siamo una nazione! una grande nazione che a prescindere dalle differenze ha un retaggio comune...siamo interdipendenti. Ci siamo assassinati ferocemente dal 1860 al 1867 in una guerra civile che la storia ufficiale tende a tacere...siamo morti assieme contro il nemico a porta pia, durante la seconda guerra mondiale e durante la resistenza. Negl'edifici costruiti nel dopoguerra e nelle imprese del nord c'è il sangue dei lavoratori meridionali, ma è anche vero che nelle tasche di amministratori corrotti e mafiosi del sud c'è il sangue dei poveri contribuenti settentrionali. ITALIA RIALZATI! il popolo italiano d'oggi paga gli errori dei nostri padri fondatori che hanno costruito l'Italia con il sangue. Documentatevi con onestà e scoprirete che il potere della mafia è il frutto di una politica meschina della prima monarchia italiana sabauda, e oggi come oggi della schifosa gestione politica della prima repubblica...Noi lavoratori del sud e del nord che centriamo? il nuovo razzismo è solo una valvola di sfogo per chi non capisce. Facciamo la Repubblica federale, abbandoniamo destra e sinistra, che ormai è poco più che un teatrino, e votiamo per chi davvero vuole cambiare il paese, ma sopratutto dichiariamo davvero guerra alla mafia...intendo con fucili e bombe....non con i magistrati. Riformiamo la costituzione in modo da poter definire il mafioso come nemico dello stato comparabile ad un invasore straniero...degno di esse sparato a vista. La Mafia è la chiave di tutto...il meridione non decollerà mai con essa e l'Italia non sarà mai una nazione completa. Se ci dividessimo in due stati la mafia diverrebbe ancora più potente al sud...ma dove pensate che andrebbe ad investire in nuove imprese e lavori pubblici, a vendere droga ecc. se il sud è sottosviluppato? a chi chiederanno il pizzo se quei soldi non ci sono al sud? Andrebbe al nord, con l'approvazione della classe politica corrotta. Sta già avvenendo tutto ciò...Casalesi e 'ndrangheta stanno conquistando Emila e Lombardia...investono dai 100 ai 140 milioni di euro all'anno...più di una finanziaria. gli arresti e la lotta alla mafia che vedete in tv sono solo fumo negl'occhi...è in corso un cambio di potere generazionale e niente di più... O vinciamo insieme o diventiamo due piccole e depravate nazioni. Torniamo Europei e diventiamo davvero italiani. Speramm'.
R. Sono una pugliese sposata con un lombardo. Una volta mi ha detto che gli extracomunitari hanno reso u n grande servigio a noi meridionali catalizzando l'attenzione dei settentrionali. Ora che per essere politically correct proteggiamo gli stranieri, i terroni del nord sono tornati a prendersela con i terroni del sud.
R. E' una vergogna. Gli italiani sono un unico popolo. Ritornato?? Non è mai andato via.
R. No, non ci sono differenze tra nord e sud. Siamo tutti italiani. Dovremmo semmai sentirci tutti quanti come i terroni di Europa e migliorarci. Come popolo siamo molto arretrati rispetto al resto dell'Europa e l'ignoranza non ha latitudine o regione in Italia. E' egualmente distribuita. Altro che razzismo interno tra italiani... A difendere il Piave c'erano tutti. Ci vorrebbe un po' più di sano amore per la nazione e meno localismo, che spesso e volentieri si trasforma in razzismo verso gli altri italiani.
R. Sicuri che esiste solo il razzismo di quelli del Nord nei confronti del Sud e non anche il viceversa ??? Tra italiani del Nord e del Sud ci sono sicuramente differenze ... questo potrebbe portarci grandi vantaggi come italiani ... invece stiamo assimilando quello che c'è di peggio nei due gruppi: ( ... il Sud dovrebbe smettere di piangersi addosso cercare giustificazioni dei suoi mali nello stato Sabaudo e sfruttamenti vari pre seconda guerra mondiale ecc..ecc e impegnarsi a risolvere i suoi mali con le proprie forze ... il Nord dovrebbe chiedersi quanti anni mancano per diventare come è adesso il Sud se continua con questo atteggiamento ( io vedo gente che parla tanto di "atteggiamento da meridionali" con disprezzo ... ma si comporta molto molto molto peggio!).
R. il razzismo nasce dal sentire l'altro differente, ma ditemi che differenza abbiamo: parliamo tutti la stessa lingua, abbiamo tutti una stessa costituzione e uno stesso governo. le nostre tradizioni locali non le dobbiamo considerare come elementi di differenza ma come elementi di unicità, ci rendono uno complementari dell'altro. il vero italiano non vive nè al nord nè al sud ma è colui che porta dentro di se la consapevolezza della storie, delle culture di ogni regione. Quello che ci deve far riflettere è che ormai è diventato consuetudine che un meridionale per cercare un lavoro deve emigrare... bhe io non ci sto, non è giusto: siamo un'unica nazione e tutti noi dobbiamo nascere con le stesse possibilità per il futuro. preferisco emigrare in un altro paese piuttosto che spostarmi nella mia stessa nazione di alcuni gradi di latitudine!!!
R. In Veneto è davvero esasperato il razzismo....eppure siamo molto simili e non se ne rendono conto.... Se io provengo da una famiglia di contadini anche loro qui nel veneto sono contadini e agricoltori...Saranno meno arretrati come organizzazione lavorativa ma come mentalità a me sembrano molto chiusi!!! Credo che la profonda divisione sia stata causata dalla politica. Il nord + vicino all'Europa faceva comodo arricchirlo ma faceva ancora + comodo tenere in servitù il sud vero Astianatte? (tu che dici che siamo permalosi). Purtroppo devo dirti una tremenda verità che ho visto che la + grande metropoli economica dell'Europa come Milano è praticamente Meridionale!!! E' proprio vero l'ignoranza crea la violenza e la paura crea diffidenza.
R. A difendere il Piave? 90 anni fa..non è un pò troppo in là? siamo diversi. Se al sud sono permalosi che vadano da soli. Astianatte.
R. Ma quali differenze tra italiani del nord e del sud. Anche voi del nord siete figli di meridionali, rassegnatevi. A no... forse una differenza c'è... al nord c'è più razzismo. La cosa più stupida è che si tratta di un razzismo allo specchio. Ma guardatevi in faccia. Siete forse diversi da un siciliano. Molto probabilmente oggi il siciliano è più biondo di voi. Rassegnatevi... siamo tutti italiani.
R. Negare le profonde differenze tra nord e sud significa negare i fatti, negare l'evidenza, cioè essere ipocriti.
R. secondo me sono tutte cavolate.. io non credo nella diversità tra nord e sud, da come se ne parla sembra che, quelli del nord o del sud, siano dei totali estranei, ma non credo sia così, insomma che importanza ha se sei del sud o del nord, sei comunque italiano. Io ho parecchi amici del sud, e lo sono venuto a sapere dai miei genitori, neanche si notava la differenza, sono come noi, ci sarà sempre e ovunque quello + antipatico, o maleducato o + abbronzato di noi, ma non importa, ognuno è quello che è. Prima di offendere quelli del nord o del sud, bisognerebbe conoscerli in prima persona, non offenderli solo per ciò che si sente nei TG.
R. Salve a tutti, io sono come tanti emigrato dal sud al nord,quello che posso dire con mio grande rammarico è che l'Italia NON è una ed una sola, finchè non impareremo a convivere fra di noi italiani ci sarà sempre odio rivalità e razzismo,e soprattutto ci faremo ridere dietro da altre nazioni che non sono certo meglio di noi. Un saluto a tutti e viva L'ITALIA. Valeriano.
R. Io personalmente mi sento italiano sono nato e sono sempre vissuto al nord, ovviamente ci sono differenze ma non per questo negative anzi il mondo è bello perchè è vario! In Italia abbiamo questa caratteristica ogni posto ha i suoi piatti tipici i suoi dialetti e le sue usanze e tutto ciò da colore a questa nazione, invece si ha la brutta abitudine di associare alle differenze una connotazione negativa che non comprendo. Ovvio la gente ha bisogno di trovare un nemico e spesso il nemico è incarnato dai tuoi vicini di casa che siano quelli del paese confinante, della città vicina o di una determinata zona geografica, una volta trovato il proprio capro espiatorio la gente sa chi è l'ipotetica causa di tutti i suoi mali. Non è dove nasci a fare la differenza sono le persone di idioti ce n'è tanti a nord sud est e ovest, quindi non è proprio questione di punti cardinali. Il problema rimarrà fino a che gli italiani non si danno una bella scaturita e smettono di pendere dalla bocca dei nostri politici. Un saluto a tutti voi.
R. Salve a tutti voi,volevo solo dire che alle soglie del terzo millennio si parla ancora di nord, sud e isole come se fossero mondi diversi. Qualcuno disse l'Italia è una e una sola non dimentichiamolo ,ma soprattutto non facciamoci ridere dietro da nazioni che sono davvero rovinate. VIVA L'ITALIA e tutti gli ITALIANI.
LEGA PERMALOSA
I padani, quelli della Lega, che fanno dell’ignoranza e della menzogna, della diffamazione e dell’ingiuria, del dileggiamento, del discredito e del razzismo il loro stile di vita e progetto politico. I padani, sostenuti da un sistema mediatico-giornalistico spergiuro, impegnato quotidianamente a denunciare i vizi meridionali e sottacendone le virtù, omettendone la promozione di un territorio di nobili ed antiche origini, certamente non barbariche. I padani, quelli che hanno voce solo perchè agevolati dall’ignavia dei meridionali. I padani, quelli della Lega, che anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna, si sentono offesi e minacciano querele.
«I barbari sognanti di Maroni - ha attaccato Vendola - a colpi di abracadabra e di slogan suggestivi cercano di far dimenticare, caro Maroni, che la ndrangheta è entrata stabilmente nel nord, in Padania e in Lombardia anche grazie alle distrazioni e a qualche loffia confidenza che il vertice della Lega Nord ha avuto anche con ambienti più appropriatamente militanti nel partito della malavita». «Vendola mi sta anche simpatico - ha replicato Roberto Maroni da Twitter -, ma risponderà in tribunale delle cazzate che continua a sparare sulla Lega».
Maroni minaccia di querela Roberto Saviano. Non si placano le polemiche seguite al monologo dello scrittore durante la seconda puntata di Vieni Via con me, il quale aveva affermato:“La ‘ndrangheta al Nord interloquisce con la Lega”. In mattinata il ministro dell’Interno aveva chiesto alla Rai il diritto di replica diretta: voleva intervenire come ospite in una delle prossime puntate. Ma lo staff del programma non era d’accordo: al massimo avrebbe concesso la lettura di una lettera con la replica di Maroni o di mandare in onda un video, ma niente faccia a faccia. A questo punto Maroni non demorde e si rivolge al Cda, di cui si aspettano ancora le decisioni.
Il Pd scende in campo a fianco della propria deputata Laura Garavini, capogruppo democratica nella Commissione Antimafia, verso la quale il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha minacciato una querela. Oggetto della controversia sono le dichiarazioni sulla poca trasparenza delle liste elettorali e sull'infiltrazione della ndrangheta in Lombardia. La questione è stata affrontata in una conferenza stampa alla Camera da Emanuele Fiano e Andrea Orlando, responsabili sicurezza e giustizia del Pd e da Marco Meloni della segreteria nazionale del partito.
"La notizia riportata oggi da alcune agenzie di stampa e da alcuni siti web, ovvero che io e Bossi avremmo chiesto l'immunità per contrastare l'azione investigativa della Guardia di Finanza avvenuta ieri presso la sede della Lega di via Bellerio, è totalmente falsa e priva di ogni fondamento". Così il segretario del Carroccio, Roberto Maroni, interviene nuovamente sull'inchiesta milanese sulle quote latte. "Invito i tutti mezzi di informazione di dare conto di questa mia categorica smentita. Ho inoltre dato mandato al mio avvocato di perseguire legalmente chi ha diffuso questa notizia falsa e tutti coloro che non dovessero dare conto della falsità della notizia stessa", aggiunge. "I giornali mascalzoni che ci hanno riempito di fango saranno chiamati a rispondere civilmente del danno fatto alla Lega onesta. Chiederò 10 milioni di euro, da dare in beneficenza". Lo ha annunciato il segretario della Lega, Roberto Maroni, a Porta a porta, parlando dell'inchiesta sulle quote latte, commentando le precisazioni del procuratore aggiunto di Milano che ha spiegato che nessun politico del Carroccio risulta indagato.
L’inchiesta della Procura di Roma sulla gestione dei fondi del Senato e su presunti benefit ai big del Carroccio, ad opera dell’ex responsabile di tesoreria Piergiorgio Stiffoni e della sua segretaria Manuela Privitera, provoca cicloni nel Carroccio. L’ultimo capitolo è la querela che Maroni ha sporto contro il trevigiano Stiffoni, oggi al gruppo Misto dopo l’espulsione dalla Lega, per le dichiarazioni apparse su il fatto quotidiano. Il quotidiano di Antonio Padellaro citava i verbali della deposizione di Stiffoni al pm Felici, in cui il parlamentare trevigiano avrebbe spiegato al magistrato come il suo operato fosse in linea con le direttive del partito, e in particolare del capogruppo alla Camera nel 2006, che allora era Maroni. Il titolo del quotidiano è stato: «I conti paralleli? era il metodo Maroni». Il numero uno del Carroccio, ha spiegato che «chiederà a Stiffoni un congruo risarcimento, da devolvere in beneficenza».
Gli avvocati della Lega Nord si sono presentati in serata in Procura a Milano per presentare querela per calunnia nei confronti di Lorenzo Borgogni, l'ex direttore centrale delle relazione esterne di Finmeccanica, per aver accostato il nome del Carroccio a vicende di tangenti. Oltre a Borgogni, i legali hanno presentato querela per diffamazione nei confronti di Francesco Belsito per le affermazioni sul presunto dossier commissionato su Roberto Maroni.
Il segretario federale della Lega Nord, Roberto Maroni, è stato questa mattina alla Procura di Busto Arsizio (Varese) dai pm che indagano sulle presunte tangenti Finmeccanica per depositare nuovamente la querela per calunnia nei confronti di Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle relazioni istituzionali della società: lo si è appreso da fonti di via Bellerio. Maroni ha dunque ripresentato la querela già formalizzata alla Procura di Napoli, dalla quale però nel frattempo il filone d’inchiesta è stato spostato a Busto. Il leader del Carroccio, sempre secondo quanto si è appreso, ha ribadito ai magistrati la disponibilità del Movimento a collaborare qualora fosse necessario.
È scontro aperto. Dopo le dichiarazioni del pm dei minori di Milano Annamaria Fiorillo, che ha contestato la ricostruzione di Roberto Maroni a proposito del "caso Ruby", il ministro dell'Interno avrebbe dato mandato ai suoi legali di procedere nei confronti del magistrato. Secondo il titolare del Viminale, le affermazioni della Fiorillo sarebbero «diffamatorie».
Roberto Maroni ha deciso di querelare l'Unita' per diffamazione. Il ministro del Lavoro, infatti, ha dato incarico ai suoi legali di presentare denuncia nei confronti del direttore del quotidiano Furio Colombo e della giornalista Maristella Iervasi, che firma l'articolo pubblicato oggi con il titolo ''Maroni blocca le adozioni internazionali''. ''L'articolo - si legge in una nota diffusa dal ministero- contiene falsità e diffamazioni nei confronti del ministro. In particolare, sono false le frasi secondo cui le adozioni internazionali sarebbero sospese "non per cattiva volontà da parte della Commissione competente. Ma per mancanza di cura da parte del ministro del welfare Maroni. Che invece di risolvere i problemi, ha di fatto legato le mani alla commissione..". ''Dall'articolo - prosegue ancora la nota - si evince poi che sarebbe stato il ministro Maroni a smantellare la commissione e che l'autoproclamata sospensione della stessa sarebbe stata da lui causata. Tutto ciò è profondamente falso''.
Scintille tra Famiglia Cristiana e Maroni. Il settimanale torna all'attacco del ministro dell'Interno e bolla come "leggi razziali" l'intenzione di introdurre nel disegno di legge sulla sicurezza, la possibilità concessa ai medici di denunciare i clandestini malati, e l'opportunità per i cittadini di organizzarsi in ronde di quartiere. Parole già comparse sul settimanale dei paolini dopo la scelta di prendere le impronte ai bambini rom, ma questa volta il ministro dell'Interno ha replicato con una denuncia: "Contro un'aggressione premeditata da parte di chi usa consapevolmente la violenza di affermazioni false per combattere chi ha opinioni diverse dalle proprie - scrive Roberto Maroni - ho dato mandato di agire in sede civile e penale". Dure le parole usate da Famiglia Cristiana per giudicare la politica del governo sull'immigrazione. "Il soffio ringhioso di una politica miope e xenofoba, che spira nelle osterie padane, è stato sdoganato", è scritto nell'editoriale. "La cattiveria invocata dal ministro Maroni è diventata politica del governo". Il riferimento è all'intervento che il ministro dell'Interno fece pochi giorni fa quando ad Avellino, rispondendo all'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu che accusava la Lega "di fare discorsi da osteria padana", annunciò che "per contrastare l'immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi".
Maroni querela l'Espresso. Il Ministro ha dato mandato per procedere contro il settimanale per le "affermazioni e allusioni" contenuto nel numero in edicola. "Mai violata la legge sul finanziamento dei partiti".
Ecc. Ecc. Ecc.
'Così la Lega vuole farmi tacere'. Da anni il blogger Daniele Sensi registra le frasi razziste degli esponenti del Carroccio su Radio Padania e in Rete. Un lavoro prezioso e scomodo. Ora cercano di intimidirlo portandolo in tribunale. Come ci racconta lui stesso su “L’Espresso”.
«Ascolto Radio Padania dall'estate del 2007 e faccio blogging dall'inverno successivo.
Su quella radio, il 9 aprile del 2008 ho sentito l'eurodeputato della Lega Nord Matteo Salvini dire che «i topi sono più facili da debellare degli zingari»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
L'8 giugno del 2008 ho sentito i Giovani padani di Monza e Brianza ridere dei marocchini, «marroni come la cacca»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 16 giugno del 2008 ho sentito un assessore leghista alla Sicurezza dire che «se i rom sono finiti nei lager nazisti, se nel corso della storia non si sono fatti molto amare, qualche errore lo avranno commesso»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Ho sentito un ascoltatore dire a quello stesso assessore che «i rom sono parassiti come le pulci sui cani» e ho sentito l'assessore ribattere che «se questo pregiudizio è radicato nei secoli, un motivo ci sarà: la diceria degli zingari che rubano i bambini non è una leggenda metropolitana» («no, non li rubano: li prendono in prestito, in affido», ho sentito fargli eco Salvini): lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Nell'agosto del 2008 ho sentito un capogruppo leghista in consiglio comunale rivolgere un appello ai «soldati del nord»affinché boicottassero tutte le attività commerciali gestite da cittadini immigrati: lo scrissi sul blog, allegando registrazione audio.
Il 21 aprile del 2009 ho sentito un portavoce di 'Padani nel mondo', associazione di coordinamento della Lega Nord sulle circoscrizione estere, opporsi alla conferenza Durban II sul razzismo perché «il razzismo viene sempre dipinto come una forma estremamente negativa, mentre è la xenofobia ad essere negativa: il razzismo identifica delle diversità di fatto»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 29 aprile del 2009 ho sentito un deputato leghista, presidente di provincia, annunciare l'intenzione di separare, nei pronto soccorso, i cittadini immigrati da quelli italiani, predisponendo«un canale preferenziale per i nostri anziani: dove la Lega ha il governo del territorio, spingeremo i direttori degli ospedali a creare tali canali per la nostra gente»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 6 ottobre del 2009 ho sentito un assessore leghista al Turismo e all'Identità dolersi di come «molti zingari, poiché di cittadinanza italiana, se non commettono reati non puoi cacciarli»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Nell'ottobre del 2009 ho sentito una conduttrice di Radio Padania interloquire amabilmente con un'ascoltatrice che ingiuriava le persone transgender («immondi cessi umani, aborti della natura, stranieri che sono qui a portare malattie») invocando le«espulsioni di massa, come in Germania»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Nel 2010, tramite interrogazione parlamentare, un deputato leghista chiedeva che l'edizione integrale del 'Diario di Anna Frank' non venisse fatta leggere nelle scuole elementari, poiché«il testo contiene un passo nel quale Anna Frank descrive in modo minuzioso e approfondito le proprie parti intime». Il 26 gennaio di quell'anno, alla vigilia del Giorno della Memoria, ho sentito il responsabile della rubrica culturale di Radio Padania difendere lo spirito di quell'interrogazione, producendosi in un'invettiva contro coloro «che hanno fatto di Anna Frank una santa, tanto da averle dedicato una giornata, il 27 gennaio, e che ne difenderebbero il Diario anche se vi fossero colate quattro pagine di sterco»: «Crepate, voi che ci date dei moralisti e dei bacchettoni, crepate assieme a Satana». Lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 26 febbraio del 2010 ho sentito uno speaker di Radio Padania, consigliere di zona nel milanese, lamentarsi di come i rom,«informati esageratamente da sindacati e associazioni cattoliche», purtroppo conoscano i propri diritti, «e se ad esempio vai a sgomberarli su un campo privato, loro sanno che senza la richiesta del proprietario del terreno non si può procedere con lo sgombero»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 12 agosto del 2010 ho sentito un conduttore di quella radio spiegare la differenza «tra fascismo nel senso negativo e deleterio del termine, e fascismo nel senso positivo, perché c'è, esiste, un senso bello del termine fascista»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 7 settembre del 2011 ho sentito un deputato della Lega Nord affermare che, «poiché codardi, o venduti, o semplicemente faciloni», i magistrati di origini meridionali favoriscono la mafia e ho sentito quello stesso deputato aggiungere che «la Corte Costituzionale è tutta fatta, guarda caso, di ragazzi del sud che, guarda caso, vengono da regioni mafiose»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 7 giugno del 2012 ho sentito i Giovani padani di Verona dire che «non è nella natura dei napoletani lavorare otto ore al giorno»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 2 agosto del 2012 ho sentito un conduttore di Radio Padania distinguere tra «terroni nel senso dispregiativo del termine, ossia quelli che fanno niente tutto il giorno e si sono presi la pensione senza meritarla», e 'terroni buoni', «quelli che sparano per aria quando vedono i rom vicino a casa»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Il 28 settembre del 2012 ho sentito i Giovani padani del Veneto dire che nel meridione d'Italia «devono ancora capire a cosa servono le saponette e la carta igienica»: lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Mentre su Twitter, per email e tramite messaggi privati in tanti, troppi, fraintendendo il senso del mio lavoro mi chiedevano il perché di tanto «mio odio per gli stranieri, per i meridionali e per gli omosessuali» (un misunderstanding che ha portato alla soppressione da parte dei vertici di Youtube di un intero canale che ospitava parte del mio archivio audio), a un paio d'anni dall'apertura del mio blog (le cui attività si sono nel frattempo trasferite sul sito dell'Espresso), allargavo il monitoraggio ai social media.
Nel dicembre del 2011, scovai su Facebook una pagina riservata i cui animatori proponevano «un colpo in testa» per «quel vecchio di merda e terrone del cazzo di Napolitano»; «stufe a legna, in modo da farne carburante alternativo» per i rom; «la caccia con pallettoni da cinghiale per gli immigrati sani» e «fiamma ossidrica per quelli malati di Tbc». Pur non prendendo parte alle discussioni, al gruppo erano iscritti deputati, senatori, presidenti di gruppi parlamentari, vicepresidenti di Regione, assessori, sindaci, segretari comunali e provinciali della Lega Nord.
Il 27 marzo del 2012, sempre su Facebook, in una discussione che inneggiava ad Auschwitz e Mauthausen ho pizzicato una vicecoordinatrice leghista alla Commissione sanità, interventi sociali e politiche giovanili auspicare il «napalm» per i rom; il 21 settembre del 2012, all'indomani del rogo in un capannone monzese gestito da cinesi, catturai il rammarico di un segretario di sezione della Lega, dispiaciuto che nell'incendio non fosse morto «nemmeno un cinese»; il 30 ottobre del 2012, ho sorpreso un consigliere provinciale del Carroccio tifare affinché l'Etna, il Vesuvio e il Marsili eruttassero sommergendo il Sud Italia.
Nel frattempo, un giornalista di Radio Padania per il quale «i Protocolli dei savi di Sion, per quanto smentiti e smascherati, sono comunque pieni di spunti interessanti», s'è inventato 'Mai più senza società multiculturale', una rassegna stampa, quotidiana, di crimini compiuti da cittadini stranieri nel nord Italia, una rubrica dove gli spacciatori arrestati sono«naturalmente maghrebini» e i ladri «ovviamente zingari».
Ebbene, giovedì scorso ho ricevuto un avviso di garanzia. Sono stato denunciato da TelePadania per «diffamazione aggravata» a mezzo internet. I fatti risalgono al maggio del 2010: recatasi per un sopralluogo in un campo nomadi, una troupe di TelePadania era stata raggiunta da una sassaiola. L'allora direttore dell'emittente, Roberto Fiorentini, in collegamento telefonico con Radio Padania aveva commentato l'accaduto attribuendone la responsabilità a Gad Lerner, colpevole di «aver aizzato, in maniera anche violenta, alcune comunità rom contro la Lega, e questi sono i risultati». Come sempre, lo scrissi sul blog, allegando la registrazione audio.
Sul blog scrissi anche degli sms degli ascoltatori letti dal giornalista di Radio Padania prima del collegamento con Fiorentini:«Dire che gli zingari sono sporconi e molte volte delinquenti è come dire che l'acqua bagna», accennando inoltre alla campagna d'odio contro i rom da tempo portata avanti su quelle frequenze. Apprendo ora che il querelante (Roberto Fiorentini), letto «con vivo stupore» il mio post, sostiene di «non aver mai proferito queste espressioni». Assistito dagli avvocati Andrea Mecca, del foro di Milano, e Guido Scorza, del foro di Roma, la mia linea difensiva sarà piuttosto semplice: quel rettangolo in javascript di 460 per 255 pixel, situato tra il titolo e il testo del post, non è né un pessimo orpello decorativo, né un banner pubblicitario da schivare onde evitare immeritati guadagni al webmaster, ma una registrazione audio: è sufficiente cliccarvi sopra per sentire Fiorentini attribuire a Gad Lerner la responsabilità di «aver aizzato, in maniera anche violenta, alcune comunità rom contro la Lega». Intanto, io rischio un processo.»
Eccola qui, la vera Lega, scrive Daniele Sensi su “L’Espresso”. I figli degli immigrati? «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Il piano svuota carceri? «Lo facciamo noi con un mitragliatore dal balcone». Napolitano? «Un terrone del cazzo, gli ci vorrebbe un colpo in testa». E' il gruppo su Facebook 'Padani si nasce', a cui aderiscono anche i parlamentari Reguzzoni, Rondini, Fugatti, Mura, Pittoni e Stiffoni. Eros Domenico è un militante leghista. Il suo profilo Facebook è una profusione di foto di cene e di manifestazioni del Carroccio. Maglietta col Sole delle Alpi addosso, ama ritrarsi al fianco di Matteo Salvini o ai piedi di una qualche statua dell'Alberto da Giussano. Ha un'opinione su tutto: sul piano "svuota carceri" («mi trasformo in cecchino con un bel mitragliatore sul balcone e via con lo show»); sulle origini meridionali di Giorgio Napolitano («Napoli merda, Napoli colera») e sui due cittadini senegalesi uccisi martedì scorso a Firenze: «Meglio così, due in meno da mantenere». Sempre su Facebook, ha fondato "Padani si nasce, cuore leghista", gruppo - chiuso e riservato - dell'orgoglio padano. Ne fa parte anche Giovanna, bresciana, «casalinga, moglie e mamma», immagini di Topolino, Bambi e Winnie The Pooh sul proprio profilo pubblico. Sulla cittadinanza ai figli degli immigrati ha le idee chiare: «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde».Quanto ai loro genitori invece si chiede: «Perché, quando aprono la porta, c'è una puzza strana che fa schifo?». Opinione condivisa da Remo, un odontotecnico di Mantova: «Sapessi che odoraccio quando vengono da me, sono peggio della capre»,mentre Anna Paola prova a rispondere: «Puzzano perché non si lavano dopo che fanno l'amore, per non parlare della loro puzza naturale, che è nauseabonda. Tempo fa ho sentito dire in televisione che il loro sesso ha un odore disgustoso, indelebile, che non va via neanche se lo lavi con un sapone speciale». Appartiene al gruppo anche "Maestra Marzia", insegnante di una scuola elementare che sul web amministra un blog di filastrocche, ninne nanne, esercizi di scrittura ed altro materiale didattico«utile agli alunni in caso di assenze prolungate per malattia». Una maestra modello, che sulla propria bacheca condivide foto di«pasticcetti in cucina» e di Topo Gigio, ma che nel gruppo "Padani si nasce", da quando il presidente Napolitano ha definito «una follia» negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati, non si dà pace: «Non si trovano 3000 miseri euro per un ingranditore utile ad un mio alunno ipovedente, mentre si pagano almeno tre volte tanto i facilitatori linguistici per gli alunni cinesi che si rifiutano di ripetere anche la più semplice parolina di italiano. Cosa mai potranno invece dare i cinesi che sia di utilità comune?». Con soluzioni agli sbarchi di "clandestini" che vanno dal«napalm» a «una bella bomba, così saltano in aria», "Padani si nasce" è qualcosa di più di un semplice gruppo leghista di area. O almeno è il solo che possa vantare tra i propri membri tanti nomi eccellenti. Tra gli altri: il presidente del gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera Marco Reguzzoni; i deputati Marco Rondini e Maurizio Fugatti; i senatori Roberto Mura, Mario Pittoni, Piergiorgio Stiffoni e Michelino Davico; gli assessori della Regione Lombardia Daniele Belotti e Monica Rizzi; l'assessore alle politiche agricole della Regione Veneto Franco Manzato; il vicepresidente della Regione Lombardia Andrea Gibelli; l'europarlamentare Claudio Morganti; il segretario provinciale della Lega Nord di Milano Igor Iezzi, più una sfilza di sindaci e amministratori locali. Tutti iscritti ad un gruppo che per mettere a tacere quel«vecchio di merda» e «terrone del cazzo» di Napolitano propone«un colpo in testa» e, per ritorsione, «un attentato alle Coop». Un gruppo esplicitamente razzista («mischiare le razze non ha mai portato bene») e omofobo («dovremmo equiparare i gay ai pedofili così Vendola la finisce di fare il ricchioncello per strada») che, a fronte dei reati commessi da cittadini stranieri, vorrebbe «dare una ripulita», «aprendo la caccia con i pallettoni per cinghiali, almeno li traforiamo per bene». Con un trattamento di riguardo per gli immigrati malati di TBC («con loro usiamo la fiamma ossidrica, così non ne rimane nemmeno una cellula»), e per i rom: «Mettiamoli nelle stufe a legna, in modo da farne carburante alternativo». Perchè «i rom», spiega Luca, bresciano, amorevoli foto dei suoi bambini in bacheca, «ladri, stupratori e assassini nascono, ladri, stupratori e assassini moriranno: personalmente adotterei per loro le stesse politiche usate dal Führer». «Anziché stanziare fondi per l'integrazione dei rom, L'Unione Europa dovrebbe finanziare l'apertura dei forni», rilancia Alessandro, consulente aziendale nel comasco. Mentre Giovanna, quella appassionata di Topolino, Bambi e Winni The Pooh - euforica applaude: «Evvai! Che bello vederli bruciare!».
La beffa di Radio Padania, scrive Roberto Di Caro su “L’Espresso”.
Sulle sue frequenze si insultano, oltre ai gay e agli extracomunitari, anche i meridionali. Eppure l'emittente ora cerca di diffondersi nel sud, per una questione di finanziamenti pubblici. Già: i deliri della Lega costano al contribuente un milione di euro l'anno. Lo sbarco in Salento è rinviato a data da destinarsi, Radio Padania Libera dovrà cercarsi un'altra frequenza. Trasmettere su quella che l'emittente del Carroccio aveva occupato il 17 dicembre dagli impianti di Alessano nel leccese, ha infatti verificato il Ministero dello Sviluppo economico, interferisce con Radio Nice (all'inglese), fifty-fifty musica italiana e internazionale, una delle cinque, più due tv ancora in analogico e altre tre sul digitale terrestre, dell'editore salentino Paolo Pagliaro. Per un beffardo contrappasso, l'incursione al Sud ha fruttato ai leghisti l'accusa di essere dei garibaldini in camicia verde: "150 anni fa occuparono la nostra terra, con fucilazioni, stupri, saccheggi di banche e opere d'arte. Oggi, con la stessa logica da conquistatori, vengono a scipparci pure le frequenze?", attacca Pagliaro, editore sì, ma anche capofila della battaglia per la secessione del Salento dalla Puglia e alfiere del federalismo fiscale: che per protesta contro l'invasione padana dell'etere e "la colata di insulti a meridionali, extracomunitari, rom e omosessuali", manda in onda due volte al dì l'inno di Mameli. Ma a Radio Padania chi gliel'ha fatto fare di andare a rompere le scatole in una zona in cui la Lega non presenta liste e difficilmente racimolerebbe voti? "Si sbaglia: abbiamo ricevuto di lì varie telefonate di gente d'accordo con noi, e nel leccese c'è un gruppo di imprenditori molto disponibili verso la Lega: se non escono allo scoperto è perché quella, capirà, non è una terra facile", risponde Cesare Bossetti, amministratore unico di Radio Padania. Non sarebbe neppure il primo avamposto al Sud. "A Palermo arriviamo in tutta la città: ci sono voluti due anni per ricevere la prima telefonata in diretta, ma ora succede quasi ogni giorno. Ci ascoltano a Lampedusa, dove vicesindaco era la leghista Angela Maraventano, ora senatrice. E copriamo l'intera Sardegna, dove alle ultime elezioni abbiamo avuto il 2 e rotti per cento. Certo, è tutta questione di costo delle frequenze...". Bossetti è Radio Padania. Vent'anni fa, il 17 settembre, gli telefona Bobo Maroni: "Abbiamo comprato una radio, dobbiamo farla funzionare in fretta", gli dice: "Chiedi a un installatore, io ho un'officina meccanica, e neanche l'autoradio", gli risponde il Cesare. "Non hai capito, è Radio Varese. Hai tre giorni e tre notti per preparare la documentazione da portare al ministero". Bossetti trova nella legge il modo di accedere alle agevolazioni come radio "comunitaria nazionale", qual era allora solo Radio Maria. La Lega cambia sede, e anche Radio Padania Libera si sposta in via Bellerio, all'inizio quattro angusti locali nel seminterrato, ora un paio in più, ai muri gli storici manifesti del Carroccio come quello "tornare padroni in casa nostra", con cinese, albanese, nero e islamico che scansano via l'anziano pensionato padano. Ci lavorano fissi in dieci, in quei locali: 4 giornalisti, 3 tecnici, 3 registi, e Bossetti ora alle prese col sistema Mux di veicolazione del segnale sul digitale in accordo con Rtl e "in attesa di offerte" per il digitale tv. Più una cinquantina di collaboratori: gratis, di varie associazioni padane, perché "facciamo pochissima pubblicità. Il costo di un milione e mezzo di euro l'anno è coperto per un milione dal finanziamento statale, il resto metà da spot e metà da sovvenzioni degli ascoltatori", spiega mostrando pacchi di bollettini postali dai 20 euro in su, 3 mila l'anno, più 1.500 paypal via Internet. Per produrre un flusso ininterrotto dalle 6 di mattina a mezzanotte e repliche notturne, 400 telefonate in diretta al giorno, rassegna stampa, "Onda libera" di Giulio Cainarca con l'ospite fino a mezzodì, i notiziari di Giuliana Bortolozzo (moglie di Bossetti, ma non è nepotismo, galeotta fu la radio), l'attualità di Roberto Ortelli, che finì sul "Times" perché ai Mondiali tifava Paraguay contro l'Italia: e sei ore di musica, ma solo come amalgama tra un parlare e l'altro. Audiradio dà una fidelizzazione, cioè il rimanere sintonizzati almeno due ore di fila, seconda solo a RadioUno, e 100 mila ascoltatori in dieci province, altrettanti stimati nelle altre 35 dove arriva. Ma a Milano è coperto solo il centro: "Dove vuole che li troviamo 3 milioni di euro per comprare un'altra frequenza libera?". Con sei-sette ore al giorno di microfoni aperti è naturale esca di tutto, dai meridionali imbroglioni dei call center agli extraterrestri di Mario Borghezio alla Padania sognata come un villaggio dei Puffi: il blogger Daniele Sensi si è preso la briga di registrare e schedare le perle. "Il gioco vale la candela: abbiamo scelto di essere aperti, in diretta, senza filtri, salvo l'input ai conduttori di tagliare al primo insulto o bestemmia", risponde Matteo Salvini, eurodeputato, consigliere al Comune di Milano, direttore dei programmi di Radio Padania, dove tiene un filo diretto un paio di volte la settimana: "Poi qualcosa scappa, anche a me, sa, dopo due ore che sei in onda...". Sfogo dei militanti e strumento di compattamento della base, la radio? "Guardi che l'altro giorno c'era da noi Travaglio, e son passati D'Alema, Di Pietro, Bertinotti, Vendola. Abbiamo fatto co-conduzioni in diretta con Radio Popolare e lo rifarei con altre radio senza filtri quali 24 e Radicale". Il diavolo e l'acqua santa. Ma, misteri dell'audience, esiste una fascia a cavallo tra Lega Nord e sinistra che ascolta indifferentemente le invettive padane e quelle da centro sociale. "Ben venga Salvini, gli daremo volentieri spazio", chiude il salentino Pagliaro di RadioRama-RadioNice. E così la guerra del Salento finì a tarallucci e vino.
Carabinieri e vigili urbani indagano sul traliccio da cui trasmetteva Radio Padania, scrive Mauro Ciardo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si è svolto ieri mattina un sopralluogo degli agenti del locale comando di polizia municipale, diretto da Anna Grazia Bello, dopo che il sindaco Osvaldo Stendardo ha ordinato di eseguire le dovute verifiche su un impianto in fase di ricostruzione sulla serra che sovrasta il paese. Sul caso stanno indagando anche i carabinieri della locale stazione diretta dal maresciallo Luigi Lolli e che sempre ieri, nel primo pomeriggio, si sono recati sul posto per accertare lo stato dei fatti. La torre da cui trasmettono due radio private e che fungono da ponte per altrettante compagnie telefoniche non è nuova alle cronache. È la stessa da cui poco più di due anni fa trasmetteva l’emittente radiofonica della Lega Nord, che dopo pochi giorni venne fatta tacere dal Ministero delle telecomunicazioni perché si era appropriata abusivamente di una frequenza già assegnata.
Radio Padania invade il Salento, scrive Antonio Tondo Su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Buongiorno Terronia, provincia della Padania. Dal 17 dicembre i salentini possono ascoltare le trasmissioni di Radio Padania Libera, l’emittente della Lega Nord. Ce l’ha fatta Bossi a far viaggiare via etere il suo messaggio fin nella profonda Puglia, al confine “De finibus terrae” di santa Maria di Leuca, limite un tempo della civiltà italica ed europea. L’aveva promesso l’amministratore unico Cesare Bossetti: «Far conoscere le idee della Lega sul federalismo - spiega - potrebbe portare dei benefici anche al Sud». Da Alessano, terra di antenne e ripetitori, la voce dei “lumbard” rimbalza ogni giorno sulla frequenza di 105,600Mhz: notiziari, canzoni tradizionali della Lombardia e del Veneto, dibattiti a microfono aperto per i radioascoltatori del Nord. I temi preferiti: gli extracomunitari e i meridionali. I primi brutti e sporchi, da tenere lontani oppure chiusi nelle fabbriche. I secondi rubano i posti di lavoro ai settentrionali nella scuola e in tutti gli enti pubblici. Lo slogan ricorrente: «Roma ladrona». Nulla di nuovo sotto il sole per chi conosce il vocabolario dei leghisti. Ma gli eventi non arrivano per caso. E sulla diffusione al Sud delle frequenze della radio leghista circolano diverse spiegazioni. Una, gettonata dagli stessi leghisti, è quella politica. I leghisti sentono il vento in poppa e sognano di far crescere il loro potere. A Roma alzano la voce e premono su Berlusconi: «Andiamo al voto». Più consensi nelle regioni settentrionali è tra le ipotesi possibili. Ma anche i pochi voti del Sud contribuiscono a far crescere le percentuali. Il compito principale di radio Padania è contribuire al successo elettorale della Lega. A questa motivazione se ne aggiunge un’altra. Perché la scelta del Salento e della Puglia? In primo luogo i leghisti riscaldano il cuore dei radioascoltatori con il messaggio federalista, presentato come una sorta di paradiso terrestre nel quale tutti, al Nord e al Sud, vivranno nel migliore dei mondi possibili. Ciascuno comanda a casa propria, è sempre una bella frase, in qualsiasi punto della Terra. Ma c’è poi un filo che tiene insieme emozioni e politica. Ai “lumbard” sono simpatici pugliesi e salentini. Siamo considerati i meridionali più vicini al Nord. Matteo Salvini, europarlamentare della Lega e direttore di Radio Padania Libera, in un’intervista, spiegò bene la strategia, a cavallo della buona umanità e della politica delle piccole patrie: «Ho molti amici salentini e conosco bene la situazione della regione che non ha un’unica identità: c’è Foggia, Bari, il Salento. Lecce vuole staccarsi da Bari e creare una propria realtà istituzionale. Noi simpatizziamo per tutti i territori a vocazione secessionista e indipendentista. Per questo tra tutte le zone della Puglia abbiamo optato proprio per Alessano». E‘ questa la sorpresa: il Salento «secessionista» piace alla Lega. Ogni pezzo d’Italia è potenzialmente secessionista, soprattutto quando la crisi economica rende scarse le risorse. Questa storia presenta contorni ambigui, da definire meglio. Intanto, per un sortilegio della politica italiana, Radio Padania Libera è considerata una radio comunitaria. Cioè una radio che produce servizi culturali per aree geografiche e popolazioni minoritarie. Un modo per non abbassare la bandiera del pluralismo informativo e culturale di fronte alle radio commerciali che vivono con gli spot. In Italia ci sono due radio comunitarie: la cattolica “Radio Maria” e, appunto, quella leghista. Queste radio hanno dei vantaggi. In base alla legge finanziaria del 2001 possono acquisire frequenze in deroga ai regolamenti locali. E’ sufficiente che la frequenza acquistata non disturbi le altre. Sono necessari 90 giorni per usufruire del silenzio-assens o. Un’altra norma, del 2005, destina poi un milione alle due emittenti, da dividere in parti uguali. La radio leghista è attivissima nella permuta, negli scambi e negli acquisti-vendite delle frequenze. Da alcuni anni è in pieno svolgimento la campagna di colonizzazione dell’etere, incluse le aree meridionali. Secondo alcuni esperti, la finalità di questo attivismo non è politico ma solo economico, cioè valorizzare le frequenze per poi cederle ad altri operatori. Queste azioni, comunque, galvanizzano i fans di Bossi. «Conquisteremo il Sud», dice un radioascoltatore. E molti ripetono una giaculatoria: al Nord vive la gente onesta, al Sud c’è la mafia. L’ordine regna in Lombardia e nel Veneto, l’abusivismo nel Mezzogior no. Ma la Lega fa l’occhiolino ai salentini e ai pugliesi, diversi rispetto al resto del Sud. «Nel Salento trascorrerò le vacanze, in Campania non andrò mai», promette Matteo Salvini.
Il blitz di Radio Padania Libera sulle frequenze in terra salentina assume i contorni del «giallo», scrive ancora Tonio Tondo. «Mai avute notizie dal ministero di interferenze con altre frequenze », ha detto alla “Gazzetta del Mezzogiorno” l’amministratore unico della radio Cesare Bossetti. Eppure una lettera raccomandata, dal ministero dello sviluppo Economico, dipartimento di Bari, è partita il 27 dicembre. Nei termini della burocrazia, «si rappresenta che la zona (il Sud Salento) risulta interessata agli impianti: Rtl frequenza 105.4 MHz, radio Nice, 105.6, e altre due frequenze, 105.750 e 105.8, tutte e due di radio Rama network». La lettera, firmata dalla dottoressa Mangione, dirigente dell’Ispettorato, smentisce le parole dei dirigenti leghisti. Le interferenze, quindi, non riguardano solo radio Nice, ma altre tre frequenze. L’emittente di Bossi, finora, ha continuato le trasmissioni, e così ieri è partita la diffida del gruppo Radio Rama che ha sollecitato al ministero dello sviluppo economico «provvedimenti conseguenti». È possibile che nella zona di via Bellerio, al numero 41, sede della Lega, a Milano, le poste non funzionino? E che, al Sud, nel Comune di Alessano, sede dei trasmettitori, e a Lecce, sede provinciale dell’Arpa, il postino, smentendo qualsiasi canone sull’inefficienza dei meridionali, sia stato puntuale? È possibile, a sentire le parole dell’amministratore dell’emittente. «Chiederò notizie ai tecnici», ha infatti detto Bossetti, rifugiandosi in corner. Dichiarazioni che non convincono Gianluigi Pellegrino, il legale di Paolo Pagliaro, proprietario di radio Rama. «Non è possibile che la nota sia arrivata al Comune di Alessano e all’Arpa e non alla sede dell’emittente. E comunque, adesso, si gioca a carte scoperte, se Radio Padania sta ferma si deve muovere il Ministero, responsabile della vigilanza. L’emittente della Lega ha oscurato Radio Nice e danneggia gravemente, interferendo, le altre frequenze». Il federalismo leghista, applicato all’etere, è andato in collisione con un’azienda di comunicazione locale che sta giocando la partita di una «secessione dolce» del Salento, in nome di una nuova Regione.
Pagliaro, utilizzando parole più auliche, parla di «autodeterminazione» dei popoli. Come se il Salento dovesse liberarsi da un dominio. L’impasto tra il localismo padano e le ambizioni di settori del Salento provoca piccoli tumulti politici gestiti in modo disordinato. Esponenti di destra gridano allo «scippo» contro un’azienda del Sud ed esponenti di sinistra fanno appello al regionalismo delle frequenze. Una confusione totale. Dice il sindaco di Alessano, Luigi Nicolardi: «Non mi piace il confronto sguaiato. Né mi convince la retorica meridionalistica. Per me Radio Padania può trasmettere al Sud, ovviamente rispettando norme e regole. Certo, mi piacerebbe che il tono delle trasmissioni fosse diverso, che il confronto con noi si svolgesse in modo sereno, ma non penso, neanche per un istante, che l’emittente leghista abbia violato i sacri spazi del Sud. Farebbe meglio il legislatore a riformare l’articolo 74 della legge del 2001 che concede privilegi alle radio comunitarie in modo distorsivo rispetto al mercato». «Il nostro compito - dice euforico Bossetti - è sostenere la Lega nelle campagne elettorali». Per questo compito Radio Padania si dichiara radio comunitaria, cioè voce di un movimento culturale minoritario, indispensabile per garantire il pluralismo dell’informazione. Così può occupare frequenze e godere di un finanziamento statale a fondo perduto. Alla faccia di Roma ladrona. In più, come segno di prezioso pluralismo, può continuare a dare voce a chi ha l’unico scopo di parlare male di meridionali e immigrati. Anzi, qualcuno pensa che meridionali e immigrati siano la stessa cosa da cui liberarsi.
PARLIAMO DELLA LEGA NORD PADANIA: RAZZISTA? LADRONA? TRAFFICONA? MAFIOSA?
Se è pur vero che politicamente non rappresenta tutti i cittadini del nord Italia, è indiscutibile il fatto che essa incarna il modo di essere e di pensare della quasi totalità di essi: saccenza ed ignoranza; arroganza e presunzione.
Nuova bufera sulla Lega Nord? Secondo quanto riporta il quotidiano La Repubblica a firma di Carmelo Lopapa, le spese del gruppo del Carroccio al Senato sarebbero finite sotto la lente di ingrandimento dei magistrati della procura di Roma che avrebbe aperto un'inchiesta per fare luce su presunte irregolarità nella gestione dei fondi pubblici. Stipendi extra, benefit e affitti: la procura indaga sui senatori leghisti. Nuova bufera sul Carroccio: sotto osservazione spese per 15 milioni di euro. Interrogata la segretaria del tesoriere del gruppo, Manuela Maria Privitera. Che dice: "Il gruppo pagava l'affitto del senatore Bricolo e una sua carta di credito. Al senatore Calderoli veniva dati 2.000 euro al mese. Dal dicembre 2011 li ritirava in contanti e firmava una ricevuta". C'è più di un conto che non torna nella gestione dei 3 milioni di euro che ogni anno il Senato della Repubblica ha erogato al gruppo parlamentare della Lega Nord-Padania. Dunque dei 15 milioni nei cinque anni della legislatura appena conclusa. Stipendi extra corrisposti in contanti al capogruppo Bricolo e i suoi fedelissimi Bodega e Mazzatorta, ma anche una "paghetta" da duemila euro mensili per il senatore Roberto Calderoli; pagamento dell'affitto allo stesso capogruppo per 1.250 e copertura della sua carta di credito; assegni girati a collaboratori per finalità non chiare. La Procura della Repubblica di Roma ha aperto un'inchiesta, curata dal sostituto Roberto Felici. È ancora alle battute iniziali, gli inquirenti sono in fase di riscontro, ma sembra stia procedendo piuttosto spedita. Anche perché la fonte è quel che si dice una gola profonda, addentro alle cose e ai numeri del Carroccio. A fare rivelazioni assai documentate è la segretaria del tesoriere del gruppo (il senatore Piergiorgio Stiffoni) Manuela Maria Privitera. Nata nel '67 a Londra, tra i pochissimi ad avere gestione piena e diretta dei milioni di euro di fondi pubblici nelle disponibilità del gruppo a Palazzo Madama. Emerge un quadro senza precedenti dalla sua deposizione resa il 27 novembre scorso in Procura e dal memoriale che la stessa segretaria consegna ai pm, con tanto di allegati e ricevute.
Le paghette dei senatori. Racconta di un sistema rodato che andrebbe avanti da anni. "La destinazione dei fondi che il Senato mette a disposizione dei gruppi, lo dico per diretta conoscenza, non sempre è stata rigorosamente rispettata". La Privitera rivela l'esistenza di bonifici corrisposti fino al novembre 2011 "con disposizione permanente ai senatori componenti l'ufficio di presidenza: Bricolo 2.028 euro, Bodega 778 euro, Mazzatorta 683 euro". Soldi extra rispetto alle già ricche retribuzioni degli onorevoli. Poi, da novembre 2011, "il presidente (Bricolo) ha deciso di volerli ricevere e dare per contanti, aggiungendo ai già menzionati senatori anche Roberto Calderoli". In quello stesso mese era caduto il governo Berlusconi e Calderoli lasciava la poltrona di ministro della Semplificazione. E "al senatore viene destinata la cifra in contanti di 2.000 euro mensili". Spiega che "da dicembre 2011 in poi ho consegnato personalmente ogni mese il denaro in contanti, facendomi firmare una ricevuta individuale precompilata". Non solo. "Il gruppo pagava l'affitto dell'appartamento dove abitava il senatore Bricolo, con bonifico permanente di euro 1.250 e inoltre saldava il conto di una carta di credito che era nella disponibilità esclusiva del presidente". E poi: "Bricolo ha impartito disposizione affinché il gruppo si facesse carico delle spese telefoniche del senatore Calderoli".
Extra ai collaboratori. Senatori e non solo. Tra i "pagamenti in contanti" la segretaria annota anche quello "al nostro addetto stampa Romolo Martelloni per 2 mila euro mensili a titolo di rimborso spese in aggiunta allo stipendio che egli percepiva". E ancora, "alcuni extra per la segretaria del presidente Bricolo, Stefania La Rosa". Poi, "la corresponsione mensile di 1.500 euro a tale Cortese Giuseppe, che non era un nostro dipendente ma collaborava con l'onorevole Cota (oggi governatore del Piemonte, ndr) quando questi era capogruppo".
La proliferazione dei conti correnti. Parecchi soldi sono transitati dai conti correnti 10765, 9686 e dal 10331 dell'agenzia Bnl di Palazzo Madama. Sulla triplicazione degli accantonamenti (e su quest'ultimo c/c in particolare) i pm hanno acceso i loro riflettori. Il sospetto, ancora in via di accertamento, è che a un certo punto lo stato maggiore del gruppo che fa capo al presidente Bricolo e all'ex tesoriere Stiffoni abbia deciso di non girare più alla segreteria di via Bellerio a Milano (siamo negli anni della "monarchia" Bossi, del tesoriere del partito Belsito e del "cerchio magico") l'importo messo a disposizione dal Senato al netto delle spese sostenute. E che abbia piuttosto gestito in autonomia quelle somme, creando conti paralleli. Distribuendo poi migliaia di euro ogni mese in parte ad alcuni senatori per spese più o meno personali, in parte ad alcune figure che gravitavano attorno al partito. Segretarie, portavoce, collaboratori. Per fare cosa? Con quali motivazioni? E perché in nero?
La vendetta della segretaria. La Privitera è dunque la segretaria amministrativa alle dirette dipendenze di tesoriere e capogruppo (prima Castelli e poi Bricolo) dal 2006 all'aprile 2012. Proviene dalla Pontida Fin, la finanziaria del partito. Anche lei è sotto inchiesta e decide di parlare quando si ritrova esautorata dall'incarico. Ma anche messa all'indice dai suoi col pretesto del prestito da lei ottenuto per l'acquisto di una casa, per una cifra che eccedeva l'anticipo di Tfr al quale aveva diritto. Secondo lei c'era la volontà di sbarazzarsi di una testimone "scomoda". Ai pm si dice pronta a "restituire la parte eccedente" il suo Tfr. Ma occorre inquadrare il contesto.
L'onda Belsito e il repulisti. A marzo esplode lo scandalo Belsito sull'utilizzo dei rimborsi elettorali del Carroccio. Il 5 aprile Bossi rassegna le dimissioni irrevocabili schiacciato dal peso della cartellina The Family. Nel partito è il panico. Si teme un effetto a catena. Il 24 aprile 2012 - scrive la Privitera nel memoriale - si riuniscono i senatori Calderoli, Mazzatorta, Franco, Stiffoni e il capogruppo Bricolo. Subito dopo, Franco e Mazzatorta intimano alla segretaria di "consegnare le chiavi degli armadi, la cassettiera e la stanza". Non prima di aver mostrato loro "le ricevute dei rimborsi che consegnavo per contante ogni mese". Da quella data viene quindi "spossessata della stanza e sospesa dalle attività". Il 9 maggio, "i senatori Mazzatorta e Franco accompagnati da due che si presentano come revisori prelevano dalla stanza che mi era stata requisita tutto il contenuto, compreso la cassaforte". Il 16 maggio la segretaria viene convocata dal "senatore Divina che mi dice di aver parlato con Bricolo e Calderoli e che il capogruppo proponeva suo tramite un aumento, anzi un raddoppio di stipendio per risarcirmi del momento di disagio che stavo vivendo. Ho ribadito che il mio stipendio era più che dignitoso che l'unica cosa che dovevo riavere era il mio ruolo professionale e la mia dignità". Nelle stesse ore arrivava dalla Procura di Milano la notifica dell'avviso di garanzia a carico del senatore tesoriere Stiffoni.
La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere.
Partiamo da quanto scritto da Alberto Custodero su “La Repubblica”.
La Lega secessionista
Dopo gli scandali che l'hanno colpita la Lega Nord torna a parlare di secessione, di Parlamento Padano, di esercito e di moneta da battere. Sembra un ritorno agli anni '90, quando Bossi e i suoi furono vicini al tentativo separatista e, per questo, finirono anche sotto inchiesta. Una legge ad hoc, li salvò. Ma le carte dell'inchiesta dimostrano che facevano piuttosto sul serio.
"All'armi siam leghisti". Così la Lega minacciava lo Stato.
Nel passato della Lega 'di lotta' ci sono episodi che coinvolgono molti degli attuali vertici del partito. In una conversazione telefonica Umberto Bossi si sfoga con l'allora segretario regionale del Veneto del Carroccio Alberto Mazzonetto: "Dobbiamo contestare Scalfaro, non mandate i bambini quando viene in visita". Ecco le intercettazioni, i verbali di interrogatori e persino rapporti del ministero degli Interni che monitorava la mosse secessioniste del movimento. E le carte delle indagini in cui la procura di Verona chiese il rinvio a giudizio per lo stato maggiore della Lega, contestando il reato di cui all'articolo 241 del Codice Penale per aver tentato di "disciogliere l'unità dello Stato italiano mediante disgregazione del suo territorio per creare una nuova entità statuale chiamata Padania". Il reato però è stato depenalizzato dal Parlamento da una legge "ad legam".
Le intercettazioni. Bossi (30 settembre 97) è intercettato al telefono mentre parla con l'allora segretario veneto della Lega, Alberto Mazzonetto. Al quale dice: "Gavremo (Avremo) tutti con il mitragliatore in mano. Sarà una soddisfazione enorme portarmi all'altro mondo il più possibile di questa merda vivente". Bossi incita il segretario veneto ad andare in piazza "a menare la mano", gli dà istruzioni affinchè la visita di Scalfaro sia disertata dai veneti e dai ragazzi delle scuole. "Tutte le volte che viene Scalfaro va contestato". dice il Senatur. E poi gli dice che i bambini devono sventolare la bandiera della Padania, "come ai tempi di Mussolini".
E i discorsi: Maroni arringa la folla padana. (14 settembre 97): Maroni (presidente del Consiglio del governo padano, con interim Poste e telecomunicazioni, e Intelligence) ex ministro dell'Interno. Dice che il governo padano ha in corso una trattativa con lo Stato italiano per ottenere la secessione. Ma la trattativa non ha sortito effetti. Spiega che analoghi episodi di autodeterminazione dei popoli si verificano dal Quebec alla Catalogna, dalla Fiandre alla Scozia al Galles. Maroni annuncia le elezioni politiche della Padania per l'elezione del Parlamento. Annuncia che la Padania avrà due imposte, una diretta sui redditi e una indiretta sui consumi per un prelievo massimo del 25 per cento. Quindi propone di tassare alcune attività illecite, come "la prostituzione, attività commerciale". Prevede che il sistema pensionistico padano sarà contributivo a capitalizzazione. E svela che la sicurezza sarà affidata "alla guardia nazionale padana", mentre i magistrati, eletti dal popolo, dovranno rispondere dei loro errori.
La legge 'ad Legam' che salva il Carroccio. Il testo della legge 24 febbraio 2006, n 85, approvato in scadenza di legislatura dall'allora maggioranza di governo (Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega e Udc), che ha modificato gli articoli del codice penale che si riferiscono all'attentato contro l'integrità, la Costituzione e i simboli dello Stato. Nella "normativa precedente" compare (art. 241 del codice penale) ancora la dicitura originale "è punito con la morte", in realtà, ovviamente, la pena era stata già da tempo sostituita con l'ergastolo. Questi reati sono quelli per cui sono stati imputati a Verona Bossi, Maroni, Calderoli, Borghezio e altri dirigenti del partito. Il processo è ancora in corso ma loro, ormai, ne sono usciti.
Parlamento, esercito e moneta. Torna il progetto separatista della Lega. Bossi ne ha riparlato recentemente a Mantova. Con toni forse più soft. Ma i temi sono gli stessi del tentativo che mandò sotto inchiesta (con reati, allora, da ergastolo) 41 dirigenti del Carroccio. Poi, con un colpo di mano, il codice è stato cambiato e il Senatùr e gli altri leader sono usciti dal processo. Ma Borghezio ricorda che si faceva sul serio e parla di "un tintinnio di sciabole".
Allarme siam leghisti. E secessionisti. Fallita la secessione dei "fucili" degli anni Novanta ("... che gavremo tutti il mitragliatore in mano..." disse Bossi ad Alberto Mazzonetto, segretario della Lega veneta, in una famosa telefonata intercettata dalla Digos). Abortita quella "istituzionale" del federalismo durante il decennio di governo col Pdl, ora Bossi ci prova ancora. E per rilanciare l'attuale stagione di moti separatisti padani, utilizza una nuova formula di secessione. Questa volta la chiama "consensuale". Oppure "morbida", sul modello Cecoslovacchia . "Abbiamo Veneto e Piemonte - dice - parleremo con Formigoni per capire se ci sta. Poi tocca a Trentino Friuli Valle d'Aosta e Liguria per formare la Padania, una macroregione che incorpora Svizzera, lander tedeschi e porzioni dell'Austria". Questo è il suo slogan politico per lo scampolo di legislatura che restava fino al 2013. Ma l'inno alla Padania che s'è levato a metà dicembre 2011 a Vicenza (sede del parlamento del Nord presieduto dall'ex ministro Roberto Calderoli) da uno stato maggiore leghista schiacciato a Roma in una rumorosa opposizione, si riallaccia ideologicamente e politicamente, senza soluzione di continuità, a quello di 15 anni prima. Quando la Lega, mutuando il linguaggio resistenziale, fondò (sulla falsa riga del Cln che s'oppose a nazisti e fascisti), il Clp, il Comitato di Liberazione padano (liberazione da Roma ladrona, mutatis mutandis). Costituì quindi "una complessa e articolata struttura militare", le "camicie verdi" o "guardia nazionale padana" alle dipendenze di Roberto Maroni. Tentò anche "di ottenere il riconoscimento da parte della comunità internazionale" destando l'interesse (lo ha rivelato a Repubblica l'europarlamentare leghista Mario Borghezio), "di alcune cancellerie europee. E perfino della Cina". Convocò infine "apposite elezioni padane per eleggere i rappresentanti del governo e del parlamento della Padania". Con tanto di ministri e ministeri: Maroni presidente del consiglio con l'interim di poste e intelligence, vicepresidente Gnutti, Economia Pagliarini, Interno Borghezio, Difesa Bampo, Immigrazione Ramadam. E così via. Allora il moto secessionista di Bossi suscitò la reazione della magistratura: il procuratore di Verona, Guido Papalia, mise sotto accusa quarantuno esponenti leghisti e fra questi tutti i parlamentari (da Bossi a Gnutti a Maroni, da Speroni a Borghezio, referente, quest'ultimo dell'associazione dei giovani leghisti Sole delle Alpi). Il procuratore veronese incaricò le Digos (allora coordinate dal direttore dell'Ucigos, prefetto Carlo De Stefano) di svolgere indagini, pedinamenti e intercettazioni telefoniche. Era proprio De Stefano che, per conto del capo della Polizia, teneva aggiornato l'allora preoccupatissimo titolare dell'Interno Giorgio Napolitano di ogni mossa dei secessionisti del Carroccio. "La Lega - scriveva, ad esempio, De Stefano in un appunto riservatissimo a Napolitano - avrebbe istituito un nucleo scorte di 15 persone autorizzate a reagire contro chiunque ostacolasse il loro servizio". Ma il reato da ergastolo che Papalia contestò agli esponenti leghisti "secessionisti", il 241 del codice penale ("per aver commesso atti diretti a disciogliere l'unità dello Stato italiano mediante disgregazione del suo territorio e la costituzione della Padania"), è stato depenalizzato nel 2006. A proporre quella legge salva-processo fu l'onorevole Carolina Lussana (deputata leghista lombarda che ha dato l'esame da avvocato a Napoli), la votarono Fi, Lega, Udc, si astennero i Verdi, contrari Margherita e Ds con la motivazione che non si trattava di un provvedimento "a favore della libertà d'opinione", così com'era stato spacciato. Ma di una vera e propria norma "ad legam". Dopo 15 anni scanditi da conflitti di attribuzione costituzionali, ricorsi e controricorsi, il processo, incredibilmente, è ancora in corso. Tutti gli onorevoli, però, si sono salvati grazie alla legge che si sono votati e beneficiando altresì della tutela (anche in questo caso autovotata) dell'insindacabilità parlamentare. Alle udienze dibattimentali ancora in corso compaiono alla sbarra "solo" una cinquantina di militanti, figure minori della stagione secessionista degli anni Novanta. E oggi che torna d'attualità la secessione leghista, sulla scena politica spunta, forse non a caso, l'ex capo dell'Ucigos, De Stefano, nominato sottosegretario al ministero dell'Interno, mentre è ancora Napolitano - ieri dal Viminale, poi dal Quirinale - a vigilare politicamente contro il separatismo di Bossi e "compagni" appellandosi, con autorevoli moniti, all'unità d'Italia. Sono cambiate molte cose in questi ultimi 15 anni. Il contesto politico del 2012, rispetto al '97, è radicalmente cambiato. Allora la stagione berlusconiana era agli albori. Ora è al tramonto. Allora s'era appena passati dalla prima alla seconda Repubblica, ora Napolitano sta traghettando il Paese verso la Terza. Allora l'economia italiana si stava riprendendo dai contraccolpi di Tangentopoli e del crollo del Caf, oggi il Paese, indebolito dal terzo debito pubblico del mondo e dall'incipit di una recessione, è investito in pieno da una crisi internazionale. Allora c'era la lira e le frontiere erano protette dalle barriere doganali, oggi siamo nell'eurozone con la moneta unica e il trattato di Schengen. Allora il Carroccio aveva coniato monete e banconote, scudi e leghe padane, allarmando - come testimoniato da Borghezio - le più alte cariche dello Stato. E financo la Banca d'Italia. Oggi Bossi torna a parlare di un nuovo conio padano: "Avremo la nostra valuta - annuncia dal parlamento di Mantova - una volta finito l'euro, la Padania non tornerà alla lira, ma si farà una sua moneta". Allora il Carroccio aveva addirittura organizzato una propria "polizia", le camicie verdi maroniane appunto, destinate a costituire le forze armate padane. "Nel momento in cui il vento secessionista soffiò con forza - ricorda Borghezio - s'avvertì un tintinnar di sciabole. E fra le gerarchie militari ci fu chi guardò con interesse alla Padania". Fu in quel periodo che - come ha rivelato l'ex presidente leghista della Camera, Irene Pivetti, al pm Papalia - Maroni, in qualità di "responsabile dell'ufficio esteri della segreteria politica di via Bellerio, teneva rapporti con i movimenti indipendentisti, secessionisti e autonomisti operanti all'estero come baschi, catalani e scozzesi per costituire l'Internazionale indipendentista". Fu in quel retroscena che s'inquadrò la visita di Vladimir Zhirinovskij, il capo del partito ultranazionalista russo ed ex ufficiale dell'Armata Rossa, al quartier generale della Lega di Milano. Nel 2012 il Senatur torna a parlare di struttura militare: "Avremo il nostro esercito", avverte minaccioso da Vicenza. Nonostante tutti questi cambiamenti, Bossi vede oggi nel combinato disposto della crisi economica e di quella della politica la congiuntura ideale per tirare fuori dal cassetto il vecchio progetto separatista, un po' impolverato, ma, come confermato dall'europarlamentare torinese, mai abbandonato.
Questo progetto del Senatur, va ricordato, mira a spezzare il circolo - per lui - vizioso di un Nord che riceve solo una parte delle tasse che invia a Roma, mentre l'altra serve a "Roma ladrona" per comprare con le clientele voti al Sud e riottenere, all'infinito, la riconferma del potere romano. Non caso Maroni nel '97 aveva "annunciato" il sistema fiscale padano fondato su due imposte, una diretta sui redditi e l'altra indiretta sui consumi con un tetto impositivo non superiore al 25 per cento". E sull'imposizione fiscale di "attività illecite commerciali, come la prostituzione". Il leader del Carroccio, mentre è in corso all'interno della Lega una resa dei conti tra i bossiani del "cerchio magico" e i maroniani, ha dato il via segretamente alla fase 2 del suo progetto secessionista, ovvero la fondazione della Lega in Sicilia per poter schiacciare Roma nella morsa di una doppia forza separatista: una dal Settentrione, e una dal Meridione. Per favorire il distacco Nord-Sud, il leader leghista questa volta approfitta dello stato di sofferenza che attraversa il Paese, evocando uno scenario post bellico e facendo leva sullo stato di emergenza che ha portato a Palazzo Chigi un governo di tecnici.
"L'Italia ha perso nella guerra economica", spiega Bossi dal parlamento di Mantova. "E noi della Padania - aggiunge - da popolo vincitore dobbiamo essere pronti a scrivere i trattati per l'Europa dei popoli". Slogan come "l'Italia ha perso, la Padania vincerà", "Libertà, Roma ladrona", "L'Italia va giù e la Padania va su" sono diventati il mantra ideologico di un Carroccio che dopo la stagione dell'asse di ferro con Berlusconi, ha scelto di isolarsi politicamente all'opposizione. Toccherà a Roberto Maroni, ex presidente del Consiglio della Repubblica padana, ed ex ministro dell'Interno di quella italiana, fare - per usare le parole di Calderoli, "l'ambasciatore a Roma" delle istanze padane. E "fare il culo a Monti in Parlamento".
"Il Banco di Napoli? Troppo sudista. Anzi no, adesso è venuto al Nord". Dalle carte del processo di Verona emerge una vicenda sconcertante. L'istituto partenopeo era concessionario (dal 1871) degli sportelli interni al Parlamento. Con la Pivetti presidente a Montecitorio, i leghisti volevano cacciarlo. Ma invertirono rapidamente rotta quando si seppe che la Bipop stava per acquistarlo. E anche oggi... Una banca “meridionale” (il Banco di Napoli), all’interno del Parlamento non piaceva ai leghisti che volevano cacciarla. Ma gli uomini del Carroccio cambiarono idea quando quegli sportelli bancari “meridionali” per deputati furono acquistati da un istituto bancario settentrionale, il Banco Popolare di Brescia, nel 2007 entrato nel gruppo Ubi. A rivelare questo giallo sulla mancata “espulsione” da Montecitorio del Banco di Napoli è stata l’ex presidente leghista della Camera, Irene Pivetti, in un interrogatorio reso al procuratore di Verona Guido Papalia e al sostituto Antonino Condorelli. “Durante il mio periodo di presidenza – racconta ai pm la Pivetti - si è verificata una vicenda abbastanza sconcertante riguardante il Banco di Napoli”. “Ricordo – aggiunge - che io avevo intenzione di ridiscutere la questione relativa alla concessione ad un istituto di credito dell’agenzia bancaria all’interno della Camera dei deputati, concessione che dal 1871 è stata da sempre riconosciuta al Banco di Napoli”. “Per questo motivo – dice ancora l’ex presidente della Camera – ho predisposto una gara di appalto e ricordo che dopo l’apertura delle buste il Banco di Napoli è risultato tra gli ultimi istituti partecipanti. Nonostante ciò l’istituto partenopeo ha fatto pressione su tutti i componenti l’ufficio di presidenza per ottenere la riammissione nella rosa ristretta dei primi aventi diritto a partecipare alla gara definitiva”. “Ricordo – spiega la Pivetti – che protestai duramente per questa procedura esternando le mie proteste a tutti i componenti della presidenza e primi fra tutti Balocchi”. Maurizio Balocchi era il segretario amministrativo della Lega, nonché questore della Camera. “Notai allora con mia grande sorpresa – continua l’interrogatorio – che Balocchi, che in un primo tempo s’era dimostrato particolarmente ostile al Banco di Napoli, aveva cambiato opinione mostrando di voler accogliere le richieste di quella banca. Quel suo cambiamento fu decisivo per l’ammissione in gara della concessione al Banco di Napoli in quanto i voti leghisti allora erano determinanti”. Ma cos’era successo in quel periodo alla Camera? Perché il voltafaccia dei Lumbard che prima volevano far fuori dalla Camera il Banco di Napoli, e poi addirittura votarono per riammetterlo quando non aveva più i titoli per partecipare al bando?. Il finire degli anni Novanta fu un periodo di grande confusione del mondo bancario tra acquisizioni, fusioni, incorporamenti e cessione di sportelli tra un gruppo finanziario e l'altro per aggirare trust e per consolidare i mercati. Operazioni in qualche caso finite in clamorosi crac. Bipop dopo svariate traversie alla fine del Duemila sarebbe poi confluita in Unicredit, mentre il Banco di Napoli (compresa il tanto "discusso" sportello della Camera), in Intesa San Paolo. Il retroscena di questa strana manovra politico-finanziaria tutta in casa Carroccio è svelato dalle carte giudiziarie del processo di Verona. Il motivo del cambio di rotta leghista sta con ogni probabilità nell’acquisizione dell’istituto napoletano da parte di un istituto settentrionale, per questo più gradito agli uomini di Bossi. Il procuratore di Verona su quella operazione avviò un’indagine giudiziaria, incaricando il professor Franco Della Sega e il dottor Maurizio Grassano di “accertare il prezzo, le modalità dell’acquisizione e del pagamento". E stando alla perizia contabile disposta dalla procura, la Banca Popolare di Brescia acquistò tra il ’96 e il ’97 – e dunque proprio nel periodo delle manovre leghista antipartenopee a Montecitorio - le 50 filiali del Banco di Napoli. I ct accertarono che il prezzo di acquisto fu di duecentonovanta miliardi di vecchie lire pagati dalla Bipop in due tranche, una di 247 il 28 ottobre ’96, l’altra di 42 il 20 marzo ’97. Alla fine della complessa operazione, l’istituto creditizio bresciano accumulò una situazione debitoria complessiva di circa mille miliardi, procurandosi le risorse necessarie all’acquisto sia tramite il ricorso al mercato interbancario, sia (per ovviare a un conseguente deficit patrimoniale), tramite l’emissione di un prestito obbligazionario Bipop per circa 250 miliardi quotato prima alla Borsa Valori lussemburghese. E solo in un secondo tempo in quella italiana. Il procuratore veronese a tal riguardo aveva chiesto ai suoi consulenti anche di trovare “i sottoscrittori di quelle obbligazioni”, individuati in “banche d’affari, istituti di credito e fondi comuni di investimento”. Il passaggio di proprietà da Napoli alla più padana Brescia, ecco spiegato il voltafaccia della Lega alla Camera. Ma c’è di più. Il maresciallo Carlo Alesci della polizia giudiziaria veronese accertò nel ’98 che, una volta passato nelle mani dei banchieri settentrionali, “il Banco di Napoli aveva svolto articolate trattative con la Lega per concederle un mutuo necessario all’acquisto della sede del Carroccio a Milano in via Bellerio”. Trattative che, però, osserva il maresciallo, non andarono a buon fine. Il Banco di Napoli “bresciano” torna, anche se marginalmente, nelle “relazioni” della polizia giudiziaria relative alle indagini sull’acquisto da parte della Lega dei gazebo usati per il referendum secessionista del 1997.
Ebbene, tutti quei gazebo furono pagati per circa 750 milioni di vecchie lire con assegni firmati da Balocchi ed “emessi dall’agenzia numero uno del Banco di Napoli, sportello interno a Montecitorio, dal conto corrente intestato alla Lega Nord, Italia Federale”. Il Banco di Napoli della Camera pare non avere pace. Dopo la Pivetti negli anni Novanta, ad occuparsene, nel Duemila, è il deputato radicale Rita Bernardini che da anni ha messo sotto la lente d’ingrandimento i conti della Camera. Il 29 settembre del 2009 ci fu una delibera dei Questori di Montecitorio con la quale s’è disposta la proroga della convenzione col Banco di Napoli fino al 31 dicembre 2010. Contestualmente s’è deliberato l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento della nuova convenzione. Anche nel 2012i, però, pare che ci sia un giallo. Lo conferma la stessa Bernardini: “Nonostante le mie richieste di informazioni – dichiara la deputata radicale – dell’attuazione della delibera dei Questori di un anno fa non ho saputo più nulla. Né si trova nulla, sotto la voce gare pubbliche, sul sito www.camera.it”. Che siano intervenuti anche questa volta misteriosi protettori del “lombardo” Banco di Napoli?
Quelle "camicie verdi" armate che dovevano proteggere il Senatùr.
Documenti e testimonianze raccontano di una vera e propria struttura clandestina incaricata di salvaguardare l'incolumità del "capo". Avevano pistole regolarmente denunciate o con matricole abrase. Qualche volta vennero "beccati" da uomini della Digos e denunciati per porto d'armi abusivo. Una struttura clandestina di "camicie "verdi", uomini armati pronti a tutto, proteggeva Bossi ai tempi della secessione degli anni Novanta. Il particolare è stato svelato dalle carte del processo di Verona del procuratore Papalia. Tutto ha avuto inizio il 14 settembre del 1996 durante il rituale padano dell'attraversamento del Po di Umberto Bossi a Boretto di Reggio Emilia. In quel frangente, si legge in una relazione della Digos di Verona, "a uno degli uomini della sicurezza personale del parlamentare cadeva un'arma". Il particolare, ovviamente, non sfuggì ai poliziotti che seguivano passo passo, per conto della magistratura, gli sviluppi politici della "secessione" leghista. "L'uomo - si legge nell'appunto riservato della polizia - veniva identificato per Ferrari Fabio, figlio di Genesio, segretario provinciale della Lega di Reggio Emilia. L'arma del Ferrari, regolarmente denunciata, aveva la canna priva del previsto numero di matricola". La Digos a quel punto perquisì la casa del bodyguard in camicia verde denunciandolo dopo aver "rinvenuto e sequestrato una ulteriore arma", questa volta "priva del numero di matricola perché abraso". Poco più di un mese dopo, sempre la questura di Verona scoprì che in un comizio svoltosi a Rovigo, un agente della Digos di scorta a Bossi "fu minacciato da parte di uno della security personale" del leader leghista. L'uomo, Locatelli Aurelio, armato di pistola, "pur essendo dotato di licenza di porto d'armi", fu comunque denunciato "per aver portato l'arma nel corso di una pubblica manifestazione". Le indagini sulle camicie verdi e sulla guardia nazionale padana proseguirono fino a quando, nel settembre '97, ci fu una svolta. Carlo De Stefano, il capo dell'Ucigos, l'antiterrorismo dal quale dipendono tutte le Digos, firmò - utilizzando la formula "per il capo della Polizia" - un rapporto riservatissimo sulla scorta personale di Bossi composta da uomini armati indirizzata all'allora ministro dell'Interno, Giorgio Napolitano. "Il 3 agosto '97 - scriveva il capo dell'Ucigos - in Rovato, provincia di Brescia, s'è svolta la terza festa della Lega Franciacorta alla quale parteciparono, tra gli altri, gli onorevoli Pagliarini, Molgora e Tirelli". "All'interno della vettura sulla quale viaggiava Pagliarini, intestata a Davoli Matteo, operaio, c'era un lampeggiante del tipo in uso alle Forze di Polizia, nonché una paletta del 118". Le indagini, riferisce De Stefano, accertarono che "la Lega avrebbe istituito un "nucleo scorte" composto da una quindicina di persone provenienti da diverse località della Regione, e coordinate da un responsabile di Milano presso la sede di via Bellerio". "Le persone preposte alla scorta - concludeva con preoccupazione la nota riservata del prefetto De Stefano - sarebbero autorizzate a reagire contro chiunque ostacolasse il loro servizio".
La Lega trafficona
Questa è la definizione che dà “La Repubblica” alla sua inchiesta. Così la definisce: C'era una volta "Roma ladrona". Adesso al centro dell'attenzione della nuova Tangentopoli c'è il Carroccio. Dall'inchiesta sul tesoriere Belsito, che ha portato alle dimissioni di Bossi, alle vecchie e delicate vicende bancarie, fino alle mazzette all'amico Brancher e a una cinquantina di casi "minori" che vanno dalla corruzione alla "parentopoli" in salsa da Giussano.
Escort, mazzette ed evasioni. La carica dei 'mariuoli' padani.
LOMBARDIA. Dario Ghezzi – Ex capo della segreteria di Boni. Accusato di corruzione nella stessa inchiesta. Si è dimesso il 13 marzo 2012;
LOMBARDIA. Marco Paoletti – Consigliere regionale leghista, accusato di corruzione nell'inchiesta che coinvolge anche Boni e Ghezzi. E' stato espulso dal partito;
LOMBARDIA. Monica Rizzi –Ex assessore allo Sport della Regione Lombardia, indagata dalla procura di Milano per abuso di titolo (dichiarava una laurea mai ottenuta) e dalla procura di Brescia per trattamento illecito di dati personali (è accusata di aver realizzato falsi dossier contro altri esponenti leghisti per favorire l'ascesa al Pirellone di Renzo Bossi). Si è dimessa dall'incarico il 16 aprile 20121;
LOMBARDIA. Francesco Belsito – Ex tesoriere del Carroccio, indagato per frode e finanziamento illecito di partiti. Si è dimesso in seguito alla maxi inchiesta della procura di Milano;
LOMBARDIA Angelo Ciocca – Consigliere regionale della Lombardia, è stato il più votato tra gli esponenti del Carroccio ad essere eletto. E' stato coinvolto, senza essere indagato, nell'inchiesta della Dda di Pavia sulle infiltrazioni 'ndrangheta al nord per i suoi presunti rapporti con l'avvocato Pino Neri, considerato uno dei capi dell'organizzazione criminale al nord;
LOMBARDIA. Roberto Castelli – Indagato per abuso d'ufficio per il suo piano di edilizia carceraria, da ministro della Giustizia, affidato all'amico Giuseppe Magni. E' stato condannato della Corte dei Conti a rimborsare 33 mila euro perché la consulenza era "irrazionale e illegittima";
LOMBARDIA. Luca Talice – Ex assessore alla sicurezza della Provincia di Monza, è stato rinviato a giudizio per violenza sessuale nei confronti di due militanti del Carroccio;
LOMBARDIA. Fabio Rolfi – Ex vicesindaco di Brescia, indagato nel 2010 per peculato. Avrebbe messo in conto al comune circa 2000 euro di spese per cene svolte in giorni festivi;
LOMBARDIA. Roberto Manenti – Ex sindaco di Rovato, in provincia di Brescia, condannato per stupro nel 2009. Sarebbe stato responsabile di alcuni episodi di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza romena. Manenti si è ripresentato come candidato sindaco della Lega Lombardo Veneta alle elezioni amministrative che si terranno a Rovato nel 2012;
LOMBARDIA. Aldo Fumagalli – Ex sindaco di Varese, è sotto processo per peculato e concussione. Tra i fatti contestati, anche la presunta pressione su alcune cooperative in affari con il Comune per l'assunzione di alcune amiche. E' uscito dalla Lega nord e ha aderito alla Democrazia Cristiana;
LOMBARDIA. Alessandro Patelli – Il "pirla", come fu definito da Umberto Bossi. Ex tesoriere della Lega, ammise nel 1993 di aver incassato 200 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, azionista di maggioranza della Montedison, causando a Umberto Bossi una condanna per finanziamento illecito nell'ambito del processo Enimont;
LOMBARDIA. Mauro Galeazzi – Ex assessore ai lavori pubblici di Castel Mella, in provincia di Brescia, arrestato nel 2011 con l'accusa di peculato e corruzione è stato poi prosciolto per il primo reato;
LOMBARDIA. Marco Rigosa – Capo ufficio tecnico e assessore di Rodenigo Saiano, nel bresciano, ancora indagato nella inchiesta che coinvolge Galeazzi per il presunto reato di corruzione;
LOMBARDIA. Giampaolo Maloberti – Ex consigliere provinciale a Piacenza, condannato per truffa i danni dello Stato dal Tribunale di Milano per non aver pagato le multe dovute allo sforamento delle quote latte;
LOMBARDIA. Davide Allegri – Assessore all' Urbanistica del comune di Cortemaggiore, nel piacentino, indagato per concussione e abuso di ufficio. Si è dimesso dall'Amministrazione;
VENETO. Marino Finozzi – Assessore regionale al turismo in Veneto, indagato per truffa a danno di un creditore nel 2010. Il suo nome, secondo quanto riferisce l'Espresso, comparirebbe anche nel filone reggino dell'inchiesta che vede coinvolto Belsito per truffa ai danni dello Stato;
VENETO. Cesare Biasin – Ex sindaco di Silea, in provincia di Treviso, ora consigliere comunale. Imputato per sfruttamento della prostituzione, il processo è in corso. E stato espulso dal partito nel 2010;
VENETO. Luigino Vascon – Assessore all'agricoltura della Provincia di Vicenza, è stato indagato per furto d'acqua, ma il reato è andato prescritto;
VENETO. Gianfranco Vivian – Esponente vicentino del Carroccio vicino alla parlamentare Manuela del Lago ha patteggiato una condanna per appropriazione indebita;
VENETO. Alessia Segantini – Sindaco di Zimella in provincia di Verona, indagata per concorso nel reato di riciclaggio dalla procura scaligera. A dicembre 2011 i pm ne hanno chiesto il rinvio a giudizio;
VENETO. Alberto Filippi – Senatore di Vicenza, è sotto inchiesta per evasione fiscale e false fatturazioni, è stato espulso dal partito;
VENETO. David Codognotto – Ex assessore a San Michele al Tagliaemento, nel vicentino. Colto in flagranza di reato ad aver intascato una tangente da 15mila euro, è accusato di concussione. E' stato espulso dal partito;
VENETO. Alessandro Costa – Ex vigile urbano e assessore alla sicurezza nel Comune di Barbarano Vicentino. E' indagato per sfruttamento della prostituzione: gestiva siti di annunci a luci rosse. Si è dimesso dall'incarico ed è stato sospeso dal partito;
VENETO. Massimo Signorin – Vicesindaco di Arzignano, in provincia di Vicenza, espulso dalla Lega, indagato per evasione fiscale totale e distruzione di documenti contabili. Avrebbe evaso 500mila euro al fisco 2.
VENETO. Tiberio Businaro – Sindaco di Carceri, in provincia di Padova. Sotto inchiesta per bancarotta e falso ideologico, è stato sospeso dal partito. Sarebbe, secondo gli investigatori, coinvolto in affari con una holding campana vicina alla camorra;
VENETO. Camillo Gambin – Storico esponente del Carroccio ad Albaredo d'Adige (Verona), arrestato nel 2010 per falsi permessi di soggiorno rilasciati in cambio di denaro;
VENETO. Gianluigi Soardi – Sindaco leghista di Sommacampagna, in provincia di Verona, ed ex presidente dell'azienda del trasporto pubblico cittadino Atv. Incarico che ha lasciato in seguito alle indagini della procura di Verona su presunte spese gonfiate e ingiustificate. E' stato condannato a tre anni e due mesi per peculato;
EMILIA ROMAGNA. Gianluca Pini – Segretario della Lega Nord in Romagna, indagato dalla procura di Forlì per millantato credito. Avrebbe ricevuto 15mila euro da un avvocato per favorire l'esito positivo del suo esame al concorso per notai;
EMILIA ROMAGNA. Angelo Alessandri – Esponente di spicco della Lega in Emilia Romagna, ha collezionato 70 multe per eccesso di velocità tra il 2008 e il 2009. Ne ha impugnate 58, chiamando in causa la norma che autorizza le auto blu con scorta a superare i limiti di velocità in caso di provate esigenze istituzionali. Le altre dodici sono state invece messe in conto al partito perché, secondo Alessandri, si trattava di eventi legati alla propria attività politica. Un conto, questo, da circa tremila euro;
EMILIA ROMAGNA. Marco Lusetti – Vicesindaco di Guastalla (Reggio Emilia), nel 2010 è stato accusato di irregolarità nella gestione dell'Enci (Ente nazionale per la cinofilia) di cui era commissario ad acta: avrebbe ordinato a se stesso bonifici per 187 mila euro, senza incassarli, con soldi dell'ente;
EMILIA ROMAGNA. Fabio Rainieri – Deputato della Lega, a processo per dichiarazione fraudolenta tramite false fatture. Sul procedimento interverrà la prescrizione;
PIEMONTE. Matteo Brigandì – Ex assessore al Bilancio della Regione Piemonte, è stato processato per truffa, a causa di falsi rimborsi nelle zone alluvionate. Condannato in primo grado, assolto in appello. Ex membro del Csm, venne allontanato con l'accusa di aver fornito a "Il Giornale" i documenti che riguardavano un vecchio provvedimento disciplinare nei confronti di Ilda Boccassini;
FRIULI VENEZIA GIULIA. Edouard Ballaman – Ex presidente del consiglio regionale friulano, si è dimesso dopo essere finito nel mirino della Corte dei conti per una settantina di viaggi non giustificati fatti in auto blu. E' sotto processo per peculato, oggi siede in Parlamento;
FRIULI VENEZIA GIULIA. Enrico Cavaliere –Ex presidente del consiglio regionale del Veneto, imputato insieme a Stefani nello stesso processo, assolto nel dicembre 2011;
FRIULI VENEZIA GIULIA. Stefano Stefani – Senatore della Lega Nord, processato per bancarotta a Udine per il crack della società Euroservice, in seguito a una complessa operazione immobiliare ideata, secondo l'accusa, per finanziare il Carroccio. E' stato assolto in primo grado. In passato è stato anche componente del Cda di Credieuronord la banca voluta dalla Lega e naufragata nei debiti;
FRIULI VENEZIA GIULIA. Maurizio Balocchi – Ex tesoriere della lega ed ex sottosegretario all'Interno. Protagonista di uno scambio di favori incrociati con Ballaman. Secondo quanto riportato dal 'Corriere della Sera', avrebbero assunto uno la compagna dell'altro, per aggirare la legge che vieta di assumere parenti nel medesimo ufficio. E' morto nel 2010.
Dal Piemonte al Veneto, gli affari di famiglia.
PIRELLONE. Cavalli d'oro – Nel 2008 la moglie di Giancarlo Giorgetti, deputato ed esponente di spicco del Carroccio, ha patteggiato una condanna a due mesi e dieci giorni per truffa a enti pubblici. La moglie del politico leghista, titolare di corsi di equitazione in una onlus, aveva "gonfiato" il numero degli allievi dei corsi di formazione per ottenere 400mila euro di finanziamento dal Pirellone;
IL FRATELLO. Franco Bossi in Europa – Ha studiato fino alla terza media, ma è riuscito a diventare assistente parlamentare di Matteo Salvini dal 2004 al 2009 al Parlamento Europeo con uno stipendio lordo di 12.750 euro al mese;
LA MOGLIE. Manuela Marrone e la scuola Padana – Maestra elementare, 57 anni, è sposata con il Senatùr dal 1984. Con lui ha fondato la Lega Nord. Nel 1998 ha costituito a Varese la “Libera Scuola dei Popoli Padani” detta “Bosina” (dalla materna al liceo linguistico, tutte paritarie) retta da una cooperativa. Una scuola nata “in contrapposizione alla riforma che prevede fino a sette insegnanti diversi invece della maestra unica”. Tra il 2008 e il 2009, la “Bosina” ha ricevuto dallo Stato prima 300 e poi 500 mila euro per “ampliamento e ristrutturazione” dell’edificio in cui ha sede. I soldi sono arrivati dal “Fondo per la tutela dell’ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio” detto più prosaicamente “legge mancia”;
PIEMONTE. La figlia del capogruppo – Michela Carossa, figlia del capogruppo della Lega Nord alla regione Piemonte, è responsabile del gruppo politico femminile leghista di Torino. Adesso lavora alla segreteria del presidente della Regione, Roberto Cota. Nel 2008 si batteva in piazza per l’obbligo delle impronte digitali per i cittadini extracomunitari;
PIEMONTE. Capo di qui, capogruppo di là – Isabella Arnoldi (moglie del capo di gabinetto di Cota, Giuseppe Cortese). Capogruppo leghista al consiglio comunale di Novara, Isabella Arnoldi è anche capo dello staff dell’Assessore allo Sviluppo Economico del Piemonte, Massimo Giordano;
BRESCIA. Concorso per signore – Sara Grumi, figlia dell’assessore leghista di Gavardo (Lago di Garda), Guido Grumi. Katia Peli, nipote dell’assessore provinciale all’Istruzione Aristide Peli di Brescia. Silvia Raineri, moglie del vicesindaco leghista di Brescia, Fabio Rolfi. Cristina Vitali e Anna Ponzoni, collaboratrici del leghista Giorgio Bontempi, assessore alle Attività produttive della Provincia di Brescia. Margherita Febbrai, collaboratrice della Padania. Queste sei signore, tutte con forti legami politici nel mondo leghista bresciano, partecipano al concorso per otto posti di “Istruttore amministrativo” della provincia di Brescia indetto nel 2008. Un concorso a cui s’iscrivono oltre settecento persone. Poco più di un terzo (circa 240) si presentano alla prova scritta. E’ una prova “a crocette” che tutti descrivono come molto difficile, con risposte trabocchetto. In 38 la superano e si presentano all’orale. Le nostre signore prendono voti altissimi: dal 30 (unico della Raineri) al 27 di Peli e Ponzoni. Una sesta del gruppo, Margherita Febbrai (collaboratrice della Padania) prende 28. Gli altri candidati sono tutti o quasi staccatissimi con voti dal 23 al 21. La cosa suscita qualche sospetto e qualche protesta. Risultato: la prova orale si svolge in pubblico. Le cinque signore vanno molto meno bene (tra il 25 del duo Pontoni-Vitali al 21 della Raineri). Ma, grazie all’exploit dello scritto le cinque signore passano (siamo a febbraio 2010) ed avranno un posto sicuro. Solo la Febbrai (con 21) si classifica al decimo posto e resta fuori;
VERONA. La moglie del sindaco – Recentemente, la signora Stefania Villanova in Tosi ha fatto sapere che non voterà per il marito che si ricandida alla poltrona di primo cittadino. Gli preferirà il candidato Pdl. Eppure dovrebbe essere grata al marito grande seguace di Bobo Maroni, famoso per le posizioni piuttosto autonome e critiche all'interno del centrodestra. I due si sono conosciuti quando Tosi era assessore regionale alla Sanità e lei impiegata in Regione a 25 euro l'anno. Quando lui è stato eletto sindaco, al suo posto è arrivata un'altra leghista, Francesca Martini e la moglie di Tosi è stata promossa a capo della segreteria (stipendio da 70 mila euro), posto che ha conservato col nuovo assessore Luca Coletto. Dicono che sia brava e determinata e che, anche se non ha grandi studi (non è laureata), il vero assessore alla sanità è lei;
LO SCAMBIO DELLE SIGNORE. Io assumo la tua, tu assumi la mia – Maurizio Balocchi (chiavarese, tesoriere della Lega prima di Belsito) è morto nel 2010. Quando era sottosegretario agli Interni (2005-2006), Balocchi assunse la allora fidanzata di Edouard Ballaman (allora deputato leghista, poi presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia), Tiziana Vivian, e lui ricambiò assumendo la moglie di Balocchi, Laura Pace. In questo modo, entrambi riuscirono ad aggirare la normativa che impedisce l'assunzione di parenti negli uffici pubblici di cui una persona è responsabile. Ballaman è stato accusato di un uso disinvolto dell'auto blu che aveva a disposizione quando era presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia per un danno erariale superiore ai 22 mila euro. Tra le altre cose, quando si sposò (non con la Vivian) pare abbia usato la macchina di servizio per andare in viaggio di nozze;
TOMBOLO (PADOVA). L'incarico al fratello dell'assessore – Nel 2006, la Regione Veneta finanzia la costruzione del nuovo polo scolastico di Tombolo (Padova) per una cifra vicina ai 900 mila euro. Maurizio Conte, consigliere regionale leghista e segretario della Lega di Padova, è fra i più attivi nel promuovere il finanziamento. Poco tempo dopo, il comune di Tombolo affida progettazione e direzione dei lavori all'architetto Tiziano Conte, fratello di Maurizio per una parcella da 260 mila euro. La cosa viene sollevata dal Pd. Maurizio Conte si difende affermando che il fratello ha vinto un regolare concorso secondo l'ex deputato Pd, Piero Ruzzante, che ha sollevato il caso, non ci sarebbe stato nessun concorso;
VENETO. Le designazioni in agricoltura e zootecnia – Carte alla mano, il democratico veneto Piero Ruzzante denuncia una serie di designazioni di esponenti leghisti ai vertici di tre enti regionali. Corrado Callegari, impiegato di banca mestrino, segretario della Lega Nord, viene nominato amministratore unico di Veneto Agricoltura: una carica da 15 mila euro lordi al mese. Callegari diventerà poi anche deputato e, per un po' cumulerà cariche e stipendi. Antonello Contiero, ex autista di autobus a Rovigo, diventa amministratore unico di Intermizoo, l'azienda zootecnica regionale. Stipendio da 5mila euro mensili;
BERGAMO. Il doppio incarico dell'assessore – Nel 2009, l'architetto Silvia Lanzani riceve l'incarico per la progettazione preliminare di un impianto di sterilizzazione dell'ospedale di Treviglio. Un incarico da 13.754 euro. Il presidente dell'ospedale è il leghista Cesare Ercole. La Lanzani, oltre a svolgere attività professionale, è anche assessore alle Infrastrutture della Provincia di Bergamo;
LA FAMIGLIA DEL SINDACO. Verona, la politica degli affetti – Un dossier presentato dal segretario provinciale del Sel di Verona, Giorgio Gabanizza, denuncia una serie di clientele a favore di esponenti leghisti della zona: “La sorella del sindaco di Sona e assessore provinciale Gualtiero Mazzi, ha trovato lavoro in una controllata di Amia, la Serit, mentre la moglie è in Amia; in Amt la sorella dell'assessore regionale Luca Coletto; la figlia del segretario organizzativo della Lega nord, Giannino Castagna, si è sistemata in Amia; il fratello del vicesindaco di San Giovanni Lupatoto e consigliere provinciale, Giuseppe Stoppato, è in una controllata di Amia, la Transeco; il compagno del già sottosegretario Francesca Martini in Acque Veronesi; il nipote di Giampaolo Sardos Albertini, esponente della Lista Tosi, assunto in Amia e infine la moglie di Flavio Tosi promossa da impiegata a dirigente in Regione». Bertucco sottolinea: "È la politica degli affetti. In alcuni casi non si tratta di reati ma di mancanza di decenza morale".
Deputati e senatori, consiglieri comunali, provinciali e sindaci di piccole città. Nelle carte delle procure del Nord, e non solo, sono finiti molti esponenti leghisti per corruzione o reati legati alla pubblica amministrazione. Ripudiati dal partito, molti hanno abbandonato l'attività politica. Ma c'è anche chi, con una condanna per stupro alle spalle, è pronto a ripresentarsi alle prossime elezioni amministrative. Dalla banca padana alle truffe sul latte. Quanti pasticci in casa del Carroccio secondo Walter Galbiati. Oltre all'inchiesta che sta facendo tremare i vertici del movimento, la Lega paga ancora i conti della sua sfortunata avventura bancaria alla fine degli anni '90. Sponsorizzata dall'allora capo di Bankitalia Antonio Fazio, alla ricerca di una sponda in Parlamento, e salvata dal 'furbetto del quartierino' Gianpiero Fiorani, Credieuronord, l'istituto di credito sognato dal Senatur, è naufragato poi tra i debiti. Colpa, anche, delle operazioni spericolate per nascondere il maxi raggiro da 100 milioni di euro da parte di allevatori vicini al partito. Prima di mettere gli occhi sul complicato mondo delle Fondazioni bancarie, i leghisti hanno cercato di farsi la banca in casa. Si chiamava Credieuronord ed è risultata poco più che una meteora nel firmamento degli istituti di credito. Nata nel 1998, finanziata da piccoli risparmiatori padani, l'istituto è andato pochi anni dopo in liquidazione. Da lì sono passate alcune torbide storie della finanza del Nord. Un tentativo di salvataggio dell'istituto era arrivato da Gianpiero Fiorani con la sua Popolare di Lodi, un gesto interpretato dalla procura di Milano, che indagava sulla scalata di Fiorani alla Banca Antonveneta, come "un favore" alla Lega per mitigare la posizione del partito contraria al mantenimento della carica di governatore della Banca d'Italia a vita, allora in discussione in Parlamento e ricoperta da Antonio Fazio, alleato di Fiorani. E' lo stesso banchiere lodigiano, nell'interrogatorio del 5 gennaio 2006 di fronte ai pm milanesi Greco, Perrotti e Fusco a spiegare cos'era per lui Credieuronord: "A Fazio serviva l'appoggio della Lega in Parlamento. Giorgetti si era impegnato a sostenere il governatore in cambio del salvataggio della banca". Ai leghisti, invece, come Giancarlo Giorgetti sarebbe servito salvare Credieuronord dal fallimento per coprire le operazioni spericolate dei vertici del movimento e le intermediazioni fittizie con le cooperative di allevatori create per nascondere la truffa delle quote latte non pagate. Qui nella banca padana vi erano i conti dei produttori del latte, vicini alla Lega, finiti al centro di più inchieste per una truffa da 100 milioni di euro attuata aggirando le normative europee, somme che dovevano essere versate all'erario, ma di cui si sarebbero appropriati gli stessi allevatori. Nel filone dell'inchiesta milanese, in primo grado è stato condannato a 5 anni e mezzo di reclusione Alessio Crippa, rappresentante di una cooperativa del latte e definito il 'Robin Hood'dei produttori. Con lui altri 15 allevatori e produttori a pene comprese tra uno e due anni e sei mesi. Il giudice ha imposto un risarcimento all'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) per 300 milioni di euro e ha confiscato beni per 18 milioni. La ricostruzione della vicenda, invece, si ritrova nelle motivazioni con cui il tribunale di Saluzzo ha condannato per truffa una sessantina di allevatori cuneesi, tutti soci delle cooperative Savoia fondate da Giovanni Robusti, leader dei Cobas del latte piemontesi e successivamente europarlamentare del Carroccio. I giudici Fabrizio Pasi, Fabio Cavallo e Fabio Franconiero raccontano così il raggiro: "Dal momento in cui gli allevatori fatturavano il latte che eccedeva le quote loro assegnate, venivano effettuate (dalla cooperativa) tre registrazioni. La prima estingueva il debito nei confronti del fornitore del latte facendo sorgere contemporaneamente un debito nei confronti degli organi competenti per il superprelievo (la multa n. d. r.). La seconda registrazione registrava lo spostamento del denaro dal conto della banca utilizzata dalle cooperative per incassi e pagamenti a un conto acceso presso la banca Credieuronord. La terza registrazione, che seguiva di pochi giorni le altre due, veniva effettuata in corrispondenza dell'uscita del denaro dal conto della banca Credieuronord". Il denaro tornava così agli allevatori che non pagavano la multa. Oltre ai soldi delle quote latte, da Credieuronord erano passati anche quelli dello "scandalo dei fallimenti" che hanno invischiato la commercialista Carmen Gocini e i fratelli Borra. Dalla banca sarebbero stati prelevati contanti la cui destinazione non è mai stata chiarita. L'architetto, gli imprenditori, il politico. Mazzette a Boni per sbloccare le pratiche, così come l’ha raccontata Emilio Randacio. Tutto comincia dalle rivelazioni di Michele Ugliola, ultimo pentito dell'inchiesta che ha toccato i vertici istituzionali del Consiglio Regionale della Lombardia. Agli inquirenti ha svelato il sistema-Pirellone: l'architetto faceva da mediatore con gli imprenditori, accordandosi con loro sulle cifre necessarie per velocizzare la autorizzazioni sulla riconversione delle grandi aree industriali. Il destinatario: l'esponente leghista, allora assessore all'Edilizia e al Territorio. "Sei o sette mazzette". Portate in una busta, all'undicesimo piano del Pirellone, direttamente negli uffici della segreteria dell'ex assessore regionale all'Edilizia e al Territorio, il leghista Davide Boni. Michele Ugliola, il pentito dell'ultima inchiesta che scuote la giunta del governatore lombardo, Roberto Formigoni, nemmeno se le ricorda più esattamente quelle mattina, quando metteva banconote di grosso taglio in una busta e bussava alla porta del capo segreteria del politico lumbard. Ricorda, però con precisione, come arrivavano quei soldi ("circa 300 mila euro in tutto incassati, oltre un milione e sei quelli promessi"). Era il passepartout necessario a sbloccare pratiche edilizie. Sesto San Giovanni, Santa Giulia, Lonate Pozzolo, fascicoli per convertire ex aree industriali che sarebbero ammuffite senza un occhio di riguardo. Almeno su sei pratiche, Ugliola incontrava gli imprenditori, li ascoltava e poi suggeriva la soluzione: ci vediamo con lo staff di Boni. Nel suo ufficio l'incontro, poi, tutti a tavola nel ristorante milanese specializzato in pesce, Riccione, dove Boni, secondo le parole di Ugliola, dettava le condizioni. La tariffa media erano 800 mila euro a pratica. L'architetto tuttofare, fatturava operazioni inesistenti dopate e una volta incassate ne retrocedeva in contanti in una busta, all'ufficio del leghista. "Ci trovavamo con il suo segretario alla mattina presto", ha svelato. Questo lo scenario che Ugliola, un passato da tangentista di provincia nel '96 a Bresso, nel milanese, (quella volta ha patteggiato meno di due anni). Verbali, almeno sei, riempiti davanti ai pm Alfredo Robledo e Paolo Filippini, per ricordare responsabilità, cifre, accordi sottobanco. E che sono costati un'indagine per corruzione per Boni, per il suo ex capo della segreteria, Dario Ghezzi (l'unico che si è dimesso), e una sua consulente. Accuse riscontrate già da una serie di fatture false acquisite agli atti, ma anche da altre confessioni. Come quella di un compagno di partito di Boni, il consigliere regionale Marco Paoletti. Un passato da assessore allo sport a Cassano D'Adda, al confine con Bergamo, e il vizio di spartirsi tangenti insieme alla sua giunta, in cambio di varianti ai piani regolatori.
PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!
“TERRONI FUORI DAI MARONI”
Sembra l’inno di vittoria di Roberto Maroni a discapito di Bossi e del suo entourage. Per il potere si passa sui corpi di figli ed amici: uguale come sempre; uguale come tutti. Italiani……
Certo. Quale è il collante tra i razzisti padani: l’odio per i meridionali. Per questo si svela il vero volto dei leghisti: prendersela sempre e comunque con i più deboli. Ed i più deboli nella Lega Nord Padania sono i rinnegati meridionali. Essi sono lo zoccolo duro del movimento, ma si sa, se lo vai a chiedere a loro quale sia l'origine dei loro cognomi, ti diranno: meridionale io? No! Forse i miei antenati. Così come ebbe a dire la Rosy Mauro, da poco emigrata al nord. Rosy Mauro, l’odierna appestata ed emarginata rappresentante leghista.
Aizzare la massa leghista alla secessione. Già. Ma quale? Si paventa una secessione non dal sud Italia ma tra gli stessi barbari (sognanti, si intende). Tutti contro tutti. Il passo indietro di Umberto Bossi dà il via alla guerra di successione nella Lega Nord: cerchisti contro maroniani (e viceversa), base contro dirigenti, ma anche veneti contro lombardi. Bobo Maroni deve fare i conti con quella parte della base che lo ha contestato in via Bellerio con dei volantini che rappresentavano il "bacio di Giuda" e una foto di un abbraccio di "Bobo a Umberto". I "cerchisti" sono rimasti sorpresi dalle dimissioni di Bossi che, a loro dire, le aveva escluse. Non sono soltanto le inchieste giudiziarie a preoccupare i 'lumbard'. Il futuro della Lega deve fare i conti con le fratture interne. Non ci sono più soltanto i 'maroniani' contro i 'cerchisti'; c'é la volontà di contare di più nel partito da parte dei veneti. In principio la Lega era Liga ed era “roba” veneta. Anche perché, a voler utilizzare la storia e i numeri come discrimine, in entrambi i casi i veneti sembrano avere qualche pretesa da accampare. La Liga Veneta, infatti, storicamente è arrivata prima della Lega Lombarda. Ed è stata prima fino al 1991, anno della fusione con i “lumbard” di Bossi. Sempre in Veneto la Lega ha il bacino elettorale indubbiamente più cospicuo: basta ricordare i plebisciti di Galan prima e Zaia poi in regione. E poi c’è il caso Treviso, la città, scrive sul Giornale Stefano Filippi “con più voti al Carroccio, più amministratori locali e più militanti”. C’è, però, poi un altro aspetto: il fronte “veneto” della Lega è tutt’altro che politicamente compatto. Ci sono sindaci “bossiani” come Massimo Bitonci e “maroniani” come Tosi. Ma soprattutto, quella della Lega veneta è una tradizione individualista “di cani sciolti”, ovvero di amministratori che hanno costruito il loro consenso sul territorio senza essere legati a questa o quella corrente. Come l’ex sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, detto lo “sceriffo” per l’atteggiamento decisionista e le sparate provocatorie. Leader, insomma, che funzionano nel “locale” ma che difficilmente possono pensare di dare la scalata a un partito.
Ma da Vittorio Veneto a Motta di Livenza, da Vedelago a Borso del Grappa serpeggia, sempre più forte, la voglia di staccarsi dalla Lega lombarda e riprendere il cammino della Liga veneta. In fondo, tutti i casini nascono tra i lumbard. Nel Veneto dove la Lega, alle Regionali 2010, ha contato 788.581 voti, cresce il desiderio di far da sè. Voglia di azzerare il patto federale del 1989, l’abbraccio con la Lega lombarda e piemontese che ha dato vita alla Lega Nord. Regalando due governatori e una messe di parlamentari, sindaci e amministratori, ma evidentemente intaccando la purezza del movimento.
Certo la purezza del movimento: via i terùn, ma anche i lumbard.
Lo scorso Natale 2011, quando il cerchio magico picchiava duro contro Roberto Maroni accusandolo di volersi prendere la Lega, l'ex ministro dell'Interno chiese un incontro alla moglie di Umberto Bossi. Lei, la signora Manuela Marrone, è indicata come fulcro del clan di Gemonio nonché vera leader del Carroccio. Alla fine, il faccia a faccia non si fece. La Manuela snobbò la richiesta di Bobo. I rapporti tra i due sono gelidi da tempo. L'ultima volta che si videro fu nel 2010, a casa Bossi, quando Maroni si presentò per portare il regalo di Natale a Umberto. Poi, il nulla. Solo frasi riportate e tanto veleno, con la signora pronta a ripetere al marito: attento a Roberto, vuole prendere i soldi della Lega e farsi un altro movimento. Gli stessi concetti venivano ripetuti al leader da Rosi Mauro e dagli altri esponenti del cerchio magico. Anche per questo Bobo ha deciso di non forzare la mano diventando capogruppo alla Camera al posto di Marco Reguzzoni. Per dimostrare di essere disinteressato ai quattrini (a Montecitorio il gruppo padano può gestire alcuni milioni di euro) lasciò campo libero al trevigiano Gianpaolo Dozzo, "accontentandosi" della testa del rivale Reguzzoni. In più, nonostante il passo indietro di Umberto e del Trota, pare che la famiglia del fondatore non voglia mollare. Tanto che all'inizio ha giustificato a Bossi senior lo scandalo dei rimborsi elettorali come una vendetta di Bobo, forte degli agganci con la magistratura e i servizi segreti che ha coltivato da responsabile del Viminale. E la base lo sa. La polemica è nata dalla contestazione di alcuni militanti in via Bellerio. "Traditore, traditore". Così i militanti hanno urlato a un'auto con i vetri oscurati che usciva dalla sede della Lega. I manifestanti pensavano che a bordo di quella macchina ci fosse Roberto Maroni. L'ex ministro dell'Interno, in lizza per la leadership del Carroccio e da tempo rincorso dalle voci sulla sua presunta volontà di voler scalzare Bossi, non si trovava però a bordo di quell'automobile. Il volantino - I militanti della Lega Nord, presenti fin dalla mattina di giovedì 5 aprile 2012 davanti a Via Bellerio per manifestare il loro sostegno a Umberto Bossi, hanno anche poi distribuito dei volantini sui quali era riportato un brano del Vangelo di Matteo e sul quale vi erano le foto del Senatùr e di Maroni, accostate a quelle di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Ossia una doppia versione del Gesù (Bossi e Berlusconi) e del Giuda (Maroni e Fini). Chiarissimo il testo che accompagna l'immagine: "Il traditore aveva dato loro un segno dicendo: 'quello che bacerò è lui, arrestatelo'. Subito si avvicinò a Gesù e disse: 'Salve rabbi'. E lo baciò".
Invece l’epilogo: vergogna padana, anziché orgoglio padano. Ma è proprio per la ricorrenza dell’orgoglio padano a Bergamo del 10 aprile 2012, armati di scope e ramazze, le camicie verdi chiedono di fare pulizia. "Sono giorni di passione, di dolore. Ma anche di rabbia e di onta perché trattati da partito di corrotti". Con queste parole Roberto Maroni sintetizza il clima che si respira nella Lega, sottolineando "l'orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e con la mafia". Il ritornello è uno solo: "Bisogna fare pulizia, chi sbaglia paga e chi ha preso i soldi li dovrà restituire". E così l'ex ministro, chiedendo di anticipare il congresso federale a giugno, snocciola uno ad uno i passi indietro, prima quello di Umberto Bossi e poi quello di Renzo Bossi. E tra la folla che fischia i nomi del figlio del Senatùr, quello di Francesco Belsito e quello di Rosi Mauro, Maroni annuncia: "Giovedì l'ex tesoriere sarà espulso e ci penserà la Lega a dimettere il presidente del sindacato padano che finalmente sarà guidato da un padano vero". Ed ecco dove si voleva arrivare: fuori i terroni dalla lega. Ed ai terroni ben gli sta di rinnegare le loro origini e di calpestare la dignità ed onore loro e della loro terra. Non solo loro rubano e la colpa la danno a “Roma Ladrona”. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ospite di Ballarò su RAI 3 sbotta: ma questi padani alla fonte del Po cosa bevono: acqua o grappa?? Esce il vero volto dei “duri e puri” polentoni: come se fosse cosa di cui vantarsi. Maroni gioca in casa a Bergamo, con la platea piena dei suoi sostenitori. Gli altri: epurati. "Da oggi si cambia", dice Maroni elencando le sue regole per una nuova Lega Nord: "Uno: i soldi alle sezioni e ai suoi militanti. Seconda regola: meritocrazia. Terza regola: largo ai giovani. Quarto: fuori chi viola il codice padano". Ma soprattutto - il più amato dei triumviri lo ricorda spesso - "la Lega non è morta e riparte da qui. Basta con la caccia alle streghe, con i complotti, con le scomuniche, con le fatwe e con i cerchi, ora è importante l'unità del movimento". E il Senatùr rincara la dose: "Vogliono dividerci per colpirci. Bisogna smettere di dividersi: crea varchi per il nemico, che è il centralismo romano". Bossi arriva a chiedere persino un giuramento "su chi deve dirigere la Lega, perchè non ci siano più discussioni nè divisioni". Poi aggiunge: "Il cerchio magico non esiste. Ora dobbiamo essere tutti uniti: noi non scompariremo, basta fare il gioco degli altri". Per quanto riguarda l'inchiesta, il leader della Lega è convinto che "le cose sono organizzate: è una specie di complotto. Quello che è avvenuto è il tentativo di distruggere la Lega. Non possono farla sparire per decreto e fanno il ragionamento: se togliamo i soldi del finanziamento...". E, dopo aver ricordato come Belsito è arrivato al Carroccio, Bossi commosso si è scusato con il popolo padano: "A me spiace non solo per la Lega ma anche per i miei figli. Chiedo scusa perché i danni sono stati fatti da chi porta il mio cognome". Si passa sui corpi di figli ed amici. Bah!
E insomma pare che Maroni si sia preso la rivincita di quando nel 1994, a un passo dall’espulsione, fu costretto ad un umiliante autodafe’, tanto da far dire alla Pivetti, allora ancora in auge, che sembrava un “rieducato di Pol Pot”. L’esibizione del feticcio Bossi sul palco di Bergamo costringendolo a umilianti pubbliche scuse è però al tempo stesso un segnale di forza e di debolezza. Il segnale di forza consiste appunto nell’esibizione del feticcio, a mo’ di burattino. Il segnale di debolezza risiede nel fatto che Maroni, per aspirare al comando, deve esibire il feticcio, per ottenerne, anzi estorcerne, l’investitura di fronte ai militanti. Insomma Maroni ammette implicitamente che non ha la forza, o la voglia, prendere il partito manu militari dimostrando, alla fin fine, di non aver capito la genesi dei problemi della Lega che risiedono, tra le altre cose, nel personalismo del partito, la cui transizione passa per investitura dall’altro, come in una monarchia, e non in una elezione dal basso. Il “cerchio magico” quale espressione della corte del principe ne è la conseguenza diretta, e il sostituire il despota rincoglionito con un sovrano sognante, non cambia i termini della questione, perché il sovrano necessita comunque di una corte e al “cerchio magico“ ben presto si sostituirà una “confraternita maronita“. Inoltre la questione è anche pericolosa per lo stesso Maroni. Basta guardare il povero Alfano, che dopo essere stato nominato, ha scoperto che gli manca quel quid per diventare effettivamente il leader del partito, nonostante gli innumerevoli guai del suo predecessore. Purtroppo per Maroni questa concezione è insita nella Lega fin dalle sue origini. Il “padroni a casa nostra” sottintende che il problema non e’ l’organizzazione della casa, ma il suo padrone, nella visione leghista. E così anche il loro tanto gabellato federalismo non è altro che una somma di centralismi regionali, che non intaccano i problemi della cosa pubblica della sua organizzazione, gestione ed efficienza, e infatti appena si sono assisi sulle cadreghe locali hanno cominciato a comportarsi come tutti gli altri.
Umberto Bossi e Roberto Maroni sono saliti insieme sul palco a Bergamo per la serata dell'orgoglio leghista e sono stati accolti dal coro "Lega" scandito dalla base. Insieme a loro, anche Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago, oltre al segretario provinciale di Bergamo, Cristian Invernizzi e il presidente della Provincia, Ettore Pirovano. I giovani padani si sono presentati con simboliche scope di colore verde, simbolo della pulizia che vogliono fare dentro al partito. "Sono giorni di passione - ha detto Maroni - di dolore ma anche di rabbia per l'onta che abbia subito per essere considerati un partito di corrotti, per Umberto Bossi che non si merita quello che è successo. Ho provato anche orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e la mafia. Da stasera noi ripartiamo con le nostre straordinarie battaglie. La Lega non è morta e non morirà mai. La Lega è potentissima, non ci sono cerchi che tengano". Il partito, ha aggiunto, dimetterà Rosy Mauro e venerdì espellerà Francesco Belsito. «Mi spiace che Rosi Mauro non abbia accolto la richiesta del nostro presidente, ma se non si è dimessa ci penserà la Lega a dimetterla - ha annunciato l'ex ministro dell'Interno - Così finalmente - precisa - forse potremo avere un vero sindacato padano, guidato da un padano vero». Maroni ha parlato poi del leader storico: "Umberto Bossi non si merita quello che è successo. Conosco Umberto da 40 anni e non c'entra niente". "Dobbiamo anticipare entro giugno il congresso federale per dare una guida salda alla Lega", ha proseguito. Poi è intervenuto Umberto Bossi che ha detto: "Siamo capaci di ripartire e siamo stati vittima di un complotto", ha detto l'ex segretario. "Penso che quando ci presenteremo davanti al Padreterno - ha insistito - ci chiederà quanto volte siamo stati capaci di ripartire. Questo vuol dire Pasqua: ripartenza. Siamo vittime di una specie di complotto, come è possibile che nessuno si è accorto che l'amministratore, come dicono ora alcuni, era vicino a famiglie mafiose". "'Non e' vero che Maroni sia un traditore, bisogna che si smetta di divedere la Lega: questo crea varchi per il nemico che è il centralismo romano. La cosa principale che dobbiamo decidere questa sera è un giuramento su chi deve dirigere la Lega, perché non ci siano più discussioni né divisioni", ha detto ancora. Ma un'ammissione importante il leader leghista l'ha fatta, scusandosi per il figlio Renzo: "Chiedo scusa perché danni sono stati fatti da chi porta il mio nome".
Intanto, dopo voci di imminenti dimissioni di Rosi Mauro da vicepresidente del Senato, è stata la stessa esponente leghista a smentire nella serata del 10 aprile 2012 a “Porta a Porta” di Bruno Vespa questa possibilità. «Perché dovrei? - ha detto nel corso della registrazione di 'Porta a Porta' - Innanzitutto voglio spiegare come stanno le cose e dire la verità, e poi vedremo -ha aggiunto - In questi giorni - ha proseguito - mi sono accorta del potere che ha l'informazione e ho il diritto di difendermi. Lo farò parlando in Aula in Senato. Non ho nulla da nascondere e ho tutte le prove per rispondere alle accuse». Rispondendo poi a una delle principali contestazioni ha sostenuto: «La Lega Nord non ha mai dato un euro a Rosy Mauro, ha fatto donazioni solo a Rosy Mauro in qualità di segretaria del Sindacato Padano. La direzione del partito era informata». Quanto all'accusa di essersi comprata una laurea in Svizzera con i soldi della Lega, la senatrice ha spiegato: «Non mi ha mai sfiorato l'idea». Mauro ha poi smentito che Pierangelo Moscagiuro sia il suo compagno. «Questa - ha risposto - è un'altra nefandezza, qui mi hanno colpito anche nella vita privata. E' assurdo ed è inconcepibile». Allo stesso modo ha negato di essere identificabile con "la Nera" delle intercettazioni telefoniche. «Altro non è che l'infermiera svizzera che segue Umberto Bossi da quando è stato male" e i "29 mila euro di cui si parla saranno i mesi che dovevano pagarle». Cosi Mauro smentisce tutto: la relazione con Pier Mosca, la laurea comprata in Svizzera, il nomignolo che le hanno dato. "Pierangelo Moscagiuro è il mio caposcorta, non è il mio compagno. Questa è un’altra nefandezza. Tutti questo è assurdo e inconcepibile. Questo lo vedremo in altre sedi". Così la vicepresidente del Senato, a Porta a Porta. "Questa vicenda ha fatto male a molte persone. Uno stillicidio e mi ha fatto male", ha aggiunto l'esponente leghista. Rosi Mauro ha ribadito che Moscagiuro "è il mio caposcorta, non è in aspettativa e non è stato assunto dal Senato". L'Italia ha scoperto dell'esistenza di Pier Moscagiuro, l'ex poliziotto diventato cantante (dal singolo Kooly Noody con Enzo Iachetti fino alle esibizioni sul palco in stile Elvis Presley) e soprattutto finito a libro paga della vicepresidenza del Senato. E Franco Bechis, in un articolo su Libero, ricordava anche i pettegolezzi che hanno coinvolto i due amanti: "E' sulla bocca di tutti il racconto di un giorno in cui i due, chissà come, fecero scattare l'impianto anti-incendio dalla stanza della vicepresidenza mettendo a soqquadro l'intero Senato". La hit di Pier Mosca è diventata un tormentone. Kooly Noody è cantata in duetto con Enzo Iachetti e fa parte dell'album "Tra dire e tradire". Il testo vorrebbe essere una sorta di denuncia sociale. Ma Pier Mosca risulta soprattutto uno dei beneficiari dei compensi girati del tesoriere Belsito. Nell'interrogatorio di Nadia Dagrada, segretaria amministrativa della Lega, viene fuori che al poliziotto sarebbero arrivati circo 60 mila euro per pagarsi diploma e laurea in Svizzera. Sempre la Dagrada lo definisce "amante" della Mauro. Poi la Mauro risponde sulla laurea farlocca: «Io ero asina a scuola. Mai sfiorata dall’idea di prendermi la laurea in Svizzera. Mai avuto contatti con la Svizzera». E anche sui presunti pagamenti a suo favore: «Mai avuto spese mediche pagate. Assolutamente no, è ridicolo». L'esponente leghista, poi, spiega che il nomignolo "La Nera" sarebbe un enorme malinteso: "Non sono io, sarà facile verificare che si tratta dell’infermiera svizzera che ha in cura Bossi da quando è stato male. Infermiera che si chiama Nera. E credo che quei 29mila euro siano la somma che dovevano da mesi a quell'infermiera". Insomma un nome proprio scambiato per un soprannome. "Da giovedì scorso ad oggi mi sono sentita messa in croce. Io non ho fatto niente, non ho niente da nascondere", ha concluso la Mauro.
Ed hanno ancora il coraggio e la faccia tosta di parlare, anziché coprirsi il viso dalla vergogna.
Alla manifestazione della Lega a Pontida erano presenti moltissimi cosiddetti padani, come se la Padania fosse uno stato e Ponte di Legno la capitale. Ciò nonostante la propaganda leghista si diverte a celebrare rituali e ad invocare la secessione. Lungi da noi l’idea di crederci, rimane comunque il fatto che tale invocazione, è musica per il popolo padano. Ma è veramente padano questo popolo o è invece per lo più, il popolo dei figli dei meridionali cresciuti in Padania?
Paradossalmente, non sono pochi i leghisti di origine meridionale (come lasciano intuire i loro cognomi) che, dopo aver vissuto il razzismo sulla loro pelle, a loro volta discriminano i nuovi arrivati.
Aljarida (in arabo “il giornale”) è un interessante periodico mensile free press, realizzato a Milano e giunto al suo secondo anno di pubblicazione. Interessante per varie ragioni: ricco di notizie sul territorio e le dinamiche dell’immigrazione (ma sempre senza retoriche ideologiche), informato sul dialogo culturale che intercorre fra le due sponde del Mediterraneo, e opportunamente scritto in due lingue: italiano e arabo. Ma la ragione per cui vi parlo di Al Jarida è anche un’altra: un articolo intitolato “Tutto il mondo è Paese”. Nell’articolo, che si può leggere sul numero di giugno 2010 della rivista, si spiega l’origine – araba in certi casi , “meridionale” in altri – dei cognomi di alcuni deputati leghisti. In sostanza, spiega l’articolo, quando nel 1492 i Mori vennero cacciati dalla Spagna (Al Andalus, l’Andalusia) alcuni fuggirono nella Repubblica di Venezia e in particolare in una città che faceva parte del suo territorio, Brescia. Così, i cognomi di molti bresciani hanno origini arabe. Per esempio quello dell’on. Gibelli, deputato della Lega Nord e Vice Governatore della Regione Lombardia non ha origini celtiche bensì arabe: molti Mori fuggiti dalla Spagna si rifugiarono infatti sulle montagne del bresciano e Gibelli deriva dalla parola araba giabali che significa appunto “montanaro”. L’articolo su Aljarida contiene anche altre stimolanti informazioni, fra cui una riguardante il nuovo Presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota: il suo cognome sembra derivare dall’arcaico albanese kota, termine diventato un cognome molto diffuso nel meridione d’Italia e sopratutto in Puglia e che – particolare curioso – in albanese significava “inutile, cosa da poco”. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Per noi è veritiera quest’ultima tesi, e molti dirigenti leghisti ne sono una prova. Il governatore del Piemonte Cota ne è una dimostrazione vivente, lui figlio di un avvocato di San Severo di Puglia, così come l’europarlamentare Speroni, pugliese anche lui e che dire della signora Bossi cofondatrice della Lega ma siciliana doc. Per non parlare poi dei diversi amministratori leghisti nei comuni, nelle province e nelle regioni, che sono nati o hanno genitori meridionali.
Diteci voi quindi se questo non è altro che razzismo dei razziati, che vi ha indotto a diventare meridionali leghisti, per una storia sottaciuta ai più e falsata nei giudizi della gente comune. Dalla rabbia verso un sud che non vi ha garantito benessere e occupazione, ai pregiudizi della gente del Nord, verso questo meridione inetto, assistenzialista, lamentoso e scarsamente produttivo. Dallo sfruttamento delle vostre braccia da parte degli industrialotti del nord, alle scritte sui ponti padani inneggianti all’eruzione dell’Etna. Capiamo che per sopravvivere a tale barbarie, non vi restava altro che emulare lo stile padano, al fine di non rimanere vittime di voi stessi, per il resto dei vostri giorni. E da qui, che le generazioni figli dei meridionali, hanno assunto verso il loro sud uno spirito ostile, credendo fino in fondo ai pregiudizi e a quel disprezzo leghista verso il povero meridione. Siete diventati i più spietati nemici del sud, ignorando però le ragioni storiche, sociali, culturali ed economiche che hanno reso il sud perdente verso il nord. Cari figli nostri del sud se solo conosceste la vera storia meridionale, il leghismo diventerebbe una barzelletta da raccontare in una serata goliardica con gli amici. Ma non preoccupatevi, se non l’hanno fatto i libri di storia, lo faremo noi il vero racconto del sud e dell’unità d’Italia armata. Vi racconteremo a puntate dai mille in poi. Per adesso cari Cota e c. cercate di liberarvi del razzismo dei razziati…..al resto ci pensiamo noi.
Tratto dal libro di Pino Aprile, Terroni, che vi invito a leggere: “Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie estive. Era cambiata: vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non suo, roteava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e alto. Parlava malissimo dei meridionali, con astio rovente e ridicolo. «Ma cosa fanno di così terribile?» le chiese mia madre, incuriosita. Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare una risposta. Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda: c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali? Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia: «Sporcano i monumenti». Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi. Quella mia cugina è leghista.”
E voi? quante “cugine leghiste” avete conosciuto? Io purtroppo un bel po', rinnegati/e che dopo una settimana che sono al nord parlano con accenti ridicoli ed usano i loro intercalari. Ebbene, mi chiedo se hanno il coraggio di dire ai loro genitori che si vergognano delle loro origini e della loro famiglia. E' vero, sarà perchè una volta non si "affittava casa ai terroni" e oggi "non si affitta casa agli stranieri", ma questa Lega, ha uno strano rapporto con quelli che chiamano con orgoglio 'terroni'. Prima li insulta in campagna elettorale, ma poi li sposa (vedi a casa Bossi), gli mette i soldi del partito in mano (vedi Belsito, nato a Genova, ma calabrese di origine) e ci fa affari e magari cerca anche qualche voto o accetta di 'mettersi a disposizione' (vedi mister 19mila voti Angelo Ciocca, eletto in regione Lombardia, non indagato dall'antimafia ma pizzicato in compagnia a Pavia di tale Pino Neri, oggi a processo a Milano per associazione a delinquere di stampo mafioso). Vedi magari anche quel "gamma" di Lecco, primo leghista eletto in un consiglio comunale nei primi anni '90 che, secondo le parole di un collaboratore di giustizia, spesso si incontrava col boss Franco Coco Trovato. Lo chiamiamo "gamma" perchè su di lui c'è aperta una indagine dell'antimafia di Roma, anche se l'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli ha candidamente ammesso di rispecchiarsi in quel personaggio tratteggiato nel libro "Metastasi" di Gianluigi Nuzzi. Sui terroni ci faranno le campagne elettorali insultandoli, ma poi li frequentano. E qualcuno frequenta pure quelli sbagliati... Ma secondo loro è un complotto dei poteri forti perchè si sono messi all'opposizione, e non una indagine partita dalle denunce di un militante indispettito dall'uso fatto dei soldi arrivati al partito dopo i rimborsi. Saperlo... che uno degli indagati della vicenda Belsito, avrebbe tra l'altro, stando alle indagini, favorito il clan calabrese della 'ndrangheta dei De Stefano...Fortuna che ci sono meridionali onesti, ma quelli evidentemente sono quelli di cui la Lega Nord non tiene conto.
Rosy Mauro, la leghista terrona che rinnega le origini meridionali. Rosy Mauro nata il 21 luglio 1962 a San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi, cresciuta nella provincia di Lecce a Squinzano e diplomata in ragioneria, nel 1980 si è trasferita a Milano per lavoro; ha iniziato l'attività sindacale in azienda nelle file della UIL a 21 anni. Nel 1990 è stata eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. La prima uscita, nel ' 90: "Vedete? Sono pugliese e leghista. Il Carroccio non ce l' ha con i meridionali". L' ultima uscita: "Mi iscrivo alla Guardia nazionale di Erminio Boso. Il Nord se ne va: diventa indipendente". Rosy Mauro fa la sindacalista ma soprattutto la leghista. La chiamano "la pasionaria del Carroccio": perchè corre, scrive, parla, si agita, si indigna, si arrabbia. Sempre in nome di Bossi. "Rosy è un vulcano", dicono gli amici. "Rosy è un vulcano", confermano i nemici. Per svegliare dal letargo la Lega milanese, Bossi l'ha appena nominata segretario cittadino. E così lei si ritrova con il triplo incarico: leader locale del movimento, consigliere comunale, attivista del Sal (il sindacato filo Lega). Schizza da una sede all'altra. Con un pensiero fisso: "Rilanciamo il "porta a porta" come facevamo una volta". Ma ora è proprio lei, la pasionaria, che fa tremare il Carroccio.
Per una strana storia di amicizie e di rifiuti. Rosy Mauro viene da Squinzano, nel Leccese: il padre lavorava in campagna e la madre alla Manifattura tabacchi. Arriva a Milano, entra in un'azienda metalmeccanica, si iscrive alla Uil. Ma il vero amore arriva nel' 90: si chiama Bossi. Prima si avvicina "in modo carbonaro", poi fa il grande passo: "Lasciai la Uil, delusa da Benvenuto, e abbracciai la Lega. Il primo obiettivo? Fare un sindacato regionale. Autonomista. Senza ordini da Roma". Guida le varie campagne leghiste, è dappertutto. Eccola, anni fa, ripresa dalle telecamere mentre fischia e urla contro il sindaco di Bologna Walter Vitali al congresso della Lega. Un putiferio. Tanto che lo stesso Bossi perde la pazienza: "Stavolta abbiamo esagerato". Nel febbraio del' 94 si fanno le liste per la Camera: Rosy Mauro, a sorpresa, non c' e' . Deve accontentarsi del consiglio comunale. E sempre con Bossi. Anche al processo Cusani. Anche in vacanza: la foto in piscina con il senatur, a Ponte di Legno, fa il giro dei settimanali. Si incatena davanti a Montecitorio per tre giorni e tre notti "per ricordare che il referendum sulle trattenute sindacali è stato calpestato". Passano quindici giorni e ricompare a Pontida: si iscrive alla Combat guardia nazionale. Diventa "legionaria" del senatur: "Saremo pronti a difendere la libertà del Nord. Ma anche a proteggere Bossi, perchè è il bersaglio numero uno: meglio vigilare prima che piangere dopo". l ritratto che i maligni fanno del Senatur Umberto Bossi, in questi mesi di crisi leghista culminati nell'indagine sui fondi "distratti" dal tesoriere Belsito dai rimborsi elettorali del partito, è quello di un uomo "stritolato" tra due donne di ferro: la moglie Manuela Marrone e quella che, sempre i "maligni", chiamano la "badante" del leader leghista. Due padane (la firma della Marrone compare sull'atto fondativo della Lega nel 1984, mentre la Mauro vanta un lunga militanza politica culminata nella vicepresidenza del Senato), ma anche due donne del sud: la Marrone per il padre siciliano e la Mauro per essere brindisina, di San Pietro Vernotico. Strano destino, quello del leader padano circondato da donne meridionali.
La moglie - Descritta come schiva ma decisa, raramente ha rilasciato interviste o fatto dichiarazioni. A qualche congresso è salita sul palco, ma sono stati episodi sporadici. Il suo impegno è tutto per la scuola Bosina di Varese, che, spiega il sito dell’istituto, lei «maestra di scuola elementare di lunga esperienza» ha fondato nel 1998. Sulla scuola nel 2010 ci sono state alcune polemiche per un finanziamento di 800 mila euro dal Governo. Di lei s'è parlato anche quando Gianfranco Fini, in rottura con Berlusconi e i suoi alleati, la definì una "baby-pensionata", in quanto destinataria di un assegno dal 1992. Sarebbe lei a indossare i pantaloni in casa Bossi, sopratutto da quando il Senatur è stato colpito dall'ictus dell'11 marzo 2004. E, secondo i ben informati, ci sarebbe lei dietro la nascita del cosiddetto "cerchio magico", ossia quel gruppo di fedelissimi che da qualche anno circonda Umberto Bossi e della quale Rosy Mauro è primo esponente. Come sarebbe stata lei a premere per l'avvio della carriera politica del primogenito Renzo Bossi, "Il Trota", approdato nel 2010 al Consiglio regionale della Lombardia.
La "badante" - Nel 1980 si trasferisce a Milano per lavoro e inizia l'attività sindacale nelle file della UIL. Dieci anni dopo viene eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. Consigliere comunale a Milano, dove è eletta nel 1993 col sindaco lumbard Marco Formentini, nell'aprile 2005 entra nel Consiglio regionale della Lombardia attraverso il listino (cioè senza prendere voti di preferenza) del Presidente Roberto Formigoni. Nel 2008 il grande salto a Roma, dove è eletta al Senato nella circoscrizione Lombardia e viene addirittura nominata vicepresidente dell'aula di Palazzo Madama. Epico l'episodio del dicembre 2010 quando, irritata per le richieste dell'opposizione utilizzare il voto elettronico per ogni emendamento al ddl Gelmini, ha disposto votazioni a raffica, suscitando le proteste dei senatori del centrodestra e perdendo il controllo dell'aula. Dopo il via libera a quattro emendamenti del centrosinistra, la seduta veniva sospesa e le votazioni riprendevano più tardi con presidente Renato Schifani a tenere le redini dell'aula di Palazzo Madama. Negli ultimi anni è stata una presenza costante in tutte, o quasi, le foto del Senatur.
Leghisti terroni. In Svizzera vincono gli slogan anti italiani. Forse questo signore non lo conoscete ancora. Ve lo presento. Si chiama Giuliano Bignasca. A dispetto del nome italianissimo, italiano non è. E' svizzero. E non è uno scherzo. Anzi. Contro gl'italiani ce l'ha assai. E su slogan fortissimamente anti-italiani ha fondato la sua campagna elettorale nel Canton Ticino. E già. Perché il Giuliano è il dux della Lega Ticinese. Che, udite udite, ha appena ottenuto un trionfo alle elezioni cantonali. Il successo è fondato su slogan e parole d'ordine che noi italiani conosciamo bene. Perché son gli stessi sui quali i primitivi lumbard hanno fondato la loro politica razzista, egoista e localista. Anti-italiana. Insomma. A farla breve. Il Giuliano sta alla Svizzera come l'Umbèrt sta all'Italia. Così si comprendono perfettamente valori e spessori della creatura in questione. C'è però una cosa che, nello squallore generale, mi fa davvero morir dal ridere. Che quando gli sfascioleghisti longobardi se la prendono coi terùn se la prendono, ovviamente, con noialtri. Ma quando il Giuliano se la prende coi suoi, di terùn, se la prende coi longobardi nostrani. In una parola. Coi leghisti. Buffo, eh? Molto, ma molto prima di quanto si potesse immaginare, la storia sta dimostrando definitivamente che il mondo è una gran palla. Nel senso che è rotondo. E così non è poi tanto facile individuare esattamente se noi stiamo a nord. A sud. O magari al centro. Perché la verità è che stiamo tutti a nord di qualche sud. E, naturalmente, stiamo tutti a sud di qualche nord. Da questa verità elementare dovrebbe discenderne un'altra, che purtroppo tanto elementare probabilmente non dev'essere, se così tante creature, in ogni parte del mondo, non riescono a comprenderla. Ossia che, in realtà, in quella gran clessidra che è il tempo umano siamo tutti, ma proprio tutti, piccolissimi granelli di sabbia che si ritrovano mischiati. Sballottolati diqquà e dillà. Disù e digiù. Che importanza può avere il vicino che il destino mi mette accanto, a condividere un pezzo di strada? Anzi. Siamo talmente tanto mischiati ed appiccicati. Le cose del mondo son così tanto interconnesse tra di loro. Che solo chi non ha capito proprio niente può essere convinto che sia possibile distinguere, con una linea. Una frontiera. Magari un dialetto. Il destino di coloro che, nella storia, camminano gomito a gomito. Davvero può essere ragionevole pensare che il destino del granello di sabbia che mi sta accanto non c'entra nulla con me. Davvero può essere ragionevole pensare che la sua sofferenza, come la sua felicità, siano qualcosa di staccato. Di avulso. Di indipendente? Ecco. Il Giuliano è l'esempio vivente di quanto il mondo sia rotondo. E di quanto giri, giri, giri senza posa. Da oggi, se vorrete, all'ennesimo imbecille insulto che faranno alla nostra meridionalità potrete rispondere con un altrettanto «terùn sarai tu». Tanto potete stare tranquilli. Un altro nord si trova sempre. Per tutti.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio. Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.
Conformità per conformità, l'omologazione appare su "Il Giornale". Allora, Salvini, le è piaciuto Benvenuti al sud? «Francamente mi aspettavo di più. Soprattutto di ridere e sorridere di più. Invece molte gag e alcuni passaggi mi sono sembrati un po’ scontati. Comunque, complessivamente è un film gradevole». Non sarà Renzo Bossi, il figlio di Umberto detto il Trota, con il quale il regista napoletano Luca Miniero avrebbe voluto assistere alla proiezione del suo film campionissimo d’incassi (vicino a 16 milioni e lanciato verso i 20) ma, quanto a uscite hard e sbandate antimeridionaliste anche Matteo Salvini non scherza. Trentasettenne, europarlamentare nonché capogruppo leghista in consiglio comunale a Milano durante un raduno a Pontida venne colto a cantare «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani…». «Un coro da stadio dopo una birra di troppo», minimizzò lui. Che però, pur smentendo qualsiasi relazione tra i due fatti, qualche giorno dopo si dimise da deputato e optò per il seggio di europarlamentare a Bruxelles. Al primo spettacolo del pomeriggio la sala non è pienissima. Ma a sentire le risate, il pubblico sembra divertirsi. Anche Salvini si lascia andare a qualche risolino. Nella parte iniziale del film, Alberto (Claudio Bisio), direttore dell’ufficio postale del paesino brianzolo, è intriso di pregiudizi e cultura leghista. La moglie Silvia (Angela Finocchiaro) fa parte della squadra di Rondinelle, le ronde al femminile, che perlustra quartieri immacolati. «Ma sì, ci può stare un po’ di presa in giro – accetta Salvini – anche se certi passaggi sono un po’ troppo caricaturali. I brianzoli vengono dipinti come gente che pensa al gorgonzola e all’aiuola di casa. Forse si poteva pensare a qualcosa di più elaborato. Ecco: diciamo che la storia è tagliata giù con il falciot». Però il giubbetto antiproiettile che Bisio indossa nel viaggio verso il Cilento ci può stare… «Diciamo che i numeri dimostrano che quando si va a Napoli e dintorni non si vive proprio in perfetta tranquillità», ammicca Salvini. «Detto questo, purtroppo la cronaca ci dice che i pirla e i delinquenti abbondano anche a Milano. Il giubbetto antiproiettile potrebbe essere dato in dotazione in tanti posti». Il Bisio cripto-razzista non scandalizza Salvini. Anzi, in alcune gag l’europarlamentare ha ritrovato un pezzetto della sua esperienza di deputato. Soprattutto quando arriva al sud e non capisce una parola… «Ricordo la difficoltà dei miei primi tempi a Roma, nei negozi, al ristorante. Restavo sbigottito». Quindi, nel film non c’è nulla che l’abbia particolarmente irritato. «Guardi, ho visto anche Cado dalle nubi di Checco Zalone, dove in un certo senso c’è il procedimento inverso, un pugliese che emigra a Milano e s’imbatte in alcuni ambienti leghisti, dipinti in modo un po’ gretto. Quello che conta è ridere da tutte e due le parti, anche dei propri difetti». Però. «Però, non c’è bisogno di andare a Napoli per trovare un po’ di sole. Da milanese, se vado a Recco trovo il sole, il mare. E anche la focaccia». Non dirà che non è mai andato in vacanza al sud: «Quando avevo quattro o cinque anni sono stato in Calabria e in Sicilia. Adesso alcuni amici mi hanno decantato e invitato in Salento. Non escludo di andare a verificare di persona. Una città che invece non è tra le mie priorità turistiche è proprio Napoli». Già, i napoletani puzzano. «Quello era e rimane un coro da stadio. Noi abbiamo la nebbia. Se dovessi scegliere le mie mete meridionali punterei sempre sulla Sicilia e la Puglia». Il regista Luca Miniero ha detto che «quelli del Nord sono bravi a fare i razzisti solo da lontano». «Grammaticalmente, razzismo significa sentirsi superiori agli altri. Penso che non ci sia nessuno così stupido da ritenersi superiore. Ma quelli che vengono considerati luoghi comuni spesso sono fatti facilmente riscontrabili». Per esempio? «Beh, s’infervora Salvini: «Il numero dei falsi invalidi nelle province della Campania, l’assenteismo per malattia, il numero esorbitante di dipendenti pubblici: tutti fatti comprovati. Qui il razzismo non c’entra. E poi solo a Napoli esiste un movimento che si chiama Disoccupati organizzati». Meglio organizzati che sbandati. Comunque, a proposito di pregiudizi, pensa che anche a lei qualche volta potrà capitare di ricredersi? «Ho sbagliato tante cose e altre ne sbaglierò ancora», concede Salvini. «Per esempio, a Milano molti dei migliori militanti leghisti, vengono dalla Puglia o dalla Calabria. Ciò che fa la differenza non è il luogo di nascita di una persona, ma il modo di ragionare che non dipende solo dalla latitudine. Detto questo, non cambierei Milano, la sua cultura e la sua filosofia del vivere per niente al mondo». Qualcuno dei militanti leghisti di origine meridionale potrebbe venir buono per il seguito, Benvenuti al nord. Salvini teme che vengano rispolverati i soliti luoghi comuni dei «nordisti razzisti e un po’ polentoni». Ma lui un’idea ce l’ha: «Lo ambienterei a Chiavenna in Valtellina. Ma va bene anche a Bergamo o a Varese, dove la Lega ha il 40 per cento». A proposito di Benvenuti al nord, il sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo ha respinto il set di una commedia in cui Abatantuono è un imprenditore ostile agli extracomunitari. Ma dopo che una tromba d’aria allontana tutti gli immigrati della zona e l’economia locale entra in crisi perché i pomodori marciscono nei campi e le fabbriche rallentano la produzione, la faccenda si complica. Il film si girerà a Bassano del Grappa, ma a Treviso c’è chi si lamenta per i mancati introiti. «Non so bene quali siano i veri motivi della decisione del sindaco di Treviso», premette Salvini. «Certamente, respingere la produzione di un film importante può penalizzare l’economia locale. Ma credo che, ormai, città come Treviso o come Verona, sempre dipinte come culle di razzismo, siano stanche di essere usate per alimentare questa fama». Già, i razzisti stanno tutti al nord. Tornando a Bisio, come si spiega il successone di Benvenuti al sud? «È una parodia, una favola che può mettere di buonumore. Però non mi sembra un capolavoro. Ecco, diciamo che Amici miei è un’altra cosa».
CHI DI SPADA FERISCE, DI SPADA PERISCE.
I Media: Lega Nord Padania Ladrona. Giornali e tv ne parlano: Non solo Roma ladrona, ma anche Padania ladrona.
IL CASO. Bufera sulla Lega, il tesoriere va via. "Denaro pubblico alla famiglia Bossi". Le accuse dei magistrati: truffa ai danni dello Stato e finanziamento illecito ai partiti. "Elementi di opacità nella tesoreria del Carroccio fin dal 2004". Al lavoro le Procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria. Contatti con la 'ndrangheta. Maroni: "Adesso facciamo pulizia nel partito". Il resoconto di Emilio Randacio su “La Repubblica”. Soldi pubblici gestiti "nella più completa opacità" da almeno otto anni, tanto da far sorgere il sospetto che siano andati a coprire le spese personali, cene, alberghi e viaggi dei figli di Umberto Bossi - tra cui Renzo, 'il Trota', sovvenzionato anche per la campagna elettorale - e della senatrice Rosy Mauro, ma anche la ristrutturazione della villa di Gemonio del leader del Carroccio. Fondi che sarebbero stati "sottratti" alla casse della Lega pure per prendere il volo verso la Tanzania e Cipro con investimenti su cui ora la magistratura vuole vederci chiaro. Così come vuole analizzare a fondo quei rendiconti elettorali, pare truccati, che hanno tratto in inganno i presidenti di Camera e Senato, cioè coloro che li hanno certificati dando il via libera a finanziamenti, come l'ultimo da circa "18 milioni di euro", irregolari. Dopo le presunte tangenti del caso Boni (Davide, il presidente leghista del consiglio regionale lombardo), arriva un'altra batosta che colpisce al cuore il Carroccio. Questa volta a finire nelle maglie della giustizia è Francesco Belsito, diventato non solo sottosegretario nell'ultimo governo di Silvio Berlusconi, ma tesoriere della Lega. Belsito si è visto piombare negli uffici milanesi di via Bellerio - crocevia di tre inchieste: una di Milano, una di Napoli e una di Reggio Calabria - la guardia di finanza e i carabinieri del Noe. Nell'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini, è accusato, assieme agli imprenditori Stefano Bonet (già in affari con l'ex ministro Aldo Brancher) e Paolo Scala, di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. Belsito è arrivato in serata nella sede della Lega in via Bellerio a Milano e ha presentato le dimissioni. Il passo indietro era stato auspicato da diversi esponenti del partito, dopo le perquisizioni e la notizia delle indagini, a cominciare dall'ex ministro Roberto Maroni. Che commenta: "E' una buona notizia, adesso bisogna andare fino in fondo e fare pulizia dentro il partito, cominciando dalla nomina di un nuovo amministratore capace di aprire tutti i cassetti". Dopo le dimissioni non sono state avanzate, per ora, ipotesi riguardo a una sostituzione o alla nomina di un commissario: sarà il consiglio federale a deliberare sulla questione. "Visto che è stato tirato in ballo il nome di Umberto Bossi mi sento di escludere in maniera assoluta ogni suo coinvolgimento", è stato invece il commento del governatore lombardo Roberto Formigoni. Sulla stessa lunghezza d'onda l'ex premier Silvio Berlusconi: "Chiunque conosca Umberto Bossi e la sua vita personale e politica, non può essere neanche lontanamente sfiorato dal sospetto che abbia commesso alcunchè di illecito. E in particolare per quanto riguarda il denaro della Lega, del movimento al quale ha dato tutto se stesso. Perciò esprimo a Umberto Bossi la mia più affettuosa vicinanza". "Altro che Roma ladrona. Alla fine i nodi vengono sempre al pettine - ha invece commentato Felice Belisario, presidente dei Senatori dell'Italia dei valori - La Lega, che si è sempre messa sul piedistallo dell'integrità morale, adesso si ritrova nei guai fino al collo". Due i filoni su cui i pm del capoluogo lombardo da tempo, anche in seguito alla denuncia di un militante della base leghista, hanno acceso i riflettori: il primo riguarda i fiumi di denaro finiti nelle casse del partito fondato da Bossi presentando rendiconti, questa l'ipotesi, "irregolari"; il secondo la "distrazione" di parte di quei fondi, alla fine dello scorso dicembre, da parte del tesoriere, non si sa in base a quali poteri statutari, per acquisire tramite la Banca Aletti (dove la Lega ha un conto corrente) quote in un fondo Krispa a Cipro e quote in un fondo in Tanzania per circa "6 milioni". Operazioni, queste, avvenute per gli inquirenti con la complicità dei due imprenditori. E proprio uno dei due imprenditori è anche complice di Belsito nella vicenda, autonoma rispetto a quella sull'andirivieni dei finanziamenti pubblici alla Lega, che riguarda la Siram, multinazionale che si occupa di energie rinnovabili e servizi ambientali, anch'essa perquisita dalla guardia di finanza. Dai primi accertamenti, fra il 2010 e l'anno scorso, i due avrebbero architettato una maxi truffa che, grazie a un giro di fatture false, avrebbe consentito al colosso di usufruire in modo indebito di un credito di imposta pari al 40 per cento dei costi sostenuti per l'attività di ricerca e sviluppo. E Belsito in questo caso si sarebbe speso come "procacciatore d'affari" in virtù delle sue relazioni politiche, perché anche sottosegretario. Ma il capitolo che ha provocato un terremoto in via Bellerio, dove i militari hanno sequestrato carte e pc in vari uffici - compresi quelli di Daniela Cantamessa, una delle segretarie di Umberto Bossi, e di Nadia Dagrada, dirigente amministrativo e responsabile del settore gadget, acquisendo anche documentazione sul Sindacato padano, fondato da Rosy Mauro - è quello, come si legge nel decreto di perquisizione, che riguarda la gestione della tesoreria del partito "avvenuta nella più completa opacità fin dal 2004". Una "gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito", soldi pubblici provenienti dal 4 per mille dell'Irpef o sotto forma di rimborsi elettorali, che, come emerge da una serie di intercettazioni riportate in un'informativa del Noe (a coordinare le indagini è il 'capitano Ultimo', lo stesso che catturò Totò Riina), Belsito avrebbe anche usato per contribuire alle spese per gli svaghi dei figli del Senatur, ma anche in parte per la moglie di Bossi e per Rosy Mauro (non sono indagati): cene, alberghi e viaggi. E la ristrutturazione della villa di famiglia a Gemonio: in un'intercettazione si sente dire che quelle spese vanno a finanziare "i costi della famiglia". In sostanza ci sarebbe stata una sorta di viavai di denaro e il tesoriere, che è stato anche nel consiglio di amministrazione di Fincantieri, avrebbe a volte anche versato sui conti della Lega soldi "in misura superiore ai redditi da lui percepiti" - altro punto di indagine su possibili fondi neri - o prelevato in banca somme in contanti, come i 95mila euro del dicembre 2010 con giustificazione "alimentare la cassa del partito". E poi ancora quei 6 milioni sottratti per essere dirottati negli investimenti in Tanzania e a Cipro e che Belsito dice di aver restituito alla Lega ma su cui gli inquirenti, che hanno sentito numerosi testimoni, tra cui pare anche la stessa segretaria di Bossi, vogliono far luce. Così come vogliono fare chiarezza sui rendiconti per le spese elettorali finiti alla presidenza di Camera e Senato per il via libera ai rimborsi. Sull'ultimo, quello alla base dei 18 milioni erogati ad agosto, ci sono seri dubbi: si riferisce al 2010 e - scrivono i pm negli atti - "vi è la prova della falsità".
L'INCHIESTA. Triangolazioni sospette per milioni. E con Belsito spunta la 'ndrangheta. E' a Reggio Calabria uno dei tre filoni dell'inchiesta sul tesoriere leghista. Giri di fatture e compravendite sospette con società in tutta Italia e un faccendiere in rapporti con il potente caln dei De Stefano. Il reportage di Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Il terremoto giudiziario nella Lega arrivato con l'avviso al tesoriere Belsito e il blitz nella storica sede milanese di via Bellerio, è partito seguendo un sospetto personaggio calabrese. Su Belsito sono ben tre le inchieste aperte: Milano, Napoli, Reggio Calabria. A lui la Dda di Reggio è arrivata seguendo gli affari di Romolo Girardelli, un procacciatore di business in odore di 'ndrangheta. Girardelli, o meglio "l'ammiraglio", come lo chiamavano nell'ambiente, nel 2002 era stato indagato per associazione di stampo mafioso. Gli investigatori lo ritengono vicino ai vertici del clan "De Stefano", famiglia potentissima della città dello Stretto con interessi in Liguria e Francia. Il faccendiere fin dal 2002 è legato a Paolo Martino e Antonio Vittorio Canale, braccia economiche della cosca. Il Pm reggino Giuseppe Lombardo e gli specialisti della Dia gli stavano dietro da tempo, nella speranza di mettere le mani sul tesoro della "famiglia". Una pista buona, che ha poi portato a scoprire anche i rapporti tra la presunta testa economica dei De Stefano e il tesoriere della Lega. Girardelli, secondo l'inchiesta, di affari ne aveva procacciati anche a Belsito, all'imprenditore Stefano Bonet e all'avvocato Bruno Mafrici. "L'ammiraglio", oltre che broker era socio di fatto di Belsito in una immobiliare con sede a Genova. Ma non è tutto, perché gli inquirenti hanno ricostruito una serie di passaggi milionari tra grandi società che si occupavano di consulenza e ricerca. Affari per diversi milioni di euro che consentivano utili sotto forma di crediti d'imposta. Giri di soldi e di "regali" che coinvolgono direttamente il tesoriere della Lega e alcuni altri manager di grandi aziende. C'è ad esempio il caso della Siram che "acquista" servizi per circa 8 milioni dalla Polare del gruppo Bonet (di cui Giradelli è responsabile della sede genovese). La Polare poi è in affari con la Marco Polo da cui compra consulenze per 7 milioni. Ed è attraverso quest'ultima che la stessa cifra torna nuovamente a Siram. Un triangolo strano per i magistrati reggini, che ritengono che nei diversi passaggi alcune centinaia di migliaia di euro restino impigliate in diverse mani. Tra queste quelle di Belsito. L'inchiesta accerta che gli vengono liquidate circa 250 mila euro in due trance. Un caso analogo è quello che coinvolge Siran, Polare e Fin.tecno. Sono 8 gli indagati dell'inchiesta che si muove su tre diversi filoni. Quello reggino che riguarda gli interessi della 'ndrangheta, quello milanese legato a Belsito al riciclaggio e all'appropriazione indebita e quello napoletano dove ha sede una delle società coinvolte nel giro. Le ipotesi di reato sarebbe la truffa allo Stato per i falsi crediti d'imposta e il finanziamento illecito dei partiti oltre che riciclaggio di denaro su conti esteri.
Tre procure contro Belsito: "Soldi pubblici ai Bossi". I pm di Milano, Napoli e Reggio Calabria accusano il tesoriere Belsito di aver truccato i bilanci. Viaggi per i figli e Rosi Mauro, fondi per il Trota e per la casa di Gemonio. Il resoconto di Luca Fazzo ed Enrico Lagattola su “Il Giornale”. Spericolati investimenti, false fatturazioni, denaro che viaggia estero su estero, bilanci truccati, fondi neri destinati al vertice del partito, pericolosi (e per nulla padani) legami con la ’ndrangheta. È un uragano giudiziario quello che ieri si abbatte sulla Lega Nord. Il Carroccio finisce nel fuoco incrociato di tre Procure: Milano, Napoli e Reggio Calabria. La sede del partito, in via Bellerio, viene perquisita dalla Guardia di finanza (che porta via documenti del Sinpa, il sindacato di cui è segretaria Rosi Mauro), così pure la segretaria personale di Umberto Bossi, Daniela Cantamessa. Undici gli indagati, dalla Lombardia alla Campania, dal Veneto alla Calabria. E su tutti spicca il nome di Francesco Belsito, il tesoriere del partito, che si è dimesso ieri sera. Il cassiere del Carroccio è sotto inchiesta per appropriazione indebita, truffa, riciclaggio e finanziamento illecito. È lui, secondo i magistrati, ad aver «gestito nella più completa opacità la tesoreria della Lega fin dal 2004». È ancora lui, spiegano i pm, ad alterare la contabilità del partito. Ed è sempre Belsito a impiegare i soldi pubblici sfilati alle casse del Carroccio «per le esigenze personali dei familiari del leader della Lega Nord». Umberto Bossi non è indagato. Ma l’ultimo siluro è per il Senatùr. L’inchiesta della Procura di Milano - coordinata dai pm Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Roberto Pellicano e condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria- parte da alcune operazioni sospette che riguardano gli investimenti di Belsito, denunciate da un militante leghista il 23 gennaio scorso, e prende di mira proprio gli investimenti del Carroccio in Tanzania e a Cipro. Denaro che, secondo gli inquirenti, non si sarebbe in realtà fermato nel continente africano né nell’isola del Mediterraneo, ma avrebbe preso la strada di ritorno per tornare nella disponibilità del tesoriere. L’indagine milanese si incrocia con quelle dei carabinieri del Noe, coordinata dalla Procura di Napoli, e della Dia di Reggio Calabria. Dal Noe negli uffici milanesi arriva un documento che «fornisce elementi inequivocabili sul fatto che la gestione della tesoreria della Lega Nord è avvenuto nella più completa opacità fin dal 2004 e comunque, per ciò che riguarda Belsito, fin da questi ha cominciato a ricoprire l’incarico di tesoriere». «Egli - si legge negli atti - ha alimentato la cassa con denaro non contabilizzato e ha effettuato pagamenti e impieghi anch’essi non contabilizzati o contabilizzati in modo inveritiero». Quali? Nelle intercettazioni telefoniche, viene fatto riferimento ai «costi della famiglia». La famiglia di Umberto Bossi. «Tali esborsi- insistono i pm- vengono effettuati per esigenze familiari del leader della Lega Nord», in «contanti o assegni o contratti simulati». Cene, alberghi, viaggi per la moglie e i figli del Senatùr, per Rosi Mauro, e per la campagna elettorale di Renzo Bossi (consigliere regionale in Lombardia dal 2010), per ristrutturare la villa di Gemonio. La truffa allo Stato viene contestata perché «il rendiconto della Lega è inveritiero, non dà conto della reale natura delle uscite, né della gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito». E non è un dettaglio da poco. Perché i rimborsi elettorali vengono calcolati in base alla validazione del rendiconto da parte degli organi di revisione del Parlamento. E per il bilancio 2010 (ritenuto truccato dai pm) lo scorso anno al Carroccio sono stati riconosciuti rimborsi per 18 milioni di euro. Da Pontida a Dodoma (capitale della Tanzania), esisterebbe un link. Ed è qui che entra in scena un secondo indagato: Stefano Bonet. Di chi si tratta? Bonet è un commercialista tuttofare, sotto inchiesta oltre che a Milano anche a Napoli ( pm John Woodcock e Vincenzo Piscitelli) e Reggio Calabria (pm Giuseppe Lombardo). È Bonet a intrattenere i rapporti con la Siram spa, colosso dei servizi energetici con sede nel capoluogo lombardo, controllata dai francesi di Veolia e Edf, che nell’inchiesta svolge un ruolo chiave. Dai fondi neri creati da Siram attraverso Bonet, e in parte ceduti allo stesso Bonet, provengono probabilmente i fondi occulti della Lega. Nell’inchiesta la Siram viene definita «la lobby di Giovanni Pontrelli»,il suo direttore generale, che avrebbe versato a Belsito 250mila euro. Tra gennaio e febbraio 2010, le società Polare e Marco Polo Tecnhology- di cui Bonet era amministratore - realizzano «movimenti circolari di denaro fittiziamente giustificati con fatture relative a costi per investimenti in ricerca e sviluppo ». Più precisamente, «la Siram aveva versato alla Polare una somma di 5 milioni di euro dei quali era rientrata in possesso attraverso pagamenti effettuati ad altre società, tutte legate al “gruppo Bonet”». Quei soldi, per il commercialista, sarebbero arrivati grazie al «patrocinio politico» di Belsito, sponsor di un fantomatico «progetto Sirio ». In cambio il tesoriere della Lega ottiene che l’investimento a Cipro venga effettuato tramite Bonet su un conto gestito da Paolo Scala (indagato), che a Larnaka fonda la Krispa Enterprises. Tra il 27 e il 28 dicembre 2011, da uno studio milanese, Belsito fa partire i soldi destinazione Cipro: ma invece del milione e duecentomila euro concordati ne spedisce il quadruplo, quattro milioni e otto. «Devono essere semplicemente parcheggiati, poi andranno dove devono andare », si legge in una intercettazione. Scala e Bonet ne parlano allarmati qualche giorno dopo. E Bonet rivela che i soldi sono del «gruppo», cioè della Lega. Scala: «Non so cosa sia, lui (Belsito, ndr ) mi ha detto che escono da lui». Bonet: «Devono essere del gruppo quelli».«Dobbiamo andare a fare un po’ di giri per andare a creare quelle strutture necessarie per andare a segregare questi importi e per pilotare gli investimenti. Non è che domattina viene fuoriuna fogna e andiamo a finire tutti... ». Infatti.
Secondo di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano” qualcuno dice che la Lega è cambiata nel 2000, quando decise di riappacificarsi col Cavaliere. Di sicuro è mutata dall’11 marzo 2004 in poi, quando Umberto Bossi rischiò di morire. È da quella mattina che sulla scena piomba la famiglia del Senatur. Gli inquirenti che ieri hanno perquisito la sede di via Bellerio parlano di «gestione opaca» proprio a partire da lì. Dal 2004 è salita sul ponte di comando Manuela Marrone. È la maestra di origini siciliane che ha sposato il capo lumbard il 12 gennaio 1995 a Palazzo Marino, con la benedizione di un commosso Marco Formentini. Con l’ex ministro in ospedale, parecchi scommettevano sullo sgretolamento del movimento. È andata diversamente. Il fortino di via Bellerio ha retto perché il potere non è scivolato lontano da Gemonio. “La Manuela” ha tutelato il marito tagliando i contatti col mondo, a eccezione di pochi privilegiati. È in quelle fasi drammatiche che nasce il cosiddetto cerchio magico, ovvero il gruppo di fedelissimi in stretto contatto con il leader e i suoi familiari. All’inizio ne fa parte pure Giancarlo Giorgetti, il segretario della Lega Lombarda con cui i rapporti si sono poi raffreddati. Stesso discorso per Roberto Cota. Marco Reguzzoni, allora presidente della Provincia di Varese, era uno dei pupilli della signora Bossi e lo è tuttora. Rosi Mauro, l’anima del sindacato padano (Sinpa), è nelle grazie di Manuela e scala in un amen le gerarchie del partito, fino a quando – con Umberto che torna sulla scena – gli s’appiccica nelle uscite pubbliche. Nel 2007 acquista casa davanti alla villa del Senatur a Gemonio. Bossi sta male a marzo, dicevamo. A novembre dello stesso anno il Parlamento europeo assume come assistenti di Francesco Enrico Speroni e Matteo Salvini il fratello del capo padano, Franco, e il figlio primogenito di Bossi, Riccardo (il pilota di rally avuto con Gigliola Guidali). Nella Lega spunta per la prima volta un’accusa sanguinosa e collegata al suo capo: nepotismo. Nulla, in confronto ai veleni delle ultime ore. Nell’informativa del Noe si parla di denaro che sarebbe stato utilizzato dai familiari del leader e dai suoi strettissimi collaboratori (tra cui la Mauro) per alberghi, cene, viaggi. C’è la ristrutturazione della villa di Gemonio e la campagna elettorale del Trota. Una storiaccia. E che - se confermata - sarebbe ben più grave dell’affaire Montecarlo che investì Gianfranco Fini. Pochi anni fa erano state le disavventure scolastiche di Renzo a riempire i giornali. Prima viene bocciato a 15 anni. Poi rifà due volte la maturità. Nell’ultimo caso decide di presentare ricorso. È il leader ad annunciare in un comizio: «Renzo ce l’ha fatta». Non si sa dove. In Italia o all’estero? «Quando stava male mio padre, avevo i giornalisti che mi aspettavano fuori da scuola. Da lì decisi di non dare più certe informazioni» spiegò il Trota a Libero nell’ottobre 2010. Il mistero rimane, anche perché il diploma non s’è mai visto. Nel 2005, ancora ragazzino, aveva fatto la prima apparizione pubblica con papà. Si affacciò dalla casa di Carlo Cattaneo, in Svizzera, per urlare alla piazza: «Padania libera!». Da lì iniziò a essere sempre più presente. Non solo nei comizi. Pure a Roma. Nei vertici di governo. A casa Berlusconi. Quando il Corriere gli dedica una paginata, la madre s’inalbera perché non lo vuole così esposto. Bossi smorza: «Lui mio delfino? Al massimo è una trota». Nasce il nomignolo. Nel 2010, però, Renzo finisce al Pirellone incassando quasi 13mila preferenze. Nel frattempo il cerchio magico cambia ma prospera. Vi fanno parte anche il capogruppo a Palazzo Madama Federico Bricolo e, naturalmente, il tesoriere Francesco Belsito. I rapporti nel movimento si fanno sempre più tesi. È gelo soprattutto con Roberto Maroni. La famiglia lo accusa di volersi prendere la Lega sfilandola a Umberto. Renzo nega l’esistenza del cerchio: «Qualche giornalista ha la sindrome Tolkien» dice a fine 2010. Nel novembre 2011 cambia idea: «Non esistono più né cerchisti né maroniani, è tutto a posto». Nel frattempo, alcuni vecchi amici di Umberto faticano addirittura a parlargli, tanto è impenetrabile il cordone di sicurezza che lo circonda. Per esempio, si raffreddano i rapporti con Bruno Caparini, il padre del deputato Davide e che ospita il segretario a Ponte di Legno. Il Trota, approdato al Pirellone, è sempre più al centro della scena. I militanti s’arrovellano: era giusto candidarlo? Di sicuro sono fioccati veleni, con l’assessore lombardo Monica Rizzi accusata di aver fatto confezionare dossier per attaccare altri padani e favorire l’ascesa del rampollo. Il Trota gira con un suv Bmw (intestato a lui) e su un’Audi A5 che risulta di una concessionaria comasca. Vive tra Gemonio e Milano. Spesso si fa vedere a Brescia e sul lago di Garda. Ha frequentato anche alcune vippine da tv. È amicone di Valerio Merola. All’ultimo congresso di Varese l’hanno fatto risultare militante anche se non lo era. Condizione che ne avrebbe dovuto impedire la candidatura alle regionali. Il fratello Roberto Libertà, studente d’Agraria, vive a Gemonio e spesso bazzica una cascina ristrutturata a Brenta, Varese. Eridano Sirio, il più piccolo, è ancora lontano dai riflettori. C’è curiosità per i legami tra Belsito, il tesoriere che ha lasciato l’incarico ieri sera, e la famiglia. Gli inquirenti hanno dato un occhio pure alla Pontida Fin, cioè lo scrigno della Lega. Contiene gli immobili del partito. Tempo fa, all’amministratore unico Ugo Zanello arrivò la richiesta di trasferire le proprietà a una fondazione. Nel luglio 2010, con la Lega al governo, spuntano 800mila euro di finanziamento per la scuola Bosina di Varese, quella della signora Marrone. È lei che, col passare del tempo, è sempre più indigesta alla base. Soprattutto, non la sopportano i militanti che guardano a Maroni. Però, quando a settembre il berlusconiano Panorama spara un articolo che descrive i malumori nei confronti della signora (definita «terrona», mentre la Mauro è «la badante»), tutta la Lega s’inalbera. Ieri sono stati perquisiti anche gli uffici del sindacato padano, che in serata ha parlato di «fraintendimento». Si fa un gran chiacchierare di una sede in Sardegna: sarà vero? Dal canto suo, la Marrone incassa ma resta nell’ombra. In pubblico non parla mai. Neanche con i media di partito. Quelli che, nel febbraio 2011, erano stati affidati alla supervisione di Renzo Bossi. Papà ne fu felice. I professionisti che ci lavorano e i militanti, un filo meno.
Eccola qui, la vera Lega, presentata da Daniele Sensi.
I figli degli immigrati? «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Il piano svuota carceri? «Lo facciamo noi con un mitragliatore dal balcone». Napolitano? «Un terrone del cazzo, gli ci vorrebbe un colpo in testa». E' il gruppo su Facebook 'Padani si nasce', a cui aderiscono anche i parlamentari Reguzzoni, Rondini, Fugatti, Mura, Pittoni e Stiffoni. Eros Domenico è un militante leghista. Il suo profilo Facebook è una profusione di foto di cene e di manifestazioni del Carroccio. Maglietta col Sole delle Alpi addosso, ama ritrarsi al fianco di Matteo Salvini o ai piedi di una qualche statua dell'Alberto da Giussano. Ha un'opinione su tutto: sul piano "svuota carceri" («mi trasformo in cecchino con un bel mitragliatore sul balcone e via con lo show»); sulle origini meridionali di Giorgio Napolitano («Napoli merda, Napoli colera») e sui due cittadini senegalesi uccisi martedì scorso a Firenze: «Meglio così, due in meno da mantenere». Sempre su Facebook, ha fondato "Padani si nasce, cuore leghista", gruppo - chiuso e riservato - dell'orgoglio padano. Ne fa parte anche Giovanna, bresciana, «casalinga, moglie e mamma», immagini di Topolino, Bambi e Winnie The Pooh sul proprio profilo pubblico. Sulla cittadinanza ai figli degli immigrati ha le idee chiare: «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Quanto ai loro genitori invece si chiede: «Perché, quando aprono la porta, c'è una puzza strana che fa schifo?». Opinione condivisa da Remo, un odontotecnico di Mantova: «Sapessi che odoraccio quando vengono da me, sono peggio della capre», mentre Anna Paola prova a rispondere: «Puzzano perché non si lavano dopo che fanno l'amore, per non parlare della loro puzza naturale, che è nauseabonda. Tempo fa ho sentito dire in televisione che il loro sesso ha un odore disgustoso, indelebile, che non va via neanche se lo lavi con un sapone speciale». Appartiene al gruppo anche "Maestra Marzia", insegnante di una scuola elementare che sul web amministra un blog di filastrocche, ninne nanne, esercizi di scrittura ed altro materiale didattico «utile agli alunni in caso di assenze prolungate per malattia». Una maestra modello, che sulla propria bacheca condivide foto di «pasticcetti in cucina» e di Topo Gigio, ma che nel gruppo "Padani si nasce", da quando il presidente Napolitano ha definito «una follia» negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati, non si dà pace: «Non si trovano 3000 miseri euro per un ingranditore utile ad un mio alunno ipovedente, mentre si pagano almeno tre volte tanto i facilitatori linguistici per gli alunni cinesi che si rifiutano di ripetere anche la più semplice parolina di italiano. Cosa mai potranno invece dare i cinesi che sia di utilità comune?». Con soluzioni agli sbarchi di "clandestini" che vanno dal «napalm» a «una bella bomba, così saltano in aria», "Padani si nasce" è qualcosa di più di un semplice gruppo leghista di area. O almeno è il solo che possa vantare tra i propri membri tanti nomi eccellenti. Tra gli altri: il presidente del gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera Marco Reguzzoni; i deputati Marco Rondini e Maurizio Fugatti; i senatori Roberto Mura, Mario Pittoni, Piergiorgio Stiffoni e Michelino Davico; gli assessori della Regione Lombardia Daniele Belotti e Monica Rizzi; l'assessore alle politiche agricole della Regione Veneto Franco Manzato; il vicepresidente della Regione Lombardia Andrea Gibelli; l'europarlamentare Claudio Morganti; il segretario provinciale della Lega Nord di Milano Igor Iezzi, più una sfilza di sindaci e amministratori locali. Tutti iscritti ad un gruppo che per mettere a tacere quel «vecchio di merda» e «terrone del cazzo» di Napolitano propone «un colpo in testa» e, per ritorsione, «un attentato alle Coop». Un gruppo esplicitamente razzista («mischiare le razze non ha mai portato bene») e omofobo («dovremmo equiparare i gay ai pedofili così Vendola la finisce di fare il ricchioncello per strada») che, a fronte dei reati commessi da cittadini stranieri, vorrebbe «dare una ripulita», «aprendo la caccia con i pallettoni per cinghiali, almeno li traforiamo per bene». Con un trattamento di riguardo per gli immigrati malati di TBC («con loro usiamo la fiamma ossidrica, così non ne rimane nemmeno una cellula»), e per i rom: «Mettiamoli nelle stufe a legna, in modo da farne carburante alternativo». Perchè «i rom», spiega Luca, bresciano, amorevoli foto dei suoi bambini in bacheca, «ladri, stupratori e assassini nascono, ladri, stupratori e assassini moriranno: personalmente adotterei per loro le stesse politiche usate dal Führer». «Anziché stanziare fondi per l'integrazione dei rom, L'Unione Europa dovrebbe finanziare l'apertura dei forni», rilancia Alessandro, consulente aziendale nel comasco. Mentre Giovanna – quella appassionata di Topolino, Bambi e Winni The Pooh - euforica applaude: «Evvai! Che bello vederli bruciare!».
«Roma ladrona vuole i soldi dei lavoratori del Nord per tenere viva la vecchia pratica assistenzialista. Ad ogni giro ritornano, come nel gioco della roulette...», disse una sera all’Ansa Umberto Bossi, correva l’anno 2003. «Voglio essere cattivello... non tutti sanno che c'è una insegnante che è andata in pensione nel '92 a 39 anni: è la moglie dell'onorevole Bossi»: lo rivela Gianfranco Fini a Ballarò del 25 ottobre 2011.
La Lega Nord per l'Indipendenza della Padania, meglio nota come Lega Nord o più semplicemente Lega, è un partito politico nato come federazione di vari movimenti autonomisti regionali, tra i quali, in particolare, la Lega Lombarda e la Liga Veneta. I bersagli dei loro strali sono gli extracomunitari e i meridionali. Le accuse contro questi sono fondate su assiomi che delineano una mancanza di cultura o che sono frutto di una cultura distorta. Gente che si sente dura e pura e autoctona, ma, spesso, nelle sue fila vi è gente proprio di origine meridionale ed extracomunitaria. I loro territori non hanno radici storiche e culturali degne di nota, per cui l’odio verso gli altri è la loro linfa vitale e il programma politico si tramuta in calunnie e diffamazioni. Originariamente sostenitrice del federalismo, dal 1996 la Lega Nord ha proposto la secessione delle regioni settentrionali, indicate collettivamente come Padania. Successivamente ha riproposta il progetto di uno Stato federale, da realizzarsi attraverso il Federalismo fiscale e la devoluzione alle regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato. Propone altresì di aumentare il peso politico delle regioni del Nord Italia, ritenuto non adeguato al peso demografico ed economico delle stesse, nonché di promuovere e valorizzare le culture e le lingue regionali, per fare dell’Italia una “Babele”. La Lega è formata da più Leghe: ognuno con i propri campanili e le loro differenze, che alla minima occasione si fanno notare e che sono foriere di odio interno. A riguardo un articolo di Carlo Puca su “Panorama” del 18 gennaio 2011 rende bene l’idea. “Roberto Calderoli, dentista, già ministro per la Semplificazione e leader dei cosiddetti «bergamaschi» (che poi tutti bergamaschi non sono: per esempio Gianna Gancia, la sua compagna, è presidente della Provincia di Asti). È normale, dunque, che in una Lega divisa in correnti più di quanto si racconti i «varesotti» siano in stato d’allerta. Il loro leader è il già ministro dell’Interno Roberto Maroni. Quando Bossi abbandonerà la vita politica, il Carroccio avrà un problema enorme: trovare il nuovo leader. Tenere assieme i bergamaschi con i varesotti, i piemontesi con i veneti, i lombardi con gli emiliani sarà assai complicato. E non soltanto per le diversità su base territoriale: i nordisti sono divisi tra loro pure all’interno delle singole zone d’influenza. In Emilia-Romagna, dove il partito è in forte crescita, una riunione di partito è addirittura finita in rissa. Erano in discussione le candidature al consiglio comunale. Figurarsi cosa mai accadrà nel prossimo giro per il Parlamento…Date le premesse, per sedare gli animi certo non basterà Renzo «Trota» Bossi, il figlio che il Senatùr vorrebbe (addirittura!) ministro. Men che mai basterà l’altro figlio di Bossi, Eridano Sirio Bossi. Insomma: non basterà il feticcio di un cognome, seppur pesante, a salvare la Lega da una prevedibile diaspora.”
CARROCIOPOLI: Bossi, un mare di bugie.
La presentazione e le recensioni di "Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere", saggio di Eleonora Bianchini edito da Newton Compton. Un'inchiesta appassionata che ridisegna il ventennio leghista dagli anni del "celodurismo" all'ossessione del federalismo fiscale. I lati oscuri di un partito pieno di contraddizioni: minacce di secessione che si alternano ad abili mosse politiche per acquisire un peso sempre maggiore nel governo del nostro Paese; vilipendi alla bandiera, diti medi alzati e pernacchie in TV che fanno da contrappunto a raffinate strategie orchestrate nei palazzi e nelle ville del potere. Ma come ha fatto questo movimento, da sempre spina nel fianco della democrazia italiana, a ottenere un simile consenso? Eleonora Bianchini, con una prosa secca e incisiva, mette al muro il partito del Carroccio, svelando i falsi moralismi di chi grida contro "Roma ladrona", ma chiude un occhio sugli scandali finanziari della "Padania ladrona". «Il nostro popolo», affermava Bossi, «è pronto ad attaccare. Si dice che il Paese stia andando a fondo, ma io conosco un solo Paese, che è la Padania. Dell'Italia non me ne frega niente». Ma una volta scoperti i verdi scheletri nell'armadio anche il leghista duro e puro potrebbe vacillare. Una giornalista ricostruisce la storia e le dinamiche del consenso del Carroccio. Rivelando come il partito di Bossi abbia due volti. Uno al nord, dove continua a far sognare un federalismo che non farà mai. E uno a Roma, dove pensa solo a divorare posti di potere. L'ultima, in ordine di tempo, è la proposta di un consigliere comunale di Padova di non finanziare la locale maratona perché "vincono sempre neri in mutande". Ma alle dichiarazioni shock, partite da esponenti di ben altro rilievo, la Lega Nord ha ormai abituato gli elettori: forse persino assuefatti, visto che se ne sentono quasi tutti i giorni.
Dagli anni delle minacce di secessione, della caccia ai terroni e dei riti celtici si è passati al federalismo fiscale e alla lotta all'islam e all'immigrazione (clandestina e non solo). E in un paese che non ha memoria e che dimentica troppo in fretta, il lavoro di Eleonora Bianchini ("Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere" - Newton Compton) prova a mettere in ordine gli eventi. Quasi un manuale per leggere la Lega Nord attraverso tutta la sua storia. "L'espresso" ha parlato con l'autrice, giornalista e blogger che lavora tra l'altro per il network Blogosfere.
Perché la Lega non dovrebbe far leggere il tuo libro, come recita il titolo?
"Il mio lavoro ricostruisce la storia del partito in questi anni: le origini, le parole d'ordine, gli slogan, le dichiarazioni, le promesse. Un elenco di fatti, niente invettive preconcette. E questo li ha fatti innervosire: il loro quotidiano, "la Padania", lo ha subito definito "un libro che esercita mistificazioni politiche", ma senza entrare mai nel merito dei fatti concreti che sono stati raccolti".
Iniziamo da Alberto Da Giussano e la Padania...
"Pochi ricordano che Alberto da Giussano è stato copiato dalla biciclette Legnano, perché a Bossi piaceva il logo. Quanto alla Padania, i suoi confini sono stati scelti a tavolino e nella storia della Lega sono anche risultati piuttosto "elastici" per non lasciare fuori nessun potenziale elettore. Adesso però la Padania esiste davvero nella mente dei sostenitori e, nei primi anni del movimento, queste immagini hanno aggregato molto i leghisti e contribuito a costruire un'aura intorno alla dirigenza".
Dal partito di lotta al governo. Come è cambiata la Lega Nord?
"Il cambiamento è stato enorme, da quando è iniziata la corsa al potere e alle poltrone: lo scandalo di Credieuronord, la conquista delle regioni per avere le banche, la parentopoli interna. L'approccio al potere è simile a quello di tutti gli altri partiti che la Lega critica e di cui ha invece preso i peggiori difetti. Anche in tv, c'è stata la lottizzazione della Rai in pieno stile Prima repubblica. Intanto sono cambiati anche i nemici: dalla guerra ai "terroni" si è passata a quella agli islamici".
Terroni, islamici, immigrati, rom. Le dichiarazioni shock e i suggerimenti a bruciare, impallinare o altro in questi anni non sono mancate. Qualcuno le definisce folklore.
"La Lega ci ha assuefatto. Ormai ci siamo abituati a fare spallucce su affermazioni aberranti, quando in altri paesi non avverrebbe lo stesso: alla Lega invece viene perdonato tutto. Sono le famose "sparate" che servono per coltivare il consenso "di pancia" al Nord mentre a Roma si pensa solo a lottizzare e a conquistare fette sempre maggiori di potere".
Passiamo dalla parole ai fatti. Come governa la Lega?
"A livello locale si devono riconoscere degli esempi dignitosi. A livello nazionale invece si usa lo specchietto per le allodole del federalismo per occupare posti di potere a Roma e nelle istituzioni centrali. Nessun leghista ha mai risposto, concretamente, ad alcune domande semplicissime su questo ipotetico federalismo: quanto costerebbe? Quali direttive avrebbe? Chi lo paga? Se fosse davvero il provvedimento che dice la Lega, in cui tutti guadagnano e nessuno paga, sarebbe un sogno. Invece serve solo a mantenere in vita un sogno in periferia per occupare poltrone al centro".
La Lega sembra essere il fenomeno editoriale di questo Natale. Tanti libri ne parlano e sono tutti testi molto critici.
"Il partito di lotta che diventa partito di governo fa emergere tutte le sue contraddizioni e con queste arriva il disincanto nei confronti del movimento. Ormai le due facce della Lega non si possono più coniugare tra loro: il partito non è né duro e puro né un alieno della politica i Palazzo, tutt'altro".
Però i consensi almeno fino a oggi, sembrano in crescita.
"Il mito del federalismo fiscale attrae voti perché promette di abbassare le tasse al nord. Finché il federalismo non viene attuato, resta un immaginario Sacro Graal di benessere. Infatti viene sempre rimandato".
Aveva negato di essere stato iscritto al Pci. Aveva escluso che il figlio prendesse soldi dalle Coop padane. Aveva smentito gli affari poco limpidi del partito. Un libro-inchiesta rivela: era tutto vero. Si intitola "Umberto Magno, l'imperatore della Padania" la biografia non autorizzata del leader della Lega Nord che è uscito in libreria il 2 dicembre 2010 per Aliberti (480 pagine). E' un'accurata inchiesta di Leonardo Facco, giornalista che ha conosciuto la Lega (e Bossi) da molto vicino, avendo tra l'altro lavorato per quattro anni al quotidiano "la Padania". L'autore parte dagli "albori della Lega", quando un giovanotto della provincia di Varese senza un lavoro riesce a coagulare attorno all'idea autonomista – non senza screzi e fatti poco chiari – prima alcune decine di amici, poi centinaia e infine migliaia di persone pronte a dare il loro consenso a un progetto politico sempre in bilico tra il federalismo e la secessione. Bossi è la Lega e la Lega è Bossi, secondo Facco, nonostante la malattia abbia ridotto il senatùr all'ombra di quel personaggio movimentista del passato recente. Per dimostrarlo, l'autore racconta fatti, episodi, ricordi personali, con tanto di documentazione (sono quasi 400 le note bibliografiche). «Bossi», sostiene l'autore, «è il responsabile principale della trasformazione della Lega in un soggetto politico partitocratico, dove agli scandali si uniscono le truffe perpetrate ai danni, in primis, dei militanti e simpatizzanti. I crac delle Cooperative Padane, del Villaggio in Croazia e della banca padana rappresentano l'epitome del modo di fare politica del "lumbard", circondato da sempre di yes-men (and women) in carriera». Nel libro ci sono diversi fatti inediti, mai conosciuti e-o raccontati: dalla strana busta paga del figlio primogenito a spese dei militanti ignari, fino alla famosa questione della militanza comunista del giovane Umberto: da lui sempre negata, ma ora provata da un documento scoperto in una vecchia sezione del Pci. E poi si va dai tempi in cui elogiava "Mani pulite" alla sequela di condanne penali incassate dai leghisti odierni. Un capitolo, infine, è dedicato alla vita privata di Bossi che «ama la famiglia tradizionale» ma, secondo l'inchiesta di Facco, non sembra negarsi svaghi al di fuori di essa. «E' un'inchiesta che dovevo a me stesso perché ho un passato da leghista, ho creduto in questo movimento e sono stato anche sul Po, alla metà degli anni '90», dice l'autore. «Era giusto scrivere questo libro adesso, in cui la Lega si sente particolarmente forte e pensa di fare il pieno di voti. Bisogna che tutti gli elettori sappiano chi è il padrone del partito che pensano di votare: un cialtrone, né più né meno».
Ma non è tutto. Due pentiti scrivono la storia di Carrocciopoli, così come ripreso da Alessandro Da Rod sul Riformista.
Due libri coinvolgono i due alti esponenti del partito. Il già titolare della Semplificazione è accusato di furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Il già Ministro della Giustizia e viceministro delle Infrastrutture invece sarebbe il candidato “Gamma” favorito dalla malavita calabrese.
Due pentiti. Due libri. Un camion di letame sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Non c’è dubbio che giovedì 2 dicembre del 2010 non passerà alla storia del Carroccio come una giornata qualunque. Perché presentare nello stesso giorno due libri come Umberto Magno, l’imperatore della Padania di Leonardo Facco e Metastasi di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, significa scoperchiare l’intero vaso di Pandora di via Bellerio, svelando ciò che il Carroccio ha sempre cercato di nascondere: problemi interni, finanziamenti ai figli di Umberto Bossi, intercettazioni scomode e quant’altro. Il primo è il più pesante. Facco, leghista della prima ora, ex giornalista della Padania, ha riportato in 480 pagine tutta la vita del Senatùr, raccontandone misfatti, debolezze sessuali e di potere. Nel secondo i due cronisti di Libero, non hanno incentrato il loro libro sui rapporti tra la ’ndrangheta e la Lega Nord, ma hanno comunque inserito in un capitolo una storia scomoda per i leghisti. Quella di “Gamma”, leghista di Lecco che ha iniziato a fare carriera nel suo feudo grazie anche all’aiuto dei voti della malavita organizzata. Ex ministro della Giustizia, dirigente di una certa importanza, nessuno ha osato dire il suo nome, ma l’unico che ha alzato la voce per replicare alle illazioni è stato Roberto Castelli, viceministro alle Infrastrutture. Negli ambienti del Carroccio, si vocifera che ci sia una cosa che accomuna i due libri in uscita in questi giorni nelle librerie. Entrambi, in un modo o nell’altro, vanno a colpire, oltre al Senatùr, i due esponenti che in questi mesi hanno perso più posizioni di potere all’interno del partito. Da un lato Castelli, dall’altra Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione. È utile ricordare che il leghista lecchese fu l’unico questa estate a rilasciare un’intervista al Giornale in cui raccontava pubblicamente dei problemi interni al partito. Come allo stesso tempo accadde a Calderoli, finito sulla graticola per l’affare Brancher, il ministro breve del Federalismo, anche lui comparso su svariati quotidiani per difendersi dalle bordate che gli arrivavano dagli uffici di via Bellerio. Sarà un caso, ma in mesi così difficili per la Lega Nord, tra cerchi magici, colonnelli, varesini e veneti, nel libro di Facco ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più sul potente ministro dell’Interno Roberto Maroni. In realtà c’è ben poco, se non un richiamo al caso Antonveneta, passando per spedizione in Serbia e la storia dei finanziamenti alla sua portavoce Isabella Votino. Quisquilie se messe in relazione ai file alla Wikileaks che riguardano Castelli e Calderoli. Perché se il primo viene di fatto associato alla malavita organizzata dal pentito Giuseppe Di Bella, sul secondo vengono persino pubblicati i documenti che testimonierebbero un presunto furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Partiamo dal ministro per la Semplificazione. A pagina 311 di Umberto Magno, Sacco racconta la storia delle “Coop made in Padania Scrl” creatura bossiana organizzata per finanziare il partito, finita in disgrazia quasi come Credieuronord. Presidente delle Coop in un primo momento era proprio Calderoli. E attraverso le parole di Mario Morelli, ex consigliere di amministrazione della catena di supermercati, Facco ripercorre tutti i disastri dei calderoliani, tra dentifrici in esubero, immobili pagati uno sproposito, flop economici e conti lasciati in sospeso. «Bossi, Calderoli e altri padani - si legge nel libro - pensavano che un pizzico di coraggio, un tantino d’inventiva, un po’ di voglia di fare mischiata all’improvvisazione fossero elementi sufficienti per il successo». In realtà la vicenda, oltre ad avere tratti grotteschi, tra cui quello di 24 milioni di buste di deodorante con il sole della alpi rimaste invendute, finì molto male. Morelli, infatti, a cui fu data la presidenza dopo l’addio di Calderoli nel 1999, si ritrovò di fronte in poco tempo un debito di circa un miliardo di lire e un’azienda sull’orlo del fallimento. «Una mattina - racconta Morelli - Calderoli mi convocò nel suo ufficio chiedendomi di sostituirlo in quell’incarico. Motivò la sua richiesta col fatto che questo incarico incideva negativamente sul rapporto politico che aveva con Bossi». Del resto, quando Morelli parlò della situazione al Senatùr, Bossi non la prese affatto bene. «Mi rispose con parole di fuoco - ricorda Morelli - indirizzate contro il mio predecessore Calderoli: tuoni, fulmini e saette». Non solo. Il caso scottante è che al fallimento delle Coop è conseguita la protesta di chi quei soldi li aveva versati nelle tasche di Calderoli. Emblematica la lettera di Genesio Ferrari, ex segretario della Lega emiliana che chiede indietro i dieci milioni di lire versati anche grazie all’aiuto dei militanti: «Il tutto si è risolto in una bolla di sapone». Quanto a Castelli, si è già scritto molto. Ma il dato è comunque pesante, perché nel ’90 ci fu il boom di voti per i leghisti. Il pentito Di Bella, vicino al boss della 'ndrangheta, Coco Trovato, racconta a Nuzzi e Antonelli che la parola d’ordine tra le ’ndrine di Lecco era votare “Lega”: Gamma era il loro uomo di riferimento.
RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. In attesa del giusto premio, ecco una gallery delle ultime dieci perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali. Dopo il tentativo di "invadere" Alessano, in provincia di Lecce, Radio Padania ci riprova con Brindisi, dove sembra che l'emittente radiofonica della Lega abbia "occupato" le frequenze di Idea Radio. L'allarme è lanciato proprio dal legale rappresentante di Idea Radio, Tommaso D'Angeli. «Radio Padania sbarca e colonizza quella che ancora risulta essere la provincia di Brindisi, occupando e fortemente disturbando le trasmissioni di Idea Radio nel comune di Brindisi sulla frequenza dei 97.800 Mhz. Per l'ennesima volta Radio Padania attiva un impianto nel Salento per le proprie trasmissioni». D'Angeli spiega che «questa volta l'emissione parte dal comune di Villa Castelli, noto per la grande concentrazione di impianti radiotelevisivi e di telefonia». L'emittente della Lega Nord, osservano ancora da Idea Radio, «trasmette in qualità di radio comunitaria nazionale, che le permette, in virtù di un decreto legge creato dal governo Berlusconi, di attivare impianti su tutto il territorio nazionale senza acquistarli, ma semplicemente comunicandone l'attivazione al competente ministero dello Sviluppo Economico». Unica prerogativa, spiegano, è di non interferire con altre emittenti. Una prerogativa che sembra sia stata però disattesa. La protesta dell'emittente brindisina è partita, indirizzata sia al sindaco di Villa Castelli che al direttore dei Servizi territoriali di Arpa Puglia. In attesa di sviluppi, i brindisini potranno ascoltare Radio Padania tranquillamente seduti in poltrona. Così facendo disturba le frequenze di Idea Radio, che prende posizione pubblicamente attraverso questo comunicato del legale rappresentante di Idea Radio, Tommaso D'Angeli. «Mentre si discute sul riordino delle province, se appartenere a Lecce, Taranto o Bari, mentre si discute se realizzare un'unica macro provincia o la Regione Salento, il partito di Bossi, dalla Padania per mezzo della sua espressione più diretta “RADIO PADANIA” sbarca e colonizza quella che ancora risulta essere la provincia di Brindisi, occupando e fortemente disturbando le trasmissioni di Idea Radio nel comune di Brindisi sulla frequenza dei 97.800 Mhz. Per l’ennesima volta Radio Padania attiva un impianto nel Salento per le proprie trasmissioni. Questa volta l’emissione parte dal Comune di Villa Castelli, noto per la grande concentrazione di impianti radiotelevisivi, di telefonia e di altri soggetti, anche militari, già in passato oggetto di proteste da parte della città per la difesa ambientale e della popolazione soggetta alle emissioni elettromagnetiche. Radio Padania trasmette in qualità di Radio Comunitaria Nazionale che le permette in virtù di un Decreto Legge creato dal governo Berlusconi di attivare impianti su tutto il territorio nazionale senza acquistarli, ma semplicemente comunicandone l’attivazione al competente Ministero dello Sviluppo Economico-Comunicazioni. Unica prerogativa concessa è quella di non interferire con altri legittimi utilizzatori dello spettro radioelettrico. E così sorgono i problemi per le emittenti interferite, le quali dovranno, con notevole aggravio di spese, documentare con campagne di misure radioelettriche e perizie, le interferenze subite nell'ascolto delle proprie trasmissioni. Idea radio si è già attivata presso il competente Ministero dello Sviluppo Economico-Comunicazioni per tutelare le proprie trasmissioni. Al contempo con la presente si invitano il Sindaco di Villa Castelli e l’Arpa Puglia sezione di Brindisi a voler verificare se Radio Padania abbia mai inoltrato istanza ai sensi di quanto disposto dal D.L. n.259/03, L.R. 05/92 e dal R.R. 14/06, per l'installazione delle antenne e dell'impianto nel comune di Villa Castelli, diversamente si prega di intervenire con urgenza secondo la propria autorità per la rimozione dell’impianto».
“Radio Padania, colonizzatori per interesse”. E’ questo quello che i brindisini potranno ascoltare… e sì, perchè Radio Padania ci riprova a colonizzare il Salento, questa volta attraverso l’installazione di un’antenna a Villa Castelli, un po’ più a nord. Ci avevano già provato, ricorderete, partendo da Alessano. Ed anche in quell’occasione si scatenarono le proteste contro l’occupazione abusiva delle frequenze e, soprattutto, contro gli insulti ai meridionali nei quali potrebbero imbattersi i brindisini che si troveranno ad ascoltare l’emittente radiofonica che fa capo al partito politico fondato dal Senatùr Umberto Bossi. La scoperta è avvenuta quando una radio locale, Radio Idea, ha notato delle interferenze sulle frequenze, da lì all’infelice scoperta il passo è stato breve. Ed, ovviamente, Radio Idea si è già attivata per tutelare i propri spazi seguendo l’iter indicato dalla legge, ma ora l’appello è al territorio ed alle sue istituzioni anche perchè, molto probabilmente, e su questo in molti si troveranno d’accordo, il discorso è più economico che politico. Immediatamente si è scagliato contro quest’ennesimo tentativo di colonizzare il Salento, il Presidente del Movimento Regione Salento Paolo Pagliaro “Basta con questo sopruso! Radio Padania spenga l’impianto e rispetti questa terra!”. La sua opinione trasmessa e pubblicata sulla sua emittente “Tele Rama” e su youtube. «Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo. Violenti, perché hanno ottenuto grazie alla gestione del potere con una legge ‘ad personam’ del Governo Berlusconi a trazione leghista, l’opportunità di un sopruso-abuso: accendono la frequenza che desiderano e questa diventa di loro proprietà se ‘non disturba’ e se entro 90 giorno non vi sono reclami. Voraci ed arraffoni, perché intendono invadere un mercato scavalcandone le regole. Illiberali, perché i contenuti di questa Radio Padania sono volgarmente e qualunquisticamente anti-meridionali, perdendo così l’occasione del confronto positivo e costruttivo. Sono furbacchioni perché, in qualche caso, pare che abbiano acquisito gratuitamente le frequenze (con le complicità romane) per poi rivenderle ai privati. Solidarietà a Idea Radio, basta con questi soprusi!».
LE GRANE GIUDIZIARIE DELLA LEGA. CANDIDATI AL PARLAMENTO: ELEZIONE 13 APRILE 2008. CONDANNATI, PRESCRITTI, INDAGATI, IMPUTATI E RINVIATI A GIUDIZIO.
Fonte “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez.
Lega Nord (8)
Bossi Umberto: Condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200 milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente Enimont; condannato in via definitiva per istigazione a delinquere e per oltraggio alla bandiera; indagato e imputato in altri procedimenti penali. Il 16 dicembre 1999 la Cassazione l’ha condannato a 1 anno per istigazione a delinquere, per aver incitato i suoi, in due comizi a Bergamo nel 1995, a «individuare i fascisti casa per casa per cacciarli dal Nord anche con la violenza». Tremaglia, suo futuro collega ministro, l’aveva denunciato. Altra condanna definitiva nel 2007 a 1 anno e 4 mesi (poi commutati in 3.000 euro di multa, interamente coperti da indulto) per vilipendio alla bandiera italiana, per aver dichiarato nel 1997: «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo». Niente sospensione condizionale della pena, che però è coperta da indulto (che cancella anche quelle pecuniarie fino a 10 mila euro): insomma, Bossi non pagherà nemmeno un euro. Inoltre ha un altro processo in corso per lo stesso reato, per aver detto, sempre nel 1997, durante un comizio: «Il tricolore lo metta al cesso, signora... Ho ordinato un camion di carta igienica tricolore personalmente, visto che è un magistrato che dice che non posso avere la carta igienica tricolore». Nel 2002 la Camera ha negato ai giudici l’autorizzazione a procedere, ritenendo le espressioni rientranti nella libera attività parlamentare e dunque coperte da insindacabilità; ma nel 2006 la Consulta ha annullato la delibera di Montecitorio, disponendo che Bossi sia processato come un comune cittadino. Il Senatùr è invece uscito indenne dal lungo processo per resistenza a pubblico ufficiale, in seguito agli scontri con la polizia che perquisiva, il 18 settembre ’96, la sede leghista di via Bellerio a Milano: condannato a 7 mesi in primo grado e a 4 in appello, Bossi s’è visto annullare con rinvio la seconda condanna dalla Cassazione, che ha disposto un nuovo processo d’appello. E qui, nel 2007, è stato assolto. Ancora aperto, invece, il processo di Verona per le camicie verdi della cosiddetta Guardia nazionale padana costituita nel 1996: Bossi, con altri quarantaquattro dirigenti leghisti, deve rispondere in udienza preliminare di attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, nonché di aver costituito una struttura paramilitare fuorilegge. Ma, almeno in questo caso, rischia poco o nulla: allo scadere dell’ultima legislatura, la maggioranza di centrodestra ha riformato i primi due reati (punibili ora solo in presenza di atti violenti), in modo da assicurarne la decadenza al processo di Verona. L’ennesima legge ad personam. Una volta tanto non per il Cavaliere, ma per il Senatùr. Il procuratore di Verona Guido Papalia, però, tiene duro sull’accusa residua di associazione paramilitare. Allora, nel 2007 la Camera regala l’insindacabilità ai deputati imputati, tra i quali Bossi, Calderoli e Maroni, quasi che la Guardia Padana fosse un’«opinione». A quel punto Papalia ricorre nuovamente alla Consulta con un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, come ha già fatto contro un analogo provvedimento impunitario adottato dal Senato per salvare Gnutti e Speroni.
Bragantini Matteo: Nel 2004 è stato condannato in primo grado a 6 mesi di carcere e a 3 anni d'interdizione dall'attività politica, per istigazione all’odio razziale e propaganda di idee razziste. Nell’agosto-settembre 2001 la Lega Nord di Verona aveva organizzato una campagna (“Firma anche tu per mandare via gli zingari dalla nostra città”) contro la comunità Sinta di Verona. Nelle motivazioni, i giudici di primo grado scrivono che Bragantini e i suoi 6 coimputati, fra i quali l’attuale sindaco leghista di Verona Flavio Tosi, hanno “diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico e incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato… un concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato”. Il 30 gennaio 2007, la Corte d’appello di Venezia riduce la pena da 6 a 2 mesi, assolvendo i leghisti dall'istigazione all'odio razziale, confermando la condanna per la propaganda razzista e i risarcimenti ai sette Sinti (2500 euro per ciascuno) e all’ente morale Opera Nomadi (8 mila euro), costituitisi parte civile. Bragantini è ricandidato alla Camera per la Lega Nord nel Veneto1.
Brigandì Matteo: Arrestato e condannato in primo grado il 24 novembre 2006 a 2 anni di reclusione dal Tribunale di Torino per truffa aggravata ai danni della Regione Piemonte (a cui dovrà risarcire 255 mila euro): avrebbe, in veste di assessore regionale al Legale, aver architettato un raggiro ai danni della Regione per regalare 6 miliardi di lire pubblici all’amico imprenditore Agostino Tocci, titolare di una concessionaria di auto di lusso, a titolo di “rimborso” per inesistenti danni subiti dalle alluvioni del 1994 e del 2000.
Calderoli Roberto: Indagato a Milano per ricettazione nell’inchiesta sulla Bpl di Giampiero Fiorani. Il quale sostiene di averlo foraggiato per garantirsi l’appoggio politico della Lega durante il suo tentativo di scalata alla Banca Antonveneta: con il suo sottosegretario Brancher, l’allora ministro delle Riforme si sarebbe spartito 200mila euro. Salvo per prescrizione nel processo per i tafferugli con la polizia nella sede leghista di via Bellerio a Milano (resistenza a pubblico ufficiale), Calderoli è scampato al processo in corso a Verona per le camicie verdi (attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, struttura paramilitare fuorilegge) grazie a una legge ad personam e all’insindacabilità regalatagli dal Senato (contro cui però la Procura ricorrerà alla Consulta).
Caparini Davide: Salvo per prescrizione nel processo per resistenza a pubblico ufficiale nel processo sui tafferugli con la polizia durante una perquisizione nella sede leghista di via Bellerio a Milano.
Castelli Roberto: Indagato per abuso d’ufficio patrimoniale per alcune consulenze facili al ministero della Giustizia durante il secondo governo Berlusconi, s’è salvato grazie al voto del Senato, che nel dicembre 2007 gli ha regalato l’immunità totale per i suoi presunti reati ministeriali, negando l’autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri di Roma. Per gli stessi fatti la Corte dei Conti l’ha condannato a rimborsare un danno erariale di 98.876,96 euro e gliene ha contestato un altro di circa 400 mila euro.
Maroni Roberto: Condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni di reclusione per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, in relazione ai tafferugli durante la perquisizione della sede leghista di via Bellerio a Milano. Maroni, prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente di polizia. Di qui la condanna a 8 mesi in primo grado, poi dimezzata in appello e in Cassazione. Maroni è anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi, insieme a una quarantina di dirigenti leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati da una riforma legislativa ad hoc, varata dal centrodestra nel 2005, allo scadere della penultima legislatura. Resta in piedi solo il terzo.
Stefani Stefano: Indagato a Roma per concorso in truffa ai danni dello Stato e riciclaggio, ha ottenuto la richiesta d’archiviazione del procedimento perché la Procura non ha potuto usare le intercettazioni indirette che facevano sospettare qualcosa di poco chiaro nella vicenda dei finanziamenti pubblici al quotidiano «Il Giornale d’Italia». In pratica, come molti suoi colleghi parlamentari, anche Stefani è un miracolato dalla legge Boato che – prima della sentenza della Consulta del 2007 – rendeva inutilizzabili le intercettazioni in cui compariva la voce di un eletto dal popolo.
Scandalo Lega. Giulietto Chiesa su “Il Fatto Quotidiano”: Come dicono gli oratori prolissi: sarò breve. Questa faccenda della Lega Nord mi fa venire in mente due o tre cose (tra le tante). La prima è che là dentro, nel Palazzo, il più sano ha la rogna. Voglio dire che l’intreccio delle complicità e dei ricatti reciproci fa sì che ci sia un dossier per ognuno. E che, all’occorrenza (se qualcuno rompe l’omertà) questo fascicolo vedrà la luce. Nel caso specifico la Lega, espulsa dal potere, rompeva le scatole al nuovo potere della troika. Così adesso sappiamo di quale tempra fosse forgiato quel cosiddetto “partito”. Lo sapevano tutti, lassù, nel Palazzo. Adesso è uscito il dossier. Ed è cominciata la caccia a quel serbatoio di voti che se ne va in libera uscita. Naturalmente bastava guardare quelle facce, quei gesti, quella volgarità becera, quell’ignoranza che trasudava da ogni gesto di quegli “eletti del popolo” che divennero perfino ministri del governo italiano, per capire dove eravamo arrivati. Ma ve li ricordate i giornalisti, e i politici, che nei talk show, s’inchinavano di fronte al ludibrio? Ve lo ricordate il Presidente della Repubblica che stringeva le mani a uno che si era appena pulito il culo con la bandiera tricolore, e che sputava sulla Costituzione Repubblicana?
La seconda cosa che mi viene in mente, appunto, è la straordinaria ipocrisia del sistema politico e informativo italiano. Che adesso, dopo avere espulso Bossi, gli tributa gli onori di grande leader rinnovatore. Perché lo fanno? Perché erano suoi complici nel degrado. Lo salutano rendendogli gli onori, come in un simbolico ammainabandiera. Pensano al loro tramonto, incerti se sarà nel silenzio o se dovranno scappare inseguiti dai forconi.
SCANDALO LEGA NORD: LA REAZIONE DEI LEGHISTI.
Come fossi un appassionato di antropologia, analizzo la reazione allo scandalo dei leghisti (dirigenti, militanti, simpatizzanti e semplici elettori). Le risposte sono in continuo mutamento, anche in considerazione del procedere dello scandalo e del susseguirsi di notizie, ma si riescono comunque ad intravedere delle macro categorie . Ecco quelle che ho intravisto finora:
il complottista, per lui è tutto un complotto ordito dal potere imperante che, a pochi giorni dalle elezioni amministrative (ma guarda che caso!!!), tenta di colpire la lega in quanto unica opposizione. Non crede a quanto scritto dai magistrati, ma considera quest'ultimi "soldati" al servizio dei potenti. Bossi è solo un eroe sognatore e per questo viene colpito. E i poteri forti del complotto? Il governo Monti, il Sud, Roma, gli alieni, i puffi, cambia poco. Ogni complottista trova il giusto colpevole. La cosa importante è urlare a voce alta al complotto, cercando magari anche le prove per smascherare i complottisti;
l'incredulo, sono due giorni che, faccia sgomenta e smorfia di dolore scolpita sulla bocca, il nostro leghista continua a ripete: non ci credo, non è possibile. E' lì che turbina le mani dinanzi al viso, come a scacciare la dura verità. Ma è troppo difficile accettare questa verità. Troppo difficile. Per questo si rifugia in un limbo nel quale non deve porsi domande. Un limbo di incredulità nel quale non servono domande o risposte. Basta non credere alla cosa per non porsi il problema. Semplicemente non accetta la questione;
il camicio verde, è un pò che "il Bossi" lo contesta sottovoce (anche perchè in lega, almeno fino a ieri, chi contestava il "capo" a voce alta veniva accompagnato rapidamente alla porta). Almeno da quando ha smesso di parlare di fucili, secessioni, indipendenze ed altre amenità. Lui è un soldato. E un soldato è fedele alla bandiera, non al generale. Morto un generale se ne fa un altro. Fosse per lui, la secessione partirebbe domani mattina. Ma non spreca energie a dire "ve lo avevo detto che il Bossi si era rammollito". No. Risponde alla scandalo aizzando i suoi per partire alla guerra contro tutto e tutti;
il duro e puro, per lui, se qualcuno ha sbagliato, deve pagare. Fosse anche il Trota. Per lui la lega è una fede. E come per le religioni, o si crede o non si crede. Bossi deve mettersi "di fianco" (non da parte, si badi bene), ma la lotta continua. Difficile fargli notare che fino a ieri, quelli come lui dicevano che "Bossi è la lega e la lega è Bossi". E quindi, se cade il "capo", deve cadere pure la lega. Lui è duro e puro. Lui è un leghista col membro sempre in tiro. Scandalo o non scandalo, va dritto per la sua strada;
il caritatevole/compassionevole, per lui l'Umberto non è da mettere in discussione. E' la malattia che l'ha reso facile vittima del "cerchio magico". E' la malattia che non gli ha fatto capire quanto accadeva intorno a lui. E i veri delinquenti, quelli del cerchio magico, ne hanno approfittato. Inutile fargli notare che fino a ieri Bossi guidava la lega e, quella che oggi agli occhi dei caritatevoli è descritta come una malattia così invalidante per il suo intelletto, aveva già colpito il Senatur;
il barbaro sognante, finge di essere triste, ma è da un pezzo che sogna una lega guidata da Maroni. Ma bisogna essere cauti. Il rischio di prendersi del Giuda è altissimo. Ecco perchè reagisce in modo anonimo allo scandalo. Si, ogni tanto butta lì qualche frase del tipo : bisogna fare pulizia, ricominciare; ma lo fa cautamente. Tanto ormai, lo scettro della lega è in mano a chi ha gli occhiali rossi e i baffetti da impiegato del Catasto anni '50;
il veneto, lui è il più contento. Lui vuole solo la Serenissima e il Leone di San Marco e con i lombardi spocchiosi ha poco da spartire. Tosi o Zaia, basta che si torni in Veneto a sbraitare frasi sconnesse sull'indipendenza. Lo scandalo serve solo a rincarare la dose:basta con 'sti lombardi che se la tirano e ci considerano solo dei contadinotti ignoranti che spussano anca se coi sghei;
il lombardo, esattamente complementare al veneto, il lombardo però ha una carta in più. Finora la lega nord era "lombardocentrica" e questo scandalo può far perdere potere in lega alla Lombardia. Maroni non è che lo esalti (nonostante le apparenze, Bobo è troppo berluschino), ma almeno è varesotto. Bisogna serrare i ranghi intorno a Bobo. E i veneti fa mia i barlafus!
la pasionaria Giovanna "Brambilla" D'arco come la pulzella d'Orleans, anche la "sciura Maria" ha le visioni. E le sue visioni hanno il volto dell'Umberto di 20 anni fa, lontano anni luce da quello sofferente di oggi, con lo spadone dell'Alberto in mano, ad indicare la strada. Lo scandalo? Niente è più importante della missione dell'Umberto. Se davvero ha rubato, poco importa.Lui è la guida, il condottiero, il sogno di libertà. Lui può anche rubare. Lui ha quasi dato la vita per la Lega e niente e nessuno potrà metterlo in discussione. E poi c'è la battaglia di Lepanto da rievocare.....;
il "solato", sono 20 anni che si dedica anima e corpo al sogno leghista. Sono 20 anni che si beve tutte le promesse urlate dal palco di Pontida. Ha investito anche soldi nella lega. Ha creduto a tutto. Ora deve affrontare la dura realtà. L'hanno fottuto. L'hanno fregato. Gli hanno dato una "sola" colossale. Una "sola" lunga più di 20anni. E con chi se la deve prendere? Ma non è arrabbiato con Bossi. E con se stesso che se la prende. Si copre il viso. Non basta dire "per me la Lega non rappresenta più niente". Non basta strappare la tessera del partito. E' della sua vita che sta parlando. E lui alla Lega ci ha creduto davvero. Si è preso del razzista, dell'ignorante, del barbaro, dello xenofobo. Si è pure messo le corna celtiche sul prato di Pontida. Come può ora dimenticare tutto? Si odia;
il nostalgico depresso, che bei tempi quelli. Le lacrime gli solcano il viso, scivolando lentamente però. Non sono lacrime di disperazione. Sono lacrime di nostalgia. Più salate. Più lente. Più dolorose e profonde. Quante "polentate" a cantare contro "Roma Ladrona", quanto orgoglio addentando la salamella appena cruda o carbonizzata, mentre si cercava di ricordare quella canzone cantata dagli alpini. Quanta vita trascinata via dal tempo. Quanti sogni, quante speranze. Il futuro è cupo. Meglio allora prendere un bicchiere di rosso corposo, solo un pò legnoso, e tentare di fermare le lacrime asciugandole con i ricordi. Il futuro è nel passato. Un passato che non tornerà. Per questo si deprime. Quant' era verde (padano) la mia valle....Molte altre "figure" si stagliano nell'orizzonte dello scandalo, e molte altre reazioni si paleseranno.
Nessuno però ancora ha detto le paroline magiche che noi non leghisti vorremmo sentire:
I SOLDI CHE HAN RUBATO, SONO SOLDI ITALIANI E VANNO RESTITUITI.
Anni fa, ai tempi in cui si andava in giro per il mondo a promuovere le imprese lombarde, si presentava agli interlocutori stranieri la “Milano Da Bere” e il repertorio di dati e cifre sulle «Eccellenze di Lombardia»: una regione più ricca, più grande, più popolosa di oltre la metà dei Paesi che fanno parte dell' Unione Europea, prima in Italia per ricchezza prodotta, per numero di aziende, per importazioni, esportazioni, produzioni industriali, colture agricole, prima per numero di università, per qualità delle cure mediche, per formazione professionale, numero di brevetti registrati ogni anno e via elencando. Oggi scopriamo che fra i primati della Lombardia c'è anche quello di essere nel gruppo di testa con Calabria e Puglia per numero di consiglieri regionali inquisiti. Per carità, nessuno è da considerarsi colpevole fino a sentenza definitiva, ma è difficile immaginare che in tutti questi casi - e le inchieste in corso sono davvero tante - magistrati diversi abbiano preso un abbaglio o peggio siano strumento di un misterioso complotto. La giustizia dei tribunali ha tempi lunghissimi e l'attesa della verità giudiziaria è popolata e animata da sospetti, da complicità, da connivenze, da ricatti reciproci che nulla hanno a che fare con il buon governo. E nulla hanno a che fare con i colori od ideologie politiche. Nel marasma generale della sub cultura massonico - mafiosa, chi più, chi meno; chi di sinistra, chi di destra; chi del sud, chi del centro e chi del nord dell’Italia: si è tutti uguali. Quindi meglio non essere ipocriti e, quindi, meglio doverosamente tacere anziché essere smentiti da fatti sopravvenuti che ci tacciano per la vergogna.
ROMA LADRONA? NO. MILANO LADRONA!
Quattro su cinque secondo Barbara Massaro su “Panorama”. Per l’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale della Lombardia è record assoluto. Sale infatti a quattro il numero di indagati a vario tra i membri originari (cioè eletti alle consultazioni del maggio 2010) dell’Ufficio di Presidenza. L’ultimo in ordine di tempo è il Presidente del Consiglio Regionale lombardo, il leghista Davide Boni: l’ipotesi di reato è corruzione per un giro di tangenti milionarie che sarebbero state intascate nell’ambio dei lavori per la realizzazione di alcuni centri commerciali dell’hinterland. Ma Boni non è certo il primo uomo che al Pirellone ha dei guai con la giustizia. Proprio nel suo stesso ufficio si salva solo Carlo Spreafico (Pd), l’unico tra i cinque membri della presidenza a non essere finito sotto inchiesta. Insieme a Boni ci sono Filippo Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni, ex presidente della Provincia di Milano, ex vicepresidente del Consiglio; nel 2011 è stato indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito al partito; Franco Nicoli Cristiani (pdl), ex vicepresidente del Consiglio Regionale, già assessore all’Ambiente e al Commercio, arrestato a Brescia a fine 2011 per corruzione nel settore delle discariche e per un giro di tangenti relative allo smaltimento di rifiuti tossici nell’area del cantiere della BreBeMi; l’ex assessore all’ambiente Massimo Ponzoni (pdl) in carcere a Monza per bancarotta, corruzione, concussione e finanziamento illecito dopo essersi costituito nel gennaio 2012. Nella lunga storia del governatore Roberto Formigoni in Regione però sono tanti gli assessori e consiglieri finiti nei guai con la giustizia:
Guido Bombarda, ex assessore alla Formazione (pdl): arrestato nel 2004 per corruzione e tangenti. Al centro delle indagini della Finanza decine di corsi di formazione inesistenti organizzati, secondo l’accusa, attraverso la costituzione di società di comodo attraverso i quali veniva prodotta falsa documentazione attestante lo svolgimento di attività didattiche mai realizzate o comunque prive dei requisiti previsti, proprio per ricevere finanziamenti da enti pubblici;
Piergianni Prosperini, ex assessore al Turismo (pdl): arrestato 2 volte nel 2009 e nel 2011 per corruzione ed evasione fiscale. Ha patteggiato tre anni e cinque mesi;
Nicole Minetti, consigliere pdl: è in corso il processo per favoreggiamento della prostituzione;
Gianluca Rinaldin, consigliere pdl: è in corso il processo per corruzione e truffa e finanziamento illecito per la campagna elettorale del 2005;
Monica Rizzi, assessore allo sport (lega nord), indagata nel 2011 per presunti dossieraggi a favore di Renzo Bossi;
Daniele Belotti, assessore al territorio (lega nord), indagato per i suoi rapporti con i tifosi dell’Atalanta, l’ipotesi di reato è concorso esterno in associazione a delinquere;
Giancarlo Abelli, ex assessore alla sanità (pdl), arrestato (ha poi patteggiato) per un giro di riciclaggio nell’ambito dell’inchiesta sul re delle bonifiche ambientali Giuseppe Grossi.
ROMA LADRONA? L'accusa dei pm: "Lega ladrona".
Dopo lo slogan di Bossi "Roma ladrona" di vent'anni fa, oggi si ipotizza un'altra musica: "Lega ladrona", secondo Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Agli inizi degli anni Novanta Bossi lanciò lo slogan più fortunato e vincente del marketing politico italiano, quel «Roma ladrona» che diventò la colonna sonora della discesa del Nord nei palazzi del potere. Oggi, esattamente vent’anni dopo, proprio al Nord, purtroppo si ipotizza un’altra musica: «Lega ladrona», sostengono i pm di Milano che accusano il presidente del consiglio regionale lombardo, Davide Boni, leghista, di essere il collettore di tangenti (almeno un milione di euro) destinate al partito. Non crediamo sia vero, ma il solo fatto che un’accusa simile possa essere per la prima volta ufficializzata (se si esclude l’ormai archiviato caso Enimont) azzera presunte differenze che erano state spacciate addirittura per antropologiche. Anche per la Lega è arrivato il momento di fare i conti forse con debolezze umane oppure, sarà la storia a dirlo e noi ci auguriamo che sia così, con la follia di magistrati politicizzati. Si sa, le malattie colpiscono più facilmente quando il fisico è debole e stressato. E oggi quello della Lega è un corpo vulnerabile, provato da lotte intestine soffocate per mesi, forse anni, appesantito da un leader confuso diventato una macchietta dell’eroe che fu, azzoppato da una linea politica senza sbocco.
LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI? Sembra di sì! Mercoledì 7 marzo 2012: Il leghista Boni indagato per tangenti. Nessuna traccia della notizia su 'la Padania'!
LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI? Sembra di sì! Mercoledì 7 marzo 2012: Il leghista Boni indagato per tangenti. Nessuna traccia della notizia su 'la Padania'! Centinaia di migliaia di euro di tangenti. Il leghista Davide Boni, presidente del consiglio regionale lombardo, è indagato per corruzione nel nuovo scandalo che ha colpito il Carroccio, l'accusa dei Pm è di aver ricevuto tangenti per oltre un milione di euro finiti poi in mano ad esponenti locali della Lega Nord ... ma nessuna traccia della notizia sul quotidiano leghista 'la Padania' ...Davide Boni, presidente del consiglio regionale lombardo, è indagato dalla procura di Milano. Si parla di un giro di tangenti da un milione di euro e, secondo i procuratori, una parte sarebbero finiti nelle casse della Lega. Nel calderone, insieme a Boni, ci sono Ghezzi – capo della segreteria dello stesso -, l’immobiliarista Zunino, il consigliere provinciale – anche lui leghista – Marco Paoletti, Edoardo Sala (ex sindaco di Cassano d’Adda), l’architetto Michele Ugliola e suo cognato Gilberto Leuci. Insomma, una notizia di primo piano per qualunque giornalista, così come pubblicato su tutta la stampa nazionale, ma non per quelli de “La Padania” che, nella prima pagina di mercoledì sette marzo 2012, non ne parla nemmeno per sbaglio, preferendo continuare l’assurda polemica lanciata da Bossi sul trasferimento a Padova del boss Riina Jr. e la solita tiritela: “I ladri ed i mafiosi sono sempre i meridionali”.
ROMA LADRONA? Secondo “La Repubblica”: lo è anche Milano ed i leghisti (quelli duri e puri). Un'altra inchiesta della Procura di Milano scuote i piani alti della Regione Lombardia e soprattutto squarcia un velo su un presunto giro di tangenti da oltre un milione di euro che sarebbero finiti agli esponenti locali della Lega Nord. Dopo i casi di mazzette che hanno riguardato Filippo Penati, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni - e dunque nell'ordine un esponente del Pd e due del Pdl - gli inquirenti milanesi sono ora sulle tracce di versamenti illeciti utilizzati, secondo l'accusa, dal Carroccio in ambito territoriale. Uno dei più noti esponenti lombardi del partito guidato da Umberto Bossi, il maroniano Davide Boni, attuale presidente del consiglio regionale, è finito indagato per corruzione (una decina di episodi), assieme al capo della sua segreteria, Dario Ghezzi, e a Marco Paoletti, fino a qualche mese fa consigliere provinciale della Lega, poi sospeso e passato al gruppo misto.
I fatti contestati. Gli altri indagati sono l'immobiliarista Luigi Zunino (ex numero uno di Risanamento), Edoardo Sala (ex sindaco di Cassano d'Adda), l'architetto Michele Ugliola e suo cognato Gilberto Leuci. Boni e Ghezzi, secondo la Procura, "utilizzavano gli uffici pubblici della Regione come luogo d'incontro per raggiungere accordi o per la consegna dei soldi". Secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo e del pm Paolo Filippini, Boni e Ghezzi, a cui la guardia di finanza, nel corso di una serie di perquisizioni, ha notificato un'informazione di garanzia, avrebbero gestito "affari illeciti" e spartito tangenti che l'architetto Michele Ugliola e il cognato Gilberto Leuci avrebbero concordato con alcuni imprenditori, tra cui Luigi Zunino e Francesco Monastero (legato al gruppo Sile Costruzioni).
Il business dei centri commerciali. Il tutto sarebbe avvenuto affinché alcuni amministratori locali, anch'essi destinatari di parte dei profitti illeciti, favorissero gli interessi immobiliari degli imprenditori in diverse aree di Milano e dell'hinterland, soprattutto per la realizzazione di centri commerciali. In alcuni casi si tratta di progetti ancora "attuali". Boni, in particolare, avrebbe ricevuto tra il 2008 e il 2010 (quando era assessore regionale all'Edilizia e al territorio) buste di contanti anche nei suoi uffici in Regione. Mazzette per un totale di oltre un milione di euro, fra soldi promessi ed effettivamente versati, finiti anche nelle mani di Ghezzi e che sarebbero andati non nelle tasche dei due ma - questa è l'ipotesi degli inquirenti - a finanziare in ordine sparso le iniziative estemporanee della Lega, attraverso esponenti locali. E' per questo che i pm stanno valutando anche la possibilità di contestare il reato di finanziamento illecito ai partiti. Un quadro accusatorio che intende far luce su una sorta di 'sistema Lega' che non tocca via Bellerio, ma è basato su un metodo di rastrellamento e di distribuzione di profitti illegali, accomunato nei corridoi della Procura al vecchio meccanismo di Tangentopoli.
La replica di Boni e l'attacco delle opposizioni. "In relazione ai fatti oggi contestati anticipo fin d'ora la mia totale estraneità", è stato il primo commento di Boni dopo la notizia dell'avviso di garanzia. "Nel contempo confermo la mia piena disponibilità a chiarire la mia posizione e la mia estraneità con gli organi inquirenti, in modo da poter fare piena luce sulla vicenda nei tempi più rapidi possibili". Ma il il capogruppo del Pd in Regione Lombardia, Luca Gaffuri, dopo una riunione fra i gruppi di opposizione, chiede di "andare al più presto al voto" e invoca "subito le dimissioni di Boni". Alla richiesta di Gaffuri si sono associati anche Idv, Sel e Udc (ma quest'ultima ritiene con il capogruppo Giammarco Quadrini che "questo consiglio regionale debba andare avanti con il proprio mandato"). Boni è stato poi intervistato per la trasmissione 'Forte e chiaro' su Antenna 3. "E' naturale che un avviso di garanzia è un avviso di garanzia, non è il primo né l'ultimo che ho ricevuto. Riferendosi a un precedente caso giudiziario in cui fu coinvolto quando era presidente della Provincia di Mantova, Boni ha ricordato: "A quel tempo ci fu una condanna a otto mesi in primo grado e un'assoluzione in appello perché il fatto non sussisteva. Questa fu allora la situazione, per cui l'affronto serenamente. E' naturale che nel rispetto degli inquirenti credo che ci siano tutti i passaggi che poi col tempo vedremo. Sono sereno, mi dispiace non aver potuto seguire il consiglio regionale".
Formigoni: "Presunzione di innocenza". Sul caso interviene il presidente della Regione, Roberto Formigoni: "Mi auguro che Davide Boni riesca presto a dimostrare la sua totale estraneità - fa sapere il governatore - E' chiaro che seguiamo e seguiremo con attenzione l'evolvere delle vicende, ma vale il principio della presunzione di innocenza fino a giudizio emesso". Formigoni ha aggiunto di lasciare a Boni qualsiasi valutazione su eventuali dimissioni dalla presidenza del consiglio regionale. "Se fossero dimostrati degli atti dannosi nei confronti della Regione Lombardia - ha poi assicurato Formigoni a margine della presentazione di un libro - ci costituiremo parte civile come parte lesa: però attendiamo di sapere di più".
Le reazioni della Lega. Renzo Bossi, il figlio-consigliere regionale del Senatur, per tutta la giornata ha evitato di rispondere ai giornalisti. E' stato visto parlare al telefono più spesso del solito. Ma "non dico niente", ha detto a più riprese. E così alle cronache restano per adesso le paure di un complotto anti Lega. "Non dobbiamo chiedere soldi a nessuno, è sicuramente una coincidenza strana che si stia montando tutto un sistema intorno alla Lega, che è rimasta l'unica forza politica d'opposizione", ha detto l'europarlamentare Matteo Salvini. Il tesoriere del movimento, Francesco Belsito, ha assicurato: "Siamo estranei a fatti dove si fa riferimento a ipotetici versamenti presso la cassa del partito". Si capirà nelle prossime ore che cosa farà Boni di fronte al montare di quello che qualcuno ha già comunque ribattezzato il 'sistema Lega'.
Tutto cominciò a Cassano d'Adda. Nell'ambito dell'inchiesta - nata da una costola dell'indagine su presunte tangenti che ha coinvolto la passata amministrazione di Cassano d'Adda e che nel maggio 2011 ha portato in carcere l'allora sindaco Edoardo Sala - i militari della guardia di finanza hanno perquisito gli uffici di Boni e Ghezzi in Regione. Il blitz ha riguardato anche Zunino e Monastero, entrambi indagati assieme a Ugliola, Leuci e Paoletti. Boni - il quale ha dichiarato la sua "totale estraneità" ai fatti e ha dato la sua "piena disponibilità a chiarire" la sua posizione - e Ghezzi, come si legge nel decreto di perquisizione, "utilizzavano gli uffici pubblici della Regione come luogo di incontro per concludere accordi nonchè per la consegna dei soldi". Per gestire "affari illeciti", insomma, incontrando anche di recente gli altri coindagati.
Il sistema delle mazzette. Secondo i pm "è dimostrato il pieno coinvolgimento" di entrambi nel giro di mazzette, nel quale Ugliola - già coinvolto alla fine degli anni Novanta nella Tangentopoli di Bresso - fungeva da raccordo fra il livello locale e regionale. Un sistema che, a detta degli investigatori, riguarda anche altri piccoli imprenditori e che ha continuato a funzionare fino a qualche mese fa. A carico di Boni e del suo stretto collaboratore ci sono una serie di interrogatori resi a investigatori e inquirenti dai coindagati, tra cui un paio di verbali della fine dell'anno scorso di Paoletti e dichiarazioni dello stesso Ugliola (il primo a collaborare con i magistrati) oltre a una serie di intercettazioni, tra cui diverse telefonate tra Paoletti e Monastero. Alcuni atti dell'inchiesta sono stati trasmessi per competenza alla Procura di Monza, che indaga sul cosiddetto 'sistema Sesto' (in cui è coinvolto anche Penati), perché lo stesso Ugliola avrebbe intrattenuto rapporti con amministratori e imprenditori per progetti a Sesto San Giovanni.
Il flusso delle tangenti. Dalle intercettazioni e dalle dichiarazioni messe a verbale da alcuni indagati - tra cui lo stesso Paoletti - Boni e Ghezzi avrebbero trattato un milione di euro dal 2008 al 2010. Denaro in contanti che, come risulta dalle conversazioni telefoniche e dagli interrogatori, il presidente del consiglio regionale e il capo della sua segreteria non avrebbero intascato, ma in qualche modo sarebbe arrivato ad esponenti locali del Carroccio: si suppone per finanziare iniziative del partito in ambito territoriale. Secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto Robledo e del pm Filippini, il denaro veniva versato dagli imprenditori per ottenere facilitazioni per la realizzazione, in particolare, di centri commerciali nell'hinterland milanese. Un sistema nel quale a fare da tramite ci sarebbe stato l'architetto Ugliola, che avrebbe avuto rapporti con altri amministratori dei comuni della cintura di Milano e anche con quelli di Sesto San Giovanni. Alcuni atti dell'inchiesta sono stati trasmessi ai pm Walter Mapelli e Franca Macchia, che stanno indagando sul cosiddetto 'sistema Sesto' in cui è coinvolto anche Filippo Penati.
La maledizione dell'ufficio di presidenza. Il leghista Davide Boni è il quarto indagato nell'ufficio di presidenza del consiglio regionale in questa legislatura. Dei cinque componenti originari, eletti il 15 maggio 2010, solo uno il segretario Carlo Spreafico (Pd) non ha ricevuto avvisi di garanzia. Il primo a lasciare l'incarico per motivi giudiziari è stato Filippo Penati (Pd), ex sindaco di Sesto San Giovanni, ex presidente della Provincia ed ex capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani. Si è dimesso da vicepresidente dopo essere stato indagato per tangenti in una inchiesta sulla riqualificazione delle aree ex Falck e Marelli a Sesto San Giovanni e ora fa parte del gruppo misto. Al suo posto è stata eletta come vicepresidente Sara Valmaggi (Pd). Dopo Penati è toccato all'altro vicepresidente: Franco Nicoli Cristiani (Pdl). L'ex assessore all'Ambiente e al commercio è stato arrestato lo scorso novembre per tangenti. Scarcerato il 24 febbraio, nel frattempo si è dimesso non solo da vicepresidente ma anche da consigliere regionale (ruolo che aveva ricoperto ininterrottamente dal 1995): nell'ufficio di presidenza ha preso il suo posto un altro consigliere del Pdl, Carlo Saffioti. L'ultimo in ordine di tempo a essere arrestato è stato Massimo Ponzoni (Pdl), che si è costituito il 17 gennaio 2012, rientrato dall'estero dopo aver saputo che la Procura di Monza aveva emesso un provvedimento di arresto con l'accusa di bancarotta nell'ambito dell'inchiesta sul fallimento della società Pellicano. Quello stesso giorno si è dimesso da segretario del consiglio, dove lo ha sostituito Doriano Riparbelli.
LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI? Boni, il cowboy della Lega cresciuto nel mito di Borghezio raccontato da Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”.
Uomo di fiducia dell'europarlamentare Mario Borghezio, il presidente del consiglio regionale lombardo Davide Boni si è sempre distinto nel Carroccio per gli attacchi contro i musulmani e per gli stivali camperos da cowboy con cui calcava le sagre leghiste. Ora è indagato per corruzione. Dice di essere estraneo ai fatti. E in Lega è partita la corsa a difenderlo, ma, dati i tanti nemici, c'è già chi pensa all'espulsione dal movimento. C’è un episodio che racconta nel miglior modo possibile la vita politica di Davide Boni, presidente del consiglio regionale lombardo della Lega Nord indagato per corruzione per una variante del piano urbanistico del comune di Cassano D’Adda. Un giorno, durante le polemiche per la scuola Islamica di via Ventura nel 2006, l’allora assessore all’Urbanistica arrivò di fronte all’edificio con degli stivali da cowboy bianchi per protestare tutto il suo dissenso contro l’occupazione islamica. «Perché se gli islamici vogliono la scuola, allora io chiedo una scuola per fare la cassoeula milanese!», spiegò in una sorte di milanese stretto con vocione alla Mario Brega di fronte ai giornalisti che rimasero tra il basito e lo stupefatto nel prendere appunti. È una frase del tutto insensata per un politico normale, quasi come i deliri di Bossi su Monti. Resta però che l’abbinamento cassoeula-mussulmani ha sempre infiammato la pancia padana, che verso personaggi come Boni o come il suo mentore Mario Borghezio ha sempre avuto enorme rispetto e venerazione. Non si tratta di un colletto bianco come il tesoriere Francesco Belsito, a cui i militanti rinfacciano i soldi spediti in Tanzania. Nè un Alessandro Patelli, l’ex tesoriere condannato per la tangente Enimont negli anni '90. E non stiamo parlando neppure di un consigliere di provincia preso con le mani nella marmellata per qualche soldo preso a una sagra di paese.
L’elettorato, infatti, venera tipi come Davide Boni. Alle manifestazioni sono in tanti spesso a chiedere dove «sta il Boni?». Perchè vogliono salutarlo e stringergli la mano, dopo averlo visto sulle televisioni locali urlare contro «le barbe lunghe degli imam». E proprio qui sta il problema dell’indagine partita nei confronti di questo leghista nato a Milano nel 1962, tra i più giovani presidenti di provincia a Mantova dal 1993 al 1997, quando aveva appena 25 anni. Perché la base ha sempre visto Boni come uno dei duri e puri del Carroccio. Come un Matteo Salvini. Personaggi intoccabili dalla magistratura, secondo il severo (?) giudizio padano. Non a caso, alle ultime elezioni Boni è stato il più votato tra i leghisti in regione con più di 13 mila preferenze, aumentando il suo consenso di 2mila unità rispetto lo scrutinio del 2005. Sposato con due figli. Amante delle macchine da corsa, ha una Porche Carrera, tra i più ricchi del consiglio regionale, il reddito del 2009 indica 217mila euro, Boni è stato tra i leghisti quello che ha speso di più per l’ultima campagna elettorale: 50 mila euro. Tutti di tasca propria. Ma nel Carroccio, va detto, non era più venerato come durante l’ultimo mandato di Roberto Formigoni in Lombardia. La voglia di visibilità che lo ha sempre contraddistinto in questi anni, (a volte è stato beccato pure a fumare in consiglio in spregio a ogni regola), lo ha inimicato alla maggior parte del gruppo consigliare leghista. I battibecchi con il capogruppo Stefano Galli sono all’ordine del giorno, in particolare sulle competenze di chi doveva intervenire sui vari argomenti all’ordine del giorno. In via Bellerio si racconta che negli ultimi tempi fosse rimasto un po’ isolato anche nello scontro tra i barbari sognanti di Roberto Maroni e il cerchio magico del Senatùr. Anche per colpa dell'indagine che lo ha travolto questa mattina mentre presiedeva in consiglio regionale. Un'inchiesta nata lo scorso anno che aveva coinvolto l'allora assessore di Cassano D'Adda Marco Paoletti, ora consigliere provinciale del Carroccio, uomo di fiducia proprio Boni e presunto tramite nel giro di tangenti. Forse anche per questo motivo, il cowboy del Carroccio aveva fatto fatica a prendere posizione. E qualcuno glielo aveva persino fatto presente. Soprattutto a Pavia dove era stato inviato come mediatore tra le fazioni in guerra, senza ottenere risultati tangibili. Il suo gruppo di riferimento, poi, è sempre stato quello di Borghezio e di Max Bastoni, attuale consigliere comunale di Milano, famoso per una cartello elettorale dal nome «Bastoni per gli immigrati». È la fazione leghista dei duri e puri che non le mandano a dire a meridionali, musulmani, comunisti o massoni. Sono vicini a iniziative come quelle della Guardia Padana, spesso mal tollerate in particolare dai maroniani che negli ultimi anni hanno cercato di smussare gli angoli dei discorsi politici dello stesso Senatùr.
LE “CAZZATE” DI BOSSI.
Qualcuno ha una ricetta per Bossi? La domanda è posta da Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”.
Ormai alle sue sparate (tipo quella su Monti) non ci si fa più caso. Eppure basta leggere questa piccola antologia dei suoi deliri per chiedersi come sia possibile che uno così in Italia sia divenuto ministro, anziché essere curato. Umberto Bossi. Pallottole, fucili, secessione dura, attacchi del popolo, armi, revolver, ira dei popoli, mitragliatori, legnate, facce da spaccare: le dichiarazioni di Umberto Bossi su Monti sono solo l'ultimo capitolo di una lunga saga fatta di continui riferimenti alla violenza. Eccovi un campionario sintetico degli ultimi vent'anni:
«Quando avremo perso tutto, quando ci avranno messo con le spalle al muro, resta il fatto che le pallottole costano 300 lire». (23 settembre 1993);
«[Silvio Berlusconi] Dovrai scappare dal Nord di notte con tua moglie e i tuoi figli e le valigie. Hanno capito che tu sei mafioso». (15 settembre 1995);
«I ripetitori sono i nuovi carri armati del colonialismo romano, per quelli veri basterebbero le armi anticarro e con 100 mila lire gliene buchi uno, ma contro quelli non basta non pagare il canone, vanno buttati giù, perché non devono più trasmettere a spese nostre». (9 agosto 1996);
«Amici magistrati, il rischio è che ci sia una Pasquetta, ma più che una Pasquetta come quella del 1916 in Irlanda: non verrebbero 1.500 uomini a imbracciare il fucile; saranno 150.000 e il giorno dopo un milione». (18 aprile 1998);
«Se non passa il federalismo il nord torna alla secessione ma quella dura, senza mezze misure, senza alcuna mediazione con lo Stato italiano». (4 dicembre 2003);
«Finora gli è andata bene. Noi padani pagavamo e non abbiamo mai tirato fuori il fucile, ma c'è sempre una prima volta». (26 agosto 2007);
«Abbiamo il dovere morale di liberare il nostro popolo da questa Italia schiavista. Il potere colonialista imbecille non capisce che il popolo aspetta solo il momento per attaccare, e quel momento verrà». (8 dicembre 2007);
«Si va al voto, oppure facciamo la rivoluzione. Facciamo la lotta di liberazione. Ci mancano un po' di armi ma le troviamo». (23 gennaio 2008);
«Se necessario, per fermare i romani che hanno stampato queste schede elettorali che sono una vera porcata, e non permettono di votare in semplicità e chiarezza, potremmo anche imbracciare i fucili». (6 aprile 2008);
«Ho fermato trecentomila bergamaschi pronti a imbracciare il fucile». (8 aprile 2008);
«Se Berlusconi mi telefona gli faccio sentire il rumore del mio revolver». (8 aprile 2008);
«Avremo tutti il mitragliatore in mano e sarà un piacere portarmene un po' all'altro mondo». (8 aprile 2008);
«Se la sinistra vuole scendere in piazza abbiamo trecentomila martiri pronti a battersi. E non scherziamo, mica siam quattro gatti, verrebbero giù anche dalle montagne con i fucili, che son sempre caldi». (29 aprile 2008);
«Non sarà bocciato [il lodo Alfano], speriamo bene. Non si può sfidare l'ira dei popoli». (7 ottobre 2009);
«Noi siamo destinati a veder nascere la Padania, non c'è santo che tenga. La Padania sta a noi se farla in maniera pacifica o violenta: io preferisco la via pacifica, perché per l'altra via c'è sempre tempo a utilizzarla». (28 giugno 2010);
«Berlusconi porta in piazza la gente e sono tanti, di più. La Lega si unisce a quell'operazione con il Veneto, il Piemonte e la Lombardia. Sono un sacco di milioni persone e sono incazzate». (14 agosto 2010);
«Ai giornalisti bisognerebbe dare quattro legnate». (20 agosto 2011);
Perché questi [i giornalisti] scrivono sulla mia famiglia e prima o poi vi spacchiamo la faccia o vi denunciamo». (31 ottobre 2011);
«Fate bene i conti. In Padania ci sono milioni di persone pronte a combattere». (18 settembre 2011);
«Monti rischia la vita, il nord lo farà fuori». (5 marzo 2012).
IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI.
Raccolta di pensieri del leader leghista: SUD E MERIDIONALI
1996 (21 febbraio) -:"C'è un Nord che non ne può più di magistrati, insegnanti e carabinieri che si comportano come truppe coloniali e terrone".
1996 (29 febbraio - 5 agosto) -:"Il Cip deciderà probabilmente di far sgomberare gli italioti dalla Padania. Per esempio, il Nord è pieno di magistrati terroni".
1996 (20 agosto) -:"Dopo la nostra dichiarazione di indipendenza del 15 settembre, nascerà il Nuovo Stato Padano: le tasse pagate dalla gente del Nord rimarranno al Nord, e in Padania finalmente non avremo più giudici e insegnanti meridionali, ma solo gente del Nord".
1996 (21 agosto) -:"Questo Stato dei terroni getta la maschera e si svela razzista".
1996 (23 agosto) -:"I fischi contro di me all'Arena di Verona? Mi han fischiato i fascisti e i terroni, i fascisti meridionali organizzati dalla Cisnal".
1996 (12 ottobre) -:"Quì c'è un terrone che si vuole far passare per un grande magistrato, una sorta di uomo forte della politica... E c'è uno Stato che continua con il dilagante assistenzialismo, come dimostrano le quote latte per gli allevatori del Sud".
1997 (15 febbraio) -:"La Padania è stata invasa dai meridionali. I congolesi de Roma ci schiavizzano. Vogliono mandare al Nord migliaia di immigrati per reprimere la libertà individuale dei padani".
1997 (27 aprile) -:"La Lega ha in mano il Nord, meno Milano e Torino che sono piene di immigrati meridionali, che preferivano votare un pezzo di merda piuttosto che aiutare il Nord. Adesso sappiamo che la Lega non potrà mai vincere dopo ci sono immigrati meridionali. Adesso il movimento sa che questi signori andranno avanti fino alla colonializzazione del Nord. Il Nord non deve illudersi: se vuole la libertà se la deve conquistare, perchè gli altri non sono persone perbene, sono razzisti e colonialisti... Ora al Nord è tutto più chiaro: il Nord ha fatto venire delle persone e gli ha dato da lavorare e da mangiare, e questi farebbero qualsiasi cosa contro il Nord".
1997 (28 aprile) -:"Il Nord deve guardarsi dagli immigrati meridionali, che pensano che qualcuno gli debba qualcosa: almeno il 50 per cento di loro sono razzisti, danno un voto etnico. Formentini è stato buono e generoso con loro, e guarda come l'hanno ripagato:nemmeno 10 voti, dai meridionali. Quattro anni fa non c'era Berlusconi, ma appena è arrivato il loro padrino l'hanno seguito subito. Io avrei messo delle regole precise e chiare contro questi mafiosi, a cui dobbiamo pure mantenere i parenti".
1998 (17 Febbraio) -:"Il Nord non può stare con una banda di mafiosi... Mentre si danno 800 mila lire ai giovani meridionali per trovargli un posto di lavoro lontano da casa, invece di tenerli lì a creare posti di lavoro per combattere la mafia, nello stesso momento ecco che ci perseguitano. E' un fatto razziale, il sistema di potere deve colpire tutto quel che può colpire il padano".
1998 (7 Settembre) -:"L'unica vera battaglia che deve impegnarci d'ora in poi è quella per battere il meridionalismo e creare un blocco padano. Il meridionalismo è una filosofia che ha imperato a lungo e può essere battuta solo da un Nord coeso. Chi non vota a favore della Padania? I meridionali, quelli che non sono bene inseriti nel Nord. Perchè tra loro sono uniti, vengono da una lunga tradizione partita con il Regno delle Due Sicilie. E se il Nord è disunito, il Sud unito fa la sua partita".
1998 (25 Ottobre) -:"L'ideologia meridionalista è un dramma sia per il Nord che per il Sud".
DAL QUOTIDIANO LEGHISTA "LA PADANIA".
------------------------------------------------------------------------------Meridionali somari…
La Padania - 24 Luglio 98 - "Lo Stato discrimina i laureati Padani - Il valori legale del titolo di studio favorisce i meridionali nei concorsi", di Gianluca Savoini. "I laureati Padani sono forse meno bravi di quelli sfornati a raffica dalle università meridionali?... Le votazioni di laurea presso gli atenei del Sud sono assai più elevate (di manica larga) di quelle ottenute dai giovani studenti padani. La qualità della preparazione, il rigore degli studi, la serietà degli esami in Padania si avvicinano agli standard europei, eppure una laurea ottenuta a Milano è del tutto equivalente ad una ottenuta a Messina. E nei concorsi, dove il valore legale del titolo di studio permette il conseguimento di un punteggio finale migliore, i meridionali risultano avvantaggiati rispetto ai più "selezionati" colleghi del Nord.
----------------------------------------------------------------------------- Meridionali delinquenti…
La Padania - 24 Agosto 98 - Umberto Bossi. "C'è la Padania che è stata avviata e dopo 1200 anni il Nord si riunisce politicamente. Se non riuscirà a farlo con concretezza allora è morto, perché la mafia , la camorra e la classe politica del sud potrà entrare come un coltello nel burro. E quelli non hanno bisogno di cambiare, restano i delinquenti che sono sempre stati".
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Napoletani, calabresi, siciliani…
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. " L'unica soluzione per riempire l'università è stata quella di aprire in modo indiscriminato agli studenti provenienti dal Meridione. I risultati non si sono fatti attendere: in pochi anni la Bocconi si è trasformata, al punto che chi oggi vi entra per fare un giro, sente parlare solo calabrese, siciliano e napoletano."
------------------------------------------------------------------------------disprezzano l'onestà"…
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Non dimentichiamo poi che gli studenti meridionali che vengono a studiare a casa nostra togliendo il posto ai nostri ragazzi non dimostrano alcun genere di rispetto e di considerazione verso la città che li ospita, disprezzando l'onestà, il senso civico e la laboriosità dei suoi abitanti.
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"…ci fregano il lavoro…"
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Il meridionale che viene a studiare a Milano ha una sola cosa in testa: fregare ad un padano un buon posto di lavoro.
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"…sono leccapiedi italioti."
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Il settore università della Lega ha elaborato una proposta chiara: almeno l'85% dei posti nelle nostre università deve essere assegnato con priorità ai residenti in regione da un minimo di 5 anni. Padani devono essere anche i docenti: i leccapiedi italioti dell'Ulivo vanno dunque cacciati senza dubbi e ripensamenti. Solo così finalmente potremo dire, entrando nei nostri Atenei: qui si respira aria di casa nostra."
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Battaglia tra Nord e Sud
La Padania - 15 Settembre 98 - " Il sonnifero romano e il non mutare delle cose " di Elettra (pseudonimo): Roma ha sempre avuto due colonie: il Nord enorme potenza economica, il Sud serbatoio di voti. E' chiaro che finché il giochetto tiene non sarà possibile rinnovare nulla. La battaglia questo punto è tra Nord e Sud. Eppure c'è chi non l'ha ancora capito.
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…stufi di mantenere i meridionali…
La Padania - 1 Febbraio 99 - "Assistenzialismo o invasione, il risultato è lo stesso. Si tratti di mantenere le sovrastrutture politiche meridionaliste o di accogliere i clandestini, il tutto continua ad essere fatto a spese del Nord", di Carlo Stagnato: Noi padani, non vogliamo pagare la bella vita a tutti i diseredati di questa terra, ma siamo pure stufi di mantenere l'intero Mezzogiorno d'Italia.
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I padani, gli italioti e gli extracomunitari
La Padania - 22 Novembre 98 - "Una società a tre caste", di Gilberto Oneto: La società italiana è oggi organizzata su tre caste: ci sono i padani, gli italioti e gli extracomunitari. I padani (con tirolesi, toscani e sardi) hanno tanti doveri e pochi diritti; gli italioti tanti diritti e pochi doveri e gli extracomunitari solo diritti.
---------------------------------------------------------------------------- Discriminare è giusto…
La Padania - 21 Luglio 99 - "Se discriminare significa essere liberi di scegliere", di Carlo Stagnaro: Da oggi è vietato introdurre nei concorsi pubblici vincoli relativi all'altezza, all'età e alla residenza dei candidati. Questo si aggiunge alla già vigente e tristemente nota Legge Mancino. "Donne, drogati e musulmani e handicappati hanno più diritti di noi Padani…" Noi oggi siamo costretti a discriminare alcuni nostri simili a favore delle donne, dei musulmani, dei meridionali, degli handicappati, dei drogati e così via. Nei fatti quest'ultimi hanno più diritti di noi, godono di una reale, sebbene parziale, impunità legislativa e hanno maggiori possibilità di far valere i propri diritti, veri o falsi che siano. …ed è un nostro diritto. E' un sacrosanto diritto di ogni individuo, insomma, quello di " discriminare " (cioè preferire) qualcuno a qualcun altro in base a criteri personali. Una società in cui non è possibile discriminare non è una società libera.
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E vai col Cantanapoli…
La Padania - 11 Ottobre 99 - "La TV italiana: Nord off-limits". Non di rado vengono mandate in onda trasmissioni del tipo "Cantanapoli" o cose del genere. Senza contare i concerti di grandi personaggi della musica leggera nazionale quando si esibiscono guarda caso da Roma in giù: due nomi su tutti, Baglioni e Renato Zero". Uniche variazioni al tema sono il festival di Sanremo (nel quale comunque è sempre garantito uno spazio alla musica partenopea). Basta con la bellezza mediterranea… Nemmeno in un concorso stupido come Miss Italia le settentrionali riescono ad emergere in qualche modo. Anche quest'anno ha vinto una tipica bellezza mediterranea (per la cronaca Pugliese).
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Senza parole
La Padania - 29 Novembre 99 - "Scuola, al Sud piace la Lombardia. Più della metà dei candidati siciliani, in caso di assunzione, ha chiesto di andare ad insegnare in una regione del Nord". · ….le domande arrivano soprattutto - c'erano dubbi, essendo un concorso pubblico - dal Mezzogiorno, con Campania e Sicilia in testa, e 15 candidati su 100 sono disposti a trasferirsi in un'altra regione pur di ottenere il posto di lavoro".
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Contro l'agricoltura del sud
La Padania - 2 Dicembre 99 - "Le proposte del Governo della Padania". Il Governo della Padania in occasione dell'apertura dei lavori del Millennium Round a Seattle, condanna la posizione del governo italiano che ha dichiarato di difendere, all'interno della conferenza, l'agricoltura mediterranea, con l'esclusivo interesse delle regioni meridionali.
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Senza parole 2
La Padania - 25 Febbraio 2000 - " Concorsi regionali all'Inps ". …Tutte le volte che l'istituto deve assumere, fa un concorso che normalmente si tiene a Roma. La maggior parte dei partecipanti proviene per varie ragioni (cattiva informazione o scarso interesse per un posto nella pubblica amministrazione al Nord, mentre al Sud c'è più attenzione per questi concorsi) dalle regioni meridionali. E quindi la maggior parte degli assunti, anche in Padania, viene dal Sud.
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Su Berlusconi
La Padania - 8 luglio 1998 - Pag. 1. "Berlusconi mafioso? 11 domande al Cavaliere per negarlo. Dai miliardi per comprare il terreno su cui costruì Milano 2 alle società con parenti di Buscetta". "Signor Berlusconi, chi le diede nel 1968 l’equivalente di 32 miliardi d’oggi per acquistare i terreni?". "Per quale motivo, Cavaliere, fece amministrare importanti quote della Fininvest alla società Par.Ma.Fid. di Milano? Sapeva che gestiva anche i patrimoni di boss mafiosi?". Pag. 2. Il catenaccio che sovrasta anche la pagina successiva recita: "Berlusconi mafioso? Al signore di Arcore la parola: convochi una conferenza stampa per rispondere a queste domande". Poi i titoli di questa seconda pagina. "Tra il 1968 e il 1979 Berlusconi eseguì aumenti di capitale per centinaia di miliardi. Soldi di chi?". "Perché, signor Berlusconi, lei si ostina a tacere? Dica l’identità dei suoi finanziatori". "Le 22 holding misteriose su cui indagano a Palermo". Pag. 3. Titolone centrale: "Un impero di prestanome. Berlusconi ci dica perché li ha usati dal 1968 al 1984". Occhiello di questo titolo: "Oltre gli ‘anonimi’ flussi finanziari, c’è un altro mistero da spiegare". Pag. 4. "Casalinghe e praticanti notai, queste furono le prime coperture di Berlusconi. Perché?". Il testo, lunghissimo, minuzioso, pieno di cifre e di dettagli, che stava sotto questi titoli era preceduto da una presentazione molto veemente. Qui, dopo aver ricordato "i fortissimi capitali" che avrebbero consentito a Berlusconi di mettere in moto una potente macchina edilizia, e la sospetta mafiosità di questi aiuti, si concludeva così: il Cavaliere "sveli questo mistero. E prosegua facendo cadere gli altri schermi che impediscono di capire le fonti di così tanto denaro e le successive, strabilianti, scelte gestionali. Parli, Cavaliere. Parli o taccia per sempre".
PREGHIERA PER LA PADANIA LIBERA
O Gesù dagli occhi buoni
fai morire tutti i terroni.
O Gesù dagli occhi belli
Fa Morire solo quelli.
Oh mio caro e buon Gesù
Fa che non ne nascan più
Fa sparire quella razza
che da noi quassù si piazza.
Nella tua grande gloria
Falli fuori dalla storia
Non si senta più parlare
neppur quelli d'oltremare.
Poni fine per favore
A quell'unico tuo errore
Per la tua onnipotenza
ti chiediam l'indipendenza
O Signore te lo giuro
noi qui al Nord vogliamo il muro
che sorretto da due pali
porti via i meridionali
Dillo pure a giove pluvio
fa venir n'altro diluvio
che sommerga con ragione
tutto quanto il meridione.
Fa in modo che mia figlia
Non sia "Ciccio" che la piglia
CHE SIAN BRUTTI, CHE SIAN MOSTRI
MA CHE SIAN SEMPRE DEI NOSTRI
Così Sia
INNO DELLA LEGA LOMBARDA
O Gesù d'amore acceso
Quanti soldi abbiamo speso
Per sfamare quei coglioni
che si chiamano terroni
sono giunti qui a Milano
dopo la rivoluzione
per riempire la Padania
con la disoccupazione.
Quando arriva il bel Natale
chi sta bene e chi sta male
se ne tornan giù in Sicilia
a trovare la famiglia
fino a Pasqua stanno giù
quei fetenti de terù
e tra feste e malattia
da laurà sen parla mia
Oh Signore te lo giuro
noi qui al Nord vogliamo il muro
che sorretto da due pali
porti via i meridionali
Alle sette di mattina
noi andiamo a lavorare
loro sono in una zona
a pregare Maradona
Se parliamo di lavoro
quelli esclusi sono loro
tutti fermi dietro ai muri
pronti a fare gli scongiuri....
per tirar la conclusione
sulla razza del terrone
che comprende quella sarda
voterem lega lombarda
IL RAZZISTA CHE NON TI ASPETTI, CON I NATALI INDEGNI.
Vittorio Feltri scatenato alla presentazione del libro di Marco Reguzzoni, ex capogruppo della Lega Nord alla Camera. “Gente del Nord”, questo il titolo della pubblicazione. Ed è proprio alla domanda sul grado di “leghismo” dell’ex presidente Silvio Berlusconi che il direttore bergamasco de Il Giornale sfodera tutta la sua verve. “Berlusconi non può essere definito un padano, perché è sempre lì a circondarsi di terroni. Fa persino scrivere gli inni ad Apicella, poi per quello nuovo ha scelto Maria Rossa Rossi, detta anche Apicella regina. Basta guardare le frequentazioni dell’ex presidente Berlusconi per capire quanto sia “terrone”. “È andato persino a una festa a Casoria. Che io non ci andrei manco a prendere un caffè a Casoria.....Anzi è proprio da lì che sono iniziati i suoi problemi, mi pare”. Poi una battuta sul federalismo. “Non passerà mai! Fatevene una ragione voi leghisti. Anche se facessimo un referendum a sud voterebbero tutti contro, perché vogliono sempre abbeverarsi alla tetta del nord, mentre a nord, i parenti del sud darebbero il colpo finale”. Reguzzoni sorride: “Lo dici perché sei un secessionista convinto”.
Aljarida (in arabo “il giornale”) è un interessante periodico mensile free press, realizzato a Milano. Interessante per varie ragioni: ricco di notizie sul territorio e le dinamiche dell’immigrazione (ma sempre senza retoriche ideologiche), informato sul dialogo culturale che intercorre fra le due sponde del Mediterraneo, e opportunamente scritto in due lingue: italiano e arabo. Ma la ragione per cui vi parlo di Al Jarida è anche un’altra: un articolo intitolato “Tutto il mondo è Paese”. Nell’articolo – che si può leggere sul numero di giugno 2010 della rivista, oppure sul suo sito – si spiega l’origine – araba in certi casi , “meridionale” in altri – dei cognomi di alcuni deputati leghisti. In sostanza, spiega l’articolo, quando nel 1492 i Mori vennero cacciati dalla Spagna (Al Andalus, l’Andalusia) alcuni fuggirono nella Repubblica di Venezia e in particolare in una città che faceva parte del suo territorio, Brescia. Così, i cognomi di molti bresciani hanno origini arabe. Per esempio quello dell’on. Gibelli, deputato della Lega Nord e Vice Governatore della Regione Lombardia non ha origini celtiche bensì arabe: molti Mori fuggiti dalla Spagna si rifugiarono infatti sulle montagne del bresciano e Gibelli deriva dalla parola araba giabali che significa appunto “montanaro”. L’articolo su Aljarida contiene anche altre stimolanti informazioni, fra cui una riguardante il nuovo Presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota: il suo cognome sembra derivare dall’arcaico albanese kota, termine diventato un cognome molto diffuso nel meridione d’Italia e sopratutto in Puglia e che – particolare curioso – in albanese significava “inutile, cosa da poco”.
Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo.
Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale.
Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Secondo Carlo Crispo su “Il Denaro” la Lega ha deliberato la riapertura del Parlamento della Padania e di lottare per la secessione. La Lega però si è guardata bene dal chiudere la Giunta Regionale di Formigoni. Gli Onorevoli “Leghisti”, del Parlamento “Italiano” non hanno rassegnato le dimissioni, continuano a percepire i lauti stipendi “Italiani” riservati ai parlamentari “Italiani”. In una recente apparizione televisiva l’ex ministro leghista Maroni, ha tenuto a precisare che i politici della Lega sono persone serie , e neanche avesse la coda di paglia, si è affrettato ad aggiungere che, in buona sostanza, non bisognava essere tratti in inganno dalle apparizioni teatrali di “Pontida”. Infatti, in un bel palco, durante il corso di dette manifestazioni, compaiono personaggi, con elmo, corna, spade e scudi, tutti mascherati con abiti variopinti, che intonano brani musicali, che, a ben vedere, però, rievocano l’unità nazionale. In dette pittoresche manifestazioni, (in cui traspare qualche gene meridionale, se non altro per la decisa “Teatralità”, riconducibile al bisnonno di “Scarpetta”), si inneggia alla secessione. I Leghisti, per buona parte discendenti da meridionali emigrati, patiscono la cosiddetta “sindrome di Santa Chiara” nel senso che se Napoli và male si dispiacciono, se Napoli va bene, si dispiacciono due volte. E’ comprensibile, ove si consideri che i loro ascendenti hanno dovuto, per necessità, lasciare la loro bella terra d’origine, per recarsi in luoghi sicuramente meno ameni, nei quali hanno sofferto e si sono distinti ed affermati per le loro capacità lavorative. Quello che non è comprensibile è che dai veri settentrionali avrebbero dovuto recepire oltre la dedizione al lavoro anche la generosità ed il cuore. I leghisti vivono male in quanto depressi per aver “perso l’ideale capitale: Milano”, ma, sopra tutto perché perennemente adombrati dai loro sentimenti di aspro e sordo rancore nei confronti dei meridionali. Non vogliono rendersi conto che l’Italia non è una azienda, l’Italia è una famiglia. In una famiglia, ove mai vi fossero fratelli in difficoltà, questi vanno soccorsi spontaneamente e con solidarietà. I problemi, in seno ad una famiglia, sono i problemi di tutti e vanno risolti insieme. Se la pianura Padana fosse invasa dalle acque, evento non improbabile in virtù dei rilevanti cambiamenti climatici, noi meridionali, “poveri” ma aperti e propensi all’amore, accoglieremmo con gioia i figli dei leghisti nelle nostre case piene di sole. Di converso, se eruttasse il Vesuvio, va temuto, in virtù di comportamenti oggettivi, il compiacimento dei leghisti, tanto attaccati ai conti; compiacimento, in parte, sicuramente dovuto al fatto che risparmierebbero anche le spese per seppellirci, avendo la cenere provveduto a tanto. Tornando al livore ed all’unica deprecabile attività politica dei leghisti, quella di fomentare l’odio tra i “fratelli” di Italia, particolare significato assumono le singolari dichiarazioni dell’onorevole Bossi, (del resto, noto per l’immenso spessore culturale), raccolte nelle registrazioni televisive, tra queste, di particolare rilievo è stata quella in cui si minacciava di imbracciare i fucili. Qualche personaggio di Casal di Principe, avrebbe mostrato deciso interesse all’argomento, sicuramente si sarebbe informato di quando i Leghisti sarebbero transitati con i “ventilati” fucili, se non altro, per “scipparglieli dalle mani”. Ricordiamo ai pittoreschi secessionisti che durante l’occupazione Americana, nel dopo guerra, a Napoli, nei quartieri Spagnoli, si “vendevano” i soldati americani e che gli stessi, nella migliore delle ipotesi, ritornavano, in caserma o sulle navi, in mutande. Va ribadito che la Lega è un partito che fonda le sue radici nei principi dell’egoismo e dell’ingiustificato rancore, per tanto, destinato a dissolversi, come tutte le forze del male, al cospetto del nostro amore incondizionato e della nostra solidarietà verso tutti i settentrionali; da Noi , ahimé, in buona parte discendenti. Certo la Lega si dissolverà per sua sponte, non prima però di aver tentato di ferirci, ingiustamente, a morte.
SUD? NO GRAZIE! LA LOMBARDIA DEGLI ONESTI…CHI? MA MI FACCIA IL PIACERE!!!!!!!
La valanga sulle presunte spese pazze con soldi pubblici non si arresta e travolge altri 37 consiglieri (o ex) del Pirellone, accusati anch'essi di peculato, scrive “La Repubblica”. Il pallottoliere degli esponenti politici indagati per aver ottenuto rimborsi illeciti va dunque aggiornato e tocca così quota 62 indagati, tra cui anche il vicepresidente del Senato, Rosi Mauro, il cui nome era già emerso nelle carte dell'indagine sui fondi della Lega (e mai formalmente indagata). Ora, in pratica, l'inchiesta sui presunti rimborsi illegali coinvolge quasi tutti (tranne quattro) gli eletti di Pdl e Lega nel consiglio regionale lombardo nel 2005 e nel 2010. Dopo gli inviti a comparire notificati a 22 indagati (11 esponenti del Pdl e 11 del Carroccio), tra cui i capigruppo dei due partiti di maggioranza, Paolo Valentini e Stefano Galli, e anche Nicole Minetti, si è saputo che nell'inchiesta ci sono altri 37 indagati (22 del Pdl e 15 della Lega). E fra loro c'è anche Renzo Bossi, la cui accusa per peculato però era già emersa, quando si era saputo che il figlio di Umberto avrebbe speso parte dei soldi del gruppo consiliare in videogiochi, sigarette e lattine di Red Bull. Ai 59 destinatari complessivi di inviti a comparire vanno aggiunti poi i tre nomi già saltati fuori ad ottobre 2012, quando i finanzieri andarono al Pirellone a prendere i rendiconti dei gruppi di Pdl e Lega: Davide Boni, Massimo Buscemi e Franco Nicoli Cristiani. Quest'ultimo, però, è indagato per peculato in qualità di ex assessore e non di consigliere. E' quindi uno dei quattro consiglieri dei due partiti di maggioranza, eletti nel 2005 o nel 2010, non indagati. Fra gli altri non indagati figurano l'ex ministro Mariastella Gelmini (eletta nel 2005 e nel 2006 entrata in parlamento), Viviana Beccalossi de Enzo Lucchini, diventato poi presidente dell'Arpa. Lucchini, da quanto si è appreso, avrebbe speso solo 5 euro per una raccomandata. Dal lungo elenco di uscite contestate nella prima tornata di inviti a comparire, firmati dal procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo e dai pm Paolo Filippini e Antonio D'Alessio, invece, era venuto fuori di tutto: dai lecca-lecca ai gratta e vinci, dai coni gelato ai cioccolatini, dalle cene da oltre mille euro ai prodotti hi-tech per migliaia di euro fino ai cd musicali e al cappuccino e alla brioche, rigorosamente rimborsati, secondo i pm, con i soldi destinati ai gruppi consiliari per le attività istituzionali. Molti dei consiglieri hanno disertato le convocazioni in Procura: in particolare quelli del Carroccio. E chi è andato, come il capogruppo Valentini, ha parlato di cene "tutte istituzionali". Da quanto si è saputo, però, alcuni consiglieri avrebbero riempito i verbali di "non so" e "non ricordo". Così avrebbe fatto Angelo Giammario (Pdl). I pm gli contestano 114mila euro di spese tra il 2008 e il 2012 e nell'interrogatorio, fra le altre cose, gli avrebbero chiesto conto anche di "800 inviti" per una "cena di Natale" da 201 euro. E il consigliere non avrebbe saputo indicare a quale evento da 800 persone si riferisse quella spesa per messaggi d'invito. Gli uomini del nucleo di polizia tributaria sono entrati al Pirellone anche per prendere i documenti sui rimborsi dei gruppi d'opposizione: ora li stanno analizzando per andare a verificare eventuali irregolarità con lo stesso sistema adottato per quelli di maggioranza. "E così oggi, primo giorno ufficiale di campagna elettorale, sappiamo finalmente dove sta di casa la corruzione in Lombardia. Sta tutta e solo nei consiglieri del Pdl e della Lega: 62 indagati su 62 fra consiglieri ed ex consiglieri", scrive in una nota il governatore Roberto Formigoni. "E sappiamo anche che i consiglieri dell'opposizione, che hanno vissuto in questi anni con gli stessi regolamenti e le stesse leggi e hanno avuto gli stessi rimborsi, sono invece tutti innocenti", prosegue Formigoni. "Mi chiedo cosa aspettino i compagni dell'opposizione a fare un gesto di minima responsabilità, cosa aspettino ad autodenunciarsi. A chi pensano di raccontare che i loro scontrini sono diversi da quelli della maggioranza?", si legge nella nota. "Ovviamente confermo quanto già detto più volte in questi giorni: chi realmente ha fatto un uso scorretto del denaro pubblico deve essere punito ed escluso dalla candidatura. Ma va anche fatta chiarezza su tutte le persone implicate e non solo su quelle della maggioranza", conclude il governatore. Dai ristoranti alle sigarette e ai cioccolatini, ma anche cappuccini, ristoranti di lusso o munizioni per la caccia: queste alcune delle "spese di rappresentanza istituzionale" di consiglieri del Pdl e della Lega nel mirino della GdF milanese, che ha iniziato i controlli anche sull'opposizione: Pd, Sel, Idv e Udc e Pensionati. Coi soldi pubblici dei rimborsi ottenuti al 'Pirellone', Nicole Minetti ha comprato anche il libro 'Mignottocrazia' di Paolo Guzzanti, pagato 16 euro, lo riporta “La Repubblica” e lo scrive il Pm negli atti d'indagine. Minetti (convocata dai pm di Milano il 19 dicembre 2012), insieme a un'altra quarantina di consiglieri Pdl e Lega è indagata per peculato nell'inchiesta sui costi della politica alla Regione Lombardia. Note spese sotto inchiesta. Che mascherate da "spese di rappresentanza istituzionale" nascondono ricevute del McDonald's in cui viene indicato il menù baby (quindi i consiglieri accompagnati anche da bambini), scontrini di videogiochi e degustazioni di vini. Alcuni avrebbero presentato perfino ricevute di serate in cui offrivano la cena a 20-30 amici. In altri casi i rimborsi riguardavano le pizze da asporto alla domenica sera. Tutte queste spese riguardavano sempre singoli consiglieri e non i gruppi consiliari e venivano rimborsate presentando gli scontrini a chi si occupa di gestire l'amministrazione del gruppo in Regione. Numerosi acquisti di videogiochi, sigarette e bibite, in particolare 'Red Bull' sono invece alcune delle spese che l'ex consigliere lombardo Renzo Bossi, anche tra gli indagati per peculato, avrebbe effettuato coi soldi del gruppo consiliare della Lega Nord. Un consigliere poi avrebbe comprato coi rimborsi regionali il pane, mentre l'esponente leghista Cesare Bossetti avrebbe speso, nel 2011, quasi 15 mila euro per comprare dolci in pasticceria e fare colazione con brioche e caffè. Al consigliere del Pdl Angelo Giammario, invece, viene contestato di aver usato per fini personali oltre 27 mila euro di soldi pubblici, in particolare per noleggiare auto e taxi. Undici al momento i consiglieri del Pdl e altrettanti della Lega ad aver già ricevuto un avviso di garanzia. Gli undici leghisti sono: Cesare Bossetti, Fabrizio Cecchetti (attuale presidente del consiglio regionale), Angelo Ciocca, Stefano Galli, Alessandro Marelli, Ennio Moretti, Massimilano Orsatti, Ugo Parolo, Roberto Pedretti, Luciana Ruffinelli, Pierluigi Toscani. Questi gli indagati nelle file del Pdl: Giovanni Bordoni, Giulio Boscagli, Alessandro Colucci, Giuseppe Gianmario, Antonella Maiolo, Marcello Raimondi, Nicole Minetti, Gianluca Rinaldin, Carlo Saffiotti, Paolo Valentini e Sante Zuffada. Il consigliere Pierluigi Toscani ha comprato, tra le altre cose, lecca lecca e gratta e vinci. Nella sua 'lista della spesa' ci sono anche cartucce usate per la caccia comprate presso l'azienda Muninord per 752 euro, e poi "cono medio e coppetta media di gelato", "lemonsoda, pizzette, cannoli, ciambelle, torta sbrisolona, zucchero semolato, farina, salsicce, cracker e biscotti, frutta e ortaggi". E anche, per la somma di 127 euro, ostriche. Il leghista Alessandro Marelli fuochi d'artificio da un rivenditore cinese, almeno sei computer, ma anche ovetti Kinder. Altri del Pdl e della Lega avrebbero speso ciascuno oltre 100 mila euro di soldi pubblici non per spese di rappresentanza istituzionale. Complessivamente tra il 2008 e il 2012 le spese nel mirino dei pubblici ministeri sono nell'ordine di diversi milioni di euro. "Batman non c'e' in Lombardia", ha detto convinto il presidente della Regione Roberto Formigoni riferendosi quindi, pur senza mai nominarlo, anche al "caso" di Francesco Fiorito ex capogruppo Pdl nel Lazio. "In Lombardia le regole sono molto chiare, nette e del tutto diverse da quelle vigenti in altre Regioni. Credo proprio che i nostri gruppi - ha concluso - le abbiano rispettate fino in fondo". L'inchiesta sui costi della politica lombarda si allarga. E dopo aver acquisito i rendiconti 2008-2010 relativi ai rimborsi garantiti ai gruppi consiliari del Pdl e della Lega, i finanzieri del nucleo di polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano hanno notificato un ordine di esibizione ai gruppi dell'opposizione. L'ordine è stato presentato anche nell'ufficio della presidenza del consiglio. I finanzieri vogliono, in sostanza, acquisire la 'lista della spesa' rimborsata a Pd, Sel, Idv, Pensionati e Udc e altri gruppi di minoranza. La richiesta di acquisizione di documenti non riguarda solo i gruppi consiliari ma anche la Giunta e la presidenza della Regione Lombardia. La richiesta riguarda la documentazione amministrativa e contabile delle diverse Direzioni per "spese aventi ad oggetto attività di comunicazione, rappresentanza collaborazioni/consulenze o comunque dichiarate utili per l'attività degli uffici". Le indagini sono partite da ottobre 2012 da quella sul leghista Davide Boni (ex presidente del consiglio regionale lombardo accusato di corruzione) e sull'ex assessore del Pdl Franco Nicoli Cristiani, arrestato un anno fa per una mazzetta da centomila euro trovata nella sua abitazione. Con l'ipotesi di reato di peculato, in Lombardia Paolo Valentini e Stefano Galli, capigruppo in Regione Lombardia rispettivamente del Pdl e della Lega Nord, sono indagati nell'inchiesta della procura di Milano - coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo -, che vede coinvolti una quarantina di consiglieri lombardi. Tutti si sarebbero fatti rimborsare con i soldi pubblici anche cocktail o il cappuccino e brioche del mattino, e ristoranti di lusso milanesi, come "al Riccione", specializzato in pesce e uno dei prediletti dai politici. "Non ho ricevuto nulla", ha detto il capogruppo della Lega in Regione Lombardia Stefano Galli. "Non riusciamo a capire il motivo, se non che è iniziata la campagna elettorale", ha aggiunto.
“Il Corriere della Sera” scrive: ci sono altri 37 indagati per peculato nell'inchiesta condotta dalla procura di Milano sui rimborsi regionali. Sono tutti consiglieri o ex consiglieri della Lega e del Pdl, della Regione Lombardia e si vanno ad aggiungere ai 22 che avevano ricevuto un invito a comparire. Il numero dei consiglieri indagati raggiunge così quota 62. Ventidue consiglieri sono del Pdl e quindici della Lega Nord: tra questi c'è anche la leghista Rosi Mauro, attuale vice presidente del Senato, eletta al Pirellone nel 2005 e rimasta fino al 2008 per «trasferirsi» a Palazzo Madama. E Renzo Bossi, figlio di Umberto. Nel mirino i presunti rimborsi illeciti con soldi pubblici a fronte di spese ritenute sospette: soldi che avrebbero ottenuto, a vario titolo, tra il 2008 e il 2012. Gli investigatori stanno analizzando anche le spese dei gruppi dell'opposizione. Sono soltanto quattro i consiglieri regionali lombardi eletti al Pirellone nel 2005 e nel 2010, quindi nelle ultime due legislature, che non sono indagati nell'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto, Alfredo Robledo sui «costi della politica». Sono Franco Nicoli Cristiani (comunque indagato per peculato nella veste che ha ricoperto di assessore regionale, prima di essere arrestato per corruzione), Viviana Beccalossi, Maria Stella Gelmini ed Enzo Lucchini. «Leggo che il numero dei consiglieri indagati sale a 62 - ha affermato il capogruppo del Pdl in Regione Lombardia Paolo Valentini -. Colleghi dell’opposizione, il destino mi sembra ormai ineludibile: chiunque abbia richiesto anche solo un euro di rimborso in Regione Lombardia negli ultimi 5 anni, verrà indagato. Rinnovo pertanto l’invito a rispettare la "par condicio" e a rendere pubblici, prima delle elezioni, gli scontrini che vi riguardano e non soltanto i dati aggregati e anonimi che troviamo sui vostri siti». Anche il governatore uscente, Roberto Formigoni, si chiede «cosa aspettino i compagni dell'opposizione a fare un gesto di minima responsabilità, cosa aspettino ad autodenunciarsi. A chi pensano di raccontare che i loro scontrini sono diversi da quelli della maggioranza?». Lievita lentamente, ma inesorabilmente, giorno dopo giorno, il numero dei consiglieri regionali lombardi indagati per peculato nell'inchiesta sui rimborsi spesa facili e allegri e come una colata di fango travolge e ricopre i gruppi di Pdl e Lega, scrive Giuseppe Guastella sempre su “Il Corriere della Sera”. Ora siamo a quota 62, 35 dei quali appartengono al Pdl e 27 alla Lega, ma la scalata dei pm non è ancora finita perché, dopo la maggioranza presto sarà la volta dei partiti dell'opposizione. L'indagine è nata mesi fa parallelamente all'arresto dell'assessore pdl Franco Nicoli Cristiani finito nei guai per una tangente di 100.000 euro legata all'autorizzazione di una discarica. Vennero fuori pagamenti in ristoranti rimborsati dalla Regione che riguardavano anche l'ex presidente del consiglio regionale Davide Boni (Lega) e l'ex assessore Massimo Buscemi (Pdl). Analizzati i loro rimborsi spese, i nomi di Nicoli Cristiani, Boni e Buscemi aprirono il nuovo fascicolo. Sono mesi che la Guardia di finanza di Milano scartabella migliaia e migliaia di ricevute fiscali, scontrini di bar e fatture per oltre tre milioni di euro relativi agli acquisti più impensati consegnati dal 2008 ad oggi dai consiglieri della maggioranza per ottenere i rimborsi per spese che, hanno dichiarato formalmente agli uffici, sarebbero state fatte «nell'espletamento del mandato», ma che la Procura, invece, ritiene in molti casi totalmente ingiustificate ed illegali. Dopo un primo esame certosino, le Fiamme gialle hanno notificato 22 inviti a comparire per peculato ad altrettanti consiglieri regionali, una metà della Lega e l'altra del Pdl, tra i quali i capigruppo dei due partiti di maggioranza, Paolo Valentini e Stefano Galli. I militari hanno finito il lavoro e i pm hanno indagato altre 37 consiglieri, 22 del Pdl e 15 della Lega che, come tutti gli altri che occupano i seggi dell'aula consiliare del Pirellone, accumulavano gli scontrini per ottenere fino a 1.500 euro al mese. Quello che per molte persone è uno stipendio medio, per i consiglieri regionali è una voce di entrata che si somma al già lauto stipendio che mediamente viaggia intorno ai 9.000 euro netti, ai quali si aggiungono l'indennità di 1.500 euro per il portaborse e altri benefit. I risultati sono sempre gli stessi: i pranzi, le cene e le notti in albergo la fanno da padrone, così come le spese di viaggio in taxi o per il carburante delle auto private. Ma ci sono anche le solite uscite che con il mandato amministrativo sembrano avere poco a che fare, come ad esempio la «salsiccia di Norimberga» messa in nota da leghista Pierluigi Toscani o il «Mon chéri» da un euro e 70 della compagna di partito Luciana Ruffinelli emersi nel primo troncone dell'inchiesta. Tra i nuovi indagati figurano la vice presidente del Senato Rosi Mauro, che è stata consigliera regionale lombarda per il Carroccio nella precedente legislatura, il cui nome è comparso (ma non è indagata) anche nell'inchiesta sui rimborsi elettorali della Lega nazionale condotta a Milano dagli stessi magistrati che ha travolto il partito favorendo l'ascesa alla segreteria di Roberto Maroni. «Non mi lascio intimidire, anzi continuerò, combattiva come sempre, a fare politica», dichiara la Mauro. Nell'elenco compare anche Renzo Bossi che, con i soldi destinati all'attività di promozione dell'istituzione consiliare, avrebbe comprato anche videogiochi, sigarette e lattine di «Red Bull». Il figlio del fondatore Umberto Bossi è indagato con il padre anche per i rimborsi «nazionali». Della settantina di consiglieri che nelle due legislature tra il 2008 e il 2012 (il periodo precedente sarà presto coperto dalla prescrizione) si sono avvicendati al Pirellone non tutti sono indagati. La ex An e poi Pdl Viviana Beccalossi non ha presentato richieste di rimborsi forse perché nel 2008 è diventata parlamentare. Così come ha fatto Mariastella Gelmini, ex ministro dell'Istruzione, trasferitasi a Montecitorio anche lei nel 2008. Non è indagato neppure il pidiellino Enzo Lucchini, che ha chiesto il rimborso di una sola raccomandata da 5 euro. Lucchini ha fatto parte del consiglio di presidenza le cui uscite non finiranno sotto la lente degli investigatori agli inizi del nuovo anno quando la Gdf comincerà ad esaminare anche le carte di Pd, Idv, Sel, Udc, Gruppo misto e Pensionati. I risultati arriveranno prima delle elezioni, assicurano al quarto piano Palazzo di giustizia.
Mentre sono indagati altri 37 tra ex consiglieri e consiglieri del Pirellone sulle "spese pazze", è in corso una polemica tra Pd e Pdl sui rimborsi ai gruppi consiliari del Pirellone, dopo lo scandalo che ha portato a 40 indagati tra Pdl e Lega Nord con l'accusa di avere utilizzato per spese personali i rimborsi stessi, scrive “Milano Today”. Luca Gaffuri, capogruppo del Partito democratico, afferma in questi giorni più volte che il suo partito è totalmente trasparente, avendo sempre pubblicato e aggiornato online le spese, nel sito web del gruppo regionale del Pd. Paolo Valentini, capogruppo del Pdl, gli risponde seccamente: "I dati sono generici e anonimi". Effettivamente si è saputo l'ammontare esatto delle spese dei singoli consiglieri del Pdl e del Carroccio e anche le ragioni (ad esempio le "famose" nozze della figlia del capogruppo leghista Stefano Galli, o l'acquisto di "Mignottocrazia" in libreria da parte di Nicole Minetti). I dati pubblicati online dal Pd invece sono senza dettaglio e senza nome del consigliere che ne ha effettivamente usufruito. "Il Pd non si sottragga a un confronto mediatico sulle spese", conclude Valentini, "visto la richiesta di coerenza e trasparenza" avanzata da Umberto Ambrosoli, recentemente indicato dalle primarie come candidato governatore del centrosinistra. Alla voce "telefono-posta" ecco gli ultimi rimborsi pubblicati sul sito del gruppo regionale del Partito democratico. Si va dalla fattura per la telefonia fissa relativa a febbraio-agosto 2012 (1.240 euro) a vari acquisti di credito Skype (tutti per 11,50 euro). L'ultimo dato visibile, del 30 ottobre, è un generico pagamento di fatture per circa 350 euro. Alla voce "rappresentanza", che comprende spese di alloggio, trasporti e altre, si trovano "consumazioni al bar settembre 2012" (per quasi 250 euro), un generico "viaggi" riferito al 30 settembre (795 euro), vari pranzi (con cifre variabili: nel mese di ottobre per 25 euro, 38 euro e 260 euro), spese di carta di credito (a ottobre: 291 euro), poi 1.600 euro di acconto (50%) per un corso di formazione, oltre a vari rimborsi di spese di trasporto e di alloggio. Alla voce "consiglieri" troviamo generici pernottamenti (ad esempio un "pernottamento più taxi" di 148 euro datato 23 ottobre), una ricarica di cellulare (155 euro), spese per il libro "I miei primi 2 anni in consiglio regionale" (9.360 euro) e per il libro "Tramonto celeste, alba democratica" di Carlo Spreafico (2.607 euro), consulenze marzo-ottobre 2012 (7.500 euro), materiale per videocamera (194 euro), solo per citare alcuni tra i più recenti.
LA LEGA CORROTTA. Dalla banca padana alle truffe sul latte. Quanti pasticci in casa del Carroccio, scrive Walter Galbiati. Deputati e senatori, sindaci e consiglieri di piccoli comuni. Nelle carte delle procure del Nord sono finiti molti esponenti leghisti per corruzione o reati legati alla p.a.. Ma c'è anche chi, con una condanna per stupro alle spalle, è pronto a ripresentarsi alle elezioni. La maggior parte delle volte, non c'è reato, ma spesso il potere leghista non guarda in faccia nessuno. E anche al Nord, sindaci, assessori e capigruppo "tengono famiglia". Moglie e figli vengono così sistemati su poltrone e poltroncine di un certo pregio. Oltre all'inchiesta che sta facendo tremare i vertici del movimento, la Lega paga ancora i conti della sua sfortunata avventura bancaria alla fine degli anni '90. Sponsorizzata dall'allora capo di Bankitalia Antonio Fazio, alla ricerca di una sponda in Parlamento, e salvata dal 'furbetto del quartierino' Gianpiero Fiorani, Credieuronord, l'istituto di credito sognato dal Senatur, è naufragato poi tra i debiti. Colpa, anche, delle operazioni spericolate per nascondere il maxi raggiro da 100 milioni di euro da parte di allevatori vicini al partito. Prima di mettere gli occhi sul complicato mondo delle Fondazioni bancarie, i leghisti hanno cercato di farsi la banca in casa. Si chiamava Credieuronord ed è risultata poco più che una meteora nel firmamento degli istituti di credito. Nata nel 1998, finanziata da piccoli risparmiatori padani, l'istituto è andato pochi anni dopo in liquidazione. Da lì sono passate alcune torbide storie della finanza del Nord. Un tentativo di salvataggio dell'istituto era arrivato da Gianpiero Fiorani con la sua Popolare di Lodi, un gesto interpretato dalla procura di Milano, che indagava sulla scalata di Fiorani alla Banca Antonveneta, come "un favore" alla Lega per mitigare la posizione del partito contraria al mantenimento della carica di governatore della Banca d'Italia a vita, allora in discussione in Parlamento e ricoperta da Antonio Fazio, alleato di Fiorani. E' lo stesso banchiere lodigiano, nell'interrogatorio del 5 gennaio 2006 di fronte ai pm milanesi Greco, Perrotti e Fusco a spiegare cos'era per lui Credieuronord: "A Fazio serviva l'appoggio della Lega in Parlamento. Giorgetti si era impegnato a sostenere il governatore in cambio del salvataggio della banca". Ai leghisti, invece, come Giancarlo Giorgetti sarebbe servito salvare Credieuronord dal fallimento per coprire le operazioni spericolate dei vertici del movimento e le intermediazioni fittizie con le cooperative di allevatori create per nascondere la truffa delle quote latte non pagate. Qui nella banca padana vi erano i conti dei produttori del latte, vicini alla Lega, finiti al centro di più inchieste per una truffa da 100 milioni di euro attuata aggirando le normative europee, somme che dovevano essere versate all'erario, ma di cui si sarebbero appropriati gli stessi allevatori. Nel filone dell'inchiesta milanese, in primo grado è stato condannato a 5 anni e mezzo di reclusione Alessio Crippa, rappresentante di una cooperativa del latte e definito il 'Robin Hood'dei produttori. Con lui altri 15 allevatori e produttori a pene comprese tra uno e due anni e sei mesi. Il giudice ha imposto un risarcimento all'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) per 300 milioni di euro e ha confiscato beni per 18 milioni. La ricostruzione della vicenda, invece, si ritrova nelle motivazioni con cui il tribunale di Saluzzo ha condannato per truffa una sessantina di allevatori cuneesi, tutti soci delle cooperative Savoia fondate da Giovanni Robusti, leader dei Cobas del latte piemontesi e successivamente europarlamentare del Carroccio. I giudici Fabrizio Pasi, Fabio Cavallo e Fabio Franconiero raccontano così il raggiro: "Dal momento in cui gli allevatori fatturavano il latte che eccedeva le quote loro assegnate, venivano effettuate (dalla cooperativa) tre registrazioni. La prima estingueva il debito nei confronti del fornitore del latte facendo sorgere contemporaneamente un debito nei confronti degli organi competenti per il superprelievo (la multa n. d. r.). La seconda registrazione registrava lo spostamento del denaro dal conto della banca utilizzata dalle cooperative per incassi e pagamenti a un conto acceso presso la banca Credieuronord. La terza registrazione, che seguiva di pochi giorni le altre due, veniva effettuata in corrispondenza dell'uscita del denaro dal conto della banca Credieuronord". Il denaro tornava così agli allevatori che non pagavano la multa. Oltre ai soldi delle quote latte, da Credieuronord erano passati anche quelli dello "scandalo dei fallimenti" che hanno invischiato la commercialista Carmen Gocini e i fratelli Borra. Dalla banca sarebbero stati prelevati contanti la cui destinazione non è mai stata chiarita.
STUPIDARIO DELLA LEGA.
Stupidario da Lega. Lega, un anno di 'Mai più con B.', scrive Fabio Chiusi su “L’Espresso”.
«È una mezza calzetta», «è il palo», o «il complice» di Monti, «si occupi del Milan», «non ha l'età», «ma chi lo vuole?», «mi fa pena»: sono solo alcuni dei giudizi espressi dai dirigenti leghisti nel corso del periodo di separazione nei confronti dell'attuale capo della coalizione. Di cui il Carroccio ha deciso di far parte.
All'alba del governo Monti, Roberto Maroni rivendicava coerenza.«La posizione della Lega rimane immutata», diceva rispetto alla prosecuzione della storica alleanza con il Pdl e Silvio Berlusconi.«Non cambiamo idea ogni minuto, siamo un partito serio che valuta e poi decide». La storia, al contrario, dice che l'ha cambiata eccome. Così, se da un lato il Carroccio ha sempre sostenuto che l'appoggio al governo Monti configurava una pregiudiziale per proseguire nel rapporto politico con i berlusconiani, il Cavaliere non si è 'ravveduto' sul governo dei tecnici fino a dicembre 2012. E oltre, proponendo addirittura Monti come «federatore» dei moderati di centrodestra. Fallita l'operazione, ecco il ritorno alla Lega, concretizzatosi in questi giorni in un accordo che vede Maroni candidato (anche del Pdl) alla regione Lombardia, e Silvio rinunciare all'ambizione di una ennesima premiership. Ma nell'anno di separazione, i dirigenti leghisti si sono abbandonati a giudizi sulla figura di Berlusconi che vanno ben oltre il politichese e la tattica elettorale. «E' una mezza calzetta», «è il palo», o «il complice» di Monti, «si occupi del Milan», «non ha l'età», «ma chi lo vuole?», «mi fa pena» sono solo alcuni degli apprezzamenti rivolti all'attuale capo della coalizione. Di cui la Lega ha deciso di far parte. Nonostante i proclami («non è più riproponibile»,«non ci può essere», «è da considerarsi morta e sepolta») e gli attacchi qui documentati, in ordine cronologico, dall'Espresso.
«Berlusconi ha fatto delle cretinate, come la storia delle donnine o come l'aver portato pochi nani e ballerine in politica, ma non è il catalizzatore di tutti i mali» (Roberto Calderoli, 4 novembre 2011).
«Non parlino di alleanze. E' incontrovertibile: se uno è alla maggioranza e l'altro è all'opposizione, e se ci si era presentati insieme per governare il Paese, è chiaro che ora come ora non c'è più niente. Berlusconi ha la colpa di non aver proposto una maggioranza alternativa. Così ha tradito il mandato. Ora le cene del lunedì se le faccia con Monti» (Roberto Calderoli, 28 novembre 2011).
«Berlusconi è con i comunisti, è con il governo» (Umberto Bossi, 12 dicembre 2011).
«Non so niente di Berlusconi. Lui è a casa e io sto qua. Ma vedo che traffica con i comunisti ...» (Umberto Bossi, 14 dicembre 2011).
«Se vedo Berlusconi mi metto a ridere» (Umberto Bossi, 15 dicembre 2011).
«Berlusconi appoggia un governo che fa tutto il contrario di quello che faceva lui prima» (Umberto Bossi, 15 dicembre 2011).
«Noi siamo un partito serio e rispettiamo gli accordi. Nel 2008 dicemmo che non si toccavano le pensioni e si toglieva l'Ici sulla prima casa; ora il Pdl ha cambiato idea e a livello centrale i rapporti sono interrotti. Sul territorio gli accordi del 2010 restano validi, anche perché noi siamo un partito federale, che non decide tutto nella segreteria politica. Ma l'anno prossimo, se non si fa qualcosa, questa posizione non ci consentirà di fare un accordo con il Pdl. E non sono convinto che perderemo, come ha detto ieri Berlusconi. Anzi vinceremo. E poi, tra vincere con una coalizione contraddittoria e vincere da soli, preferisco la seconda. Semmai potremmo fare intese con alcune liste civiche»(Roberto Maroni, 16 dicembre 2011).
«Si è messo coi comunisti» (Umberto Bossi, 16 dicembre 2011).
«Le frequenze televisive. Quella roba che non bisognava chiedere soldi sulle frequenze tv perché Berlusconi aveva i suoi interessi. E quando c'erano i casi Cosentino godevamo abbastanza poco»(Matteo Salvini, 19 dicembre 2011, rispondendo alla domanda su cosa ha dovuto sostenere per mantenere l'alleanza con il Cavaliere, e proprio non gli è andata giù).
«Di danni ne stanno facendo, Monti e il suo fedele alleato Berlusconi: tutto quello che dice la sinistra lo stanno mettendo in pratica» (Umberto Bossi, 29 dicembre 2011).
«Berlusconi e il Pdl sostengono il governo Monti. Quindi non ho capito bene: sono un po' dentro e un po' fuori? Mi viene difficile seguire queste contorsioni» (Roberto Maroni, 29 dicembre 2011 commentando l'idea, espressa da Silvio all'epoca, di tenersi pronti a ogni evenienza, anche le elezioni anticipate).
«Calma, non vorrete che Berlusconi e il Pd si mettano d'accordo per fare una legge elettorale che ci faccia fuori?» (Umberto Bossi, 22 gennaio 2012 ai presenti a un comizio, intenti a fischiare Berlusconi).
«Di fatto, lo voleva solo Berlusconi» (Flavio Tosi, 23 gennaio 2012, felicitandosi per il ritiro di risorse dal progetto del ponte sullo Stretto di Messina).
«Berlusconi è un po' una mezza calzetta, ha paura» (Umberto Bossi, 26 gennaio 2012).
«Berlusconi non è stato abbastanza furbo da chiedere la buonuscita» (Umberto
Bossi, 26 gennaio 2012, commentando i possibili esiti del processo Mills sulla
tenuta del governo).
«Se non vuol far harakiri, Berlusconi deve staccare la spina al governo perché è
di sinistra e sta colpendo l'elettorato di centrodestra. Se non lo farà, alle
amministrative andremo da soli. E, se andremo da soli alle amministrative, le
nostre strade si divideranno per sempre» (Roberto Calderoli, 28 gennaio 2012.
Poi la Lega è andata alle amministrative da sola, Berlusconi non ha staccato la
spina a Monti – se non informalmente, e solo dieci mesi più tardi – e la Lega è
oggi comunque sua alleata).
«Se Berlusconi si ritira è risolto il problema» (Umberto Bossi, 4 febbraio 2012. Il problema, naturalmente, sono le alleanze).
«Quando ci sentiamo parliamo di Milan» (Roberto Maroni, 12 febbraio 2012).
«Visto che Berlusconi vuol continuare ad essere leale con chi invece leale non è stato e continuare a sostenere un governo che affama il popolo allora l'alleanza con noi è da considerarsi morta e sepolta perché la Lega sta dalla parte del popolo» (Roberto Calderoli, 18 febbraio 2012).
«E' tutta colpa di Berlusconi, passa perché Berlusconi gli vota la fiducia» (Umberto Bossi, 23 febbraio 2012, sull'approvazione del decreto Milleproroghe).
«Berlusconi fa il contrario di quello che avevamo deciso di fare. La frattura mi pare insanabile» (Umberto Bossi, 1 marzo 2012).
«Berlusconi fa il contrario di quello che avevamo deciso di fare. La frattura mi pare insanabile» (Umberto Bossi, 1 marzo 2012).
«La Lega risponde con estrema indifferenza a Berlusconi che vuole fare delle ammucchiate» (Flavio Tosi, 2 marzo 2012).
«Berlusconi è diventato il sostenitore più convinto del governo Monti perché è stato assolto in tribunale: prima era un delinquente e poi improvvisamente è stato assolto...» (Umberto Bossi, 3 marzo 2012. Quando, alla domanda se dunque il Cav sostenesse Monti per interesse personale, rispose: «Quello è poco ma sicuro»).
«In questo momento ce l'abbiamo con tutti e due (Monti e Berlusconi, ndr), perché uno è l'assassino e l'altro il palo, il complice» (Roberto Calderoli, 3 marzo 2012).
«Quel ragionamento lì prima di lui lo aveva fatto Mussolini, di fare l'accordo fra le forze maggiori e cancellare le forze minori: |però sono cose che non portano da nessuna parte» (Umberto Bossi, 3 marzo 2012. Oggi Berlusconi ripete lo stesso ragionamento).
«Monti e Berlusconi? Uno gratta e l'altro tiene il palo»(Umberto Bossi, 5 marzo 2012).
«Berlusconi mi fa pena: va a votare il contrario di quello che faceva» (Umberto Bossi, 11 marzo 2012).
«Hanno fatto un inciucio che più inciucio non si può (il progetto, ventilato all'epoca di una 'Grande Coalizione'), e Berlusconi con il suo candore ripropone quell'ammucchiata per le elezioni del 2013: lo fanno per eliminare l'unica cosa anomala della politica italiana: la Lega Nord. Cercheranno di farci fuori con qualsiasi strumento, e l'ultimo strumento che useranno è la legge elettorale» (Roberto Calderoli, 11 marzo 2012). «Penso che in certi posti perderemo, ma è meglio che fare l'accordo con Berlusconi che tiene in piedi il governo Monti» (Roberto Maroni, 26 aprile 2012, in campagna elettorale per le amministrative).
«Non ci può essere accordo con Berlusconi perché ha scelto Monti, anche se lo avevano messo spalle al muro per le aziende e in politica essere ricattati è una brutta bestia» (Umberto Bossi, 19 giugno 2012).
«Sulle riforme strutturali Berlusconi ci ha sempre lasciato in mezzo al guado» (Flavio Tosi, 2 luglio 2012).
«Dove? A San Siro?» (Roberto Maroni, 11 luglio 2012, ironizzando sulle indiscrezioni su una ridiscesa in campo di Berlusconi).
«Credo che il Pdl abbia davvero persone nuove e capaci, stimate. Visto che Berlusconi è pratico di sondaggi dovrebbe capire che in realtà la gente vuole il cambiamento. Lui non lo rappresenta»(Flavio Tosi, 12 luglio 2012).
«Berlusconi ha già dato, si preoccupi di tenere Thiago Silva a Ibrahimovic al Milan, perché ha l'età per dedicarsi ad altro e non più alla politica. Un'alleanza tra Lega Nord e Berlusconi non è più riproponibile» (Matteo Salvini, 12 luglio 2012).
«Secondo Libero la grande ammucchiata Bersani-Vendola-Casini farà tornare la Lega alleata di Berlusconi. Ma chi l'ha detto? Ma chi lo vuole?» (Roberto Maroni, 2 agosto 2012).
«E' una cosa che mi pare di aver gia' visto qualche anno fa: un deja' vu: noi siamo per il cambiamento, per il nuovo e guardiamo al futuro. Il futuro è 'Prima il nord', una Lega forza egemone che aggrega forze e non è aggregata» (Roberto Maroni, 28 agosto 2012, commentando l'ipotesi che Silvio Berlusconi stia lavorando, come nel 1994 con la Lega e An, a una doppia alleanza per le politiche al nord e al sud. Cioè quanto sta accadendo).
«Presidente Berlusconi, si occupi del Milan e lasci perdere, perché non ha più l'età!» (Roberto Maroni, 31 agosto 2012) «Non cedere niente delle nostre idee sul piano delle alleanze romane: basta, capitolo chiuso. Berlusconi è un amico, ma oggi dopo quello che è successo, l'appoggio del Pdl al governo Monti, ha senso che parliamo di una possibile alleanza? Io dico di no, la Lega si allea con la Lega, con i cittadini del nord», Roberto Maroni, 1 settembre 2012).
«Il Pdl, ormai in totale confusione al suo interno, ha votato contro l'emendamento della Lega Nord alla delega fiscale che chiedeva l'abolizione dell'Imu. Un comportamento in evidente contrasto con le dichiarazioni elettorali di Silvio Berlusconi che continua a ripetere di volere l'abrogazione dell'imposta sulla casa. I cittadini sono stanchi del solito teatrino politico, e alle prossime elezioni sapranno distinguere chi alle parole ha fatto seguire i fatti da chi li ha presi in giro ancora una volta» (da una nota congiunta dei deputati della Lega Nord, Maurizio Fugatti, Alessandro Montagnoli, Silvana Comaroli e Gianluca Forcolin, 4 ottobre 2012).
«Noi abbiamo deciso comunque di correre da soli» (Umberto Bossi, 25 ottobre 2012, dopo l'annuncio di Berlusconi di non correre più per la premiership. Roberto Maroni, nelle stesse ore, aveva dichiarato: «Io ho chiamato oggi il presidente Berlusconi per dirgli personalmente che apprezzo questo gesto che può aprire nuove prospettive»).
«No, basta, pietà. Non ricominciamo con la Berlusconeide» (Matteo Salvini, 27 ottobre 2012). «Berlusconi sbaglia a ragionare con una logica di vecchia politica, in base a rapporti di forza, a cadreghe e a equilibri fra Regioni. L'unica strada per la Lega è quella di andare da soli» (Marco Reguzzoni, 3 novembre 2012. Risposta di Maroni: «Sono d'accordo con Marco. I nostri ideali non sono in vendita, e alla fine ride bene chi ride ultimo...»).
«Il Pdl ha deciso di appoggiare il governo Monti, noi siamo stati contro dall'inizio. E restiamo coerenti non come quelli che a Roma votano le misure di Monti e poi, quando vengono sul territorio, se ne dimenticano» (Roberto Cota, 15 novembre 2012).
«Berlusconi? Lo vedrei bene sulla panchina del Milan. Penso che potrebbe dare molto lì e aprire una fase nuova» (Roberto Maroni, 1 dicembre 2012).
«La minaccia di far cadere le giunte di Veneto e Piemonte? Una barzelletta. Possibile sostegno della Lega a Monti. Idem. Ma chi è questo B?» (Roberto Maroni, 12 dicembre 2012; Matteo Salvini, il giorno seguente, commenterà: «Facciamo finta che sia una caduta di stile, come i bambini che portano via il pallone quando sono stufi di giocare»).
«Noi non possiamo votare Berlusconi, perché gli italiani chiedono il rinnovamento, lo hanno dimostrato in tutte le tornate elettorali, dalle comunali alle regionali, lo dimostrano i sondaggi e la simpatia che ha riscosso Renzi» (Flavio Tosi, 14 dicembre 2012).
“Non ho parlato di quello che non potevo provare. Ho già detto tutto, non voglio parlare di questa vicenda perché c’è un’indagine in corso. Io non voglio parlarne. Le sembro una persona che può essere inseguita da un giornalista?”. Si sfoga così Manuela Privitera, per otto anni segretaria della Lega Nord al Senato, in un servizio andato in onda a Piazzapulita, il programma de La7. La Privitera è al centro della nuova inchiesta sull’uso dei fondi pubblici da parte della Lega e, al momento, è anche l’unica indagata dell’inchiesta giunta a Roma dalla Procura di Milano nell’ambito dello scandalo che ha riguardato l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito. Negli scorso giorni, interrogata dai giudici, l’ex segretaria ha parlato di “una gestione dei fondi piuttosto arbitraria da parte dei dirigenti della Lega, attraverso la creazione di conti paralleli e di bonus regalati per comprare elettrodomestici”. Accuse che i senatori leghisti hanno subito rispedito al mittente con il capogruppo della Lega Nord, Federico Bricolo, che ha definito la Privitera “una ex collaboratrice infedele” incolpandola di dire il falso e di aver rubato. In attesa che l’inchiesta romana venga chiusa con la richiesta di rinvio giudizio, l’ex segreteria ai microfoni di Piazza Pulita ammette che il suo avvocato sta valutando se denunciare per calunnia i vertici della Lega che l’hanno accusata di scarsa professionalità e conferma alcune delle notizie riguardo le spese folli del Carroccio.
SCANDALO LEGA AL SENATO.
Scandalo Lega al Senato, la segretaria accusa: “Dal 2009 un conto parallelo”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Intervistata da la Repubblica, Manuela Privitera punta il dito contro il capogruppo dei senatori Federico Bricolo e parla della gestione ballerina delle casse del Carroccio con l'arrivo di Belsito, tra regali, depositi bancari sospetti e spese pazze con soldi pubblici. La sua testimonianza davanti ai pm ha dato la stura all’ennesimo scandalo che ha travolto la Lega Nord: quello delle spese folli del gruppo del Carroccio a Palazzo Madama. Il presidente dei senatori Federico Bricolo ha rispedito le accuse al mittente, parlando di “accuse false di una collaboratrice infedele”. La diretta interessata non ci sta. E spiega la sua presa di posizione al quotidiano la Repubblica (che aveva dato per primo la notizia). Lei è Manuela Privitera ed è stata per otto anni la segretaria amministrativa della Lega al Senato. “Ma quel che ho visto in questa legislatura, in questi ultimi tre anni in particolare, non ha precedenti” ha detto, confermando l’esistenza di un conto corrente ombra e di bonus regalati per comprare elettrodomestici. “Finché è stato in carica il governo Berlusconi i soldi circolavano tutti con bonifico – ha spiegato la Privitera – subito dopo, siamo nel dicembre 2011, il capogruppo Bricolo mi dice che vuole gestire in contanti. Prima non erano mai stati pagati affitti a un capogruppo o coperte le sue carte di credito, non venivano corrisposte somme extra a singoli senatori”. Accuse pesanti, dirette, che poi assumono un effetto ancor più velenoso. “A un certo punto, Bricolo convoca il tesoriere Stiffoni e, in mia presenza, annuncia: ‘dobbiamo aprire dei conti paralleli, dobbiamo fare degli accantonamenti’ – racconta la donna – Con l’avvento di Belsito al posto di Balocchio, nel 2009, non tutti i soldi vengono più girati alla segreteria di via Bellerio a Milano. Vengono trattenuti e gestiti in conti separati”. L’operazione dei vertici del gruppo del Carroccio sono spiegati nel dettaglio, con tanto di obiettivo finale. Secondo Manuela Privitera, infatti, i conti correnti “erano tre. Uno ufficiale, che veniva utilizzato anche per i prelievi di contanti, tutti tracciati. E poi un conto parallelo. Infine un deposito titoli”. A che pro? “Immagino che si volesse celare al Consiglio federale della Lega il reale residuo di cassa a fine anno” è la spiegazione dell’ex segretaria, che poi ha confermato la destinazione delle cifre in questione. “Molti di quei soldi, come ho documentato, sono stati utilizzati per fare dei regali” ha detto Privitera. Che poi ha fatto alcuni esempi. Soggetto delle sue accuse è sempre Federico Bricolo. “Nel Natale 2011 Bricolo decide di regalare a ciascun senatore quattro buoni da 500 euro tramite una carta MediaWorld, per evitare di far trapelare che la Lega, in un periodo di crisi, regalava ai propri parlamentari elettrodomestici. Qualcuno si è comprato la lavatrice, altri il televisore”.
Ma non solo. Gli extra – ha continuato – “venivano corrisposti in contanti. Bricolo tratteneva per sé 2.028 euro, Bodega 778, Mazzatorta 638. Ogni mese. Caduto il governo Berlusconi, il capogruppo mi ha ordinato di assegnare 2mila euro al mese anche a Calderoli. A carico del gruppo è poi passato anche il suo contratto telefonico con la Tim“. Privitera ha raccontato di essere stata rimossa quando è scoppiato il caso Belsito. “Mi hanno rimossa dicendo che dovevano fare dei controlli, poi a maggio mi hanno proposto il raddoppio dello stipendio per scusarsi del disagio. La cosa mi ha spaventata e ho rifiutato. A fine luglio è arrivata la sospensione e poi il licenziamento”.
CHI C’ERA DIETRO A BELSITO?
Chi c'era dietro Belsito, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”.
I rapporti con la malavita organizzata, con il giro di Forza Italia, perfino con Ruby e la Minetti. Più l'indagine si approfondisce, più i giudici si convincono che il tesoriere dI Bossi fosse manovrato da un potente 'puparo'.
Signor Belsito, ci dica la verità: ma chi è il suo "puparo"? Perché lei ci appare come un "pupo" in mano a qualcuno". La domanda del pm di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, arriva come una doccia fredda addosso all'ex segretario amministrativo della Lega Nord,Francesco Belsito, accusato di aver riciclato denaro della 'ndrangheta attraverso le casse del cerchio magico.
La domanda è così diretta che spiazza l'uomo che si definiva "il tesoriere più pazzo del mondo": fino a quel momento ha parlato senza sosta cercando di spiegare le sue operazioni finanziarie disinvolte, con i rimborsi elettorali del partito investiti in cascate di diamanti, fiduciarie africane, banche levantine e lingotti d'oro. Ma in tutto l'interrogatorio non replica alla domanda più inquietante: nemmeno uno parola per smentire l'esistenza di un "puparo" ipotizzata dalla procura. Quando si discute di soldi, sciorina cifre e luoghi. Appena il discorso passa alle frequentazione con uomini d'affari indagati per mafia, allora comincia a ingarbugliare le frasi ed evitare risposte dirette alle contestazioni dei pm. Che hanno visto altri colletti bianchi comportarsi così, esuberanti nel racconto e pronti al silenzio quando avevano qualcosa di inconfessabile da nascondere.
Francesco Belsito ha 41 anni ed è nato a Genova. Le sue origini sono calabresi come quelle di gran parte dei suoi amici e soci. I liguri coinvolti con la 'ndrangheta li ha conosciuti fin da giovane quando ha iniziato a frequentare l'avvocato Alfredo Biondi, un principe del foro che ha difeso molti mafiosi e appartenenti ai clan calabresi, ma anche uno dei fondatori di Forza Italia e ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi, ancora animato da un plotone di veterani del vecchio partito liberale. Ma Belsito deve il suo esordio a un ex democristiano della Lanterna, Ermanno Pebla, che introduce quell'autista massiccio e intraprendente in una cerchia di amici molto particolari. Il più importante è "l'ammiraglio" Romolo Girardelli, un imprenditore di origine calabrese che secondo i pm avrebbe ripulito grosse somme della potente famiglia De Stefano di Reggio Calabria, investendo in immobili e attività commerciali in Costa Azzurra.
Gli inquirenti hanno sempre considerato Girardelli - indagato per collusioni
mafiose ma mai condannato - un uomo di denari: lo snodo tra le famiglie
calabresi e l'imprenditoria del Nord. Ma ora le intercettazioni svelano come
"l'ammiraglio" avesse solcato anche gli oceani della politica, in modo molto
trasversale.
Belsito diventa fra i più fidati collaboratori di Biondi, ma secondo la
ricostruzione degli inquirenti in realtà è nelle mani di Pebla e Girardelli. Nel
2000 entra in società con l'ex democristiano e costituiscono la Cost Service,
che affida contratti a imprese edili del clan mafioso Rinzivillo di Gela per
costruire immobili a Genova. La società fallisce, ma i contatti fra Belsito e
gli uomini di Cosa nostra sono impressi nelle intercettazioni realizzate dalla
Dia Caltanissetta nel giugno 2001: un peccato originale che mostra la
disinvoltura dell'uomo che avrebbe provocato il disastro della Lega.
L'arruolamento nelle fila padane è opera del solito "ammiraglio", che nel 2002 spinge Belsito a lasciare il giro ligure di Forza Italia. Gli inquirenti hanno accertato che è Girardelli ad avere già all'epoca buoni contatti con il movimento di Bossi: il suo referente è il tesoriere nazionale Maurizio Balocchi, anche lui ligure. La testimonianza di alcune impiegate della Lega ha permesso di ricostruire i primi passi dei calabresi nel quartiere generale di via Bellerio. Balocchi apre le porte a Girardelli, il quale ricambiava affidandolo alle cure di Belsito, che in pochi anni passa dal ruolo di autista factotum a posizioni sempre più pesanti. Nel 2007, quando Balocchi si ammala, cede gradualmente le chiavi della cassa del partito dove i problemi fisici del Senatur avevano creato un comitato di potere fuori da ogni controllo: il cerchio magico.
Belsito riesce a conquistare la fiducia della famiglia. Nel 2009 la morte di Balocchi lo impone come protagonista con l'incarico ufficiale di amministratore e una poltrona nel governo: sottosegretario per la semplificazione normativa con il ministro Calderoli. Il cerchio magico si rivolge a lui per qualunque spesa: usa i fondi del partito per acquistare l'auto di Renzo "Trota" Bossi, per le multe di suo fratello, per i lavori di ristrutturazione della casa di Gemonio e per il dentista del capo, per i conti del sindacato padano di Rosy Mauro e per gli studi del poliziotto capo scorta della vice presidente del Senato, fino all'affitto della casa di Roma di Calderoli.
Ma Belsito è molto più abile nelle partite doppie, sa muoversi meglio negli affari torbidi che nei rigori della contabilità e mostra un'antica passione per le indagini molto private. A gennaio 2011 la polizia trova il suo biglietto da visita nella "cameretta" di Ruby Rubacuori, la minorenne che trascorreva le notti nella villa di Berlusconi e si vantava di potere ottenere qualunque somma dal Cavaliere. Mentre alla fine del 2010 il Trota utilizzava il telefonino intestato a Belsito per inviare sms a Nicole Minetti: "Sono geloso del rapporto con il mio capo". E la reginetta del bunga bunga rispondeva: "Anch'io sono gelosa...!". E poi via altri messaggi e saluti.
Giochetti in una politica diventata sempre più becera, dove i confini tra potere e ricatto si sono spesso confusi. Ma gli inquirenti calabresi sospettano che Belsito abbia condotto partite molto più pericolose, muovendo denaro in un triangolo tra cosche, massoneria ed estremisti di destra. Le indagini puntano ad accertare se di queste transazioni era a conoscenza anche il vertice della Lega. Per questo motivo gli investigatori stanno riascoltando due anni di intercettazioni, mentre emergono dati importanti dalla documentazione copiata nel server dello studio professionale di Milano: l'ufficio di via Durini, a cento passi dal Duomo, in cui Belsito aveva a disposizione una stanza. Uno dei soci dello studio è Pasquale Guaglianone, una gioventù di piombo nei Nar e oggi professionista legato a molte società calabresi e al governatore regionale Scopelliti. Guaglianone però è anche esponente di spicco di An a Milano, in ottimi rapporti con i leader lombardi Ignazio La Russa e suo fratello Romano.
In questo studio lavora anche Bruno Mafrici, indagato con Belsito e fino a pochi mesi fa suo collaboratore al ministero. "Belsito mi ha invitato a fare il consulente quando è stato sottosegretario". Gli investigatori non sono ancora riusciti ad accertare se Mafrici è iscritto all'albo degli avvocati: il suo nome non risulta negli elenchi, ma ha curato pratiche legali con remunerazioni di peso: "Belsito mi propose di fare un ricorso al Tar Veneto, e poi un ricorso straordinario al capo dello Stato. Si trattava di un ricorso relativo a una gara d'appalto a cui avevano preso parte le società Polare e Siram (che fanno parte del gruppo dell'imprenditore Bonet, indagato con Belsito). Sono stato retribuito per la mia opera di consulenza con 54 mila euro".
Ma Belsito non è tipo che presta attenzione agli aspetti formali: le lauree che vantava sono quantomeno discutibili, anche i conti del partito sono costruiti sulla base di chiacchiere. Nadia Degrada, segretaria del movimento, spiega: "Il bilancio del 2010 (della Lega ndr) è stato redatto sulla base di indicazioni verbali di Belsito per alcune fatture prive di giustificativo. Nonostante le mie richieste, Belsito non mi ha mai fornito la documentazione di appoggio che confermava la veridicità di tutte le voci. Prima durante la gestione Balocchi gli investimenti finanziari ammontavano a circa cinque, sei milioni di euro. Ricordo che si trattava di operazioni legate a strumenti denominati Gpm e Gpf effettuate tramite il Banco di Napoli".
Dal 2009 con i pieni poteri nelle mani di Belsito il sistema sarebbe cambiato. La procura di Milano sta analizzando tutta la documentazione ufficiale delle spese del partito per capire quanto siano estesi i falsi. E dove siano finiti i proventi delle operazioni parallele. Prende sempre più peso l'ipotesi di fondi neri all'estero: un tesoretto elvetico della Lega. E' Mafrici a raccontare ai pm che Belsito aveva portato in Svizzera i soldi del partito. "Sarà stato a novembre 2011 che Belsito mi disse che aveva bisogno di un consulente, se non sbaglio precisandomi che aveva già in corso una serie di gestioni in Svizzera, al fine di incrementare il rendimento di fondi riferibili alla Lega".
I guai per Belsito arrivano quando scopre Roberto Maroni vuole farlo fuori. Forse l'allora ministro dell'Interno è venuto a sapere dei suoi collegamenti poco trasparenti in Calabria. Ed è a questo punto che Belsito, aiutato da un appartenente alle forze dell'ordine e da un investigatore privato pagato con i soldi dalla Lega, inizia a prelevare dati personali da banche dati riservate, a raccogliere notizie e informazioni per realizzare dossier su Maroni e alcuni suoi collaboratori. Un modo per tentare di screditarlo agli occhi di Bossi e del cerchio magico. Le perquisizioni disposte dai pm di Reggio, Napoli e Milano arrivano prima che l'arma finale venga sganciata.
Ma il tesoriere più pazzo del mondo aveva preparato anche un piano B. Negli ultimi giorni prima del crollo intensifica i contatti con gli ex di An. E proprio grazie ai nuovi amici del Pdl, fra cui Guaglianone, puntava a una poltrona nel cda dell'Ente Fiera di Milano. Che interesse potevano avere a legarsi all'uomo che custodiva i conti segreti di casa Bossi? L'esplosione dell'inchiesta ha travolto i piani del tesoriere ma lascia tanti interrogativi su soldi, ricatti e giochi di potere che i pm di tre procure vogliono chiarire. Possibile che Belsito e la sua brigata di finanzieri improbabili come i loro soprannomi - l'ammiraglio, lo sciampato, nosferatu - abbiano fatto tutto da soli? O dietro c'è un misterioso puparo?
EMILIA, CRAVATTE VERDI E FONDI NERI.
Emilia, cravatte verdi e fondi neri, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”.
Secondo la procura, la Lega fatturava le spese due volte: una a Milano e una a Reggio. Obiettivo: crearsi un tesoretto di soldi in contanti da usare poi come gli pareva. E taroccavano anche i chilometri percorsi per decuplicare le note spese.
Fischia il vento e urla la bufera nella rossa Emilia. E rischia di travolgere il Carroccio emiliano, trascinato nel vortice dall'inchiesta madre sul partito di via Bellerio. Un vento gelido che sta facendo riemergere casi di malagestione dei fondi pubblici e dei rimborsi elettorali per le regionali del 2010.
Angelo Alessandri, è l'uomo di Bossi in Emilia. Deputato, presidente della Commissione parlamentare 'Ambiente, territorio e lavori pubblici'e segretario regionale, da sempre punto di riferimento per il 'cerchio magico'. Tanto che in un'intercettazione Nadia Dagrada ricorda a Belsito di chiedere al Capo «se è meglio Alessandri o Gibelli» per sostituire Roberto Castelli, deciso a controllare i bilanci, dai quali sarebbero emerse le spese della famiglia Bossi, e non solo.
Su Alessandri ricadono i sospetti dei magistrati che stanno indagando a Bologna e Reggio Emilia. Indagini partite dopo alcune dichiarazioni pubbliche da parte di alcuni ex leghisti espulsi dal partito, «dopo le denunce di alcune irregolarità», dicono loro.
Ma sul tavolo degli inquirenti sono arrivati anche due esposti. Il primo presentato da Marco Lusetti, che prima di essere liquidato dal partito è stato responsabile amministrativo in Emilia e vice segretario regionale. Era il braccio destro di Alessandri. Poi la rottura, nel 2009, alle prime denunce interne su presunte irregolarità: «Nessuno prendeva in considerazione quanto raccontavo». L'anno successivo venne espulso. Oggi porta ai magistrati documenti che etichetta con il marchio di 'scottanti'.
Lusetti ha indicato la strada alla Procura. Un'autostrada. Segnalazioni ed episodi precisi che l'ex numero due del Carroccio emiliano (è stato anche collaboratore a Roma dell'allora ministro per le Riforme Roberto Calderoli) ha messo sul piatto. Se ha dichiarato il falso valuteranno gli investigatori. Intanto 'l'Espresso' ha potuto sfogliare alcuni documenti, dove vengono indicati con precisione circostanze, metodi e rapporti con via Bellerio.
Tra le piste seguite dalla Procura quella della presunta doppia fatturazione. Cioè di spese fatturate alla Lega Nord di Milano in via Bellerio, e pagate materialmente con il conto corrente della Lega di Reggio Emilia. Tutto da verificare, e rimane da capire a quale fine Reggio Emilia pagava le fatture di Milano. L'ipotesi? Per costituire fondi neri.
Altre segnalazioni che i magistrati starebbero valutando riguardano presunte regalie da parte di imprenditori, senza rendicontare alcunché nel bilancio redatto da Gianfranco Barigazzi, responsabile amministrativo regionale, e verificato da Dagrada. Imprenditori che in alcuni casi sarebbero stati contattati da personaggi di fiducia dei vertici regionali venuti da Roma.
Ma in Procura sono arrivate segnalazioni che parlano anche di favori in cambio di appalti, spese elettorali mai dichiarate, fondi dell'Assemblea legislativa Emilia Romagna destinati al gruppo consiliare utilizzati non per fini istituzionali.
A 'L'Espresso' sono stati mostrati alcuni rimborsi viaggio pagati con i soldi della Regione, per missioni di partito e non istituzionali. E una nota spese per un viaggio di 57 chilometri, rimborsati come 752, che moltiplicati per 0,61 centesimi- a tanto ammonta il rimborso chilometrico- fa 458 euro.
Tra le anomalie denunciate ci sarebbe anche l' autenticazione di firme fasulle per più competizioni elettorali.
Una matassa di informazioni non semplice da districare per gli investigatori. Che dovranno tenere conto anche del passato. Partire cioè dal commissariamento del partito emiliano. Avvenuto ad Alassio, durante la selezione regionale di Miss Padania: «La notte del 10 agosto 2010 ad Alassio», dice Lusetti a 'l'Espresso',«parlai con Umberto Bossi per 6 ore. La scelta ricadde su Rosy Mauro che in Emilia avrebbe dovuto verificare le questioni che avevo sollevato». Ma - arrivata Rosy la commissaria - Lusetti non venne mai contattato. Lui sostiene di avere comunque informato«molti esponenti di via Bellerio». Insomma tutti sapevano, come ha raccontato ai magistrati Nadia Dagrada?
C'è poi il fronte d'indagine bolognese, meno ampio e non meno importante. Anche lì c'è un esposto. Questa volta a firma di Alberto Veronesi, leghista della prima ora candidato nel 2010 e poi espulso dal partito. Una denuncia per nulla vaga, la sua. Nella documento inviato anche alla Procura di Milano, chiede di essere sentito come persona informata sull'indagine che riguarda Belsito. E indica episodi concreti sulle spese elettorali e su i bilanci taroccati. Oltretutto l'ex leghista ha presentato alcune fatture su cui Nadia Dagrada sarebbe intervenuta 'correggendo'con la penna per imputare le spese elettorali al singolo candidato, al partito o se pagare in contanti, quindi in nero.
Alla denuncia di Veronesi, che già nel 2011 aveva portato tutto in Procura (che archiviò), si aggiungono mal di pancia di altri ex leghisti. Tra questi, l'ex revisore dei conti Carla Rustichelli. Sentita dai Pm bolognesi, non ha dubbi: «Tutti sapevano».
QUEL FANNULLONE CHIAMATO BOSSI.
Quel fannullone chiamato Bossi, scrivono Pino Corrias, Renato Pezzini e Marco Travaglio su “L’Espresso”.
Anni e anni senza combinare niente, facendosi mantenere dalla moglie e fingendo di studiare. Una nuova biografia spiega bene chi è il fondatore del Carroccio.
Nel 1975, quando di anni ne ha quasi trentacinque, sposa Gigliola Guidali, di anni ventitré, che per lui è «una ragazza borghese»,anche se per la verità fa la commessa in un negozio di Gallarate. Le promette solennemente di laurearsi in tempi brevi, un paio d'anni al massimo. Ma nel 1979 è ancora lì... in quell'allegro nulla del fuoricorso universitario che ogni tanto interrompe per organizzare una finta festa di finta laurea, imbrogliando la madre che gli paga gli studi, e un paio di anni dopo allestirne una seconda per illudere la moglie che intanto lo mantiene. Nel frattempo arriva il primo figlio, Riccardo, anno 1979, occasione per rinnovare la solenne promessa di mettersi in carreggiata con un lavoro vero e la benedetta laurea.
La commedia dura fino al novembre del 1981. In tutto dodici anni. Tanti ce ne vorranno per spingere la povera Gigliola Guidali, che il giorno della sua seconda finta festa di finta laurea gli aveva addirittura regalato «la borsa di cuoio marrone da dottore», a prendere l'automobile, andare a Pavia, farsi ricevere dal rettore... «Scoprii che mi aveva sempre ingannata», dirà Gigliola nell'unica intervista mai concessa, anno 1994, al settimanale "Oggi", che scatenò le ire dell'ex marito, che aveva appena vinto le elezioni con Silvio Berlusconi e stava velocemente cancellando le tracce del suo passato per ricrearlo a suo uso e consumo... Gigliola spiana quelle invenzioni con parole ghiacciate: «Umberto mi ha sempre riempito di inganni e di bugie. E' un fannullone. E' caratterialmente incapace di avere un lavoro. Prima di diventare senatore non ha mai avuto un lavoro fisso»... E ancora: «A quei tempi sembrava che diventare medico fosse la massima aspirazione di Umberto. Ne parlava tantissimo... Nei nostri anni insieme ha avuto quattro infatuazioni. Prima c'è stata l'elettronica. Aveva imparato a trafficare con i fili, le resistenze e le valvole. Un giorno mi portò una valigetta messa insieme da lui, con uno strumento che, a quanto diceva, si utilizzava nelle sale operatorie. Poi ci fu la fase della fotografia: aveva comprato una Nikon e non faceva altro che scattare... All'improvviso disse basta e si buttò sulla pittura: tele, pennelli, cavalletto. Poi fu la volta della poesia dialettale. Ma la passione ricorrente, nella sua vita, è sempre stata la politica...».
Ed ecco che, in un giorno di febbraio del 1979, gli entra finalmente il biglietto vincente, l'intuizione che aspettava... La rivelazione gli arriva inaspettata e nella forma più schietta da Bruno Salvadori, leader dell'Union valdôtaine... Lo incontra nell'atrio dell'Università di Pavia mentre sta attaccando un manifesto autonomista in bacheca. Si parlano, si intendono. Salvadori ha appena riunificato il partito valdostano disperso in tanti rivoli indipendentisti... Teorizza le «Nazioni senza Stato». E l'«Europa dei popoli». Propugna l'«autodeterminazione dei popoli contro gli Stati centralisti»...In quelle parole, Umberto riconosce il suo destino e forse anche una via d'uscita al trilocale di Capolago, piano terra, dove intanto il figlio Riccardo ha compiuto il suo primo anno di vita e il matrimonio tra lui e la moglie sta per inaugurare l'ultimo. Gigliola è furente. Ha appena scoperto di essere, a sua insaputa,«la prima finanziatrice» della nuovissima infatuazione di Umberto, il movimento autonomista che sta inventando giorno per giorno con Salvadori... Racconta Gigliola: «Un giorno, andando in banca, scoprii che sul conto corrente non c'era più niente. Aveva preso tutto lui, fino all'ultima lira».
E LA COSCA STA NELLA VILLA A SCHIERA.
E la cosca sta nella villa a schiera, scrive Michele Serra su “L’Espresso”.
Agghiaccianti esiti dell'ibridazione tra 'ndrangheta e usanze brianzole: in Lombardia ora si nasconde la droga dietro le tavernette perlinate, mentre gli incontri con i boss calabresi avvengono sugli autogrill della Tangenziale Ovest.
La penetrazione delle mafie al Nord sta dando luogo a un complesso fenomeno di ibridazione sociale, studiato dagli antropologi di tutto il mondo.
LE COSCHE. Accanto alle tradizionali 'ndrine calabresi si diffondono le cosche indigene, come quelle dei Carugati e quella dei Perego. Si sono spartite il traffico dei mobili finto-rustico e delle camere da letto in stile che dalla Brianza invadono il mondo intero, con un impatto sociale che gli esperti giudicano devastante. «Si comincia, magari, con una coppia di comodini in stile moresco, credendo di poter controllare senza problemi la situazione, poi si passa alle credenze country e da lì a interi soggiorni con vetrinetta e mobile bar con ripiano di cristallo. Quando sei arrivato a quel punto non puoi tornare indietro, e ti fai la tavernetta perlinata». E' la drammatica testimonianza di una delle tante vittime dei Carugati e dei Perego. Unico al mondo il fenomeno dell'auto-rappresaglia: quando si ribellano, questi disgraziati bruciano i mobili di casa e spesso periscono nell'incendio, rendendo del tutto inutile l'intervento punitivo delle cosche.
I NASCONDIGLI. I boss del Nord non si nascondono in cunicoli o bunker sotterranei. A rendere inaccessibili i loro covi basta la normale viabilità padana: una successione ininterrotta di rotonde stradali (in media una ogni duecento metri) in grado di disorientare anche il più esperto dei segugi. In diversi casi, è il navigatore satellitare che chiede indicazioni al guidatore, esplodendo pochi secondi dopo.
MATRIMONI DINASTICI. Numerose le nozze combinate per cementare l'alleanza tra boss calabresi e lombardi. Il boss Sante Intillizzuto detto "Scala Reale" (controlla il traffico dei videopoker nei bar) e il boss milanese Gino Brambilla detto "Carta esaurita, rifornire il carrello" (controlla il traffico delle fotocopiatrici per ufficio) hanno concordato il matrimonio tra i figli, Santino e Ginetta, allo scopo di creare una sinergia economica che consenta di giocare d'azzardo con le fotocopiatrici da ufficio. Qualche problema durante il pranzo di nozze, organizzato dalla famiglia calabrese in un agriturismo sulla Tangenziale Ovest di Milano: le 40 portate (20 primi e 20 secondi) sono costate la vita a una decina di esponenti del clan lombardo, caduti con il volto nel piatto prima ancora di poter assaggiare la torta nuziale, una riproduzione in grandezza naturale del santuario della Vergine di Locri.
IL CONFINO. Se una volta erano le famiglie mafiose del Sud a essere trasferite al Nord, oggi sono le famiglie della malavita settentrionale a essere mandate al confino in Aspromonte. Gravissime le conseguenze sul tessuto sociale. Per esempio i Galbusera (un clan di cinque fratelli, Pino, Rino, Gino, Lino e Dino, tutti assessori ai Lavori pubblici) sono al confino a Platì. Il segno spietato dei Galbusera è visibile al primo sguardo: l'antico abitato, con i caratteristici muri fatiscenti e i ferri dei pilastri che si stagliano nel cielo, è scomparso alla vista, circondato da centri commerciali, outlet, ipermercati per il bricolage. I 300 abitanti del Paese, comprese le vecchie vestite di nero che dicono il rosario, vengono costretti dal clan dei Galbusera ad acquistare in continuazione tute da giardiniere, rotoli di isolante per caminetti, sci di fondo, palombi congelati, cyclette, televisori da settanta pollici, racchette da tennis, e sono obbligati ad accumulare i punti sulla "Friendly Card".
LESSICO. La nuova omertà milanese ha tradotto il vecchio, superato "niente sacciu" in "ma cosa vuole che abbia visto, stavo scaricando il furgone, ho da lavorare, io". Nei quartieri i "fieu" (picciotti), riconoscibili per la caratteristica coppola alla milanese (è di un vistoso giallo zafferano) riscuotono il pizzo minacciando i negozianti morosi di organizzargli una movida notturna sotto le finestre di casa.
I PROBLEMI DI CASTELLI, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA.
La Corte dei Conti persegue Roberto Castelli. Richiesto un milione di danni per le consulenze facili, scrive Marco Lillo su L'espresso del 13 ottobre 2005. Il 17 novembre nell'aula magna della Corte dei conti a Roma si è aperto il processo a Roberto Castelli. Il ministro della Giustizia è accusato dal procuratore Guido Patti di un danno erariale che si aggira sul milione di euro per la nomina di consulenti di dubbia utilità nelle materie più disparate. Si va dalla società incaricata di monitorare l'efficienza dei magistrati, allo psicologo esperto in leadership, Amedeo Maffei, scelto per studiare i carcerati.
La consulenza più importante è certamente quella conferita a Giuseppe Magni per l'edilizia penitenziaria. In questo caso, secondo il procuratore Patti, "l'illegittimità e illiceità del comportamento del ministro è eclatante": Castelli avrebbe creato "la figura del "consulente personale a tempo pieno"... una "entità" con poteri decisionali non prevista nell'organigramma dell'amministrazione". Solo per Magni, la Procura della Corte chiede a Castelli ben 211 mila e 988 euro. Per 98 mila risponde da solo, per il resto in solido con Magni e il comitato che ha approvato la sua attività.
Per le consulenze Castelli è indagato anche dalla Procura di Roma per abuso di ufficio. Accusa doppiamente imbarazzante perchè contemporaneamente l'ex consulente per l'edilizia penitenziaria, Magni, è indagato per corruzione a Roma in una seconda inchiesta proprio per una storia di carceri. Da tempo il consulente non sente Castelli, ma in passato il rapporto era strettissimo e Magni aiutava il ministro nelle campagne elettorali.
Le sue credenziali però non sono piaciute alla Corte: "In merito alla "provata competenza" richiesta dalla legge, nel curriculum del dottor Magni si legge che egli è laureato in scienze politiche, che è stato amministratore di alcune società, che dal 1993 è stato socio militante della Lega Nord e dal 1995 sindaco per la Lega del comune di Calco e infine che è stato parlamentare eletto al "Parlamento di Chignolo Po". "Dal documento preso in esame", continua Patti, "pertanto non è desumibile affatto che il dottor Magni fosse un esperto in materia penitenziaria".
Dopo averne demolito il curriculum, il procuratore passa a analizzarne l'attività. Magni dichiara di avere visitato moltissime carceri. "La documentazione in parola tuttavia in gran parte non è stata rinvenuta dal Ministero (in quanto non esistente)". Poi prosegue: "Singolare che invece il consulente abbia omesso di indicare una trasferta a Mosca, autorizzata dal ministro, il silenzio serbato su tale viaggio dal dottor Magni", sempre secondo Patti, "si spiega agevolmente atteso che non è rinvenibile alcun collegamento tra l'incarico e la trasferta a Mosca".
Stesso discorso per analoghe trasferte in Albania, Stati Uniti e Canada per una spesa di 6 mila euro, richiesti indietro perchè non avrebbero legame con l'incarico.
Per il Procuratore, Castelli è colpevole di avere rinnovato ben sette volte l'incarico a Magni nell'arco di tre anni, con il beneplacito di un comitato composto da tre funzionari, anche loro citati in giudizio. Il ministro non poteva assegnare a Magni "competenze amministrative in settori delicati a scapito delle strutture istituzionalmente competenti" senza nemmeno accertarsi che ve ne fosse necessità. Patti riporta i passi delle relazioni di Magni e li fa seguire da punti interrogativi per irriderne la vaghezza. "Si è intervenuti (chi è intervenuto? Sicuramente non il dottor Magni, bensì la struttura amministrativa competente) risolvendo emergenze (quali?)". Dopo dieci pagine di punti interrogativi, il procuratore chiosa: " La maggior parte delle affermazioni sono del tutto generiche".
La Procura è poi sorpresa perchè "leggendo le relazioni predisposte dal dottor Magni si ha la netta sensazione che egli si consideri a capo dell'amministrazione penitenziaria". li procuratore critica anche il rinnovo dell'incarico nel febbraio 2003 per la sua valenza retroattiva (vietata secondo Patti) e per la strana conversione da Lira a euro: "Il compenso di euro 48.842 è quasi il doppio di quello di Lire 48 milioni corrisposto nel semestre precedente".
Magni non è più al Ministero, ma quando, a giugno, il giornale locale "Merate on line" ha parlato delle sue consulenze, Castelli ha scritto in sua difesa: "Magni mi ha accompagnato in Albania perchè in quel paese il Ministero ha costruito un carcere per far scontare agli albanesi la pena in casa loro e negli Usa perchè abbiamo visitato penitenziari pubblici e privati". Castelli accusa il procuratore di non averlo sentito e di aver usato "sarcasmi gratuiti come l'accenno alla militanza nella Lega". Magni, per Castelli, era l'uomo giusto al posto giusto. La fine della sua consulenza è stata negativa: "Il Ministero funziona peggio e la burocrazia rischia di prendere il sopravvento sul ministro".
I PROBLEMI DI MARONI, MINISTRO DELL’INTERNO.
Si sta molto attenti ad imporre la legalità dal basso, nessuno pretende il rispetto della legalità dall’alto: da chi dovrebbe dare l’esempio.
La sicurezza degli italiani in patria è affidata al Ministro dell’Interno. Giusto per capire se l'esempio debba venire dall'alto: esemplare è la figura di uno dei tanti Ministri che nel tempo è stato chiamato a ricoprire l’incarico.
Fonte Wikipedia: Roberto Maroni.
Anagrafe: Nato a Varese il 15 marzo 1955.
Curriculum: Laurea in Giurisprudenza; avvocato all’ufficio legale della Avon, poi dirigente leghista fin dalle origini; ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi e del Welfare nel secondo, già capo del «governo della Padania»; 5 legislature (1992, 1994, 1996, 2001, 2006).
Soprannome: Bobo.
Fedina penale: Condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni di reclusione per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Nel 1996 la Procura di Verona invia la polizia a perquisire la sede leghista di via Bellerio a Milano, nell’ambito dell’inchiesta sulla Guardia padana, ma alcuni dirigenti leghisti, fra cui Maroni, ingaggiano un parapiglia con gli agenti per impedire loro di compiere il proprio dovere. Maroni, prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente di polizia. Di qui la condanna a 8 mesi in primo grado, poi dimezzata in appello e in Cassazione. Maroni è anche imputato nell’inchiesta del procuratore veronese Guido Papalia come ex capo delle camicie verdi, insieme a una quarantina di dirigenti leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati da una riforma legislativa ad hoc, varata dal centrodestra nel 2005, allo scadere della penultima legislatura. Resta in piedi solo il terzo.
Roberto Maroni (Varese 15 marzo 1955) è un politico italiano e Ministro dell’Interno. Laureato in giurisprudenza ha lavorato come manager degli affari legali di diverse società; inoltre esercita la professione di avvocato.
All'età di 16 anni, nel 1971, Maroni milita in un gruppo marxista-leninista di Varese; fino al 1979 frequenta il movimento d'estrema sinistra Democrazia Proletaria. Nello stesso anno, il 1979, Roberto Maroni conosce Umberto Bossi. Tra i due inizia una collaborazione politica. Maroni e Bossi contattano i primi partiti autonomisti; quello più importante dell'epoca è l'Union Valdôtaine, movimento autonomista della Valle d’Aosta guidato da Bruno Salvadori. Dopo la morte prematura di Salvadori (1980), Maroni e Bossi proseguono da soli l'organizzazione di un movimento autonomista in Lombardia. Nel1984 Bossi e Maroni fondano, con Giuseppe Leoni, la Lega Lombarda. Mentre Bossi è segretario politico, Maroni contribuisce all'organizzazione del nuovo partito nella provincia di Varese. Nel 1985 Maroni è eletto consigliere comunale a Varese. La Lega elegge i primi rappresentanti anche a Gallarate e nel consiglio provinciale.
Nel 1989 partecipa alla fondazione della Lega Nord.
È deputato alla Camera dal 1992, dove ha ricoperto la carica di presidente del gruppo parlamentare leghista. Entra nel Consiglio federale della Lega e segue per conto della segreteria di Bossi le più importanti vicende politiche di quegli anni. Sempre nel 1992 contribuisce alla vittoria della Lega Nord alle elezioni amministrative, culminata nell'elezione del primo sindaco leghista in una città capoluogo di provincia, Varese. Maroni entra in quella prima giunta leghista come assessore.
È stato Ministro dell’Interno e Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, per otto mesi, nel 1994, sotto il primo governo Berlusconi.
È al fianco di Umberto Bossi nella svolta secessionista della Padania (15 settembre 1996) e viene indagato dalla Magistratura per reati legati al vilipendio dell'unità nazionale e accusato di aver causato uno stato di "depressione del sentimento nazionale" tra i propri concittadini a causa della diffusione delle proprie opinioni sull'indipendenza della Padania.
Il 12 agosto 1996 il Procuratore della Repubblica di Verona, Guido Papalia, avviò delle indagini sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere un'organizzazione paramilitare tesa ad attentare all'unità dello Stato (reato previsto dagli articoli 241 e 283 del Codice penale). Il 18 settembre venne così disposta la perquisizione delle residenze di Corinto Marchini, capo delle "camicie verdi", Enzo Flego e Sandrino Speri, dell'ufficio di Speri nella sede leghista di Verona e di un locale della sede federale di Milano della Lega Nord, ritenuto nella disponibilità dello stesso Marchini. Le operazioni iniziarono alle 7 del mattino e alle 11 due pattuglie della Digos di Verona si presentarono alla sede della Lega di via Bellerio a Milano con Marchini a bordo. A tale perquisizione, operata dalla Polizia di Stato, si opposero alcuni militanti e politici leghisti fra cui l’ex Ministro dell’Interno Roberto Maroni, che ne contestavano la validità. Tuttavia nel pomeriggio, dopo una consultazione con la Procura di Verona e un nuovo mandato di perquisizione, la Polizia decise di fare irruzione, incontrando la resistenza dei militanti e dirigenti padani. A questo punto scattò la carica per superare l'ostacolo e raggiungere l'ufficio indicato dall'indagato. Corinto Marchini aveva infatti indicato come proprio ufficio un locale che si rivelò invece essere, come scritto sulla porta, l'ufficio di Roberto Maroni; nessun altro locale venne identificato come un possibile ufficio dell'indagato. Il Procuratore decise di ignorare tale informazione e di far perquisire ugualmente l'ufficio. Si contarono contusi da entrambe le parti. Maroni, caricato su una barella, venne portato in ospedale.
Contro la perquisizione la Camera dei Deputati nel 2003 avanzò ricorso per «conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo alla Corte Costituzionale di dichiarare che non spetta all'autorità giudiziaria (ed in particolare alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verona) di disporre e di far eseguire la perquisizione del domicilio del parlamentare Roberto Maroni». Nel 2004 la Corte Costituzionale darà ragione alla Camera.
Il 16 settembre 1998 Roberto Maroni fu condannato in primo grado a 8 mesi per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. La Corte di appello di Milano il 19 dicembre 2001 ha confermato la decisione di primo grado riducendo la pena a 4 mesi e 20 giorni perché nel frattempo il reato di oltraggio era stato abrogato. La Cassazione nel 2004 ha poi confermato la condanna commutandola però in una pena pecuniaria di 5.320 euro. Per la Suprema Corte «la resistenza» di Maroni e degli altri leghisti «non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto ad opera dei pubblici ufficiali». In modo particolare gli atti compiuti da Maroni sono stati ritenuti «inspiegabili episodi di resistenza attiva (...) e proprio per questo del tutto ingiustificabili».
Maroni è stato anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi, insieme al altri 44 leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati dalla Legge 24 febbraio 2006, n. 85 varata dal centrodestra allo scadere della legislatura. Restava in piedi solo il terzo, ma anche da questo Maroni ottiene il non luogo a procedere nel dicembre 2009, e comunque il divieto di associazioni di carattere militare previsto dal Decreto Legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 è stato poi abrogato dal Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (art. 2268, c. 1, punto 297).
Nel periodo 2001-06 lavora, nell'ambito della nuova coalizione della Casa delle Libertà, quale delegato leghista alla definizione del programma per le elezioni politiche del 2001, nelle quali viene rieletto deputato nel collegio uninominale di Varese. Nei governi Berlusconi II e III ha ricoperto l'incarico di Ministro del Welfare.
Nel 2001 riceve una lettera dal giuslavorista Marco Biagi, suo collaboratore al Ministero del Lavoro poi ucciso dalle Br, che lamentava una non adeguata protezione.
Nel periodo 2006-2008 è stato rieletto deputato nelle elezioni politiche del 2006 per le liste della Lega nella circoscrizione Lombardia 2. Nella XV è membro della Commissione Affari Esteri e della Giunta delle Elezioni. È stato capogruppo della Lega Nord Padania alla Camera.
Nel 2009 Maroni viene indagato a Milano per presunte tangenti ed evasione fiscali. Tra il 2007 e il 2008, avrebbe ricevuto 60.000 euro, fatturati come consulenze legali dalla società Mythos, considerata dagli inquirenti una 'cartiera'.
Verso la fine del 2010 il GIP di Roma ha prosciolto Maroni da tale accusa, archiviando l'indagine su richiesta della Procura di Roma, la quale aveva accertato che "quei soldi erano il pagamento di una consulenza legale resa regolarmente da Maroni alla Mythos".
Nel 2009 è diventato consigliere comunale di Porretta Terme (BO). Candidato alle elezioni amministrative del 2007 non era stato eletto. Diventa Consigliere Comunale in seguito alla rinuncia di altri suoi colleghi di opposizione. Il 3 luglio 2010, l'edizione locale de Il Resto del Carlino dà la notizia delle sue dimissioni, rassegnate per mancanza di tempo.
Il 7 maggio 2008 Silvio Berlusconi gli ha riaffidato l'incarico di Ministro dell’Interno. La sua proposta di prendere le impronte digitali a chi non fosse in grado di documentare la propria identità, con particolare attenzione ai bambini rom, viene da lui definita "Un provvedimento atto a tutelare i minori stessi, obbligati dai genitori ad andare a rubare o mendicare", mentre gli oppositori la definiscono "Un atto xenofobo e razzista, che costringe i bambini a pagare per colpe non loro".
Così sono i Ministri dell’Interno PADANI.